ANNO 2024
ANNO 2023
ANNO 2022
ANNO 2021
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SINO ALL'ANNO 2020
SINO ALL'ANNO 2017
ANNO 2024 |
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aggiornamento al
30.01.2024 |
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Repressione abusi edilizi:
i Responsabili dell'Ufficio Tecnico e
della Polizia Locale, nonché i Segretari Comunali, si premurino
di leggere attentamente e memorizzare per bene la recentissima "direttiva"
della Procura della Repubblica di Bergamo (qui sotto riportata) tenuto conto che "La
mancata, scorretta o parziale ottemperanza alla direttiva de qua
costituisce intralcio all’attività dell’Autorità Giudiziaria e,
come tale, verrà valutata dal Magistrato titolare del
procedimento in ordine ad eventuali responsabilità penali e/o
disciplinari". |
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NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: direttive di intervento in materia edilizio-urbanistica (D.P.R.
380/2001), vincoli paesaggistici e storico-architettonici (D.Lgs 42/2004 e
L. 22/2022) e aree protette (L. 394/1991) (PROCURA della Repubblica di
Bergamo,
nota 24.01.2024 n. 218 di prot.).
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Sommario
1. Premessa - 2. Contenuti, tempistica e modalità di
deposito della comunicazione di notizia di reato - 3. Attività d’indagine
d’iniziativa - 4. Attività d’indagine delegata dal Pubblico Ministero - 5.
Sintesi della attività da compiere per singoli atti di indagine - 6. Reati
di “falso” in ambito edilizio, ambientale e paesaggistico - 7. Gli “elenchi
mensili” ex art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 - 8. La comunicazione di avvio
del procedimento - 9. L’accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R.
380/2001 e l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma
1-quater, D.Lgs. 42/2004 - 10. Gli interventi di demolizione e di ripristino
dello stato dei luoghi - 11. La segretezza delle indagini di polizia
giudiziaria, nonché delle informazioni e della documentazione contenute
nelle CNR - 12. Conclusioni
1. Premessa
La gestione delle comunicazioni di notizia di reato
attinenti agli ambiti richiamati all’oggetto crea, a volte, disguidi.
Vengono, infatti, periodicamente riscontrate problematiche inerenti allo
svolgimento delle indagini di polizia giudiziaria e agli accertamenti
tecnici, nonché relative alle modalità di inoltro delle comunicazioni di
notizia di reato.
In particolare, continuano a pervenire, a volte da parte della
Polizia Locale a volte da parte dell’Ufficio Tecnico, isolate ordinanze di
sospensione lavori o di demolizione o isolati permessi a costruire in
sanatoria, comunicazioni prive addirittura delle complete generalità dei
soggetti denunciati, senza l’indicazione del numero di procedimento a cui
fanno riferimento, in assenza di qualsivoglia atto di indagine o, comunque,
in mancanza di una comunicazione di notizia di reato completa, ossia redatta
con i contenuti espressamente indicati all’art. 347 c.p.p..
Ciò comporta la moltiplicazione dei fascicoli inerenti al medesimo
fatto-reato e, soprattutto, una dispersione di energie e risorse perché, in
mancanza delle necessarie indagini, che il Magistrato sarà costretto a
disporre, non sarà possibile definire celermente il procedimento, con
fondato rischio di prescrizione del reato e, quindi, di vanificazione del
lavoro di tutti.
Lo scopo di questa direttiva è, quindi, quello di regolamentare il
flusso delle c.n.r. ed evitare che pervengano alla Procura della Repubblica
segnalazioni incomplete o improprie, ovvero la duplicazione delle stesse.
Pertanto, la presente direttiva viene trasmessa a tutti gli Enti e
Organi competenti negli ambiti di cui all’oggetto.
La presente direttiva fa, ovviamente, principale riferimento al
Comune e ai suoi Organi e Uffici. Ognuno degli altri Enti in indirizzo
individuerà i propri paralleli Organi e Uffici competenti.
La necessità di ultimare le indagini entro tempi prestabiliti, di
approfondirle attraverso eventuali consulenze tecniche, i brevissimi tempi
di prescrizione del reato e l’aggravio di lavoro per la Segreteria del
Magistrato che la circolazione della corrispondenza comporta,
impongono
l’adozione di precise regole di carattere generale.
Pertanto, ritengo utile inoltrare la presente direttiva anche alle
Autorità territorialmente competenti in ordine ai Comuni attribuiti alla
giurisdizione della Procura della Repubblica di Bergamo.
La presente direttiva viene emessa ai sensi del
D.Lgs. 20.02.2006
n. 106.
2. Contenuti, tempistica e modalità di deposito della
comunicazione di notizia di reato
La comunicazione della notizia di reato (di seguito
denominata CNR) deve pervenire alla Procura della Repubblica esclusivamente
da parte di un organo di polizia giudiziaria, completa anche di ogni atto
investigativo utile: pertanto, in ambito comunale, procederà unicamente la
Polizia Locale e a essa si rivolgerà, quindi, il personale degli Uffici
Tecnici ai sensi dell’art. 331, commi 1 e 2, c.p.p..
Le CNR e i seguiti devono essere caricati sul Portale NdR.
Il personale degli Uffici Tecnici comunali è tenuto a collaborare e
a fornire alla Polizia Locale tutti i dati tecnici, le informazioni e la
documentazione di cui dispone: in particolare, stilerà un’apposita relazione
contenente la descrizione tecnica e la qualificazione urbanistico-edilizia
delle opere abusive, la loro conformità agli strumenti urbanistici e la loro
eventuale sanabilità, l’indicazione circa l’eventuale titolo abilitativo che
avrebbero richiesto per essere regolarmente eseguite, la zonizzazione
dell’area nella quale sono state realizzate e la presenza di eventuali
vincoli ambientali, paesaggistici, storico-architettonici, l’identificazione
catastale delle predette aree e della relativa proprietà, la presenza in
Comune di eventuali precedenti pratiche ecc. Fornirà, altresì, il
certificato di destinazione urbanistica dei mappali sui quali insistono gli
abusi. In caso di rifiuto o ritardo nella collaborazione da parte del
personale degli Uffici Tecnici comunali la Polizia Locale procederà alla
nomina dello stesso quale ausiliario di p.g. ex
art. 348, comma 4, c.p.p.
e
comunicherà tempestivamente dette omissioni al Pubblico Ministero per le
valutazioni di sua competenza in ordine alla eventuale responsabilità
penale.
La CNR deve pervenire completa, in ogni sua parte, dei dati
essenziali successivamente indicati. Qualora non sia possibile inoltrarla da
subito completa di tutti i dati essenziali verrà inviata una prima
comunicazione alla quale dovrà seguire, nel più breve tempo possibile, la
documentazione completa. Nel seguito dovrà, in tal caso, essere sempre
chiaramente indicato, in grassetto e nella parte alta della prima pagina,
che si tratta di “SEGUITO” e il numero del procedimento penale
(ricavabile anche tramite il numero di NDR).
La CNR deve pervenire all’Autorità Giudiziaria senza ritardo, ai
sensi dell’art. 347 c.p.p.. La locuzione utilizzata dal legislatore consente,
in termini generali, di posticipare il deposito di qualche giorno, a volte
di qualche settimana, rispetto alla data di acquisizione della notitia
criminis, a seconda della complessità degli accertamenti da compiere.
Mai, però, giustifica il deposito con mesi o, addirittura, anni di ritardo.
Richiamo l’attenzione sulla possibile rilevanza penale e disciplinare in
caso di omessa o ritardata denuncia ex artt.
361 c.p. e
16 e ss. disp. att.
c.p.p..
In caso di atti urgenti che richiedono convalida da parte del
Pubblico Ministero i relativi verbali, corredati della relativa CNR, devono
essere trasmessi alla Procura della Repubblica entro 48 ore dal compimento
dell’atto medesimo a mezzo APU.
Il documento che contiene la CNR non potrà ordinariamente essere
utilizzato dal Giudice nel dibattimento, cosicché le notizie rilevanti
dovranno essere trasfuse anche nel verbale di sopralluogo che, quale atto
irripetibile ex artt.
354 c.p.p. e
113 disp. att. c.p.p., ha invece ingresso
nel fascicolo del dibattimento e può essere preso in considerazione dal
Giudice.
È necessario numerare le pagine che compongono il fascicolo ed
evitare di allegare fotografie in bianco e nero che, spesso, non sono in
grado di assolvere al loro compito (ossia di consentire, al Pubblico
Ministero prima e al Giudice poi, di apprezzare la reale consistenza degli
abusi accertati).
Non devono pervenire alla Procura della Repubblica CNR relative ad
abusi edilizi non penalmente rilevanti poiché, per esempio, puniti con mera
sanzione amministrativa.
Non è consentito l’inoltro, in un’unica CNR, di elenchi relativi a
più abusi commessi da soggetti diversi, a meno che si tratti di un unico
cantiere.
Elementi essenziali della CNR sono i seguenti:
a) Indicazione delle generalità dei responsabili
Costoro sono, di regola,
individuabili, ai sensi dell’art. 29 D.P.R. 380/2001, nel committente, nel
titolare del titolo abilitativo (qualora rilasciato), nel progettista, nel
costruttore e nel direttore dei lavori (se esistenti). Altri soggetti
possono, ovviamente, concorrere nel reato secondo i principi generali del
diritto penale (ad esempio, il proprietario del terreno, se non dimostra la
propria estraneità ai fatti).
Tali soggetti vanno tutti identificati compiutamente e, se trattasi
di persone giuridiche, va individuato e generalizzato il legale
rappresentante pro-tempore (riferito all’epoca del commissi delicti),
acquisendo la documentazione relativa alla posizione assunta all’interno
dell’ente (visura CCIAA), nonché eventuali deleghe di responsabilità ad
altri soggetti (procure notarili, scritture private ecc.). A carico di tutti
i soggetti indicati si procederà con redazione del verbale di
identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore
di fiducia o designazione del difensore d’ufficio, informazioni sul diritto
alla difesa.
b) Breve descrizione dell’abuso accertato
Va tenuto presente che il Pubblico Ministero deve fornire una
esauriente descrizione dei lavori abusivi nel capo di imputazione.
Ciò non è possibile qualora gli stessi vengano indicati in CNR con
frasi generiche tipo “ampliamento ala ovest di manufatto preesistente come
riportato in colore rosso nell’allegata planimetria”, ovvero “realizzazione
di più manufatti in tempi diversi su area di proprietà”.
È, pertanto, necessario che la descrizione riportata nella CNR sia
sintetica ma esauriente, ad esempio “realizzazione di un manufatto in
muratura con copertura in legno di m. 2,00x 3,00 x 2,50 h massima”, oppure
“demolizione e ricostruzione di preesistente edificio ad uso abitazione di mc complessivi 650”, oppure “modifica della destinazione d’uso di manufatto
da stalla ad abitazione mediante esecuzione di opere consistenti in
variazione del distributivo interno e suddivisione in due piani in contrasto
con lo strumento urbanistico e mediante corresponsione di oneri di
urbanizzazione in misura inferiore al dovuto (€ 3.000 in luogo di €
15.000)”, o altre simili.
Se si tratta di più violazioni esse andranno indicate con
numerazione progressiva, in modo tale da essere facilmente individuate.
c) Altre informazioni sull’abuso
Va specificato, previo accertamento da effettuarsi dal personale
dei competenti Uffici Tecnici comunali, se le opere denunciate come abusive
siano state eseguite in assenza di permesso di costruire (o di altro titolo
abilitativo), ovvero in variazione essenziale o difformità totale dallo
stesso (indicandone gli estremi) nonché, nel caso, quale eventuale titolo
abilitativo avrebbero richiesto per essere regolarmente realizzate.
È importante, inoltre, specificare se le opere realizzate rientrino
tra quelle sottoposte alla normativa in materia di strutture in conglomerato
cementizio armato, indicando in modo specifico eventuali violazioni.
d) Indicazione della presenza di vincoli
Tale informazione è di particolare importanza in quanto rende
possibile l’esatta qualificazione giuridica del fatto denunciato. I vincoli
che assumono rilevanza sono quelli paesaggistici e storico-architettonici la
cui inosservanza costituisce violazione anche del D.Lgs. 42/2004.
È essenziale indicare anche gli estremi del vincolo, tenendo
presente che il semplice riferimento alla legge, senza ulteriore
precisazione, non ha alcuna utilità. Vanno, quindi, indicati gli estremi
esatti dell’atto d’imposizione del vincolo (Decreto Ministeriale,
disposizione di legge con articolo e comma ecc.).
Evidenzio che taluni abusi realizzati in area vincolata configurano
delitto e non contravvenzione secondo quanto disposto dall’articolo 181,
comma 1-bis, D.Lgs. 42/2004, con evidenti conseguenze ed è, quindi,
indispensabile che le relazioni degli Uffici Tecnici comunali, allegate alla CNR, contengano esplicite indicazioni circa la sussistenza di tali
fattispecie (per esempio quantificazione della cubatura illecita ecc.).
Inoltre, segnalo che sono stati recentemente introdotti nel codice penale,
con L. 09.03.2022 n. 22, gli artt.
518-duodecies e
518-terdecies, aventi
rispettivamente ad oggetto “Distruzione, dispersione, deterioramento,
deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o
paesaggistici” e “Devastazione e saccheggio di beni culturali e
paesaggistici”.
Va, altresì, segnalata la presenza di eventuali ulteriori e diversi
vincoli, quale quello ambientale ai sensi della legge sulle aree naturali
protette (Legge 394/1991). Il vincolo ambientale e quello paesaggistico sono
tra loro diversi e i rispettivi reati previsti in caso di violazione
concorrono tra loro e con quelli edilizi.
e) Classificazione urbanistica dell’area e compatibilità
dell’intervento con la stessa
Anche tale informazione è
essenziale per la qualificazione giuridica del fatto. Occorre indicare la
destinazione urbanistica dell’area ove insiste l’abuso e la conformità di
quanto realizzato con la normativa urbanistica e con gli strumenti
urbanistici locali.
Tale particolare, giova ricordarlo, serve anche per
verificare le eventuali illegittimità e illiceità di titoli abilitativi
(anche in sanatoria) eventualmente rilasciati dalla struttura comunale.
f) Data e luogo del fatto
Il luogo ove insiste l’abuso
va indicato con gli estremi del foglio e del mappale catastale o, in
mancanza, con via e numero civico, ovvero con ogni altra indicazione utile
all’individuazione del luogo del commesso reato.
La data di consumazione del reato coincide con quella di
sospensione effettiva dei lavori, ovvero di ultimazione degli stessi.
A tale proposito giova ricordare che, per costante giurisprudenza,
l’ultimazione dei lavori coincide con il completamento dell’intero manufatto
in ogni sua parte, ivi comprese le finiture, gli infissi, la tinteggiatura
ecc. Non è, pertanto, sufficiente la copertura del fabbricato al grezzo.
Ricordo, inoltre, che la data di ultimazione dei lavori è cosa
diversa dalla data di accertamento del fatto.
L’accertamento della data di ultimazione dei lavori, indispensabile anche ai
fini del calcolo dell’eventuale prescrizione del reato, andrà eseguito
attraverso l’acquisizione di dichiarazioni di eventuali persone informate
sui fatti (vicini, esponenti ecc.) ex
art. 351 c.p.p. (che, in quanto tali,
hanno l’obbligo di rispondere e di dire la verità), l’acquisizione di
pregressi rilievi fotografici o aerofotogrammetrici, l’acquisizione di
contratti di forniture, la pregressa conoscenza diretta dei luoghi da parte
degli operanti o del personale tecnico comunale ecc.
In nessun caso può
considerarsi sufficiente la mera dichiarazione degli indagati (che, in
quanto tali, non hanno l’obbligo di rispondere e di dire la verità).
g) Persone in grado di riferire
Vanno indicati tutti i
possibili soggetti informati sui fatti. Quando si tratta del personale di
polizia giudiziaria che ha proceduto all’accertamento lo stesso non va
indicato genericamente con espressioni tipo “i verbalizzanti”, ma occorre
inserire nome, cognome e qualifica.
Per gli altri soggetti indicare, oltre al nome cognome e indirizzo,
anche l’eventuale qualifica come, ad esempio, “ausiliario di p.g.”, “tecnico
comunale”, “denunciante” ecc.
3. Attività d’indagine d’iniziativa
L’attività d’indagine d’iniziativa non può essere limitata ai soli
interventi espletati a seguito di denuncia di privati ma deve essere il
risultato di un effettivo, costante e capillare controllo del territorio di
competenza.
Infatti, il combinato disposto degli
artt. 27, 31 e 33 D.P.R.
380/2001 attribuisce al dirigente o al responsabile del competente ufficio
comunale e alla polizia giudiziaria (quindi anche alla Polizia Locale),
nonché al personale dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, precisi
e penetranti poteri (e doveri) di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, cautelari e di repressione degli abusi.
Analoghi poteri-doveri sono attribuiti a detto personale comunale
in materia di conglomerati cementizi armati dagli
artt. 68, 69 e 70 D.P.R.
380/2001, mentre gli
artt. 27, 29 e 30 L. 394/1991 attribuiscono analoghi
poteri-doveri al personale dell’Ente Gestore dell’area protetta in caso di
violazioni commesse all’interno di parchi regionali.
L’esecuzione, sin da subito, di un’accurata attività di
accertamento e indagine renderà superfluo l’invio di delega da parte del
Pubblico Ministero, accelerando notevolmente i tempi del procedimento.
Per il compimento di singoli atti si rinvia, pertanto, al
successivo capitolo 5.
4. Attività d’indagine delegata dal Pubblico Ministero
Come sopra già indicato, la CNR dovrà possibilmente pervenire, sin
da subito, completa in ogni sua parte (compresi gli allegati) e, qualora ciò
non fosse possibile, dovrà pervenire quanto prima (e, comunque, senza
ritardo) un apposito seguito.
La delega d’indagine dovrà, pertanto e d’ora in poi, costituire un
evento eccezionale e riguardare accertamenti specifici che verranno indicati
direttamente dal Pubblico Ministero.
Evidenzio che gli atti d’indagine delegati devono essere eseguiti
rispettando scrupolosamente le modalità indicate in delega. Non va,
tuttavia, dimenticato che, nell’ambito dell’attività delegata, è sempre
possibile per il personale di polizia giudiziaria procedere al compimento di
atti d’iniziativa che si rendano necessari per l’accertamento dei fatti e la
prosecuzione delle indagini.
Qualora la delega riguardi un fatto già oggetto d’indagine
indirizzata al medesimo Comando nell’ambito di altro procedimento penale, si
sospenderanno gli accertamenti comunicando che, per i fatti per i quali si
procede, è in corso altro procedimento penale (del quale si indicherà il
numero di registro generale e il nome del Magistrato assegnatario). Tale
indicazione è essenziale per una rapida eventuale unione dei procedimenti.
Qualora pervenga un sollecito o una richiesta già evasi, è
opportuno non limitarsi a indicare semplicemente che si è già risposto, ma è
necessario inviare nuovamente quantomeno il frontespizio della precedente
segnalazione.
Va tenuto presente che il numero del procedimento (RGNR) è il mezzo
più rapido ed efficace per l’individuazione del fascicolo, mentre
l’indicazione di altri dati (nome indagato, numero di protocollo della
segnalazione ecc.) rende la ricerca da parte della Segreteria lunga e
complessa.
Se viene indicato in delega un termine per l’espletamento delle
indagini lo stesso deve essere tassativamente rispettato, salvo motivata
richiesta di proroga al Magistrato delegante, che deve essere depositata con
congruo anticipo per evitare che, nel frattempo, scada il termine per le
indagini preliminari. Ricordo che la scadenza del termine massimo per
l’espletamento delle indagini, in mancanza di una motivata e tempestiva
richiesta di proroga al G.I.P. da parte del P.M., impedisce al Pubblico
Ministero medesimo l’utile compimento di altre indagini.
È estremamente importante che in tutta la corrispondenza
intrattenuta con l’ufficio del Pubblico Ministero si indichino in modo bene
visibile:
1) il numero del procedimento (RGNR)
2) il nome del Magistrato assegnatario
3) ogni altro elemento utile per l’individuazione
della precedente corrispondenza.
Gli accertamenti delegati alla Polizia Locale non possono essere
dalla stessa “subdelegati” agli Uffici Tecnici comunali, perché i relativi
addetti non rivestono la qualifica di ufficiale o di agente di polizia
giudiziaria e possono, pertanto, solo essere sentiti a verbale come persone
informate sui fatti ex
art. 351 c.p.p., ovvero nominati ausiliari di p.g. ai
sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p..
La Polizia Locale non potrà trasmettere la delega d’indagine
all’Ufficio Tecnico perché la stessa potrebbe contenere l’indicazione di
ulteriori indagini coperte da segreto istruttorio che non devono essere
portate a conoscenza di soggetti diversi da quelli appartenenti alla polizia
giudiziaria.
Di conseguenza, la Polizia Locale inoltrerà all’Ufficio Tecnico
comunale una propria richiesta che faccia riferimento all’ordine d’indagine
della Procura della Repubblica e che conterrà in virgolettato unicamente lo
stralcio degli accertamenti che devono essere condotti direttamente
all’Ufficio Tecnico.
5 Sintesi della attività da compiere per singoli atti di indagine
Quanto segue rappresenta una sintesi dell’attività di indagine da
eseguire in via ordinaria. E’ ovvio che il personale di polizia giudiziaria
potrà sempre predisporre ogni ulteriore accorgimento e iniziativa idonei
all’accertamento dei fatti.
Le disposizioni di seguito elencate andranno integrate con quanto
già sopra indicato al precedente capitolo:
a) acquisizione documentazione
Tale attività è fondamentale per l’accertamento dei fatti e per
l’individuazione dell’abuso. Essa riguarderà tutta la documentazione
esistente presso il Comune o altri Enti e relativa all’abuso edilizio
(pratica edilizia, sanatoria se richiesta, rilievi, pareri, verbali ecc.).
Se non diversamente ordinato dalla Procura della Repubblica potrà essere
effettuata in copia. L’attività di acquisizione dovrà essere formalizzata
con apposito verbale.
Le copie acquisite saranno accompagnate da un indice e, comunque,
numerate e saranno allegate al verbale di acquisizione.
In caso di rifiuto o ritardo nel fornire la suddetta documentazione da parte
di soggetti pubblici o privati, ne verrà data immediata notizia al Pubblico
Ministero procedente, il quale potrà emettere, secondo i casi, Decreto di
esibizione ex
art. 256 cod. proc. pen.,
o di perquisizione e sequestro ex
art. 252 c.p.p..
b) accertamento sui luoghi
È uno degli accertamenti più importanti
perché irripetibile ex
art. 354 c.p.p..
Il verbale delle operazioni compiute avrà ingresso nel fascicolo
del dibattimento e potrà essere letto e utilizzato dal Giudice. Grazie al
contenuto di questo atto, il Giudice potrà rendersi conto di ciò di cui si
discuterà nel dibattimento. E’ necessario che tale atto contenga tutti gli
elementi essenziali per l’individuazione dei fatti.
L’accertamento non avverrà esclusivamente con la descrizione a
verbale di quanto verificato: saranno, invece, eseguiti rilievi fotografici
e, se necessario, planimetrici dei luoghi, avvalendosi eventualmente di
ausiliari di polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p..
I soggetti nominati ausiliari di p.g. non potranno rifiutarsi di
prestare la propria opera. In caso di rifiuto andranno denunciati ex
art.
366 cod. pen. (rifiuto di uffici legalmente dovuti).
Nell’ambito dell’attività edilizia gravitano spesso altre
fattispecie di reato quali evasione fiscale (in alcune circostanze),
inquinamenti ambientali, lavoro in nero (in alcune circostanze), violazioni
alla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Raccomando, pertanto,
interventi di controllo sinergici con le forze specialistiche [ad esempio,
Guardia di Finanza (per le violazioni fiscali e tributarie),
Nucleo
Ispettorato Lavoro dei CC, Ispettorato Nazionale del Lavoro e PSAL della ATS
(per la sicurezza e la regolarità del lavoro), ARPA e servizi ispettivi
degli Enti Parco (per le violazioni ambientali ecc.)].
c) documentazione fotografica
Continuano a pervenire fotografie in bianco e nero, o
singole immagini, che non consentono, per dimensioni e caratteristiche, di
avere una cognizione completa dell’abuso.
Le fotografie dovranno, al contrario, essere a colori e in numero
adeguato per consentire al Pubblico Ministero e al Giudice di valutare la
consistenza dell’abuso. Andranno munite di didascalia.
I rilievi fotografici e tecnici andranno allegati al verbale di
sopralluogo del quale dovranno costituire parte integrante. Ne consegue che,
qualora per comodità di lettura e per facilitare la comprensione si ritenga
opportuno alternare parti di testo della CNR a fotografie, queste ultime
dovranno necessariamente essere allegate in ulteriore copia a colori munite
di didascalia anche al verbale di sopralluogo.
Per la predisposizione del fascicolo fotografico si tengano
presenti i criteri utilizzati normalmente per la documentazione degli
incidenti stradali.
d) Accesso ai luoghi
I sopralluoghi dovranno necessariamente essere espletati
congiuntamente da personale della Polizia Locale e da quello dell’Ufficio
Tecnico comunale: solo così sarà possibile, infatti, giungere a una CNR
completa sia degli atti investigativi (verbale di identificazione, verbale
di sequestro, verbale di sopralluogo, verbale di sommarie informazioni
testimoniali, verbale di spontanee dichiarazioni da indagato ecc.),
sia di
quelli tecnici (rilievi tecnici, relazione inerente la qualificazione edilizio-urbanistica delle opere abusive, identificazione catastale,
ordinanza di sospensione dei lavori, ordinanza di demolizione, permesso a
costruire in sanatoria ecc.).
Capita che venga impedito al personale ispettivo di accedere ai
luoghi per accertare compiutamente l’abuso. In tal caso dovrà essere
interpellato il Magistrato assegnatario del procedimento o, in mancanza,
assenza o impedimento, quello di turno, che valuterà se emettere Decreto di
ispezione di cose e luoghi ex artt.
244 e
246 c.p.p.
al fine di consentire
l’accesso ai luoghi, anche con autorizzazione alla rimozione degli ostacoli
fissi.
Va, in ogni caso, evidenziato che tali comportamenti, potendo
astrattamente concretizzare, in talune circostanze, ipotesi delittuose di
violenza o minaccia o resistenza a pubblico ufficiale ex artt.
336 e
337
cod. pen., ovvero di impedimento del controllo ex
art. 452-septies c.p.,
dovranno essere tempestivamente denunciati alla Procura della Repubblica.
e) Accertamento della proprietà dell’area ove insiste l’abuso
Si tratta di un dato essenziale che dovrà
essere sempre acquisito, allegando anche l’atto di proprietà o altra idonea
documentazione (visura presso la Conservatoria dei registri immobiliari
ecc.). Non sono ammissibili le semplici dichiarazioni dei soggetti presenti
sul posto.
d) Qualificazione dei luoghi, vincoli ecc.
Andrà accertata la destinazione urbanistica dei luoghi oggetto di
abuso allegando il relativo certificato di destinazione urbanistica che
attesti la destinazione d’uso, sia alla data di realizzazione dell’abuso,
sia con riguardo alla data del relativo accertamento. Verrà verificato anche
se le opere eseguite siano o meno conformi alla normativa urbanistica e agli
strumenti urbanistici locali. Ciò dovrà avvenire attraverso idonea
dichiarazione scritta da parte del responsabile dell’Ufficio Tecnico
comunale.
Gli eventuali vincoli (paesaggistici, ambientali,
storico-architettonici, idrogeologici ecc.) se non indicati nel dettaglio
nel certificato di destinazione urbanistica andranno indicati in modo
completo con gli estremi (articolo, comma e dati completi della legge di
riferimento) nella relazione del personale dell’Ufficio Tecnico comunale. In
caso di vincolo imposto con provvedimento ministeriale o con altro
provvedimento amministrativo andrà allegata copia dello stesso.
e) Identificazione soggetti responsabili
Oltre a quanto ho già detto al precedente
punto 2.21 a), aggiungo che sarà necessario allegare il certificato
anagrafico degli indagati (la cui reperibilità, da parte della Polizia
Locale, appare agevole anche attraverso subdelega ad altri comandi
territorialmente competenti per la residenza degli indagati), perché ciò
rende meno frequenti gli errori di trascrizione e accelera i tempi di
registrazione del fascicolo.
L’assuntore dei lavori potrà essere inizialmente identificato anche
attraverso la targa dei mezzi utilizzati per l’esecuzione dei lavori, ovvero
tramite la documentazione contabile o di altro tipo in possesso del
committente.
Non è accettabile che, in molte CNR, venga omessa l’individuazione
di tutti i responsabili degli abusi e ciò anche in piccoli comuni ove
l’acquisizione di tali informazioni è estremamente facile.
Nelle more di redazione del verbale di identificazione,
dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore e informazioni
sul diritto alla difesa ricordo che, nel caso di mancata nomina del
difensore di fiducia da parte dell’indagato, è consigliabile per la p.g.
procedere alla nomina del difensore d’ufficio, che dovrà essere
necessariamente individuato in quello indicato dall’Ordine degli Avvocati
del Foro di Bergamo (anche se nominato da un organo di p.g. avente sede
altrove).
Al verbale di identificazione dovrà essere allegata fotocopia di un
valido documento di riconoscimento dell’indagato.
Si richiama l’attenzione degli operanti circa la corretta e
completa compilazione di detti verbali evitando, per esempio, parziali
indicazioni dell’esatto domicilio eletto o dell’esatto nominativo del
difensore nominato (per esempio, eleggo domicilio in via Rossi n. 5 senza
indicare la località, ovvero nomino difensore di fiducia lo studio legale
Rossi senza indicare l’esatto nominativo del difensore), che comporterebbero
la nullità dell’atto medesimo.
f) Accertamento provvedimenti adottati dall’Autorità comunale
La vigente legislazione urbanistica contempla alcuni provvedimenti,
di regola di competenza dell’Autorità comunale (ad esempio, ordinanze di
sospensione lavori o di demolizione), la cui emissione da parte della stessa
Autorità costituisce, in presenza dei prescritti presupposti, un obbligo e
non una facoltà.
Basti pensare, a tale proposito, che l’eventuale mancata
ottemperanza all’ordinanza di demolizione comporta l’acquisizione
dell’immobile abusivo e dell’area di sedime al patrimonio del Comune.
Occorrerà, pertanto, verificare quali provvedimenti siano stati
adottati dalle competenti Autorità, allegandone copia munita della relativa
relata di notifica.
Qualora l’abuso non sia ancora noto alle predette Autorità ne verrà
data alla stessa specifica informativa da parte della Polizia Locale e prova
dell’avvenuta consegna verrà allegata agli atti della CNR.
L’ordinanza di sospensione dei lavori prevista dagli artt. 27,
comma 3, D.P.R. 380/2001,
167 D.Lgs. 42/2004 e
29 L. 394/1991 non va emessa,
come spesso accade, esclusivamente allorquando le opere abusive sono in
corso di realizzazione all’atto del sopralluogo; al contrario, andrà sempre
emessa (e tempestivamente notificata) in tutti i casi in cui le opere
abusive non siano già integralmente completate.
Ricordo che, di regola, la sequenza dei provvedimenti che devono
essere emessi dall’Autorità comunale, a norma dell’articolo 27 D.P.R.
380/2001, è la seguente:
a) ordinanza di sospensione lavori e relativa
notifica;
b) verifica circa l’ottemperanza di detta
ordinanza con apposito verbale;
c) comunicazione alla Procura della Repubblica
circa l’eventuale inottemperanza in ordine al reato ex
art. 44, lett. b),
D.P.R. 380/2001 e valutazione sulla opportunità di procedere con sequestro
preventivo ex
art. 321 c.p.p..
d) ordinanza di demolizione e ripristino e
relativa notifica;
e) verifica circa l’ottemperanza all’ordinanza
con apposito verbale;
f) notifica dell’eventuale verbale di
inottemperanza;
g) applicazione, in caso di inottemperanza, della
sanzione amministrativa ex
art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001
(nei casi
di interventi eseguiti in assenza, totale difformità o variazione essenziale
del permesso di costruire);
h) acquisizione al patrimonio del Comune del
fabbricato e dell’area di sedime e successiva demolizione d’ufficio a cura
del Comune e spese del responsabile dell’abuso (nei casi di interventi
eseguiti in assenza, totale difformità o variazione essenziale del permesso
di costruire);
i) esecuzione d’ufficio della demolizione a cura
del Comune e a spese del responsabile dell’abuso medesimo nei casi di
interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire
o in totale difformità da esso nei casi di cui agli artt.
33, comma 1, e
34,
comma 1, D.P.R. 380/2001.
Occorrerà, pertanto, verificare che l’Autorità comunale abbia
effettivamente adempiuto ai doveri impostigli dalla vigente normativa
urbanistica.
Non è, in nessun caso, consentito inserire nella segnalazione che “il
provvedimento è in corso di redazione” o altre diciture simili. Il
provvedimento deve essere acquisito completo delle relate di notifica.
g) Verifica dell’agibilità
Sebbene l’articolo 221 R.D. 1265/1934 comprenda violazioni
depenalizzate, la presenza o meno dell’agibilità andrà verificata e
segnalata alla competente Autorità comunale per l’irrogazione delle sanzioni
amministrative e per gli altri adempimenti di competenza.
h) Accertamento della data di ultimazione lavori
La data da accertare è quella effettiva di ultimazione lavori.
Detto accertamento potrà essere effettuato acquisendo ogni documento
(fatture, scontrini etc.) relativo all’acquisto dei materiali e recante data
certa.
Dovranno, inoltre, essere sentiti a verbale ex
art. 351 c.p.p.,
quali persone informate sui fatti, i vicini, gli esponenti ecc. (non i
soggetti da sottoporre a indagine le cui dichiarazioni non sono
utilizzabili) sulla data di ultimazione delle opere.
Si potrà anche verificare se vi siano contratti di fornitura
(acqua, luce, gas ecc.) recanti data certa e, nel caso, acquisirne copia.
Si dovrà sempre procedere, quando disponibili, alla verifica e
all’acquisizione di copia a colori dei rilievi aerofotogrammetrici presso il
Comune o la Regione.
i) Illecita attivazione di utenze
L’art. 48 D.P.R. 380/2001 vieta la fornitura di acqua, energia
elettrica e gas per gli immobili abusivi. Nel caso in cui ciò avvenga, il
responsabile del servizio è passibile di sanzione amministrativa.
In caso d’immobile abusivamente realizzato sarà, quindi, opportuno
verificare se e a quale titolo siano stati stipulati eventuali contratti di
utenza per acqua, energia elettrica, gas, al fine di accertare eventuali
responsabilità di altri soggetti che hanno agevolato l’utilizzazione del
manufatto abusivo.
Frequentemente i responsabili degli abusi stipulano contratti per
l’erogazione di energia elettrica dichiarando falsamente (in violazione
dell’art. 483 cod. pen. – falsità ideologica commessa dal privato in atto
pubblico) che la fornitura erogata viene utilizzata per “irrigazione”,
“sollevamento acqua”, “apertura cancello elettrico”, “cantiere”
ecc.
Sarà, pertanto, essenziale accertare se l’immobile abusivo sia
fornito di acqua, luce, gas acquisendo, in caso positivo, copia del
contratto, al fine di consentire la successiva valutazione in sede penale
della condotta dei soggetti fornitori, nonché quella relativa alle false
dichiarazioni rese al fine di ottenere le forniture.
l) Esecuzione dei sequestri
Qualora l’organo di vigilanza accerti l’esecuzione di opere abusive
ovvero, a maggior ragione, la prosecuzione dei lavori illeciti nonostante
l’ordine di sospensione degli stessi, lo stesso organo di vigilanza:
1. non potrà limitarsi a depositare una mera
comunicazione alla Procura della Repubblica;
2. dovrà invece valutare, secondo un prudente
apprezzamento circa la sussistenza di concreti pericoli per il bene
giuridico tutelato (ambiente, assetto urbanistico ecc.) l’eventuale adozione
del provvedimento di sequestro preventivo in via d’urgenza ex art. 321,
3-bis c.p.p.; in tal caso, è consigliabile contattare il P.M. di turno per le
sue determinazioni.
Il sequestro effettuato dalla P.G. rappresenta un atto
particolarmente delicato e importante nella complessiva attività d’indagine.
Con esso si impedisce la prosecuzione dell’intervento abusivo (sequestro
preventivo ex
art. 321 c.p.p.) e si assicurano al processo elementi di
rilievo sotto il profilo probatorio (sequestro probatorio ex
art. 354 c.p.p.).
Il sequestro può riguardare non solo il singolo manufatto abusivo,
ma anche l’area dove esso insiste, il cantiere e le relative attrezzature.
Il sequestro preventivo, inoltre, può essere effettuato, secondo un
orientamento ormai costante della giurisprudenza della Suprema Corte di
Cassazione, anche sulle opere già ultimate (poiché le conseguenze che tale
misura tende ad evitare sono ulteriori rispetto alla fattispecie tipica già
realizzata e, in materia urbanistica, l'esistenza di una costruzione abusiva
può aggravare il cd. carico urbanistico e, quindi, protrarre le conseguenze
del reato).
Qualora si proceda a sequestro (d’iniziativa, ovvero su ordine
dell’A.G.) delle opere abusive e del cantiere, lo stesso andrà effettuato
rendendo effettivamente inaccessibili i luoghi, apponendo sigilli e cartelli
visibili recanti gli estremi del provvedimento. Ove possibile ci si dovrà,
dunque, assicurare che ogni via di accesso all’area e al fabbricato in
sequestro sia fisicamente impedita apponendo, se necessario, ostacoli fissi
(reti, travi ecc.).
Si è notato come talvolta si faccia, ancora, ricorso all’anomala
figura del “sequestro senza sigilli”, inteso come apposizione solo
virtuale del vincolo sul bene sequestrato che viene, in realtà, lasciato
nella disponibilità dell’indagato o del detentore, specie nel caso in cui
l’immobile abusivo sia utilizzato.
Tale figura è del tutto sconosciuta al codice di procedura penale
(la Suprema Corte di Cassazione ha, da tempo, espressamente escluso, con
riferimento al sequestro preventivo, la possibilità che lo stesso sia
sottoposto a termini o condizioni quali, ad esempio, la “facoltà d’uso”
finalizzata alla eliminazione della situazione che ha determinato
l’apposizione del vincolo) e si risolve in un atto del tutto privo di
efficacia, in quanto consente comunque la piena utilizzazione del manufatto
abusivo.
Dovrà quindi curarsi che, all’atto del sequestro, il manufatto non
sia in nessun caso accessibile o altrimenti utilizzabile e sia, pertanto,
libero da persone.
Dovrà, inoltre, assicurarsi una successiva vigilanza al fine di
verificare l’integrità dei sigilli e che permangano le condizioni di
conservazione del bene assicurate al momento del sequestro.
Ricordo, inoltre, che la violazione di sigilli, se commessa dal
custode (che va sempre nominato sin dall’esecuzione del sequestro) consente,
ai sensi dell’art. 349, comma 2, cod. pen. e in presenza dei presupposti di
legge, l’arresto in flagranza.
Il sequestro (d’iniziativa o disposto dall’ A.G.) dovrà essere
tempestivamente eseguito, così come ogni verifica in merito ad abusi in
corso di esecuzione. L’eventuale omissione o il ritardo nell’esecuzione può
configurare gravi ipotesi di reato.
m) Esecuzione di dissequestri
Anche i provvedimenti di restituzione delle cose sequestrate
andranno immediatamente eseguiti.
Evidenzio, però, che il relativo provvedimento dovrà pervenire
direttamente dall’Autorità che l’ha emesso (P.M. o Giudice) nelle forme
previste.
Non è in nessun caso ammissibile procedere all’esecuzione di
dissequestri sulla base di provvedimenti esibiti in copia dall’indagato o
dal suo difensore né, tanto meno, su richiesta verbale.
Detti provvedimenti dovranno pervenire dalla Segreteria del P.M. o
dalla Cancelleria del Giudice nelle forme di legge.
Se la restituzione è disposta nei confronti dell’ ”avente
diritto” e lo stesso non sia compiutamente indicato, dovrà accertarsi
chi sia tale soggetto, potendosi lo stesso individuare in persona diversa
dall’indagato, come nel caso in cui si sia perfezionata l’acquisizione
automatica dell’immobile al patrimonio del Comune a seguito d’inottemperanza
all’ordinanza di demolizione.
In caso di dubbio andrà interpellato per iscritto l’Ufficio che ha
emesso il provvedimento.
n) Procedura di acquisizione
La procedura di acquisizione degli immobili e delle relative aree
di sedime è obbligatoria e dovrà essere portata a termine nel rispetto di
quanto stabilito dal legislatore.
Tale procedura dovrà essere avviata dal competente funzionario
comunale con le cadenze che vengono qui di seguito sinteticamente ricordate:
− emissione ordinanza di demolizione ai sensi
dell’art. 27 D.P.R. 380/2001
e relativa tempestiva notifica. L’ordinanza
dovrà contenere tutti gli estremi per l’identificazione dell’abuso (compresi
foglio e mappale), nonché l’area di sedime acquisibile in caso di
inottemperanza,
− verifica (attraverso sopralluogo della Polizia
Locale) dell’ottemperanza all’ordinanza con redazione del relativo verbale,
− in caso d’inottemperanza, il relativo verbale
(che dovrà contenere gli estremi catastali dell’immobile) dovrà essere
notificato ai soggetti interessati,
− l’accertata inottemperanza determina ope
legis l’automatico passaggio della proprietà dell’abuso e dell’area di
sedime all’Amministrazione comunale nei termini indicati dall’articolo 31
D.P.R. 380/2001,
− il trasferimento di proprietà dovrà essere
rapidamente trascritto.
Ciò posto, si è rilevata spesso una resistenza da parte dei
competenti Uffici comunali a effettuare la trascrizione o a porre in essere
regolarmente e tempestivamente la procedura di cui sopra.
È, pertanto, opportuno che il personale di Polizia Locale sia reso
edotto del fatto che:
− l’eventuale omissione o rifiuto da parte del
personale competente a procedere potrà configurare, a seconda dei casi, i
reati di favoreggiamento, abuso d’ufficio e/o di omissione o rifiuto di atti
d’ufficio, in ordine ai quali vi è l’obbligo di tempestiva comunicazione a
questa A.G.,
− il ricorso innanzi al Giudice amministrativo
non sospende la procedura di acquisizione, se non nel caso in cui venga
emessa Ordinanza cautelare di sospensiva.
Questa Procura della Repubblica provvederà a segnalare alla
competente Procura Regionale della Corte dei Conti omissioni o ritardi che
possano comportare danno erariale.
6. Reati di “falso” in ambito edilizio, ambientale e
paesaggistico
L’art. 20, comma 13, D.P.R. 380/2001
punisce penalmente chiunque
dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti
previsti al comma 1 del medesimo articolo nell’ambito del procedimento per
il rilascio del permesso di costruire.
L’art. 29, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede che, per le opere
realizzate nell’ambito di segnalazione certificata di inizio attività, il
progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica
necessità ai sensi degli articoli
359 e
481 del cod. pen. Ne consegue che,
in caso di false dichiarazioni, viene integrato il reato ex
art. 481 cod. pen. (falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un
servizio di pubblica necessità).
L’art. 19, comma 6, L. 241/1990
punisce penalmente chiunque, nelle
dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione
di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti
o presupposti indicati al comma 1° della medesima legge.
È sempre previsto l’obbligo d’informativa, da parte del
responsabile del procedimento, al competente Ordine Professionale per
l’irrogazione delle sanzioni disciplinari. All’informativa può provvedere
ovviamente anche la Polizia Locale, quale organo di polizia giudiziaria.
Restano fermi i restanti reati di falso previsti nel Libro II
Titolo VII Capo III (della falsità in atti) del cod. pen.
È necessario, quindi, che si proceda al controllo sulla veridicità
delle dichiarazioni, attestazioni, asseverazioni (e relativi allegati)
inserite dalle parti nelle pratiche e si provveda a segnalare
tempestivamente a questa Procura della Repubblica gli eventuali reati,
nonché a darne immediata informativa al competente Ordine Professionale
qualora l’autore del reato sia un professionista.
7. Gli “elenchi mensili” ex art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001
L’art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 prevede che: … “Il
Segretario comunale redige e pubblica mensilmente, mediante affissione
nell’albo comunale, i dati relativi agli immobili e alle opere realizzati
abusivamente, oggetto dei rapporti degli ufficiali ed agenti di polizia
giudiziaria e delle relative ordinanze di sospensione e trasmette i dati
anzidetti all’autorità giudiziaria competente, al presidente della giunta
regionale e, tramite l’ufficio territoriale del governo, al Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti”.
Tale norma ha la finalità di consentire il complessivo monitoraggio
sul territorio della giurisdizione del fenomeno dell’abusivismo edilizio.
Gli elenchi di cui all’art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001
non
sostituiscono, pertanto, l’obbligo di CNR previsto dall’art. 347 c.p.p.. Né,
al contrario, il deposito della CNR da parte degli operanti fa venir meno
l’obbligo di trasmissione dei suddetti elenchi mensili da parte del
Segretario comunale.
Tali elenchi dovranno essere mensilmente trasmessi, solo se
positivi (ossia solo se vi sono abusi da segnalare), unicamente a mezzo
posta elettronica certificata all’indirizzo: (da indicare).
Tali elenchi non verranno iscritti in alcun registro del S.I.C.P.
(Sistema Informativo della Cognizione Penale) e verranno direttamente
trasmessi al Procuratore.
L’elenco mensile deve contenere unicamente i dati relativi
all’abuso (identificazione del luogo, sintetica descrizione della tipologia
dell’abuso ecc.) e ai soggetti responsabili dello stesso (complete
generalità). Al contrario, non deve contenere allegati (ordinanze, rapporti
ecc.).
È necessario che nell’elenco mensile venga inserita, per ogni
abuso, un’apposita voce “CNR della Polizia Locale n…. inoltrata in
Procura il …”, ovvero “CNR in fase di redazione da parte della Polizia
Locale e di prossimo inoltro in Procura”. In tale ultimo caso sarà onere
del Comune (attraverso il Segretario comunale, ovvero la Polizia Locale)
trasmettere tempestivamente alla Procura apposita integrazione all’elenco
mensile con la quale si darà atto dell’avvenuto deposito della relativa CNR
mancante.
Gli elenchi mensili conterranno sia gli abusi che assumono
rilevanza penale, sia quelli che costituiscono meri illeciti amministrativi,
poiché la norma di riferimento non prevede distinzioni.
È necessario, però, che nell’elenco mensile venga inserita
un’ulteriore apposita voce che indichi esplicitamente se si tratta di abuso
avente carattere penale o solo amministrativo.
8. La comunicazione di avvio del procedimento
L’art. 7 Legge 241/1990 inerente alla comunicazione di avvio del
procedimento dispone che … “Ove non sussistano ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del
procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8,
ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove
parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un
provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o
facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari,
l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia
dell’inizio del procedimento. Nelle ipotesi di cui al comma 1 resta salva la
facoltà dell’amministrazione di adottare, anche prima della effettuazione
delle comunicazioni di cui al medesimo comma 1, provvedimenti cautelari”.
Per costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, IV Sez., 23.01.2012,
n. 282; VI Sez., 24.09.2010, n. 7129; VI Sez., 30.05.2011, n. 3223; VI Sez.,
24.05.2013, n. 2873; V Sez., 09.09.2013, n. 4470, VI Sez., 08.05.2014)
l’adozione di misure repressive edilizie non è assoggettata all’obbligo di
comunicazione dell’avvio del procedimento, attesa la natura vincolata del
provvedimento finale, rispetto al quale la partecipazione dell’interessato
non può arrecare alcuna utilità.
Particolare rigore deve essere posto con riguardo ad accertamenti
connessi alle opere in corso di esecuzione, sia nel caso di ordinaria
attività di vigilanza, che nel caso di attivazione a seguito di segnalazione
di parte.
In tali casi, al fine di evitare il concretizzarsi di ipotesi
penalmente rilevanti a carico del funzionario comunale firmatario del
provvedimento di avvio del procedimento (per esempio, di favoreggiamento del
potenziale destinatario del provvedimento sanzionatorio che ben potrebbe, se
preventivamente informato, eliminare l’abuso prima dell’accertamento, ovvero
aggravare il reato con il completamento funzionale delle opere e la
potenziale fruibilità delle stesse, con conseguente vantaggio patrimoniale),
l’avvio del procedimento è tassativamente vietato.
Al contrario, non si ravvisano particolari criticità connesse
all’eventuale emanazione della comunicazione di avvio del procedimento per
ciò che concerne le opere illecite pacificamente già ultimate anche nelle
loro rifiniture. Detta prassi è, infatti, utilizzata da molti comuni,
soprattutto per la difficoltà a risalire a documentazione giacente presso
l’archivio storico e, conseguentemente, per evitare di procedere con la
notifica di provvedimenti demolitori riguardanti manufatti regolarmente
assentiti, con conseguente necessità di un successivo provvedimento in
autotutela. Quanto sopra, ovviamente, fermo restando il rispetto del termine
perentorio di cui all’art. 27, comma 4, D.P.R. 380/2001.
Nel caso di emissione della comunicazione di avvio del procedimento
occorrerà, pertanto, indicare un termine perentorio alla controparte per
presentare memorie o scritti difensivi utili al procedimento instaurato.
L’utilizzo di detta procedura non può, in nessun caso, portare a una
dilazione dei 30 giorni previsti dall’art. 27, comma 4, D.P.R. 380/2001.
In generale corre l’obbligo per il Comune di intervenire senza
indugio con i controlli e i successivi provvedimenti ripristinatori degli
interventi realizzati in assenza di titolo abilitativo.
La facoltà di
presentare istanza di sanatoria, nei casi previsti dalla legge, è in capo
infatti all’avente titolo. Non sono, pertanto,
giustificati ritardi
nell’azione repressiva al fine di agevolare i privati nella presentazione di
eventuali istanze di sanatoria.
9. L’accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 e
l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma 1-quater,
D.Lgs. 42/2004
L’art. 45, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede che … “il rilascio
in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali
previsti dalle norme urbanistiche vigenti”.
Parallelamente, l’art. 181, comma 1-ter, D.Lgs. 42/2004 prevede
che, nelle ipotesi di abuso paesaggistico ivi tassativamente elencate e
qualora la competente Autorità amministrativa ne accerti la relativa
compatibilità paesaggistica, non trovano applicazione le sanzioni penali di
cui al comma 1° del medesimo articolo.
Nel corso degli anni si è registrata, da parte dei singoli comuni,
una disomogenea applicazione delle norme e delle procedure in tema di
segnalazione dei reati oggetto di richieste di conformità e di compatibilità
paesaggistica: alcuni comuni non trasmettono mai la CNR in caso di rilascio
delle sanatorie (ovvero delle compatibilità paesaggistiche), altri le
trasmettono solo all’esito delle relative pratiche e indistintamente dal
loro accoglimento o meno, altri le trasmettono solo all’esito della relativa
istruttoria e solo in caso di diniego, altri ancora le trasmettono non
appena pervenute al Comune e ancor prima della relativa istruttoria.
È, pertanto, opportuno chiarire che, solo allorquando la
sussistenza di un abuso edilizio o paesaggistico venga portata a conoscenza
delle strutture comunali (ovvero del parallelo Ente pubblico competente in
materia paesaggistica) unicamente dalla parte tramite richiesta di
accertamento di conformità edilizia (ovvero richiesta di accertamento di
compatibilità paesaggistica), quindi in assenza di qualsivoglia esposto,
segnalazione, ovvero in assenza di accertamenti, sopralluoghi del personale
comunale o di altri Organi pubblici, il deposito della CNR sarà posticipato
all’esito dei relativi procedimenti amministrativi.
Tale obbligo di denuncia all’A.G. sussiste, all’esito
dell’istruttoria, sia qualora l’abuso venga sanato, o ne venga certificata
la compatibilità paesaggistica, sia qualora le relative istanze vengano
rigettate. Ciò perché è stato, comunque, commesso un reato, la cui eventuale
dichiarazione di estinzione compete unicamente al Giudice.
È evidente che, in caso di accoglimento delle istanze di conformità
e/o compatibilità paesaggistica, l’Organo procedente (Polizia Locale, ovvero
il parallelo servizio ispettivo dell’Ente competente in materia
paesaggistica) si limiterà a depositare la CNR contenente i dati essenziali:
la relazione sarà molto sintetica, con esplicito riferimento all’inutilità
di effettuare ulteriori indagini e conterrà proposta di archiviazione del
procedimento.
Andranno, comunque, anche in questo caso, allegati il verbale di
identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore
e informazioni sul diritto alla difesa in capo a tutti i soggetti
responsabili, copia integrale del provvedimento amministrativo di sanatoria
e/o compatibilità, nonché apposita dichiarazione del responsabile dell’
Ufficio Tecnico attraverso la quale si attesta che, con il provvedimento
amministrativo rilasciato e trasmesso, è stato sanato (ovvero ne è stata
certificata la compatibilità paesaggistica), l’intero abuso e che non
residuano ulteriori abusi non sanati.
Tale procedura appare in assoluto la più logica e, al contempo,
ossequiosa del dettato normativo posto che, l’eventuale rilascio dei citati
permessi a costruire in sanatoria (ovvero delle certificazioni di
compatibilità paesaggistica), comporterebbe il mantenimento nell’area della
mera rilevanza sanzionatoria amministrativa dei lavori illeciti eseguiti,
senza alcun obbligo d’immediata informativa all’A.G. (che ben può essere
posticipata, quindi, all’esito delle procedure amministrative).
Al contrario, è appena il caso di ricordare che,
quando sono già
pervenuti esposti, segnalazioni, denunce, ovvero quando il personale
comunale ha già espletato accertamenti, sopralluoghi ecc. prima del deposito
in Comune di un’eventuale istanza di conformità o di compatibilità, la CNR
dovrà necessariamente essere depositata in Procura senza ritardo
(indistintamente dal fatto che pervengano, dopo l’esposto o l’accertamento,
eventuali istanze di conformità o di compatibilità).
A norma dell’art. 45, comma 1, D.P.R. 380/2001, ... “l’azione
penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano
stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all’art. 36”.
Di conseguenza, anche il corso della prescrizione del reato rimane
sospeso, a norma dell’art. 159 cod. pen., per tale lasso di tempo. La
prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa
della sospensione.
L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede, inoltre, che: … “sulla
richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale si pronuncia, con adeguata motivazione, entro
sessanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
È opportuno evidenziare, quindi, che la lettura del combinato
disposto degli artt.
45, comma 1, e
36, comma 3, D.P.R. 380/2001 consente di
affermare che, entro il termine massimo di 60 giorni dalla presentazione
dell’istanza di conformità, il responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale
dovrà provvedere su tale istanza e trasmettere tempestivamente tutta la
documentazione (compreso il provvedimento finale) alla Polizia Locale,
affinché quest’ultima possa celermente notiziare la Procura della Repubblica
(salvo le ipotesi relative ad aree o immobili vincolati, in ordine alle
quali si deve considerare anche il termine di 180 giorni a disposizione
della Soprintendenza per il parere obbligatorio e vincolante di sua
competenza).
In caso di insufficienza della documentazione o delle dichiarazioni
allegate dalla parte nell’istanza, il responsabile del procedimento avrà
cura di inoltrare, con mezzi che ne garantiscano la prova di ricezione,
specifica richiesta di integrazione: la stessa dovrà necessariamente
indicare il termine tassativo entro cui produrre al Comune tale
documentazione e/o dichiarazioni mancanti (che deve essere il più possibile
contenuto), in mancanza delle quali, allo scadere del termine concesso,
l’istanza dovrà essere rigettata.
Non è mai tollerabile la prassi, sin qui tenuta da alcuni comuni, di
inoltrare alla parte richieste di integrazione prive di un termine entro cui
provvedere. Così facendo, infatti, dette pratiche rischiano di rimanere, nel
caso di inerzia della parte, in “istruttoria” spesso ben oltre il
termine massimo concesso dalla legge per la definizione dei procedimenti,
con conseguente elevato rischio di prescrizione del reato.
Non è consentito l’inoltro, in un’unica CNR, di elenchi relativi a
più abusi commessi da soggetti diversi, sanati od oggetto di compatibilità
paesaggistica.
È obbligo del Comune, attraverso la Polizia Locale, aggiornare
tempestivamente la Procura della Repubblica circa l’avvenuto rilascio del
permesso a costruire in sanatoria, ovvero della certificazione di
compatibilità paesaggistica. Ciò senza attendere una specifica delega
d’indagine dell’A.G.. A tal fine sarà onere del responsabile dell’Ufficio
Tecnico comunale trasmettere tempestivamente apposita comunicazione alla
Polizia Locale, contenente copia integrale del provvedimento emesso e
dichiarazione che attesti che non residuano abusi non sanati.
10 Gli interventi di demolizione e di ripristino dello stato dei
luoghi
Gli
artt. 27, 31, 33 e 35 D.P.R. 380/2001 prevedono che il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale ordina la
demolizione delle opere abusive.
L’art. 31, comma 9, D.P.R. 380/2001 prevede che il Giudice, con la
Sentenza di condanna, ordina la demolizione delle opere se ancora non sia
stata altrimenti eseguita.
Analoghi poteri-doveri sono previsti in ambito paesaggistico dagli
artt.
167 e
181, comma 2, D.Lgs. 42/2004, nonché dall’art. 29 L. 394/1991,
in caso di attività abusive in aree protette.
L’art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001 prevede, poi, una specifica
sanzione amministrativa in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
E’ indicato, altresì, che … “la mancata o tardiva emanazione del
provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali,
costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di
responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile, del dirigente e del
funzionario inadempiente”.
Ho verificato che, spesso, non viene emessa la citata sanzione
amministrativa e che ci si limita a emettere le ordinanze di demolizione e/o
ripristino senza, però, procedere agli interventi d’ufficio previsti dalle
citate norme in caso di inottemperanza del responsabile dell’abuso.
Ricordo che, in presenza dei presupposti di legge,
l’esecuzione
d’ufficio delle demolizioni e dei ripristini, così come l’acquisizione al
patrimonio pubblico dell’immobile abusivo e della relativa area di sedime e
l’emanazione delle prescritte sanzioni amministrative, costituiscono un
obbligo per l’Autorità amministrativa e non una mera facoltà discrezionale.
Sono evidenti, in astratto, le possibili responsabilità omissive, sia sul
piano penale sia su quello erariale.
La mancata ottemperanza alle ordinanze di demolizione non integra
il reato ex
art. 650 cod. pen.
perché tale fattispecie penale (c.d. “norma
penale in bianco”), così come da consolidato orientamento
giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione, punisce l’inosservanza
di provvedimenti legalmente dati dall’Autorità per ragioni di giustizia,
ordine pubblico, sicurezza pubblica o igiene, esclusivamente allorquando
tali inosservanze non siano già punite dall’ordinamento con specifiche
sanzioni.
Nel caso di specie la sanzione prevista dalla norma in caso
d’inottemperanza è la demolizione, ovvero il ripristino dei luoghi, eseguiti
d’ufficio e a spese del relativo responsabile.
L’art. 181, comma 1-quinquies, D.Lgs. 42/2004 prevede che la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli
paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio
dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga condanna,
estingue il reato paesaggistico di cui al comma 1 del medesimo articolo.
L’art. 131-bis cod. pen. prevede, poi, l’esclusione della punibilità in
taluni casi di particolare tenuità del fatto.
È obbligo pertanto del Comune, attraverso la Polizia Locale,
aggiornare tempestivamente la Procura della Repubblica circa l’eventuale
avvenuta demolizione, ovvero ripristino dello stato dei luoghi, sia al fine
di valutare l’eventuale estinzione del reato, sia perché tale ottemperanza
costituisce comunque comportamento favorevolmente valutabile nei confronti
dell’indagato.
11 La segretezza delle indagini di polizia giudiziaria, nonché
delle informazioni e della documentazione contenute nelle CNR
L’art. 329 c.p.p. prevede che … “gli atti di indagine compiuti
dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto
fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non
oltre la chiusura delle indagini preliminari”.
L’art. 326 cod. pen. punisce penalmente il pubblico ufficiale o la
persona incaricata di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti
alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela
notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in
qualsiasi modo la conoscenza.
Ne consegue che ogni richiesta di accesso agli atti trasmessi all’A.G.,
da chiunque proveniente (indagati, difensori, esponenti, soggetti terzi
ecc.), deve essere trasmessa al P.M. titolare per il preventivo vincolante
nulla osta ex
art. 116 c.p.p..
Talune norme vigenti in materia edilizia (per esempio, gli artt.
27, comma 4, e
31, comma 7, D.P.R. 380/2001) prevedono, peraltro, l’obbligo
di informativa alle Autorità amministrative preposte (Regione, Comune,
Ordine Professionale ecc.) circa i reati accertati per i provvedimenti di
rispettiva competenza. In tali casi, ossia quando l’informativa non riveste
carattere di discrezionalità ma deriva da un obbligo ope legis, il
nulla osta del P.M. alla trasmissione degli atti alle suddette Autorità e
per le finalità indicate nella legge s’intende sin d’ora concesso.
Evidenzio che gli atti diretti e provenienti dalla Procura della
Repubblica, ovvero da altri organi di polizia giudiziaria, possono essere
portati a conoscenza del solo personale avente qualifica di agente o
ufficiale di polizia giudiziaria.
Qualsivoglia eventuale comportamento di amministratori locali volto
a interferire, limitare o intralciare le attività di polizia giudiziaria e
di controllo degli abusi deve essere immediatamente segnalato al Procuratore
della Repubblica.
12 Conclusioni
Prego le Autorità in indirizzo di inoltrare la presente direttiva
ai Comandi, Settori, Servizi, Uffici territorialmente e funzionalmente
competenti, onde garantirne la più ampia diffusione.
Le SS.VV. si atterranno alle sopraelencate disposizioni anche in
considerazione della rilevanza che assumono i beni giuridici tutelati dalle
norme in oggetto.
La mancata, scorretta o parziale ottemperanza alla presente
direttiva costituisce intralcio all’attività dell’Autorità Giudiziaria e,
come tale, verrà valutata dal Magistrato titolare del procedimento in ordine
ad eventuali responsabilità penali e/o disciplinari. |
ANNO 2023 |
|
aggiornamento al
30.10.2023 |
|
Volente o nolente, è la sacrosanta verità: |
l'abolizione da parte del legislatore statale -nel
lontano anno 2001- del controllo (esterno) di legittimità
sugli atti delle "Province, dei Comuni e degli
altri enti locali" a cura del Co.Re.Co.
(Comitato Regionale di Controllo) ha costituito il "suggello"
al principiato (molto tempo addietro) degrado etico,
morale della Pubblica Amministrazione (e non solo)
di cui nessuno
più si scandalizza, nell'assordante indifferenza
generale, poiché -oramai- è divenuto un
processo sociale irrimediabilmente non più
reversibile. |
Ciò
detto alla
faccia del recente slogan pubblicitario: "Pubblica
Amministrazione: più che un posto fisso, un posto
figo"! |
Invero, nella fattispecie che ci interessa, oggigiorno un
Tecnico Comunale "normale"(1) e cioè:
(a) che
rispetta la legge
(art. 1, comma 1, L. 07.08.1990 n. 241);
(b) che
agisce in modo efficiente e senza inutili aggravi
per i cittadini
(art. 1, commi 1 e 2, L. 07.08.1990 n. 241);
(c) che
non perde tempo, non si balocca e agisce a ragion
veduta
(art. 97 Cost.);
(d)
preparato, efficiente, prudente e zelante
(art. 98 Cost.), |
è
un soggetto raro, pressoché in via di estinzione! |
Non solo, viste le nefandezze -in punto di diritto-
di atti amministrativi che
si leggono quotidianamente all'albo pretorio on-line
(qua e là)
non ci stancheremo di rammentare all'infinito che «Qualsiasi
pubblica amministrazione "efficiente",
ai sensi
dell'art. 97 Cost. e per i fini di cui all'art.
1176, comma 2, c.c.,
non può non conoscere
la legge. Se questa non ammette ignoranza da
parte degli amministrati,
a fortiori sarà
l'ignoranza della legge intollerabile in un
amministratore»(2).
---------------
(1) (2) cfr.
Corte di
Cassazione - Sez. III civile, con la
sentenza 06.10.2015 n. 19883 |
Sull'argomento, si legga l'interessante recentissimo
articolo di giornale riportato a seguire, laddove
chi si definisce "persona onesta" non
può non condividerlo e, soprattutto, non può (e non
deve) rimanere "indifferente".
30.10.2023 - LA
SEGRETERIA PTPL |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
Non ci sono controlli sui sindaci. Le minoranze sono private dei
dati per poter giudicare. L'abolizione dell'art. 130
della Costituzione rende irresponsabili i conti degli enti locali.
L'articolo
130 della Costituzione Italiana prevedeva il controllo di legittimità sugli
atti degli Enti Locali.
Infatti, esso così recitava: «Un organo della Regione, costituito nei
modi stabiliti dalla legge della Repubblica, esercita, anche in forma
decentrata, il controllo di legittimità sugli atti delle Province, dei
Comuni e degli altri enti locali».
Quando nel 1970 furono istituite, le Regioni con proprie leggi diedero vita
ai Comitati Regionali di Controllo (Co.Re.Co.) in ogni Provincia, a cui i
Comuni erano obbligati a inviare i propri atti deliberativi per il controllo
di legittimità. L'articolo 9, comma secondo, della legge costituzionale n. 3
del 18.10.2001 ha abrogato l'articolo 130 della Costituzione italiana,
eliminando il controllo di legittimità sugli atti degli Enti Locali.
Nel corso dell'anno successivo tutte le Regioni italiane hanno provveduto a
sciogliere i Co.Re.Co, per cui da quel momento in poi il controllo di
legittimità sugli atti è stato esercitato internamente dai singoli dirigenti
delle Province e dei Comuni nelle materie di propria competenza,
con
l'assurda coincidenza di controllore e controllato.
L'abrogazione dell'articolo 130 della Costituzione e la cancellazione delle
leggi regionali istitutive dei Co.Re.Co. hanno determinato una situazione
paradossale nella vita degli Enti Locali con gravissime conseguenze di
ordine politico e istituzionale.
In primo luogo, è stato davvero poco rispettoso dei principi della
democrazia alterare nella vita degli Enti Locali la dialettica tra le forze
politiche di maggioranza e quelle di minoranza, privando queste ultime della
possibilità di richiedere ad un organo esterno il controllo di legittimità
sugli atti deliberativi assunti dalla maggioranza.
La funzione di controllo delle forze di minoranza è stata del tutto
azzerata, in quanto esse sono state private della facoltà del controllo
amministrativo e hanno avuto e tuttora hanno a disposizione soltanto due
strade: il ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale e/o la denuncia
all'Autorità Giudiziaria.
La prima strada non è affatto percorribile, in
quanto richiede cospicue risorse finanziarie, di cui non dispongono i gruppi
consiliari degli Enti Locali. La seconda strada distorce gravemente la dialettica democratica, dirottando
le relazioni politiche tra maggioranza e opposizione sul piano giudiziario.
Il che ammorba il clima politico complessivo locale con forte pregiudizio
per il bene della Comunità.
In secondo luogo, è stato davvero irresponsabile privare gli atti degli Enti
Locali del controllo esterno di legittimità, in quanto il condizionamento
delle mafie e della criminalità organizzata costituisce una costante in
quasi tutto il territorio nazionale e, massimamente, nel Mezzogiorno
d'Italia. Gli amministratori locali, i dirigenti e i responsabili di
servizio sono stati lasciati soli di fronte alle forti pressioni di gruppi
criminali, a cui spesso non si sottraggono per paura o, in alcuni casi, per
scelta.
In terzo luogo, è stato del tutto deplorevole aver reso più semplice la
violazione di una serie di norme di regolamenti per una gestione poco
trasparente degli Enti Locali anche con gravi risvolti corruttivi.
Noi Liberaldemocratici Italiani, per tutte queste ragioni, proponiamo che
nella prossima riforma faccia ritorno l'articolo 130 della Costituzione
Italiana
(articolo ItaliaOggi del 28.10.2023). |
aggiornamento al
27.09.2023 (ore 23,59) |
|
In materia di "certificato
di destinazione urbanistica": |
EDILIZIA PRIVATA:
Il certificato di destinazione urbanistica,
redatto dal pubblico ufficiale, “è atto meramente dichiarativo e non
costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano,
effetti che discendono, invece, da precedenti provvedimenti,
i quali hanno determinato la situazione giuridica acclarata
con il certificato; se ne desume che tale atto non ha natura provvedimentale ed è sprovvisto di concreta lesività e,
dunque, non è suscettibile di impugnazione, con la
conseguenza che la domanda di risarcimento del danno
derivante dal rilascio di un certificato urbanistico errato
non rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo”.
Pertanto, nel rilascio di un certificato urbanistico, il
Comune esplica un’attività indubbiamente certativa, ma non
integrante l’esercizio di un “potere” amministrativo
rilevante ai fini della giurisdizione in ordine al
risarcimento del danno: a tali fini, l’esercizio del potere
viene in rilievo quale presupposto che (tramite l’adozione
di atti o comportamenti) consente all’Amministrazione di
definire l’assetto di interessi, producendo quindi effetti
nella sfera giuridica del destinatario in via unilaterale (o autoritativa).
---------------
Con l’ordinanza nr. 9203/2023, il Collegio ha sollevato d’ufficio un
dubbio relativo alla giurisdizione, che parte ricorrente,
con apposita memoria, ha affermato sussistere, argomentando
circa il fatto che il rilascio di un certificato urbanistico
errato non costituirebbe un “mero” comportamento dell’Ente,
ma sarebbe da ricondurre pur sempre all’esercizio di un
potere (certificativo) della PA, con conseguente radicamento
della domanda di risarcimento di fronte al G.A.;
soccorrerebbero la tesi delle ricorrenti un precedente
specifico (TAR Napoli, Sez. II, 29.12.2020, n. 6451) ed i
principi di cui alla sentenza dell’Adunanza Plenaria nr. 20
del 29.11.2021 (secondo la quale vanno ricondotte alla
giurisdizione del giudice amministrativo tutte quelle
ipotesi nelle quali il risarcimento richiesto dipenda da
comportamenti i quali costituiscano “comunque espressione di
poteri ad essa attribuiti per il perseguimento delle
finalità di carattere pubblico devolute alla sua cura”); nel
caso in esame, non si verterebbe esclusivamente in ordine
all’errata emissione di certificati urbanistici, bensì anche
di titoli abilitativi dei quali l’amministrazione aveva
emesso preavviso di rilascio prima di disporne il rigetto;
ne deriverebbe che nell’ipotesi di richiesta risarcitoria
avanzata in ragione della “fiducia” posata in base ad
un’azione della P.A. esercitata nell’alveo dell’esercizio
del potere amministrativo, quale l’emissione di un
certificato urbanistico, si integrerebbe quel
“comportamento” che ai sensi dell’art. 7 del c.p.a. radica
la giurisdizione nell’A.G.A., vieppiù nelle ipotesi di cui
all’art. 133 comma 1 lett. f) del c.p.a.
Nonostante l’evidente impegno difensivo, le argomentazioni
che la difesa delle ricorrenti hanno svolto non consentono
al Collegio di sciogliere la riserva in senso favorevole
alla giurisdizione del giudice amministrativo.
Si osserva, preliminarmente, che la decisione del TAR
Catania n. 2550/2015, richiamata nell’ordinanza ex art. 73
c.p.a. si colloca entro un orientamento più ampio (rispetto
al quale la decisione di TAR Napoli 6451/2020 appare
isolata), che il Collegio ritiene di dover confermare.
Invero, è dirimente –anche rispetto a quanto argomentato
dalla difesa dei ricorrenti– quanto chiarito da Consiglio
di Stato, sez. IV, 04/02/2014, n. 505, secondo cui il
certificato di destinazione urbanistica, redatto dal
pubblico ufficiale, “è atto meramente dichiarativo e non
costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano,
effetti che discendono, invece, da precedenti provvedimenti,
i quali hanno determinato la situazione giuridica acclarata
con il certificato; se ne desume che tale atto non ha natura provvedimentale ed è sprovvisto di concreta lesività e,
dunque, non è suscettibile di impugnazione, con la
conseguenza che la domanda di risarcimento del danno
derivante dal rilascio di un certificato urbanistico errato
non rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo”
(cfr. altresì, TAR Brescia, sez. I, 24/04/2012, n.
687, e Cassazione civile, sez. un., 23/09/2010, n.
20072).
Pertanto, nel rilascio di un certificato urbanistico, il
Comune esplica un’attività indubbiamente certativa, ma non
integrante l’esercizio di un “potere” amministrativo
rilevante ai fini della giurisdizione in ordine al
risarcimento del danno: a tali fini, l’esercizio del potere
viene in rilievo quale presupposto che (tramite l’adozione
di atti o comportamenti) consente all’Amministrazione di
definire l’assetto di interessi, producendo quindi effetti
nella sfera giuridica del destinatario in via unilaterale (o autoritativa) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-stralcio,
sentenza 10.07.2023 n. 11569 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In merito alla domanda di risarcimento del danno
conseguente ad erronea certificazione urbanistica, la
giurisprudenza è orientata pacificamente ad ascrivere la
relativa fattispecie alla cognizione del giudice ordinario.
Invero, “rientra
nella giurisdizione dell'A.G.O. una controversia avente ad
oggetto la domanda di risarcimento del danno avanzata nei
confronti di un ente locale da un soggetto che, sulla scorta
del rilascio di un certificato di destinazione urbanistica
dal contenuto non corrispondente alla realtà, è stato
indotto all'acquisto di un terreno qualificato erroneamente
come edificabile.
Infatti, il rilascio del certificato di
destinazione urbanistica integra gli estremi non già dello
svolgimento di una qualsivoglia attività provvedimentale
della P.A., bensì del comportamento (sicuramente colposo)
del funzionario, riconducibile all'ente di appartenenza,
astrattamente idoneo a risolversi in un illecito civile, con
la conseguenza che spetta al giudice ordinario la cognizione
(e l'accertamento in concreto) della sussistenza e della
tutelabilità, sul piano risarcitorio, delle posizioni di
diritto soggettivo che si assumono lese in tali
fattispecie”.
---------------
Rilevato che, nell’odierno giudizio, parte
ricorrente agisce contro il Comune intimato per il
risarcimento del danno che assume di aver subito per aver
confidato nella legittimità di un certificato di
destinazione urbanistica che la induceva a sostenere
investimenti onerosi nell’acquisto di lotti di terreno e
nella predisposizione di progetti di edificazione che,
all’esito del relativo procedimento, si rivelava non essere
assentibile;
Rilevato che, più precisamente,
- le ricorrenti si determinavano nelle proprie iniziative
imprenditoriali sulla base dell’attestata destinazione
urbanistica dei lotti meglio precisati in atti, datata 30.07.2004, (prot. 11460) nella quale il terreno (foglio 11
particelle 482,484, 487 e 488) veniva dichiarato avente
“destinazione urbanistica” F5 parco privato;
- a detto documento veniva allegato l’estratto di PRG a
mente del quale si specificava che “Riguarda aree nelle
quali possono essere realizzati impianti sportivi ed
interventi di iniziativa privata. Sono anche ammessi
interventi per la costruzione di case di abitazione e di
impianti destinati allo svolgimento di attività culturali
ricreative e turistiche, nell’osservanza delle seguenti
prescrizioni …” (segue come in atti);
- presentata la necessaria documentazione edilizia
(28.04.2005), e nonostante il Comune avesse in un primo
tempo preannunciato l’accoglimento delle relative domande (prot.
7373 e 7376 del 10.05.2005) il procedimento si concludeva
con un rigetto della domanda (nota prot. 10229 del
14.06.2006), essendo risultato erroneo il certificato del 30.07.2004 (per omessa considerazione di varianti
medio tempore intervenute), in quanto la destinazione di zona del
lotto d’interesse risultava “G - Verde privato vincolato”
del tutto inedificabile, salvo una parte ad “F4 - Servizi
privati” con una minima edificabilità (che le parti assumono
comunque insufficiente);
Ritenuto che, in merito alla domanda di risarcimento del
danno conseguente ad erronea certificazione urbanistica, la
giurisprudenza è orientata pacificamente ad ascrivere la
relativa fattispecie alla cognizione del giudice ordinario (cfr.
TAR Catania, sez. II, 04/11/2015, n. 2550: “rientra
nella giurisdizione dell'A.G.O. una controversia avente ad
oggetto la domanda di risarcimento del danno avanzata nei
confronti di un ente locale da un soggetto che, sulla scorta
del rilascio di un certificato di destinazione urbanistica
dal contenuto non corrispondente alla realtà, è stato
indotto all'acquisto di un terreno qualificato erroneamente
come edificabile; infatti, il rilascio del certificato di
destinazione urbanistica integra gli estremi non già dello
svolgimento di una qualsivoglia attività provvedimentale
della P.A., bensì del comportamento (sicuramente colposo)
del funzionario, riconducibile all'ente di appartenenza,
astrattamente idoneo a risolversi in un illecito civile, con
la conseguenza che spetta al giudice ordinario la cognizione
(e l'accertamento in concreto) della sussistenza e della
tutelabilità, sul piano risarcitorio, delle posizioni di
diritto soggettivo che si assumono lese in tali
fattispecie”; cfr. anche Consiglio di Stato , sez. IV,
04/02/2014 , n. 505);
Ritenuto che, secondo tale orientamento, il ricorso andrebbe
dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo che andrebbe declinata in favore del
giudice ordinario, con facoltà di riassunzione nei limiti ed
alle condizioni di cui all’art. 11 del c.p.a.;
Ritenuto di invitare pertanto le parti a dedurre in ordine
alla questione esposta, che il Collegio solleva d’ufficio,
con termine per presentare memorie entro venti giorni dalla
comunicazione della presente ordinanza ex art. 73 del c.p.a.,
con riserva di ogni altra decisione, in rito, come nel
merito e sulle spese;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione
II Stralcio) invita le parti a dedurre sulla questione
rilevata d’ufficio di cui in parte motiva, nei termini pure
ivi indicati e con riserva di ogni altra decisione, in rito,
come nel merito e sulle spese (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-stralcio,
ordinanza 30.05.2023 n. 9203 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va richiamato l’orientamento della giurisprudenza
amministrativa secondo cui “il certificato di
destinazione urbanistica, redatto dal pubblico ufficiale, è
atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti
giuridici che da esso risultano, effetti che discendono,
invece, da precedenti provvedimenti, i quali hanno
determinato la situazione giuridica acclarata con il
certificato”.
Si desume da ciò che tale atto non avente natura
provvedimentale è sprovvisto di concreta lesività e, dunque,
non è suscettibile di impugnazione, con la conseguenza che
la domanda di risarcimento del danno derivante dal rilascio
di un certificato urbanistico errato non rientra nella
giurisdizione del giudice amministrativo.
"Il rilascio del certificato di
destinazione urbanistica integra gli estremi non già dello
svolgimento di una qualsivoglia attività provvedimentale
della p.a., bensì del comportamento (sicuramente colposo)
del funzionario, riconducibile all'ente di appartenenza,
astrattamente idoneo a risolversi in un illecito civile, con
la conseguenza che spetta al g.o. la cognizione della
sussistenza e della tutelabilità, sul piano risarcitorio,
delle posizioni di diritto soggettivo che si assumono lese”.
---------------
2.2. Le ricorrenti inoltre imputano la concorrente responsabilità
del Comune per non aver rappresentato nel certificato di
destinazione urbanistica quale fosse lo stato ambientale del
terreno affermando che “l’inserimento di detto fondo tra
quelli non idonei ad ospitare l’impianto avrebbe determinato
le società attrici a non acquistare il terreno” e che “la
responsabilità del Comune si fonda sulla violazione di
precetti normativi che regolano la specifica attività degli
enti predetti”.
Secondo le ricorrenti il diritto al risarcimento dei danni
troverebbe la propria fonte nella violazione da parte del
Comune dell’obbligo, legislativamente predeterminato, di
inserire nel certificato di destinazione urbanistica del
terreno acquistato le informazioni sullo stato ambientale.
Al riguardo va richiamato l’orientamento della
giurisprudenza amministrativa secondo cui “il certificato di
destinazione urbanistica, redatto dal pubblico ufficiale, è
atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti
giuridici che da esso risultano, effetti che discendono,
invece, da precedenti provvedimenti, i quali hanno
determinato la situazione giuridica acclarata con il
certificato” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 04/02/2014, n. 505;
Tar Lazio, Roma, sez. II, 06/03/2012, n. 2241; Tar Piemonte,
sez. II, 18/06/2016, n. 887; Tar Sicilia, Catania, sez. II,
03/07/2019, n. 1696; Tar Campania, Napoli, sez. VIII,
26/11/2020, n. 5564).
Si desume da ciò che tale atto non avente natura
provvedimentale è sprovvisto di concreta lesività e, dunque,
non è suscettibile di impugnazione, con la conseguenza che
la domanda di risarcimento del danno derivante dal rilascio
di un certificato urbanistico errato non rientra nella
giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. Cons. Stato,
cit. sez. IV, n. 505 del 2014; Cass. civile, sez. un.,
23/09/2010, n. 20072); “il rilascio del certificato di
destinazione urbanistica integra gli estremi non già dello
svolgimento di una qualsivoglia attività provvedimentale
della p.a., bensì del comportamento (sicuramente colposo)
del funzionario, riconducibile all'ente di appartenenza,
astrattamente idoneo a risolversi in un illecito civile, con
la conseguenza che spetta al g.o. la cognizione della
sussistenza e della tutelabilità, sul piano risarcitorio,
delle posizioni di diritto soggettivo che si assumono lese”
(cfr. Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 24/04/2012, n. 687).
Pertanto anche in relazione alla rappresentata
responsabilità del Comune riguardo alla dedotta omessa
specificazione dello stato ambientale del terreno nel
certificato urbanistico non sussiste la giurisdizione di
questo giudice (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 02.05.2023 n. 7334 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per consolidato orientamento giurisprudenziale,
il certificato di destinazione urbanistica è un atto dal
carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli
effetti giuridici che dallo stesso risultano, sicché allo
stesso non è possibile ricollegare alcun contenuto provvedimentale.
In termini:
- “Il certificato di destinazione urbanistica si
configura come una certificazione redatta da un pubblico
ufficiale, avente carattere meramente dichiarativo e non
costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso
risultano, visto che la situazione giuridica attestata nel
predetto certificato è la conseguenza di altri precedenti
provvedimenti che hanno provveduto a determinarla. Pertanto,
il certificato, in quanto privo di efficacia provvedimentale,
non ha alcuna concreta lesività, il che rende impossibile la
sua autonoma impugnazione. Gli eventuali errori in esso
contenuti potranno essere corretti dalla stessa
Amministrazione, su istanza del privato, oppure quest'ultimo
potrà impugnare davanti al giudice amministrativo gli
eventuali successivi provvedimenti concretamente lesivi,
adottati sulla base dell'erroneo certificato di destinazione
urbanistica”;
- “Il certificato di destinazione
urbanistica è atto meramente dichiarativo e non costitutivo
degli effetti giuridici che da esso risultano con la
conseguenza che, attesa la natura non provvedimentale della
certificazione de qua, rispetto ad essa non è ammessa
impugnazione”;
- “La destinazione urbanistica di un'area
non è quella risultante dalla certificazione urbanistica ma
quella realmente impressa dagli strumenti urbanistici,
sicché in caso di contrasto l'indicazione contenuta nella
certificazione è del tutto irrilevante e priva di efficacia conformativa, sicché non è necessaria alcuna impugnazione o
dichiarazione di falso del certificato per poter far valere
la reale previsione urbanistica”;
- “Il certificato di
destinazione urbanistica, di cui ai commi 2º e seguenti
dell'art. 30 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si configura
quale atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli
effetti giuridici che da esso risultano: effetti che
discendono, invece, da precedenti provvedimenti, i quali
hanno determinato la situazione giuridica acclarata con il
certificato. Se ne desume che tale atto non ha natura provvedimentale ed è sprovvisto di concreta lesività e,
dunque, non è suscettibile di impugnazione”.
---------------
1. Il ricorso è inammissibile, rivolgendosi l’impugnativa
avverso atto non immediatamente lesivo degli interessi della
parte ricorrente.
Ed infatti, con il gravame in disamina la società Ge. spa
ha impugnato il certificato di destinazione urbanistica,
prot. n. 18875 del 05.12.2017, rilasciato dal Comune di Teano
in riferimento al fondo del quale la deducente è
proprietaria.
Giova, in proposito, rimarcare che, per consolidato
orientamento giurisprudenziale, il certificato di
destinazione urbanistica è un atto dal carattere meramente
dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che
dallo stesso risultano, sicché allo stesso non è possibile
ricollegare alcun contenuto provvedimentale.
In termini:
- “Il certificato di destinazione urbanistica si
configura come una certificazione redatta da un pubblico
ufficiale, avente carattere meramente dichiarativo e non
costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso
risultano, visto che la situazione giuridica attestata nel
predetto certificato è la conseguenza di altri precedenti
provvedimenti che hanno provveduto a determinarla. Pertanto,
il certificato, in quanto privo di efficacia provvedimentale,
non ha alcuna concreta lesività, il che rende impossibile la
sua autonoma impugnazione. Gli eventuali errori in esso
contenuti potranno essere corretti dalla stessa
Amministrazione, su istanza del privato, oppure quest'ultimo
potrà impugnare davanti al giudice amministrativo gli
eventuali successivi provvedimenti concretamente lesivi,
adottati sulla base dell'erroneo certificato di destinazione
urbanistica” (cfr. TAR Catania, (Sicilia) sez. II,
06/06/2022, n. 1539);
- “Il certificato di destinazione
urbanistica è atto meramente dichiarativo e non costitutivo
degli effetti giuridici che da esso risultano con la
conseguenza che, attesa la natura non provvedimentale della
certificazione de qua, rispetto ad essa non è ammessa
impugnazione” (cfr. TAR Palermo, (Sicilia) sez. II,
07/03/2022, n. 719);
- “La destinazione urbanistica di un'area
non è quella risultante dalla certificazione urbanistica ma
quella realmente impressa dagli strumenti urbanistici,
sicché in caso di contrasto l'indicazione contenuta nella
certificazione è del tutto irrilevante e priva di efficacia conformativa, sicché non è necessaria alcuna impugnazione o
dichiarazione di falso del certificato per poter far valere
la reale previsione urbanistica” ( cfr. TAR Pescara,
(Abruzzo) sez. I, 05/09/2018, n. 260);
- “Il certificato di
destinazione urbanistica, di cui ai commi 2º e seguenti
dell'art. 30 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si configura
quale atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli
effetti giuridici che da esso risultano: effetti che
discendono, invece, da precedenti provvedimenti, i quali
hanno determinato la situazione giuridica acclarata con il
certificato. Se ne desume che tale atto non ha natura provvedimentale ed è sprovvisto di concreta lesività e,
dunque, non è suscettibile di impugnazione” (cfr. TAR
Bari, (Puglia) sez. III, 03/01/2018, n. 5).
Del resto, la ricorrente non ha allegato il pregiudizio
concreto ai propri interessi a derivare dal rilascio del
certificato in commento, ma ha dedotto di aver proposto il
ricorso in commento in ragione del fatto che esso “potrebbe
incidere negativamente sulla conferenza di servizi (per il
rilascio dell’autorizzazione ex art. 208 d.lgs. 152/2016) e
pregiudicarne il buon esito”.
2. In questo contesto non è, dunque, dato apprezzare alcuna
lesività dell’atto impugnato, con la conseguenza che il
gravame deve essere dichiarato inammissibile (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 08.02.2023 n. 904 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il certificato di destinazione urbanistica,
secondo una consolidata giurisprudenza, “si configura come
una certificazione redatta da un pubblico ufficiale, avente
carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli
effetti giuridici che dallo stesso risultano, visto che la
situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la
conseguenza di altri precedenti provvedimenti che hanno
provveduto a determinarla.
Pertanto, il certificato, in quanto privo di efficacia
provvedimentale, non ha alcuna concreta lesività, il che
rende impossibile la sua autonoma impugnazione.
Gli eventuali errori in esso contenuti potranno essere
corretti dalla stessa Amministrazione, su istanza del
privato, oppure quest’ultimo potrà impugnare davanti al
giudice amministrativo gli eventuali successivi
provvedimenti concretamente lesivi, adottati sulla base
dell’erroneo certificato di destinazione urbanistica”.
---------------
... per l'annullamento:
del provvedimento del Comune di -OMISSIS- del 10.11.2010 n. 6004,
con cui il responsabile dell’Ufficio Tecnico ha emesso
l’attestazione “di esistenza di vincoli” preclusivi
alla prosecuzione dell’attività estrattiva nella cava di
gneiss denominata “-OMISSIS-”, sita in quel Comune, e
delle correlate note dell’A.R.T.A. -OMISSIS- e del Servizio
Ispettorato Ripartimentale delle Foreste di Messina n.
-OMISSIS-;
con richiesta di risarcimento danni.
...
4.- Il ricorso è inammissibile.
4.1- La Società -OMISSIS-, cui l'odierna Società ricorrente
è subentrata con autorizzazione del 27.11.2006, conseguiva,
con decreto -OMISSIS- dell'Assessorato regionale territorio
e ambiente, il nulla osta all'impianto di una cava di "gneiss"
in contrada -OMISSIS- del comune di -OMISSIS-. La -OMISSIS-,
ottenuto il nulla osta all'impianto, chiedeva al Distretto
Minerario di Catania l'autorizzazione all'esercizio della
cava. Il Distretto Minerario autorizzava l'esercizio
dell'attività di cava per la durata di quindici anni, con
scadenza al 26.02.2011.
Con istanza del 16.11.2010, acquisita in pari data al
protocollo del Comune di -OMISSIS- al n. 6004, la -OMISSIS-.
chiedeva al Sindaco “il rilascio di un attestato circa la
esistenza di vincoli”, ai sensi dell’art. 7 della L.R.
15.05.1991 n. 24, sull’area interessata.
In riscontro a tale richiesta, il Responsabile dell’Area
Tecnica, effettuata la relativa istruttoria, con atto
spedito alla Società in data 15.12.2010, attestava che la
particella in questione “corrispondente all’area in cui
risulta ubicata la cava di gneiss in oggetto indicata,
ricade in una zona E (agricola) in cui l’attività di cava è
da considerarsi vietata in quanto non espressamente compresa
nell’elenco tassativo della destinazione d’uso in tale zona
consentita, in conformità a quanto previsto dalla tavola 4
(tipologia edilizia) allegata al Programma di fabbricazione,
approvato con D.A. n. 105 del 16.05.1977 [..]”, e che “l’area
in oggetto indicata, pur non essendo espressamente compresa
nel “Bacino Idrografico […] -OMISSIS- (098) per il quale è
stato approvato il Piano per l’Assetto Idrogeologico (P.A.I.)
con D.P.R.S. del 05.05.2007 […], per il forte degrado
ambientale che potrebbe comportare grave rischio per la
pubblica e privata incolumità, è da considerarsi, comunque,
“sito di attenzione”, concludendo con l’affermazione che “la
presente attestazione costituisce dichiarazione di esistenza
di vincoli ai sensi dell’art. 7, comma 1, lettera c), Legge
Regione Sicilia 15.05.1991, n. 24”.
Parte ricorrente ha, quindi, chiesto l’annullamento di tale
nota e degli altri correlati provvedimenti.
Con l’attestato impugnato, l’Ufficio tecnico del Comune di
-OMISSIS-, per esitare la richiesta della -OMISSIS-. di cui
si è appena detto, ha verificato e attestato, alla luce
della disciplina urbanistica vigente, il regime vincolistico
dell’area su cui ricade la cava (che non consentiva e non
consente l’attività per la quale la Società richiede il
rinnovo dell’autorizzazione): sulla scorta delle varie
comunicazioni intercorse sia con l’Assessorato territorio e
ambiente, sia con il Genio civile, ha concluso che la
stessa, per il forte degrado ambientale, era da ritenere,
comunque, “sito di attenzione”.
Ciò detto, va rilevato che l’impugnata nota costituisce un
atto che si inserisce all’interno del procedimento di
rinnovo dell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività di
cava (il cui provvedimento finale avrebbe dovuto essere
emanato dal Distretto Minerario) e che consiste in una
semplice manifestazione di scienza e di conoscenza, priva di
manifestazione di volontà e non autonomamente impugnabile.
Fra l’altro, la dichiarazione dell’esistenza di vincoli
urbanistici nella zona interessata dalla cava è assimilabile
al certificato di destinazione urbanistica che, secondo una
consolidata giurisprudenza, “si configura come una
certificazione redatta da un pubblico ufficiale, avente
carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli
effetti giuridici che dallo stesso risultano, visto che la
situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la
conseguenza di altri precedenti provvedimenti che hanno
provveduto a determinarla. Pertanto, il certificato, in
quanto privo di efficacia provvedimentale, non ha alcuna
concreta lesività, il che rende impossibile la sua autonoma
impugnazione. Gli eventuali errori in esso contenuti
potranno essere corretti dalla stessa Amministrazione, su
istanza del privato, oppure quest’ultimo potrà impugnare
davanti al giudice amministrativo gli eventuali successivi
provvedimenti concretamente lesivi, adottati sulla base
dell’erroneo certificato di destinazione urbanistica (ex
multis, Consiglio di Stato, IV, 04.02.2014, n. 505; TAR
Sicilia, Catania, II, 03.07.2019, n. 1696; TAR Lombardia,
Milano, I, 24.03.2016, n. 586; TAR Lombardia, Brescia, I,
24.04.2012, n. 687; 21.12.2011, n. 1779; TAR Lombardia,
Milano, II, 14.03.2011, n. 729; IV, 06.10.2010, n. 6863) …”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 04.11.2019 n. 2296) (TAR
Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 06.06.2022 n. 1539 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con
riferimento al certificato di destinazione urbanistica, è
consolidato il principio secondo cui il detto certificato è
atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti
giuridici che da esso risultano con la conseguenza che,
attesa la natura non provvedimentale della certificazione de
qua, rispetto ad essa non è ammessa impugnazione.
---------------
Passando all’esame
dei motivi aggiunti il Collegio ne rileva l’inammissibilità
stante la natura non provvedimentale degli atti impugnati.
Ed invero la nota della Soprintendenza n. -OMISSIS- non ha
all’evidenza tale natura contenendo esclusivamente la
richiesta ai ricorrenti di ulteriore documentazione.
Del pari, con riferimento al certificato di destinazione
urbanistica, è consolidato il principio secondo cui il detto
certificato è atto meramente dichiarativo e non costitutivo
degli effetti giuridici che da esso risultano con la
conseguenza che, attesa la natura non provvedimentale della
certificazione de qua, rispetto ad essa non è ammessa
impugnazione (cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Brescia, Sez.
I, 08.07.2019, n. 638 che a sua volta richiama Cons. Stato,
sez. IV, 04.02.2014 n. 505; TAR Lazio, Latina, 16.05.2013 n.
427; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 19.12.2015 n. 1990)
(TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 07.03.2022 n. 719 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come noto, la destinazione urbanistica di un’area
non è quella risultante dalla certificazione urbanistica ma
quella realmente impressa dagli strumenti urbanistici,
sicché in caso di contrasto l’indicazione contenuta nella
certificazione è del tutto irrilevante e priva di efficacia
conformativa, sicché non è necessaria alcuna impugnazione o
dichiarazione di falso del certificato per poter far valere
la reale previsione urbanistica.
---------------
Ciò premesso, si rileva innanzitutto che, come noto, la
destinazione urbanistica di un’area non è quella risultante
dalla certificazione urbanistica ma quella realmente
impressa dagli strumenti urbanistici, sicché in caso di
contrasto l’indicazione contenuta nella certificazione è del
tutto irrilevante e priva di efficacia conformativa
(Consiglio di Stato 476 del 2016), sicché non è necessaria
alcuna impugnazione o dichiarazione di falso del certificato
per poter far valere la reale previsione urbanistica (TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza 05.09.2018 n. 260 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aggiornamento al
30.06.2023 (ore 23,59) |
|
Installazione ascensore in facciata:
questioni varie amministrativo-civilistiche "condominiali
e non". |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Il condòmino disabile può predisporre l’ascensore sulla facciata del palazzo
anche senza l’ok dell’assemblea. La tutela del diritto alla salute e il
prinicipio di solidarietà sociale
consentono minime compromissioni del decoro architettonico.
L’ascensore esterno, installato sulla facciata condominiale a cura e spese
del disabile e volto a eliminare le barriere architettoniche, deve
considerarsi indispensabile ai fini della accessibilità e abitabilità
dell’appartamento.
È il chiarimento reso dal TRIBUNALE di Roma, Sez. V civile, con la
sentenza
30.12.2022 n. 19186.
---------------
SENTENZA
La domanda merita accoglimento.
Il presente giudizio ha ad oggetto l’accertamento del diritto dell’attore,
in quanto condòmino, peraltro affetto da gravi patologie che ne impediscono
la deambulazione, all’installazione (sulla facciata esterna dell’edificio
condominiale di via … n. … in Roma) di un elevatore, diritto già in passato
negato dall’assemblea dei condòmini.
Sul punto deve subito osservarsi come l’assemblea di condominio abbia
certamente il potere di decidere, nell’interesse collettivo, le modalità
concrete di utilizzazione dei beni comuni, nella specie ai fini di
autorizzare l’installazione di un ascensore in area condominiale, come anche
quello di modificare –revocando una o più precedenti delibere, benché non
impugnate da alcuno dei partecipanti, e stabilendone liberamente gli
effetti– quelle in atto, ove intenda rivalutare la corrispondenza
dell’innovazione ai limiti segnati dagli artt. 1120 e 1121 c.c. Non ha,
tuttavia, il potere di impedire tale installazione laddove essa non comporti
il superamento i limiti imposti dalla coesistenza di beni comuni e sia in
ogni caso volta ad eliminare le barriere architettoniche presenti
nell’edificio.
In particolare, l’installazione di un ascensore su parte di aree
condominiali, diretta ad eliminare le barriere architettoniche, ai sensi
della L. 02.01.1989, n. 13, art. 2 può essere approvata dall’assemblea con
la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 2, oppure, nel caso in
cui il condominio rifiuti di adottare la relativa delibera, essere
realizzata dai condòmini richiedenti, a proprie spese e con l’osservanza dei
limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c.
Alla eventuale “autorizzazione” concessa dall’assemblea ad apportare
tale modifica su iniziativa dei soli condòmini richiedenti e sulla base di
uno specifico progetto può, quindi, attribuirsi il valore di mero
riconoscimento dell’attuale inesistenza di un contrario interesse o di
concrete (e legittime) pretese da parte degli altri condòmini a questo tipo
di utilizzazione delle parti comuni.
Una tale delibera autorizzativa della realizzazione dell’impianto, pur
vincolante nei confronti di tutti i condòmini (art. 1137 c.c., comma 1), non
può ritenersi, perciò, simmetricamente produttiva di un autonomo diritto già
spettante ai condòmini (rimanendo, peraltro, detta delibera revocabile dalla
medesima assemblea sulla base di una rivalutazione di dati ed apprezzamenti
obiettivamente rivolti alla realizzazione degli interessi comuni ed alla
buona gestione dell’amministrazione; sarebbe del resto precluso al giudice
un sindacato nel merito circa l’uso, da parte dell’assemblea dei condòmini,
di detta facoltà di nuovo apprezzamento, se non nei limiti consentiti
dall’indagine per l’accertamento dell’eccesso di potere, e cioè di un grave
pregiudizio, in tal senso, cfr. Cass. civ., Sez. II, 04.02.2021, n. 2636)
Come chiarito dall’ormai consolidata giurisprudenza, anche di legittimità,
quindi, l’installazione di un ascensore, o di un impianto avente analoga
funzione, può avvenire per iniziativa assembleare (con imputazione
dell’opera all’intera collettività, anche con riferimento alla ripartizione
di costi) o anche di uno o più condòmini: in questo caso con attribuzione
dell’opera e dei relativi costi ai soli condòmini “promotori” e nel
rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c. quanto all’utilizzo di parti
comuni per la realizzazione dei manufatti (Cass. n. 24006/2004).
Orbene, le innovazioni che incidano sulla cosa comune (tra cui rientra anche
l’installazione di un ascensore che apporti modifiche alle parti
condominiali), richiedono, di regola, ai sensi dell’art. 1120 c.c. la
maggioranza qualificata, ove comportino una spesa da ripartire fra tutti i
condòmini su base millesimale; qualora invece (come nella specie) non debba
farsi luogo ad un riparto di spesa, trova applicazione la norma di cui
all’art. 1102 c.c. E’, infatti, evidente come le modificazioni eseguibili
sulla cosa comune in forza dell’art. 1102 c.c. possano costituire anche
un’innovazione ex art. 1120 c.c.; in tal caso esse sono consentite anche al
singolo condòmino, o ad un gruppo di condòmini, se:
1) non alterino la destinazione della cosa e non ne impediscano il
pari uso agli altri partecipanti al condominio;
2) rispettino il disposto di cui all’art. 1120, ultimo comma, c.c.,
perché detta norma (nel vietare le innovazioni che possano recare
pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato ovvero ne
alterino il decoro architettonico o rendano talune parti dell’edificio
inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condòmino) ha portata
generale ed è collocata nell’articolo in esame al fine di rendere evidente
che essa costituisce un limite invalicabile anche per la maggioranza dei
condòmini.
Nel caso in esame, l’opera proposta dal condòmino consiste in un elevatore
(modello Ecovimec Heavy Load), il quale, tenuto conto della grave
compromissione della capacità deambulatoria dell’attore, risulta essere
–come anche confermato dal CTU nel presente giudizio- l’unico modello
realizzabile per consentire l’ingresso su un lato della cabina e l’uscita
sul lato opposto, eliminando le barriere architettoniche costituite dalla
scalinata che conduce dalla strada al piano di ingresso su via …. .
Come emerso dalla CTU, le cui risultanze devono ritenersi pienamente
condivisibili, anche per il rigore metodologico che la caratterizza,
l’elevatore, pur incidendo sulla corte comune e sul prospetto anteriore
dell’edificio, non muta la destinazione d’uso dei beni comuni: nel primo
caso (corte), l’ascensore non occlude direttamente le vedute e le luci dei
varchi di ingresso dei negozi, i quali non vedranno invasa la loro proprietà
privata, essendo la corte esterna ad essi di uso comune.
Nel secondo caso (prospetto edificio) il vano corsa non impedisce né limita
le vedute delle finestre degli appartamenti privati e non comporta alcun
pregiudizio relativo all’illuminazione del vano scala posto che, sotto tale
profilo, il progetto prevede un vano corsa interamente vetrato, proprio per
consentire alla luce solare di penetrare all’interno del vano scala e non
limitare eccessivamente le vedute dall’interno del vano scala. Le funzioni
originariamente svolte dalle finestre, dunque, non vengono mutate dall’opera
de qua, essendo la torre dell’ascensore completamente trasparente.
Né, tanto meno, si ravvisano altri elementi che possano indurre a ritenere
che vi sia un pregiudizio per la staticità dell’edificio: trattasi, infatti,
di struttura in metallo che, benché ancorata all’edificio, è “autoportante”
e contiene un ascensore che grava sulle fondazioni della torre metallica,
senza alcun aggravio di peso alla struttura dell’edificio.
Neppure può dirsi, inoltre, sotto un più ampio profilo di “destinazione”
della facciata, rilevante anche nell’ipotesi di suo utilizzo ex art. 1102
c.c., che la realizzazione dell’impianto venga a ledere il decoro
architettonico dell’edificio. Come è dato, infatti, apprezzare dalle
fotografie versate in atti, lo stabile non presenta particolari pregi
architettonici, né rivela specifica ricerca di euritmia di linee, donde
l’inserimento di una struttura in vetro non comporta un pregiudizio estetico
ovvero un’alterazione delle linee dello stabile suscettibili di
apprezzamento oggettivo.
Peraltro, nell’ottica del contemperamento degli opposti interessi, anche
laddove vi fosse un interesse estetico, esso sarebbe sicuramente recessivo
rispetto alla tutela del diritto alla salute, in quanto, nel caso di specie,
tenuto conto delle condizioni personali dell’attore, la realizzazione
dell’ascensore risulta essere necessaria al fine di garantire il rispetto
della dignità umana e del principio di non discriminazione, di tal ché
bisognerebbe, comunque, ritenere tollerabile una minima compromissione
dell’integrità del decoro architettonico.
Per tali ragioni, in accoglimento della domanda attorea, deve ritenersi
accertato il diritto dell’attore di procedere, senza alcuna preventiva
autorizzazione assembleare, all’installazione dell’elevatore con le
caratteristiche e secondo le modalità meglio specificate nella c.t.u. alla
quale si rinvia (tenuto conto che:
1) il nuovo progetto “garantisce la totale accessibilità
all’edificio” da parte dell’attore “sin dal piano strada”;
2) “le linee architettoniche prescelte sono più coerenti con la
linearità dell’edificio esistente”;
3) “la nuova struttura non interferirà con quella dell’edificio
e ciò eviterà di dovere eseguire delle verifiche e degli eventuali
adeguamenti sismici su di esso”). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Per l’ascensore l’iter è facilitato. È ammessa l’installazione
senza via libera dall’assemblea. Una pronuncia della Cassazione conferma la
liberalizzazione dell’uso delle parti comuni.
I condomini interessati possono installare a proprie spese e senza
l'autorizzazione assembleare l'impianto di ascensore nell'edificio che ne
sia privo, anche se quest'ultimo non rispetta le misure minime previste
dalla normativa sull'abbattimento delle barriere architettoniche e anche se
ne deriva un disagio minimo nell'utilizzo delle scale.
Questo quanto deciso dalla II Sez, civile della Corte di Cassazione, nella
recente
ordinanza 14.06.2022 n. 19087, che rappresenta, per così dire,
l'ultima frontiera in tema di liberalizzazione dell'uso delle parti comuni
per la costruzione di un impianto di ascensore senza il via libera
dell'assemblea condominiale.
Il caso. Alcuni
condomini avevano agito in giudizio per sentire accertare il proprio diritto
a installare a proprie spese un ascensore all'interno dell'edificio,
realizzato nell'anno 1960, che ne era sprovvisto. Questi ultimi intendevano
utilizzare allo scopo una parte delle aree comuni, ossia la tromba delle
scale e una piccola porzione degli scalini, che avrebbero dovuto essere
occupati con il vano dell'impianto.
Si erano costituiti in giudizio gli altri condomini, eccependo che
l'edificio difettava di uno spazio idoneo ad alloggiare l'ascensore
all'interno del vano scala, poiché non vi era la tromba delle scale. I
medesimi inoltre avevano rilevato che, a fronte di una larghezza delle scale
di 1,20 metri, con il taglio parziale dei gradini si sarebbe realizzata una
ulteriore riduzione dello spazio utile a deambulare.
Era stato poi anche contestato il fatto che la cabina dell'ascensore avrebbe
dovuto avere una profondità minima di 1,20 metri e una larghezza minima di
0,80 metri, ai sensi della legge n. 13/1989 e del dm n. 236/1989, dimensioni
che non sarebbero state rispettate dall'opera avuta in mente dai condomini
attori.
Infine, era stato eccepito che l'installazione dell'ascensore avrebbe
gravemente compromesso l'uso delle scale e della cabina a uno dei condomini,
in ragione della sua grossa corporatura.
Nel corso del giudizio era stata effettuata una consulenza tecnica d'ufficio
sulle modalità di realizzazione dell'impianto e a seguito di essa il
tribunale aveva autorizzato la realizzazione dell'impianto. La sentenza era
stata confermata in appello.
L'evoluzione della giurisprudenza di legittimità.
I giudici di legittimità negli ultimi anni si sono pronunciati sempre più
spesso in merito all'installazione dell'impianto di ascensore con utilizzo
delle parti comuni e, facendo leva sul disposto di cui all'art. 1102 c.c.,
sono giunti a inquadrare detto intervento come indispensabile ai fini
dell'accessibilità dell'immobile e della reale ed effettiva abitabilità del
medesimo.
Con sentenza n. 20713/2017 è stato così precisato che l'installazione
dell'ascensore nell'edificio che ne sia privo può essere effettuata anche da
una parte dei condomini, a condizione che gli stessi ne sopportino per
intero la relativa spesa. Tuttavia, gli altri condomini, ove in prosieguo
intendano utilizzarlo a loro volta, saranno legittimati a farlo, ma saranno
tenuti a rifondere ai primi una quota delle spese sostenute, opportunamente
rivalutata, divenendo così a loro volta comproprietari dell'impianto.
Con sentenza n. 7938/2017 è stato quindi ribadito come il tema
dell'accessibilità degli edifici e dell'eliminazione delle barriere
architettoniche costituisce espressione di un principio di solidarietà
sociale e persegue finalità di carattere pubblicistico. Detto principio
implica il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi
anche quello delle persone disabili all'eliminazione delle barriere
architettoniche, trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde
dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici e che
conferisce comunque legittimità all'intervento innovativo, purché lo stesso
sia idoneo, anche se non a eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare le
condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione (si
vedano anche le decisioni nn. 6129/2017 e 18334/2012).
Del resto, nei casi in cui non debba procedersi a una ripartizione tra tutti
i condomini della spesa di installazione dell'impianto, trova in ogni caso
applicazione il ricordato art. 1102 c.c., in forza del quale ciascun
partecipante può servirsi del bene comune, a condizione che non ne alteri la
destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso,
apportandovi quindi a proprie spese le modificazioni necessarie per il suo
miglior godimento (si vedano le decisioni nn. 16815/2022, 4439/2020,
25872/2010 e 24006/2004).
L'ultima decisione della Suprema corte.
La Suprema corte, nel dare continuità all'orientamento teso a facilitare
l'installazione degli impianti di ascensore negli edifici che ne siano
privi, si è occupata in questo caso proprio di contemperare gli opposti
interessi dei condomini favorevoli alla realizzazione dell'impianto e di
quelli che, viceversa, si lamentavano delle ricadute di tale intervento
sulla fruibilità delle parti comuni.
La larghezza delle scale si sarebbe, infatti, ridotta a 77 centimetri, al
netto del corrimano, per tutte le rampe, e addirittura a 74 centimetri per
la prima rampa, così impedendo il passaggio contemporaneo di due persone e
il passaggio orizzontale di una barella, in spregio alla obbligatorietà
della larghezza minima delle scale comuni di almeno 120 centimetri.
I condomini contrari all'intervento avevano anche obiettato che l'ascensore
avrebbe avuto una cabina di soli 58 centimetri, contro la prescrizione
normativa minima di 80 centimetri, con la conseguenza che il relativo uso
sarebbe stato limitato alle persone normodotate e di medio-piccola
corporatura, dovendosi tra l'altro rilevare che, come riportato dal
consulente tecnico d'ufficio, all'interno della cabina avrebbe potuto
accedere solo un portatore di handicap in grado di alzarsi dalla carrozzina,
ma non certamente anche la carrozzina stessa.
La Cassazione si è quindi richiamata alle valutazioni di merito condotte dai
giudici di appello. Nel caso di specie è evidente che era di fatto
impossibile contemperare gli opposti interessi, poiché, a fronte
dell'installazione di un ascensore, sia pure di dimensioni estremamente
ridotte e non in grado di rimuovere in modo completo le barriere
architettoniche, sarebbe stato indispensabile ridurre sensibilmente la
larghezza delle scale, e viceversa, ove si fosse inteso conservare quest'ultima,
sarebbe stato inevitabile rinunciare all'impianto. Che fare?
Secondo i giudici di merito, considerate le abitudini di vita e le esigenze
degli abitanti delle grandi città, nonché le attuali caratteristiche della
popolazione italiana, composta in misura di gran lunga prevalente da persone
non giovani, il sacrificio minore si sarebbe realizzato proprio incidendo
sulla larghezza delle scale.
A orientare nel senso della prevalenza del vantaggio connesso
all'installazione dell'ascensore erano poi state le fotografie dell'edificio
gemello a quello in cui abitavano i contendenti, nel quale era stato già
installato un impianto di ascensore identico a quello di cui al progetto,
ricavandosi da tali riproduzioni fotografiche che la posizione del vano
ascensore avrebbe implicato un disagio veramente minimo nell'uso quotidiano
della scala, tanto che una persona di corporatura media avrebbe potuto
affrontarle con normale facilità, pur rimanendo precluso il contemporaneo
passaggio di due persone, con la conseguenza che la limitata lunghezza delle
rampe e le buone condizioni di luminosità, anche in presenza dell'ascensore,
avrebbero ridotto al minimo il disagio che la riduzione dei gradini avrebbe
comportato.
La Suprema corte a questo proposito ha ricordato come il concetto di
inservibilità del bene comune non può consistere nel semplice disagio subito
rispetto alla sua normale utilizzazione, coessenziale al concetto di
innovazione di cui all'art. 1120 c.c., ma è costituito dalla sua concreta
inutilizzabilità.
I giudici di legittimità hanno infine chiarito che le prescrizioni di cui
alla legge n. 13/1989 si applicano, conformemente al principio di
irretroattività, ai soli edifici realizzati successivamente all'entrata in
vigore della normativa. In ogni caso le stesse sono derogabili, seppure
entro i ristretti limiti consentiti.
Infatti, in tema di accessibilità degli edifici e di eliminazione delle
barriere architettoniche, le prescrizioni tecniche dettate dall'art. 8 del
dm n. 236/1989, in ordine alla larghezza minima delle rampe delle scale,
possono essere derogate mediante scrittura privata (articolo ItaliaOggi
Sette del 04.07.2022).
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Il principio
In tema di condominio negli edifici,
nell’identificazione del limite all’immutazione della cosa comune,
disciplinato dall’art. 1120 c.c.), il concetto di inservibilità della stessa
non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale
utilizzazione, coessenziale al concetto di innovazione, ma è costituito
dalla sua concreta inutilizzabilità, secondo la sua naturale fruibilità.
Inoltre, in tema di accessibilità degli edifici e di eliminazione delle
barriere architettoniche, le prescrizioni tecniche dettate dall’art. 8 del
dm 236/1989, in ordine alla larghezza minima delle rampe delle scale,
possono essere derogate mediante scrittura privata, poiché l’art. 7 del
medesimo decreto consente, in sede di progetto, di adottare soluzioni
alternative alle suddette specificazioni e soluzioni tecniche, purché
rispondenti alle esigenze sottintese dai criteri di progettazione
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CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: L’installazione
di un ascensore all’interno di un cortile condominiale è qualificabile in
termini di “innovazione” in quanto, in violazione di quanto previsto dall’art. 1102 c.c.,
determina una modifica strutturale del cortile medesimo rispetto alla sua
primitiva configurazione, risultandone nel contempo alterata la sua naturale
funzione e destinazione comune, che è quella di dare luce ed aria alle unità
immobiliari che compongono l’edificio.
Sicché, la decisione di assoggettare il cortile condominiale a siffatta
“innovazione” deve essere assunta, necessariamente, dal
Condominio, sia pure con le maggioranze di cui all’art. 2, comma 1, l. n.
13/1989 (nel testo modificato dall'articolo 27, comma 1, della Legge 11.12.2012 n. 220 e successivamente dall'articolo 10, comma 3, lettera a),
del D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge
11.09.2020, n. 120) a norma del quale:
«1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli
edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui
all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed
all'articolo 1, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27.04.1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei
ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del
condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste
dal secondo comma dell' articolo 1120 del codice civile. Le innovazioni di
cui al presente comma non sono considerate in alcun caso di carattere
voluttuario ai sensi dell'articolo 1121, primo comma, del codice civile. Per
la loro realizzazione resta fermo unicamente il divieto di innovazioni che
possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato,
di cui al quarto comma dell'articolo 1120 del codice civile».
In proposito, l’art. 1120, comma II, del codice civile prevede che:
«[II]. I condòmini, con la maggioranza indicata dal secondo comma
dell'articolo 1136, possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della
normativa di settore, hanno ad oggetto:
1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità
degli edifici e degli impianti;
2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere
architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e
per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o
dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di
impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da
parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto
reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea
superficie comune;
3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione
radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso
informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino
alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non
comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune
e di impedire agli altri condòmini di farne uso secondo il loro diritto».
In assenza di siffatta delibera condominiale, giusta il disposto di cui al
secondo comma del citato art. 2 L. n. 13/1989, i condòmini interessati
all’adozione di strumenti di superamento delle cd. barriere architettoniche
sono, dunque, legittimati esclusivamente ad «installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili» o «modificare
l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso
agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages».
In altri termini, per come del resto ribadito dall’art. 10, comma 3, del DL
n. 76/2020, ciascun partecipante alla comunione o al condominio può sì
realizzare a proprie spese ogni opera di cui agli articoli 2 della legge 09.01.1989, n. 13, e 119 del decreto-legge 19.05.2020, n. 34, anche
servendosi della cosa comune ma pur sempre “nel rispetto dei limiti di cui
all'articolo 1102 del codice civile” e, quindi, laddove siffatti limiti non
vengano rispettati –come nel caso in esame- e ci si trovi dinnanzi ad una
“innovazione”, deve necessariamente intervenire una delibera assembleare.
Le disposizioni sopra citate sono, peraltro, conferma nel disposto di
cui all’art. 78 D.P.R. n. 380/2001, secondo cui:
«1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli
edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui
all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed
all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996,
n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di
dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi
all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del
condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall'articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre
mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1,
i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di
cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a
proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e
possono anche modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di
rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse».
---------------
... per l'annullamento,
previa sospensione dell’efficacia
quanto al ricorso n. 9236 del 2020:
- dell’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del 25.07.2020
protocollo n. 30888, notificata a mezzo pec in pari data avente ad oggetto
l’installazione di un ascensore per il superamento delle Barriere
Architettoniche nel cortile condominiale del fabbricato in Roma via
-OMISSIS-;
- di ogni altro atto presupposto preparatorio, connesso e consequenziale con
quello impugnato e, in particolare, per quanto occorrer possa,
dell’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, del 22.06.2020, prot. n. 26449;
nonché per la condanna al rilascio di provvedimento di autorizzazione ex
art. 21 D.Lgs. 42/2004, emendato dalle prescrizioni illegittime impugnate,
in conformità all'istanza ed al progetto in atti, come in narrativa;
quanto al ricorso n. 9622 del 2020:
- dell'autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del 25.07.2020, prot.
n. 30888 avente ad oggetto l’installazione di ascensore per il superamento
delle Barriere Architettoniche nel cortile condominiale del fabbricato in
Roma, via -OMISSIS-;
- dell'autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza
Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, del 22.06.2020, prot. n. 26449
...
Con ricorso notificato in data 22.10.2020 e depositato in data
11.11.2020, i ricorrenti -OMISSIS-., in qualità di condòmini del fabbricato multiscale (Scala “A” e Scala “B”), sito in Roma, via -OMISSIS-, censito
al -OMISSIS-, risalente al 1700 e sottoposto a vincolo culturale diretto ex
L. n. 1089/1939 e D.M. del 10.07.1957, hanno impugnato il provvedimento prot.
n. 30888 del 25.07.2020, con cui la Soprintendenza Speciale Archeologia
Belle Arti e Paesaggio di Roma -in adesione all’istanza ex art. 21 D.lgs.
n. 42/2004, presentata in data 07.11.2018 al prot. n. 28749 e,
successivamente, integrata- ha autorizzato il richiedente condòmino arch.
-OMISSIS- all’installazione, nel cortile condominiale del fabbricato in
parola, di un ascensore per il superamento delle Barriere Architettoniche a
condizione, per quanto di interesse, che:
a) l’ascensore venga realizzato solamente fino al quinto piano, escludendo
lo sbarco al piano delle terrazze;
b) sia garantito il distacco minimo dell’ascensore e dei pianerottoli dalle
finestre che affacciano sulla corte interna.
I ricorrenti hanno, altresì, impugnato anche la precedente autorizzazione
del 22.06.2020, prot. n. 26449 -pur ritenendola superata da quella prot.
n. 30888 del 25.07.2020– con cui la Soprintendenza aveva imposto quale
unica condizione che venisse garantito il distacco minimo dell’ascensore e
dei pianerottoli dalle finestre che affacciano sulla corte interna.
A sostegno del gravame, affidato a plurimi motivi di diritto (“I. VIOLAZIONE
E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 7 DELLA LEGGE 241/1990, DELL’ART. 5
DELLA LEGGE 09.01.1989, N. 13 E DELL’ART. 21 E 22 DEL D.LGS. 42/2004.
ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA. ILLOGICITÀ
DELLA MOTIVAZIONE”;
“II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E
22 DEL D.LGS. 42/2004, DELL’ART. 2 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL
D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI
ISTRUTTORIA, TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, INCOERENZA
DELLA MOTIVAZIONE, IN CONSIDERAZIONE DELLA NON COINCIDENZA SOGGETTIVA TRA
RICHIEDENTE E BENEFICIARI DELL’IMPIANTO, IN CONSIDERAZIONE DELLA VALUTAZIONE
DELL’INTERESSE ALLA REALIZZAZIONE DELL’IMPIANTO SULLA SCORTA DI DOCUMENTI
SANITARI DI UN SOGGETTO DIVERSO DAL RICHIEDENTE ED IN CONSIDERAZIONE DELLA
MANCATA PREVISIONE DELLO SBARCO NEGLI APPARTAMENTI DEI BENEFICIARI
POTENZIALI”;
“III VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 4 DELLA
LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER
ASSENZA DEI PRESUPPOSTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CONTRADDITTORIETÀ”;
“IV)
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. N. 42/2004.
ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E
TRAVISAMENTO DEI FATTI”;
“V. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3
DELLA LEGGE N. 241/1990 PER GENERICITÀ DELLA MOTIVAZIONE. ECCESSO DI POTERE
PER TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA”), i ricorrenti,
sostanzialmente interessati -al pari del sig. Pi., dichiarato invalido- al procedimento avviato in data
07.11.2018 (prot. n. 28749), dall’arch.
-OMISSIS-, hanno dedotto la necessità che la Soprintendenza approvasse il
progetto così come da quest’ultimo presentato e, quindi, senza le condizioni
sopra specificate, in quanto unica soluzione possibile al fine di superare
adeguatamente le barriere architettoniche esistenti presso l’edificio
condominiale.
In particolare, il progetto in questione prevedeva che l’ascensore venisse
realizzato nell’ambito della chiostrina condominiale, in corrispondenza
della Scala “B” (rampa di piani 5, con larghezza di appena 80 cm, tale da
non consentire neanche l'ubicazione di un montascale per le persone anziane
più disagiate), con sbarco sul terrazzo di copertura comune.
In tal modo,
l’impianto in parola, senza alcun modo pregiudicare i valori culturali
sottesi al vincolo imposto sul fabbricato condominiale, sarebbe stato idoneo
a soddisfare le esigenze non solo dei condòmini della Scala “B”, ma anche
dei proprietari degli appartamenti posti ai piani alti della Scala “A”
(rampa di quattro piani, che va restringendosi, in corrispondenza del quinto
piano, fino ad arrivare a cm 70 e conduce, tramite una ulteriore ed impervia
scala a chiocciole al terrazzo condominiale), nella quale non sarebbe
possibile installare alcun impianto ascensore, avendo la stessa valore
artistico e monumentale.
Ad avviso dei ricorrenti, quindi, il posizionamento dell’ascensore nel sito
proposto e la previsione dello sbarco dello stesso sul terrazzo condominiale
costituirebbero condizioni indispensabili per superare le barriere
architettoniche e consentire, quindi, l’accesso alla propria abitazione ai
condòmini proprietari di appartamenti siti ai piani alti della Scala “A”
mediante l’ascensore, tra cui la sig.ra -OMISSIS-.
La previsione progettuale
dello sbarco dell’impianto sul terrazzo, lungi dal costituire un mero quid pluris, finalizzato a recare utilità aggiuntive ed accessorie, si
inserirebbe, in modo organico ed indefettibile nel disegno finalizzato a
risolvere i gravi ed insuperabili disagi costituiti dalla presenza di
autentiche barriere architettoniche per l’intero stabile.
Le condizioni apposte dalla Soprintendenza all’autorizzazione prot. n. 30888
del 25.07.2020, consistenti tanto nell’inibizione del predetto sbarco
quanto nel mantenimento del distacco minimo dell’ascensore e dei
pianerottoli dalle finestre che affacciano sulla corte interna, renderebbero
non fattibile e non utile l’intervento, così di fatto vanificandolo, senza
alcun vantaggio per gli interessi pubblici sottesi al vincolo.
Con atto di intervento ad opponendum depositato in data 19.11.2020, i
condòmini -OMISSIS-, dopo aver rappresentato, in fatto:
a) di aver proposto autonomo ricorso avverso l’autorizzazione oggetto del
presente giudizio (ricorso n. 9622/2020 R.R.);
b) l’inesistenza di una
delibera condominiale che avesse approvato i lavori di installazione
dell’impianto in contestazione, hanno contestato, sotto vari profili, tanto
l’ammissibilità quanto la fondatezza del gravame.
Il -OMISSIS-, costituitosi in giudizio, dopo aver rappresentato di non
essere stato mai informato né coinvolto nel procedimento da cui sono
derivati i provvedimenti oggetto di gravame, ha sotto vari profili dedotto
l’inammissibilità/infondatezza del gravame.
Ciascuna delle parti costituite, con successive memorie difensive e di
replica, corredate da corposa documentazione, ha insistito nelle proprie
ragioni.
Con successivo ricorso notificato in data 19.11.2020 e depositato in data
20.11.2020, assunto al n. 9622/2020 R.R., riunito a quello precedente giusta
ordinanza collegiale n. 7259 del 17.06.2021, i condòmini -OMISSIS-,
-OMISSIS- hanno impugnato tanto l’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata
dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del
25.07.2020, prot. n. 30888, conosciuta in data 10.10.2020, quanto
la precedente Autorizzazione con prescrizioni prot. n. 26449 del 22/06/2020,
rilasciata dalla medesima Soprintendenza e conosciuta in data 22.10.2020.
I condòmini in parola hanno evidenziato, in fatto:
- di non aver partecipato all’iniziativa sostanzialmente assunta, per come
evincibile dagli atti istruttori del procedimento culminato con l’adozione
degli atti impugnati, dai condòmini -OMISSIS-
- di essere contrari a tale installazione, essendo quest’ultima unicamente
diretta ad incrementare il valore del patrimonio immobiliare di alcuni dei
beneficiari (molti dei quali neppure abiterebbero nel fabbricato ed
avrebbero destinato i loro immobili ovvero intenderebbero destinarli a Bed
and Breakfast o affittacamere) a danno degli altri condòmini.
Siffatta
installazione, per come autorizzata dalla Soprintendenza, arrecherebbe serio
pregiudizio al fabbricato perché, essendo ancorato alla parete della
facciata ed alle logge, pregiudicherebbe non soltanto il decoro
architettonico ma anche la staticità dell’edificio, già oggetto alla fine
del 1800 di un intervento di sopraelevazione, scaricando il suo peso sulla
(antica) muratura del piano interrato (sorreggente l’intero fabbricato).
L’ascensore de quo vulnererebbe, inoltre, la sicurezza e l’agibilità di
alcune unità immobiliari, a causa della sottrazione di parte del già piccolo
cortile, privandole dell’aria e della luce ed inoltre precluderebbe ai
ricorrenti sia l’uso futuro della nuova opera, che di installare un altro
ascensore all’interno del cortile condominiale.
Il ricorso in questione risulta affidato ad una pluralità di motivi di
diritto tra cui, il primo, per come appresso rubricato:
- “I. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 7 DELLA LEGGE
241/1990, DELL’ART. 5 DELLA LEGGE 09.01.1989, N. 13 E DELL’ART. 21 E 22
DEL D.LGS. 42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI
ISTRUTTORIA. ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE”.
I provvedimenti autorizzativi oggetto di impugnazione sarebbero illegittimi
per violazione degli artt. 1120, 1121 c.c. e dell’art. 2 della Legge n.
13/1989 in quanto rilasciati dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle
Arti e Paesaggio di Roma ad esclusiva istanza di alcuni condòmini e non
anche previa delibera dell’Assemblea Condominiale, quest’ultima deputata -per come imposto dalla normativa summenzionata e con le maggioranze ivi
previste, trattandosi dell’autorizzazione di vere e proprie “innovazioni”
della cosa comune- ad impegnare la volontà di tutti i partecipanti al
condominio.
Sono stati, altresì, proposti gli ulteriori motivi di gravame appresso
sintetizzati.
- “II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS.
42/2004, DELL’ART. 2 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N.
380/2001. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA,
TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, INCOERENZA DELLA
MOTIVAZIONE, IN CONSIDERAZIONE DELLA NON COINCIDENZA SOGGETTIVA TRA
RICHIEDENTE E BENEFICIARI DELL’IMPIANTO, IN CONSIDERAZIONE DELLA VALUTAZIONE
DELL’INTERESSE ALLA REALIZZAZIONE DELL’IMPIANTO SULLA SCORTA DI DOCUMENTI
SANITARI DI UN SOGGETTO DIVERSO DAL RICHIEDENTE ED IN CONSIDERAZIONE DELLA
MANCATA PREVISIONE DELLO SBARCO NEGLI APPARTAMENTI DEI BENEFICIARI
POTENZIA”;
-
“III. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 4 DELLA LEGGE N.
13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER ASSENZA
DEI PRESUPPOSTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CONTRADDITTORIETÀ”;
- “IV) VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. N.
42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, DIFETTO DI
LEGITTIMAZIONE E TRAVISAMENTO DEI FATTI”;
- “V. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 DELLA LEGGE N. 241/1990
PER GENERICITÀ DELLA MOTIVAZIONE. ECCESSO DI POTERE PER TRAVISAMENTO DEI
FATTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA”;
...
1. Per ragioni di priorità logico-giuridica, ritiene il Collegio di dover
principiare dallo scrutinio del ricorso n. 9622/2020 R.R. il quale è fondato
e, come tale, deve essere accolto.
2. Coglie, più precisamente, nel segno la censura preliminare ed assorbente
rispetto a tutte le altre, secondo cui i provvedimenti autorizzativi oggetto
di gravame sono stati rilasciati dalla Soprintendenza Speciale Archeologia
Belle Arti e Paesaggio di Roma in favore di soggetti non legittimati,
dovendosi ritenere tale esclusivamente il Condominio di Via -OMISSIS- il
quale, per come dallo stesso affermato in seno al ricorso n. 9236/2020 R.R.,
non ha mai deliberato l’installazione dell’impianto in contestazione.
3. L’apprezzamento della carenza di legittimazione a richiedere
l’autorizzazione in parola in capo al sig. -OMISSIS-, così come agli altri
condòmini sostanzialmente intervenuti nel corso del procedimento, passa
dalla preliminare valutazione circa la natura giuridica dell’intervento
edilizio in contestazione, coincidente con l’installazione di un ascensore
all’interno di un cortile condominiale.
Siffatta valutazione, trattandosi di una questione pregiudiziale involgente
diritti soggettivi la cui risoluzione è necessaria per la definizione
dell’odierna res controversa, ben può essere effettuata dal Tribunale,
ancorché senza efficacia di giudicato, secondo quanto espressamente previsto
dall’art. 8, comma 1, c.p.a.
3.1 Orbene l’installazione di un ascensore all’interno di un cortile
condominiale è qualificabile, ad avviso del Collegio, in termini di
“innovazione”, in quanto, in violazione di quanto previsto dall’art. 1102 c.c., determina una modifica strutturale del cortile medesimo rispetto alla
sua primitiva configurazione, risultandone nel contempo alterata la sua
naturale funzione e destinazione comune, che è quella di dare luce ed aria
alle unità immobiliari che compongono l’edificio (cfr. Cassazione civile
sez. II,
21.01.2022 n. 1849; Cassazione civile sez. II,
24.12.2021 n. 41490).
Ebbene, la decisione di assoggettare il cortile condominiale a siffatta
“innovazione” avrebbe dovuto essere assunta, necessariamente, dal
Condominio, sia pure con le maggioranze di cui all’art. 2, comma 1, l. n.
13/1989 (nel testo modificato dall'articolo 27, comma 1, della Legge 11.12.2012 n. 220 e successivamente dall'articolo 10, comma 3, lettera a),
del D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge
11.09.2020, n. 120) a norma del quale:
«1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli
edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui
all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed
all'articolo 1, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27.04.1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei
ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del
condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste
dal secondo comma dell' articolo 1120 del codice civile. Le innovazioni di
cui al presente comma non sono considerate in alcun caso di carattere
voluttuario ai sensi dell'articolo 1121, primo comma, del codice civile. Per
la loro realizzazione resta fermo unicamente il divieto di innovazioni che
possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato,
di cui al quarto comma dell'articolo 1120 del codice civile».
In proposito, l’art. 1120, comma II, del codice civile prevede che:
«[II]. I condòmini, con la maggioranza indicata dal secondo comma
dell'articolo 1136, possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della
normativa di settore, hanno ad oggetto:
1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità
degli edifici e degli impianti;
2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere
architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e
per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o
dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di
impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da
parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto
reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea
superficie comune;
3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione
radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso
informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino
alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non
comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune
e di impedire agli altri condòmini di farne uso secondo il loro diritto».
In assenza di siffatta delibera condominiale, giusta il disposto di cui al
secondo comma del citato art. 2 L. n. 13/1989, i condòmini interessati
all’adozione di strumenti di superamento delle cd. barriere architettoniche
sono, dunque, legittimati esclusivamente ad «installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili» o «modificare
l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso
agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages».
4. In altri termini, per come del resto ribadito dall’art. 10, comma 3, del DL
n. 76/2020, ciascun partecipante alla comunione o al condominio può sì
realizzare a proprie spese ogni opera di cui agli articoli 2 della legge 09.01.1989, n. 13, e 119 del decreto-legge 19.05.2020, n. 34, anche
servendosi della cosa comune ma pur sempre “nel rispetto dei limiti di cui
all'articolo 1102 del codice civile” e, quindi, laddove siffatti limiti non
vengano rispettati –come nel caso in esame- e ci si trovi dinnanzi ad una
“innovazione”, deve necessariamente intervenire una delibera assembleare.
4.1 Le disposizioni sopra citate sono, peraltro, conferma nel disposto di
cui all’art. 78 D.P.R. n. 380/2001, secondo cui:
«1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli
edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui
all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed
all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996,
n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di
dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi
all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del
condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall'articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre
mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1,
i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di
cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a
proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e
possono anche modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di
rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse».
5. L’esegesi della normativa di riferimento sopra trascritta consente,
quindi, di affermare che il Condominio di -OMISSIS- costituiva l’unico
soggetto giuridico abilitato a chiedere alla Soprintendenza, ai sensi
dell’art. 21 D.lgs. n. 42/2004, l’autorizzazione all’installazione
dell’ascensore nel cortile condominiale.
In assenza di siffatta deliberazione, l’Autorità tutoria del vincolo
culturale cui il fabbricato condominiale risulta assoggettato non avrebbe
potuto rilasciare le autorizzazioni oggetto di impugnazione che, per
l’effetto, si appalesano illegittime per difetto di legittimazione dei
richiedenti (cfr. TAR Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, 13/08/2020, n.
138).
6. In conclusione, il ricorso n. 9622/2020 è fondato e, come tale, deve
essere accolto, in adesione alla preliminare ed assorbente censura sopra
scrutinata.
Ne consegue l’annullamento dell'autorizzazione, con prescrizioni, prot. n.
30888, rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e
Paesaggio di Roma in data 25.07.2020 e della precedente autorizzazione
del 22.06.2020, prot. n. 26449.
6.1 Il ricorso n. 9236/2020, in disparte le plurime questioni di
ammissibilità dello stesso sulle quali è possibile soprassedere, è, dunque,
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, avendo ad oggetto
provvedimenti amministrativi di cui è stato disposto l’annullamento per i
motivi sopra indicati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 21.02.2022 n. 2061 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ascensore
esterno, meno vincoli. Impianto anti-barriere a meno di 10 metri dalle
finestre. La giurisprudenza: opere che eliminano ostacoli architettonici
realizzabili in deroga alle norme.
Sì all'ascensore esterno all'edificio da costruire
molto vicino alle finestre degli appartamenti. E ciò perché le opere che
eliminano le barriere architettoniche ben possono essere realizzate in
deroga ai regolamenti e agli atti di normazione primaria, dunque anche
all'art. 9 del dm 1444/1968 che prescrive la «distanza minima assoluta di
dieci metri tra pareti finestrate». Il tutto grazie alla sentenza
costituzionale 251/2008, che ha indicato i problemi dei diversamente abili
come «nodi dell'intera collettività».
È quanto emerge dalla
sentenza 17.07.2019 n. 1659
pubblicata dalla II Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Combinato disposto.
Accolto il ricorso dell'invalido dopo che il dirigente dello sportello unico
per l'edilizia del Comune ha bloccato la Scia per la realizzazione
dell'impianto di sollevamento.
L'anziano, che vive al quarto piano con la
moglie, risulta inabile al lavoro al 35% ed è disponibile a realizzare un servoscala: risulta impossibile portare la cabina al livello del
pianerottolo. Sbaglia l'ente locale quando nega il titolo abilitativo in
deroga alla distanza tra pareti finestrate.
Non c'è dubbio che anche
l'ascensore esterno sia un'opera che abbatte le barriere architettoniche, al
di là del fatto che sia un disabile a servirsene. E dopo l'intervento della
Consulta deve ritenersi che il combinato disposto degli articoli 78 e 79 del
Tu per l'edilizia consenta di realizzare anche l'impianto esterno al di là
delle distanze previste dai regolamenti e pure dall'art. 9 del dm 1444/1968, a
patto che siano rispettate quelle indicate dagli articoli 873 e 907 c.c.
Non
conta che l'ascensore serva un solo piano dell'edificio: si può fare in modo
che l'impianto risulti utile anche ad altri.
Senza discrezionalità.
Possono derogare alle distanze dei regolamenti edilizi non solo gli impianti
tecnologici ma anche i volumi tecnici per favorire la mobilità dei disabili:
sono opere che consentono di superare le barriere architettoniche. Via
libera, dunque, al progetto che prevede sia l'ascensore sia la scala esterni
all'immobile realizzati in deroga alle norme sulle distanze minime tra
fabbricati previste dai regolamenti edilizi.
È quanto emerge dalla
sentenza
27.03.2018 n. 809, pubblicata dalla I Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Bocciato il ricorso del vicino: lecito il piano che prevede la realizzazione
dei manufatti che si trovano a nove metri invece di dieci rispetto alla
costruzione confinante. Parla chiaro il dm 236/1989 all'articolo 2, lettera
A), punti a) e b): sono barriere architettoniche gli ostacoli fisici che
costituiscono fonte di disagio per la mobilità di chiunque e in particolare
per chi ha capacità motoria ridotta o impedita.
L'intervento è realizzato
proprio per adeguare l'edificio di tre piani alla normativa pro disabili:
accanto alla costruzione dell'ascensore e della scala esterna sono demolite
le vecchie scale condominiali interne troppo strette per montare il servoscala. In tal caso è automatica e specifica la deroga alle distanze fra
costruzioni previste dagli strumenti urbanistici, senza la necessità di
valutazioni discrezionali da parte dell'amministrazione.
Ma devono essere
rispettate le distanze ex articoli 873 e 907 Cc. Il confinante non riesce a
dimostrare che vi sarebbero valide alternative al progetto presentato né che
i manufatti costituirebbero un'ingiusta servitù a carico della sua
proprietà: l'art. 79 del Tu dell'edilizia non esclude il principio di
reciprocità nell'applicazione della normativa in deroga al regime sulle
distanze.
Bilanciamento inadeguato.
Il legislatore guarda con favore alle persone che hanno difficoltà a
muoversi. Basta la Scia per realizzare in condominio l'ascensore che serve a
superare le barriere: il permesso di costruire è superfluo perché l'impianto
rappresenta un mero volume tecnico. Il Comune non può bocciare il progetto
dell'ente sul rilievo che non rispetta le dimensioni minime senza verificare
se c'è possibilità di deroga o suggerire alternative.
È quanto emerge dalla
sentenza
11.01.2019 n. 175 del TAR Campania-Napoli, Sez. IV.
Il ricorso del condominio viene accolto
perché risulta insufficiente la motivazione del provvedimento di stop. Da
una parte la Scia è sufficiente in quanto l'ascensore serve ad apportare
un'innovazione allo stabile che non costituisce una costruzione in senso
stretto; dall'altra l'amministrazione viene meno alla necessità di un
bilanciamento fra l'interesse pubblico all'osservanza della normativa di
riferimento e l'interesse del condominio a limitare l'impatto delle barriere
architettoniche.
È lo stesso dm 236/1986, nel dare attuazione alla legge
13/1989, a prescrivere che l'ascensore vada installato negli edifici con più
di tre livelli. E l'articolo 7.5 autorizza il sindaco del Comune a concedere
una deroga quando per motivi strutturali l'impianto non può rispettare gli
standard dimensionali prescritti. Insomma: l'ente deve motivare in modo
rigoroso le condizioni che impediscono l'installazione nel vano scale.
Bene primario.
Il
Comune non può limitarsi a stoppare i lavori se la Scia per l'ascensore a
spese del disabile risulta protocollata da più di un mese: è invece tenuto a
ricorrere all'autotutela perché il titolo deve ritenersi consolidato.
L'autorizzazione al progetto non può essere ostacolata dalle questioni di
natura privatistica poste dai condomini contro la realizzazione
dell'impianto. Anzi, la giurisprudenza della Cassazione richiede «attenzione
civile» nei confronti delle persone con problemi di deambulazione che si
fanno carico delle spese laddove l'elevatore può attenuare la loro
condizione di disagio.
È quanto emerge dalla
sentenza 07.01.2019 n. 9, pubblicata
dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Accolto il ricorso della signora con difficoltà di movimento che abita al
terzo piano e vuole realizzare l'impianto nel pozzo della luce condominiale.
Alcuni proprietari esclusivi lamentano che ne sarebbe compromesso il loro
godimento delle parti comuni dell'edificio perché la cabina può limita la
visibilità e toglie aria al cavedio. Ma sono doglianze da rivolgere al
giudice civile. E in ogni caso è l'inerzia dell'amministrazione che consente
al privato di eseguire l'intervento edilizio in base all'art. 23, comma 6, dpr 380/2001: per un solo giorno di ritardo il provvedimento dell'ente locale
risulta illegittimo.
L'istruttoria degli uffici, poi, è lacunosa: non
emergono elementi secondo i quali l'ascensore può incidere su stabilità e
sicurezza dell'edificio, mentre la relazione tecnica di parte attesta il
contrario. E soprattutto le sentenze di legittimità sono dalla parte delle
opere che agevolano la fruizione del bene primario dell'abitazione da parte
di chi si trova in condizioni di disabilità.
Pregiudizio e serietà.
Il favore del legislatore vuol dire anche meno vincoli. La Soprintendenza
non può bocciare il progetto dell'ascensore esterno che serve alla persona
anziana solo perché la realizzazione dell'impianto in cortile può arrecare
un pregiudizio all'immobile vincolato: la legge contro le barriere
architettoniche impone all'amministrazione di valutare i rischi che corre il
bene tutelato considerando anche la situazione del richiedente, che ha
problemi di mobilità.
È quanto emerge dalla
sentenza
25.09.2018 n. 9557,
Sez. II-quater del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso della signora che chiede di installare l'elevatore nel
cortile di un edificio di pregio nel centro storico della Capitale.
La
vicenda è finita al Consiglio di stato che ha annullato il parere negativo Mibact: in seguito le Belle Arti si dichiarano disponibili a valutare
l'installazione di un montascale invece che dell'ascensore.
Il punto è che
in base al regolamento di attuazione della legge 13/1989 il primo tipo
d'impianto non equivale al secondo: può essere utilizzato come alternativa
solo negli interventi di adeguamento o per superare modeste differenze di
quota. Soprattutto l'amministrazione non effettua alcun bilanciamento degli
interessi: troppo generico il riferimento alle dimensioni del cortile e alle
aperture esistenti, mentre non risulta spesa una parola sulla salute della
richiedente.
Normativa di favore anche per le persone non disabili ma solo anziane con
disagi fisici e difficoltà motorie: l'amministrazione deve verificare la
serietà del pregiudizio all'immobile e l'impatto del progetto rispetto al
fabbricato in relazione alle esigenze di tutela richieste dall'interessata.
Insomma: i vincoli non possono essere superati in automatico ma il Mibac
deve motivare in modo adeguato il diniego
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.08.2019). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ascensore
in cortile, più tutele. Condomino risarcito se l’installazione toglie luce e
aria. La Cassazione su una fattispecie ante riforma
applicabile anche nel nuovo regime.
Il proprietario di un immobile può sempre chiedere il risarcimento del danno
al condominio per l'ascensore installato in cortile se questo toglie aria e
luce al suo appartamento e lo priva dei diritti su una parte comune
dell'edificio. L'azione di risarcimento, infatti, è un'opzione del tutto
autonoma rispetto alla richiesta di demolizione e non è subordinata
all'impugnazione della delibera, dal momento che la decisione che ha
disposto la realizzazione del manufatto è nulla e la sua invalidità può
essere rilevata d'ufficio dal giudice.
È quanto emerge dalla
sentenza 26.09.2018 n. 23076 della
II Sez. civile della Corte di Cassazione che è
intervenuta in una fattispecie anteriore alla riforma del condomino ma che,
in base all'ultimo comma dell'articolo 1120 del cc, trova applicazione anche
nel nuovo regime.
Il caso. Una
signora ha convenuto in giudizio il condominio chiedendo il risarcimento dei
danni subiti a causa della realizzazione di un ascensore nella corte interna
dell'edificio, danno consistente nella riduzione di aria e luce al suo
appartamento posto al piano terra e nell'impedimento all'uso di una
rilevante porzione della corte occupata dalla nuova struttura.
I giudici di
merito hanno respinto la domanda sul presupposto che le delibere che avevano
deciso l'installazione dell'impianto di ascensore non erano state impugnate.
La vertenza è così giunta in Cassazione.
Le motivazioni. I
giudici di legittimità hanno ricordato che l'installazione di un ascensore
su area comune costituisce innovazione che è vietata se rende talune parti
comuni dell'edificio inservibili all'uso e al godimento anche di un solo
condomino, comportandone una sensibile menomazione dell'utilità, secondo
l'originaria costituzione della comunione.
Tale concetto di inservibilità non può consistere nel semplice disagio
subito ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis
secondo la sua naturale fruibilità, ovvero dalla sensibile menomazione
dell'utilità che il condomino precedentemente ricavava dal bene.
Nella
specie, la ricorrente affermava che la realizzazione dell'impianto di
ascensore le aveva impedito di far uso di una rilevante porzione di tale
area comune e le aveva altresì ridotto sensibilmente la luce e l'aria
fruibili dal suo appartamento. La delibera dell'assemblea, pertanto, ha
affermato la Cassazione, avendo leso i diritti individuali del singolo,
doveva essere considerata nulla e non semplicemente annullabile.
L'irrilevanza della preventiva impugnazione.
La nullità di una delibera condominiale comporta che la stessa, a differenza
delle ipotesi di annullabilità, non implichi la necessità di tempestiva
impugnazione nel termine di trenta giorni previsto dall'articolo 1137 del
codice civile.
Una deliberazione nulla non può, pertanto, finché (o perché) non impugnata
nel termine di legge, ritenersi valida ed efficace nei confronti di tutti i
partecipanti. Un conto, infatti, sono le delibere annullabili e un altro le
nulle: nel primo caso l'amministratore è tenuto a darvi attuazione fino a
quando non sono rimosse con l'accoglimento dell'impugnazione; nel secondo
non sorge in capo all'organo di gestione il potere-dovere di eseguire la
decisione e la nullità può essere rilevata d'ufficio dal giudice, come
avviene per i contratti ex articolo 1421 Cc, quando l'invalidità rientra fra
gli elementi costitutivi della domanda su cui bisogna decidere.
L'accertamento dell'invalidità, in sostanza, è pregiudiziale rispetto al
risarcimento soltanto in caso di delibere annullabili ma non vale nei casi
di nullità.
Il principio. La
Suprema corte, alla luce di quanto sopra indicato, ha formulato il principio
di diritto secondo cui la delibera dell'assemblea di condominio, che privi
un singolo partecipante dei propri diritti individuali su una parte comune
dell'edificio, rendendola inservibile all'uso e al godimento dello stesso,
integra un fatto potenzialmente idoneo ad arrecare danno al condomino
medesimo; quest'ultimo, lamentando la nullità della suddetta delibera, ha
perciò la facoltà di chiedere una pronuncia di condanna del condominio al
risarcimento del danno, dovendosi imputare alla collettività condominiale
gli atti compiuti e l'attività svolta in suo nome, nonché le relative
conseguenze patrimoniali sfavorevoli, e rimanendo il singolo condomino
danneggiato distinto dal gruppo ed equiparato a tali effetti a un terzo.
Essendo la nullità della delibera dell'assemblea fatto ostativo
all'insorgere del potere-dovere dell'amministratore di eseguire la stessa,
l'azione risarcitoria del singolo partecipante nei confronti del condominio
è ravvisabile non soltanto come scelta subordinata alla tutela demolitoria
ex articolo 1137 del codice civile, ma anche come opzione del tutto
autonoma.
La rimozione del manufatto che viola la privacy.
L'ascensore esterno al palazzo può «inciampare» però anche nella violazione
della privacy. Infatti una struttura realizzata davanti alle finestre di un
appartamento va rimossa se limita la proprietà immobiliare di un altro
condomino quanto a soleggiamento, aerazione e, soprattutto, riservatezza.
Ad affermarlo anche questa volta è stata la Corte di Cassazione con la sentenza 23.10.2017 n. 24972 che ha respinto il ricorso di una donna chiamata in
giudizio dalla proprietaria dell'appartamento sottostante per aver
realizzato un ascensore esterno al fabbricato.
La limitazione della proprietà.
Secondo i giudici di legittimità l'installazione dell'ascensore aveva
prodotto una grave limitazione della proprietà della ricorrente, costretta a
tenere spesso le finestre chiuse per non subire «intrusioni visive».
Inoltre
la scomparsa del coniuge della controparte, portatore di handicap motorio,
aveva determinato l'inesistenza di quella «situazione esistenziale» che si
voleva porre a fondamento della legittimità dell'installazione
dell'ascensore.
Né migliore fortuna poteva avere la circostanza che in precedenza era stata
piantata nello stesso luogo una siepe, dal momento che, ha concluso la
Cassazione, l'aver piantato una siepe è cosa ben diversa dalla realizzazione
di un ascensore.
Stop all'ascensore che ostacola i traslochi.
È da annullare inoltre la delibera condominiale che approva i lavori di
installazione di un ascensore nel palazzo se l'opera impedisce anche a un
solo condomino i trasporti di mobili o un trasloco.
L'impianto sicuramente aumenta la comodità d'uso e valorizza l'immobile ma
non si può realizzare quando riduce l'utilità ricavata dal singolo
proprietario.
A stabilirlo è stato il Tribunale di Roma con la sentenza
n. 379/2018 della V Sez. civile secondo il quale non esiste un diritto
assoluto a costruire l'ascensore.
Una compromissione ingiustificata.
Per stabilire che l'opera non era fattibile è bastata una perizia che ha
accertato l'esistenza di spazi angusti una volta realizzata l'opera.
Nel
caso in esame le scale dell'edificio avevano un andamento circolare e il
progetto ne riduceva la larghezza a soli ottanta centimetri.
In questo modo uno dei condomini sarebbe stato «prigioniero» in casa, senza
la possibilità di farsi consegnare un frigorifero o un letto nuovo e,
dunque, il progetto va rifatto perché compromette in modo eccessivo e non
giustificabile il diritto del singolo proprietario esclusivo, anche se
l'installazione dell'impianto ben può comportare alcune limitazioni sulle
parti comuni del palazzo.
Gli interventi consentiti a spese di uno solo.
Non tutte le installazioni degli ascensori sono però contrarie alla legge o
necessitano del consenso della maggioranza condominiale.
Non può infatti
essere demolito il vano ascensore realizzato in cortile a spese di un solo
proprietario, senza il consenso degli altri, quando l'opera non pregiudica i
diritti di godimento altrui sulle parti comuni.
A stabilirlo è stata la
Corte di Cassazione con la sentenza 12.10.2017 n. 23995
(articolo ItaliaOggi Sette del 08.10.2018). |
CONDOMINIO: Ascensore,
spese divise tra tutti. Inclusi nel riparto anche negozi e locali del piano
terra. Una pronuncia della Cassazione in merito al rifacimento dell’impianto
condominiale.
Anche i proprietari dei negozi o dei locali siti al
piano terra con accesso diretto dalla strada sono tenuti a concorrere nelle
spese di manutenzione straordinaria o di sostituzione dell'impianto di
ascensore.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
12.09.2018 n. 22157.
Il caso concreto.
Nella specie una condomina proprietaria di alcuni locali posti al piano
terra e con accesso dalla pubblica via si era rifiutata di sostenere la
quota di spese condominiali richiestale in occasione del rifacimento
dell'impianto di ascensore. La stessa era quindi stata raggiunta da un
decreto ingiuntivo ottenuto dall'amministratore, verso il quale aveva
spiegato opposizione.
La condomina, richiamato il contenuto del regolamento
condominiale (di natura contrattuale), il quale prevedeva l'appartenenza
dell'impianto di ascensore in comproprietà pro indiviso e indivisibile a
tutti i proprietari di unità immobiliari, ponendo a loro carico in
proporzione dei rispettivi valori delle singole porzioni le spese per il
rinnovamento o la manutenzione straordinaria, ed esonerando viceversa dalla
contribuzione nelle spese ordinarie e di esercizio i condomini che non
potessero servirsene, riteneva infatti che dal medesimo non si potesse
desumere l'obbligo di partecipazione alle spese anche di quei condomini
proprietari di soli locali aventi accesso dalla strada pubblica.
In primo
grado l'opposizione era stata accolta, ma la sentenza era stata prontamente
appellata dal condominio, il quale era invece risultato vincitore nel
giudizio di secondo grado. La Corte di appello, infatti, aveva ritenuto
legittima la ripartizione delle spese deliberata dall'assemblea per i lavori
di sostituzione dell'impianto e che aveva incluso fra i debitori anche la condomina opponente. Quest'ultima aveva quindi deciso di impugnare la
sentenza di secondo grado dinanzi alla Corte di cassazione.
La decisione della Suprema corte.
I giudici di legittimità, nel respingere il ricorso in questione,
confermando quindi il riparto delle spese operato dal condominio, hanno
quindi avuto modo di chiarire meglio quali siano i criteri che presiedono
alla suddivisione dei costi degli interventi sull'impianto di ascensore.
Già prima della riformulazione dell'art. 1124 c.c. a opera della legge n.
220/2012 di riforma del condominio la giurisprudenza aveva chiaramente
distinto l'ipotesi dell'installazione ex novo di un impianto di ascensore
nell'edificio che ne fosse privo da quella della manutenzione straordinaria
e/o della sostituzione del medesimo. Mentre nella prima ipotesi la relativa
spesa andava suddivisa secondo il tradizionale criterio di cui all'art. 1123 c.c., ovvero proporzionalmente al valore dei millesimi di proprietà di
ciascun condomino, nel secondo caso essa andava ripartita secondo il
criterio indicato dall'art. 1124 c.c. per la manutenzione straordinaria
delle scale.
Ora, come si diceva, detta conclusione è stata per così dire
ratificata dal legislatore, poiché il nuovo art. 1124 c.c. fin dalla sua
rubrica chiarisce che la disposizione si applica sia alle scale che agli
ascensori. La disposizione in questione contiene quindi una deroga al
criterio generale di riparto di cui all'art. 1123 c.c., poiché dispone che
la relativa spesa debba essere ripartita per metà in base ai millesimi di
proprietà e per l'altra metà esclusivamente in ragione dell'altezza di
ciascun piano dal suolo.
La medesima disposizione chiarisce che ove
l'edificio condominiale sia composto da più scale e impianti di ascensore,
gli stessi debbano essere mantenuti soltanto dai condomini al servizio dei
quali gli stessi sono stati previsti. L'art. 1124 c.c., inoltre, dispone
espressamente che per piano debbano intendersi anche le cantine, o palchi
morti, le soffitte o camere a tetto e i lastrici solari, ovviamente quando
gli stessi non siano di proprietà comune.
Nell'ordinanza in questione viene evidenziato come l'impianto di ascensore
debba quindi essere accomunato, per identità di funzione, alle scale, in
quanto anch'esso mezzo indispensabile per accedere al tetto e al terrazzo di
copertura (come anticipato, detta parificazione è ora anche di tipo
normativo).
Trattasi infatti di parte indiscutibilmente comune, tanto è vero
che l'art. 1117 c.c. annovera espressamente detto impianto fra i beni e i
servizi che si presumono comuni a tutti i condomini, salvo risulti
diversamente dal titolo. Di conseguenza l'ascensore appartiene in
comproprietà anche ai condomini proprietari di negozi o locali posti al
piano terreno e con accesso dalla via pubblica, poiché anche essi ne
fruiscono, «quanto meno», si legge nell'ordinanza, «in ordine alla
conservazione e manutenzione della copertura dell'edificio».
Ne discende che
anche i predetti condomini devono concorrere alle spese di manutenzione
straordinaria e/o sostituzione dell'impianto in rapporto e in proporzione
all'utilità che possono in ipotesi trarne, salvo esista un titolo contrario.
Come si è ripetuto più volte, la regola di cui sopra può essere derogata da
un titolo contrario. «Come tutti i criteri legali di ripartizione delle
spese condominiali», si legge nell'ordinanza in questione, «anche quello di
ripartizione delle spese di manutenzione e sostituzione degli ascensori può
essere derogato, ma la relativa convenzione modificatrice della disciplina
legale deve essere contenuta o nel regolamento condominiale (che perciò si
definisce di natura contrattuale) o in una deliberazione dell'assemblea che
venga approvata all'unanimità, ovvero con il consenso di tutti i condomini».
Per questo motivo i giudici di legittimità hanno ritenuto corretta la
decisione della corte di appello, la quale aveva valutato che nel
regolamento condominiale in questione non vi era alcuna disposizione
derogatoria del regime legale di ripartizione delle spese dell'impianto di
ascensore.
In altri termini, secondo la sesta sezione civile della
Cassazione, nella specie la ricorrente era caduta in una sorta di errore di
prospettiva, contestando che nel regolamento non vi fosse una disposizione
sulla quale si potesse fondare il proprio obbligo di contribuzione alle
spese, laddove quest'ultimo, come visto, discende direttamente dalla legge e
il regolamento può se mai disporre una deroga, circostanza che comunque non
ricorreva nel caso concreto.
L'opposizione al decreto ingiuntivo condominiale.
Visto che nella specie si trattava di un procedimento di opposizione al
decreto ingiuntivo ottenuto dal condominio verso un comproprietario in mora
nel pagamento delle spese comuni, i giudici di legittimità hanno avuto anche
il modo di ribadire alcuni principi validi in questo tipo di contenzioso in
rapporto alla perdurante efficacia della delibera condominiale sulla quale
si fondi l'obbligo impositivo e che non sia stata nel frattempo
giudizialmente sospesa.
In detto giudizio, infatti, il condomino che contesti l'ordine giudiziale di
pagamento non può far utilmente valere questioni attinenti alla mera
annullabilità della delibera assembleare di ripartizione della spesa.
«Tale
delibera», spiega la Cassazione, «costituisce infatti titolo sufficiente del
credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto
ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme nel
processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è
dunque ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della
deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del
relativo onere».
Un diverso comportamento da parte del giudice
dell'opposizione è dunque ammissibile soltanto ove si dia la prova che
l'efficacia della predetta deliberazione sia stata giudizialmente sospesa o
che la stessa sia stata addirittura annullata.
La VI Sez. civile della Suprema corte ha tuttavia a sua volta ribadito
il recente orientamento di legittimità per cui, fermo quanto sopra, il
giudice dell'opposizione può rilevare, anche d'ufficio, eventuali vizi di
legittimità della sottostante delibera assembleare ove gli stessi ne
implichino la nullità e non la semplice annullabilità, trattandosi
dell'applicazione di atti la cui validità rappresenta un elemento
costitutivo della domanda
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2018). |
CONDOMINIO: Ascensore,
subentro possibile. I nuovi comproprietari devono rifondere
i costi agli altri. La Cassazione:
impianti installabili anche solo a carico di una parte dei
condomini.
L'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia
privo può essere effettuata anche da una parte dei
condomini, che ne sopporteranno per intero la relativa
spesa. Gli altri condomini, ove in prosieguo volessero
utilizzare a loro volta l'impianto, saranno tenuti a
rifondere ai primi una quota delle spese sostenute,
opportunamente rivalutata, divenendone così comproprietari.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione
nella recente
sentenza 04.09.2017 n. 20713.
Il caso concreto.
Nella specie alcuni condomini avevano citato in giudizio i
comproprietari che avevano provveduto a installare
l'ascensore nel fabbricato per sentire accertare il costo
dell'impianto e le relative quote di contribuzione nelle
spese di gestione e manutenzione.
Il tribunale, espletata la consulenza tecnica d'ufficio,
ritenuta implicita nella domanda svolta quella di
riconoscimento del diritto degli attori all'acquisizione
della comproprietà dell'impianto, aveva dunque accertato il
costo complessivo dell'installazione e aveva determinato la
quota di contribuzione di ciascuno di essi nelle relative
spese.
La sentenza era però stata appellata dai condomini che
avevano originariamente provveduto all'installazione
dell'ascensore, i quali avevano contestato la mancanza di
interesse ad agire degli attori, che non avevano
espressamente richiesto l'accertamento del proprio diritto
di partecipare alla comunione dell'impianto. Inoltre,
secondo gli appellanti, i giudici di primo grado avevano
errato nell'applicare al caso in questione la disciplina
delle innovazioni di cui all'art. 1121 c.c., trattandosi di
un'opera privata.
La Corte di appello aveva però integralmente confermato la
decisione. Di qui il ricorso in Cassazione.
L'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia
privo. Nella
sentenza n. 20713/2017 i giudici di legittimità hanno in
primo luogo evidenziato come gli impianti suscettibili di
utilizzazione separata, casistica nella quale rientra
sicuramente l'ascensore, possano essere realizzati ex novo
nell'edificio condominiale anche senza la relativa
approvazione assembleare, ovvero a cura e spese di alcuni
condomini soltanto.
Infatti l'installazione di un ascensore nel fabbricato che
ne sia privo costituisce un'innovazione delle parti comuni,
in quanto realizza una modificazione materiale del vano
scale. L'opera andrebbe quindi deliberata in assemblea con
il quorum di cui al quinto comma dell'art. 1136 c.c., ovvero
dalla maggioranza degli intervenuti, che rappresentino
almeno i due terzi dei millesimi totali di valore
dell'edificio.
Tuttavia, proprio perché trattasi di impianti suscettibili
di utilizzazione separata, anche uno solo dei condomini può
provvedervi a sua cura e spese. La base normativa di tale
conclusione, come evidenziato dalla Suprema corte nella
sentenza in questione, deve rintracciarsi nell'art. 1102 c.c.,
disposizione che fonda il relativo diritto e ne circoscrive
i limiti e le modalità di esplicazione. In base a essa,
infatti, ciascun partecipante alla comunione può servirsi
del bene comune, anche apportandovi a proprie spese le
modificazioni necessarie per un migliore godimento, a
condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca
agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il
proprio diritto.
In questo caso le spese di installazione dell'impianto,
diversamente da quelle relative alla manutenzione e alla
ricostruzione dell'ascensore già esistente, non vanno
ripartite ai sensi dell'art. 1124 c.c., bensì secondo gli
ordinari criteri di cui all'art. 1123 c.c., ovvero secondo
il valore proporzionale della proprietà di ciascuno dei
compartecipanti. I condomini inizialmente non interessati
all'innovazione possono infatti successivamente cambiare
idea e, in questo caso, hanno il diritto di usare a loro
volta dell'impianto, partecipando alla relativa spesa e
diventandone quindi comproprietari.
La ripartizione delle spese tra i vecchi e i nuovi
comproprietari.
Quindi l'ascensore installato nell'edificio che ne sia privo
per iniziativa di uno o più condomini non rientra nella
proprietà comune di tutti i partecipanti al condominio (non
è un bene condominiale), ma è oggetto di comunione
(comproprietà) fra i soli condomini che ne abbiano
sopportato le relative spese.
Tuttavia, come detto, l'art. 1121, comma 3, c.c. fa
espressamente salva la facoltà per i condomini estranei alla
comunione dell'impianto di entrare a farne parte e di
utilizzare a propria volta l'ascensore. Da qui però
l'obbligo degli stessi sia di rifondere agli altri
comproprietari i costi sostenuti per l'originaria
installazione dell'impianto e per gli interventi di
manutenzione nel frattempo effettuati sia di contribuire
nelle successive spese di conduzione (energia elettrica e
manutenzione).
Il criterio di riparto della compartecipazione alle spese di
installazione, come già preannunciato, è quello ordinario di
cui all'art. 1123 c.c., ovvero quello del valore
proporzionale delle rispettive proprietà dei condomini che
utilizzano l'impianto. La spesa inizialmente sostenuta dai
condomini che abbiano provveduto a installare ex novo
l'impianto (e sulla quale andrà quindi calcolata la quota
che il nuovo comproprietario dovrà rifondere agli originari
comunisti) deve essere però aggiornata al suo valore
attuale, per evitare ingiustificati arricchimenti in favore
del nuovo arrivato. Solitamente per la rivalutazione si fa
riferimento agli indici Istat dei prezzi al consumo. Occorre
però anche tenere conto del naturale degrado dell'ascensore,
normalmente individuato nel deprezzamento dell'impianto
causato dagli anni trascorsi dalla sua installazione.
Il procedimento di calcolo utilizzato per l'individuazione
della somma dovuta dal condomino subentrante agli originari
comproprietari dell'impianto è quello di detrarre dalla
somma dei costi di installazione e di manutenzione
dell'opera già sostenuti, rivalutata in base agli indici
Istat e integrata con gli interessi legali, il valore del
deprezzamento subito dal medesimo a seguito dell'utilizzo
continuato e della naturale obsolescenza. L'importo così
determinato, che rappresenta il valore dell'impianto, dovrà
quindi essere moltiplicato per i millesimi di proprietà del
condomino subentrante e il relativo risultato dovrà essere
diviso per la somma dei millesimi di tutti i nuovi
comproprietari (originari e subentrante).
Ciò sulla base di una semplice equazione, nella quale il
valore dell'impianto sta ai millesimi totali dei condomini
comproprietari (originari e subentrante) come l'importo da
rifondere (incognita) sta ai millesimi del solo condomino
che chieda di entrare a far parte della comunione.
La somma che ne risulta sarà quella che il nuovo
comproprietario dovrà versare ai condomini che si erano
inizialmente presi carico dell'installazione dell'ascensore.
La stessa dovrà quindi essere ripartita fra questi ultimi
sulla base dei rispettivi millesimi di proprietà (si veda la
tabella in pagina) (articolo
ItaliaOggi Sette del 18.09.2017).
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MASSIMA
L’installazione “ex novo” di un ascensore in un
edificio in condominio (le cui spese, a differenza di quelle
relative alla manutenzione e ricostruzione dell’ascensore
già esistente, vanno ripartite non ai sensi dell’art. 1124
c.c., ma secondo l’art. 1123 c.c., ossia proporzionalmente
al valore della proprietà di ciascun condomino) costituisce
innovazione che può essere deliberata dall’assemblea
condominiale con le maggioranze prescritte dall’art. 1136
c.c., oppure direttamente realizzata con il consenso di
tutti i condomini, così divenendo l’impianto di proprietà
comune.
Trattandosi, tuttavia, di impianto suscettibile di
utilizzazione separata, proprio quando l’innovazione, e cioè
la modificazione materiale della cosa comune (nella specie,
il vano scale) conseguente alla realizzazione
dell’ascensore, non sia stata approvata in assemblea (lo
stesso art. 1121 c.c., al comma 2, parla di maggioranza dei
condomini che abbia “deliberata o accettata” l’innovazione),
essa può essere attuata anche a cura e spese di uno o di
taluni condomini soltanto (con i limiti di cui all’art. 1102
c.c.), salvo il diritto degli altri di partecipare in
qualunque tempo ai vantaggi dell’innovazione, contribuendo
nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell’opera.
L’ascensore, installato nell’edificio dopo la costruzione di
quest’ultimo per iniziativa di parte dei condomini, non
rientra nella proprietà comune di tutti i condomini, ma
appartiene in proprietà a quelli di loro che l’abbiano
impiantato a loro spese.
Ciò dà luogo nel condominio ad una particolare comunione
parziale dei proprietari dell’ascensore, analoga alla
situazione avuta a mente dall’art. 1123, comma 3, c.c.,
comunione che è distinta dal condominio stesso, fino a
quando tutti i condomini non abbiano deciso di parteciparvi.
L’art. 1121, comma 3, c.c. fa, infatti, salva agli altri
condomini la facoltà di partecipare successivamente
all’innovazione, divenendo partecipi della comproprietà
dell’opera, con l’obbligo di pagarne pro quota le spese
impiegate per l’esecuzione, aggiornate al valore attuale
(tratta da https://renatodisa.com). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Nel
rilascio di titoli edilizi può ritenersi sufficiente che
l’Amministrazione verifichi in capo all’istante l’esistenza
di un titolo che formalmente lo legittimi al rilascio del
titolo abilitante a suo favore, senza dover procedere ad una
accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici o a svolgere complesse
ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà
o di altro diritto reale che si estenda fino alla ricerca di
eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del
titolo di disponibilità necessario all’intervento, allegato
da chi presenta istanza edilizia, ed è proprio questa la
ragione per la quale i titoli edilizi vengono rilasciati con
la formula "fatti salvi i diritti dei terzi".
---------------
La
giurisprudenza, al fine di escludere la sussistenza di una
lesione al decoro dell’edificio, ritiene sufficiente che
l’innovazione non comporti una rilevante disarmonia al
complesso preesistente e che non pregiudichi l'originaria
fisionomia estetica dell’edificio determinandone un
deprezzamento.
Tali elementi non appaiono sussistere nel caso all’esame
atteso che l’ascensore è stato collocato nel punto di minor
impatto sull’edificio e dalla strada, mediante il
prolungamento di uno sporto già presente nella muratura, con
un intervento che non si rivela incompatibile con le
caratteristiche e la tipologia edilizia preesistente.
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Con il secondo motivo il ricorrente sostiene che i controinteressati erano privi di legittimazione nel
richiedere ed ottenere il titolo edilizio necessario ad
intervenire su parti comuni dell’edificio condominiale,
perché l’intervento, alterando il decoro dell’immobile, non
avrebbe dovuto essere approvato a maggioranza, come è
avvenuto nel caso all’esame (è stato approvato a maggioranza
di due terzi del condominio rappresentanti complessivi
689,75 millesimi dell’intero edificio, del condominio), ma
all’unanimità.
Al fine di comprovare la lesione al decoro il ricorrente
allega una relazione del 25.01.2016 dagli stessi
commissionata del Prof. Arch. Gi.Gi..
Anche tali censure non possono essere condivise.
Va premesso che nel rilascio di titoli edilizi può ritenersi
sufficiente che l’Amministrazione verifichi in capo
all’istante l’esistenza di un titolo che formalmente lo
legittimi al rilascio del titolo abilitante a suo favore,
senza dover procedere ad una accurata e approfondita
disamina dei rapporti civilistici o a svolgere complesse
ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà
o di altro diritto reale che si estenda fino alla ricerca di
eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del
titolo di disponibilità necessario all’intervento, allegato
da chi presenta istanza edilizia, ed è proprio questa la
ragione per la quale i titoli edilizi vengono rilasciati con
la formula "fatti salvi i diritti dei terzi" (ex pluribus
cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.09.2012, n. 4676;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 08.06.2011, n. 3508).
Il provvedimento impugnato in ogni caso non si è limitato a
considerare l’esistenza della deliberazione condominiale che
a maggioranza ha approvato l’intervento, ma, con
considerazioni motivate e che appaiono prive di vizi logici,
si è spinto ad indicare quali sono i motivi per i quali il
Comune ritiene insussistente una lesione al decoro
dell’immobile, precisando che si tratta di un edificio che
non presenta un particolare pregio e che non è sottoposto né
a tutela monumentale, né a grado di protezione dallo
strumento urbanistico comunale in base alla
caratterizzazione dei valori storici, architettonici,
tipologici ed ambientali, che per gli interventi è stata
ottenuta l’autorizzazione paesaggistica e che non risultano
snaturate le caratteristiche dell’edifico.
La relazione commissionata dal ricorrente del 25.01.2016 del Prof. Arch. Gi.Gi. accede invece ad una
non condivisibile nozione di “decoro architettonico”
talmente ampia da comportare che ogni modifica alle parti
comuni dell’edificio costituisce di per sé un pregiudizio al
decoro dello stesso.
Una tale conclusione tuttavia non è in linea con la
giurisprudenza, la quale, al fine di escludere la
sussistenza di una lesione al decoro dell’edificio, ritiene
sufficiente che l’innovazione non comporti una rilevante
disarmonia al complesso preesistente e che non pregiudichi
l'originaria fisionomia estetica dell’edificio
determinandone un deprezzamento, elementi questi che non
appaiono sussistere nel caso all’esame atteso che
l’ascensore è stato collocato nel punto di minor impatto
sull’edificio e dalla strada, mediante il prolungamento di
uno sporto già presente nella muratura, con un intervento
che non si rivela incompatibile con le caratteristiche e la
tipologia edilizia preesistente (peraltro va rilevato che in
tal senso sono le conclusioni formulate dal consulente
tecnico d’ufficio nel giudizio civile pendente tra le parti:
cfr. doc. 1 depositato in giudizio dai controinteressati il
20.10.2016).
L’assunto secondo il quale l’intervento avrebbe dovuto
essere approvato all’unanimità anziché a maggioranza dei
condomini è pertanto privo di riscontri e deve essere
respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.01.2017 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
La lamentata violazione delle distanze dai
confini da parte dell’ascensore esterno deve essere
respinta.
Invero, trattasi di un vano tecnico necessario al
superamento delle barriere architettoniche, cui risulta
applicabile la deroga di cui all’art. 79 del DPR 06.06.2001, n. 380, la quale, in base ai criteri interpretativi
elaborati dalla giurisprudenza, deve ritenersi applicabile,
nella parte in cui prevede interventi volti alla
eliminazione delle barriere architettoniche,
indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli
edifici stessi da parte delle persone in possesso di
apposita certificazione di handicap grave, e che rientra
anche nella deroga di cui all’art. 12, comma 2, della l.r. 29.11.2013, n. 32, per la quale “gli
ascensori esterni e i sistemi di sollevamento realizzati al
fine di migliorare l’accessibilità agli edifici sono da
considerarsi volumi tecnici, esclusi pertanto dal calcolo
del volume o della superficie e soggetti alle norme del
codice civile in materia di distanze”.
Parimenti da respingere è la doglianza con la quale il
ricorrente lamenta la violazione delle distanze previste
dall’art. 907 c.c. dalla propria veduta, in quanto, come è
noto, tale norma non trova applicazione in ambito
condominiale.
---------------
Anche il terzo motivo con il quale il ricorrente lamenta la
violazione delle distanze dai confini da parte
dell’ascensore esterno deve essere respinto.
Si tratta infatti di un vano tecnico necessario al
superamento delle barriere architettoniche, cui risulta
applicabile la deroga di cui all’art. 79 del DPR 06.06.2001, n. 380, la quale, in base ai criteri interpretativi
elaborati dalla giurisprudenza, deve ritenersi applicabile,
nella parte in cui prevede interventi volti alla
eliminazione delle barriere architettoniche,
indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli
edifici stessi da parte delle persone in possesso di
apposita certificazione di handicap grave (in tali termini cfr. Corte Costituzionale 10.05.1999, n, 167; Tar
Veneto, Sez. II, 05.04.2007, n. 1122), e che rientra
anche nella deroga di cui all’art. 12, comma 2, della legge
regionale 29.11.2013, n. 32, per la quale “gli
ascensori esterni e i sistemi di sollevamento realizzati al
fine di migliorare l’accessibilità agli edifici sono da
considerarsi volumi tecnici, esclusi pertanto dal calcolo
del volume o della superficie e soggetti alle norme del
codice civile in materia di distanze”.
Parimenti da respingere è la doglianza con la quale il
ricorrente lamenta la violazione delle distanze previste
dall’art. 907 c.c. dalla propria veduta, in quanto, come è
noto, tale norma non trova applicazione in ambito
condominiale (ex pluribus cfr. Cassazione civile, Sez. II,
30.06.2014, n. 14809).
In definitiva il ricorso e la domanda risarcitoria devono
essere respinte
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.01.2017 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha condivisibilmente negato la natura di costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della tromba delle scale o degli altri ambienti interni.
Tale orientamento è giunto all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore.
La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli sopra quello terreno).
---------------
Nel
conflitto tra le esigenze dei condòmini disabili abitanti ad un piano alto e quelle degli altri partecipanti al condominio, per i quali il pregiudizio derivante dall'installazione di ascensore si risolverebbe non già nella totale impossibilità di un ordinario uso della scala comune ma soltanto in disagio e scomodità derivanti dalla relativa restrizione e nella difficoltà di usi eccezionali della stessa, vanno privilegiate le prime, adottando una soluzione conforme ai principi costituzionali della tutela della salute (art. 32) e della funzione sociale della proprietà (art. 42), rimuovendo un grave ostacolo alla fruizione di un primario bene della vita, quello dell'abitazione, da parte di persone versanti in condizioni di minorazione fisica e riconoscendo la facoltà, agli stessi, di apportare a proprie spese una modifica alla cosa comune, sostanzialmente e nel complesso migliorativa, in quanto suscettibile di utilizzazione anche da parte degli altri condomini.
--------------- ... per l'annullamento provvedimento n. 8806/2014 avente ad oggetto istanza per realizzazione ascensore per abbattimento barriere architettoniche con richiesta di immediata sospensione dei lavori. ...
Con il ricorso introduttivo del giudizio il
condominio odierno ricorrente e altri
proprietari impugnavano gli atti di cui in
epigrafe, contenenti le note comunali che
hanno escluso un intervento inibitorio dei
lavori assentiti di realizzazione di un
ascensore esterno inteso a superare le
barriere architettoniche di accesso, nonché il
relativo assenso paesaggistico.
Nel ricostruire in fatto e in diritto la
vicenda, all'atto impugnato si muovevano
pertanto le seguenti censure:
- in tema di edilizia, violazione degli artt. 3 l. 241/1990 e 37 tu
edilizia, 6 d.l. 138/2011, eccesso di potere
per difetto di motivazione e di istruttoria,
per mancato esame delle diffide di parte
ricorrente;
- violazione degli artt. 97 Cost., 10, 11 e 27 tu edilizia, 2 ss.
l. 13/1989, 1120 s. c.c., eccesso di potere
sotto diversi profili, per assenza di
legittimazione a richiedere tale tipologia di
intervento;
- in tema di paesaggio, violazione degli artt. 136 e 146 d.lgs.
42/2004 e diversi profili di eccesso di
potere, basandosi l’assenso paesaggistico su
di un presupposto errato quale la pretesa
invisibilità da visuali prospettiche
pubbliche.
Parte controinteressata si costituiva in
giudizio e, controdeducendo punto per punto,
concludeva per la declaratoria di tardività e
per il rigetto del gravame. Il Comune intimato
non si costituiva in giudizio.
... Peraltro, il ricorso appare comunque infondato nel merito, anche in relazione ai dedotti profili edilizi, in specie alla luce della recente giurisprudenza fatta propria dalla Sezione rispetto alla quale, anche per esigenze di certezza del diritto, non sussistono ragioni di mutamento. In analoga fattispecie (cfr. sent. 1002/2015), è stato evidenziato che “la giurisprudenza (Cass. n. 2566/2011 e CdS n. 6253/2012) ha condivisibilmente negato la natura di costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della tromba delle scale o degli altri ambienti interni. Tale orientamento è giunto all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore. La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli sopra quello terreno)". Sulla scorta di tale orientamento, appaiono prima facie infondati i rilievi dedotti. Sia il
primo motivo, avendo in ogni caso parte ricorrente formulato le proprie osservazioni, oggetto di valutazione negativa in sede di risposta.
In proposito, va fatto ulteriore riferimento a quell’orientamento prevalente a mente del quale l'obbligo dell'Amministrazione di prendere in considerazione gli scritti defensionali di parte nell'ambito del procedimento amministrativo, non si traduce in puntuale confutazione della mera rimostranza negativa, essendo sufficiente la completezza motivazionale dell'atto complessivamente valutato, allorché da esso possano agevolmente e unicamente desumersi comunque le ragioni giuridiche ed i presupposti di fatto posti a base della decisione. Sia il
secondo motivo, con cui vengono dedotti rilievi di carattere parzialmente civilistico.
In proposito, per un verso va ulteriormente richiamata la giurisprudenza civile predetta, a mente della quale nel conflitto tra le esigenze dei condòmini disabili abitanti ad un piano alto e quelle degli altri partecipanti al condominio, per i quali il pregiudizio derivante dall'installazione di ascensore si risolverebbe non già nella totale impossibilità di un ordinario uso della scala comune ma soltanto in disagio e scomodità derivanti dalla relativa restrizione e nella difficoltà di usi eccezionali della stessa, vanno privilegiate le prime, adottando una soluzione conforme ai principi costituzionali della tutela della salute (art. 32) e della funzione sociale della proprietà (art. 42), rimuovendo un grave ostacolo alla fruizione di un primario bene della vita, quello dell'abitazione, da parte di persone versanti in condizioni di minorazione fisica e riconoscendo la facoltà, agli stessi, di apportare a proprie spese una modifica alla cosa comune, sostanzialmente e nel complesso migliorativa, in quanto suscettibile di utilizzazione anche da parte degli altri condomini. Nella specie parte ricorrente, nei limiti di sindacato propri della presente sede di legittimità, non ha fornito elementi tali da integrare la violazione dell’uso della cosa comune che va garantito a tutti, invocando questioni tipiche di una controversia civilistica. Sul restante versante, amministrativo, le censure appaiono generiche –costituenti in prevalenza in un collage di massime giurisprudenziali privo di un concreto riferimento alla fattispecie in esame- e non tali da scalfire i principi di recente espressi dalla sezione (TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 29.01.2016 n. 97 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Si intendono per barriere architettoniche –ai
sensi dell’art. 2, lett. A), punti a) e b) del d.m. n. 236/1989–
- “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero
- “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”
sicché, appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della legge n. 13/1989.
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Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sez.
II-quater, n. 4347/2007 del 14.05.2007 (che non risulta notificata) è stato
in parte accolto ed in parte (limitatamente alla domanda risarcitoria)
dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla CO. s.p.a. (Co.Se.As.Pu.),
per l’annullamento della nota della Soprintendenza n. 16267/B del
18.02.2004, con cui veniva ordinata la sospensione dei lavori, per
l’installazione di ascensori nel vano scala dei complessi edilizi siti in
Latina, piazza ... nn. 1 e 9, nonché di ogni atto presupposto (ivi compresa
la nota n. prot. 6567/B del 06.08.2003) e per l’accertamento del
silenzio-assenso, formatosi ai sensi degli articoli nn. 4 e 5 della legge n.
13/1989 e della circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 1669/U.L. del
22.06.1989, sull’istanza di N.O. presentata il 21.12.2002.
Nella citata sentenza –disposta l’estromissione di due soggetti intervenuti
in giudizio– erano ritenute fondate le prospettazioni difensive, riferite ad
intervenuto superamento dei termini perentori, imposti dalla citata legge n.
13/1989 per la rimozione delle barriere architettoniche, a tutela dei
soggetti disabili.
Avverso la pronuncia in questione proponevano appello (n. 7966/07,
notificato il 04.10.2007) il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e
la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Lazio, in
base alle seguenti argomentazioni difensive:
I) Sulla normativa applicabile: le opere di cui trattasi non
sarebbero rientrate nell’ambito degli interventi per il superamento delle
barriere architettoniche, soggetti alla disciplina della legge n. 13/1989
–tenuto conto anche del regolamento di attuazione, emanato con d.m. n. 236
del 14.06.1989– in quanto la quota di prima fermata degli ascensori
–coincidendo con il piano rialzato– avrebbe comunque lasciato sussistere
sette gradini, non superabili autonomamente da persone disabili, con
conseguente applicabilità della disciplina generale, contenuta nel d.lgs. n.
490/1999; il silenzio assenso, di cui all’art. 4 della citata legge n.
13/1989, non si sarebbe comunque formato, non avendo la Co. ottemperato a
richieste di integrazione documentale e dovendo ritenersi necessario
l’esplicito assenso della Soprintendenza;
II) Sulla mancata partecipazione al procedimento: con motivazione,
“sufficientemente espressa nel provvedimento” l’immediata sospensione
dei lavori in corso sarebbe stata giustificata con riferimento
all’irreversibile compromissione delle “peculiarità formali e sostanziali
di parti del compendio architettonico, sottoposto ad azione di tutela”;
III) Considerazioni finali: pur non volendo ostacolare l’abolizione
delle barriere architettoniche, l’Amministrazione avrebbe inteso tutelare il
vincolo artistico gravante sul bene interessato, in rapporto al quale i
lavori di cui trattasi sarebbero stati fonte di grave alterazione dello
stile e della funzionalità del complesso architettonico tutelato, in
presenza di soluzioni alternative, che avrebbero consentito di conciliare
gli interessi contrapposti.
La società appellata, costituitasi in giudizio, presentava articolate
controdeduzioni in rapporto alle tesi difensive sopra sintetizzate e su tale
base la causa è passata in decisione.
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che l’appello non possa trovare accoglimento, con riferimento alla duplice ed assorbente questione sottoposta a giudizio: la riconducibilità di lavori –finalizzati all’installazione di ascensori nei vani scala di alcuni immobili– alla normativa vigente sul superamento delle barriere architettoniche e, in caso affermativo, la conformità dell’atto impugnato a detta normativa. Sotto il primo profilo, la risposta non può che essere affermativa, tenuto conto della nozione, deducibile dalla legge
09.01.1989, n. 13 (“Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”), nonché dalle relative norme attuative, approvate con d.m. 14.06.1989, n. 236 (“Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità, e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle barriere architettoniche”), ma anche ricorrendo a dati di comune esperienza (rilevanti per il giudizio, sul piano probatorio, ex art. 115, comma 2, c.p.c.).
Si intendono infatti per barriere architettoniche –ai sensi dell’art. 2, lettera A), punti a) e b) del citato d.m. n. 236/1989– “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”: appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della citata legge n. 13/1989. Al fine di confutare le conclusioni sopra esposte, l’appellante si limita a segnalare, nel
primo ordine di censure, che nel caso di specie la quota di prima fermata degli ascensori di cui trattasi “coincide sempre con il piano rialzato e mai con il piano terreno, mantenendo, in tal modo, rampe di sette gradini non superabili autonomamente da persone disabili”, senza “realizzazione contestuale di strumenti alternativi per il superamento di queste barriere”: l’infondatezza di tali argomentazioni emerge con chiarezza dal testo delle norme regolamentari in precedenza riportate, che non impongono la totale rimozione delle barriere architettoniche, cessando di considerarle tali qualora –per le condizioni esistenti nell’immobile interessato– detta rimozione possa essere soltanto parziale e non soddisfare, quindi, pienamente le esigenze di soggetti non deambulanti in modo autonomo. Questi ultimi, tuttavia, non sono gli unici destinatari della norma, che fa riferimento anche a “capacità motoria ridotta”, riconducibile a soggetti in grado di superare sette gradini, ma non anche quattro o più piani di scale. Posto, dunque, che deve ritenersi positivamente accertata l’applicabilità della legge n. 13/1989 alla installazione di ascensori, resta da stabilire se detta normativa risulti violata, o meno, con l’emanazione degli atti impugnati in primo grado di giudizio. Anche a tale quesito la risposta non può che essere affermativa, a conferma delle conclusioni raggiunte nella sentenza appellata. Deve essere sottolineato al riguardo che quando, come nel caso di specie, l’immobile sia stato oggetto di notifica ai sensi dell’art. 2 della legge
01.06.1939, n. 1089 (sostituito, alle date che qui interessano, dall’art. 23 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490), poiché ritenuto di interesse artistico o storico, il parere della Soprintendenza –prescritto per “opere di qualunque genere che si intendano eseguire” sul medesimo– viene sottoposto ad una disciplina acceleratoria speciale, nel caso appunto che dette opere siano finalizzate a rimuovere barriere architettoniche: l’art. 5 della citata legge n. 13/1989 prescrive infatti che la Soprintendenza debba pronunciarsi entro 120 giorni, “anche impartendo, ove necessario, apposite prescrizioni” e richiamando il precedente articolo 4, nelle parti (commi 2, 4 e 5) in cui la mancata pronuncia nel termine prescritto “equivale ad assenso”, con possibile diniego “solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato”, specificando nella motivazione “la natura e la serietà del pregiudizio….in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato”.
Nella situazione in esame, non sembra si possa dubitare che la procedura descritta non sia stata rispettata, in presenza di una richiesta di autorizzazione, inoltrata dal professionista incaricato alla Soprintendenza il 21.12.2002 (che nell’atto di appello si afferma ricevuta –senza mutare i termini della questione– in data
08.01.2003), con successiva nota della medesima Soprintendenza del 06.08.2003 (n. prot. 6567/B, che la società interessata, peraltro, afferma di non avere ricevuto) intesa a comunicare lo stato di sospensione della pratica, in attesa di documentazione integrativa.
Nel frattempo, il Comune di Latina aveva prima (il 04.02.2003) diffidato Co. s.p.a. dal dare inizio ai lavori, oggetto di DIA presentata il 15.01.2003, e poi revocato tale diffida, avendo preso atto dell’iter autorizzativo avviato e da ritenere, ormai, concluso per silenzio assenso.
Avuta notizia della revoca il 16.06.2003, la Soprintendenza emetteva quindi il provvedimento di sospensione dei lavori n. prot. 16267/B del 14.02.2004, citando la precedente nota del
06.08.2003: entrambi tali atti erano oggetto di impugnativa da parte di Co. s.p.a., che negava di avere avuto conoscenza prima di allora della richiesta di documentazione integrativa.
In tale contesto, lo stesso atto di appello non contiene alcun riferimento a provvedimenti –anche istruttori– emanati nel termine perentorio previsto dalla legge, limitandosi ad affermare genericamente che le integrazioni documentali sarebbero state richieste al professionista incaricato da Co., ing. St., in un incontro svoltosi nel febbraio del 2003.
Tale operato, privo di qualsiasi riscontro documentale, non può ritenersi conforme alla normativa speciale in precedenza citata, che –in considerazione dei delicati interessi, sottostanti alla rimozione delle barriere architettoniche– non condizionava affatto i lavori all’approvazione espressa del Soprintendente, ma consentiva di ritenere acquisita detta approvazione per silenzio assenso dopo 120 giorni dalla presentazione dell’istanza, delimitando in modo rigoroso le ipotesi di diniego.
La formulazione della norma, che prevede la possibilità di assenso con prescrizioni, o il diniego motivato, ma solo in presenza di “serio pregiudizio” del bene tutelato, rende realmente marginale la possibilità di sospendere il termine perentorio in questione, se non nell’ipotesi eccezionale di istanza gravemente incompleta e inidonea a consentire l’avvio di qualsiasi istruttoria.
Anche detta sospensione, ove pure ritenuta ammissibile, avrebbe dovuto essere disposta con provvedimento circostanziato e motivato, che la stessa Amministrazione non afferma di avere emesso. Ove poi fossero state acquisite in sede di sopralluogo, nel febbraio 2003, informazioni tali da far ravvisare –come si legge nell’atto di appello– “l’impossibilità”, per le caratteristiche formali e per le dimensioni dei vani scala, di inserire impianti elevatori “senza procurare nocumento a parti strutturali di beni tutelati”, appare singolare l’omessa tempestiva adozione di un atto di diniego motivato e l’adozione a circa un anno di distanza di un ordine di sospensione di lavori, che la documentazione fotografica in atti mostra pressoché ultimati, senza che sui problemi strutturali anzidetti venga fornita ulteriore documentazione tecnica.
In tale contesto, il Collegio ritiene che l’Amministrazione abbia esercitato tardivamente –e quindi, data la sussistenza di un termine perentorio non rispettato, illegittimamente– il proprio potere interdittivo, potendo la stessa fare ricorso, dopo la maturazione del silenzio assenso, solo all’esercizio della potestà di autotutela, purché ne sussistessero i presupposti, anche in rapporto all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990.
Le medesime ragioni, che nei termini sopra precisati consentono di respingere le argomentazioni difensive, contenute nel primo ordine di censure, giustificano il rigetto anche delle considerazioni successive, in cui si prospettano, in modo del tutto apodittico, “irreversibile compromissione”, o “grave alterazione” dello stile e della funzionalità dell’immobile tutelato, senza che risultino comprensibili, ancora una volta, i motivi per cui un simile negativo apprezzamento non abbia dato luogo a tempestivo provvedimento di diniego. In base alle argomentazioni svolte, in conclusione, il Collegio ritiene che
l’impugnativa debba essere respinta; quanto alle spese giudiziali, tuttavia,
la delicatezza degli interessi coinvolti ne rende equa, ad avviso del
Collegio stesso, la compensazione (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.03.2014 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2022 |
|
aggiornamento al
29.12.2022 |
|
Costruzione di una piscina
interrata:
trattasi di "nuova costruzione"
-ex art. 3, comma 1,
lett. e-1), dpr 380/2001-
soggetta a permesso di costruire e non può qualificarsi in
termini di "pertinenza urbanistica". |
EDILIZIA PRIVATA:
In termini distintivi tra interventi di nuova costruzione o
di ristrutturazione edilizia devono trovare applicazione i principi
di diritto, ripetutamente affermati da questo Consiglio di
Stato, in forza dei quali:
- al fine di valutare l'incidenza sull'assetto del
territorio di un intervento edilizio, consistente in una
pluralità di opere, va compiuto un apprezzamento globale,
atteso che la considerazione atomistica dei singoli
interventi non consente di comprenderne in modo adeguato
l'impatto effettivo complessivo. I molteplici interventi
eseguiti non vanno considerati, dunque, in maniera
"frazionata";
- l'intervento di nuova costruzione consiste in una
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio,
attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia
del terreno, ovvero costruzioni lato sensu intese, che,
indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di
amovibilità, presentino un simultaneo carattere di stabilità
fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò
intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato
al suolo (il cui tratto distintivo e qualificante viene,
dunque, assunto nell'irreversibilità spazio-temporale
dell'intervento) che possono sostanziarsi o nella
costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati o
nell'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della
sagoma stabilita;
- l'intervento di ristrutturazione edilizia, invece,
sussiste quando viene modificato un immobile già esistente
nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello
stesso: tuttavia, laddove il manufatto sia stato totalmente
trasformato, con conseguente creazione non solo di un
apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume
complessivo dell'intero fabbricato), ma anche di un disegno
sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della
struttura originaria, l'intervento rientra nella nozione di
nuova costruzione; nella nozione di nuova costruzione
possono, dunque, rientrare anche gli interventi di
ristrutturazione qualora, in considerazione
dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla
collocazione dell'immobile, possa parlarsi di una modifica
radicale dello stesso, con la conseguenza che l'opera
realizzata nel suo complesso sia oggettivamente diversa da
quella preesistente;
- in definitiva, pur consentendo l'art. 10, comma 1, lett.
c), del D.P.R. n. 380 del 2001 di qualificare come
interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività
volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente, implicanti modifiche della
volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti,
occorre conservare sempre una identificabile linea
distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di
nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo
quando le modifiche volumetriche e di sagoma siano di
portata limitata e comunque riconducibili all'organismo
preesistente;
- la ristrutturazione edilizia, a sua volta, deve essere
distinta dagli interventi di restauro e risanamento
conservativo;
- mentre la ristrutturazione può condurre ad un "un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente", il restauro e il risanamento conservativo "non
possono mai portare a ridetto "organismo in tutto o in parte
diverso dal preesistente", avendo sempre la finalità di
"conservare l'organismo edilizio" ovvero di "assicurarne la
funzionalità" (cfr. ancora art. 31, lett. c), della L. n. 457
del 1978, traslato testualmente nell'art. 3, comma 1, lett.
c), del D.P.R. n. 380 del 2001)";
- ne deriva che si è in presenza di un restauro e
risanamento conservativo qualora l'intervento sia funzionale
alla conservazione dell'organismo edilizio e ad assicurarne
la funzionalità, nel rispetto dei suoi elementi tipologici
(in specie, architettonici e funzionali, suscettibili di
consentire la qualificazione dell'organismo in base alle
tipologie edilizie), formali (tali da contraddistinguere il
manufatto, configurandone l'immagine caratteristica) e
strutturali (concernenti la composizione della struttura
dell'organismo edilizio);
- in particolare, "la caratteristica degli interventi di
mero restauro è quella di essere effettuata mediante opere
che non comportano l'alterazione delle caratteristiche
edilizie dell'immobile da restaurare, e quindi rispettando
gli elementi formali e strutturali dell'immobile stesso,
mentre la ristrutturazione edilizia si caratterizza
per essere idonea ad introdurre un quid novi rispetto al
precedente assetto dell'edificio";
- questo Consiglio, in
definitiva, ha precisato che "la finalità di conservazione,
caratteristica degli interventi di recupero e risanamento
conservativo, postula il mantenimento tipologico e
strutturale del manufatto; conseguentemente dovendosi
ascrivere gli interventi edilizi che alterino, anche sotto
il profilo della distribuzione interna, l'originaria
consistenza fisica di un immobile (e comportino, altresì, la
modifica e ridistribuzione dei volumi) non già nel concetto
di "manutenzione straordinaria" (e, a fortiori, di
restauro
o risanamento conservativo), ma quale "ristrutturazione
edilizia" (pertanto ravvisabile nella modificazione della
distribuzione della superficie interna e dei volumi e
dell'ordine in cui sono disposte le diverse porzioni
dell'edificio anche per il solo fine di renderne più agevole
la destinazione d'uso esistente)".
---------------
La pavimentazione di
un’area di 700 mq e la realizzazione di una piscina danno
luogo ad interventi di nuova costruzione che
conducono all’edificazione di nuovi organismi edilizi
suscettibili di autonoma utilizzazione, per i quali risulta
prescritto il previo rilascio del prescritto permesso di
costruire ex art. 10, comma 1, lett. a), DPR n. 380/2001, in
assenza del quale è dovuta la sanzione ripristinatoria ex art. 31 DPR n.
380/2001.
Non potrebbe diversamente argomentarsi ritenendo che nella
specie non si facesse questione di piscina, ma di mera vasca
di approvvigionamento idrico, tenuto conto che
l’Amministrazione ha sanzionato la realizzazione di un’opera
lunga metri 7, larga metri 2,30 e profonda metri 1,50 circa,
comportante una rilevante trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio: a prescindere dall’utilizzo
(destinazione alla balneazione o alla raccolta di acqua)
l’opera, implicando una modificazione dello stato materiale
e della conformazione del suolo, per adattarlo ad un impiego
diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua
condizione naturale e alla sua qualificazione –considerate la
profondità degli scavi e la quantità delle terre movimentate
occorrenti per realizzare un’opera quale quella in
contestazione– integra gli estremi della nuova
costruzione, sottoposta al previo rilascio del permesso di
costruire.
---------------
1. Con ordinanza n. 20 del 25.07.2011 il Comune di Massa
di Somma, dato atto dell’esistenza di una villa per la quale
era stata presentata istanza di condono ai sensi della L. n.
47/1985 dalla Sig.ra De Si., alla stregua di quanto
emergente dalla relazione del locale Ufficio tecnico n. 4547
del 2011, ha riscontrato l’avvenuta realizzazione, ad opera
del Sig. An.Ga., delle seguenti opere:
- la pavimentazione con mattonelle in cemento del lato posto a nord
della villa, per una superficie di mq 700, nonché la
realizzazione su tale superficie di una piscina (lunga metri
7, larga metri 2,30 e profonda metri 1,50 circa),
fuoriuscente dal piano di campagna per metri 0,40, di una
piattaforma in muratura occupante una superficie di mq 16 e
posta a quota +0,60 rispetto al piano campagna accessibile
tramite tre scalini sempre in muratura, nonché di un locale
bagno diviso in tre vani (antibagno e due wc) e occupante
una superficie di mq 7 circa per un’altezza di metri 2,15
(la cui struttura portante era costituita da muratura su cui
poggiava la copertura in pannelli coibentati);
- la realizzazione di un corpo di fabbrica posto sul lato ovest,
alto mediamente metri tre e costituito da tre mini
appartamenti, ognuno dei quali composto da due vani e un wc,
con un piccolo cortiletto esterno, delimitato da un lato dai
muri del fabbricato e dagli altri lati da piccoli muretti;
- la trasformazione di un box abusivo di mq 25, già segnalato dai
VV.UU. con nota prot. n. 1990 del 05.11.1988 in un mini
appartamento costituito da una stanza e da un piccolo bagno;
- la trasformazione del piano terra della villa in un appartamento
autonomo, costituito da tre vani più due bagni e un piccolo
corridoio.
Per l’effetto, l’Amministrazione, con la medesima nota n.
20/11, ha ordinato l’immediata sospensione dei lavori,
riscontrando la presenza di opere abusive.
Con successiva ordinanza n. 22 del 09.09.2011 lo
stesso Comune, richiamate l’ordinanza di sospensione n. 20
del 2011 e le opere sopra elencate, ha rilevato che:
- le opere in considerazione dovevano ritenersi abusive, in quanto
realizzate in assenza di permesso a costruire e delle
necessarie autorizzazioni e nulla osta;
- il fondo agricolo interessato dagli abusi:
a) risultava
destinato, nel vigente Programma di Fabbricazione, a zona E
(agricola), nel Piano Territoriale Paesistico dell’area
Vesuviana a zona P.I. (protezione integrale);
b) era ubicato
all’interno del Parco Nazionale del Vesuvio; nonché
c)
risultava sottoposto anche al vincolo idrogeologico di cui
al R.D. n. 3267 del 1923;
- l’intero territorio comunale risultava vincolato ai sensi della
L. n. 1497/1939 e della L. n. 431/1985 sulla tutela delle
bellezze naturali, ricadeva nella zona rossa ad alto rischio
vulcanico, risultava sottoposto ai vincoli di cui alla L.R.
n. 21/2013 e alle norme di attuazione del Piano Stralcio
Assetto Idrogeologico, nonché era stato dichiarato zona
sismica con grado di sismicità pari a S=9 D.M. del 07.03.1981.
Per l’effetto, l’Amministrazione ha disposto la demolizione
delle opere de quibus.
Con ordinanza n. 688978 del 13.09.2011 la Regione Campania,
Settore provinciale del Genio civile di Napoli, riscontrando
l’esecuzione di opere in violazione del D.P.R. 380/2001 e
delle leggi vigenti in materia stante il mancato deposito
del progetto ai sensi dell’art. 2 L.R. n. 9/1983, al fine di
salvaguardare la pubblica e privata incolumità, tra l’altro,
ha ordinato al Sig. Ga. la sospensione immediata dei
lavori.
2. Il Sig. Ga., ricorrendo dinnanzi al Tar Campania, sede
di Napoli, ha impugnato le ordinanze nn. 20/2011, 22/2011 e
688978/2011 citate, deducendone l’illegittimità con
l’articolazione di plurimi motivi di censura.
3. Il Tar ha rigettato il ricorso, ravvisando l’infondatezza
delle doglianze attoree.
4. Il ricorrente in primo grado ha appellato la sentenza di
prime cure, censurandone l’erroneità con l’articolazione di
otto motivi di impugnazione.
5. La Regione Campania si è costituita in giudizio,
resistendo al ricorso.
6. L’appellante, con istanza del 26.09.2022, ha
chiesto il passaggio in decisione della controversia,
depositando in pari data copia degli avvisi di ricevimento
attestanti il perfezionamento della notificazione del
ricorso in appello.
...
9. Con il secondo motivo di appello è censurato il
capo decisorio con cui il Tar ha ritenuto che le opere in
contestazione fossero soggette al previo rilascio del
permesso di costruire.
9.1 Secondo quanto dedotto dall’appellante, ferme la
riconducibilità delle opere in parola alla domanda di
condono edilizio, le stesse, in parte, preesistevano
all’acquisto con conseguente illegittimità dell’ordine di
demolizione reso in relazione ad un’attività di nuova
edificazione invero inesistente; in altra parte e, comunque,
non sarebbero riconducibili al regime del permesso di
costruire e dell’autorizzazione paesistica.
Per l’effetto, l’Amministrazione avrebbe, al più, potuto
applicare la sola sanzione pecuniaria ex art. 37 DPR n.
380/2001.
9.2 Il motivo di appello è infondato.
9.3 Nel rinviare alle considerazioni sopra svolte –nella
disamina del precedente motivo di impugnazione– in ordine
alla portata oggettiva della domanda di condono, nella
presente sede occorre evidenziare come le opere in concreto
eseguite abbiano integrato interventi di nuova costruzione o
di ristrutturazione edilizia abusivi, per i quali è stata
correttamente applicata la sanzione ripristinatoria.
In subiecta materia devono trovare applicazione i principi
di diritto, ripetutamente affermati da questo Consiglio di
Stato, in forza dei quali:
- al fine di valutare l'incidenza sull'assetto del
territorio di un intervento edilizio, consistente in una
pluralità di opere, va compiuto un apprezzamento globale,
atteso che la considerazione atomistica dei singoli
interventi non consente di comprenderne in modo adeguato
l'impatto effettivo complessivo. I molteplici interventi
eseguiti non vanno considerati, dunque, in maniera
"frazionata" (Consiglio di Stato, sez. II, 18.05.2020,
n. 3164);
- l'intervento di nuova costruzione consiste in una
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio,
attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia
del terreno, ovvero costruzioni lato sensu intese, che,
indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di
amovibilità, presentino un simultaneo carattere di stabilità
fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò
intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato
al suolo (il cui tratto distintivo e qualificante viene,
dunque, assunto nell'irreversibilità spazio-temporale
dell'intervento) che possono sostanziarsi o nella
costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati o
nell'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della
sagoma stabilita (Consiglio di Stato, sez. VI, 03.03.2020,
n. 1536);
- l'intervento di ristrutturazione edilizia, invece,
sussiste quando viene modificato un immobile già esistente
nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello
stesso: tuttavia, laddove il manufatto sia stato totalmente
trasformato, con conseguente creazione non solo di un
apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume
complessivo dell'intero fabbricato), ma anche di un disegno
sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della
struttura originaria, l'intervento rientra nella nozione di
nuova costruzione; nella nozione di nuova costruzione
possono, dunque, rientrare anche gli interventi di
ristrutturazione qualora, in considerazione dell'entità
delle modifiche apportate al volume e alla collocazione
dell'immobile, possa parlarsi di una modifica radicale dello
stesso, con la conseguenza che l'opera realizzata nel suo
complesso sia oggettivamente diversa da quella preesistente
(Consiglio di Stato, sez. II, 06.04.2020, n. 2304);
- in definitiva, pur consentendo l'art. 10, comma 1, lett.
c), del D.P.R. n. 380 del 2001 di qualificare come
interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività
volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente, implicanti modifiche della
volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti,
occorre conservare sempre una identificabile linea
distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di
nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando
le modifiche volumetriche e di sagoma siano di portata
limitata e comunque riconducibili all'organismo preesistente
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 19.01.2016, n. 328);
- la ristrutturazione edilizia, a sua volta, deve essere
distinta dagli interventi di restauro e risanamento
conservativo;
- mentre la ristrutturazione può condurre ad un "un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente", il restauro e il risanamento conservativo "non
possono mai portare a ridetto "organismo in tutto o in parte
diverso dal preesistente", avendo sempre la finalità di
"conservare l'organismo edilizio" ovvero di "assicurarne la
funzionalità" (cfr. ancora art. 31, lett. c), della L. n. 457
del 1978, traslato testualmente nell'art. 3, comma 1, lett.
c), del D.P.R. n. 380 del 2001)" (Consiglio di Stato, Sez. II,
26.12.2020, n. 8337);
- ne deriva che si è in presenza di un restauro e
risanamento conservativo qualora l'intervento sia funzionale
alla conservazione dell'organismo edilizio e ad assicurarne
la funzionalità, nel rispetto dei suoi elementi tipologici
(in specie, architettonici e funzionali, suscettibili di
consentire la qualificazione dell'organismo in base alle
tipologie edilizie), formali (tali da contraddistinguere il
manufatto, configurandone l'immagine caratteristica) e
strutturali (concernenti la composizione della struttura
dell'organismo edilizio);
- in particolare, "la caratteristica degli interventi di
mero restauro è quella di essere effettuata mediante opere
che non comportano l'alterazione delle caratteristiche
edilizie dell'immobile da restaurare, e quindi rispettando
gli elementi formali e strutturali dell'immobile stesso,
mentre la ristrutturazione edilizia si caratterizza per
essere idonea ad introdurre un quid novi rispetto al
precedente assetto dell'edificio (Cons. Stato Sez. VI, Sent.,
02.09.2020, n. 5350)" (Consiglio di Stato, sez. II, 18.06.2021, n. 4701);
- questo Consiglio (sez. II, 02.04.2021, n. 2735), in
definitiva, ha precisato che "la finalità di conservazione,
caratteristica degli interventi di recupero e risanamento
conservativo, postula il mantenimento tipologico e
strutturale del manufatto; conseguentemente dovendosi
ascrivere gli interventi edilizi che alterino, anche sotto
il profilo della distribuzione interna, l'originaria
consistenza fisica di un immobile (e comportino, altresì, la
modifica e ridistribuzione dei volumi) non già nel concetto
di "manutenzione straordinaria" (e, a fortiori, di
restauro
o risanamento conservativo), ma quale "ristrutturazione
edilizia" (pertanto ravvisabile nella modificazione della
distribuzione della superficie interna e dei volumi e
dell'ordine in cui sono disposte le diverse porzioni
dell'edificio anche per il solo fine di renderne più agevole
la destinazione d'uso esistente)" (Consiglio di Stato, sez. II,
02.04.2021, n. 2735).
9.4 L’applicazione di tali coordinate ermeneutiche al caso
di specie conduce al rigetto del motivo di impugnazione.
9.5 In particolare, la pavimentazione di un’area di 700 mq e
la realizzazione di una piscina, di una piattaforma in
muratura con annesso locale bagno e di un nuovo corpo di
fabbrica costituito da tre mini appartamenti danno luogo ad
interventi di nuova costruzione, avendo condotto
all’edificazione di nuovi organismi edilizi suscettibili di
autonoma utilizzazione, per i quali risultava prescritto il
previo rilascio del prescritto permesso di costruire ex art.
10, comma 1, lett. a), DPR n. 380/2001, in assenza del quale
era dovuta la sanzione ripristinatoria ex art. 31 DPR n.
380/2001.
Non potrebbe diversamente argomentarsi ritenendo che nella
specie non si facesse questione di piscina, ma di mera vasca
di approvvigionamento idrico, tenuto conto che
l’Amministrazione ha sanzionato la realizzazione di un’opera
lunga metri 7, larga metri 2,30 e profonda metri 1,50 circa,
comportante una rilevante trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio: a prescindere dall’utilizzo
(destinazione alla balneazione o alla raccolta di acqua)
l’opera, implicando una modificazione dello stato materiale
e della conformazione del suolo, per adattarlo ad un impiego
diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua
condizione naturale e alla sua qualificazione (Consiglio di
Stato, sez. VI, 30.06.2020, n. 4152) –considerate la
profondità degli scavi e la quantità delle terre movimentate
occorrenti per realizzare un’opera quale quella in
contestazione– integrava gli estremi della nuova
costruzione, sottoposta al previo rilascio del permesso di
costruire.
9.6 Parimenti, la trasformazione di un box preesistente
abusivo ripeteva le stesse caratteristiche di illiceità
dell’abuso originario, con la conseguenza che, facendosi
questione di un nuovo organismo edilizio realizzato sine
titulo, come tale soggetto a sanzione ripristinatoria,
analogo trattamento sanzionatorio doveva essere riservato
alle opere comportanti una sua trasformazione.
9.7 Infine, come osservato, anche in relazione alla
trasformazione del piano terra della villa oggetto della
domanda di condono non ancora evasa, si imponeva la sanzione
demolitoria.
La villa risultava, infatti, abusiva perché non ancora
condonata, ragion per cui sarebbe stato necessario attendere
l'esito del procedimento di condono, non potendo eseguirsi
ulteriori opere in relazione al relativo manufatto: tali
opere, nei fatti realizzate e oggetto del provvedimento
impugnato in primo grado, ripetendo le caratteristiche di
illiceità dell'abuso originario cui strutturalmente
inerivano, risultavano parimenti abusive e, come tali, ben
potevano essere soggette a sanzione ripristinatoria, come
legittimamente disposto dall'Amministrazione comunale con
l'ordine di demolizione per cui è causa (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.11.2022 n. 10360 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In ogni località sottoposta a vincolo
paesaggistico la realizzazione di una piscina deve essere qualificata come
nuova
costruzione che modifica irreversibilmente lo stato dei luoghi, sicché ‒ferma restando la valutazione discrezionale dell'autorità paesaggistica
sulla sua fattibilità, qualora vi sia soltanto un vincolo relativo– la
relativa abusiva edificazione comporta la sanzione ordinaria, cioè ripristinatoria.
---------------
Ai fini di un corretto inquadramento della presente fattispecie si rileva
che con il provvedimento impugnato in primo grado, l’amministrazione
contestava alle appellanti la realizzazione delle seguenti opere:
- struttura serricola di m. 8.40 x 7.80 con copertura in telo
plastificato trasparente supportata da struttura in ferro ad arco, di
altezza al colmo di m. 3.70 e alla gronda di m. 2.30, ancorata ad un muro
perimetrale di altezza pari a m. 1.30;
- piscina in vetroresina di m. 6.30 x 3.30;
- manufatto in muratura di m. 9.10 x 13.30 composto da n. 2 vani e
servizio igienico, di altezza al colmo pari a m. 3.30 e m. 3.00 alla gronda,
con copertura in lamiere coibentate, completo di impianto elettrico, idrico
sanitario, pavimentazione e infissi;
- tettoia con struttura in legno e copertura con tegole in cotto di
m. 12.50 x 3.00 di altezza pari a m. 3.30 al colmo e circa m. 3.00 alla
gronda, costruito in aderenza al citato manufatto in muratura.
...
Quanto alla piscina non può che richiamarsi il pacifico orientamento
giurisprudenziale per il quale «in ogni località sottoposta a vincolo
paesaggistico la realizzazione di una piscina vada qualificata come nuova
costruzione che modifica irreversibilmente lo stato dei luoghi, sicché ‒ferma restando la valutazione discrezionale dell'autorità paesaggistica
sulla sua fattibilità, qualora vi sia soltanto un vincolo relativo– la
relativa abusiva edificazione comporta la sanzione ordinaria, cioè ripristinatoria (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 05/03/2013, n.
1316 e 07/01/2014, n. 18)» (Cons Stato, Sez. VI, 03.06.2022, n. 4570) (Cons Stato, VI, 15.11.2021, n. 7584) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.11.2022 n. 9646 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Una
piscina interrata è da qualificarsi come "nuova costruzione" ai sensi
dell’art. 3, comma 1-e), del D.P.R. n. 380/2001 e, quindi, necessitante del
permesso di costruire per la sua realizzazione.
La giurisprudenza nettamente prevalente ritiene che la
piscina interrata costituisca una nuova costruzione assoggettata al permesso
di costruire e non sia qualificabile in termini di pertinenza dell’edificio
principale in ragione della significativa trasformazione del territorio
giacché “la piscina, in considerazione della sua consistenza modificativa
dell'assetto del territorio, rappresenta una nuova costruzione e non può
essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria o minori,
di cui all'art. 37 del D.P.R. n. 380 del 2001”.
Inoltre è stato rilevato che “le piscine non sono pertinenze in senso
urbanistico in quanto comportanti trasformazione durevole del territorio.
L'aspetto funzionale relativo all'uso del manufatto è altresì condiviso da
altra recente giurisprudenza, secondo cui tutti gli elementi strutturali
concorrono al computo di volumetria dei manufatti, siano essi interrati o
meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto
non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della
funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria
dell'edificio cui accede. La piscina, infatti, a differenza di altri
manufatti, non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere
pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle
abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli
estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura
edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione e postula,
pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito
dal permesso di costruire".
Anche la Cassazione penale ha in più occasioni affermato che “la costruzione
di una piscina interrata, ai sensi dell'art. 3 del D.P.R. 06.06.2001, n.
380, costituisce intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione
edilizia, in quanto crea un aumento di volumetria e comporta la
trasformazione permanente del suolo, essendo necessario, pertanto, per la
sua realizzazione, il rilascio di permesso di costruire”.
---------------
Una piscina, ancorché interrata, ubicata a meno di 3 metri dalla proprietà
pubblica costituita dal marciapiede, siccome disposto dal Regolamento
Edilizio Comunale, deve ritenersi contra legem.
Invero, i
volumi interrati possono derogare alle norme generali in tema di distanze
legali, ma non alle norme speciali stabilite dal Pianificatore locale che,
in quanto integrative della normativa del codice civile, non sono eludibili.
In particolare è stato affermato che “in tema di distanza, in mancanza di
una norma specifica contenuta nel regolamento edilizio comunale (…) va
applicato l’art. 899 del codice civile, che, per le costruzioni interrate
quali pozzi, cisterne e fosse, prevede una distanza minima di "almeno due
metri tra il confine e il punto più vicino del perimetro interno delle opere
predette", con la conseguenza
che quando esistono –come nel caso di specie– disposizioni edilizie locali,
esse esplicano un’efficacia integrativa della disciplina del codice civile
e, in tale prospettiva, non sono derogabili.
Ne consegue che in ragione della contenuta nell’art. 42 del REC che
prescrive la distanza minima di 3 metri, l’ordine di demolizione impugnato
appare legittimo.
---------------
1) La sig.ra -OMISSIS- è proprietaria del terreno sito in via -OMISSIS-,
catastalmente identificato al mappale -OMISSIS-, sub. -OMISSIS-, ove ha
realizzato la propria abitazione.
2) Nel medesimo lotto ha realizzato, in assenza di titolo edilizio, anche
una piscina interrata, come accertato dal Comune con sopralluogo in data
-OMISSIS- 2021.
3) Pertanto la civica amministrazione, con nota -OMISSIS- del -OMISSIS-
2021, ha avviato il procedimento di “verifica della regolarità delle
opere di realizzazione di una nuova piscina interrata” contestando che
il lotto non ha una dotazione sufficiente di “superficie drenante” e
che la distanza tra la piscina e strada pubblica è inferiore a quella
stabilita dall’art. 42 del Regolamento Edilizio Comunale (REC).
4) In riscontro a detta nota la ricorrente ha inviato le proprie
osservazioni assunte al prot. -OMISSIS- del -OMISSIS- 2021 con le quali,
dopo avere ammesso la sussistenza delle violazioni contestate, ha chiesto al
Comune se fosse possibile una “deroga dei parametri edilizi e urbanistici
non conformi alle normative nazionali e locali in vigore, al fine di poter
procedere con la sanatoria della piscina in oggetto”, accertamento di
conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 che, tuttavia, non è mai stato
richiesto, difettando, appunto, la conformità urbanistica dell’intervento.
5) Sennonché il Comune:
- dapprima con nota n. -OMISSIS- dell’-OMISSIS- 2021, ha negato
ogni possibilità di deroga richiesta dalla ricorrente;
- successivamente, con ordinanza n -OMISSIS- del -OMISSIS- 2021, ha
ordinato la demolizione dell’opera ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n 380/2001
in quanto realizzata senza titolo abilitativo e non urbanisticamente
conforme perché:
- il lotto non dispone di una sufficiente dotazione di “superficie
drenante”;
- sono violate le distanze minime di cui all’art. 42 del REC.
6) Con il ricorso di cui in epigrafe la ricorrente ha impugnato la citata
ordinanza ingiuntiva della demolizione e gli atti presupposti, con richiesta
di sospensione cautelare.
...
10) Con il PRIMO MOTIVO la ricorrente ha dedotto l’illegittimità
dell’impugnata ordinanza per difetto di istruttoria e travisamento in quanto
la piscina realizzata, avendo dimensioni ridotte, non costituirebbe una
nuova costruzione ma solamente una pertinenza dell’edificio non soggetta a
permesso di costruire in quanto rientrante nel limite del 20% della
volumetria dell’immobile principale di cui all’art. 3, comma 1-e), del
D.P.R. n. 380/2001.
Il motivo è infondato.
La giurisprudenza nettamente prevalente, che il Collegio condivide, ritiene
che la piscina interrata costituisca una nuova costruzione assoggettata al
permesso di costruire e non sia qualificabile in termini di pertinenza
dell’edificio principale in ragione della significativa trasformazione del
territorio giacché “la piscina, in considerazione della sua consistenza
modificativa dell'assetto del territorio, rappresenta una nuova costruzione
e non può essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria
o minori, di cui all'art. 37 del D.P.R. n. 380 del 2001” (TAR Piemonte,
sez. II, 02/08/2022, n. 703; TAR Napoli, sez. VII, 16/03/2017, n. 1503).
Inoltre è stato rilevato che “le piscine non sono pertinenze in senso
urbanistico in quanto comportanti trasformazione durevole del territorio.
L'aspetto funzionale relativo all'uso del manufatto è altresì condiviso da
altra recente giurisprudenza, secondo cui tutti gli elementi strutturali
concorrono al computo di volumetria dei manufatti, siano essi interrati o
meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto
non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della
funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria
dell'edificio cui accede. La piscina, infatti, a differenza di altri
manufatti, non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere
pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle
abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli
estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura
edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione e postula,
pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito
dal permesso di costruire" (TAR Campania, Napoli, sez. III, 09.09.2020,
n. 3730).
Anche la Cassazione penale ha in più occasioni affermato che “la
costruzione di una piscina interrata, ai sensi dell'art. 3 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380, costituisce intervento di nuova costruzione e non di
ristrutturazione edilizia, in quanto crea un aumento di volumetria e
comporta la trasformazione permanente del suolo, essendo necessario,
pertanto, per la sua realizzazione, il rilascio di permesso di costruire”
(Cass. Pen. sez. III, 16.01.2019, n. 1913).
Pertanto, siccome il manufatto contestato è dotato di autonoma rilevanza
urbanistica e soggiace al rilascio del Permesso di costruire, è legittimità
dell’impugnata ordinanza che ha qualificato il manufatto come nuova
costruzione ai sensi dell’art. 3, comma 1-e), del D.P.R. n. 380/2001 e,
quindi, ne ha debitamente ingiunto la demolizione ai sensi del successivo
art. 31 perché realizzata in assenza di detto titolo abilitativo edilizio.
11) Con il SECONDO MOTIVO la ricorrente ha dedotto la violazione:
i) dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 in materia di accertamento
di conformità;
ii) dell’art. art. 44 del Regolamento edilizio comunale (REC) in
materia di “superficie drenante” del lotto per realizzare nuove
edificazioni;
iii) dell’art. 42 del medesimo REC in punto di distanze dai
confini.
Il motivo è infondato.
11.1) La doglianza sub i) è palesemente infondata atteso che la ricorrente
non ha mai richiesto alcun accertamento di conformità ex art. 36, ma ha
semplicemente formulato un’istanza esplorativa al Comune sulla possibilità
di deroga rispetto ad alcuni parametri edilizi ostativi alla sanatoria
dell’intervento in questione (deroga, peraltro, esclusa dal Comune con nota
n. -OMISSIS- dell’-OMISSIS- 2021).
Ne consegue che nessuna violazione dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 è
configurabile, non essendo mai stata attivata il relativo procedimento.
11.2) Infondato è anche il profilo sub ii) secondo cui la superficie
drenante richiesta dall’art. 44 del REC –pacificamente mancante nel lotto
della ricorrente– sarebbe reperibile nell’area che circonda il compendio
immobiliare ad ovest e a sud, operazione che sarebbe consentita dalla
Convenzione urbanistica relativa al Piano Attuativo n. 11 che, in origine,
aveva regolato l’edificazione della zona e la realizzazione dell’abitazione
della ricorrente.
a) In primo luogo si rileva che, se anche tale operazione fosse stata
effettuabile durante il periodo di efficacia della Convenzione (e ciò non è
in alcun modo dimostrato), siccome detta Convenzione urbanistica è
pacificamente scaduta, risultano inapplicabili le relative norme e preclusa
qualsiasi possibilità di scambio o cessione di indici edificatori (o di
altro tipo) tra fondi diversi che, oltretutto, sono ormai sottratti alla
disponibilità della ricorrente perché da tempo sono stati ceduti al Comune
in esecuzione della Convenzione suddetta.
b) È infondata anche la tesi secondo cui l’intervento edilizio contestato
sarebbe ammesso in quanto effettuato in un “lotto intercluso delle zone
residenziali” per il quale l’art. 44 del REC non imporrebbe un limite
vincolante per la superficie drenante prevedendo che “Nei casi di
interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, di interventi di
ristrutturazione urbanistica, di interventi da realizzarsi in aree ricadenti
in lotti interclusi delle zone residenziali, i parametri di superficie
scoperta e drenante di cui al primo comma costituiscono obbiettivo a cui
tendere”.
Sennonché tale disposizione risulta inapplicabile al fondo della ricorrente
perché:
- esso non è intercluso (in senso fisico), atteso che ad esso si
accede direttamente dalla strada pubblica;
- lo stesso non è intercluso neppure sotto il profilo urbanistico
giacché il “lotto intercluso” è costituito da enclavi ancora
edificate e situate all’interno di in un’area già integralmente urbanizzata
che, per tale ragione, sono edificabili anche in assenza di un Piano
urbanistico attuativo o di una Convenzione di lottizzazione (ex multis:
Cons. Stato, Sez. sez. IV, 02.04.2020, 2228), ma tale situazione non ricorre
nel caso di specie sia perché tale qualità del fondo non è stata dimostrata,
sia perché il lotto della ricorrente è già stato edificato e non vi è prova
che la zona circostante sia stata integralmente urbanizzata, anche perché il
Piano attuativo originario è stato attuato solo parzialmente.
11.3) L’art. 42 del REC stabilisce che “Le distanze minime da rispettare,
misurate dal bordo interno dell’invaso, sono le seguenti: - mt. 3,00 dal
filo esterno degli edifici della medesima proprietà e dai confini con la
proprietà pubblica (…)”.
La piscina è ubicata pacificamente a meno di 3 metri dalla proprietà
pubblica costituita dal marciapiede, ma la ricorrente ritiene inapplicabile
la norma al manufatto in quanto totalmente interrato.
La tesi è infondata.
Come correttamente argomentato dalla difesa della civica amministrazione i
volumi interrati possono derogare alle norme generali in tema di distanze
legali, ma non alle norme speciali stabilite dal Pianificatore locale che,
in quanto integrative della normativa del codice civile, non sono eludibili.
In particolare è stato affermato che “in tema di distanza, in mancanza di
una norma specifica contenuta nel regolamento edilizio comunale (…) va
applicato l’art. 899 del codice civile, che, per le costruzioni interrate
quali pozzi, cisterne e fosse, prevede una distanza minima di "almeno due
metri tra il confine e il punto più vicino del perimetro interno delle opere
predette" (Cons. Stato, Sez. II, 07.01.2022 n. 109), con la conseguenza
che quando esistono –come nel caso di specie– disposizioni edilizie locali,
esse esplicano un’efficacia integrativa della disciplina del codice civile
e, in tale prospettiva, non sono derogabili.
Ne consegue che in ragione della contenuta nell’art. 42 del REC che
prescrive la distanza minima di 3 metri, l’ordine di demolizione impugnato
appare legittimo anche sotto tale profilo.
12) Conclusivamente il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 24.10.2022 n. 993 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Tutti
gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del
manufatto, siano essi interrati o meno, e fra essi deve intendersi
ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in
senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di
svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede.
Pertanto, la realizzazione di una piscina è configurabile come intervento di
ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n.
380 del 2001, nella misura in cui realizza l'inserimento di nuovi elementi
ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai
sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.P.R., in quanto
comporta una durevole trasformazione del territorio.
La realizzazione della stessa non può essere attratta alla categoria
urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente
complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo
svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad
una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa
ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad
aedificandum, costituito dal permesso di costruire.
Conseguentemente, l’ordinanza è legittima quanto all’ingiunzione di
demolizione della piscina realizzata in assenza del permesso di costruire.
---------------
5.5. Sulla piscina
Essa è menzionata nella d.i.a. del 2006 quale “fontana ornamentale”
e riportata negli elaborati grafici. Tuttavia, dalla visione della
documentazione fotografica allegata alla relazione tecnica redatta dai
verificatori è agevolmente riscontrabile come non si tratti di una fontana
bensì di una piscina a tutti gli effetti, sicché risulta applicabile il
principio in forza del quale tutti gli elementi strutturali concorrono al
computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra
essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non
qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione
autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio
al quale accede.
Pertanto, la realizzazione di una piscina è configurabile come intervento di
ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n.
380 del 2001, nella misura in cui realizza l'inserimento di nuovi elementi
ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai
sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.P.R., in quanto
comporta una durevole trasformazione del territorio (TAR Napoli, sez. VI,
07/01/2022, n. 105).
La realizzazione della stessa non può essere attratta alla categoria
urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente
complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo
svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad
una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa
ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire (TAR Salerno, sez. II,
10/11/2020, n. 1631).
Conseguentemente, l’ordinanza è legittima quanto all’ingiunzione di
demolizione della piscina realizzata in assenza del permesso di costruire (TAR
Campania-Salerno, Sez. III,
sentenza 30.08.2022 n. 2262 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di una piscina in un complesso immobiliare preesistente non
costituisce pertinenza urbanistica in senso proprio, ma una nuova
costruzione, comportando inevitabilmente la modifica durevole del
preesistente assetto dei luoghi e avendo essa funzione autonoma rispetto a
quella propria dell’edificio cui accede.
A differenza di altri manufatti, la piscina non è necessariamente
complementare all’uso delle abitazioni e non costituisce soltanto
un’attrezzatura per lo svago, ma integra una struttura edilizia suscettibile
di autonoma fruizione, che incide in maniera rilevante e con effetti
permanenti sull’area in cui insiste, richiedendo, quindi, il previo rilascio
dell’idoneo titolo ad aedificandum.
Poiché la piscina, in considerazione della sua consistenza modificativa
dell’assetto del territorio, rappresenta una nuova costruzione e non può
essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria o minori,
di cui all’art. 37 del D.P.R. n. 380 del 2001, per la sua realizzazione è
richiesto il permesso di costruire, così come per tutte le attività
qualificabili come interventi di nuova costruzione comportanti la
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
---------------
12. Con il primo mezzo, questi ultimi lamentano che l’intervento
edilizio oggetto della SCIA n. 6/21 costituirebbe una “nuova costruzione”,
in quanto tale soggetta al rilascio di permesso di costruire perché
comportante una rilevante modifica dell’assetto territoriale preesistente,
con alterazione del piano di campagna e realizzazione di strutture in
cemento armato.
L’intervento, dunque, non potrebbe rientrare nell’ambito della manutenzione
straordinaria di cui all’articolo 3, comma 1, lett. b), del DPR n. 380/2001,
né essere conseguentemente assentibile tramite SCIA, come invece sostenuto
dal controinteressato.
12.1. Preliminarmente, risulta dalla relazione tecnica allegata alla SCIA n.
6/2 che il progetto in questione abbia ad oggetto la realizzazione di un
nuovo accesso pedonale e di una nuova piscina a uso privato, avente
struttura monolitica autoportante in cemento armato, rivestita da pannelli
appoggiati e assemblati su plinti livellati bloccati con bulloni e dadi in
acciaio; in prossimità dell’accesso è prevista, altresì, la partenza di una
scalinata che prosegue lungo i tratti di recinzione ovest e nord.
12.2. Così delineate le caratteristiche oggettive dell’intervento
costruttivo di cui si discute, ritiene il Collegio che, in continuità con
costante giurisprudenza amministrativa, la realizzazione di una piscina in
un complesso immobiliare preesistente non costituisca pertinenza urbanistica
in senso proprio, ma una nuova costruzione, comportando inevitabilmente la
modifica durevole del preesistente assetto dei luoghi e avendo essa funzione
autonoma rispetto a quella propria dell’edificio cui accede. A differenza di
altri manufatti, la piscina non è necessariamente complementare all’uso
delle abitazioni e non costituisce soltanto un’attrezzatura per lo svago, ma
integra una struttura edilizia suscettibile di autonoma fruizione, che
incide in maniera rilevante e con effetti permanenti sull’area in cui
insiste, richiedendo, quindi, il previo rilascio dell’idoneo titolo ad
aedificandum (cfr., ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sez. I,
18.01.2022, n. 76 con ampi rimandi giurisprudenziali).
12.3. Poiché la piscina, in considerazione della sua consistenza
modificativa dell’assetto del territorio, rappresenta una nuova costruzione
e non può essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria
o minori, di cui all’art. 37 del D.P.R. n. 380 del 2001, per la sua
realizzazione è richiesto il permesso di costruire, così come per tutte le
attività qualificabili come interventi di nuova costruzione comportanti la
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 02.08.2022 n. 703 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Necessita del titolo edilizio anche per la realizzazione di una
piscina.
Invero, “tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della
volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra essi deve
intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come
pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in
grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede.
Pertanto, la realizzazione di una piscina è configurabile come intervento di
ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n.
380 del 2001, nella misura in cui realizza l'inserimento di nuovi elementi
ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai
sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.P.R., in quanto
comporta una durevole trasformazione del territorio”.
---------------
Anche per la costruzione di un box necessita del titolo edilizio che,
nonostante le ridotte dimensioni, è pur sempre un volume nuovo, destinato a
funzioni durevoli nel tempo (non precarie o temporanee) e come tali
comportanti ampliamento di superficie e volume.
Invero, “la precarietà o meno di un manufatto ed il suo regime giuridico dal
punto di vista urbanistico è correlata alla destinazione dell'opera, con la
conseguenza che l'installazione di un box prefabbricato, attraverso semplice
appoggio e senza ancoraggio al suolo, non sottrae, di per sé, l'intervento
al regime concessorio”.
---------------
Nei limiti di quanto dedotto nel presente giudizio, il titolo edilizio
sarebbe stato peraltro necessario anche per la realizzazione della piscina
(TAR Napoli, sez. VI, 07/01/2022, n. 105, secondo la quale “tutti gli
elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto,
siano essi interrati o meno, e fra essi deve intendersi ricompresa anche la
piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in
ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella
propria dell'edificio al quale accede. Pertanto, la realizzazione di una
piscina è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai
sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura
in cui realizza l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi
subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10,
comma 1, lett. c), dello stesso d.P.R., in quanto comporta una durevole
trasformazione del territorio”) come pure per il box, che, nonostante le
ridotte dimensioni, è pur sempre un volume nuovo, destinato a funzioni
durevoli nel tempo (non precarie o temporanee) e come tali comportanti
ampliamento di superficie e volume (cfr. Consiglio di Stato, sez. II,
11/06/2020, n. 3730, secondo cui “la precarietà o meno di un manufatto ed
il suo regime giuridico dal punto di vista urbanistico è correlata alla
destinazione dell'opera, con la conseguenza che l'installazione di un box
prefabbricato, attraverso semplice appoggio e senza ancoraggio al suolo, non
sottrae, di per sé, l'intervento al regime concessorio”) (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-stralcio,
sentenza 22.07.2022 n. 10502 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
pertinenza urbanistica è configurabile quando vi sia un oggettivo nesso
funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, cioè un
nesso che non consenta altro che la destinazione del bene accessorio ad un
uso pertinenziale durevole, sempre che l’opera
secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico, sicché
il concetto di pertinenza urbanistica è ritenuto dalla giurisprudenza
amministrativa meno ampio di quello definito dall’art. 817 c.c., tale da non
poter consentire la realizzazione di opere soltanto perché destinate al
servizio di un bene qualificato come principale.
---------------
E' da escludere che una piscina, specie quando risulti di rilevanti dimensioni, possa essere
considerata “pertinenza urbanistica”, avendo un’autonoma funzione
rispetto all’edificio “principale” ed essendo sul punto la
giurisprudenza pacifica nell’affermare che <<siffatto intervento deve
qualificarsi di nuova costruzione non suscettibile di accertamento postumo
di compatibilità paesaggistica, ai sensi dell’art. 167 d.lgs. 42/2004,
essendo in grado di modificare irreversibilmente lo stato dei luoghi con
diversa destinazione ed uso del suolo>>.
---------------
... per l’annullamento del provvedimento di rigetto dell’istanza di condono
edilizio prot. n. 13867 del 27.04.2004, presentata dal sig. Cr.Gi. ai sensi
dell’art. 32 del d.l. 269/2003, relativa all’immobile del sig. Cr.Ca.,
adottato dal Comune di Frascati l’08.11.2006;
...
1. Con l’atto introduttivo del presente giudizio, notificato in data
09.03.2007 e depositato il successivo 05.04.2007, i ricorrenti impugnano il
provvedimento meglio indicato in epigrafe, chiedendone l’annullamento.
In particolare, i ricorrenti espongono quanto segue:
- con istanza inoltrata in data 27.04.2004 dal sig. Cr.Gi., veniva
chiesto il rilascio di concessione in sanatoria per una “piscina
prefabbricata in metallo, di circa metri sette per quattordici”;
- tale istanza era respinta con il provvedimento di cui sopra,
poiché l’opera ricade “in area vincolata, per tutela paesistico
ambientale” e “poiché la stessa opera, realizzata senza titolo
abilitativo, risulta non conforme alle norme urbanistiche vigenti,
contrastando con l’art. 3 delle NTA della variante stralcio al PRG per le
zone agricole”.
...
Per esigenze di completezza, determinate dal rilievo che i ricorrenti
–seppure non abbiano mai richiamato e/o invocato la sussistenza di un
rapporto pertinenziale tra le opere di cui sopra e altre costruzioni- hanno
affermato che si tratta di un intervento che non ha “determinato la
creazione di superfici utili o volumi, ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati” (cfr. pag. 1 dell’atto introduttivo del
giudizio) e hanno, ancora, evidenziato l’ampiezza del lotto (tre ettari)
nonché l’insistenza su di esso di una “vasta casa padronale e numerose e
ampie dipendenze”, preme aggiungere che:
- la pertinenza urbanistica è configurabile quando vi sia un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella
principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione del
bene accessorio ad un uso pertinenziale durevole, sempre che l’opera
secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico (cfr. Cons. St.
sez. VI, 29/01/2015, n. 406; Cons. St. sez. VI, 05/01/2015, n. 13), sicché
il concetto di pertinenza urbanistica è ritenuto dalla giurisprudenza
amministrativa meno ampio di quello definito dall’art. 817 c.c., tale da non
poter consentire la realizzazione di opere soltanto perché destinate al
servizio di un bene qualificato come principale (cfr. Cons. St. sez. IV,
17/05/2010, n. 3127);
- invero, è da escludere che una piscina, specie quando –come
nell’ipotesi in trattazione– risulti di rilevanti dimensioni, possa essere
considerata “pertinenza urbanistica”, avendo un’autonoma funzione
rispetto all’edificio “principale” ed essendo sul punto la
giurisprudenza pacifica nell’affermare che <<siffatto intervento deve
qualificarsi di nuova costruzione non suscettibile di accertamento postumo
di compatibilità paesaggistica, ai sensi dell’art. 167 d.lgs. 42/2004,
essendo in grado di modificare irreversibilmente lo stato dei luoghi con
diversa destinazione ed uso del suolo ….. (TAR Napoli, sez. VII, 16.03.2017,
n. 1503; cfr. anche Cons. Stato, sez. VI, 12.01.2011, n. 110)>> (TAR
Campania, n. 1293 del 2020) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-stralcio,
sentenza 21.06.2022 n. 8325 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va ribadito come in ogni località
sottoposta a vincolo paesaggistico la realizzazione di una piscina vada
qualificata come nuova costruzione che modifica irreversibilmente lo stato
dei luoghi, sicché ‒ferma restando la valutazione discrezionale
dell'autorità paesaggistica sulla sua fattibilità, qualora vi sia soltanto
un vincolo relativo– la relativa abusiva edificazione comporta la sanzione
ordinaria, cioè ripristinatoria.
Al riguardo, hanno una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le
opere realizzate sull'area sottoposta a vincolo, anche se trattasi di volumi
tecnici ed anche se si tratta di una piscina, poiché le esigenze di tutela
dell'area sottoposta a vincolo paesaggistico –da sottoporre alla previa valutazione degli organi competenti- possono anche esigere l’immodificabilità
dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore modifica).
---------------
- infine, per ciò che concerne il quarto ed ultimo motivo, relativo
alla piscina, se per un verso assume rilievo dirimente la predetta
valutazione unitaria, per un altro verso va ribadito come in ogni località
sottoposta a vincolo paesaggistico la realizzazione di una piscina vada
qualificata come nuova costruzione che modifica irreversibilmente lo stato
dei luoghi, sicché ‒ferma restando la valutazione discrezionale
dell'autorità paesaggistica sulla sua fattibilità, qualora vi sia soltanto
un vincolo relativo– la relativa abusiva edificazione comporta la sanzione
ordinaria, cioè ripristinatoria (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI,
05/03/2013, n. 1316 e 07/01/2014, n. 18);
- al riguardo, hanno una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le
opere realizzate sull'area sottoposta a vincolo, anche se trattasi di volumi
tecnici ed anche se si tratta di una piscina, poiché le esigenze di tutela
dell'area sottoposta a vincolo paesaggistico –da sottoporre alla previa valutazione degli organi competenti- possono anche esigere l’immodificabilità
dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore modifica) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.06.2022 n. 4570 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una
piscina, ancorché interrata, concreta intervento edilizio ex novo e richiede
pertanto il rilascio di un autonomo permesso di costruire, non potendo
essere ricompresa nel regime urbanistico delle pertinenze in quanto essa
“non è solo una attrezzatura per lo svago, ma innanzi tutto una struttura di
tipo edilizio che incide invasivamente sul sito in cui viene realizzata”.
---------------
Per
la piscina valgono le medesime considerazioni, potendosi soltanto aggiungere
come per questo manufatto occorresse anche il titolo edilizio (cfr. di
questa Sezione la sent. 26.07.2021, n. 8921: la realizzazione di una
piscina, ancorché interrata, concreta intervento edilizio ex novo e richiede
pertanto il rilascio di un autonomo permesso di costruire, non potendo
essere ricompresa nel regime urbanistico delle pertinenze in quanto essa
“non è solo una attrezzatura per lo svago, ma innanzi tutto una struttura di
tipo edilizio che incide invasivamente sul sito in cui viene realizzata”) (TAR
Lazio-Roma. Sez. II-quater,
sentenza 12.05.2022 n. 5928 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il deposito edile e i ripostigli (realizzati mediante
l’installazione di prefabbricati in lamiera e coibentato, aventi superficie
totale di circa mq 90,00 ed altezza media m. 2,20, con in adiacenza il
posizionamento di materiale di risulta edile), presentano le caratteristiche
per essere qualificabili come interventi di “nuova costruzione”
necessitanti del del permesso di costruire ai sensi dell’art. 31 e
dell’art. 3 del DPR 380/2001.
...
Altresì, la struttura in muratura ad uso ripostiglio (di dimensioni m.
4,50 x 4,40, avente copertura ad una falda, con altezza al colmo di m. 3,10
ed all’imposta di m. 2,40) sostanzia una “nuova
costruzione”
che non può certo ricondursi tra le attività di edilizia libera, attese le
dimensioni e la non precarietà della struttura.
...
Del pari, la piscina con in adiacenza
struttura in legno ad uso locale macchina piscina (avente dimensioni di m.
3,30 x 2,80 con copertura a due falde di altezza al colmo m. 2,70 ed alle
imposte m. 2,00) non sostanzia attività edilizia
libera, né per le concrete caratteristiche e la finalità delle opere
contestate, descritte anche nell’ordinanza impugnata e sopra riportate, può
riavvisarsi la natura pertinenziale di tali manufatti.
Invero, la giurisprudenza ha costantemente affermato che per potersi
affermare la natura pertinenziale di un manufatto rispetto ad un altro è
necessario accertare che vi sia da parte del bene pertinenziale un’obiettiva
funzione di migliore utilizzazione della res principalis, tale che in
sua assenza risulterebbero impedite o sacrificate talune delle materiali
possibilità di sfruttamento o godimento di quest’ultima, e ciò in quanto, ai
sensi dell’art. 7, lett. a), L. 25.03.1992 n. 94, deve considerarsi
pertinenza urbanistica l’opera che, per l’oggettiva natura e conformazione,
non consente altra destinazione che quella adibita in modo durevole al
servizio di altro immobile preesistente per renderne possibile un migliore
utilizzo ovvero aumentarne il decoro, mentre non costituisce pertinenza
l’opera nuova priva del carattere della strumentalità funzionale rispetto
alla costruzione esistente, elementi sicuramente carenti nel caso di specie
in relazione a tutti i manufatti sopra descritti.
E con più specifico riguardo alla piscina, la giurisprudenza anche più
recente ha rilevato che, oltre a costituire una permanente modificazione del
suolo, tale manufatto ha un rilievo autonomo tale da escludere la relazione
di accessorietà rispetto al fabbricato inteso come principale.
---------------
I ricorrenti hanno agito in giudizio per l’annullamento dell’ordinanza di
ripristino dello stato dei luoghi Prot. n. 18398 del 04.06.2015, emessa dal
Comune di Cesenatico, Settore Sviluppo del Territorio Edilizia Privata,
avente ad oggetto alcune opere abusive, notificata a La.Vi. e Pu.An.Ma. in
qualità di presunti autori materiali, ed alla sig.ra La.Ar. in qualità di
proprietaria del terreno agricolo su cui insistono i manufatti contestati.
I ricorrenti hanno chiesto altresì la condanna del Comune al risarcimento
dei danni derivanti dall'eventuale esecuzione del provvedimento impugnato.
In fatto hanno allegato che La.Ar. è proprietaria del terreno
agricolo sito in Cesenatico (FC), Via Mesola, identificato al Catasto
Terreni del Comune di Cesenatico, Fg. 10, part. 426, in relazione al quale
il Comune ha emesso l’ordinanza di demolizione impugnata in questa sede, con
riguardo alle seguenti opere, asseritamente abusive perché prive del
necessario permesso di costruire:
“a) Realizzazione di deposito edile e ripostigli,
mediante l'installazione di prefabbricati in lamiera e coibentato, aventi
superficie totale di circa mq. 90,00 ed altezza media m. 2,20, con in
adiacenza posizionamento di materiale di risulta edile;
b) Posizionamento di roulotte, avente dimensioni di m. 8,00
x 3,00 e altezza di circa m. 2,00; realizzazione sulla parte dell'ingresso
della stessa di piccolo pergolato/gazebo (edilizia libera) in PVC. Si
precisa che la roulotte è appoggiata al suolo, risulta fornita di ruote; al
momento dei sopralluoghi non era utilizzata, nonostante fosse stata
installata in adiacenza una fossa imhoff la roulotte non risulta allacciata
alle utenze gas, acqua, scarichi bagno.
c) Realizzazione di piscina con in adiacenza struttura in
legno ad uso locale macchine piscina, avente dimensioni di m. 3,30 x 2,80
con copertura a due falde di altezza al colmo m. 2,70 ed alle imposte m.
2,00.
d) Realizzazione di struttura in muratura ad uso ripostiglio,
di dimensioni m. 4,50 x 4,40, avente copertura ad una falda, con altezza al
colmo di m. 3,10 ed all'imposta di m. 2,40;
e) Realizzazione di struttura precaria in materiale di
risulta, priva di fondazione, non stabilmente infissa al suolo, ad uso
ricovero/pollaio animali (galline e tre pecore) di dimensioni di m. 8,00 x
3,90, avente copertura ad una falda con altezza al colmo di m. 2,50 ed
all'imposta di m. 2,40;
- considerato che in riferimento alla lettera B) la roulotte non risulta
idonea alla circolazione in quanto priva di carta di circolazione e targa;
- considerato inoltre che in riferimento alla lettera E) l'Agenzia del
Territorio non ritiene di accatastare simili strutture, in quanto precarie
ed oggetto di continui spostamenti, dovuti anche alle necessità degli
animali”.
In particolare, il Comune ha ordinato il ripristino dello stato dei luoghi
mediante: la demolizione del deposito edile di materiale di risulta e dei
prefabbricati in lamiera e coibentato; la rimozione della roulotte; la
demolizione della piscina e della struttura in legno ad uso locale macchine
piscina; la demolizione della struttura in muratura ad uso ripostiglio.
...
Solo parzialmente fondata è, invece, la seconda doglianza articolata in
atti.
In particolare, secondo i ricorrenti alcune opere contestate dal Comune non
andrebbero ricondotte nell’ambito dell’attività edilizia (posizionamento
della roulotte, punto B dell’ordinanza), mentre le altre sarebbero
riconducibili all’attività edilizia libera, trattandosi di manufatti di
modeste dimensioni, di natura precaria e pertinenziale, senza alcuna opera
edilizia.
Quanto alla roulotte (punto B dell’ordinanza), il Collegio rileva che
nell’ordinanza si legge: “la roulotte è appoggiata al suolo, risulta
fornita di ruote; al momento dei sopralluoghi non era utilizzata, nonostante
fosse stata installata in adiacenza una fossa imhoff la roulotte non risulta
allacciata alle utenze gas, acqua, scarichi bagno” e rispetto a tale
manufatto nulla ha argomentato il Comune nella relazione prodotta in corso
di causa, sicché sul punto il ricorso va accolto, emergendo dagli atti che
il manufatto in discussione è costituito da una struttura leggera atta a
soddisfare bisogni meramente temporanei e non durature esigenze abitative
(TAR Lazio, Roma Sez. II-bis, 26.03.2014 n. 3328; TAR Lazio, Roma Sez.
I-quater, 09.01.2014 n. 217).
Con riferimento poi al punto E dell’ordinanza impugnata si osserva che, come
ammesso dagli stessi ricorrenti, il Comune non ha disposto la demolizione
del manufatto ivi descritto, verosimilmente proprio in quanto ha ritenuto
tale bene costituito da una “struttura precaria in materiale di risulta,
priva di fondazione, non stabilmente infissa al suolo, ad uso
ricovero/pollaio animali (galline e tre pecore)”, sicché sul punto non
va adottata alcuna pronuncia, esulando tale opera da quelle oggetto
dell’ordine di ripristino.
Infondata, invece, risulta la doglianza in esame con riferimento ai
manufatti di cui ai punti A (deposito edile e ripostigli),
C (piscina e
locale macchine) e D (struttura in muratura ad uno ripostiglio), non
potendosi tali opere, ad avviso del Collegio, inquadrare nell’ambito
dell’attività edilizia libera, come sostengono i ricorrenti in ricorso, né
può affermarsene la natura pertinenziale rispetto al fabbricato principale.
Invero, il deposito edile e i ripostigli (realizzati mediante
l’installazione di prefabbricati in lamiera e coibentato, aventi superficie
totale di circa mq 90,00 ed altezza media m. 2,20, con in adiacenza il
posizionamento di materiale di risulta edile), presentano le caratteristiche
per essere qualificabili come interventi di “nuova costruzione”
eseguiti in assenza del permesso di costruire ai sensi dell’art. 31 e
dell’art. 3 del DPR 380/2001, nonché ai sensi dell’art. 13 L.R. 23/2004,
collocati sui luoghi in contrasto con le norme urbanistiche dell’area sita
in zona agricola, in violazione con i parametri edilizio-urbanistici
previsti dalle NTA del PRG richiamate dal Comune.
Peraltro, la stessa destinazione dei locali a deposito edile è, all’evidenza,
incompatibile col territorio agricolo, né può condividersi la tesi difensiva
dei ricorrenti secondo cui si tratterebbe di prefabbricato in lamiera e coibentato, senza alcuna opera edilizia, ritenendo il Collegio, viste le
concrete dimensioni e caratteristiche del manufatto, che l’opera risulti
invece rilevante dal punto di vista urbanistico-edilizio e non riconducibile
nell'attività edilizia libera.
Né trova fondamento la tesi difensiva di parte ricorrente con riguardo
all’opera sub D (struttura in muratura ad uso ripostiglio, di dimensioni m.
4,50 x 4,40, avente copertura ad una falda, con altezza al colmo di m. 3,10
ed all’imposta di m. 2,40), trattandosi anche in questo caso di “nuova
costruzione” incompatibile con tipologie ammissibili in zona agricola e
che non può certo ricondursi tra le attività di edilizia libera, attese le
dimensioni e la non precarietà della struttura.
Del pari, quanto al punto C dell’ordinanza (piscina con in adiacenza
struttura in legno ad uso locale macchina piscina, avente dimensioni di m.
3,30 x 2,80 con copertura a due falde di altezza al colmo m. 2,70 ed alle
imposte m. 2,00), sicuramente priva di pregio è la doglianza contenuta in
ricorso secondo cui si tratterebbe anche in questo caso di attività edilizia
libera, né per le concrete caratteristiche e la finalità delle opere
contestate, descritte anche nell’ordinanza impugnata e sopra riportate, può
riavvisarsi la natura pertinenziale di tali manufatti.
Invero, la giurisprudenza ha costantemente affermato che per potersi
affermare la natura pertinenziale di un manufatto rispetto ad un altro è
necessario accertare che vi sia da parte del bene pertinenziale un’obiettiva
funzione di migliore utilizzazione della res principalis, tale che in
sua assenza risulterebbero impedite o sacrificate talune delle materiali
possibilità di sfruttamento o godimento di quest’ultima, e ciò in quanto, ai
sensi dell’art. 7, lett. a), L. 25.03.1992 n. 94, deve considerarsi
pertinenza urbanistica l’opera che, per l’oggettiva natura e conformazione,
non consente altra destinazione che quella adibita in modo durevole al
servizio di altro immobile preesistente per renderne possibile un migliore
utilizzo ovvero aumentarne il decoro, mentre non costituisce pertinenza
l’opera nuova priva del carattere della strumentalità funzionale rispetto
alla costruzione esistente, elementi sicuramente carenti nel caso di specie
in relazione a tutti i manufatti sopra descritti.
E con più specifico riguardo alla piscina, la giurisprudenza anche più
recente ha rilevato che, oltre a costituire una permanente modificazione del
suolo, tale manufatto ha un rilievo autonomo tale da escludere la relazione
di accessorietà rispetto al fabbricato inteso come principale (TAR Napoli,
sez. VII, 17/09/2020, n. 3874; TAR Campania, Napoli, sez. III, 07.01.2020,
n. 42; TAR Campania, Salerno, sez. II, 18.04.2019, n. 642; Cassazione penale
sez. III, 20/12/2018, n. 1913; Tar Lazio sentenza n. 11586 del 2019).
Pertanto, una volta accertato che tutte le opere contestate sono state
realizzate in zona agricola in contrasto con lo strumento urbanistico
comunale (Norme Tecniche di Attuazione del Piano Regolatore Generale), il
Comune ha legittimamente ordinato il ripristino con l’ordinanza impugnata,
adeguatamente argomentando le ragioni di tale decisione e specificando i
manufatti da rimuovere, con conseguente infondatezza anche del motivo di
difetto di istruttoria e motivazione, nonché della domanda risarcitoria
contenuta in atti, non essendo comunque ravvisabile alcun danno
concretamente derivante dall’atto impugnato, neppure in relazione al
manufatto sub B.
Conclusivamente, quindi, il ricorso va accolto limitatamente al bene di cui
al punto B (roulotte), risultando invece infondato per il resto (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 30.09.2021 n. 800 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Una piscina è nuova costruzione e necessita del permesso di
costruire.
Non v’è dubbio che sia bisognevole del
permesso di costruire la realizzazione di una piscina in quanto, come chiarito
dal costante orientamento del giudice amministrativo, essa
dà luogo ad una struttura edilizia che trasforma
permanentemente il sito di relativa ubicazione mediante il
previo sbancamento, e, poi, la costruzione della vasca.
E la stessa non è qualificabile come pertinenza.
Invero, secondo il costante
orientamento della giurisprudenza, la nozione di "pertinenza
urbanistica" è meno ampia di quella definita dall'art. 817
c.c. e, dunque, non può consentire la realizzazione di opere
di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio
di un bene qualificato principale. Il carattere pertinenziale
in senso urbanistico va, quindi, riconosciuto alle opere
che, per loro natura, risultino funzionalmente ed
esclusivamente inserite al servizio di un manufatto
principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non
siano valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate
di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter
essere utilizzate autonomamente e separatamente dal
manufatto cui accedono.
In tal senso, si è chiarito
che finanche gli interventi consistenti nella installazione
di tettoie o di altre strutture analoghe, quali i gazebo,
che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici
come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi
liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche
previste in un progetto assentito, possono ritenersi
sottratti al regime della concessione edilizia (oggi
permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e
le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile
la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche
da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali
strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza
permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di
entità tale da arrecare una visibile alterazione
all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono
inserite.
Ebbene, nel caso di specie, rispetto alla piscina, va
rilevato che essa, oltre a costituire una permanente
modificazione del suolo, ha un rilievo autonomo tale da
escludere la relazione di accessorietà rispetto al manufatto
inteso come principale.
---------------
1.1. Con il ricorso principale, la ricorrente GU.Li., contesta l’ordinanza n. 92 dell’08.05.2018 con cui il
Comune di Napoli ha ingiunto, ai sensi dell’art. 31 D.P.R.
380/2001, la demolizione delle opere realizzate abusivamente
in via ... n. 2 consistenti in:
- "un
manufatto in muratura e vetri occupante una superficie di
mq 65,00;
- una piscina interrata di mq 12,50;
- un piano
seminterrato di mq 170 circa costituito in parte da locale
deposito e parte da locale composto da cucina, ambiente
letto e w.c.”.
...
2.1. Nel merito, occorre, innanzitutto, qualificare le opere
sopra indicate che costituiscono nuove costruzioni ai sensi
dell’art. 3, lett. e), del D.P.R. 380/2001.
In particolare, non v’è dubbio che siano bisognevoli del
permesso di costruire il “manufatto in muratura e vetri
occupante una superficie di mq 65,00” e la costruzione del
piano seminterrato (170 mq). Tali opere, infatti, implicano
la creazione di nuova volumetria con ampliamento del
manufatto esistente al di là della sagoma (lett. e.1 art. 3
lett. e del D.P.R. 380/2001, cit.).
Parimenti è a dirsi per la piscina in quanto, come chiarito
dal costante orientamento del giudice amministrativo, essa
dà luogo ad una struttura edilizia che trasforma
permanentemente il sito di relativa ubicazione mediante il
previo sbancamento, e, poi, la costruzione della vasca.
2.2. Diversamente da quanto sostenuto dalla parte
ricorrente, nessuna di tali opere è qualificabile come
pertinenza.
In proposito, giova rammentare che, secondo il costante
orientamento della giurisprudenza, la nozione di "pertinenza
urbanistica" è meno ampia di quella definita dall'art. 817
c.c. e dunque non può consentire la realizzazione di opere
di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio
di un bene qualificato principale. Il carattere pertinenziale in senso urbanistico va, quindi, riconosciuto
alle opere che, per loro natura, risultino funzionalmente ed
esclusivamente inserite al servizio di un manufatto
principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non
siano valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate
di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter
essere utilizzate autonomamente e separatamente dal
manufatto cui accedono (Consiglio Stato, sez. IV, 17.05.2010, n. 3127).
In tal senso, si è chiarito, con condivisibile orientamento,
che finanche gli interventi consistenti nella installazione
di tettoie o di altre strutture analoghe, quali i gazebo,
che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici
come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi
liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche
previste in un progetto assentito, possono ritenersi
sottratti al regime della concessione edilizia (oggi
permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e
le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile
la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche
da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali
strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza
permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di
entità tale da arrecare una visibile alterazione
all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono
inserite.
Ebbene, nel caso di specie, le opere sono ben più
consistenti rispetto alle mere tettoie in quanto sono
valutabili in termini di cubatura e non possono, quindi,
essere ritenute, in senso urbanistico, ‘assorbite’ nel
manufatto principale o qualificate come meramente accessorie
(TAR Campania Napoli, sez. II, 29.01.2009, n. 492;
TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999;
v. pure i precedenti di TAR Campania, IV sez., n.
831/2015 e 2717/2017).
Con maggiore impegno esplicativo, rispetto alla piscina, va
rilevato che essa, oltre a costituire una permanente
modificazione del suolo, ha un rilievo autonomo tale da
escludere la relazione di accessorietà rispetto al manufatto
inteso come principale (TAR Napoli, sez. VII, 17/09/2020,
n. 3874; TAR Campania, Napoli, sez. III, 07.01.2020, n.
42; TAR Campania, Salerno, sez. II, 18.04.2019, n. 642;
Cassazione penale sez. III, 20/12/2018, n. 1913).
3. Tutte le opere sono, quindi, nuove costruzioni e, in
quanto tali, necessitano del permesso di costruire. Tanto
dimostra la infondatezza delle censure che si appuntano su
una diversa qualificazione dell’opera o sulla legittimità
del manufatto (censure VI e IX) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 26.01.2021 n. 527 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una piscina non può essere
attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è
necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una
attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione,
in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul
sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio
dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire.
---------------
8.3 - Quanto infine alla piscina, in disparte la questione della anteriorità
della sua realizzazione rispetto alla data di presentazione della s.c.i.a.
(secondo quanto riportato nella nota comunale n. 1493/2014, all. 10
produzione Comune), va precisato che il fatto che trattasi di piscina
interrata che non incide sui parametri urbanistici non implica, come
ritenuto dalla ricorrente, che la stessa sia legittimabile tramite s.c.i.a.
Giova richiamare sul punto l’orientamento dominante della giurisprudenza
amministrativa secondo cui “la realizzazione di una piscina non può essere
attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è
necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una
attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione,
in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul
sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio
dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire
(TAR Campania, Napoli, sez. III, 07.01.2020, n. 42; TAR Campania,
Salerno, sez. II, 18.04.2019, n. 642)” – da ultimo, ex multis, Tar
Campania, Napoli, sez. VII. Sent. 17/09/2020
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 21.12.2020 n. 6324 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio non sottace che sin dall’epoca della
vigenza dell’agevolato regime dell’autorizzazione edilizia, la
giurisprudenza aveva riconosciuto che la nozione di pertinenza urbanistica
di cui all'art. 7, comma 2, lett. a), d.l. 23.01.1982 n. 9, convertito
nella l. 25.03.1982 n. 94, era ed è individuabile non soltanto alla
stregua del criterio della sussistenza ed oggettività del rapporto pertinenziale,
ma anche sulla base della consistenza dell’opera posta al servizio
dell'edificio preesistente, la quale deve essere tale da non alterare in
modo significativo l'assetto del territorio e da non esorbitare rispetto
alle esigenze di un concreto uso normale del soggetto che risiede
nell'edificio stesso.
In dipendenza di ciò, quindi, era stato nella specie affermato che la posa
in opera di una piscina prefabbricata di normali dimensioni
costituisce pertinenza di un’abitazione agricola.
In coerenza con tale indirizzo, anche con riguardo all’attuale assetto
normativo, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato séguita a tutt’oggi
ad affermare, in linea di principio, la natura pertinenziale di tale
tipologia di opere (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1951, secondo cui –per l’appunto- l’installazione di una
piscina prefabbricata di modeste dimensioni rientra nell'ambito delle
pertinenze e non integra violazione né degli indici di copertura né degli
standard, atteso che non aumenta il carico urbanistico della zona e che i
vani per impianti tecnologici sono sempre e comunque consentiti).
Ovviamente il riconoscimento –o meno- della natura pertinenziale
dell’opera rileva agli effetti dell’individuazione del titolo edilizio che è
necessario per realizzarla (permesso di costruire per le nuove costruzioni;
denuncia d’inizio di attività -all’epoca dei fatti di causa– per le
pertinenze: cfr. artt. 10 e 22 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380, nei
rispettivi testi pro tempore vigenti), tenendo comunque presente che, anche
a’ sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.6), del medesimo d.P.R. 380 del 2001,
già nel testo in vigore all’epoca dei fatti di causa, era ed è comunque
consentito alle amministrazioni comunali, mediante le norme tecniche dei
propri strumenti urbanistici, di configurare come interventi di “nuova
costruzione” anche quelli altrimenti riconducibili alla realizzazione di
pertinenze urbanistico-edilizie “in relazione alla zonizzazione e al pregio
ambientale e paesaggistico” delle aree in cui essi ricadono.
Va da sé, inoltre, che -in linea di principio- se l’opera pretesamente
pertinenziale assume una sua autonoma destinazione ed un altrettanto
autonomo valore, il carattere pertinenziale dell’opera medesima viene meno:
e ciò non può non rilevare agli effetti del titolo edilizio necessario per
la sua realizzazione e, conseguentemente, la medesima circostanza non può non
assumere valenza pure per le piscine, ancorché prefabbricate.
---------------
1.1. L’attuale appellante, Sig. Ro. Di Mo., espone di essere imprenditore
agricolo e coltivatore diretto.
Egli è proprietario di un terreno ubicato nel territorio comunale di Napoli
(NA), situato in prossimità del Casale ..., segnatamente al ... nn. 18 19
destinato a zona F – agricola dalla vigente strumentazione urbanistica e
rientrante nel perimetro del Parco metropolitano delle Colline di Napoli,
costituito con decreto del Presidente della Regione Campania n. 492 dd.
14.07.2004 previa deliberazione della Giunta Regionale della Campania n. 855
dd. 10.06.2004.
Tale terreno, acquisito dall’appellante nel corso del 1999 a seguito di
un’aggiudicazione fallimentare, è coltivato a vitigno e su di esso insistono
un fabbricato rurale su due livelli, una casa colonica e un ulteriore
fabbricato.
L’appellante riferisce di aver investito consistenti risorse economiche al
fine della valorizzazione e dello sviluppo della proprietà, intraprendendo
ivi un’attività turistico-ricreativa.
A tale riguardo il Di Mo. espone quindi di aver provveduto, mediante
denuncia d’inizio di attività Prot. n. 124 dd. 10.03.2005 presentata al
Comune di Napoli e ad una susseguente variante presentata il 03.06.2005,
alla realizzazione di opere da lui definite “di manutenzione
straordinaria”, ovvero “pertinenziali funzionali al migliore
sfruttamento del terreno agricolo” (così a pag. 2 dell’atto d’appello).
Tali opere consisterebbero, a detta dell’appellante, in “un
gazebo in
legno di modestissime dimensioni, funzionalmente necessario allo svolgimento
delle attività turistico-ricreative connesse all’attività agricola, ed
ospitante un punto vendita dei prodotti ortofrutticoli”, nella “realizzazione
di tre muri per il contenimento del terreno”,
nonché, in corso d’opera, essendosi resi necessari “ulteriori interventi
di sistemazione del terreno … sul penultimo terrazzamento prospiciente
l’abitazione principale veniva posizionata una vasca – impropriamente
definita piscina
– per la raccolta delle acque meteoriche” (cfr. ibidem).
Con provvedimento n. 3671 dd. 21.06.2005 la Direzione Centrale IV Lavori
Pubblici del Comune di Napoli, S.T.C. Vomero-Arenella ha chiesto la
produzione di ulteriore documentazione e ha interinalmente disposto la
sospensione dei lavori, a’ sensi dell’art. 2, comma 60, della l. 23.12.1996
n. 662 e successive modifiche, nonché a’ sensi degli artt. 22 e 23 del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e successive modifiche, evidenziando comunque che
“la tipologia di intervento non è consentita”.
In data 03.08.2008 la Polizia Municipale ha provveduto al sequestro
preventivo dell’area.
Con susseguente provvedimento posizione dirigenziale n. 1047 dd. 31.08.2005
il Dirigente preposto alla Direzione Centrale VI del Comune di Napoli –
Riqualificazione urbana edilizia periferie – Servizio antiabusivismo
edilizio, in base a verbale redatto dalla polizia municipale in data
04.08.2005, ha rilevato che “senza il prescritto permesso di costruire”,
in area inserita nella zona C dello strumento di pianificazione del Parco
Regionale delle Colline di Napoli ed “assoggettata al vincolo
paesaggistico di cui all’art. 142, lett. f), del d.lgs. 22.01.2004, n. 42”
erano state realizzate le seguenti opere:
- “livellamento del suolo mediante sbancamento di terrapieno per
ml. 150,00 x 1,50 h;
- collegamento tra aree terrazzate mediante sbancamento di m. 20,00
x una larghezza di m. 3,00;
- manufatto in legno di mq. 25,00, alto m. 3,00 su platea in
calcestruzzo, muri e panche in muratura;
- piscina prefabbricata fuori terra di mq. 80,00 in telo plasticato
sorretto da tubolari in ferro, completa di docce, lavapiedi e motori;
- ampliamento di un preesistente terrazzamento di circa ml. 100,00
x ml. 7,00 di larghezza”.
Contestualmente il medesimo Dirigente ha disposto la demolizione dei
sopradescritti manufatti, a’ sensi 27, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001, n.
380.
...
4.2. 1. Con il primo motivo d’appello il Di Mo., al di là della
corposa sua rubrica, si limita di fatto a contestare l’asserita violazione
dell’art. 39, commi 4 e 6, delle norme tecniche di attuazione della variante
al Piano regolatore generale del Comune di Napoli, nonché dell’art. 35,
comma 6, del Regolamento edilizio del Comune di Napoli, pur con riflessi
anche sulla presupposta disciplina di fonte legislativa statuale citata
nella rubrica anzidetta.
Secondo l’appellante, le opere qui in contestazione –ossia la realizzazione
di tre muri di contenimento,
di un gazebo
e di una piscina prefabbricata
fuori terra- risulterebbero tutte legittimamente realizzate mediante la
denuncia d’inizio di attività da lui presentata,
In tal senso l’appellante rimarca che il comma 4 dell’art. 39 esplicitamente
prevede la realizzazione di “interventi di consolidamento di pendici
mediante la realizzazione di strutture di contenimento”, nel mentre il
susseguente comma 6 ammette per gli insediamenti rurali “interventi di
manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento
conservativo”, nonché “la ristrutturazione edilizia …ai soli fini
della realizzazione di attività di cui al comma 1, lettera b), dell’articolo
21” delle medesime norme tecniche, ossia per le seguenti esigenze “abitazioni
agricole; attività agricole e di produzione e commercio dei prodotti
agricoli all’origine e relative funzioni di servizio; attività ricettive di
tipo agrituristico e relative funzioni di servizio”.
A sua volta l’art. 35, comma 6, del Regolamento edilizio del Comune di
Napoli, secondo l’appellante, letteralmente consentirebbe la realizzazione,
in regime di denuncia d’inizio di attività, di “giardini, opere di
arredo, vasche, pergolati grillages e gazebo”, nonché la “realizzazione
e consolidamento di muri o di sistemi di contenimento dei terreni”
Il Collegio, per il vero, nell’esaminare il testo di tale Regolamento
edilizio così come vigente all’epoca dei fatti di causa, non riscontra la
sussistenza dei surriportati riferimenti testuali alla realizzazione di
vasche, gazebo e opere murarie destinate al contenimento dei terreni; né
riscontra nel testo medesimo corrispondente all’art. 35 la stessa esistenza
di un suo comma 6.
Comunque sia, risulta indubbio dagli stessi atti di causa che il Di Mo. non
aveva realizzato una “vasca”, ma una “piscina”, e cioè
un’opera che la stessa fonte regolamentare comunale, ove anche considerata
nel testo da lui citato, certamente di per sé non assoggettava al regime
della denuncia d’inizio di attività (e comunque, all’evidenza non
finalizzata ad alcun utilizzo agricolo).
Altra cosa è, dunque, quanto poi fatto dal medesimo appellante, che dapprima
ha per l’appunto– realizzato senza un titolo edilizio idoneo una
piscina –come eloquentemente comprovato dal verbale di accertamento
dell’abuso- per poi chiedere al riguardo, soltanto dopo aver ricevuto
l’ingiunzione a demolire, l’accertamento di conformità, a’ sensi dell’art.
36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380; ma tutto ciò -per l’appunto- con riguardo
ad un’opera strutturalmente e funzionalmente del tutto diversa, e cioè una
vasca di raccolta per le acque meteoriche, per la cui effettiva
realizzazione dovevano essere per certo apportate delle modificazioni
rispetto a quanto precedentemente costruito: operazione, questa, per certo
incompatibile con l’istituto dell’accertamento di conformità, che implica
soltanto il mero riconoscimento della rispondenza di quanto realizzato alla
disciplina urbanistica vigente sia all’epoca della perpetrazione dell’abuso,
sia all’epoca della sanatoria richiesta, senza necessità di apportare
modifiche al manufatto in questione.
4.2.2. Posto ciò, il Collegio non sottace che sin dall’epoca della
vigenza dell’agevolato regime dell’autorizzazione edilizia, la
giurisprudenza aveva riconosciuto che la nozione di pertinenza urbanistica
di cui all'art. 7, comma 2, lett. a), d.l. 23.01.1982 n. 9, convertito
nella l. 25.03.1982 n. 94, era ed è individuabile non soltanto alla
stregua del criterio della sussistenza ed oggettività del rapporto pertinenziale, ma anche sulla base della consistenza dell’opera posta al
servizio dell'edificio preesistente, la quale deve essere tale da non
alterare in modo significativo l'assetto del territorio e da non esorbitare
rispetto alle esigenze di un concreto uso normale del soggetto che risiede
nell'edificio stesso (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 13.10.1993,
n. 1041).
In dipendenza di ciò, quindi, era stato nella specie affermato che la posa
in opera di una piscina prefabbricata di normali dimensioni costituisce
pertinenza di un’abitazione agricola (cfr. sul punto Cons. Stato Sez. V, 13.10.1993, n. 1041).
In coerenza con tale indirizzo, anche con riguardo all’attuale assetto
normativo, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato séguita a tutt’oggi
ad affermare, in linea di principio, la natura pertinenziale di tale
tipologia di opere (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1951, secondo cui –per l’appunto- l’installazione di una
piscina prefabbricata di modeste dimensioni rientra nell'ambito delle
pertinenze e non integra violazione né degli indici di copertura né degli
standard, atteso che non aumenta il carico urbanistico della zona e che i
vani per impianti tecnologici sono sempre e comunque consentiti).
Ovviamente il riconoscimento –o meno- della natura pertinenziale
dell’opera rileva agli effetti dell’individuazione del titolo edilizio che è
necessario per realizzarla (permesso di costruire per le
nuove costruzioni;
denuncia d’inizio di attività -all’epoca dei fatti di causa– per le
pertinenze: cfr. artt. 10 e 22 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380, nei
rispettivi testi pro tempore vigenti), tenendo comunque presente che, anche
a’ sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.6), del medesimo d.P.R. 380 del 2001,
già nel testo in vigore all’epoca dei fatti di causa, era ed è comunque
consentito alle amministrazioni comunali, mediante le norme tecniche dei
propri strumenti urbanistici, di configurare come interventi di “nuova
costruzione” anche quelli altrimenti riconducibili alla realizzazione di
pertinenze urbanistico-edilizie “in relazione alla zonizzazione e al pregio
ambientale e paesaggistico” delle aree in cui essi ricadono.
Va da sé, inoltre, che -in linea di principio- se l’opera pretesamente
pertinenziale assume una sua autonoma destinazione ed un altrettanto
autonomo valore, il carattere pertinenziale dell’opera medesima viene meno:
e ciò non può non rilevare agli effetti del titolo edilizio necessario per
la sua realizzazione (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 28.09.2018, n. 5090) e, conseguentemente, la medesima circostanza non può non
assumere valenza pure per le piscine, ancorché prefabbricate.
Posto ciò, per il caso di specie assume rilievo dirimente –e, quindi,
assorbente nei confronti di tutte le contestazioni formulate dalla parte
appellante- la circostanza che la piscina in questione non poteva comunque
essere realizzata, a ciò ostandovi il combinato disposto degli artt. 46,
comma 6, e 41, comma 2, delle norme tecniche di attuazione del Piano
regolatore generale del Comune di Napoli, che nella sottozona Fa -nella
quale, per l’appunto, ricade la piscina– ammette la realizzazione di
“interventi di nuova edificazione” –e, quindi, assoggettati al rilascio del
permesso di costruire, e non già a mera denuncia d’inizio di attività- “a
fini agricoli di cui all’articolo 40” della medesima variante (e non è
dunque questo per certo il caso della piscina in questione; semmai della
vasca), ovvero anche “attrezzature sportive scoperte, ammissibili solo in
sede di pianificazione urbanistica esecutiva”, e comunque “ai fini del
conseguimento della fruizione pubblica dei fondi”.
In concreto –quindi– se il Di Mo. avesse voluto costruire –come
sostiene– una vasca di raccolta per l’acqua piovana, avrebbe potuto
realizzare tale manufatto, di per sé coerente con l’utilizzo a fini agricoli
dell’area, ma soltanto previo rilascio del permesso di costruire, in quanto
provvedimento il cui rilascio è inderogabilmente imposto in via generale
dalla strumentazione urbanistica ivi vigente.
Se –viceversa– avesse voluto realizzare una piscina, ciò sarebbe stato
parimenti possibile, ma soltanto previa predisposizione a propria cura di
una strumentazione urbanistica attuativa e –comunque, ed ancora una volta–
mediante il susseguente rilascio del permesso di costruire, in quanto la
“fruizione pubblica” imposta per tale manufatto dalla strumentazione
urbanistica ivi vigente risulta ex se incompatibile con l’asserita pertinenzialità dello stesso.
Tertium non datur.
Per inciso, la presenza nel fascicolo di causa relativo al primo grado di
giudizio di una relazione illustrativa depositata in data 19.11.2008 a
cura del patrocinio della stessa parte ivi ricorrente fa ragionevolmente
presumere che il Di Mo. abbia da ultimo optato proprio per tale
possibilità, progettando –tra l’altro– la realizzazione non più di una
piscina prefabbricata da contingentemente ”trasformare” –al bisogno, per
così dire, “burocratico”– in una vasca per la raccolta delle acque
meteoriche, ma di “una piscina ludico-relax costituita da due vasche poste a
quote differenti in modo da creare un salto d’acqua” (cfr. ivi a pag. 8: e
ciò senza sottacere che la complessiva lettura del piano medesimo offre la
netta impressione che l’attuale appellante si sia con esso discostato
dall’originaria connotazione agricola dell’azienda privilegiando un’attività
marcatamente ricettiva se non addirittura ludico-ricreativa, tanto da
suscitare anche un dubbio non evanescente circa l’effettiva permanenza,
nella specie, di un suo effettivo interesse alla coltivazione della presente
causa).
Ad ogni buon conto, quindi, anche per il caso di specie va ribadito che
dalla realizzazione di opere edilizia in assenza del permesso di costruire,
discende –sempre e comunque– la sanzione della demolizione delle opere
medesime, a’ sensi dell’art. 31 del t.u. 06.06.2001, n. 380.,
Ma –soprattutto– va considerato che la realizzazione della piscina ora in
questione era ed è materialmente inibita sia dall’art. 21, comma 3, del
Regolamento edilizio del Comune di Napoli, che, con disposizione oltremodo
commendevole, fa divieto di completare le opere abusive realizzate nello
stesso suolo, sia dall’art. 24 della variante anzidetta, che al comma 2
dispone a sua volta nel senso che “nelle zone riportate nella tavola 12 con
instabilità media e alta” –tra le quali rientra anche il sedime su cui è
stata eretta la piscina in questione- “è vietata la realizzazione di
qualsiasi tipo di costruzione”: disposizioni, anche queste, che
naturalmente implicano la necessità della demolizione del manufatto in
questione
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 03.09.2019 n. 6068 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è assentibile una piscina nella fascia di rispetto
cimiteriale.
Per giurisprudenza ampiamente consolidata, il vincolo imposto dall'art. 338 R.D. n. 1265/1934 e
dall'art. 57 d.P.R. n. 285/1990 determina una situazione di
inedificabilità ex lege che non necessita di essere recepito
dagli strumenti urbanistici, ed, anzi, si impone ad essi
operando come limite legale nei confronti delle previsioni
urbanistiche locali eventualmente incompatibili.
Il vincolo
ha carattere assoluto e non consente l’allocazione di
edifici o costruzioni all’interno della fascia di rispetto,
a tutela dei molteplici interessi pubblici cui quest’ultima
presiede e che vanno dalle esigenze di natura igienico
sanitaria, alla salvaguardia della peculiare sacralità dei
luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, al
mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta
cimiteriale.
A escludere l’inedificabilità non rilevano la
tipologia del fabbricato o la natura pertinenziale della
costruzione, e gli unici interventi assentibili all’interno
della fascia di rispetto sono quelli indicati dal settimo
comma dell’art. 338 cit. sugli edifici esistenti, con il
limite della funzionalità all’utilizzo degli edifici stessi,
mentre è attivabile nel solo interesse pubblico la procedura
di riduzione della fascia inedificabile a non meno di
cinquanta metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale.
L’assolutezza del vincolo di inedificabilità all’interno
della fascia di rispetto cimiteriale è recepita dalle norme tecniche di attuazione del P.R.G. del
Comune, che, dopo aver stabilito il divieto di
realizzare “nuovi edifici”, nell’autorizzare gli “interventi
previsti dalle presenti norme per le singole destinazioni”
vieta, comunque, gli interventi di “nuova edificazione, di
ampliamento e di ristrutturazione urbanistica”: il
contestuale divieto di “nuovi edifici” e di “nuove
edificazioni” nell’ambito degli interventi consentiti non
può che essere inteso, infatti, come preclusivo della
realizzazione di qualsiasi nuovo manufatto all’interno della
fascia di rispetto, in ossequio alla superiore disposizione
di legge.
La disciplina delle fasce di rispetto cimiteriali è
confermata quindi dall’art. 46 delle N.T.A. del regolamento
urbanistico adottato dal Comune all’epoca dei
fatti di causa, che ne sancisce l’inedificabilità rinviando,
per gli edifici già esistenti, alle rispettive discipline di
zona. Restano fermi, evidentemente, i limiti di legge, e
segnatamente quello posto dal ricordato comma 7 dell’art.
338 R.D. n. 1265/1934, che consente il recupero,
l’ampliamento e la ristrutturazione purché, lo si ripete,
funzionali all’utilizzo degli edifici esistenti e non
comportanti la realizzazione di nuovi manufatti all’interno
della fascia di rispetto.
È già discutibile che la costruzione di una piscina possa
dirsi funzionale all’utilizzo dell’edificio esistente nel
senso contemplato dal legislatore, che sembra alludere ai
soli interventi volti a impedire il degrado e, a lungo
andare, l’abbandono degli edifici ricadenti nelle fasce di
rispetto.
Certo è in ogni caso che, laddove implichi ex novo
una permanente trasformazione di suolo inedificato
all’interno della fascia involabile di cinquanta metri dal
perimetro del cimitero, essa non è consentita.
---------------
2.1.2. Venendo ai profili sostanziali della vicenda, il
ricorrente sostiene che la realizzazione della piscina
costituirebbe un intervento di sistemazione dell’area
scoperta di pertinenza dell’edificio principale, assentibile
a norma dell’art. 23 del regolamento edilizio comunale. Non
integrando una “nuova costruzione”, ma appunto una
pertinenza, l’opera sarebbe anche compatibile con il vincolo
cimiteriale interessante il compendio immobiliare di sua
proprietà.
L’invocato art. 23 R.E. subordina, peraltro, le opere di
sistemazione delle aree esterne al rispetto delle
limitazioni e prescrizioni stabilite dagli strumenti
urbanistici, nonché all’ottenimento delle autorizzazioni
occorrenti in relazione agli eventuali vincoli gravanti
sull’area di intervento. Ed è proprio sulla presenza del non
superabile vincolo cimiteriale che si fondano i
provvedimenti impugnati.
Per giurisprudenza ampiamente consolidata, anche di questo
TAR, il vincolo imposto dall'art. 338 R.D. n. 1265/1934 e
dall'art. 57 d.P.R. n. 285/1990 determina una situazione di
inedificabilità ex lege che non necessita di essere recepito
dagli strumenti urbanistici, ed, anzi, si impone ad essi
operando come limite legale nei confronti delle previsioni
urbanistiche locali eventualmente incompatibili.
Il vincolo
ha carattere assoluto e non consente l’allocazione di
edifici o costruzioni all’interno della fascia di rispetto,
a tutela dei molteplici interessi pubblici cui quest’ultima
presiede e che vanno dalle esigenze di natura igienico
sanitaria, alla salvaguardia della peculiare sacralità dei
luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, al
mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta
cimiteriale.
A escludere l’inedificabilità non rilevano la
tipologia del fabbricato o la natura pertinenziale della
costruzione, e gli unici interventi assentibili all’interno
della fascia di rispetto sono quelli indicati dal settimo
comma dell’art. 338 cit. sugli edifici esistenti, con il
limite della funzionalità all’utilizzo degli edifici stessi,
mentre è attivabile nel solo interesse pubblico la procedura
di riduzione della fascia inedificabile a non meno di
cinquanta metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale (fra
le moltissime, cfr. Cons. Stato sez. IV, 23.04.2018, n.
2407; id., sez. VI, 27.02.2018, n. 1164; id., sez. VI,
06.10.2017, n. 4656; id., sez. V, 18.01.2017, n.
205; TAR Toscana, sez. III, 22.10.2018, n. 1351; id.,
02.02.2015, n. 183; id., 12.11.2013, n. 1553; id.,
12.07.2010, n. 2446; id., 11.06.2010, n. 1815).
L’assolutezza del vincolo di inedificabilità all’interno
della fascia di rispetto cimiteriale è recepita dall’art.
56.6.6 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. del
Comune di Firenze, che, dopo aver stabilito il divieto di
realizzare “nuovi edifici”, nell’autorizzare gli “interventi
previsti dalle presenti norme per le singole destinazioni”
vieta, comunque, gli interventi di “nuova edificazione, di
ampliamento e di ristrutturazione urbanistica”: il
contestuale divieto di “nuovi edifici” e di “nuove
edificazioni” nell’ambito degli interventi consentiti non
può che essere inteso, infatti, come preclusivo della
realizzazione di qualsiasi nuovo manufatto all’interno della
fascia di rispetto, in ossequio alla superiore disposizione
di legge.
La disciplina delle fasce di rispetto cimiteriali è
confermata quindi dall’art. 46 delle N.T.A. del regolamento
urbanistico adottato dal Comune di Firenze all’epoca dei
fatti di causa, che ne sancisce l’inedificabilità rinviando,
per gli edifici già esistenti, alle rispettive discipline di
zona. Restano fermi, evidentemente, i limiti di legge, e
segnatamente quello posto dal ricordato comma 7 dell’art.
338 R.D. n. 1265/1934, che consente il recupero,
l’ampliamento e la ristrutturazione purché, lo si ripete,
funzionali all’utilizzo degli edifici esistenti e non
comportanti la realizzazione di nuovi manufatti all’interno
della fascia di rispetto (alle pronunce già citate, può
aggiungersi TAR Toscana, sez. III, 18.05.2018, n.
684).
È già discutibile che la costruzione di una piscina possa
dirsi funzionale all’utilizzo dell’edificio esistente nel
senso contemplato dal legislatore, che sembra alludere ai
soli interventi volti a impedire il degrado e, a lungo
andare, l’abbandono degli edifici ricadenti nelle fasce di
rispetto. Certo è in ogni caso che, laddove implichi ex novo
una permanente trasformazione di suolo inedificato
all’interno della fascia involabile di cinquanta metri dal
perimetro del cimitero, essa non è consentita.
Ne discende che il provvedimento inibitorio adottato dal
Comune di Firenze, e poi l’atto dichiarativo della
definitiva inefficacia della S.C.I.A., possono considerarsi
adeguatamente motivati mediante la descrizione
dell’intervento e il richiamo alla presenza della fascia di
rispetto e alle corrispondenti previsioni urbanistiche
violate, indipendentemente dalle ulteriori considerazioni
contenute nel parere dell’Avvocatura comunale del 18.11.2014.
3. In forza di tutto quanto precede, le impugnazioni
proposte non possono trovare accoglimento (TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza 22.02.2019 n. 284 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Si richiama la sussistenza di una
giurisprudenza alquanto diversificata in materia di
collocazione di piscine in ambiti tutelati. Con necessità,
comunque, di motivazione specifica e contestualizzata, in
correlazione alla specifica collocazione dell’opera e alle
sue modalità realizzative:
- “Poiché
le esigenze di tutela dell'area sottoposta a vincolo
paesaggistico possono anche esigere l'immodificabilità dello
stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore modifica),
è doverosa una specifica valutazione di tale aspetto legato
alla visibilità (o meno dell'opera), poiché per la tutela
dell'ambiente e del paesaggio è essenziale che le
valutazioni amministrative risultino consapevoli della
concreta incidenza delle opere sul contesto ambientale e
della irreversibile riduzione dei tratti naturali esistenti
e di quelli percepiti”;
- “Hanno
una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere
realizzate sull'area sottoposta a vincolo, anche se non vi è
un volume da computare sotto il profilo edilizio (pur se si
tratti di volumi tecnici) e anche se si tratta di una
piscina, poiché le esigenze di tutela dell'area sottoposta a
vincolo paesaggistico possono anche esigere l'immodificabilità
dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore
modifica)”;
- “In ogni
località sottoposta a vincolo paesaggistico (nella specie,
nelle aree sottoposte a "protezione integrale" a Capri) la
realizzazione di una piscina va qualificata come nuova
costruzione che modifica irreversibilmente lo stato dei
luoghi, sicché -ferma restando la valutazione discrezionale
dell'autorità paesaggistica sulla sua fattibilità, qualora
vi sia soltanto un vincolo "relativo"- essa è radicalmente
vietata quando una disposizione normativa o un provvedimento
volto alla tutela del paesaggio considera l'area in
questione come sottoposta a <protezione integrale>”;
- “È
illegittimo, per difetto di motivazione e di istruttoria, il
provvedimento di diniego di un permesso di costruire volto
alla realizzazione di una piscina "a raso" da collocarsi su
un'area sottoposta a vincolo paesaggistico, laddove la parte
motiva si limiti a rinviare ad una generica esigenza di
tutela dell'equilibrio paesaggistico dello stato dei luoghi.
Nella specie, peraltro:
a) il manufatto non risulta visibile
dall'esterno;
b) l'area circostante è già ampiamente antropizzata ed urbanizzata;
c) il sedime destinato ad
ospitare la piscina è occupato da prato verde e vegetazione
di altro tipo”;
- “Gli artt. 22
e seguenti delle NTA del Piano paesaggistico regionale
sardo, nel proteggere le aree naturali, non comportano un
vincolo di inedificabilità assoluta, bensì soltanto
interventi suscettibili di pregiudicare la struttura, la
stabilità o la funzionalità ecosistemica o la fruibilità
paesaggistica delle aree interessate; pertanto, è
illegittimo il diniego del nullaosta paesaggistico che si
basi apoditticamente sull’esistenza di tale vincolo
derogabile, invece di verificare in concreto e con idonea
motivazione la compatibilità paesaggistica, o meno, dello
specifico intervento rispetto allo stato dei luoghi, non
potendo bastare, a tal fine, il generico riferimento
all’esistenza di sbancamenti e scavi che, teoricamente,
potrebbero incidere sulla protezione dell’area naturale
(nella fattispecie, l’intervento in discussione era
costituito da un ampliamento edilizio di 31 mq e da una
piscina)”;
- “Il diniego
di nullaosta paesaggistico non può essere motivato con il
semplice richiamo all'esistenza del vincolo panoramico
insistente sull'area, ancor più in quelle ipotesi in cui gli
interventi proposti non incidano sulle visuali pubbliche
(nella fattispecie, l'intervento proposto consisteva nella
realizzazione di una piscina "a livello terra" rivista come
pertinenza di un più rilevante -anche visivamente-
edificio residenziale già esistente e autorizzato, in una
zona caratterizzata dell'esistenza di altri insediamenti
edilizi)”;
- “E' legittimo
il provvedimento con cui il Direttore Generale del Ministero
per i Beni e Le Attività Culturali ha disposto la
demolizione di una piscina, e il ripristino dello stato dei
luoghi, realizzata in un immobile sottoposto a vincolo
indiretto e in violazione del decreto di vincolo, che non
consente alcuna edificazione. Tale manufatto, infatti, per
le sue caratteristiche tecniche, costituisce alterazione
permanente del territorio, non consentita per effetto del
decreto di vincolo”;
- “La
realizzazione di una piscina suddivisa in due parti
collegate da un ponte, con uno sviluppo in termini di
superficie di circa 30 mq, unitamente all'edificazione di
due manufatti pavimentati e dotati di impianto elettrico,
integra un intervento di nuova costruzione, implicante una
irreversibile trasformazione del territorio e incidente
anche sul piano paesaggistico ambientale, venendo in rilievo
un'area sottoposta al relativo vincolo”;
- “Non è
compatibile con il vincolo cimiteriale la realizzazione di
una piscina, trattandosi di organismo che integra una "nuova
costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. n.
380/2001”;
-
“Gli interventi di sbancamento, come pure quelli di
realizzazione di una piscina, sono tendenzialmente
incompatibili con i valori paesaggistici del contesto in
quanto alterano l'andamento naturale del terreno con
l'introduzione di una nuova opera e conseguente modifica del
rapporto tra costruito e ambiente naturale”.
---------------
B) Analoga conclusione per la collocazione di una vasca
idromassaggio (di mq. 21) in terrazza preesistente (di 45
mq.).
La relazione prevede che: “all'esterno sulla parte frontale
con il rifacimento del loggiato e nell'ampliamento della
terrazza al livello realizzata in legno che ingloba al suo
interno una vasca idromassaggio realizzata con un guscio di
acciaio appoggiato sul terreno livellato con sabbia in
corrispondenza dell'appoggio".
“La terrazza posta sul lato mare sarà pavimentata al di
sopra della pavimentazione esistente su cui verrà posato in
appoggio del teak marino a listoni, sarà incassata una vasca
amovibile in acciaio inox poggiata su un letto di sabbia e
per la quale non saranno necessari né scavi né sbancamenti
del terreno naturale (la quota naturale del terreno è
inferiore di 1,20 m al di sotto della quota 0,00 della
terrazza esistente)".
Sotto il profilo strettamente edilizio la prevista
realizzazione di un’opera pertinenziale, senza sbancamento
del terreno, risulta compatibile con il mantenimento di un
uso (sussistendo già la terrazza esterna, collocata al di
sopra dell’interrato già esistente) che sarà solo
parzialmente trasformato.
Trattasi di modifica che non crea nuove volumetrie, ma
prevede il solo inserimento, in direzione opposta a quella
della collina (ove si trova il nuraghe), di un vasca
idromassaggio in acciaio su terrazza (più ampia)
preesistente, in appoggio a un letto di sabbia (senza
modifica della linea naturale del terreno). Con
posizionamento esterno di un elemento effettuato sfruttando
la naturale pendenza del terreno, senza alterazione.
Trattasi di pertinenza (non “nuova costruzione” come
delineata dall’art. 3, comma 1, lett. e.1), in relazione alla
lett. e.6) .
Diversa sarà la sfera valutativa, da parte della competente
autorità paesaggistica (Unione dei Comuni), della
compatibilità dell’opera pertinenziale, in considerazione
della “propria” valutazione (non edilizia) inerente l’impatto sul paesaggio (trovandosi la villa a ridosso del
mare).
Ma tale giudizio non è stato espresso (dall’Unione dei
Comuni, competente) in quanto, difettando il presupposto
provvedimento favorevole di compatibilità edilizia
dell’opera, è stata esternata solo una decisione in rito (improcedibilità).
Ne consegue che sussiste la necessità di espressione
(futura) del parere dell’autorità paesaggistica, non
sostituibile da questo giudice, trattandosi di poteri non
ancora esercitati.
Si richiama, in materia, la sussistenza di una
giurisprudenza alquanto diversificata in materia di
collocazione di piscine in ambiti tutelati. Con necessità,
comunque, di motivazione specifica e contestualizzata, in
correlazione alla specifica collocazione dell’opera e alle
sue modalità realizzative:
- Consiglio di Stato sez. VI 06.03.2018 n. 1424: “Poiché
le esigenze di tutela dell'area sottoposta a vincolo
paesaggistico possono anche esigere l'immodificabilità dello
stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore modifica),
è doverosa una specifica valutazione di tale aspetto legato
alla visibilità (o meno dell'opera), poiché per la tutela
dell'ambiente e del paesaggio è essenziale che le
valutazioni amministrative risultino consapevoli della
concreta incidenza delle opere sul contesto ambientale e
della irreversibile riduzione dei tratti naturali esistenti
e di quelli percepiti”;
- Consiglio di Stato sez. VI 07.01.2014 n. 18: “Hanno
una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere
realizzate sull'area sottoposta a vincolo, anche se non vi è
un volume da computare sotto il profilo edilizio (pur se si
tratti di volumi tecnici) e anche se si tratta di una
piscina, poiché le esigenze di tutela dell'area sottoposta a
vincolo paesaggistico possono anche esigere l'immodificabilità
dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore
modifica)”;
- Consiglio di Stato sez. VI 05.03.2013 n. 1316: “In ogni
località sottoposta a vincolo paesaggistico (nella specie,
nelle aree sottoposte a "protezione integrale" a Capri) la
realizzazione di una piscina va qualificata come nuova
costruzione che modifica irreversibilmente lo stato dei
luoghi, sicché -ferma restando la valutazione discrezionale
dell'autorità paesaggistica sulla sua fattibilità, qualora
vi sia soltanto un vincolo "relativo"- essa è radicalmente
vietata quando una disposizione normativa o un provvedimento
volto alla tutela del paesaggio considera l'area in
questione come sottoposta a <protezione integrale>”;
- TAR Sardegna sez. II 05.04.2016 n. 324: “È
illegittimo, per difetto di motivazione e di istruttoria, il
provvedimento di diniego di un permesso di costruire volto
alla realizzazione di una piscina "a raso" da collocarsi su
un'area sottoposta a vincolo paesaggistico, laddove la parte
motiva si limiti a rinviare ad una generica esigenza di
tutela dell'equilibrio paesaggistico dello stato dei luoghi.
Nella specie, peraltro: a) il manufatto non risulta visibile
dall'esterno; b) l'area circostante è già ampiamente antropizzata ed urbanizzata; c) il sedime destinato ad
ospitare la piscina è occupato da prato verde e vegetazione
di altro tipo”;
- TAR Sardegna sez. II 11.03.2016 n. 239: “Gli artt. 22
e seguenti delle NTA del Piano paesaggistico regionale
sardo, nel proteggere le aree naturali, non comportano un
vincolo di inedificabilità assoluta, bensì soltanto
interventi suscettibili di pregiudicare la struttura, la
stabilità o la funzionalità ecosistemica o la fruibilità
paesaggistica delle aree interessate; pertanto, è
illegittimo il diniego del nullaosta paesaggistico che si
basi apoditticamente sull’esistenza di tale vincolo
derogabile, invece di verificare in concreto e con idonea
motivazione la compatibilità paesaggistica, o meno, dello
specifico intervento rispetto allo stato dei luoghi, non
potendo bastare, a tal fine, il generico riferimento
all’esistenza di sbancamenti e scavi che, teoricamente,
potrebbero incidere sulla protezione dell’area naturale
(nella fattispecie, l’intervento in discussione era
costituito da un ampliamento edilizio di 31 mq e da una
piscina)”;
- TAR Sardegna sez. II 18.03.2014 n. 226: “Il diniego
di nullaosta paesaggistico non può essere motivato con il
semplice richiamo all'esistenza del vincolo panoramico
insistente sull'area, ancor più in quelle ipotesi in cui gli
interventi proposti non incidano sulle visuali pubbliche
(nella fattispecie, l'intervento proposto consisteva nella
realizzazione di una piscina "a livello terra" rivista come
pertinenza di un più rilevante -anche visivamente-
edificio residenziale già esistente e autorizzato, in una
zona caratterizzata dell'esistenza di altri insediamenti
edilizi)”;
- TAR Veneto sez. II 27.04.2018 n. 457: “E' legittimo
il provvedimento con cui il Direttore Generale del Ministero
per i Beni e Le Attività Culturali ha disposto la
demolizione di una piscina, e il ripristino dello stato dei
luoghi, realizzata in un immobile sottoposto a vincolo
indiretto e in violazione del decreto di vincolo, che non
consente alcuna edificazione. Tale manufatto, infatti, per
le sue caratteristiche tecniche, costituisce alterazione
permanente del territorio, non consentita per effetto del
decreto di vincolo”;
- TAR Campania sez. VII 31.01.2018 n. 707: “La
realizzazione di una piscina suddivisa in due parti
collegate da un ponte, con uno sviluppo in termini di
superficie di circa 30 mq, unitamente all'edificazione di
due manufatti pavimentati e dotati di impianto elettrico,
integra un intervento di nuova costruzione, implicante una
irreversibile trasformazione del territorio e incidente
anche sul piano paesaggistico ambientale, venendo in rilievo
un'area sottoposta al relativo vincolo”;
- TAR Lombardia sez. II 14.11.2011 n. 2734: “Non è
compatibile con il vincolo cimiteriale la realizzazione di
una piscina, trattandosi di organismo che integra una "nuova
costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. n.
380/2001”;
- TAR Campania sez. IV 07.11.2017 n. 5223:
“Gli interventi di sbancamento, come pure quelli di
realizzazione di una piscina, sono tendenzialmente
incompatibili con i valori paesaggistici del contesto in
quanto alterano l'andamento naturale del terreno con
l'introduzione di una nuova opera e conseguente modifica del
rapporto tra costruito e ambiente naturale” (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 21.11.2018 n. 983 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il fatto che un intervento possa essere assentito
(in astratto) con DIA ex art. 22 del DPR 380/2001 non
comporta l’automatica ed esclusiva applicazione della sola
sanzione pecuniaria nel caso di mancanza o di difformità
dalla denuncia.
Infatti, il Comune deve accertare in concreto se
l’intervento, sebbene presentato con DIA, sia conforme alla
normativa edilizia e urbanistica vigente: in proposito, la
disposizione del comma 6 dell’art. 37 del DPR 380/2001 fa
espressamente salve le sanzioni demolitorie di cui agli
articoli 31, 33, 34, 35 e 44 del medesimo T.U. ove ne
ricorrano i presupposti in relazione all’intervento
realizzato.
La condizione imprescindibile per rendere operative
le previsioni invocate dalla parte ricorrente è il rispetto
dei parametri urbanistici ed edilizi esistenti, che nel caso
di specie risultano viceversa pacificamente violati. L’art.
22, comma 1, del DPR 380/2001 statuiva che “Sono
realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli
interventi non riconducibili all'elenco di cui all'art. 10 e
all'articolo 6, che siano conformi alle previsioni degli
strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
Sotto diverso profilo, è appena il caso di osservare che, in materia
urbanistica, la nozione di pertinenza è più circoscritta di
quella definita dall'art. 817 c.c., essendo applicabile solo
ad opere di modesta entità e accessorie rispetto a un’opera
principale: il manufatto dev’essere non solo preordinato ad
un’oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere
anche sfornito di autonomo valore di mercato nonché dotato
comunque di un volume modesto rispetto al primo, in modo da
evitare il c.d. carico urbanistico.
Appare evidente, anche soltanto sulla base degli elaborati
tecnici depositati in atti, che la piscina abusivamente
realizzata –per natura, funzione e dimensioni (metri 9 x
4,50 con profondità minima di 1,20 metri e massima di 2,20
metri)– ha arrecato modifiche consistenti in termini di
volume e di alterazione del preesistente stato dei luoghi.
---------------
Il ricorrente censura il provvedimento del Responsabile dell’area
tecnica in data 22/01/2009, recante l’intimazione a demolire
l’opera edilizia abusiva (piscina) e a ripristinare lo stato
dei luoghi.
1. Il terzo motivo è privo di pregio giuridico.
1.1 Il fatto che un intervento possa essere assentito (in
astratto) con DIA ex art. 22 del DPR 380/2001 non comporta
l’automatica ed esclusiva applicazione della sola sanzione
pecuniaria nel caso di mancanza o di difformità dalla
denuncia. Infatti, il Comune deve accertare in concreto se
l’intervento, sebbene presentato con DIA, sia conforme alla
normativa edilizia e urbanistica vigente: in proposito, la
disposizione del comma 6 dell’art. 37 del DPR 380/2001 fa
espressamente salve le sanzioni demolitorie di cui agli
articoli 31, 33, 34, 35 e 44 del medesimo T.U. ove ne
ricorrano i presupposti in relazione all’intervento
realizzato (TAR Puglia Bari, sez. II – 02/12/2016 n.
1350).
La condizione imprescindibile per rendere operative
le previsioni invocate dalla parte ricorrente è il rispetto
dei parametri urbanistici ed edilizi esistenti, che nel caso
di specie risultano viceversa pacificamente violati. L’art.
22, comma 1, del DPR 380/2001 statuiva che “Sono realizzabili
mediante denuncia di inizio attività gli interventi non
riconducibili all'elenco di cui all'articolo 10 e
all'articolo 6, che siano conformi alle previsioni degli
strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
1.2 Sotto diverso profilo (a confutazione di quanto asserito
da parte ricorrente nella memoria difensiva prodotta il
10/10/2016), è appena il caso di osservare che, in materia
urbanistica, la nozione di pertinenza è più circoscritta di
quella definita dall'art. 817 c.c., essendo applicabile solo
ad opere di modesta entità e accessorie rispetto a un’opera
principale: il manufatto dev’essere non solo preordinato ad
un’oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere
anche sfornito di autonomo valore di mercato nonché dotato
comunque di un volume modesto rispetto al primo, in modo da
evitare il c.d. carico urbanistico (TAR Campania Napoli,
sez. III – 14/09/2017 n. 4374; C.G.A. Sicilia – 26/09/2017 n.
805; TAR Sicilia Palermo, sez. II – 20/03/2017 n. 750);
appare evidente, anche soltanto sulla base degli elaborati
tecnici depositati in atti, che la struttura abusivamente
realizzata –per natura, funzione e dimensioni (metri 9 x
4,50 con profondità minima di 1,20 metri e massima di 2,20
metri)– ha arrecato modifiche consistenti in termini di
volume e di alterazione del preesistente stato dei luoghi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 13.12.2017 n. 1443 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edilizia e urbanistica - Realizzazione di una piscina - Zona
con vincolo culturale.
La realizzazione di una piscina in
un complesso immobiliare esistente, in quanto concreta un
intervento edilizio "ex novo", non può essere ricompresa nel
regime urbanistico delle pertinenze, atteso che non è
necessariamente complementare all'uso delle abitazioni.
Ed invero, la piscina non è solo una attrezzatura per lo
svago, ma innanzi tutto una struttura di tipo edilizio che
incide invasivamente sul sito in cui viene realizzata, con
la conseguenza che per la sua realizzazione occorre munirsi
del relativo titolo ad aedificandum.
Secondo l’art. 3, lett. e), del D.P.R 380/2011), sono
interventi di nuova costruzione <<la costruzione di
manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero
l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma
esistente …>>), e ,come ripetutamente affermato in
giurisprudenza, <<tutti gli elementi strutturali concorrono
al computo della volumetria del manufatto, siano essi
interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa
anche la piscina, in quanto non qualificabile come
pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione
autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella
propria dell'edificio al quale accede>>.
<<Ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del
d.p.r. 380/2001, è richiesto il permesso di costruire per
tutte le attività qualificabili come interventi di nuova
costruzione che comportano la trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio. Ciò posto, è agevole rilevare che
la costruzione della piscina, in relazione alla sua
consistenza modificativa e trasformativa dell’assetto del
territorio, non si configura come riconducibile fra gli
“interventi di manutenzione straordinaria” e fra gli
“interventi minori” ai sensi dell’art. 37 del d.P.R.
380/2001>>.
Di qui, dunque, la esatta riconducibilità di dette opere nel
novero di quelle considerate dall'art. 3, lett. e) e lett.
e), n. 1) e art. 10 del D.P.R. n. 380/2001.
---------------
... per l'annullamento della determinazione prot. n.
12308/15, conosciuta in data 25/09/2015, con cui il
Soprintendente B.A.A.A.S. della Puglia - Lecce ha rigettato
l'istanza per la realizzazione di una "piscina a livello
terra"; di ogni altro atto presupposto, connesso e/o
consequenziale.
...
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
...
Ritiene il Collegio che la realizzazione di una piscina in
un complesso immobiliare esistente, in quanto concreta un
intervento edilizio "ex novo", non può essere ricompresa nel
regime urbanistico delle pertinenze, atteso che non è
necessariamente complementare all'uso delle abitazioni.
Ed invero, la piscina non è solo una attrezzatura per lo
svago, ma innanzi tutto una struttura di tipo edilizio che
incide invasivamente sul sito in cui viene realizzata, con
la conseguenza che per la sua realizzazione occorre munirsi
del relativo titolo ad aedificandum (cfr. Cons. di Stato,
sez. IV, 08.01.2016, n. 35).
Secondo l’art. 3, lett. e), del D.P.R 380/2011), sono
interventi di nuova costruzione <<la costruzione di
manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero
l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma
esistente …>>), e ,come ripetutamente affermato in
giurisprudenza, <<tutti gli elementi strutturali concorrono
al computo della volumetria del manufatto, siano essi
interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa
anche la piscina, in quanto non qualificabile come
pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione
autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella
propria dell'edificio al quale accede>> (cfr. C.d.S Sez. VI
del 06.06.2013 n. 2980).
<<Ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del
d.p.r. 380/2001, è richiesto il permesso di costruire per
tutte le attività qualificabili come interventi di nuova
costruzione che comportano la trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio. Ciò posto, è agevole rilevare che
la costruzione della piscina, in relazione alla sua
consistenza modificativa e trasformativa dell’assetto del
territorio, non si configura come riconducibile fra gli
“interventi di manutenzione straordinaria” e fra gli
“interventi minori” ai sensi dell’art. 37 del d.P.R.
380/2001>> ( cfr. Cass. pen. - Sez. III, 12.05.2014 n.
19444; C.d.S. n. 26197 del 29/04/2003).
Di qui, dunque, la esatta riconducibilità di dette opere nel
novero di quelle considerate dall'art. 3, lett. e) e lett.
e), n. 1) e art. 10 del D.P.R. n. 380/2001.
Peraltro, è legittima anche la considerazione espressa
dall’Unione dei Comuni circa l’estraneità delle opere dalla
c.d. “conduzione del fondo ai fini agricoli”.
La L.R. Puglia n. 6 del 1979 ha subordinato l'edificazione
nelle aree agricole alla prova del possesso, da parte del
richiedente la concessione, dei requisiti di imprenditore
agricolo, coltivatore diretto o bracciante con disposizioni
confermate poi dalla successiva L. n. 56 del 1980.
Quanto alla valenza dei vincoli all'edificazione in zona
agricola, la giurisprudenza ha affermato il principio
secondo cui l'attribuzione di una destinazione agricola a un
determinato terreno è volta non tanto e non solo a garantire
il suo effettivo utilizzo a scopi agricoli, quanto piuttosto
a preservarne le caratteristiche attuali di zona di
salvaguardia da ogni possibile nuova edificazione, anche in
funzione della valenza conservativa di valori naturalistici
che ha tale tipo di destinazione di zona. Difatti, in zona
agricola debbono ritenersi ammissibili tutte quelle attività
integrative, aggiuntive e/o migliorative che non si pongano
insanabilmente in contrasto con la zona e con la sua
destinazione, essendo quindi necessario operare una
valutazione caso per caso relativa a tale compatibilità in
concreto.
Nella specie, basti rilevare che il ricorrente non ha
efficacemente dedotto alcuna connessione soggettiva o
oggettiva con l'attività agricola.
Orbene, avuto riguardo alle caratteristiche delle opere in
esame, nonché all'area al cui interno esse dovrebbero essere
realizzate, deve ritenersi che la valutazione tecnica
compiuta dall'amministrazione possa senz'altro ritenersi in
linea con le risultanze istruttorie, avendo l'Unione dei
Comuni Terre di Leuca negato la chiesta autorizzazione
paesaggistica sulla base di una corretta rappresentazione di
tutti gli elementi di fatto, con valutazione scevra da
errori, profili di incoerenza, illogicità, ecc, i soli che
giustificherebbero il sindacato giurisdizionale sulle scelte
discrezionali amministrative.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 20.09.2016 n. 1446 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
costruzione di una piscina necessita del previo rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, primo comma, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001, in relazione alla previsione del precedente art. 3, lett. e.1) (che definisce "interventi di nuova costruzione" <<la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente …>>), come ripetutamente affermato in giurisprudenza:
- <<tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede>>;
- <<ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del d.p.r. 380/2001, è richiesto il permesso di costruire per tutte le attività qualificabili come interventi di nuova costruzione che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio. Ciò posto, è agevole rilevare che la costruzione della piscina, in relazione alla sua consistenza modificativa e trasformativa dell’assetto del territorio, non si configura come riconducibile fra gli “interventi di manutenzione straordinaria” e fra gli “interventi minori” ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. 380/2001>>;
- <<Costituiscono infatti lavori edilizi necessitanti di permesso a costruire non soltanto quelli per la realizzazione di manufatti che si elevano al di sopra del suolo, ma anche quelli in tutto o in parte interrati e che trasformano in modo durevole l'area impegnata dai lavori stessi. Di qui, dunque, la esatta riconducibilità di dette opere, ben diverse da quelle di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, nel novero di quelle considerate dall'art. 3, lett. e) e lett. e), n. 1) e art. 10 del medesimo D.P.R.. --------------- .. per l'annullamento dell'ordinanza del Capo Settore Urbanistica prot. n. 10136 dell'11.05.2009, con la quale si ingiunge la demolizione delle opere edili realizzate alla via
... n. 162; di ogni altro atto, anche endoprocedimentale, consequenziale, connesso, preordinato e presupposto. ... La ricorrente realizzava sul fondo di sua proprietà una piscina con pensilina sul lato est, nonché due spogliatoi ed altra pensilina sul lato nord, presentando in data 26/11/2008 istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001. Con l’impugnato provvedimento è stata ingiunta la demolizione delle opere così descritte:
"Realizzazione di
- una piscina interrata di circa mq. 50,00 con pensilina sul lato est, consistente in struttura metallica e copertura in similtegole in plastica di circa mq. 10,00 nonché
- n. 2 spogliatoi in muratura e copertura in lamiere di circa mq. 3,00.
Risulta, altresì, pensilina sul lato nord di circa mq. 10 con struttura in ferro e copertura in plastica”. Avverso il provvedimento è stato proposto il presente ricorso, affidato a
quattro motivi con cui è dedotta la violazione delle leggi n. 765/1967 e n. 1150/1942, dell’art. 3 della legge n. 241/1990 e dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, nonché l’eccesso di potere per violazione del principio della certezza del diritto, motivazione erronea ed illogica, illogicità manifesta e difetto di istruttoria. Nelle censure articolate si sostiene che: 1) la piscina venne realizzata tra gli anni ’60 e ’70 , in epoca nella quale non era richiesta la licenza edilizia; 2) la stessa, interrata nell’area strettamente adiacente all’immobile, non determina la realizzazione di un volume, mentre la volumetria degli spogliatoi accessori è inferiore al 20% dell’edificio, dovendosi qualificare le opere come pertinenziali e assoggettate a DIA; 3) per le stesse era stata presentata in data 26/11/2008 una richiesta di accertamento di conformità urbanistica, conseguendone l’inefficacia della demolizione ingiunta; 4) difetta un’adeguata istruttoria di verifica della legittimità delle opere. ... Il ricorso è infondato. L’affermazione della ricorrente secondo cui la piscina è stata realizzata anni addietro non è sorretta da alcun elemento di prova, il cui onere incombe sul ricorrente ex art. 64 c.p.a. (la circostanza è asserita nella richiesta di accertamento di conformità urbanistica, ma non è neppure esplicitata nell’allegata relazione tecnica). Peraltro è comunque da escludere, in linea di principio, che l’epoca di realizzazione dell’abuso edilizio, consistente in un illecito di tipo permanente, abbia rilevanza ai fini dell’applicazione della prescritta sanzione (cfr. Cons. St., sez. V, 27/08/2014, n. 4381). Ciò posto, avuto riguardo alla natura e alla consistenza delle opere (che costituiscono nuovi volumi ed arrecano una rilevante trasformazione del territorio), è destituita di fondamento la tesi secondo cui le stesse fossero assoggettabili a DIA. Esse necessitavano del previo rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, primo comma, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001, in relazione alla previsione del precedente art. 3, lett. e.1) (che definisce "interventi di nuova costruzione" <<la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente …>>), come ripetutamente affermato in giurisprudenza (cfr. la sentenza della Sezione VII di questo Tribunale del 07.01.2014 n. 1: <<tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede>>; cfr., altresì, la sentenza della Sez. VI del 06.06.2013 n. 2980: <<ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del d.p.r. 380/2001, è richiesto il permesso di costruire per tutte le attività qualificabili come interventi di nuova costruzione che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio. Ciò posto, è agevole rilevare che la costruzione della piscina, in relazione alla sua consistenza modificativa e trasformativa dell’assetto del territorio, non si configura come riconducibile fra gli “interventi di manutenzione straordinaria” e fra gli “interventi minori” ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. 380/2001>>; cfr. anche Cass. pen. - Sez. III, 12.05.2014 n. 19444: <<Costituiscono infatti lavori edilizi necessitanti di permesso a costruire non soltanto quelli per la realizzazione di manufatti che si elevano al di sopra del suolo, ma anche quelli in tutto o in parte interrati e che trasformano in modo durevole l'area impegnata dai lavori stessi (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 26197 del 29/04/2003, Agresti, Rv. 225388, proprio con riferimento a piscina interrata). Di qui, dunque, la esatta riconducibilità di dette opere, ben diverse da quelle di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, nel novero di quelle considerate dall'art. 3, lett. e) e lett. e), n. 1) e art. 10 del medesimo D.P.R.>>). Da ciò discende che il Comune ha correttamente valutato la tipologia dell’opera, dalla cui abusività (difettando il prescritto titolo edilizio) scaturisce con carattere vincolato l’ordine di demolizione. Infine, la presentazione della richiesta di accertamento di conformità urbanistica, ai sensi dell’art. 36 del DPR n. 380/2001, non influisce sul provvedimento emanato rendendolo inefficace; ciò in quanto, decorso il termine di sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento tacito di rigetto, che è onere della parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi del potere sanzionatorio della P.A. (cfr. Cons. St., sez. VI, 02/02/2015, n. 466) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 18.11.2015 n. 5308 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
può considerarsi una mera “vasca d’acqua”
un manufatto di circa 30 mq, interrata per circa 70 cm. ed avente una
profondità massima di un metro e mezzo, dotata, fra l’altro, come risulta
dai rilievi fotografici, di scaletta per consentire l’immissione e l’uscita
dall’acqua.
Pertanto, correttamente gli atti dell’Amministrazione
comunale qualificano il manufatto in questione come “piscina” e non come “elemento di
arredo”.
Nessun rilievo, poi, assume, ai fini paesaggistici, il fatto che l’opera
realizzata sia per lo più interrata; essa, infatti, ha comunque implicato
uno scavo del terreno consistente, che ha alterato lo stato dei luoghi.
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PREMESSO
In data 15.10.2011, la soc. Qu. rivolgeva al Comune di
Buggiano (PT) l’accertamento di compatibilità paesaggistica dei lavori
effettuati per la realizzazione di una piscina prefabbricata. Con nota n.
13561 del 02.11.2011, veniva comunicato l’avvio del relativo
procedimento. Il 30.01.2012, il Comune chiedeva alla Commissione per il
paesaggio il relativo accertamento di compatibilità, che, in data 02.02.2012, veniva espresso in senso contrario. Tale parere veniva comunicato il
07.02.2012 alla competente Soprintendenza, con nota n. 1600, ed
all’interessato, con nota n. 1586. Il 28 successivo, con nota n. 4407,
veniva trasmesso al Pl. il preavviso di provvedimento negativo.
Il 22.03.2012, la Soprintendenza per i beni architettonici,
paesaggistici, storici, artistici ed etnoantropologici per le province di
Firenze, Pistoia e Prato comunicava, con nota n. 6430, al Comune il proprio
“parere negativo vincolante”.
Il 06.04.2012, veniva effettuato un sopralluogo alla presenza di tecnici
del Comune, della Soprintendenza e della proprietà, indi veniva adottato il
provvedimento, n. 5003 del 12.04.2014, di reiezione dell’istanza, del
quale veniva data notizia all’interessato ed alla Soprintendenza il 16.04.2012, con nota n. 5148. Va tenuto presente che, in data 28.03.2012, erano pervenute al Comune ed alla Soprintendenza le osservazioni della
soc. Qu..
Con ricorso straordinario al Capo dello Stato, quest’ultima insorgeva contro
il provvedimento suddetto, chiedendone in via cautelare la sospensione degli
effetti e deducendo:
a) violazione e falsa applicazione dell’art. 146 d.lgs.
22.01.2004, n. 42 e degli artt. 78 e 79 l. reg. Toscana 03.01.2005,
n. 1, nonché eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei
fatti e mancanza dei presupposti;
b) violazione e falsa applicazione del
succitato art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 e degli artt. 7 e segg. L. n. 241
del 1990, nonché eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento
dei fatti, mancanza dei presupposti, illogicità e perplessità.
Con la relazione citata in epigrafe, l’Amministrazione, anche sulla scorta
delle controdeduzioni del Comune e della Soprintendenza, si esprime per
l’infondatezza del ricorso.
CONSIDERATO
Il primo motivo di ricorso si basa sul presupposto che il manufatto in
questione sia una “vasca d’acqua" inidonea a realizzare una trasformazione
del sito e per dimensioni e per i materiali leggeri e “stagionali”, con cui
è realizzata, e per le sue funzioni, con la conseguenza della sua estraneità
alla disciplina dell’autorizzazione edilizia e paesaggistica. Ciò induce a
non ritenere il manufatto “dissonante con l’insediamento storicizzato”.
Al riguardo, va rilevato che non può considerarsi una mera “vasca d’acqua”
un manufatto di circa 30 mq, interrata per circa 70 cm. ed avente una
profondità massima di un metro e mezzo, dotata, fra l’altro, come risulta
dai rilievi fotografici, di scaletta per consentire l’immissione e l’uscita
dall’acqua. Pertanto, correttamente gli atti dell’Amministrazione
qualificano il manufatto in questione come “piscina” e non come “elemento di
arredo”.
Nessun rilievo, poi, assume, ai fini paesaggistici, il fatto che l’opera
realizzata sia per lo più interrata (Cass. pen., Sez. III, 19.03.2014, n.
19444); essa, infatti, ha comunque implicato uno scavo del terreno
consistente, che ha alterato lo stato dei luoghi (Cons. Stato, VI, 07.01.2014, n. 18). Incongruo appare pertanto il richiamo all’art. 16 NTA del
Regolamento urbano del Comune di Buggiano.
Quanto poi alla valutazione, relativa alla dissonanza con l’insediamento
storicizzato, si deve far presente come essa costituisca frutto di
discrezionalità tecnica, non censurabile in sede di scrutinio di
legittimità, se non per violazione delle norme che ne regolano l’espressione
o per aver trascurato determinanti elementi di fatto o per lacunosità,
contraddittorietà o irragionevolezza della motivazione, rilevabili ictu
oculi. Ma, nel caso in esame, nessuno dei suddetti vizi appare sussistere,
visto che la motivazione del provvedimento, non soltanto fa rinvio al parere
vincolante della Soprintendenza, ma chiarisce le ragioni per le quali è
stato chiesto il parere della Commissione per il paesaggio e della
Soprintendenza essendo stato non solo il territorio del Comune di Buggiano
dichiarato di notevole interesse pubblico, con D.M. 07.03.1963, ma la
Villa “Pichi Sermolli” dichiarata edificio di rilevante valore storico,
architettonico, ambientale, con il Regolamento urbanistico del Comune.
Di ciò del resto appare consapevole la stessa Società ricorrente, che ha
richiesto in sanatoria l’accertamento di compatibilità paesaggistica del
manufatto in questione (Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 17.03.2015 n. 801 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi del combinato
disposto degli artt. 3 e 10, d.P.R. n. 380 del 2001, è richiesto il permesso di costruire per tutte le attività qualificabili come interventi di nuova costruzione che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio. La costruzione di una piscina, in relazione alla sua consistenza modificativa e trasformativa dell'assetto del territorio, non si configura come riconducibile fra gli "interventi di manutenzione straordinaria" e fra gli "interventi minori" ai sensi dell'art. 37, d.P.R. n. 380 del 2001, atteso che per i lavori di "manutenzione ordinaria e straordinaria"
resta comunque fermo l'obbligo di non alterazione delle superfici delle
unità immobiliari e delle destinazioni in uso in atto.
---------------
Con il gravame in epigrafe, il ricorrente impugna l’ordinanza di demolizione
n. 135 del 02.06.2009 spedita dal Comune di Ischia a fronte della
realizzazione, in località via ..., di un complesso di opere consistenti
nella realizzazione:
- di un primo corpo di fabbrica, articolato su due livelli, tra
loro collegati a mezzo di scala interna ed adibiti ad abitazione, di
superficie pari a 125 mq circa al piano terra e di 75 mq circa al piano
primo, oltre a mq. 12,50 circa di area porticata e tettoia in legno e tegole
di mq 14,50 circa. Risultano, inoltre, realizzate una copertura con pali di
legno ed incannucciate per una superficie di mq. 55 ed una tettoia di mq
7,50 a copertura degli impianti tecnici e posta a monte del fabbricato;
- di un secondo corpo di fabbrica, di mq 13,50, adibito a locale
tecnico (sala caldaia);
- di muri di contenimento per uno sviluppo di 80 ml circa;
- di una piscina balneare di forma irregolare della superficie di
mq. 30, profonda 1,30 mt circa.
...
Del pari, non possono essere condivise le conclusioni rassegnate dal ricorrente in ordine all’affermata irrilevanza edilizia della piscina abusivamente realizzata, siccome opera di edilizia minore. Ed, infatti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10, d.P.R. n. 380 del 2001, è richiesto il permesso di costruire per tutte le attività qualificabili come interventi di nuova costruzione che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio. La costruzione di una piscina, in relazione alla sua consistenza modificativa e trasformativa dell'assetto del territorio, non si configura come riconducibile fra gli "interventi di manutenzione straordinaria" e fra gli "interventi minori" ai sensi dell'art. 37, d.P.R. n. 380 del 2001, atteso che per i lavori di "manutenzione ordinaria e straordinaria" resta comunque fermo l'obbligo di non alterazione delle superfici delle unità immobiliari e delle destinazioni in uso in atto (cfr.
ex multis TAR Napoli Campania sez. VI, n. 29 del 06.06.2013;
Consiglio di Stato sez. VI, n. 1316 del 05.03.2013)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2014 n. 588 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
aggiornamento al
13.12.2022 |
|
In tema di abusi edilizi (e non solo):
l'esistenza di un’indagine penale “non implica, di per sé, la
non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in
qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di
indagine. Invero, solo gli atti per i quali è stato disposto il
sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare
sottratti al diritto di accesso". |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'art.
24 della L. n. 241/1990, nella versione riformulata dalla L. 11.02.2005, n.
15, ha sancito, elevando a rango superiore un principio già introdotto a
livello regolamentare, l'esclusione dell'esibizione di atti utilizzati nel
corso dell'attività giudiziaria o di polizia.
Orbene, essendo stata sancita con legge ordinaria la sottrazione di tali
categorie di documenti alla conoscibilità degli stessi interessati, in tale
prospettiva non sono ostensibili, ex artt. 114 e 329 c.p.p., gli atti
afferenti ad informative penali inoltrate nei confronti degli istanti, ad
eventuali indagini in corso, in quanto relative ad un (eventuale)
procedimento penale e rientranti perciò nella esclusiva disponibilità
dell'organo requirente procedente.
La previsione in esame è infatti chiaramente finalizzata ad escludere la
piena ostensibilità delle relazioni di servizio che non costituiscono atti
presupposti volti all'adozione di un provvedimento amministrativo, ma
piuttosto atti volti a sollecitare l'iniziativa penale da parte
dell'autorità giudiziaria, e quindi atti inerenti non allo svolgimento
dell'attività amministrativa, quanto alla (diversa) attività di promozione e
collaborazione dell'attività di prevenzione e repressione della criminalità.
---------------
Gli
atti per cui è causa, consistenti nei verbali e informative di controllo
della Polizia, sono sottratti all'accesso proprio perché volti a tutelare
quell'interesse pubblico senz'altro meritevole di "maggiore apprezzamento".
In particolare, le annotazioni ovvero le informative di polizia giudiziaria
che consistono in accertamenti compiuti dalle forze dell'ordine in sede di
controllo del territorio non possono essere resi accessibili anche in
funzione di tutela dell'agente di polizia giudiziaria che li redige, delle
strutture operanti e delle fonti informative.
Gli atti in questione richiesti dalla ricorrente rispondono esattamente a
quelle esigenze di sicurezza e prevenzione della criminalità e dell'ordine
pubblico che la normativa di settore si preoccupa di tutelare in primis et
ante omnia.
Detti documenti sono esclusi dalla ostensibilità in quanto la loro
conoscenza appare suscettibile di arrecare un pregiudizio concreto agli
interessi connessi alla sicurezza pubblica né a carico dell'amministrazione
intimata appare ravvisabile un onere di motivazione sulla prevalenza
dell'interesse pubblico, giacché la normativa di riferimento lo reputa
presente in re ipsa nella natura dell'atto richiesto.
D’altronde, la giurisprudenza ha precisato che "l'accesso va effettivamente
escluso per tutte le parti della documentazione in possesso
dell'Amministrazione coperte da segreto istruttorio, in quanto afferenti a
indagini preliminari o procedimenti penali in corso, o in quanto
coinvolgenti, a qualunque titolo, terzi soggetti interessati dalle
informative di polizia di sicurezza; ovvero, ancora, adducendo specifici
motivi ostativi riconducibili ad imprescindibili esigenze di tutela di
accertamenti di polizia di sicurezza e di contrasto alla delinquenza
organizzata".
---------------
1.- Con il ricorso all'esame, notificato il 2 agosto e depositato il
successivo 03.08.2022, la ricorrente società ha esposto in fatto:
- di essere stata destinataria, in data 04/07/2022, della notifica
da parte dei carabinieri della Stazione di Sorrento, ai sensi e per gli
effetti degli artt. 7, 8 e 10 l. n. 241/1990, della comunicazione di avvio
di procedimento (protoc. n. 125 del 26/05/2022/OM) amministrativo,
finalizzato all’applicazione nei suoi confronti del provvedimento ex art.
100 T.U.L.P.S.;
- nel predetto avviso era precisato che l’avviato procedimento
aveva trovato origine dalla proposta del 02/05/2022 prot. n. 15/2 formulata
dalla medesima compagnia dei carabinieri nonché dalle successive note
(6/5/2022 prot. n. 62/40– I/2022) inoltrate dalla Legione Carabinieri
Campania–Stazione Pimonte e dalla relazione dell’08/05/2022 cat Q.2.2/2022
redatta dal Commissariato di P.S. di Sorrento, inviate alla Questura di
Napoli onde conseguire l’applicazione, nei confronti della ricorrente, del
provvedimento ex art. 100 T.U.L.P.S. in ragione del “grave episodio
occorso nella notte del 1 maggio c.a., verso le ore 3,20, quando per futili
motivi si consumava una violenta rissa tra avventori, alcuni di questi
affetti anche da pregiudizi e/o precedenti di polizia”;
- di aver quindi in data 05.07.2022 inoltrato al competente
dirigente un’istanza di accesso con cui aveva domandato il rilascio di copia
degli atti da cui traeva origine il procedimento de quo teso all’adozione
del provvedimento ex art. 100 T.U.L.P.S.;
- in particolare, come precisato con la successiva nota del
13/07/2022, la ricorrente, invocando la necessità di essere posta nelle
condizioni di esercitare il suo diritto alla difesa, domandava di ricevere
copia dei seguenti atti:
a) proposta -prot. n. 15/2 del 02/05/2022- di
provvedimento ex art. 100 TULPS Compagnia Carabinieri Sorrento;
b) nota -protoc. 62/40-1/2022 del 06/05/2022-
Legione Carabinieri Campania–Stazione di Pimonte;
c) nota -08/05/2022, cat Q.2.2/2022-
Commissariato di P.S. Sorrento per l’applicazione del provvedimento ex art.
100 TULPS;
d) nota –04/05/2022 cat. Q.2.2- del Commissariato
di Polizia di Sorrento;
d) le relazioni o i rapporti predisposti dal
personale dei Carabinieri della Compagnia di Sorrento conseguenti anche la
lettura delle immagini della videosorveglianza del locale;
e) verbale di arresto (per il reato di cui agli
artt. 61 n. 1 e 588 c.p.) dei quattro correi;
f) ordinanza del GIP di convalida dell’arresto.
- con la nota oggetto della presente impugnazione -18-19/07/2022
sez. VI cat Q/2.2OM- il dirigente della Polizia di Stato aveva consentito
l’accesso agli atti limitatamente alla proposta –prot. n. 15/2 del
02/05/2022- di adozione del provvedimento ex art. 100, redatta dalla
Compagnia Carabinieri di Sorrento.
Da tanto è scaturita la proposizione dell’odierno ricorso con cui la
ricorrente, ribadito di avere un interesse giuridicamente rilevante alla
conoscenza dei documenti richiesti in quanto necessari a ricostruire gli
accadimenti ed a verificare se sussistessero gli estremi per l’adozione nei
suoi confronti del preannunciato provvedimento, ha domandato che il
Tribunale, annullato il parziale diniego perché fondato su ragioni
contrastanti con principi e regole posti dagli artt. 22 l. n. 241/1990 e
ss.mm., D.M n. 415/1994, D.P.R. n. 352/1992 in relazione agli artt. 7, 10 e
24 l. n. 241/1990 e ss.mm.ii., ed acclarata l'illegittimità della nota
impugnata, ordinasse all’ente intimato di esibire i documenti richiesti.
Il Ministero dell’Interno ha resistito al ricorso, sostenendo l’inaccoglibilità
nei termini richiesti dell’istanza proposta, avendo quest’ultima ad oggetto
atti sottratti all'accesso dagli articoli 3 e 4 del D.M. 10.05.1994, n. 415
("Regolamento per la disciplina delle categorie di documenti sottratti al
diritto di accesso ai documenti amministrativi, in attuazione dell'art. 24,
comma 4, della legge 07.08.1990, n. 241, recante nuove norme in materia di
procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi") e coperti da segreto investigativo essendo pendente un
procedimento penale.
...
2.- Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito precisate.
Ai sensi dell'art. 24, comma 6, lett. c), della legge 07.08.1990, n. 241 il
Governo può prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti
amministrativi "quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le
dotazioni, il personale e le azioni strettamente strumentali alla tutela
dell'ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità
con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle
fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte,
all'attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini”.
Il Ministero dell'interno, inoltre, con regolamento approvato con D.M.
10.05.1994, n. 415, all'art. 3, comma 1, elenca una serie di documenti
inaccessibili per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero ai fini di
prevenzione e repressione della criminalità, includendovi:
a) le "relazioni di servizio ed altri atti o documenti
presupposto per l'adozione degli atti o provvedimenti dell'autorità
nazionale e delle altre autorità di pubblica sicurezza, nonché degli
ufficiali o agenti di pubblica sicurezza, ovvero inerenti all'attività di
tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica o di prevenzione e repressione
della criminalità, salvo che si tratti di documentazione che, per
disposizione di legge o di regolamento, debba essere unita a provvedimenti o
atti soggetti a pubblicità";
b) "le relazioni di servizio, informazioni ed altri atti o
documenti inerenti ad adempimenti istruttori relativi a licenze, concessioni
od autorizzazioni comunque denominate o ad altri provvedimenti di competenza
di autorità o organi diversi, compresi quelli relativi al contenzioso
amministrativo, che contengono notizie relative a situazioni di interesse
per l'ordine e la sicurezza pubblica e all'attività di prevenzione e
repressione della criminalità, salvo che, per disposizioni di legge o di
regolamento, ne siano previste particolari forme di pubblicità o debbano
essere uniti a provvedimenti o atti soggetti a pubblicità".
Orbene, l'art. 24 della L. n. 241/1990, nella versione riformulata dalla L.
11.02.2005, n. 15, ha sancito, elevando a rango superiore un principio già
introdotto a livello regolamentare, l'esclusione dell'esibizione di atti
utilizzati nel corso dell'attività giudiziaria o di polizia. Orbene, essendo
stata sancita con legge ordinaria la sottrazione di tali categorie di
documenti alla conoscibilità degli stessi interessati, in tale prospettiva
non sono ostensibili, ex artt. 114 e 329 c.p.p., gli atti afferenti ad
informative penali inoltrate nei confronti degli istanti, ad eventuali
indagini in corso, in quanto relative ad un (eventuale) procedimento penale
e rientranti perciò nella esclusiva disponibilità dell'organo requirente
procedente. La previsione in esame è infatti chiaramente finalizzata ad
escludere la piena ostensibilità delle relazioni di servizio che non
costituiscono atti presupposti volti all'adozione di un provvedimento
amministrativo, ma piuttosto atti volti a sollecitare l'iniziativa penale da
parte dell'autorità giudiziaria, e quindi atti inerenti non allo svolgimento
dell'attività amministrativa, quanto alla (diversa) attività di promozione e
collaborazione dell'attività di prevenzione e repressione della criminalità
(in tal senso: TAR Lazio, Roma, Sez. II-quater Sent., 14.05.2007, n. 4346).
In tale contesto normativo, il provvedimento impugnato non appare viziato
per carenza di motivazione, in quanto si fonda su un conferente richiamo
all'art. 3, comma 1, del D.M. n. 415/1994, atteso che la ricorrente, pur
avendo avuto accesso alla proposta formulata in ordine all’adozione nei suoi
confronti del provvedimento ex art. 100 TULPS, ha domandato l’accesso ad
ulteriori atti chiaramente relativi alle indagini in corso nell’ambito del
procedimento penale riguardanti la vicenda verificatasi in prossimità della
sua sede aziendale (informative di polizia, relazioni probatorie in ordine
all’immagini del sistema di videosorveglianza, verbale di arresto, ordinanza
cautelare del GIP).
Le ragioni ostative all'accoglimento del chiesto accesso vanno, dunque,
correlate ad una corretta interpretazione della normativa dettata in
subiecta materia e, precisamente, delle disposizioni di cui all'art. 24
della legge n. 241/1990 sui documenti sottratti all'accesso e di quelle
recate, in attuazione della suindicata norma dal Decreto Ministero Interno
n. 415 del 1994 ( modificato con D.M. 17.11.1997 n. 508).
Invero, essendo la ratio sottesa alle predette disposizioni volta a
realizzare il bilanciamento tra gli interessi privati nonché quelli sottesi
alla sicurezza e alla conservazione dell'ordine pubblico con l’interesse
alla riservatezza di soggetti terzi che potrebbero essere attinti dalle
indagini penali, appare ragionevole ritenere che gli atti per cui è causa,
consistenti nei verbali e informative di controllo della Polizia, sono
sottratti all'accesso proprio perché volti a tutelare quell'interesse
pubblico senz'altro meritevole di "maggiore apprezzamento".
In particolare, le annotazioni ovvero le informative di polizia giudiziaria
che consistono in accertamenti compiuti dalle forze dell'ordine in sede di
controllo del territorio non possono essere resi accessibili anche in
funzione di tutela dell'agente di polizia giudiziaria che li redige, delle
strutture operanti e delle fonti informative.
Gli atti in questione richiesti dalla ricorrente rispondono esattamente a
quelle esigenze di sicurezza e prevenzione della criminalità e dell'ordine
pubblico che la normativa di settore si preoccupa di tutelare in primis
et ante omnia.
Detti documenti sono esclusi dalla ostensibilità in quanto la loro
conoscenza appare suscettibile di arrecare un pregiudizio concreto agli
interessi connessi alla sicurezza pubblica (Cons. Stato, Sez. IV, 28/10/2016
n. 4537, idem, di recente 31/03/2021 n. 2677) né a carico
dell'amministrazione intimata appare ravvisabile un onere di motivazione
sulla prevalenza dell'interesse pubblico, giacché la normativa di
riferimento lo reputa presente in re ipsa nella natura dell'atto
richiesto.
D’altronde, la giurisprudenza ha precisato che "l'accesso va
effettivamente escluso per tutte le parti della documentazione in possesso
dell'Amministrazione coperte da segreto istruttorio, in quanto afferenti a
indagini preliminari o procedimenti penali in corso, o in quanto
coinvolgenti, a qualunque titolo, terzi soggetti interessati dalle
informative di polizia di sicurezza; ovvero, ancora, adducendo specifici
motivi ostativi riconducibili ad imprescindibili esigenze di tutela di
accertamenti di polizia di sicurezza e di contrasto alla delinquenza
organizzata" (Consiglio di Stato, sez. IV, 28/10/2016, n. 4537).
In forza delle suestese considerazioni il ricorso avverso il diniego di
accesso si rivela infondato e va, perciò, respinto (TAR Camoania-Napoli,
Sez. V,
sentenza 05.12.2022 n. 7578 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Abuso
edilizio e diritto, o meno, del proprietario di accedere ai verbali di
accertamento redatti da parte dei Carabinieri.
Il privato che subisce un procedimento di controllo
vanta un interesse qualificato a conoscere tutti i documenti utilizzati per
l’esercizio del potere, inclusi, di regola, gli esposti, le diffide e le
denunce che abbiano determinato l’attivazione di un potere di controllo,
ispettivo o di vigilanza dell’autorità, salve ragioni di particolare
riservatezza o di segreto istruttorio, nel caso di specie non comprovate
dall’Amministrazione neppure in corso di causa.
In relazione a quanto controdedotto dal Ministero della difesa, va
evidenziata infatti la evanescenza della ragione ostativa opposta, afferente
alla mera pendenza di un, non meglio precisato, procedimento penale e
mancando qualsivoglia puntuale evidenziazione di ragioni di segretezza in
relazione agli specifici documenti, o parti di documenti, richiesti dalla
ricorrente.
Sul punto, costante giurisprudenza ha invero chiarito che l'esistenza di
un’indagine penale “non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti
gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi
con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto
il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al
diritto di accesso”.
Invero, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia
giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai
sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una
pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono
atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denuncia all'autorità giudiziaria.
La sussistenza in concreto delle stringenti condizioni in presenza delle
quali è possibile negare o differire l’accesso c.d. “difensivo”, non sono
state comprovate in giudizio dal Ministero della difesa; né il Comune, che
non si è neppure costituito in giudizio, ha opposto alcuna esigenza, anche
parziale, di segretezza e/o di riservatezza in riferimento alla
documentazione richiesta.
---------------
... per l'annullamento
- del silenzio–rigetto formatosi sull'istanza di accesso trasmessa
dalla Sig.ra -OMISSIS- a mezzo pec in data 16.06.2022;
- e per la declaratoria del diritto della ricorrente di esercitare
il diritto di ostensione (visione ed estrazione copia) della documentazione
richiesta.
...
La ricorrente espone che:
- con istanza del 21.02.del 2022, in qualità di erede aveva chiesto
e ottenuto la voltura del permesso di costruire n. -OMISSIS- del 29.08.2019
e del permesso a costruire in variante n. -OMISSIS-/2021 rilasciati al
deceduto dott. -OMISSIS- per la realizzazione di un compendio rurale
composto da due corpi di fabbrica con opere accessorie e sistemazione degli
spazi esterni;
- nel corso dell'esecuzione dei lavori, il cantiere veniva attinto
da numerosi accertamenti/sopralluoghi effettuati dal Comune di Procida e dal
Comando dei Carabinieri, da ultimo in data 24.05.2022;
- in data 16.06.2022 formulava istanza di accesso, ai sensi degli
artt. 22 e ss. della legge 241/1990, evidenziando il suo interesse “difensivo”
e chiedendo di “prendere visione ed estrarre copia: 1. di tutti i
verbali, accertamenti, relazioni redatti a seguito dei sopralluoghi
effettuati con riferimento all'esecuzione delle opere di cui al Permesso di
Costruire n. -OMISSIS- del 29.08.2019 e del Permesso di Costruire in
variante volturati alla scrivente; 2. di tutti gli eventuali esposti,
denunce e/o diffide presentati da terzi (anche oralmente e verbalizzati) nei
confronti della mia assistita”, chiedendo anche, ai sensi dell'art. 5,
comma 2, D.lgs. n. 33/2013, di conoscere “3. Se i sopralluoghi effettuati
siano stati promossi di ufficio e/o ad istanza di parte c/o a seguito di
delega di indagini da parte della Procura competente; 4. Laddove siano stati
promossi di ufficio e/o ad istanza di parte, se per gli stessi sia stata
operata una valutazione tecnico-discrezionale a monte circa la necessità del
sopralluogo”;
- l’Amministrazione non aveva dato risposta e si era formato il
silenzio-rigetto sull’istanza di accesso documentale stante il decorso del
termine di trenta giorni previsto dall’art. 25, comma 4, della legge n. 241
del 1990.
Di qui la proposizione del presente ricorso, con cui la ricorrente precisa
che intende censurare il solo silenzio-rigetto formatosi sull’istanza di
accesso ex lege n. 241 del 1990 e ne lamenta l’illegittimità,
rimarcando il suo interesse all’accesso alla documentazione richiesta al
fine di tutelare la sua posizione giuridico-economica, anche in sede
giurisdizionale, e l’assenza delle condizioni che, ex art. 24 della legge n.
241 del 1990, consentono il diniego o il differimento.
Il Comune intimato non si è costituito in giudizio.
Si è costituito il giudizio il Ministero della difesa chiedendo la reiezione
del ricorso perché gli atti richiesti non sarebbero stati ostesi dalla
Stazione dei Carabinieri perché “coperti da segreto in quanto inerenti un
procedimento penale pendente”.
Con memoria depositata il 21.10.2022, la ricorrente ha insistito per
l’accoglimento del ricorso.
Il ricorso va accolto, considerato che la ricorrente vanta un interesse
concreto, personale ed attuale ad accedere alla documentazione richiesta ai
fini di tutela della sua posizione giuridica, trattandosi di documentazione
riguardante i diversi accertamenti compiuti dall’Amministrazione
sull’immobile in relazione al quale la ricorrente aveva ottenuto la voltura
delle concessioni edilizie del de cuius e stava realizzando i lavori;
e considerato che non risultano concretamente opposte dalle Amministrazioni
intimate ragioni idonee a negare o differire l’accesso richiesto.
Secondo condivisibile giurisprudenza, infatti, il privato che subisce un
procedimento di controllo vanta un interesse qualificato a conoscere tutti i
documenti utilizzati per l’esercizio del potere, inclusi, di regola, gli
esposti, le diffide e le denunce che abbiano determinato l’attivazione di un
potere di controllo, ispettivo o di vigilanza dell’autorità, salve ragioni
di particolare riservatezza o di segreto istruttorio, nel caso di specie non
comprovate dall’Amministrazione neppure in corso di causa (cfr. Consiglio di
Stato, sent. n. 3128 del 2018; Tar Latina, sent. n. 551 del 2022).
In relazione a quanto controdedotto dal Ministero della difesa, va
evidenziata infatti la evanescenza della ragione ostativa opposta, afferente
alla mera pendenza di un, non meglio precisato, procedimento penale e
mancando qualsivoglia puntuale evidenziazione di ragioni di segretezza in
relazione agli specifici documenti, o parti di documenti, richiesti dalla
ricorrente.
Sul punto, costante giurisprudenza, anche di questa Sezione, ha invero
chiarito che l'esistenza di un’indagine penale “non implica, di per sé,
la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo
possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti
per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto
possono risultare sottratti al diritto di accesso” (cfr., tra le altre,
Tar Campania, Napoli, sent. n. 1482 del 2022; n. 7712 del 2021).
Invero, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia
giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai
sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una
pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono
atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denuncia all'autorità giudiziaria (cfr., tra le altre, Tar
Napoli, sent. n. 1253 del 2017).
La sussistenza in concreto delle stringenti condizioni in presenza delle
quali è possibile negare o differire l’accesso c.d. “difensivo”, non
sono state comprovate in giudizio dal Ministero della difesa; né il Comune,
che non si è neppure costituito in giudizio, ha opposto alcuna esigenza,
anche parziale, di segretezza e/o di riservatezza in riferimento alla
documentazione richiesta.
Per quanto sopra, pertanto, il ricorso va accolto e va ordinato alle
Amministrazioni intimate di ostendere alla ricorrente la documentazione
richiesta con l’istanza di accesso documentale presentata ex art. 22 e ss.
della legge n. 241 del 1990, entro trenta giorni dalla comunicazione, o
dalla notifica di parte se anteriore, della presente sentenza (TAR
Campania-Napoli, Sez,. VI,
sentenza 30.11.2022 n. 7467 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Deve
essere preliminarmente escluso che il silenzio serbato dall’Amministrazione
sia illegittimo per violazione del generale obbligo di concludere il
procedimento, in quanto l’art. 116 c.p.a., nel dettare la disciplina del
rito in materia di accesso ai documenti amministrativi, qualifica il
silenzio serbato sull’istanza di accesso come un silenzio-significativo di
segno negativo (silenzio-rifiuto).
Né può ritenersi che esso sia privo di adeguata motivazione, in quanto il
silenzio-rifiuto formatosi in relazione all’istanza di accesso risulta
giustificato dalla segretazione del verbale che ne è oggetto, in quanto atto
presupposto, posto alla base dell’indagine penale che riguarda l’odierno
ricorrente.
Come chiarito dalla giurisprudenza, infatti, sebbene “L'esistenza di
un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli
atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i
fatti oggetto di indagine”, debbono ritenersi sottratti al diritto di
accesso quelli coperti da segreto: categoria alla quale debbono essere
ricondotte anche le informative penali trasmesse dalla polizia locale, volte
a sollecitare l'iniziativa penale da parte dell'autorità giudiziaria, le
quali si caratterizzano per essere “atti inerenti non allo svolgimento
dell'attività amministrativa, quanto alla (diversa) attività di promozione e
collaborazione dell'attività di prevenzione e repressione della
criminalità”.
Dunque, non si ravvisa ragione di discostarsi dal principio affermato nella
sentenza da ultimo citata, nella quale si legge: “Non sono, dunque,
ostensibili, ex artt. 114 e 329 c.p.p., gli atti afferenti ad informative
penali inoltrate nei confronti degli istanti, ad eventuali indagini in
corso, in quanto relative ad un (eventuale) procedimento penale e rientranti
perciò nella esclusiva disponibilità dell'organo requirente procedente”.
Circostanza che ricorre anche nella fattispecie.
---------------
... per l'annullamento
- del silenzio-rigetto con cui è stata di fatto negata l’ostensione
della segnalazione del Servizio Operativo di Polizia Locale del Comune di
-OMISSIS- del 15.06.2022;
...
Il ricorrente gestisce da sette anni un pubblico esercizio, nel quale
asserisce di essere stato aggredito da un gruppo di giovani avventori in
data 14.06.2022.
Dopo la querela presentata dal gestore nei confronti degli aggressori, lo
stesso è stato destinatario di una sospensione, ex art. 100 del TULPS, della
licenza di somministrazione, come da provvedimento notificato il 22.06.2022
e fondato esclusivamente sulla segnalazione del Servizio Operativo della
Polizia Locale di -OMISSIS- del 15.06.2022, recante la ricostruzione,
secondo gli agenti intervenuti, della dinamica del fatto.
Tale ordinanza è stata impugnata con ricorso sub RG 1013/2022, ma per
articolare una compiuta difesa, il sig. -OMISSIS- ha inoltrato al Comune una
richiesta di rilascio di copia della citata segnalazione della Polizia
Locale che non è stata mai evasa.
L’implicito diniego all’esercizio del diritto di accesso opposto attraverso
la mancata risposta all’istanza sarebbe viziato dalla violazione degli
articoli 1, 2, 3, 23, 24 e 25 della legge n. 241/1990 e dell’art.24 della
Costituzione. Soltanto la piena conoscenza dei contenuti della richiamata
relazione potrebbe, infatti, secondo quanto sostenuto in ricorso, consentire
al Sig. -OMISSIS- di censurare compiutamente gli atti lesivi assunti nei
confronti dello stesso dalla PA, nonché di esercitare le proprie prerogative
nel procedimento penale. In ogni caso, in assenza di un esplicito diniego,
il rigetto dell’istanza sarebbe totalmente privo di motivazione e il
silenzio serbato integrerebbe una violazione dell’obbligo di conclusione del
procedimento con un provvedimento espresso.
Si è costituito in giudizio il Comune intimato, rappresentando come il
Responsabile del Servizio Operativo di Polizia Locale -previo confronto con
il sostituto procuratore responsabile del procedimento penale della cui
esistenza era ben a conoscenza anche il ricorrente, che ne dà atto nel
ricorso, e che risulta essere ancora pendente- abbia qualificato la
documentazione richiesta come “segretata e non disponibile”.
Tutto ciò premesso, deve essere preliminarmente escluso che il silenzio
serbato dall’Amministrazione sia illegittimo per violazione del generale
obbligo di concludere il procedimento, in quanto l’art. 116 c.p.a., nel
dettare la disciplina del rito in materia di accesso ai documenti
amministrativi, qualifica il silenzio serbato sull’istanza di accesso come
un silenzio-significativo di segno negativo (silenzio-rifiuto).
Né può ritenersi che esso sia privo di adeguata motivazione, in quanto il
silenzio-rifiuto formatosi in relazione all’istanza di accesso risulta
giustificato dalla segretazione del verbale che ne è oggetto, in quanto atto
presupposto, posto alla base dell’indagine penale che riguarda l’odierno
ricorrente.
Come chiarito dalla giurisprudenza, infatti, sebbene “L'esistenza di
un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli
atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i
fatti oggetto di indagine” (TAR Palermo, I, 12.10.2020, n. 2057,
richiamata in TAR Puglia, Lecce, Sezione 2, Sentenza 03.01.2022 n. 8),
debbono ritenersi sottratti al diritto di accesso quelli coperti da segreto:
categoria alla quale debbono essere ricondotte anche le informative penali
trasmesse dalla polizia locale, volte a sollecitare l'iniziativa penale da
parte dell'autorità giudiziaria, le quali si caratterizzano per essere “atti
inerenti non allo svolgimento dell'attività amministrativa, quanto alla
(diversa) attività di promozione e collaborazione dell'attività di
prevenzione e repressione della criminalità” (cfr. Tar Aquila, sez. I,
27.10.2017, n. 454).
Dunque, non si ravvisa ragione di discostarsi dal principio affermato nella
sentenza da ultimo citata, nella quale si legge: “Non sono, dunque,
ostensibili, ex artt. 114 e 329 c.p.p., gli atti afferenti ad informative
penali inoltrate nei confronti degli istanti, ad eventuali indagini in
corso, in quanto relative ad un (eventuale) procedimento penale e rientranti
perciò nella esclusiva disponibilità dell'organo requirente procedente”.
Circostanza che ricorre anche nella fattispecie (TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 28.11.2022 n. 1814 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - SICUREZZA LAVORO: Si
devono qui richiamare, in via preliminare, i principi
elaborati in via interpretativa dalla giurisprudenza amministrativa
relativamente ai presupposti di ammissibilità dell’accesso documentale a
norma degli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990.
In base alla disciplina normativa prevista per tale forma di accesso, la
pretesa ostensiva risulta circoscritta sul piano soggettivo, richiedendo ai
fini del relativo riconoscimento la sussistenza di un interesse conoscitivo
finalizzato alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti: ai sensi
dell’art. 22, comma 1, lett. b), L. n. 241/1990, infatti, vengono definiti
“interessati” all’accesso non tutti i soggetti indiscriminatamente, ma
soltanto i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici
o diffusi, che abbiano un interesse “diretto”, “concreto” e “attuale”,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso.
In base al consolidato orientamento giurisprudenziale maturato sul tema, la
richiesta legittimazione attiva è configurata in relazione al requisito
della “strumentalità” dell’accesso, declinato dal citato art. 22, comma 1,
lett. b), L. n. 241/1990, come finalizzazione della domanda ostensiva alla
cura di un interesse diretto, concreto, attuale -e non meramente emulativo
o potenziale- connesso alla disponibilità dell'atto o del documento del
quale si richiede l'accesso.
Sul punto è stato evidenziato, in sede giurisprudenziale, che la nozione di
“strumentalità” –relativamente alla figura dell’accesso c.d. “ordinario” di
cui agli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990– va intesa in senso ampio, in termini
di utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante.
In tale prospettiva, la valutazione in ordine al legame tra finalità
dichiarata e documento richiesto –quale presupposto di ammissibilità della
pretesa ostensiva– va effettuata in astratto, senza apprezzamenti
sull’eventuale infondatezza o inammissibilità della domanda giudiziale che
il richiedente, una volta conosciuti gli atti in questione, potrebbe
proporre, risultando sufficiente che la documentazione richiesta costituisca
mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante, non
dovendo rappresentare uno strumento di prova diretta della lesione di tale
interesse.
L’assetto delineato corrisponde, in particolare, alla definizione in via
legislativa –operata nel contesto dell’istituto dell’accesso documentale–
“di un delicato equilibrio tra due esigenze contrapposte, l’una alla più
ampia trasparenza dell’amministrazione, l’altra ad escludere tutela a quelle
istanze meramente pretestuose o comunque ingiustificate”.
In tale prospettiva, è stato evidenziato che “il diritto all’accesso
documentale –pur essendo finalizzato ad assicurare la trasparenza
dell’azione amministrativa ed a favorirne lo svolgimento imparziale- non si
configura come un’azione popolare, esercitabile da chiunque,
indipendentemente da una posizione giuridicamente differenziata; ne consegue
che l’accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti si
riferiscono direttamente o indirettamente, e comunque solo laddove essi se
ne possano avvalere per tutelare una posizione giuridicamente rilevante”.
Nell’ottica delineata, è richiesta –alla luce del disposto contenuto
nell’articolo 25, comma 2, L. n. 241/1990 ai sensi del quale «la richiesta
di accesso ai documenti deve essere motivata»– una puntuale e specifica
deduzione delle finalità dell’accesso nell’ambito dell’istanza di
ostensione, in modo da consentire la valutazione in ordine alla ricorrenza
del nesso di strumentalità previsto dall’art. 22 L. n. 241/1990, come
altresì ribadito nella recente sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato, 18.03.2021, n. 4.
Il prescritto nesso di strumentalità, dunque, se pure declinato in
un’accezione ampia, non può in ogni caso prescindere dall’allegazione di
elementi sufficienti ad estrinsecare il collegamento tra interesse dedotto,
situazione giuridica azionata e documentazione richiesta.
Viepiù che l’art. 24 della l. 241/1990, nella parte di interesse,
stabilisce:
“1. Il diritto di accesso è escluso:
a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24.10.1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di
divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento
governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del
comma 2 del presente articolo.
... 6. Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della
legge 23.08.1988, n. 400, il Governo può prevedere casi di sottrazione
all'accesso di documenti amministrativi:
... c) quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il
personale e le azioni strettamente strumentali alla tutela dell'ordine
pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità con
particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle
fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte,
all'attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini.
Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici.
Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è
consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini
previsti dall' articolo 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196,
in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.
La Giurisprudenza ha condivisibilmente precisato che <<la norma in esame debba essere
interpretata in senso non strettamente letterale, giacché altrimenti
sorgerebbero dubbi sulla sua legittimità, in quanto si determinerebbe una
sottrazione sostanzialmente generalizzata alle richieste ostensive di quasi
tutti i documenti formati dall'Amministrazione dell'Interno, con palese
frustrazione delle finalità perseguite dalla L. n. 241 del 1990>>.
---------------
Nel caso di specie, è evidente l’interesse
“difensivo” fatto valere da parte ricorrente, la quale ha chiesto di
conoscere gli atti presupposti del disconoscimento delle giornate lavorative
nei propri confronti, onde verificare la legittimità di tale operazione e
far valere, se del caso, le proprie contrarie ragioni nelle sedi
competenti..
Ne deriva che il diniego impugnato è illegittimo, considerato che l’astratta
previsione di sottrazione di determinati atti all’accesso non va intesa in
senso assoluto, ma va riferita al singolo caso concreto, in relazione al
quale l’Ente è chiamato ad effettuare un bilanciamento tra l’interesse fatto
valere dal richiedente l’accesso e l’eventuale riservatezza del soggetto
controinteressato.
Invero, qualora emergano profili di riservatezza contrastanti con
l’ostensione degli atti o cause di ostensibilità dei documenti
amministrativi, tali profili possano essere adeguatamente tutelati tramite
l’oscuramento.
Né risulta, peraltro, di ostacolo all’ostensione degli atti richiesti
l’avere l’INPS, all’esito dell’espletata istruttoria, trasmesso
comunicazione di notizia di reato alla competente Procura della Repubblica,
avendo la giurisprudenza amministrativa condivisibilmente chiarito che
l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non
ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo
possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti
per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto
possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Soltanto gli atti di
indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti
dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell' art. 329 c.p.p, di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione
nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche
se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di
accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia
all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità
dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento
di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi,
nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l.
07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24,
l. n. 241 del 1990.
---------------
... per l'annullamento:
- del diniego di accesso agli atti dell'Amministrazione in epigrafe
comunicato con pec del 28/02/2022 avente ad oggetto “…Lo. istanza di
accesso 27.01.2022.pdf INPS.7201.28/01/2022.0030473] [INPS.7201.28/02
/2022.0071062]”, rispetto all'istanza avente ad oggetto “Sig. Ca.Lo. – Provvedimento di disconoscimento di rapporto di lavoro
subordinato – prot. n. INPS 7201.09/11/2021.0297976. Istanza di accesso agli
atti ex art. 22 e seguenti della Legge n. 241/1990” proposta (tramite lo
scrivente difensore a firma congiunta con il ricorrente) e poi rinviata su
richiesta della P.A. tramite apposito modello ed a quest'ultimo ritrasmessa
a mezzo pec, consegnata in data 01.02.2022;
- nonché ove occorra in parte qua (articolo 14, comma 2, richiamato
nel provvedimento impugnato) del Regolamento per l'Accesso agli Atti
dell'INPS (determinazione prot. n. 366 del 05/08/2011).
...
Il Collegio ritiene di dover richiamare, in via preliminare, i principi
elaborati in via interpretativa dalla giurisprudenza amministrativa
relativamente ai presupposti di ammissibilità dell’accesso documentale a
norma degli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990.
In base alla disciplina normativa prevista per tale forma di accesso, la
pretesa ostensiva risulta circoscritta sul piano soggettivo, richiedendo ai
fini del relativo riconoscimento la sussistenza di un interesse conoscitivo
finalizzato alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti: ai sensi
dell’art. 22, comma 1, lett. b), L. n. 241/1990, infatti, vengono definiti
“interessati” all’accesso non tutti i soggetti indiscriminatamente, ma
soltanto i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici
o diffusi, che abbiano un interesse “diretto”, “concreto” e “attuale”,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l’accesso (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
sent. 11.01.2019, n. 249 e sez. V, sent. 21.08.2017, n. 4043).
In base al consolidato orientamento giurisprudenziale maturato sul tema, la
richiesta legittimazione attiva è configurata in relazione al requisito
della “strumentalità” dell’accesso, declinato dal citato art. 22, comma 1,
lett. b), L. n. 241/1990, come finalizzazione della domanda ostensiva alla
cura di un interesse diretto, concreto, attuale -e non meramente emulativo
o potenziale- connesso alla disponibilità dell'atto o del documento del
quale si richiede l'accesso.
Sul punto è stato evidenziato, in sede giurisprudenziale, che la nozione di
“strumentalità” –relativamente alla figura dell’accesso c.d. “ordinario” di
cui agli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990– va intesa in senso ampio, in
termini di utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante (cfr.,
ex multis, Cons. Stato, sez. VI, sent. 15.05.2017 n. 2269, sez. III,
sent. 16.05.2016 n. 1978 e sez. IV, sent. 06.08.2014 n. 4209).
In tale prospettiva, la valutazione in ordine al legame tra finalità
dichiarata e documento richiesto –quale presupposto di ammissibilità della
pretesa ostensiva– va effettuata in astratto, senza apprezzamenti
sull’eventuale infondatezza o inammissibilità della domanda giudiziale che
il richiedente, una volta conosciuti gli atti in questione, potrebbe
proporre, risultando sufficiente che la documentazione richiesta costituisca
mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante, non
dovendo rappresentare uno strumento di prova diretta della lesione di tale
interesse (in termini, cfr. ex multis Cons. Stato, sez. III, sent. 13.01.2012, n. 116).
L’assetto delineato corrisponde, in particolare, alla definizione in via
legislativa –operata nel contesto dell’istituto dell’accesso documentale–
“di un delicato equilibrio tra due esigenze contrapposte, l’una alla più
ampia trasparenza dell’amministrazione, l’altra ad escludere tutela a quelle
istanze meramente pretestuose o comunque ingiustificate” (in tal senso, cfr.
Cons. St., sent. n. 249/2019, cit.).
In tale prospettiva, è stato evidenziato che “il diritto all’accesso
documentale –pur essendo finalizzato ad assicurare la trasparenza
dell’azione amministrativa ed a favorirne lo svolgimento imparziale- non si
configura come un’azione popolare, esercitabile da chiunque,
indipendentemente da una posizione giuridicamente differenziata; ne consegue
che l’accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti si
riferiscono direttamente o indirettamente, e comunque solo laddove essi se
ne possano avvalere per tutelare una posizione giuridicamente rilevante” (cfr.
Cons. Stato, sez. V, sent. 14.09.2017, n. 4346).
Nell’ottica delineata, è richiesta –alla luce del disposto contenuto
nell’articolo 25, comma 2, L. n. 241/1990 ai sensi del quale «la richiesta
di accesso ai documenti deve essere motivata»– una puntuale e specifica
deduzione delle finalità dell’accesso nell’ambito dell’istanza di
ostensione, in modo da consentire la valutazione in ordine alla ricorrenza
del nesso di strumentalità previsto dall’art. 22 L. n. 241/1990, come
altresì ribadito nella recente sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato, 18.03.2021, n. 4.
Il prescritto nesso di strumentalità, dunque, se pure declinato in
un’accezione ampia, non può in ogni caso prescindere dall’allegazione di
elementi sufficienti ad estrinsecare il collegamento tra interesse dedotto,
situazione giuridica azionata e documentazione richiesta.
Viepiù che l’art. 24 della l. 241/1990, nella parte di interesse,
stabilisce:
“1. Il diritto di accesso è escluso:
a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24.10.1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di
divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento
governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del
comma 2 del presente articolo.
... 6. Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della
legge 23.08.1988, n. 400, il Governo può prevedere casi di sottrazione
all'accesso di documenti amministrativi:
... c) quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il
personale e le azioni strettamente strumentali alla tutela dell'ordine
pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità con
particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle
fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte,
all'attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini.
Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici.
Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è
consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini
previsti dall' articolo 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196,
in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.
La Giurisprudenza (cfr. TAR Bari, III, 06.02.2018, n. 151) ha condivisibilmente precisato che <<la norma in esame debba essere
interpretata in senso non strettamente letterale, giacché altrimenti
sorgerebbero dubbi sulla sua legittimità, in quanto si determinerebbe una
sottrazione sostanzialmente generalizzata alle richieste ostensive di quasi
tutti i documenti formati dall'Amministrazione dell'Interno, con palese
frustrazione delle finalità perseguite dalla L. n. 241 del 1990 (cfr. TAR
Lazio, Latina, Sez. I, 06.10.2010, n. 1653; id., 15.10.2009, n.
949)>>.
Ebbene, facendo applicazione dei principi legislativi e giurisprudenziali
testé richiamati, va detto che il ricorso è fondato e, pertanto, deve essere
accolto, tenuto conto che, nel caso di specie, è evidente l’interesse
“difensivo” fatto valere da parte ricorrente, la quale ha chiesto di
conoscere gli atti presupposti del disconoscimento delle giornate lavorative
nei propri confronti, onde verificare la legittimità di tale operazione e
far valere, se del caso, le proprie contrarie ragioni nelle sedi competenti
(come specificato nell’istanza di accesso).
Ne deriva che il diniego impugnato è illegittimo, considerato che l’astratta
previsione di sottrazione di determinati atti all’accesso non va intesa in
senso assoluto, ma va riferita al singolo caso concreto, in relazione al
quale l’Ente è chiamato ad effettuare un bilanciamento tra l’interesse fatto
valere dal richiedente l’accesso e l’eventuale riservatezza del soggetto
controinteressato.
Invero, qualora emergano profili di riservatezza contrastanti con
l’ostensione degli atti o cause di ostensibilità dei documenti
amministrativi, tali profili possano essere adeguatamente tutelati tramite
l’oscuramento (ex multis, Tar Catania, sentenza 1737/2018).
Né risulta, peraltro, di ostacolo all’ostensione degli atti richiesti
l’avere l’INPS, all’esito dell’espletata istruttoria, trasmesso
comunicazione di notizia di reato alla competente Procura della Repubblica,
avendo la giurisprudenza amministrativa condivisibilmente chiarito che
l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non
ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo
possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti
per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto
possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Soltanto gli atti di
indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti
dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell' art. 329 c.p.p, di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione
nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche
se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di
accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia
all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità
dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento
di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi,
nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24,
l. n. 241 del 1990 (TAR Lecce, II, 03.01.2022, n. 8; TAR Palermo, I,
12.10.2020, n. 2057, nonché la giurisprudenza ivi citata).
Consegue l’accoglimento del ricorso, facendo obbligo all’Amministrazione di
consentire l’accesso, fatti salvi i soli, specifici atti e documenti
sottratti all’ostensione alla stregua dei principi sopra indicati.
L’accoglimento del motivo principale di ricorso consente di poter dichiarare
assorbita la domanda, peraltro avanzata in via subordinata, con cui il
ricorrente ha chiesto l’annullamento del regolamento per l'Accesso agli Atti
dell'INPS (determinazione prot. n. 366 del 05/08/2011) (TAR Campania-Salerno,
Sez. III,
sentenza 27.06.2022 n. 1850 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - SICUREZZA LAVORO: Colui
il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse
qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi
utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a partire dagli atti di
iniziativa e di “preiniziativa” quali, appunto, denunce, segnalazioni
o esposti.
Non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica
amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto
istruttorio penale e, come tale, sottratto all'accesso.
In particolare è stato affermato che l'esistenza di un'indagine penale non
implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti
che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di
indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli
coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia
giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai
sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una
pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono
atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque,
restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga
uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non
può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito
all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241 e ss., non ricorrendo
alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990;
Nel caso in esame gli atti richiesti dalla ricorrente non sono gli atti di
indagine posti in essere dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria,
ma sono gli atti amministrativi propedeutici e relativi alle ispezioni
disposte, che le Amministrazioni interpellate detengono, tenuto conto che
nulla è stato riferito e comprovato dalla difesa erariale in merito alla
secretazione o sequestro degli stessi da parte dell’Autorità giudiziaria
penale.
A ciò si aggiunga che la presentazione di un esposto non può considerarsi un
fatto circoscritto al suo autore e all'Amministrazione competente all'avvio
di un eventuale procedimento, ma riguarda direttamente anche i soggetti
comunque incisi in qualità di denunciati, per cui anche tale documento può
essere oggetto di ostensione.
Si rammenta, sul punto, che, al di fuori di particolari ipotesi in cui il
soggetto denunciante potrebbe essere esposto, in ragione dei rapporti con il
soggetto denunciato, ad azioni discriminatorie o indebite pressioni, la
tutela della riservatezza non può assumere un'estensione tale da includere
il diritto all'anonimato dei soggetti che abbiano assunto iniziative
comunque incidenti nella sfera giuridica di terzi; ciò perché il principio
di trasparenza che informa l'ordinamento giuridico ed i rapporti tra
consociati e pubblica amministrazione si frappone, infatti, ad una soluzione
che impedisca all'interessato di conoscere i contenuti degli esposti e i
loro autori, anche nel caso in cui i conseguenti accertamenti abbiano dato
esito negativo.
In sostanza, colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo
ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti
amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a partire
dagli atti di iniziativa e di “preiniziativa” quali, appunto, denunce,
segnalazioni o esposti.
---------------
... per l'annullamento
- della nota prot. n. -OMISSIS- datata XX/12/2021 e della nota prot.
n. -OMISSIS- datata XX/12/2021, del Comando Carabinieri per la Tutela della
Salute - N.A.S. di Latina, con le quali è stata respinta la richiesta
d'accesso della ricorrente datata 18/11/2021, relativa ai documenti
presupposti e consequenziali l'ispezione sanitaria eseguita in data
24/08/2021 dai Militari dei N.A.S. di Latina;
- nonché per il conseguente ordine di esibizione, dettando, ove
occorra, le relative modalità, ai sensi dell'art. 116, co. 4, c.p.a.
...
Considerato che:
- ai sensi dell’art. 116, comma 4, c.p.a., nel rito in materia di
accesso agli atti amministrativi, il giudice decide con sentenza in forma
semplificata;
- dalla documentazione depositata in giudizio, anche dalle
Amministrazioni costituite, non risulta la pendenza di alcun procedimento
penale nei confronti del rappresentante legale della ricorrente per i fatti
oggetto delle ispezioni suddette;
- il Collegio ricorda che il diritto di accesso in funzione
difensiva è garantito dall'art. 24, comma 7, della L. 241/1990 che, nel
rispetto dell’art. 24 della Costituzione, prevede, con una formula di
portata generale, che “deve comunque essere garantito ai richiedenti
l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per
curare o per difendere i propri interessi giuridici”, purché sia
dimostrata una effettiva necessità di tutela di interessi che si assumano
lesi;
- pertanto, nel caso di specie, non vi è dubbio che la società
istante vanta un interesse personale, concreto ed attuale alla ostensione su
ispezioni riguardanti controlli sanitari i cui esiti potrebbero portare a
sanzioni amministrative legate all’eventuale provvedimento “in fieri”;
- non si ritiene applicabile il motivo di esclusione
dell’ostensione di cui all’art. 24, comma 1, l. n. 241/1990 legato a quanto
previsto dall’art. 329 c.p.p., secondo cui “gli atti di indagine compiuti
dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto
fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non
oltre la chiusura delle indagini preliminari”;
- risulta, infatti, che nel caso di specie non vi sia alcun
procedimento penale a carico del rappresentante legale, in assenza anche di
indicazione di riscontro da parte della Procura della Repubblica competente
a cui si era rivolto lo stesso NAS di Latina a tale scopo;
- ne deriva che il diniego risulta fondato solo sull’”interessamento”
della stessa Procura come così definito delle note impugnate;
- a tal fine, però, il Collegio richiama la giurisprudenza per la
quale non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione
all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio
penale e come tale sottratto all'accesso (Cons. Stato, Sez. VI, 29.01.2013,
n. 547 e 10.04.2003, n. 1923; TAR Sicilia, Pa, Sez. I, 20.05.2020, n. 1006 e
Ct, Sez. III, 01.02.2017, n. 229);
- in particolare è stato affermato che l'esistenza di un'indagine
penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o
provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti
oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro
e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di
accesso; infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla
polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti
penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da
una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale
sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque,
restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga
uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non
può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito
all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241 e ss., non ricorrendo
alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990;
- nel caso in esame gli atti richiesti dalla ricorrente non sono
gli atti di indagine posti in essere dal pubblico ministero o dalla polizia
giudiziaria, ma sono gli atti amministrativi propedeutici e relativi alle
ispezioni disposte, che le Amministrazioni interpellate detengono, tenuto
conto –come detto– che nulla è stato riferito e comprovato dalla difesa
erariale in merito alla secretazione o sequestro degli stessi da parte
dell’Autorità giudiziaria penale;
- a ciò si aggiunga che la presentazione di un esposto non può
considerarsi un fatto circoscritto al suo autore e all'Amministrazione
competente all'avvio di un eventuale procedimento, ma riguarda direttamente
anche i soggetti comunque incisi in qualità di denunciati, per cui anche
tale documento può essere oggetto di ostensione (Tar Lazio, Sez. II,
04.06.2020, n. 5955);
- si rammenta, sul punto, che, al di fuori di particolari ipotesi
in cui il soggetto denunciante potrebbe essere esposto, in ragione dei
rapporti con il soggetto denunciato, ad azioni discriminatorie o indebite
pressioni, la tutela della riservatezza non può assumere un'estensione tale
da includere il diritto all'anonimato dei soggetti che abbiano assunto
iniziative comunque incidenti nella sfera giuridica di terzi; ciò perché il
principio di trasparenza che informa l'ordinamento giuridico ed i rapporti
tra consociati e pubblica amministrazione si frappone, infatti, ad una
soluzione che impedisca all'interessato di conoscere i contenuti degli
esposti e i loro autori, anche nel caso in cui i conseguenti accertamenti
abbiano dato esito negativo (TAR Liguria, Sez. I, 07.07.2019, n. 510);
- in sostanza, colui il quale subisce un procedimento di controllo
o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i
documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza,
a partire dagli atti di iniziativa e di “preiniziativa” quali,
appunto, denunce, segnalazioni o esposti (TAR Toscana, Sez. I, 03.7.2017, n.
898; TAR Lombardia, Bs, Sez. I, 12.07.2016, n. 980; TAR Lazio, Sez. III,
01.06.2011, n. 4989 e Cons. Stato, Sez. V, 19.05.2009, n. 3081);
- il ricorso, pertanto, deve essere accolto, e per l’effetto devono
annullarsi le note impugnate con le quali l’Amministrazione ha denegato
l’accesso ai documenti richiesti, con conseguenziale diritto della società
ricorrente all’accesso documentale di cui è causa, in relazione alla
documentazione indicata nell’istanza di accesso, mediante esame integrale ed
estrazione di copia dei relativi documenti amministrativi e condanna
dell’intimata Amministrazione a porre in essere le dovute attività entro il
termine di giorni 30 (trenta) dalla notificazione o, se anteriore, dalla
comunicazione in via amministrativa della presente sentenza (TAR
Lazio-Latina,
sentenza
23.06.2022 n. 551 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'esistenza
di un'indagine penale non è di per sé causa ostativa all’accesso a documenti
che siano confluiti nel fascicolo del procedimento penale o che in qualsiasi
modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine.
Invero, secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale “non ogni
denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità
giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come
tale sottratto all’accesso; laddove, infatti, la denuncia sia riconducibile
all'esercizio delle istituzionali funzioni amministrative, l'atto non ricade
nell'ambito di applicazione dell'art. 329 c.p.p. e non può ritenersi coperto
dal segreto istruttorio. Diversamente, se la pubblica amministrazione
trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato nell'esercizio di
funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento,
si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria,
che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329
c.p.p.”.
In buona sostanza, in materia di accesso alla documentazione amministrativa
deve escludersi che sia coperto dal segreto istruttorio penale l'atto di
denuncia dei fatti a carico del richiedente, rimesso dall'amministrazione
alla magistratura inquirente, trattandosi di atto non riservato ai sensi
dell'art. 329 c.p.p., emanato nello svolgimento di attività istituzionale
amministrativa.
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria
sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi
dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica
amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti
amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria.
Tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto
che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G.,
cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso
garantito all'interessato dall'art. 22, L. 07.08.1990, n. 241, non
ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, L. n. 241 del 1990.
---------------
... per l’esercizio del diritto di accesso
quanto al ricorso n. 58 del 2022:
- AGLI ATTI DEL PROCEDIMENTO DI VERIFICA URBANISTICO EDILIZIA RIGUARDANTE UN
IMMOBILE DI PROPRIETA’;
e per l’annullamento
- DELLA DETERMINAZIONE DEL RESPONSABILE DELL’UNITA’ OPERATIVA URBANISTICA ED
EDILIZIA COMUNICATA VIA PEC IL 14/12/2021, RECANTE IL DINIEGO SULL’ISTANZA
OSTENSIVA;
- DELLA NOTA DIRIGENZIALE TRASMESSA IL 04/01/2022 IN RISPOSTA ALLE CONTRODEDUZIONI, AVENTE CONTENUTO SFAVOREVOLE.
quanto al ricorso n. 157 del 2022:
- AGLI ATTI DEL PROCEDIMENTO DI VERIFICA URBANISTICO EDILIZIA RIGUARDANTE UN
IMMOBILE DI PROPRIETA’;
e per l’annullamento
- DELLA DETERMINAZIONE DEL RESPONSABILE DELL’UNITA’ OPERATIVA URBANISTICA ED
EDILIZIA COMUNICATA VIA PEC L’08/02/2022, RECANTE IL DINIEGO SULL’ISTANZA OSTENSIVA;
- DELLA DETERMINAZIONE CONFERMATIVA 15/02/2022, IN RISPOSTA AL SOLLECITO;
- DELLA COMUNICAZIONE 03/02/2022.
...
Dato atto:
- che l’amministrazione intimata non si è costituita in giudizio;
- che, con ordinanza collegiale 07/04/2022 n. 330, questo TAR ha disposto
il compimento di attività istruttoria “affinché l’Ente locale si soffermi
sulle ragioni sottese al rifiuto dell’istanza ostensiva, e chiarisca con
precisione i contorni dell’affermata esistenza di un “procedimento penale in
corso”;
- che si trattava in altri termini “di puntualizzare se effettivamente
l’attività di controllo sia stata posta in essere nell’esercizio dei poteri
di polizia giudiziaria previsti dall’ordinamento, nell’ambito di un’indagine
penale”;
Atteso:
- che il Comune intimato –nella propria relazione– ha ricostruito la
dinamica fattuale, dando conto dell’avvenuta ostensione del verbale di
accertamento (con relativi allegati), formato a seguito di sopralluogo
originato da un esposto;
- che il verbale è stato inoltrato all’autorità giudiziaria da parte degli
agenti di Polizia Locale;
- che, nel prosieguo, si è sviluppato un contraddittorio, all’esito del
quale è stata completata l’indagine ed emesso un verbale aggiornato (in data
08/03/2022) a sua volta trasmesso alla Procura della Repubblica competente;
- che, dopo ulteriori approfondimenti, alcuni degli abusi contestati sono
stati dichiarati non rilevanti per la pubblica incolumità, e per altri si
sono riscontrate violazioni alla normativa tecnica per l’edilizia, con
segnalazione all’autorità giudiziaria;
- che l’esclusione/differimento dell’accesso sarebbe stata giustificata
dalla tutela dell’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle
indagini, e risulterebbe limitata a violazioni, irregolarità o infrazioni
suscettibili di dare luogo alla suddetta comunicazione alla Procura della
Repubblica;
Considerato:
- che, nel corso della discussione orale in Camera di consiglio, il
difensore di parte ricorrente ha dichiarato di non avere più interesse alla
decisione dei due ricorsi, avendo l’amministrazione provveduto a depositare
la documentazione richiesta all’esito dell’ordinanza istruttoria di questo
Collegio, restando salva la liquidazione delle spese di lite;
- che, pertanto, può essere dichiarata la cessazione della materia del
contendere;
- che le spese di lite devono essere poste da carico del Comune intimato,
alla luce della fondatezza della pretesa ostensiva avanzata nei giudizi;
Ritenuto, a quest’ultimo proposito:
- che l'esistenza di un'indagine penale non è di per sé causa ostativa
all’accesso a documenti che siano confluiti nel fascicolo del procedimento
penale o che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti
oggetto di indagine;
- che secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale (cfr. TAR
Umbria – 25/07/2018 n. 471) “non ogni denuncia di reato presentata dalla
pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto
da segreto istruttorio penale e come tale sottratto all’accesso; laddove,
infatti, la denuncia sia riconducibile all'esercizio delle istituzionali
funzioni amministrative, l'atto non ricade nell'ambito di applicazione
dell'art. 329 c.p.p. e non può ritenersi coperto dal segreto istruttorio.
Diversamente, se la pubblica amministrazione trasmette all'autorità
giudiziaria una notizia di reato nell'esercizio di funzioni di polizia
giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza di
atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono
soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. (C.d.S., sez.
VI, 29.01.2013, n. 547)”;
- che tale concetto è stato espresso anche da TAR Lazio-Roma, sez. II-quater – 28/07/2017 n. 9043, TAR Sardegna, sez. I – 13/11/2020 n. 618,
TAR Lazio-Roma, sez. III-quater – 18/02/2020 n. 2157;
- che, in buona sostanza, in materia di accesso alla documentazione
amministrativa deve escludersi che sia coperto dal segreto istruttorio
penale l'atto di denuncia dei fatti a carico del richiedente, rimesso
dall'amministrazione alla magistratura inquirente, trattandosi di atto non
riservato ai sensi dell'art. 329 c.p.p., emanato nello svolgimento di
attività istituzionale amministrativa (TAR Campania-Salerno, sez. I –
13/01/2020 n. 64);
- che soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia
giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai
sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una
pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono
atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria;
- che “tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione
fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da
parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro
confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, L. 07.08.1990, n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, L. n.
241 del 1990” (TAR Sicilia-Palermo, sez. I – 20/05/2020 n. 1006, che evoca
TAR Sicilia-Catania, sez. III – 01/02/2017 n. 229);
- che neppure la relazione del Comune di Bellaria Igea Marina attesta
l’esistenza di un segreto istruttorio collegato a una puntuale statuizione
dell’autorità penale ovvero a un’attività esperita dalla Polizia locale
nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 20.05.2022 n. 427 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L'esistenza
di un’indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti
gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi
con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto
il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al
diritto di accesso.
---------------
... per l'annullamento
- del provvedimento n. 22856 del 17.10.2021 notificato in pari
data, con cui è stato comunicato il diniego di accesso agli atti, richiesto
dal ricorrente con nota del 24.09.2021,
- di tutti gli atti presupposti, connessi e/o consequenziali
- nonché per l’accertamento e la declaratoria del diritto d’accesso
e l’emanazione dell’ordine di esibizione dei documenti ex art. 116, comma 4,
c.p.a..
...
1. Il ricorrente, nella qualitas di diretto confinante dell’immobile
sito in Gragnano, alla via -OMISSIS-, e di parte civile nel procedimento
penale avanti il Tribunale di Torre Annunziata relativa ad abusi ivi
commessi, in data 23.09.2021 presentava al Comune di Gragnano istanza di
accesso agli atti ai sensi degli artt. 22 ss. della legge n. 241 del 1990
s.m.i., avente ad oggetto i seguenti documenti: “verbali di sequestro e
documenti correlati (relazione tecnica, fotografie, misurazioni eseguite)
per abusi commessi all’immobile di via -OMISSIS-, identificato in catasto
coi dati di foglio di -OMISSIS-, a seguito di sopralluoghi dell’Ufficio
controllo sul territorio del Corpo della Polizia Municipale eseguiti negli
anni 2005–2006 per verifiche ai lavori del tetto in secondo piano ed
ampliamenti in primo piano, e nell’anno 2009 a seguito di altro accertamento
sempre per gli stessi immobili.”
1.1. Con provvedimento del 17.10.2021 la intimata Amministrazione negava
l’accesso atteso che: “i controinteressati hanno rappresentato la loro
opposizione all’ostensione adducendo, quale relativa motivazione la
sussistenza di procedimento penale in essere e la loro pertinenza ovvero la
loro acclusione al fascicolo del Pubblico Ministero. Pertanto accertato, a
seguito di verifica di ufficio, che gli atti da ella richiesti pertengono
effettivamente al proc. Pen nr. 2995/2015 R.G.N.R. gli stessi, allo stato,
rimangono sottratti, ex legge dal Diritto D’accesso”.
1.2. Avverso tale diniego insorgeva il ricorrente, rimarcando la propria
legittimazione all’accesso.
...
2. Il ricorso è fondato.
Va in limine rimarcato che la domanda di accesso nuovamente presentata dal
ricorrente in data 23.09.2021 e, quel che più conta, la actio procedimentale
poscia posta in essere dalla civica Amministrazione –all’uopo ritualmente
compulsando anche i controinteressati, al fine di acquisirne la eventuale
opposizione- e la successiva determinazione provvedimentale del 17.10.2021,
valgono ad assorbire e superare la pregressa vicenda procedimentale
conchiusasi con la nota del Comune dell’08.07.2021.
Ciò premesso, valga il rilevare quanto appresso.
2.1. Il ricorrente è costituito quale parte civile nel giudizio R.G.
2995/2015 pendente avanti il Tribunale di Torre Annunziata e avente ad
oggetto gli abusi asseritamente commessi nel 2015 (riguardanti il solo
tetto) dagli odierni controinteressati sull’immobile confinante rispetto
alla sua proprietà
2.1.1. La istanza di accesso che ne occupa -eccitata dalle acquisizioni del
processo penale- ha ad oggetto, per contro, atti afferenti a precedenti
accertamenti compiuti dalla Polizia Municipale di Gragnano negli anni
2005-2006 e 2009, e a diversi abusi (riguardanti vari piani dell’immobile
de quo).
2.1.2. Del resto la inesistenza di detti atti all’interno del fascicolo del
ridetto procedimento penale del 2015 è stata quivi allegata, con un adeguato
principio di prova dalla parte ricorrente (doc. 4, produzione), e non
puntualmente contestata dalle resistenti.
2.1.3. Di qui la persistenza dell’interesse ostensivo del ricorrente, che
non può aliunde –id est, dispiegando le prerogative di parte
di un processo penale- essere soddisfatto.
2.2. Indubbia, d’altra parte, è la legittimazione all’accesso del ricorrente
(ex plurimis, TAR Campania, VI, 12.11.2021, n. 7229), comecché
funzionale:
- all’esercizio delle proprie indefettibili guarentigie di titolare
del diritto dominicale sul bene immobile confinante (art. 42 Cost.);
- a consentire, indi, la verifica della correttezza della posizione
del confinante, e dei lavori da questi eseguiti sotto il profilo edilizio ed
urbanistico.
2.3. La domanda ostensiva -di poi e ad onta di quanto eccepito da parte
resistente- non veicola una pretesa esplorativa.
2.3.1. E’ ben vero, in linea di principio che la domanda di accesso:
- non mai può assumere una generica funzione investigativa, ovvero
“impiegata e piegata a ‘costruire’ ad hoc, con una finalità esplorativa” le
premesse per il disvelamento, ovvero la discovery ex post, di fatti e
circostanze non mai concretamente ed in modo circostanziato rappresentate o
paventate ex ante; “diversamente, infatti, l'accesso documentale
assolverebbe ad una finalità, espressamente vietata dalla legge, perché
preordinata ad un non consentito controllo generalizzato sull'attività,
pubblicistica o privatistica, delle pubbliche Amministrazioni” (CdS, a.p.,
10/2020).
- non può essere generica, eccessivamente estesa o riferita ad atti
non specificamente individuati, ovvero formulata in guisa tale da
costringere l'Amministrazione ad attività di ricerca ed elaborazione dati;
di qui la improponibilità di una istanza di accesso “al buio”, al
fine dichiarato di eventualmente reperire ed individuare nei documenti
richiesti, elementi potenzialmente idonei al soddisfacimento dei fini “investigativi”
(e perciò esplorativi) perseguiti dall’istante (sulla inammissibilità di una
siffatta domanda, TAR Campania, VI, 2318/2021; TAR Lombardia, I, 14.11.2019,
n. 2403; id., 27.08.2018, nn. 2023 e 2024).
2.3.2. E tuttavia, nel caso che ne occupa, la domanda di accesso avanzata
dal ricorrente è puntualmente formulata in relazione:
- alla tipologia dei documenti e delle informazioni (verbali di
sequestro e documenti correlati: relazione tecnica, fotografie, misurazioni
eseguite);
- all’immobile ove sarebbero stati commessi gli abusi (sito in via
-OMISSIS-, identificato in catasto coi dati di foglio di -OMISSIS-);
- alla natura degli asseriti abusi (lavori del tetto in secondo
piano ed ampliamenti in primo piano);
- al tempus in cui si sarebbero formati (anni 2005-2006 e
2009).
2.4. Alla specificità della richiesta di accesso fa da contraltare, di
contro, la genericità e laconicità delle ragioni fondanti il diniego,
siccome di poi adombrate in giudizio e in sede di riscontro ad una
precedente domanda di accesso (nota dell’08.07.2021), consistenti nella
trasmissione di detti atti alla Procura della Repubblica.
2.4.1. La realizzazione delle esigenze conoscitive quivi azionate non è in
concreto preclusa da ragioni di segretezza afferenti a non meglio precisate
indagini e/o procedimenti penali eventualmente in corso.
2.4.2. Non può non rimarcarsi, invero, la evanescenza di una tale ragione
ostativa, afferente alla trasmissione di non meglio precisati atti alla
Procura, mancando qualsivoglia puntuale evidenziazione di ragioni di
segretezza in relazione a specifici documenti o parti di documenti.
2.4.3. Siccome statuito plurimamente anche da questo TAR (TAR Campania,
01.12.2021, n. 7712; TAR Campania, VI, 14.03.2017, n. 1484) “l'esistenza
di un’indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti
gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi
con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto
il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al
diritto di accesso”.
2.4.4. E di tali invincibili condizioni legittimanti la esistenza, o
perduranza, del segreto non vi è traccia veruna nell’agere
provvedimentale quivi censurato, né tampoco nelle difese quivi spiegate.
2.4.5. Anche il richiamo all’art. 329 c.p.p., non giova alle tesi delle
parti resistenti, atteso che è la stessa disposizione a prevedere
testualmente che il segreto operi “fino a quando l'imputato non ne possa
avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini
preliminari”.
2.4.6. Sarebbe stato quindi doveroso da parte della Amministrazione
puntualizzare la tipologia dei documenti da sottrarre all’accesso e lo
stadio del procedimento penale, tenuto altresì conto che gli atti de
quibus rimontano al 2005-2006 e al 2009, id est ad epoca assai
risalente, rendendo peraltro poco verosimile la perduranza di asserite
indagini preliminari e, con esse ed eventualmente, di ragioni di segretezza
(TAR Campania-Napoli,
sentenza
04.03.2022 n. 1482 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - SICUREZZA LAVORO: L’astratta
previsione regolamentare di sottrazione di determinati atti all’accesso non
va intesa in senso assoluto, ma va riferita al singolo caso concreto, in
relazione al quale l’Ente è chiamato ad effettuare un bilanciamento tra
l’interesse fatto valere dal richiedente l’accesso e l’eventuale
riservatezza del soggetto controinteressato.
Sicché, qualora emergano profili di riservatezza contrastanti con
l’ostensione degli atti richiesti, tali profili possano essere adeguatamente
tutelati tramite l’oscuramento.
Non risulta, peraltro, di ostacolo all’ostensione degli atti
richiesti l’avere l’INPS, all’esito dell’espletata istruttoria, trasmesso
comunicazione di notizia di reato alla competente Procura della Repubblica,
avendo la giurisprudenza amministrativa condivisibilmente chiarito che:
“L'esistenza
di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti
gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi
con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto
il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al
diritto di accesso. Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla
polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti
penali ai sensi dell' art. 329 c.p.p, di talché gli atti posti in essere da
una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale
sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque,
restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga
uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non
può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito
all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990”.
---------------
... per l’accertamento e la dichiarazione
- ex art. 22 ss. l. 241/1990, del diritto di accesso in capo alla
ricorrente e, dunque, alla piena evasione della sua istanza di accesso,
- e per la conseguente condanna del resistente a rilasciare copia
di detti documenti.
...
1) Premesso che:
- a) con istanza del 11.05.2021, parte ricorrente chiedeva
l’accesso agli atti presupposti del provvedimento con cui l’INPS di Lecce
disconosceva determinate giornate di lavoro agricolo, con la dicitura “Disconoscimento
gg. ditta Ma.Co.”;
- b) con pec dell’11.06.2021, l’INPS negava l’accesso perché, ai
sensi dell’art. 16, punto 1, lett. “g”, del regolamento per l’accesso agli
atti (giusta determina n. 366/2021), il verbale di accertamento ispettivo
INPS e gli atti ad esso connessi sono esclusi dall’accesso per motivi
attinenti alla riservatezza di persone fisiche, giuridiche, gruppi, imprese
ed associazioni;
- c) si è costituito in giudizio l’INPS;
- d) alla camera di consiglio del 16.12.2021, la causa è stata
trattenuta in decisione.
2) Rilevato che, con riferimento al suddetto regolamento INPS, la
giurisprudenza (v. TAR Molise, n. 475 del 27.12.2019), ha osservato che:
- a) conformemente all’art. 24 L. n. 241/1990 (secondo cui, in
tutti i casi in cui siano ravvisabili le esclusioni al diritto di accesso
ivi contemplati, resta fermo l’obbligo di ostensione dei documenti “la
cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere propri interessi
giuridici”), l’art. 20 del medesimo regolamento «6.2. […] stabilisce
che l’accesso debba comunque essere consentito rispetto “ai documenti la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere propri interessi
giuridici” (art. 20)»;
- b) «6.3. […] in forza della norma di chiusura di cui all’art.
24, co. 7, l. 241/1990, così come richiamata dall’art. 20 del Regolamento
INPS, la predetta esigenza di tutela [della riservatezza] risulta cedevole
rispetto alla contrapposta esigenza del soggetto datoriale di contestare
utilmente in giudizio le risultanze dell’accertamento ispettivo, a patto che
(e nei limiti in cui) sia ravvisabile la rilevanza delle dichiarazioni in
questione rispetto alla impugnazione del verbale di accertamento (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. III, 10.04.2019 n. 2345)»;
- c) «6.5. Nel contempo, ai fini del necessario bilanciamento
tra i contrapporti interessi, proprio dell’accesso difensivo, è necessario
regolare le concrete modalità della ostensione in modo tale da ridurne al
minimo l’incidenza nella sfera soggettiva dei lavoratori: “Va ammesso
l'accesso alle dichiarazioni dei lavoratori acquisite nel corso
dell'attività ispettiva; l'esigenza specifica di tutelare i lavoratori
contro eventuali comportamenti ritorsivi del datore di lavoro trova
soluzione nella possibilità per l'Istituto di oscurare i riferimenti dei
lavoratori dai provvedimenti rispetto ai quali viene chiesto l'accesso” (TAR
Genova, Sez. II, 02/12/2016 n. 1197)»;
3) Ritenuto –in ragione di quanto in precedenza riportato, da cui il
Collegio non ravvisa motivi per discostarsi– che:
- a) nel caso di specie, sia evidente l’interesse “difensivo” fatto
valere da parte ricorrente, la quale ha chiesto di conoscere gli atti
presupposti del disconoscimento delle giornate lavorative nei propri
confronti, onde verificare la legittimità di tale operazione e far valere,
se del caso, le proprie contrarie ragioni nelle sedi competenti (come
specificato nell’istanza di accesso);
- b) il diniego impugnato è, quindi, illegittimo, considerato che
l’astratta previsione di sottrazione di determinati atti all’accesso non va
intesa in senso assoluto, ma va riferita al singolo caso concreto, in
relazione al quale l’Ente è chiamato ad effettuare un bilanciamento tra
l’interesse fatto valere dal richiedente l’accesso e l’eventuale
riservatezza del soggetto controinteressato;
- c) qualora emergano profili di riservatezza contrastanti con
l’ostensione degli atti, tali profili possano essere adeguatamente tutelati
tramite l’oscuramento (come sul punto evidenziato dalla menzionata
giurisprudenza);
- d) non risulta, peraltro, di ostacolo all’ostensione degli atti
richiesti l’avere l’INPS, all’esito dell’espletata istruttoria, trasmesso
comunicazione di notizia di reato alla competente Procura della Repubblica,
avendo la giurisprudenza amministrativa condivisibilmente chiarito che: “L'esistenza
di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti
gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi
con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto
il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al
diritto di accesso. Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla
polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti
penali ai sensi dell' art. 329 c.p.p, di talché gli atti posti in essere da
una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale
sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque,
restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga
uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non
può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito
all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990” (TAR Palermo, I,
12.10.2020, n. 2057, nonché la giurisprudenza ivi citata).
Nel caso di specie, quella svolta dall’INPS è un’attività amministrativa,
svolta nell’ambito delle funzioni istituzionali proprie dell’Istituto, con
la conseguenza che, non essendovi atti di indagine penale propriamente
detti, la documentazione raccolta non si sottrae all’accesso;
4) Ritenuto, in conclusione, che il ricorso vada accolto e che, per
l’effetto, vada ordinato all’INPS di Lecce di consentire, entro 30 giorni
dalla comunicazione/notificazione della presente sentenza, l’accesso agli
atti domandati da parte ricorrente, procedendo all’oscuramento degli
eventuali dati attinenti alla riservatezza di soggetti terzi (TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 03.01.2022 n. 8 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Inconducenti
si appalesano i rilievi del Comune volti ad accreditare una
asserita “irrilevanza” dei documenti richiesti dal
ricorrente rispetto alle esigenze processuali.
E’ ben vera, infatti, la natura strumentale del “diritto di
accesso” ex lege 241/1990, in quanto situazione giuridica
che:
- ex se non garantisce la acquisizione o la conservazione di beni
della vita e, dunque, non assicura al suo titolare il
conseguimento di utilità finali;
- è strumentale, piuttosto, al soddisfacimento (o al miglior
soddisfacimento) di altri interessi giuridicamente rilevanti
(diritti o interessi), rispetto ai quali si pone in
posizione ancillare;
- deve essere correlata -in modo diretto, concreto e
attuale- ad altra “situazione giuridicamente tutelata” (art. 22,
comma 1, l. 241/1990 e la definizione di “interessati” ivi
contenuta): non si tratta, dunque, di una posizione
sostanziale autonoma, ma di un potere di natura
procedimentale, funzionale alla tutela di situazioni stricto
sensu sostanziali, abbiano esse consistenza di diritto
soggettivo o interesse legittimo.
E, tuttavia, una tale natura strumentale non mai può essere
intesa nel senso di condizionare l’accesso alla valutazione
–da parte della Amministrazione- circa la concreta incidenza
e/o rilevanza degli atti richiesti ai fini del loro utilizzo
in una controversia giurisdizionale.
E, invero, è superfluo il rimarcare che una tale valutazione
–in punto di effettiva rilevanza e/o incidenza della
documentazione nel giudizio- pertiene alla competente
Autorità giurisdizionale, e non certo alla Amministrazione,
che non potrà che limitarsi alla delibazione circa la
“astratta” attinenza della documentazione richiesta rispetto
alla situazione giuridica vantata dall’ostante e oggetto del
contenzioso in essere.
D’altra parte, nella fattispecie in esame, la posizione
“conoscitiva” azionata dalla controinteressata è chiaramente
funzionale alla tutela di altra, diversa, situazione
giuridica, afferente al diritto di impresa e alla libertà di
autodeterminazione negoziale (artt. 2 e 41 Cost.) lato sensu
intesi, oltre che alla legittima aspirazione di verificare
–come del resto, expressis verbis rappresentato nella
istanza di accesso- la correttezza e la buona fede dell’agere
della controparte contrattuale nella fase prodromica alla
stipulazione del contratto di cessione di azienda, onde
eventualmente disvelare eventuali profili di culpa in
contrahendo, oltre che la correttezza dell’agere della
Amministrazione.
E tanto basta a disvelare la esistenza di un interesse
personale,
attuale e concreto, collegato agli atti, e indi costituivo di
una posizione legittimante.
---------------
Generico è il richiamo effettuato dal Comune, in sede
procedimentale ma non mai ripreso in questa sede
giurisdizionale, alla trasmissione di non meglio precisati
atti alla Procura, mancando qualsivoglia puntuale
evidenziazione di ragioni segretezza in relazione a
specifici documenti o parti di documenti.
Siccome statuito anche da questo TAR “l'esistenza di
un’indagine penale non implica, di per sé, la non
ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in
qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti
oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato
disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono
risultare sottratti al diritto di accesso”.
Quanto al riferimento all’art. 329 c.p.p. pure effettuato
nella nota di riscontro del 17.06.2021, si osserva che è la
stessa norma a prevedere testualmente che il segreto operi
“fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e,
comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”.
Sarebbe stato quindi doveroso da parte della Amministrazione
puntualizzare la tipologia dei documenti da sottrarre
all’accesso e lo stadio del procedimento penale.
---------------
... per l'annullamento del diniego parziale del 17.06.2021
e, per quanto di ragione, del silenzio–rigetto del Comune di
Napoli in relazione all'istanza di accesso rivolta all'Ente
il 19.05.2021 con riguardo agli atti ed ai provvedimenti di
séguito specificati e perché sia ordinato
all'amministrazione resistente l'ostensione degli atti ed i
documenti amministrativi di seguito specificati in
conseguenza della dichiarazione della sussistenza del
diritto azionato da chi ricorre.
...
1. Con istanza ex art. 22 l. 241/1990 trasmessa al Comune di
Napoli in data 19.05.2021 la ricorrente esponeva quanto
appresso:
- la No.Bo.Ca. srl. si è resa cessionaria dell’azienda ubicata in
Napoli alla via ... n. 183 giusta contratto a rogito Notaio
... del Collegio Notarile dei Distretti Riuniti di Napoli,
Torre Annunziata e Nola, del 02.10.2018;
- l’arch. Va.D’An. -all’uopo incaricata della progettazione
esecutiva della ristrutturazione- riscontrava che il
progetto imprenditoriale non poteva essere realizzato in
ragione di un abuso edilizio relativo al soppalco del locale
commerciale in questione, oggetto di un sequestro
giudiziario e di un’ordinanza di abbattimento del Comune di
Napoli risalenti addirittura all’anno 2006;
- nel novembre 2020 la Polizia Municipale di Napoli redigeva un “Verbale
di sopralluogo ed accertamento di opere realizzate in
difetto di titoli in Napoli alla via ... n. 183”; dalla
disamina dello stato dei luoghi emergeva quanto segue: il
locale in parola è gravato da inesitata Disposizione
Dirigenziale n. 1383 del 05.06.2006 con C.A. n. 208/06
emessa dal SACE del Comune di Napoli ai sensi dell’art. 33
del DPR 380/2001 nei confronti del precedente conduttore
Ma.Fr. nato a Napoli il ... ed ivi domiciliato alla via ...
n. 64 per l’accertata realizzazione di soppalco di mq 21,00
impostato a mt. 2,35/2,70 dal calpestio ed a mt. 1,70/2,30
dalla copertura diviso in tre ambienti adibiti a wc;
- di qui l’avvio, da parte dell’ufficio SUAP, del procedimento per
la dichiarazione di inefficacia giuridica della “Segnalazione
Certificata di Inizio Attività (PG/860249 – pratica SUAP n.
14645 del 05/10/2018) relativa all’attività di
somministrazione di bevande (tipologia B)”;
- tanto premesso, la ricorrente instava per l’accesso agli atti e
ai documenti relativi alla liceità edilizia e urbanistica
dell’immobile e quelli afferenti all’attività di
somministrazione di bevande in quell’immobile esercitata dal
2006 ad oggi, nonché quelli eventualmente attestanti la
notifica dell’ingiunzione a demolire ai proprietari
dell’immobile, nonché ogni atto e provvedimento adottato
nell’àmbito del procedimento per la dichiarazione di
inefficacia giuridica della Segnalazione Certificata di
Inizio Attività (PG/860249 – pratica SUAP n. 14645 del
05/10/2018), relativa all’attività di somministrazione di
bevande (tipologia B) avviato con PG/35598 del 15.01.2021
dal SUAP del Comune di Napoli.
1.1. Il Comune riscontrava la istanza con nota del 14
giugno, inviando a mezzo pec, solo quanto riferibile
all’attività esercitata a far data dal 2011 in poi dalla Ma.
e Fi. srl. e, successivamente, alla No.Bo.Ca. s.r.l..
1.2. Con pec del 16.06.2021 la ricorrente instava per
l’accesso alla restante documentazione indicata nella
primigeni istanza.
1.3. Con atto del 17.06.2021 il Comune negava l’accesso,
rappresentando che “gli atti scaturiti a seguito del
sopralluogo sono stati inviati alla locale Procura della
Repubblica e, dunque, non possono essere annoverati tra
quelli amministrativi ostensibili”.
1.4. Avverso i ridetti atti insorge la ricorrente avanti
questi TAR, rimarcando la legittimazione ad accedere agli
atti de quibus (a far data dal 2006) atteso che la “situazione
di incertezza generata dall’inescusabile inerzia del Comune
di Napoli, nella specie degli Uffici preposti a dar seguito
agli accertamenti che si è appurato risalire al lontano
2006, ha cagionato e cagiona a tutt’oggi gravissimi
nocumenti alla società No.Bo.Ca. srl., che –è evidente– non
si sarebbe resa cessionaria dell’azienda della Ma. & Fi. srl.
ove il Comune avesse tempestivamente dichiarato
l’inefficacia delle autorizzazioni che rappresentano
presupposto indefettibile per lo svolgimento dell’attività
cui l’odierna istante è subentrata”, tenuto conto
altresì della pendenza di due liti in sede civile esperite
dalla ricorrente contro la società Ma. & Fi. srl. (Tribunale
civile di Napoli, RG. 11196/2019) nonché contro la Comunione
Eredi Mi. (Tribunale civile di Napoli, RG. 25005/2020, RG
33849/2019), proprietaria del locale commerciale sede
dell’attività ceduta.
1.5. Si costituiva il Comune di Napoli, rimarcando la
indisponibilità di alcuni documenti, molto risalenti
evidentemente conservati nell’archivio storico, ad oggi
ancora occupato abusivamente da famiglie di senza tetto e
dunque indisponibili per causa di forza maggiore, e
depositando nondimeno ulteriore documentazione.
1.6. La causa, al fine, dopo una ulteriore replica delle
ricorrente che insisteva per la ostensione degli atti
indicati ai punti 4, 6 e 7 della primigenia istanza di
accesso, veniva introitata per la decisione all’esito della
udienza camerale del 09.11.2021.
2. Il ricorso è in parte fondato e in parte destinato ad una
pronunzia di cessazione della materia del contendere.
2.1. E, invero, siccome emerge dalle allegazioni e dalla
produzione documentale del Comune resistente:
- quanto alle richieste di cui al punto 7; il provvedimento di
ingiunzione a demolire del soppalco abusivo veniva
notificato al solo responsabile dell’illecito nonché gestore
della attività commerciale in data 29.06.2006; nel mentre
l’atto di avvio del procedimento volto alla declaratoria di
inefficacia della scia del 2021 non veniva notificato alla
proprietaria dell’immobile de quo.
2.1.1. In relazione a tali allegazioni e attestazioni, indi,
può dirsi soddisfatta, in parte qua, la pretesa
ostensiva, con la consequenziale cessazione della materia
del contendere.
2.2. Fondata, di contro, è la domanda per quanto attiene
agli ulteriori atti e documenti indicati nella istanza di
accesso, e segnatamente di quelli enumerati sub 4, 6 e 7
della istanza, oltre al generale obbligo di ostensione di
ogni altro atto e documento in possesso della
Amministrazione e rientrante nel novero di quelli richiesti
dalla ricorrente, fatti salvi ovviamente i documenti già
ostesi prima del giudizio e quelli successivamente quivi
prodotti.
2.3. La domanda di accesso, invero, è fondata, tenuto conto
della rilevanza dei documenti de quibus (titoli
afferenti alla regolarità edilizia e urbanistica
dell’immobile; autorizzazioni commerciali rilasciate in
relazione ad esso immobile) comecché afferenti all’immobile
che ne occupa, la cui conoscenza si appalesa, indi,
strumentale alla tutela dell’interesse della ricorrente che
in quell’immobile esplica la propria attività commerciale,
alla verifica della legittimità e della concreta natura dei
ridetti titoli edilizi e/o commerciali, al fine dichiarato
di meglio lumeggiare:
- la natura ed il momento in cui si sarebbero perpetrati abusi e le
vicende afferenti i provvedimenti di autorizzazione
commerciale succedutisi;
- gli eventuali profili di responsabilità, tenuto conto della
attuale pendenza di due giudizi instaurati in sede civile
dalla ricorrente contro la società Ma. & Fi. srl. (Tribunale
civile di Napoli, RG. 11196/2019) nonché tra la prima e la
Comunione Er.Mi. (Tribunale civile di Napoli, RG.
25005/2020, RG 33849/2019), proprietaria del locale
commerciale sede dell’attività ceduta.
2.3.1. Inconducenti, di poi, si appalesano i rilievi del
Comune volti ad accreditare una asserita “irrilevanza”
dei documenti de quibus rispetto alle esigenze
processuali.
2.3.2. E’ ben vera, infatti, la natura strumentale del “diritto
di accesso”
ex lege 241/1990 (CdS, a.p., n. 6/2006), in quanto situazione
giuridica che:
- ex se non garantisce la acquisizione o la conservazione di
beni della vita e, dunque, non assicura al suo titolare il
conseguimento di utilità finali;
- è strumentale, piuttosto, al soddisfacimento (o al miglior
soddisfacimento) di altri interessi giuridicamente rilevanti
(diritti o interessi), rispetto ai quali si pone in
posizione ancillare (TAR Lombardia, I, 27.08.2018, n. 2023);
- deve essere correlata -in modo diretto, concreto e
attuale- ad altra “situazione giuridicamente tutelata” (art.
22, comma 1, l. 241/1990 e la definizione di “interessati”
ivi contenuta): non si tratta, dunque, di una posizione
sostanziale autonoma, ma di un potere di natura
procedimentale, funzionale alla tutela di situazioni
stricto sensu sostanziali, abbiano esse consistenza di
diritto soggettivo o interesse legittimo.
2.3.3. E, tuttavia, una tale natura strumentale non mai può
essere intesa nel senso di condizionare l’accesso alla
valutazione –da parte della Amministrazione- circa la
concreta incidenza e/o rilevanza degli atti richiesti ai
fini del loro utilizzo in una controversia giurisdizionale.
2.3.4. E, invero, è superfluo il rimarcare che una tale
valutazione –in punto di effettiva rilevanza e/o incidenza
della documentazione nel giudizio- pertiene alla competente
Autorità giurisdizionale, e non certo alla Amministrazione,
che non potrà che limitarsi alla delibazione circa la “astratta”
attinenza della documentazione richiesta rispetto alla
situazione giuridica vantata dall’ostante e oggetto del
contenzioso in essere.
2.3.5. D’altra parte, nella fattispecie in esame, la
posizione “conoscitiva” azionata dalla
controinteressata è chiaramente funzionale alla tutela di
altra, diversa, situazione giuridica, afferente al diritto
di impresa e alla libertà di autodeterminazione negoziale (artt.
2 e 41 Cost.) lato sensu intesi, oltre che alla
legittima aspirazione di verificare –come del resto,
expressis verbis rappresentato nella istanza di accesso- la
correttezza e la buona fede dell’agere della
controparte contrattuale nella fase prodromica alla
stipulazione del contratto di cessione di azienda, onde
eventualmente disvelare eventuali profili di culpa in
contrahendo, oltre che la correttezza dell’agere
della Amministrazione.
2.3.6. E tanto basta a disvelare la esistenza di un
interesse personale,
attuale e concreto, collegato agli atti, e indi costituivo di
una posizione legittimante.
2.4. Generico, poi, è il richiamo effettuato dal Comune, in
sede procedimentale ma non mai ripreso in questa sede
giurisdizionale, alla trasmissione di non meglio precisati
atti alla Procura, mancando qualsivoglia puntuale
evidenziazione di ragioni segretezza in relazione a
specifici documenti o parti di documenti.
2.4.1. Siccome statuito anche da questo TAR (TAR Campania,
VI, 14.03.2017, n. 1484) “l'esistenza di un’indagine
penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti
gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano
risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli
atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli
coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di
accesso”.
2.4.2. Quanto al riferimento all’art. 329 c.p.p. pure
effettuato nella nota di riscontro del 17.06.2021, si
osserva che è la stessa norma a prevedere testualmente che
il segreto operi “fino a quando l'imputato non ne possa
avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle
indagini preliminari”. Sarebbe stato quindi doveroso da
parte della Amministrazione puntualizzare la tipologia dei
documenti da sottrarre all’accesso e lo stadio del
procedimento penale.
2.5. Inconducente, di poi, è la linea difensiva tenuta in
questa sede dal Comune, che:
- si è limitato, poi, ad accampare oggettivi impedimenti alla
inventio e alla materiale adprehensio dei documenti
antecedenti al 2011, che si troverebbero “negli Uffici
dell’ex Servizio Commercio, alle Rampe Brancaccio
notoriamente e abusivamente occupati da alcuni nuclei
familiari fin dall’agosto 2013”;
- ha addotto elementi ostativi afferenti, indi, non già alla
certazione del diritto, bensì alla sua materiale attuazione.
2.5.1. Ora, la allegazione di difficoltà materiali “per
così dire” in executivis, presuppone logicamente,
ancor prima che giuridicamente, il previo riconoscimento
della esistenza del diritto, la cui concreta attuazione solo
si lamenta essere temporaneamente preclusa a cagione di
difficoltà organizzative interne all’apparato
amministrativo, e che giammai possono ritorcersi in danno
del consociato, avente diritto (TAR Campania, VI,
28.07.2020, n. 3363; id., 25.02.2020, n. 859).
2.5.2. Di talché, in coerenza con il tacito assunto della
Amministrazione, va quivi giudizialmente confermata la
sussistenza del diritto di accesso della ricorrente ai
documenti de quibus, fatti salvi quelli già esibiti
prima del giudizio e quelli quivi disvelati, di cui al n. 7
della istanza di accesso, attinenti ai dati sulle
notificazioni dei provvedimenti repressivi del 2006 e
relativi alla scia del 2021 nella versione ad oggi vigente
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 01.12.2021 n. 7712 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L'esistenza
di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in
qualsiasi modo possono risultare connessi con i fatti oggetto di indagine.
Solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da
segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla Polizia
Giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai
sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una p.a.
nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche
se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di
accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denuncia
all'autorità giudiziaria.
Tali atti, dunque, restano nella disponibilità
dell'Amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento
di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi,
nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. n.
241 del 1990, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, stessa
legge.
Viceversa, qualora si richieda l'ostensione di atti coperti da segreto
istruttorio perché posti in essere nell'ambito di un'attività di P.G., i
relativi documenti dovranno essere ritenuti sottratti al diritto di accesso
ex art. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 e ostensibili unicamente mediante
l'attivazione degli strumenti previsti dal c.p.p.
---------------
... per l'annullamento:
- dell'Ordinanza del Responsabile del Servizio Tecnico del Comune di
-OMISSIS- n. -OMISSIS-, prot. n. -OMISSIS- del 04.06.2020, notificata il
05.06.2020, avente ad oggetto: Ordinanza di rimessa in pristino e
demolizione di opere edilizie eseguite in assenza di titolo abilitativo;
- di ogni altro atto presupposto, consequenziale o comunque connesso e, in ispecie, del «verbale di “Relazione tecnica di sopralluogo relativa
all'attività di P.G. riferita a violazioni urbanistiche in comune di
-OMISSIS- pressi località “-OMISSIS-, Foglio 7, particella -OMISSIS-”, (prot.
n. -OMISSIS-/2020 depositato agli atti dell'ente), sull'esito del
sopralluogo eseguito in data 07.04.2020 …», richiamato nell'ordinanza n.
-OMISSIS-, non conosciuto nel suo contenuto dal ricorrente in quanto la
visione e il rilascio di copia sono stati espressamente negati anche in sede
di accesso documentale;
- del provvedimento unico n. 4 del 28.07.2020, prot. n. -OMISSIS- del
28.07.2020, recante la “Determinazione motivata di conclusione della
conferenza di servizi – Provvedimento unico n. 4 del 28.07.2020” con il
quale il Responsabile del Suape del Comune di -OMISSIS- «RITENUTO che
sussistano i presupposti di fatto e di diritto per l'adozione di questo
provvedimento negativo NON AUTORIZZA la ditta -OMISSIS- C.F. -OMISSIS- via
-OMISSIS-09010 -OMISSIS- (SU), come meglio generalizzata nella precedente
sezione A, alla realizzazione del progetto per la realizzazione di un nuovo
ingresso e la recinzione di un lotto, ubicato lungo il proseguo di viale
-OMISSIS- nel Comune di -OMISSIS- nell'immobile sito in Viale -OMISSIS-
s.n.c. Comune -OMISSIS-, distinto al NCT Foglio n. 7 mappale -OMISSIS- come
da elaborati di progetto a firma del Geom. -OMISSIS-, allegati al presente
atto per farne parte integrante e sostanziale» (doc. 2);
- di ogni altro atto presupposto, consequenziale o comunque connesso e, in
particolare, per quanto occorra, del “Parere tecnico NEGATIVO” del Servizio
Tecnico Settore Edilizia Privata del Comune di -OMISSIS- (L.R. n. 24/2016,
art. 37, comma 5 - Direttive in materia di sportello unico per le attività
produttive e per l'edilizia (SUAPE) 2019 Allegato A alla Delib. G.R. n.
49/19 del 05.12.2019), protocollo n. -OMISSIS- del 10.07.2020 (doc. 3);
nonché, ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.a.,
per la declaratoria dell'illegittimità e l'annullamento:
-
del diniego di accesso di cui alla nota del Responsabile del Servizio
Tecnico del Comune resistente prot. n. -OMISSIS- del 24.07.2020 (doc. 4)
riferito alla visione e al rilascio di copia del verbale di “Relazione
Tecnica di sopralluogo relativa all'attività di P.G. riferita a violazioni
urbanistiche in comune di -OMISSIS- pressi località “-OMISSIS-” foglio 7
part. -OMISSIS- (Prot. N. -OMISSIS-/2020 depositato agli atti dell'Ente),
sull'esito del sopralluogo eseguito in data 07.04.2020 in località
-OMISSIS-, dal quale è emerso che le opere abusive risultano realizzate nel
lotto distinto al N.C.T. foglio 7 mappale -OMISSIS-, consistevano in …
omissis…”, richiesto dal ricorrente con istanza di accesso formulata in data
13.07.2020, prot. Comune -OMISSIS- n. -OMISSIS- del 14.07.2020
e per l'accertamento:
-
del diritto del ricorrente ad ottenere il rilascio di copia e/o l'esibizione
della documentazione e degli atti richiesti con la suddetta istanza,
e in ogni caso
-
affinché l'Ecc.mo TAR ordini il rilascio e/o l'esibizione del predetto
documento richiesto dal ricorrente.
...
22. Il ricorso è in definitiva infondato e deve essere rigettato.
23. Le spese, stante la particolarità del caso sottoposto al Collegio e la
cessazione della materia del contendere sulla domanda proposta ai sensi
dell’art. 116 c.p.a., in cui il Comune è virtualmente soccombente, possono
essere compensate tra le parti in causa.
24. Va difatti ricordato che l'esistenza di un'indagine penale non implica,
di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in
qualsiasi modo possono risultare connessi con i fatti oggetto di indagine.
Solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da
segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla Polizia
Giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai
sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una p.a.
nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche
se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di
accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denuncia
all'autorità giudiziaria.
Tali atti, dunque, restano nella disponibilità
dell'Amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento
di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi,
nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. n.
241 del 1990, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, stessa
legge.
Viceversa, qualora si richieda l'ostensione di atti coperti da segreto
istruttorio perché posti in essere nell'ambito di un'attività di P.G., i
relativi documenti dovranno essere ritenuti sottratti al diritto di accesso
ex art. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 e ostensibili unicamente mediante
l'attivazione degli strumenti previsti dal c.p.p. (in questo senso, il
condivisibile precedente del TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.01.2020, n.
4) (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 08.11.2021 n. 760 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - SICUREZZA LAVORO: Va
evidenziato, con riferimento alle dichiarazioni rese dai collaboratori della
società ricorrente, che secondo un orientamento giurisprudenziale
consolidato l’esclusione dall’accesso delle notizie acquisite nel corso
dell'attività ispettiva prevista dall'art. 2 del D.M. 04.11.1994, n. 757 è
limitata alle ipotesi in cui sussista un effettivo pericolo di pregiudizio
per i lavoratori o per i terzi, sulla base di elementi di fatto concreti.
Pertanto all’amministrazione è rimessa non solo la ponderazione degli
opposti interessi, ma anche la verifica, in concreto, del pericolo di azioni
discriminatorie o indebite pressioni nei confronti dei dichiaranti e che,
conseguentemente, l’ipotesi di cui all'art. 3 del medesimo decreto deve di
regola ritenersi insussistente allorché il rapporto di lavoro con tali
soggetti sia cessato.
Nel caso di specie, l’interesse
difensivo cui l’istanza di accesso è strumentale può esser soddisfatto –per
espressa dichiarazione di parte ricorrente– anche limitando l’ostensione,
ovvero rilasciando le nominate dichiarazioni previa cancellazione di tutti i
dati che possano identificare le persone che li hanno resi.
Né assume rilievo l’obbligo di segreto ex art. 329 c.p.p. per essere i fatti
oggetto degli illeciti amministrativi interessati da una contestuale
indagine penale, obbligo peraltro invocato dall’amministrazione resistente
solo in sede difensiva, atteso che il verbale unico di contestazione
espressamente specifica che non sono state indicate le fonti di prova che
attengono ad attività investigative di natura penale e che le dichiarazioni
dei collaboratori costituiscono documenti utilizzati ai fini dell’attività
amministrativa. La mera trasmissione degli atti al vaglio del giudice
penale, in assenza di un atto di sequestro, non comporta che gli stessi
siano coperti da segreto né che questi siano sottratti all’accesso.
Infatti
“L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo
possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti
per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto
possono risultare sottratti al diritto di accesso. Infatti, soltanto gli
atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti
dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329
c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione
nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche
se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di
accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia
all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità
dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento
di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi,
nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24,
1. n. 241 del 1990”.
Conseguentemente, a fronte di un’esigenza di tutela ex articolo 24 della
legge 241/1990 e non essendo configurabile in concreto la causa di esclusione
all’accesso richiamata nel diniego impugnato, il provvedimento
dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro va annullato e, per l'effetto, va
ordinato all'amministrazione resistente di provvedere, ai sensi dell'art.
116, co. 4, c.p.a., al rilascio alla parte ricorrente delle dichiarazioni
acquisite nel corso dell’accesso ispettivo, previamente anonimizzate.
---------------
... per l’accertamento
del diritto ad accedere a tutti gli atti e documenti richiamati:
- nel verbale unico di accertamento e notificazione n.
BS00000/2021-304-01 del 24/05/21,
- nel verbale unico di accertamento e notificazione n.
2021001593/DDL del 24/05/2021,
dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro – Ispettorato Territoriale del Lavoro
di Brescia - processo servizi Utenza;
per l’annullamento
- dei provvedimenti dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro –
Ispettorato Territoriale del Lavoro di Brescia - processo servizi Utenza,
entrambi datati 01.07.2021, aventi ad oggetto: «istanza di accesso agli
atti pervenuta in data 17.06.2021 ditta Ci.Wo.Gr. srl», e «istanza di
accesso agli atti pervenuta in data 19.06.2021 ditta Ci.Wo.Gr. srl», con
cui è stato negato l’accesso ai documenti di cui alle citate istanze,
inoltrate a mezzo pec, e in particolare alle dichiarazioni rese dai
collaboratori nel corso dell’accesso ispettivo e ai documenti indicati come
fonte di prova del verbale unico di accertamento e notificazione n.
BS00000/2021-304-01 del 24/05/21 e del verbale unico di accertamento e
notificazione n. 2021001593/DDL del 24/05/2021;
e per la condanna
- dell’Amministrazione a consentire l’accesso richiesto.
...
Ci.Wo.Gr. S.r.l. in data 03.06.2021 si è vista
notificare dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro – Ispettorato Territoriale
del Lavoro di Brescia il verbale unico di accertamento e notificazione n.
BS00000/2021-304-01 del 24/05/21 e il verbale unico di accertamento e
notificazione n. 2021001593/DDL del 24/05/2021 (INPS), all’esito di un
accertamento ispettivo iniziato in data 25/02/2021.
All’esponente sono ivi contestati illeciti amministrativi, in particolare
l’erronea qualificazione giuridica dei contratti di lavoro con alcuni
collaboratori e, per alcuni di essi, l’instaurazione di un rapporto di
lavoro in assenza di comunicazione preventiva di assunzione, con conseguente
applicazione di sanzioni e differenze contributive per l’importo complessivo
di 136.186,65 euro.
Al dichiarato fine di esercitare il proprio diritto di difesa, in data 17.06.2021. la ricorrente ha presentato all’Ispettorato Territoriale del
Lavoro di Brescia istanza di accesso alle dichiarazioni rese dai suoi
collaboratori nel corso dell’accesso ispettivo, evidenziando che per 19 di
essi il rapporto di lavoro è già cessato e per 2 non è mai esistito, nonché
ai documenti indicati dalla ITL quali fonti di prova; quest’ultima richiesta
è stata ribadita con pec del 19 giugno, ove la società ha richiesto di
esercitare il diritto di accesso rispetto agli altri atti e fonti di prova
del procedimento.
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro – Ispettorato Territoriale del Lavoro di
Brescia - processo servizi Utenza, con due provvedimenti datati 01.07.2021, ha negato l’accesso ai documenti di cui alle citate istanze.
Per quanto riguarda la richiesta di ostensione delle dichiarazioni rese dai
lavoratori ai sensi dell’art. 13 della L. 689/1981, il diniego è motivato
dall’applicazione dell’articolo 2, comma 1, lettera c), del D.M. 04/11/1994,
n. 757, che sottrae all’accesso “i documenti contenenti notizie acquisite
nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano
derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico
di lavoratori o di terzi”.
Per i restanti documenti richiesti, l’amministrazione ha opposto che gli
stessi non sono stati specificati e individuati singolarmente nell’istanza e
che pertanto la stessa risulta preordinata ad un inammissibile controllo
generalizzato dell’operato dell’amministrazione, vietato dall’art. 24 L.
241/1990.
La ricorrente ha proposto ricorso ai sensi degli articoli 25 della legge
241/1990 e 116 c.p.a. avverso i nominati dinieghi, deducendone
l’illegittimità per:
- violazione dell’articolo 24, comma 7, della legge 241/1990, che garantisce
l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per
curare o difendere i propri interessi giuridici, in ragione dell’imminente
scadenza del termine per ricorrere ex articolo 414 c.p. avanti al giudice
civile e della necessità di presentare già con l’atto di opposizione tutte
le sue difese, evidenziando che la documentazione qui richiesta verrà
comunque integralmente prodotta dall’ITL avanti il Tribunale civile nel caso
proponga ricorso giudiziale, atteso che ai sensi dell’art. 6, comma 8, del d.lgs. 150/2011 con il decreto di fissazione udienza ex art. 415 c.p.c. il
Giudice ordina all’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato di
depositare in cancelleria, dieci giorni prima dell’udienza fissata, copia
del rapporto con gli atti relativi all'accertamento, nonché alla
contestazione o notificazione della violazione;
- Violazione dell’articolo 3 della legge 241/1990, travisamento di fatto e
di diritto, falsità del presupposto, perché la motivazione del diniego
all’ostensione delle dichiarazioni dei collaboratori non tiene conto del
consolidato orientamento giurisprudenziale che nega la possibilità di
invocare la causa di esclusione di cui al DM 757/1994 per le ipotesi in cui
i rapporti di lavoro siano già interrotti;
- Violazione dell’articolo 3 della legge 241/1990, travisamento di fatto e
di diritto, falsità del presupposto, con riferimento all’istanza di accesso
alle altre fonti di prova, in quanto ancorché i documenti richiesti non
siano stati elencati, gli stessi sono identificabili tramite l’inequivoco
riferimento al verbale unico di accertamento;
- Violazione dell’articolo 1, comma 1, e dell’articolo 3, comma 1 e 3, della
legge 241/1990, perché conclusi gli accertamenti ispettivi, e quindi la fase
sottratta al contraddittorio con il soggetto interessato, deve essere
consentito alla parte che ne è destinataria di valutare la congruità delle
conclusioni sulla base non solo delle motivazioni del provvedimento, ma
anche delle risultanze istruttorie.
La ricorrente ha formulato istanza cautelare, rappresentando l’urgenza di
disporre dei documenti richiesti ai fini di proporre ricorso avanti al
Tribunale civile in ragione dei termini ridotti e della necessità, secondo
il rito del lavoro applicabile alle opposizioni alle ordinanze ingiunzioni
ai sensi dell’art. 6 d.lgs. 150/2011, di presentare tutte le sue difese già
con l’atto di opposizione.
Con decreto Presidenziale n. 206 di data 12.07.2021 è stato assegnato
all’Amministrazione resistente termine fino alle ore 24.00 del 15.07.2021 per controdedurre sull’istanza cautelare, mediante deposito di memoria
e documenti, riservando all’esito la decisione sull’istanza stessa.
Nel termine assegnato l’Amministrazione ha effettuato una produzione
documentale, ma non ha svolto difese sulla richiesta cautelare; parimenti
con successiva memoria di data 19.07.2021 l’amministrazione non si è
espressa sull’istanza cautelare, ma ha ribadito la legittimità del diniego
all’accesso.
La causa è stata chiamata all’udienza camerale del 29.07.2021.
Nel corso della discussione orale tenutasi da remoto la difesa della società
ricorrente ha confermato l’interesse al ricorso e alla pronuncia
sull’istanza cautelare, chiedendo la definizione del giudizio con sentenza
in forma semplificata e ribadendo che anche il rilascio dei documenti in
forma anonimizzata sarebbe interamente satisfattivo dell’interesse azionato.
Il Collegio ha trattenuto in decisione il ricorso, ritenendo sussistenti i
presupposti per una definizione della controversia con sentenza in forma
semplificata ai sensi degli articoli 60 e 116 c.p.a., considerato che il
contraddittorio si è pienamente spiegato, che la causa è matura per la
decisione, che parte ricorrente ha allegato oggettive ragioni di urgenza.
Il gravame è fondato nei limiti di seguito indicati.
Va evidenziato, con riferimento alle dichiarazioni rese dai collaboratori
della società ricorrente, che secondo un orientamento giurisprudenziale
consolidato l’esclusione dall’accesso delle notizie acquisite nel corso
dell'attività ispettiva prevista dall'art. 2 del D.M. 04.11.1994, n.
757 è limitata alle ipotesi in cui sussista un effettivo pericolo di
pregiudizio per i lavoratori o per i terzi, sulla base di elementi di fatto
concreti. Pertanto all’amministrazione è rimessa non solo la ponderazione
degli opposti interessi, ma anche la verifica, in concreto, del pericolo di
azioni discriminatorie o indebite pressioni nei confronti dei dichiaranti e
che, conseguentemente, l’ipotesi di cui all'art. 3 del medesimo decreto deve
di regola ritenersi insussistente allorché il rapporto di lavoro con tali
soggetti sia cessato (Cons. Stato Sez. III, 09.12.2020, n. 7801;
TAR Umbria, Sez. I, 10.02.2020, n. 55).
Nel caso di specie, a fronte di contestazioni che riguardano anche la
sussistenza di rapporti di lavoro non previamente comunicati, l’interesse
difensivo cui l’istanza di accesso è strumentale può esser soddisfatto –per
espressa dichiarazione di parte ricorrente– anche limitando l’ostensione,
ovvero rilasciando le nominate dichiarazioni previa cancellazione di tutti i
dati che possano identificare le persone che li hanno resi, circostanza che
rende irrilevante la sussistenza ab origine ovvero la permanenza di un
rapporto di lavoro degli stessi con la parte ricorrente.
Né assume rilievo l’obbligo di segreto ex art. 329 c.p.p. per essere i fatti
oggetto degli illeciti amministrativi interessati da una contestuale
indagine penale, obbligo peraltro invocato dall’amministrazione resistente
solo in sede difensiva, atteso che il verbale unico di contestazione
espressamente specifica che non sono state indicate le fonti di prova che
attengono ad attività investigative di natura penale e che le dichiarazioni
dei collaboratori costituiscono documenti utilizzati ai fini dell’attività
amministrativa. La mera trasmissione degli atti al vaglio del giudice
penale, in assenza di un atto di sequestro, non comporta che gli stessi
siano coperti da segreto né che questi siano sottratti all’accesso.
Infatti
“L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo
possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti
per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto
possono risultare sottratti al diritto di accesso. Infatti, soltanto gli
atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti
dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329
c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione
nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche
se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di
accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia
all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità
dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento
di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi,
nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24,
1. n. 241 del 1990” (TAR Catania, sez. III, 01/02/2017, n. 229; TAR
Sicilia-Palermo Sez. I, 20/05/2020, n. 1006).
Conseguentemente, a fronte di un’esigenza di tutela ex articolo 24 della
legge 241/1990 e non essendo configurabile in concreto la causa di esclusione
all’accesso richiamata nel diniego impugnato, il provvedimento
ITL_BS.REGISTRO UFFICIALE.2021.0021143 va annullato e, per l'effetto, va
ordinato all'amministrazione resistente di provvedere, ai sensi dell'art.
116, co. 4, c.p.a., al rilascio alla parte ricorrente delle dichiarazioni
acquisite nel corso dell’accesso ispettivo, previamente anonimizzate, entro
cinque giorni dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza.
Il ricorso è invece infondato con riguardo alla seconda richiesta formulata
dalla parte ricorrente, riferita ai documenti indicati come fonte di prova,
respinta con provvedimento ITL_BS.REGISTRO UFFICIALE.2021.0021192.
La domanda di accesso ivi formulata infatti è inammissibilmente generica,
laddove non si intenda riferita alle fonti di prova espressamente indicate
dal verbale unico di accertamento e notificazione; queste -peraltro- sono
individuate precisamente in tale atto (pag. 15 e 16) e consistono in
documenti che, ad eccezione delle dichiarazioni rese dai collaboratori, di
cui si è già trattato, sono tutti formati o comunque detenuti dalla stessa
parte ricorrente (visura camerale, comunicazioni inviate al centro per
l’impiego, libro unico del lavoro, verbale di primo accesso ispettivo,
contratti di lavoro stipulati, bonifici emessi dal datore di lavoro,
diffide, libro giornale anno 2019, schede contabili relative alle
“prestazioni occasionali” e alle “ritenute di terzi” (anno 2020), F24 di
pagamento ritenute di acconto, registro delle presenze del mese di febbraio
2021, script di presentazione utilizzato dagli operatori del call center,
DVR datato 26/03/2021), per i quali -quindi- difetta un concreto interesse
all’ostensione.
Conseguentemente la corrispondente domanda di annullamento non può trovare
accoglimento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.07.2021 n. 708 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: La
giurisprudenza amministrativa è unanime nell’affermare che i consiglieri
comunali vantano un incondizionato diritto di accesso –prevalente anche
sull’eventuale diritto alla riservatezza dei terzi coinvolti dalle istanze ostensive, tenuto conto del
segreto d’ufficio cui gli stessi sono tenuti- a tutti gli atti che possono
essere utili all'espletamento delle loro funzioni.
Ciò anche al fine di valutare la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio oltre che per promuovere, nell'ambito
di quest’ultimo, tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti
del corpo elettorale locale.
Il diritto di cui all’art. 43 citato T.U.E.L. presenta, dunque, una ratio
diversa da quella che contraddistingue l’accesso ai documenti amministrativi
di cui agli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990 -riconosciuto a chiunque sia
portatore di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso- in quanto strettamente funzionale all'esercizio del munus pubblico di consigliere comunale e, quindi, alla verifica ed al
controllo dell’operato degli organi decisionali dell'ente locale, quale
espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della
rappresentanza esponenziale della collettività.
Siffatto diritto, quindi, al fine di «evitare che sia la stessa
Amministrazione a diventare arbitro dell'ambito del controllo sul proprio
operato […] non incontra alcuna limitazione in relazione alla eventuale
natura riservata degli atti, stante il vincolo al segreto d'ufficio ex art.
622 cod. pen., e alla necessità di fornire la motivazione della richiesta.
In definitiva gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei
consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso
deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli
uffici comunali e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in
richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando
tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre
surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso».
Ancor più di recente è stato ribadito che: «La giurisprudenza, con un
sufficiente grado di stabilità, ha ritenuto che i consiglieri comunali hanno
un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere
d'utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere
di valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito
del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti
del corpo elettorale locale.
Di conseguenza sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare
onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente
opinando, sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i
propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal
termine "utili" contenuto nel prima ricordato art. 43 non può conseguire
alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto
aggettivo servendo in realtà a garantire l'estensione di tale diritto di
accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato.
Ciò in quanto il diritto di accesso del consigliere comunale
non riguarda solamente le competenze attribuite al Consiglio comunale, ma,
essendo riferito all'espletamento del mandato, investe l'esercizio del munus
in tutte le sue potenziali implicazioni, al fine di consentire la
valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione
comunale.
Corollario di tale impostazione è che non può essere legittimamente opposto
un diniego sull'istanza di accesso dei consiglieri motivato con riferimento
alla esigenza di assicurare la riservatezza dei dati contenuti nei documenti
richiesti e dunque il diritto alla privacy di soggetti terzi, in quanto, con
riguardo all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali, tale
esigenza è salvaguardata dall'art. 43, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 267
del 2000, che impone ad essi il segreto ove accedano ad atti che incidono
sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi.
La natura del diritto (soggettivo pubblico) di accesso dei consiglieri
comunali e le prerogative allo stesso connesse comporta, per un'esigenza di
coerenza dell'ordinamento, riflessi anche sul piano processuale, invero in
poche occasioni approfonditi in sede applicativa, ma che inducono a
condividere l'assunto dell'appellante, secondo cui nella materia
dell'accesso dei consiglieri comunali non è configurabile una posizione di
controinteresse in capo al soggetto portatore dell'interesse alla
riservatezza.
Si intende cioè osservare che, non contemplando il diritto di accesso del
consigliere comunale i vincoli e le limitazioni previsti dalla disciplina
generale di cui alla legge n. 241 del 1990 (ed in particolare quelli
relativi alla riservatezza dei terzi), neppure in sede processuale assume
rilievo la posizione del terzo che potrebbe opporsi all'accesso, e pertanto
non è configurabile alcun controinteressato».
...
L’applicazione dei principi testé esposti al caso in esame conduce
all’accertamento giurisdizionale del diritto degli odierni ricorrenti ad
avere accesso, per come dagli stessi richiesto, a tutti gli atti e documenti
di cui ai fascicoli edilizi, di condono edilizio e di vigilanza edilizia
relativi al complesso immobiliare di proprietà -OMISSIS-, in Catasto al
-OMISSIS-, -OMISSIS-, in quanto oggetto di una segnalazione in ordine a
possibili abusi e ciò allo scopo di vigilare in ordine alla correttezza
dell’attività amministrativa fin qui posta in essere.
L’istanza ostensiva in parola, oltre a soddisfare la ratio legis sottesa
all’art. 43, comma 2, citato T.U.E.L. è, inoltre, assentibile anche in quanto
precisa, puntuale e, come tale, non comportante alcun aggravio per gli
uffici comunali i quali ben possono –rectius devono- evaderla senza alcun
differimento di sorta.
Il sostanziale rifiuto di evadere la richiesta ostensiva in questione non
può, peraltro, trovare giustificazione nell’asserita esistenza -peraltro
evidenziata soltanto in giudizio dalla difesa dell’ente– del segreto
istruttorio di cui all’art. art. 329, comma 1, c.p.p.
Ed invero, innanzitutto, dalla produzione documentale agli atti del giudizio
si evince la mera pendenza, avuto riguardo al compendio immobiliare
-OMISSIS-, di un procedimento di vigilanza urbanistico-edilizia, azionato
dall’Ufficio Tecnico comunale in sinergia con la Polizia Municipale,
rientrante nell’ordinaria sfera di competenza dell’ente locale, secondo
quanto disposto dall’art. 27, comma 1, D.P.R. n. 380/2001, a norma del quale:
«Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita,
anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti
dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio
comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi».
Risulta, inoltre, che l’amministrazione stia valutando le risultanze di
siffatta attività di vigilanza a valle della quale redigerà una
relazione finale in cui darà conto degli eventuali abusi riscontrati e
dell’eventuale rilevanza penale degli stessi, con i connessi obblighi di
informazione nei confronti dell’Autorità Giudiziaria penale.
L’attività di vigilanza in parola, non essendo qualificabile in termini
di attività di indagine penale, tale dovendosi ritenere, a mente dell’art.
329 c.p.p., esclusivamente quella compiuta dal “pubblico ministero e dalla
polizia giudiziaria”, è doverosamente ostensibile, per le ragioni sopra
esposte, nei confronti dei consiglieri comunali istanti.
A tale conclusione si dovrebbe giungere anche nel caso in cui, a valle della
chiusura di siffatto procedimento amministrativo di vigilanza, l’ente
dovesse determinarsi a trasmettere all’Autorità Giudiziaria Penale i
relativi atti istruttori e provvedimentali, successivamente adottati.
Ed invero, l’eventuale migrazione di tali atti nel fascicolo del
procedimento penale che dovesse essere, conseguentemente, avviato non
sarebbe idonea a modificare la natura “amministrativa” degli accertamenti
compiuti dall’ente i quali, non essendo stati realizzati né dal pubblico
ministero né dalla polizia giudiziaria, continuerebbero a rimanere
ostensibili dal Comune anche in pendenza di siffatto procedimento penale,
giacché non “coperti” dal cd. segreto istruttorio di cui all’art. 329 c.p.p.
Quanto sopra trova riscontro in quel condivisibile orientamento anche di
questo Tribunale, secondo cui «L'esistenza di un'indagine penale non
implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti
che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di
indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli
coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia
giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai
sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una
pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono
atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque,
restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga
uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non
può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito
all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990"».
---------------
... per l’annullamento:
- della nota prot. n. 9372 del 22.02.2021, a firma del Dirigente
Arch. Ma. Di St., di diniego dell'istanza di accesso agli atti;
- della nota prot. n. 10003 del 24.02.2021 a firma del Dirigente
Arch. Ma. Di St., di diniego dell'istanza di accesso agli atti e di
conclusione del procedimento.
per l'accertamento:
- dell’illegittimità del diniego di accesso agli atti;
e per la condanna:
- dell'Amministrazione intimata a consentire l'accesso mediante
visione ed estrazione di copie di atti e documenti relativi alla richiesta
formulata in data 18.11.2020, prot. n. 52706.
...
1. Con ricorso tempestivamente notificato e depositato in data 24.03.2021, i ricorrenti, nella espressa qualità di consiglieri comunali del
Comune di Cerveteri, mercé l’impugnazione delle note comunali in epigrafe
indicate, di contenuto sostanzialmente reiettivo, hanno chiesto
l’accertamento giurisdizionale del proprio diritto ad avere accesso, ai
sensi dell’art. 43, comma 2, D.lgs. n. 267/2002, ai documenti amministrativi
appresso indicati, relativi a taluni interventi edilizi, residenziali e non,
insistenti nel territorio comunale di Cerveteri, in area contraddistinta al
-OMISSIS-, -OMISSIS-(località -OMISSIS- di -OMISSIS-) di proprietà della
famiglia -OMISSIS-, in quanto oggetto di segnalazioni anonime che ne
denunciano il carattere abusivo:
1) Visura e copia conforme originale della regolare licenza di
costruzione degli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località
-OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come
da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
2) Visura e copia conforme originale di eventuale condono o condoni
inerenti gli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località
-OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come
da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
3) Visura e copia conforme originale di eventuali verbali di
sopralluogo della polizia edilizia (Polizia locale), avvenuto accertamento,
sanzioni e ordinanze con relativa trasmissione alle Autorità di competenza
inerenti ai presunti abusi edilizi, riguardanti varie costruzioni
residenziali e non presenti su -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di
-OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina
allegata alla segnalazione denuncia);
4) Visura e copia conforme originale di eventuali procedure e
azioni finalizzate alla demolizione e/o all’acquisizione al Patrimonio
Pubblico, messe in atto dal competente Ufficio Urbanistica e dalla Polizia
Locale di Cerveteri, inerenti i presunti abusi edilizi riguardanti varie
costruzioni residenziali e non presenti su -OMISSIS--OMISSIS- in località
-OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come
da piantina in allegato presente nella pervenuta segnalazione denuncia);
5) Visura e copia conforme originale, se esistenti, di eventuali
ordinanze, procedure, denunce, atti e/o azioni con i quali, a fronte della
eventuale constatazione di presunti abusi edilizi, riguardanti varie
costruzioni residenziali e non presenti su -OMISSIS--OMISSIS- in località
-OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri, sono
stati perseguiti gli eventuali responsabili debitamente individuati dai
soggetti coinvolti e dalle competenti Autorità.
2. A fronte dell’istanza in parola, l’amministrazione comunale forniva ai
ricorrenti dati ed informazioni ritenuti parziali rispetto all’oggetto di
ostensione.
Più precisamente, a mezzo pec del 24.02.2021, il Responsabile della
Polizia Municipale informava i ricorrenti che gli accertamenti in ordine a
possibili violazioni della vigente disciplina urbanistico-edilizia nell’area
del territorio comunale attenzionata erano ancora in corso e che si era in
attesa che l’Ufficio Tecnico, a valle dell’attività di vigilanza, redigesse
una relazione finale ricognitiva dell’esistenza di eventuali abusi che, ove
esistenti, sarebbero stati perseguiti, mediante l’adozione delle correlate
misure di cui gli istanti sarebbero stati informati.
3. Il gravame risulta affidato a plurimi motivi di diritto, tutti
sostanzialmente tendenti all’affermazione del proprio diritto, nella qualità
di consiglieri comunali, ad avere accesso incondizionato a tutti gli atti
richiesti, attinenti la realizzazione di possibili abusi edilizi, in quanto
utili all’espletamento del loro mandato, anche al fine di vigilare sulla
correttezza, trasparenza ed efficienza dell’agere dell’ente locale, secondo
quanto previsto dall’art. 43, comma 2, D.lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.).
4. Il Comune di Cerveteri ha resistito al gravame mediante articolate
deduzioni difensive, tendenti a contestare il diritto dei ricorrenti ad
avere accesso agli atti dei fascicoli edilizi relativi agli interventi
attenzionati dall’amministrazione, all’uopo opponendo, per un verso,
l’inesistenza di parte della documentazione richiesta, avuto specifico
riguardo alle misure sanzionatorie eventualmente già adottate, e, per
l’altro, il segreto istruttorio cui sarebbero tenuti la Polizia Municipale e
l’Ufficio Urbanistica in relazione agli accertamenti in corso.
5. In data 21.05.2021, la difesa dell’ente ha depositato nota prot. n. 25063
del 20.05.2021, con cui il Comandante della Polizia Municipale ha notiziato
i ricorrenti in ordine alle date dei sopralluoghi effettuati, congiuntamente
a personale dell’Ufficio Tecnico, presso il complesso edilizio di proprietà
-OMISSIS-, tra i -OMISSIS-, ribandendo il differimento dell’accesso
all’esito dell’elaborazione delle relative risultanze che sarebbero state
compendiate nella “specifica relazione tecnica” finale.
6. In occasione della camera di consiglio dell’01.06.2021, in vista della
quale i ricorrenti hanno insistito nelle proprie richieste ostensive,
ritenendole non soddisfatte dalle comunicazioni interlocutorie inoltrate
dall’amministrazione, la causa è stata trattenuta in decisione.
7. Il ricorso è fondato.
8. L’accertamento del diritto dei consiglieri comunali, odierni ricorrenti,
ad avere accesso a tutti gli atti e documenti amministrativi richiesti, di
fatto coincidenti con tutti quelli inerenti i fascicoli edilizi, di condono
edilizio nonché di vigilanza edilizia relativi agli edifici di proprietà
-OMISSIS-, insistenti sull’area contraddistinta in Catasto al -OMISSIS-,
-OMISSIS- del territorio comunale di Cerveteri, passa dalla preliminare
ricognizione della ratio sottesa alla disposizione normativa di cui all’art.
43, comma 2, D.lgs. n. 267/2000, a norma della quale «I consiglieri comunali e
provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del
comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti,
tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento
del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente
determinati dalla legge».
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, è
unanime nell’affermare che i consiglieri comunali vantano un incondizionato
diritto di accesso –prevalente anche sull’eventuale diritto alla
riservatezza dei terzi coinvolti dalle istanze ostensive, tenuto conto del
segreto d’ufficio cui gli stessi sono tenuti- a tutti gli atti che possono
essere utili all'espletamento delle loro funzioni.
Ciò anche al fine di valutare la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio oltre che per promuovere, nell'ambito
di quest’ultimo, tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti
del corpo elettorale locale.
8.1 Il diritto di cui all’art. 43 citato T.U.E.L. presenta, dunque, una ratio
diversa da quella che contraddistingue l’accesso ai documenti amministrativi
di cui agli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990 -riconosciuto a chiunque sia
portatore di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso- in quanto strettamente funzionale all'esercizio del munus pubblico di consigliere comunale e, quindi, alla verifica ed al
controllo dell’operato degli organi decisionali dell'ente locale, quale
espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della
rappresentanza esponenziale della collettività.
Siffatto diritto, quindi, al fine di «evitare che sia la stessa
Amministrazione a diventare arbitro dell'ambito del controllo sul proprio
operato […] non incontra alcuna limitazione in relazione alla eventuale
natura riservata degli atti, stante il vincolo al segreto d'ufficio ex art.
622 cod. pen., e alla necessità di fornire la motivazione della richiesta.
In definitiva gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei
consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso
deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli
uffici comunali e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in
richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando
tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre
surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso» (così TAR
Sicilia, Catania, sez. I, 04/05/2020, n. 926; cfr. anche, TAR Piemonte,
Torino, sez. II, 01/03/2021, n. 215; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I,
20/01/2020, n. 16).
Ancor più di recente è stato ribadito che: «La giurisprudenza, con un
sufficiente grado di stabilità, ha ritenuto che i consiglieri comunali hanno
un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere
d'utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere
di valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito
del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti
del corpo elettorale locale.
Di conseguenza sul consigliere comunale non può
gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso,
atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotto una sorta di controllo
dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del
consigliere comunale; dal termine "utili" contenuto nel prima ricordato art.
43 non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei
consiglieri comunali, detto aggettivo servendo in realtà a garantire
l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per
l'esercizio del mandato (così, tra le tante, Cons. Stato, V, 17.09.2010, n. 6963).
Ciò in quanto il diritto di accesso del consigliere comunale
non riguarda solamente le competenze attribuite al Consiglio comunale, ma,
essendo riferito all'espletamento del mandato, investe l'esercizio del munus
in tutte le sue potenziali implicazioni, al fine di consentire la
valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione
comunale.
Corollario di tale impostazione è che non può essere legittimamente opposto
un diniego sull'istanza di accesso dei consiglieri motivato con riferimento
alla esigenza di assicurare la riservatezza dei dati contenuti nei documenti
richiesti e dunque il diritto alla privacy di soggetti terzi, in quanto, con
riguardo all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali, tale
esigenza è salvaguardata dall'art. 43, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 267
del 2000, che impone ad essi il segreto ove accedano ad atti che incidono
sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi (Cons. Stato, V, 11.12.2013, n. 5931).
La natura del diritto (soggettivo pubblico) di accesso dei consiglieri
comunali e le prerogative allo stesso connesse comporta, per un'esigenza di
coerenza dell'ordinamento, riflessi anche sul piano processuale, invero in
poche occasioni approfonditi in sede applicativa, ma che inducono a
condividere l'assunto dell'appellante, secondo cui nella materia
dell'accesso dei consiglieri comunali non è configurabile una posizione di
controinteresse in capo al soggetto portatore dell'interesse alla
riservatezza.
Si intende cioè osservare che, non contemplando il diritto di accesso del
consigliere comunale i vincoli e le limitazioni previsti dalla disciplina
generale di cui alla legge n. 241 del 1990 (ed in particolare quelli
relativi alla riservatezza dei terzi), neppure in sede processuale assume
rilievo la posizione del terzo che potrebbe opporsi all'accesso, e pertanto
non è configurabile alcun controinteressato» (così Consiglio di Stato sez.
V, 19/04/2021, n. 3161).
9. L’applicazione dei principi testé esposti al caso in esame conduce
all’accertamento giurisdizionale del diritto degli odierni ricorrenti ad
avere accesso, per come dagli stessi richiesto, a tutti gli atti e documenti
di cui ai fascicoli edilizi, di condono edilizio e di vigilanza edilizia
relativi al complesso immobiliare di proprietà -OMISSIS-, in Catasto al
-OMISSIS-, -OMISSIS-, in quanto oggetto di una segnalazione in ordine a
possibili abusi e ciò allo scopo di vigilare in ordine alla correttezza
dell’attività amministrativa fin qui posta in essere (in tema di accesso dei
consiglieri comunali agli atti di cui alle pratiche edilizie, si veda TAR
Puglia, Bari, sez. III, 04/06/2019, n. 795).
10. L’istanza ostensiva in parola, oltre a soddisfare la ratio legis sottesa
all’art. 43, comma 2, citato T.U.E.L. è, inoltre, assentibile anche in quanto
precisa, puntuale e, come tale, non comportante alcun aggravio per gli
uffici comunali i quali ben possono –rectius devono- evaderla senza alcun
differimento di sorta.
Il sostanziale rifiuto di evadere la richiesta ostensiva in questione non
può, peraltro, trovare giustificazione nell’asserita esistenza -peraltro
evidenziata soltanto in giudizio dalla difesa dell’ente– del segreto
istruttorio di cui all’art. art. 329, comma 1, c.p.p.
Ed invero, innanzitutto, dalla produzione documentale agli atti del giudizio
si evince la mera pendenza, avuto riguardo al compendio immobiliare
-OMISSIS-, di un procedimento di vigilanza urbanistico-edilizia, azionato
dall’Ufficio Tecnico comunale in sinergia con la Polizia Municipale,
rientrante nell’ordinaria sfera di competenza dell’ente locale, secondo
quanto disposto dall’art. 27, comma 1, D.P.R. n. 380/2001, a norma del quale:
«Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita,
anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti
dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio
comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi».
Risulta, inoltre, che l’amministrazione stia valutando le risultanze di
siffatta attività di vigilanza, espletata nel corso dei sopralluoghi del
18.02.2021, 04.03.2001 e 20.05.2001, a valle della quale redigerà una
relazione finale in cui darà conto degli eventuali abusi riscontrati e
dell’eventuale rilevanza penale degli stessi, con i connessi obblighi di
informazione nei confronti dell’Autorità Giudiziaria penale.
10.1 L’attività di vigilanza in parola, non essendo qualificabile in termini
di attività di indagine penale, tale dovendosi ritenere, a mente dell’art.
329 c.p.p., esclusivamente quella compiuta dal “pubblico ministero e dalla
polizia giudiziaria”, è doverosamente ostensibile, per le ragioni sopra
esposte, nei confronti dei consiglieri comunali istanti.
A tale conclusione si dovrebbe giungere anche nel caso in cui, a valle della
chiusura di siffatto procedimento amministrativo di vigilanza, l’ente
dovesse determinarsi a trasmettere all’Autorità Giudiziaria Penale i
relativi atti istruttori e provvedimentali, successivamente adottati.
Ed invero, l’eventuale migrazione di tali atti nel fascicolo del
procedimento penale che dovesse essere, conseguentemente, avviato non
sarebbe idonea a modificare la natura “amministrativa” degli accertamenti
compiuti dall’ente i quali, non essendo stati realizzati né dal pubblico
ministero né dalla polizia giudiziaria, continuerebbero a rimanere
ostensibili dal Comune anche in pendenza di siffatto procedimento penale,
giacché non “coperti” dal cd. segreto istruttorio di cui all’art. 329 c.p.p.
Quanto sopra trova riscontro in quel condivisibile orientamento anche di
questo Tribunale, secondo cui «L'esistenza di un'indagine penale non
implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti
che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di
indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli
coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia
giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai
sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una
pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono
atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque,
restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga
uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non
può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito
all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990" (TAR Catania,
(Sicilia) sez. III, 01/02/2017, n. 229)» (così TAR Lazio-Roma, sez. II,
02/01/2020, n. 4).
11. Sulla scorta delle superiori considerazioni, il ricorso è fondato, con
conseguente accertamento del diritto dei consiglieri comunali ricorrenti ad
avere visione ed estrarre copia degli atti e documenti richiesti con
l’istanza del 18.11.2020, prot. n. 52706 appresso indicati, ove esistenti:
- Visura e copia conforme originale della regolare licenza di
costruzione degli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località
-OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come
da piantina allegata pervenuta segnalazione denuncia);
- Visura e copia conforme originale di eventuale condono o condoni
inerenti gli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località
-OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come
da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
- Visura e copia conforme all’originale di tutti i verbali relativi
ai sopralluoghi fin qui posti in essere presso gli immobili realizzati sulla
-OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di
-OMISSIS- del Comune di Cerveteri, allo stato indicati dal Comune in
relazione degli accessi del 18.02.2021; 04.03.2021 e 20.05.2021, e di quelli
eventualmente a venire.
Con espressa declaratoria del diritto dei ricorrenti ad avere copia, già
richiesta, della relazione conclusiva che verrà elaborata a chiusura della
suddetta attività di vigilanza edilizia nonché degli eventuali provvedimenti
repressivo-sanzionatori che l’amministrazione ritenesse di adottare, con
eventuale nota di trasmissione alle Autorità di competenza.
11.2 Va, dunque, ordinato al Comune di Cerveteri di esibire gli atti sopra
indicati, anche mediante estrazione di copia, nel termine di trenta giorni
dalla comunicazione e/o notificazione, se anteriore, della presente sentenza
ovvero dall’intervenuta formazione degli stessi (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-quater,
sentenza 21.06.2021 n. 7338 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
diritto di accesso in funzione difensiva è garantito dall'art. 24, comma 7,
della L. 241/1990, che, nel rispetto dell’art. 24 della
Costituzione, prevede, con una formula di portata generale, che “deve
comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”.
E’ anche vero che la medesima norma specifica con molta chiarezza come non bastino
esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l'accesso, dovendo quest'ultimo
corrispondere ad una effettiva necessità di tutela di interessi che si
assumano lesi.
Orbene nel caso in esame non vi è dubbio che la società istante vanta un
interesse personale, concreto ed attuale alla ostensione,
corrispondente ad
una posizione giuridica qualificata, siccome derivante dalla comunicazione
di avvio del procedimento finalizzato alla revoca di un contributo pubblico
in precedenza concesso; diritto all’ostensione che, come noto, prescinde dal
requisito della strumentalità rispetto alle connesse ed eventuali iniziative
giudiziarie conseguenti, potendo essere tutelato di per sé ed in via
autonoma.
L’istanza di accesso formulata dalla società ricorrente non è quindi
generica, avendo ad oggetto specifici atti, ed è altresì motivata con
riferimento a finalità difensive.
---------------
L'art. 24, co. 1, L. n. 241/1990 così
dispone: “1. Il diritto di accesso è escluso: a) per i documenti coperti da
segreto di Stato ai sensi della legge 24.10.1977, n. 801, e successive
modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione
espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al
comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente
articolo”.
Tra i casi di segreto previsti dall'ordinamento, rientra quello istruttorio
in sede penale, delineato dall'art. 329 c.p.p., a tenore del quale <<gli
atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria
sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere
conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari>>.
La norma in commento segreta gli atti di indagine, che siano posti in essere
dal pubblico ministero ovvero dalla polizia giudiziaria. Tuttavia, non ogni
denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità
giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come
tale sottratta all'accesso.
In particolare è stato affermato che “L'esistenza di un'indagine penale non
implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti
che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di
indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli
coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia
giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai
sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una
pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono
atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque,
restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga
uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non
può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito
all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990”.
Nel caso in esame gli atti richiesti dalla ricorrente non sono gli atti di
indagine posti in essere dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria,
ma sono gli atti amministrativi inerenti il procedimento di revoca del
contributo, sicché detti atti amministrativi, salvo non siano stati
espressamente sottoposti a secretazione dall’Autorità giudiziaria penale,
sono certamente ostensibili; e sul punto nulla è stato riferito e comprovato
dalla difesa erariale.
---------------
... per l'annullamento
del diniego di accesso ai documenti amministrativi relativi ai procedimenti
di revoca delle agevolazioni di cui alla nota 21841 del 28/03/2019, negato
con il provvedimento del 24/05/2019, prot. -OMISSIS-.
...
2. Il ricorso è fondato.
2.1. Il diritto di accesso in funzione difensiva è garantito dall'art. 24,
comma 7, della L. 241/1990, che, nel rispetto dell’art. 24 della
Costituzione, prevede, con una formula di portata generale, che “deve
comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”.
E’ anche vero che la medesima norma -come successivamente modificata tra il
2001 e il 2005 (art. 22 l. n. 45/2001, art. 176, comma 1, d.lgs. n. 196/2003
e art. 16 l. n. 15/2005)- specifica con molta chiarezza come non bastino
esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l'accesso, dovendo quest'ultimo corrispondere ad una effettiva necessità di tutela di interessi
che si assumano lesi (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 28.09.2012 n. 5153).
Orbene nel caso in esame non vi è dubbio che la società istante vanta un
interesse personale, concreto ed attuale alla ostensione,
corrispondente ad
una posizione giuridica qualificata, siccome derivante dalla comunicazione
di avvio del procedimento finalizzato alla revoca di un contributo pubblico
in precedenza concesso; diritto all’ostensione che, come noto, prescinde dal
requisito della strumentalità rispetto alle connesse ed eventuali iniziative
giudiziarie conseguenti (cfr. CdS Sez. III n. 116/2012), potendo essere
tutelato di per sé ed in via autonoma (Consiglio di Stato sez. VI,
15/11/2018, n. 6444).
L’istanza di accesso formulata dalla società ricorrente non è quindi
generica, avendo ad oggetto specifici atti, ed è altresì motivata con
riferimento a finalità difensive.
3. Ciò precisato deve rilevarsi che le ragioni addotte dall’amministrazione
per negare l’accesso, in relazione alla documentazione richiesta, non
appaiono scriminanti rispetto a detto interesse qualificato della
ricorrente.
3.1. Il provvedimento di diniego è fondato sull’assunto che “così come
precisato dagli organi di polizia giudiziaria competenti, il contenuto degli
atti è già nella disponibilità della Società che può acquisirne copia nelle
forme previste dal c.p.p.”.
La difesa erariale ha a sua volta sostenuto nella propria memoria che la
richiesta di accesso in esame riguarda atti e documenti relativi al
procedimento di revoca delle agevolazioni, attivato dall’Assessorato a
seguito di una segnalazione della Guardia di Finanza –Tenenza Barcellona
Pozzo di Gotto, la quale informava delle circostanze di fatto per le quali è
stato instaurato, parallelamente, il procedimento penale -OMISSIS- R.G.N.R.
Mod. 21 a carico dell’amministratore della -OMISSIS- per il reato p. e p.
dall’art. 640-bis c.p., vale a dire il delitto di truffa aggravata per il
conseguimento di erogazioni pubbliche.
Ha rappresentato, peraltro, che nell’ambito del procedimento penale
l’Autorità procedente ha richiesto e ottenuto un decreto di sequestro
preventivo finalizzato alla confisca anche in forma equivalente dei beni
nella disponibilità dell’indagato.
Orbene sulla scorta di dette premesse la difesa erariale ha eccepito
l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse atteso che a suo
avviso “…parte ricorrente mira ad ottenere l’ostensione di atti di fatto già
in suo possesso” trattandosi di “… informazioni certamente già nella
disponibilità della società -OMISSIS- o comunque ottenibili attraverso le
ordinarie forme di cui al c.p.p., atteso che a seguito dell’istanza di
riesame del provvedimento di sequestro, la documentazione è diventata
ostensibile”.
3.2. Le argomentazioni opposte dall’amministrazione sono infondate.
Sotto un primo profilo va tenuto presente che l’istanza di accesso è stata
proposta dalla Soc. -OMISSIS- Srl, titolare di una propria soggettività
giuridica nonché soggetto direttamente coinvolto nel procedimento di revoca
del contributo avviato dall’amministrazione e, pertanto, suscettibile di
essere inciso negativamente dall’eventuale provvedimento in fieri; il
procedimento penale pendente, invece, è a carico dell’amministratore della
società, persona fisica titolare di una distinta e separata soggettività
giuridica, che in tesi potrebbe anche porsi in conflitto di interesse
rispetto a quello della società ricorrente.
Sotto altro profilo deve rilevarsi che l'art. 24, co. 1, L. n. 241/1990 così
dispone: “1. Il diritto di accesso è escluso: a) per i documenti coperti da
segreto di Stato ai sensi della legge 24.10.1977, n. 801, e successive
modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione
espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al
comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente
articolo”.
Tra i casi di segreto previsti dall'ordinamento, rientra quello istruttorio
in sede penale, delineato dall'art. 329 c.p.p., a tenore del quale <<gli
atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria
sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere
conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari>>.
La norma in commento segreta gli atti di indagine, che siano posti in essere
dal pubblico ministero ovvero dalla polizia giudiziaria.
Come esattamente rilevato dal Consiglio di Stato, non ogni denuncia di reato
presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria
costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta
all'accesso (Consiglio di Stato, sez. VI, 29/01/2013, n. 547; Consiglio di
Stato, sez. VI, 10/04/2003, n. 1923).
In particolare è stato affermato che “L'esistenza di un'indagine penale non
implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti
che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di
indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli
coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia
giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai
sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una
pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono
atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque,
restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga
uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non
può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito
all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990” (TAR, Catania, sez. III, 01/02/2017, n. 229).
Nel caso in esame gli atti richiesti dalla ricorrente non sono gli atti di
indagine posti in essere dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria,
ma sono gli atti amministrativi inerenti il procedimento di revoca del
contributo, sicché detti atti amministrativi, salvo non siano stati
espressamente sottoposti a secretazione dall’Autorità giudiziaria penale,
sono certamente ostensibili; e sul punto nulla è stato riferito e comprovato
dalla difesa erariale.
4. Conclusivamente, ritiene il Collegio che l’istanza di accesso agli atti
sia pertinente con il diritto di difesa della società ricorrente sicché, per
le surriferite ragioni, il ricorso deve essere accolto, e per l’effetto:
- va annullata la nota impugnata con cui l’amministrazione ha denegato
l’accesso ai documenti richiesti;
- va affermato il diritto della società ricorrente all’accesso documentale
di cui è causa, in relazione alla documentazione indicata nella parte motiva
e nei sensi sopra esposti, mediante esame integrale ed estrazione di copia
dei relativi documenti amministrativi.
Con condanna dell’intimata amministrazione a porre in essere le dovute
attività consequenziali entro il termine di giorni 30 (trenta) dalla
notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione in via amministrativa
della presente sentenza (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 20.05.2020 n. 1006 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La questione oggetto del presente giudizio è se possa essere legittimamente
negato l’accesso ai documenti amministrativi ai sensi dell’art. 22, comma 3
e 24, comma 6, lett. c), della l. 241/1990, in quanto strumentali ad attività
di indagine della polizia giudiziaria.
Come è noto, l'art. 24 della L. n. 241/1990, nella versione riformulata
dalla L. 11.02.2005, n. 15 ha sancito, elevando a rango superiore un
principio già introdotto a livello regolamentare, l'esclusione
dell'esibizione di atti utilizzati nel corso dell'attività giudiziaria o di
polizia.
La giurisprudenza ha tuttavia chiarito che “L'esistenza di un'indagine
penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o
provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti
oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro
e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di
accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla
polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti
penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da
una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale
sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque,
restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga
uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non
può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito
all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990”.
Viceversa, qualora si richieda l'ostensione di atti coperti da segreto
istruttorio perché posti in essere nell'ambito di un'attività di P.G., i
relativi documenti dovranno essere ritenuti sottratti al diritto di accesso
ex artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 e ostensibili unicamente mediante
l'attivazione degli strumenti previsti dal codice di procedura penale.
---------------
... per l'annullamento
del diniego accesso atti del 21.03.2019 prot. -OMISSIS- dell'agenzia del
demanio direzione regionale Lazio.
...
Con il ricorso in epigrafe, parte ricorrente agisce per l’accesso ai
documenti richiesti all’Agenzia del demanio in data 14.02.2019 e
concernenti il sopralluogo e l’ispezione effettuati nello stabilimento
balneare della società ricorrente da un tecnico della Agenzia nel settembre
del 2018.
La richiesta era motivata sulla base del fatto che il comune di Sabaudia aveva successivamente comunicato un avviso di avvio del
procedimento di revoca della concessione demaniale e pertanto la
documentazione richiesta era necessaria all’istante per svolgere le proprie
attività difensive sia in sede procedimentale che, eventualmente, in sede
giudiziale.
In particolare, la ricorrente chiedeva i seguenti atti:
1)- Nota prot. -OMISSIS- citata nell'esito dell'Ispezione del -OMISSIS-, prot.
n. -OMISSIS-, in tutte le sue parti e completa di tutta la documentazione ad
essa allegata;
2)- Nota di servizio e/o verbale di acquisizione degli atti presso il Comune
di Sabaudia come indicati nella nota ”esito ispezione” con prot. n. -OMISSIS-;
3)- Copia degli atti inviati al Comune di Sabaudia successivamente alla data
del -OMISSIS-;
4)- Copia di qualunque altro atto interno, anche se non direttamente
conosciuto, successivo e funzionalmente collegato all'esito dell'ispezione
del -OMISSIS-.
In data 14.03.2019, a mezzo PEC, l'Agenzia del Demanio dava seguito alla
richiesta di accesso indicando la data del 21 marzo per l'espletamento
dell'attività richiesta.
Il giorno 21 marzo, il tecnico incaricato dalla ricorrente si recava presso
gli uffici d'Agenzia del Demanio in Roma per accedere al fascicolo, ma
contrariamente a quanto indicato in precedenza, in quella sede gli veniva
negato l’accesso in quanto, a seguito di una telefonata con la Capitaneria
di porto, si era venuti a sapere che la documentazione richiesta era oggetto
di attività di indagine da parte della Capitaneria di porto a carico del
titolare dello stabilimento balneare e che, pertanto, ai sensi dell'art. 22,
comma 3, e 24, comma 6, lett. c), della L. 241/1990 l'accesso alla
documentazione richiesta deve ritenersi allo stato negato in attesa di
acquisire ulteriori informazioni dalla Capitaneria di Porto.
Avverso tale atto, parte ricorrente deduce:
1)- violazione e falsa applicazione dell’art. 97 e dell'art. 24 della
costituzione e del principio del buon andamento dell’amministrazione.
Violazione e falsa applicazione dell’art. 22, comma 3, della l. 241/1990.
Eccesso di potere. Sviamento.
3)- falsa ed errata applicazione della legge. Violazione e
falsa applicazione dell’art.24, comma 6, lett. c), della l. 241/1990. Eccesso di
potere.
Il diniego di accesso sarebbe stato ingiustificato non ricorrente l’ipotesi
invocata dalla amministrazione resistente, in quanto gli atti dei quali si
richiede l’accesso sono atti amministrativi e non atti di polizia giudiziaria
e poiché non si verte nel caso di specie di prevenzione della criminalità,
tecniche investigative o identità delle fonti di informazione.
L’Agenzia del demanio si è costituita e ha depositato una memoria per
sostenere l’infondatezza del ricorso.
All’udienza del -OMISSIS-, il Collegio ha chiesto, con ordinanza n.
-OMISSIS-, chiarimenti circa lo stato delle indagini in corso, specificando
in particolare se la documentazione oggetto della istanza di accesso sia
stata oggetto di un provvedimento di sequestro probatorio e se sia comunque
ancora nella disponibilità della amministrazione intimata.
In data 24.09.2019, l’amministrazione ha reso noto che, secondo
quanto riferito dagli uffici competenti, non risultava che alcuna
documentazione fosse oggetto di sequestro probatorio, precisando, tuttavia,
che “sono in corso indagini della Procura della Repubblica di Latina nei
confronti del nominato in argomento, per il quale, da ultimo, il GIP ha
disposto il sequestro preventivo dello stabilimento balneare in concessione
all’indagato”.
Gli uffici evidenziavano, altresì, che “ogni documentazione, ovvero atto
prodotto nel merito delle indagini in parola, essendo ancora nell’ambito
delle indagini preliminari, possono essere fornite ad eventuali istanti, con
particolare riguardo agli indagati, unicamente giusta autorizzazione della
Procura Procedente. Per quanto sopra ogni documento avente validità
probatoria inserita nel fascicolo del P.M. dovrà essere richiesto
direttamente allo stesso”.
In data 04.10.2019, parte ricorrente ha depositato una memoria nella
quale ha specificato che nessun documento del fascicolo del PM era stato
richiesto, in quanto la richiesta di accesso riguardava il fascicolo
dell'Agenzia del Demanio, che non risulta aver inviato nulla al PM.
Risulta inoltre dagli atti depositati da parte ricorrente che le indagini si
sono concluse e che è stato notificato all’indagato l’avviso di conclusione
delle indagini, ex art. 415-bis c.p.p. emesso in data 01.10.2019.
Pertanto, il segreto sugli atti d’indagini è caduto, mentre permane per
parte ricorrente l’interesse ad accedere al fascicolo degli atti
amministrativi dell’Agenzia.
La causa, all’odierna udienza, è stata trattenuta in decisione.
La questione oggetto del presente giudizio è se possa essere legittimamente
negato l’accesso ai documenti amministrativi ai sensi dell’art. 22, comma 3
e 24, comma 6, lett. c), della l. 241/1990, in quanto strumentali ad attività
di indagine della polizia giudiziaria.
Come è noto, l'art. 24 della L. n. 241/1990, nella versione riformulata
dalla L. 11.02.2005, n. 15 ha sancito, elevando a rango superiore un
principio già introdotto a livello regolamentare, l'esclusione
dell'esibizione di atti utilizzati nel corso dell'attività giudiziaria o di
polizia.
La giurisprudenza ha tuttavia chiarito che “L'esistenza di un'indagine
penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o
provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti
oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro
e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di
accesso. Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla
polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti
penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da
una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale
sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque,
restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga
uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non
può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito
all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990.” (TAR Catania,
(Sicilia) sez. III, 01/02/2017, n. 229).
Viceversa, qualora si richieda l'ostensione di atti coperti da segreto
istruttorio perché posti in essere nell'ambito di un'attività di P.G., i
relativi documenti dovranno essere ritenuti sottratti al diritto di accesso
ex artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 e ostensibili unicamente mediante
l'attivazione degli strumenti previsti dal codice di procedura penale (cfr.
TAR Roma, (Lazio) sez. III, 23/12/2015, n. 14525).
Ora nel caso di specie non risulta né è stato allegato che gli atti in
questione siano confluiti nel fascicolo del PM e siano pertanto da
qualificarsi atti di indagine. E’ inoltre stato accertato che nessun
provvedimento di sequestro probatorio è stato adottato con riferimento alla
documentazione in questione.
Gli atti richiesti da parte ricorrente, dunque, pur avendo una sicura
attinenza con indagini della PG, non risultano sottratti al diritto di
accesso ai sensi della normativa indicata dalla Agenzia resistente in quanto
non sono confluiti nel fascicolo del PM e non riguardano attività posta in
essere nell’esercizio di funzioni di PG.
Inoltre, in ogni caso, anche qualora essi fossero stati acquisiti al
fascicolo del PM (e così non è, a quanto risulta dagli atti del presente
giudizio), il segreto è comunque venuto meno dalla data del 01.10.2019 a
seguito della comunicazione dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p..
In conclusione, dunque, il ricorso deve essere accolto e deve essere
ordinato all’Agenzia resistente di consentire l’accesso (nelle forme della
visione e dell’estrazione di copia) degli atti richiesti con l’istanza del
14.02.2019, entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione della
presente sentenza (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 02.01.2020 n. 4 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - SICUREZZA LAVORO: La giurisprudenza ha sancito, in termini costanti, che se possono esservi dubbi in ordine alla
conoscibilità dei dati dei soggetti che abbiano posto in essere, nei
confronti dell’imprenditore, eventuali segnalazioni o esposti idonei ad
innescare l’accertamento lavoristico, non può invece essere revocata in
dubbio la piena accessibilità dei documenti in virtù dei quali l’ente
ispettivo abbia irrogato le sanzioni. Detta conoscenza è infatti essenziale
per il datore di lavoro ai fini dell’esercizio del proprio diritto di difesa
giurisdizionale, costituzionalmente garantito.
---------------
il differimento del diritto di accesso può essere disposto per la
salvaguardia degli specifici interessi pubblici indicati dall’art. 24, comma
6, L. 241/1990, ovvero:
a) sicurezza, difesa e sovranità nazionale oltre alle relazioni
internazionali dello Stato;
b) politica monetaria e valutaria;
c) ordine pubblico, prevenzione e repressione della criminalità e
attività di polizia giudiziaria e conduzione delle indagini;
d) vita privata e riservatezza di soggetti terzi;
e) contrattazione collettiva.
L’interesse pubblico per la cui tutela si dispone il differimento deve
essere specificamente individuato e reso noto, nello stesso atto di
differimento, all’interessato. Inoltre, il differimento non può essere
disposto sine die, ma deve necessariamente essere indicato un termine
finale.
Nel caso di specie, il provvedimento adottato dalla p.a. prevedeva una
scadenza non individuabile e non era motivato, in quanto conteneva un
generico riferimento a una non meglio precisata “necessità di tutelare
temporaneamente l’interesse pubblico”, senza individuare quale, tra gli
interessi pubblici idonei secondo il legislatore (art. 24, comma 6, cit.)
alla temporanea compressione del diritto di accesso, venisse in rilievo.
Tuttavia, configurandosi il rito dell’accesso come un processo volto ad
accertare in termini sostanziali la sussistenza del diritto, deve ritenersi
che la p.a. sia ammessa a integrare la motivazione del provvedimento in sede
giurisdizionale: invero, “Il ricorso in materia di accesso è ontologicamente
rivolto all'accertamento della fondatezza della pretesa. Il relativo
giudizio, infatti, pur seguendo il rito impugnatorio, è in ogni caso
strutturato come un giudizio di accertamento della fondatezza della pretesa
a prescindere dal contenuto del provvedimento di diniego o, come nel caso di
specie, di differimento, sicché l'eventuale difetto di motivazione non
assume alcun rilievo ai fini dell'esito del ricorso, imponendo, invece, al
giudice di verificare direttamente se sussistono i presupposti di legge per
ordinare l'esibizione degli atti.[…] Nel giudizio in materia di accesso,
l’integrazione della motivazione del diniego o del differimento deve
ritenersi senz’altro consentita all’Amministrazione e, peraltro, ai fini
dell’esito del ricorso è sostanzialmente irrilevante, atteso che l’azione
giurisdizionale è rivolta ad accertare l’esistenza del diritto di accesso
alla luce dei parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o minore
correttezza delle ragioni addotte dall’Amministrazione per giustificare il
diniego”.
Nella relazione allegata all’atto di costituzione in giudizio depositata
dalla difesa erariale, si faceva menzione (peraltro in termini piuttosto
vaghi e ipotetici) di accertamenti ancora in corso e dell’eventualità di una
delega d’indagine da parte dell’Autorità Giudiziaria penale, assoggettata a
segreto istruttorio.
In effetti, gli atti eventualmente posti in essere dalla p.a. in veste di
Polizia Giudiziaria sono assoggettati a segreto istruttorio e non sono
ostensibili in sede di accesso ex artt. 22 e ss. L. 241/1990: “Qualora si
richieda l'ostensione di atti coperti da segreto istruttorio perché posti in
essere nell'ambito di un'attività di P.G., i relativi documenti dovranno
essere ritenuti sottratti al diritto di accesso ex artt. 22 e ss., l. n. 241
del 1990 e ostensibili unicamente mediante l'attivazione degli strumenti
previsti dal codice di procedura penale tra cui sono contemplate le cd.
indagini difensive ex artt. 391-bis e ss. c.p.p.”.
Dunque, con riferimento ad essi, la p.a. correttamente esercitava il potere
di differimento, anche mediante indicazione di un termine ‘elastico’, ovvero
legato alla conclusione dell’attività di indagine delegata in sede penale.
Sotto tale profilo, anche il superamento del termine di 30 giorni indicato
dall’art. 25 L. 241/1990 non è rilevante, posto che in presenza di segreto
istruttorio per gli atti di Polizia Giudiziaria il differimento dell’accesso
si profila come un atto dovuto.
Tuttavia, le considerazioni sopra esposte devono intendersi limitate ai soli
atti compiuti dalla p.a. resistente in virtù di delega di indagine penale, e
dunque in veste di Polizia Giudiziaria, non anche con riferimento
all’attività posta in essere dall’Ispettorato del Lavoro nell’esercizio
delle proprie ordinarie funzioni amministrative di vigilanza, controllo e
irrogazione delle sanzioni in sede amministrativa: in verità, “L'esistenza
di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti
gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi
con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto
il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al
diritto di accesso. Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M.
e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei
procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti
in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività
istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento
di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e
rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria;
tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto
che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G.,
cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso
garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo
alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990”.
Con riferimento agli atti compiuti dalla p.a. al di fuori dell’attività
investigativa di Polizia Giudiziaria delegata dall’Autorità Giudiziaria
penale, atti in relazione ai quali veniva disposta l’irrogazione, nei
confronti del ricorrente, delle sanzioni pecuniarie in sede amministrativa
che lo stesso ha diritto a contestare in sede giurisdizionale, deve dunque
dichiararsi la sussistenza del diritto di accesso del ricorrente, nonché
l’illegittimità del silenzio-rigetto e del differimento, in quanto non
motivato e privo di un termine ultimo di efficacia.
---------------
... per l'annullamento
per l'accesso
-
agli atti e documenti presenti nel fascicolo in possesso dell'Ispettorato
Territoriale del Lavoro di Taranto originanti la notifica di verbale unico
di accertamento e notificazione (prot. N. 25910 del 05/12/2018) avente ad
oggetto la contestazione di illecito amministrativo di cui agli art. 39,
comma 1, DL 112/2008 e ss.mm.ii. e art. 3, comma 3, DL 12/2002;
nonché per l'annullamento
-
del silenzio-rigetto formatosi in data 18.01.2019 sulla domanda di
accesso presentata in data 19.12.2018;
nonché per l'annullamento
-
del provvedimento di differimento comunicato a mezzo pec in data 21.01.2019.
...
1. Ma.Ga. è titolare della ditta individuale E.G. di Ma.Ga. e,
in tale qualità, in data 05.12.2018 gli veniva notificato
dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Taranto il “Verbale unico di
accertamento e notificazione” Prot. 85910 del 05.12.2018. Con il
suddetto atto si contestava al Ga.:
1) la violazione dell’art. 39, comma I,
D.L. 112/2008 convertito in Legge 133/2008 – Istituzione e tenuta del LUL;
2) la Violazione dell’art. 3, comma 3, D.L. 12/2002 convertito in Legge
73/2002 come sostituito dall’art. 22, comma 1, D.Lgs. 14.09.2015 n. 151 –
Misure di contrasto del lavoro sommerso e irregolare fino a 30 giornate
senza mantenimento in servizio.
2. Con pec del proprio legale ricevuta dall’Ispettorato il 19.12.2018
il Ga. richiedeva, ai sensi degli artt. 22 e ss. L. 241/1990, “copia
conforme all’originale di tutti gli atti, nessuno escluso, alla data odierna
presenti nel fascicolo in possesso dell’ufficio procedente e riguardanti la
contestazione mossa al sig. Ga.”, motivando la propria richiesta con
l’intenzione di “esercitare il connesso diritto di difesa”.
3. In data 18.01.2019 scadeva il termine per il perfezionamento del
silenzio-rigetto di cui all’art. 25 L. 241/1990, senza che l’amministrazione
si pronunciasse.
In seguito, con nota Prot. 1226 del 21.01.2019 l’Amministrazione
rispondeva alla domanda di accesso rispondendo che: “l’accesso è differito
alla definizione degli accertamenti, attesa la necessità di assicurare una
temporanea tutela dell’interesse pubblico”.
4. Avverso il silenzio-rigetto e il suddetto provvedimento di differimento
Ma.Ga. proponeva ricorso, chiedendone l’annullamento per i seguenti
motivi: 1) “Violazione degli artt. 1, 2, 3, 22 commi 1, lett. b) e 6, e 24,
comma 7, e 25, comma 2, della L. n. 241/1990. Violazione dell’art. 9 del DPR
184/2006. Violazione degli artt. 3, 24, 97 e 113 della Costituzione.
Violazione dei principi di trasparenza, ragionevolezza, imparzialità e buon
andamento dell’azione amministrativa. Assente e/o apparente motivazione;
motivazione apodittica. Eccesso di potere per difetto d’istruttoria”, con il
quale deduceva la sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 22 e ss. L.
241/1990 per il diritto di accesso e la non ricorrenza delle condizioni di
differimento dello stesso.
Chiedeva inoltre l’accertamento della situazione
giuridica soggettiva azionata in giudizio e la condanna della p.a.
all’ostensione dei documenti richiesti.
L’Ispettorato del Lavoro si costituiva in giudizio con il ministero
dell’Avvocatura dello Stato.
...
5. Il ricorso va parzialmente accolto, nei limiti e per le ragioni che
seguono.
5.1. Sussiste, nella fattispecie oggetto di causa, il diritto di accesso di
Ma.Ga. con riferimento alla documentazione oggetto della richiesta del
19.12.2018 (salvo quanto si dirà al successivo punto 5.2), afferente
all’accertamento posto in essere nei di lui confronti dall’ispettorato del
Lavoro.
La giurisprudenza ha infatti sancito, in termini costanti e
condivisi dal Collegio, che se possono esservi dubbi in ordine alla
conoscibilità dei dati dei soggetti che abbiano posto in essere, nei
confronti dell’imprenditore, eventuali segnalazioni o esposti idonei ad
innescare l’accertamento lavoristico, non può invece essere revocata in
dubbio la piena accessibilità dei documenti in virtù dei quali l’ente
ispettivo abbia irrogato le sanzioni. Detta conoscenza è infatti essenziale
per il datore di lavoro ai fini dell’esercizio del proprio diritto di difesa
giurisdizionale, costituzionalmente garantito (si veda in tal senso: TAR
Sicilia, Catania, Sez. IV, 07.11.2011 n. 2641).
5.2. Nel caso di specie, il diritto di accesso, pur implicitamente
riconosciuto dalla p.a., era oggetto di apposito provvedimento di
differimento.
L’esercizio del potere di differimento dell’accesso da parte della p.a. è
disciplinato dalle seguenti disposizioni normative:
- art. 24, comma 4, L.
241/1990: “L’accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove
sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento”;
- art. 25, comma 3, L.
241/1990: “Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso sono
ammessi nei casi e nei limiti stabiliti dall’art. 24 e debbono essere
motivati”;
- art. 9 D.P.R. 12.04.2006 n. 184: “1. Il rifiuto, la
limitazione o il differimento dell'accesso richiesto in via formale sono
motivati, a cura del responsabile del procedimento di accesso, con
riferimento specifico alla normativa vigente, alla individuazione delle
categorie di cui all'articolo 24 della legge, ed alle circostanze di fatto
per cui la richiesta non può essere accolta così come proposta. 2. Il
differimento dell'accesso è disposto ove sia sufficiente per assicurare una
temporanea tutela agli interessi di cui all'articolo 24, comma 6, della
legge, o per salvaguardare specifiche esigenze dell'amministrazione, specie
nella fase preparatoria dei provvedimenti, in relazione a documenti la cui
conoscenza possa compromettere il buon andamento dell'azione amministrativa.
3. L'atto che dispone il differimento dell'accesso ne indica la durata”.
Dal combinato disposto delle norme su menzionate, deriva che il differimento
del diritto di accesso può essere disposto per la salvaguardia degli
specifici interessi pubblici indicati dall’art. 24, comma 6, L. 241/1990,
ovvero:
a) sicurezza, difesa e sovranità nazionale oltre alle relazioni
internazionali dello Stato;
b) politica monetaria e valutaria;
c) ordine
pubblico, prevenzione e repressione della criminalità e attività di polizia
giudiziaria e conduzione delle indagini;
d) vita privata e riservatezza di
soggetti terzi;
e) contrattazione collettiva.
L’interesse pubblico per la
cui tutela si dispone il differimento deve essere specificamente individuato
e reso noto, nello stesso atto di differimento, all’interessato. Inoltre, il
differimento non può essere disposto sine die, ma deve necessariamente
essere indicato un termine finale.
Nel caso di specie, il provvedimento adottato dalla p.a. prevedeva una
scadenza non individuabile e non era motivato, in quanto conteneva un
generico riferimento a una non meglio precisata “necessità di tutelare
temporaneamente l’interesse pubblico”, senza individuare quale, tra gli
interessi pubblici idonei secondo il legislatore (art. 24, comma 6, cit.) alla
temporanea compressione del diritto di accesso, venisse in rilievo.
Tuttavia, configurandosi il rito dell’accesso come un processo volto ad
accertare in termini sostanziali la sussistenza del diritto, deve ritenersi
che la p.a. sia ammessa a integrare la motivazione del provvedimento in sede
giurisdizionale: “Il ricorso in materia di accesso è ontologicamente rivolto
all'accertamento della fondatezza della pretesa. Il relativo giudizio,
infatti, pur seguendo il rito impugnatorio, è in ogni caso strutturato come
un giudizio di accertamento della fondatezza della pretesa a prescindere dal
contenuto del provvedimento di diniego o, come nel caso di specie, di
differimento, sicché l'eventuale difetto di motivazione non assume alcun
rilievo ai fini dell'esito del ricorso, imponendo, invece, al giudice di
verificare direttamente se sussistono i presupposti di legge per ordinare
l'esibizione degli atti.[…] Nel giudizio in materia di accesso,
l’integrazione della motivazione del diniego o del differimento deve
ritenersi senz’altro consentita all’Amministrazione e, peraltro, ai fini
dell’esito del ricorso è sostanzialmente irrilevante, atteso che l’azione
giurisdizionale è rivolta ad accertare l’esistenza del diritto di accesso
alla luce dei parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o minore
correttezza delle ragioni addotte dall’Amministrazione per giustificare il
diniego” (TAR Lazio, Roma, Sez. I, 18.12.2009 n. 13139; cfr: TAR
Campania, Napoli, Sez. VI, 02.12.2010 n. 26573; Consiglio di Stato, Sez. V, 11.05.2004 n. 2966).
Nella relazione allegata all’atto di costituzione in giudizio depositata
dalla difesa erariale, si faceva menzione (peraltro in termini piuttosto
vaghi e ipotetici) di accertamenti ancora in corso e dell’eventualità di una
delega d’indagine da parte dell’Autorità Giudiziaria penale, assoggettata a
segreto istruttorio.
In effetti, gli atti eventualmente posti in essere
dalla p.a. in veste di Polizia Giudiziaria sono assoggettati a segreto
istruttorio e non sono ostensibili in sede di accesso ex artt. 22 e ss. L.
241/1990: “Qualora si richieda l'ostensione di atti coperti da segreto
istruttorio perché posti in essere nell'ambito di un'attività di P.G., i
relativi documenti dovranno essere ritenuti sottratti al diritto di accesso
ex artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 e ostensibili unicamente mediante
l'attivazione degli strumenti previsti dal codice di procedura penale tra
cui sono contemplate le cd. indagini difensive ex artt. 391-bis e ss. c.p.p.”
(TAR Lazio, Roma, Sez. III, 23.12.2015 n. 14525).
Dunque, con
riferimento ad essi, la p.a. correttamente esercitava il potere di
differimento, anche mediante indicazione di un termine ‘elastico’, ovvero
legato alla conclusione dell’attività di indagine delegata in sede penale.
Sotto tale profilo, anche il superamento del termine di 30 giorni indicato
dall’art. 25 L. 241/1990 non è rilevante, posto che in presenza di segreto
istruttorio per gli atti di Polizia Giudiziaria il differimento dell’accesso
si profila come un atto dovuto.
5.3. Tuttavia, le considerazioni sopra esposte devono intendersi limitate ai
soli atti compiuti dalla p.a. resistente in virtù di delega di indagine
penale, e dunque in veste di Polizia Giudiziaria, non anche con riferimento
all’attività posta in essere dall’Ispettorato del Lavoro nell’esercizio
delle proprie ordinarie funzioni amministrative di vigilanza, controllo e
irrogazione delle sanzioni in sede amministrativa: “L'esistenza di
un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli
atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i
fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il
sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto
di accesso. Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla
polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti
penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da
una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale
sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di
vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo
l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque,
restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga
uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non
può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito
all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990” (TAR Sicilia,
Catania, Sez. III, 01.02.2017 n. 229).
Con riferimento agli atti compiuti dalla p.a. al di fuori dell’attività
investigativa di Polizia Giudiziaria delegata dall’Autorità Giudiziaria
penale, atti in relazione ai quali veniva disposta l’irrogazione, nei
confronti del ricorrente, delle sanzioni pecuniarie in sede amministrativa
che lo stesso ha diritto a contestare in sede giurisdizionale, deve dunque
dichiararsi la sussistenza del diritto di accesso del Ga., nonché
l’illegittimità del silenzio-rigetto e del differimento, in quanto non
motivato e privo di un termine ultimo di efficacia.
6. Il ricorso merita dunque, per quanto precede, parziale accoglimento. Nei
limiti degli atti indicati al precedente punto 5.3, deve infatti accertarsi
la sussistenza del diritto di accesso del Ga. e l’illegittimità del
silenzio-rigetto e del differimento opposto dall’ispettorato.
Deve pertanto ordinarsi all’amministrazione resistente di mettere a
disposizione del ricorrente gli atti oggetto della richiesta ostensiva, a
esclusione di quelli che siano stati compiuti dall’Ispettorato in veste di
Polizia Giudiziaria e nell’esercizio della delega di indagine penale, con
facoltà, per il Ga., di estrarre copia di quelli di ritenuta utilità, nel
termine perentorio di 20 giorni dalla notificazione/comunicazione della
presente sentenza (TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 21.05.2019 n. 800 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Con
l’archiviazione del procedimento penale non sussistono ragioni ostative
all’accesso ai relativi atti in possesso dell’Amministrazione e
riconducibili al ricorrente (atti comunque non oggetto di sequestro).
Il diritto di accesso, ferme le ovvie limitazioni derivanti dal segreto
d’ufficio o da prevalenti ragioni di privacy, ha infatti una portata ampia
collegata in particolare alla necessità dell’interessato di essere posto
nelle condizioni di esercitare al meglio ogni forma di tutela consentita.
Peraltro, anche gli atti relativi e denunce ed esposti sono accessibili.
Questi ultimi, una volta entrati nella disponibilità dell'Amministrazione,
non sono preclusi dall’accesso per esigenze di tutela della riservatezza,
giacché il predetto diritto non assume un'estensione tale da includere il
diritto all'anonimato di colui che rende una dichiarazione che comunque va
ad incidere nella sfera giuridica di terzi.
Né il nostro ordinamento, ispirato a principi democratici di trasparenza,
imparzialità e responsabilità ammette la possibilità di denunce segrete.
Colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha quindi un
interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti
amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a
cominciare dagli atti di iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto,
denunce, segnalazioni o esposti.
Il diritto di accesso non soffre, infatti, limitazioni se non quelle
espressamente previste con legge o, comunque, in base a legge e non è, in
particolare, soggetto ad applicazioni interpretative, manipolative o,
comunque, riduttive ad opera dell'Autorità atteso che ogni Amministrazione è
tenuta a dar seguito all'istanza del privato (ove rispettosa dei crismi
normativi quanto a forma, oggetto, interesse sostanziale sotteso), mediante
l'esibizione o la consegna di copia di quella documentazione precisamente
richiesta, salvo che non ricorrano le tassative circostanze legislativamente
previste per differirne ovvero negarne l'accesso.
---------------
15. Con il ricorso di primo grado, il maresciallo Ca. aveva chiesto anche
l’accesso agli atti in possesso dell’Amministrazione relativi al
procedimento penale instaurato a suo carico e poi concluso con una
archiviazione.
Il Tar, tuttavia, ha ritenuto che tali documenti, in quanto riferiti
all'attività investigativa, dovevano, ai sensi dell'art. 24, comma 1, lett.
a), della legge n. 241 del 1990, essere esclusi dal diritto di accesso.
L’apertura di un procedimento penale, seppure poi archiviato, avrebbe
imposto al ricorrente di chiederne l’ostensione all’Autorità giudiziaria.
16. Il giudice di primo grado ha quindi consentito l’accesso solo a quelli
fuori dalla vicenda penale e sufficientemente individuati nell’istanza: “In
altri termini, a prescindere dalla specifica indicazione della data e del
numero di protocollo attribuito agli atti richiesti, non v'è dubbio come
l'accesso non possa costringere l'Amministrazione ad attività di ricerca ed
elaborazione dati, di guisa che la relativa istanza non può essere generica,
eccessivamente estesa o riferita ad atti non specificamente individuati”.
17. Le conclusioni del Tar non possono essere condivise.
Innanzitutto, va rilevato che con l’archiviazione del procedimento penale
non sussistono ragioni ostative all’accesso ai relativi atti in possesso
dell’Amministrazione e riconducibili al ricorrente incidentale (atti
comunque non oggetto di sequestro).
Il diritto di accesso, ferme le ovvie limitazioni derivanti dal segreto
d’ufficio o da prevalenti ragioni di privacy, ha infatti una portata ampia
collegata in particolare alla necessità dell’interessato di essere posto
nelle condizioni di esercitare al meglio ogni forma di tutela consentita.
Peraltro, anche gli atti relativi e denunce ed esposti sono accessibili.
Questi ultimi, una volta entrati nella disponibilità dell'Amministrazione,
non sono preclusi dall’accesso per esigenze di tutela della riservatezza,
giacché il predetto diritto non assume un'estensione tale da includere il
diritto all'anonimato di colui che rende una dichiarazione che comunque va
ad incidere nella sfera giuridica di terzi (Cons. St., sez. V, 19.05.2009 n.
3081; TAR Sicilia, Catania, sez. III, 11.02.2016 n. 396).
Né il nostro ordinamento, ispirato a principi democratici di trasparenza,
imparzialità e responsabilità ammette la possibilità di denunce segrete.
Colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha quindi un
interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti
amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a
cominciare dagli atti di iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto,
denunce, segnalazioni o esposti (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 12.07.2016
n. 980, TAR Campania, sez. VI, 04.02.2016 n. 639).
18. Il diritto di accesso non soffre, infatti, limitazioni se non quelle
espressamente previste con legge o, comunque, in base a legge e non è, in
particolare, soggetto ad applicazioni interpretative, manipolative o,
comunque, riduttive ad opera dell'Autorità atteso che ogni Amministrazione è
tenuta a dar seguito all'istanza del privato (ove rispettosa dei crismi
normativi quanto a forma, oggetto, interesse sostanziale sotteso), mediante
l'esibizione o la consegna di copia di quella documentazione precisamente
richiesta, salvo che non ricorrano le tassative circostanze legislativamente
previste per differirne ovvero negarne l'accesso (cfr. Consiglio di Stato,
sez. IV, 19.04.2017, n. 1832) (Consiglio
di Stato, Sez, IV,
sentenza
24.05.2018 n. 3128 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI: -
il diritto alla trasparenza dell'azione
amministrativa costituisce situazione attiva meritevole di autonoma
protezione, indipendentemente dalla pendenza e dall'oggetto di una
controversia giurisdizionale, e non è condizionata al necessario giudizio di
ammissibilità e rilevanza cui è subordinata la positiva delibazione di
istanze a finalità probatorie, sicché resta rimessa al libero apprezzamento
dell'interessato la scelta di avvalersi del rimedio giurisdizionale offerto
dall'art. 25 della legge n. 241 del 1990 ovvero di conseguire la conoscenza
dell'atto nel diverso giudizio pendente tra le parti mediante la richiesta
di esibizione istruttoria, e con l'ulteriore conseguenza che, non
costituendo il diritto di accesso una pretesa meramente strumentale alla
difesa in giudizio della situazione sottostante ma essendo in realtà diretto
al conseguimento di un autonomo bene della vita, la relativa domanda
giudiziale si presenta indipendente non solo dalla sorte del processo
principale nel quale venga fatta valere l'anzidetta situazione ma anche
dall'eventuale infondatezza od inammissibilità della domanda giudiziale che
il richiedente, una volta conosciuti gli atti, potrebbe proporre;
- in ragione di ciò, il diritto di accesso non è ostacolato
dalla pendenza di un giudizio civile o amministrativo nel corso del quale
gli stessi documenti potrebbero essere richiesti;
- non si oppone, poi, all'accoglimento della domanda giudiziale la
circostanza che si tratterebbe di atti riguardanti un’indagine penale,
avendo la giurisprudenza chiarito che l'esistenza di un'indagine penale non
implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti
che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di
indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli
coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso; soltanto gli atti di indagine compiuti
dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto
nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p..
---------------
... per l'annullamento
-
della comunicazione prot.n. 14/9-2 del 26.03.2018, not. 26.03.2018, con la
quale la Legione Carabinieri Campania – Stazione di Montefredane ha
rigettato l'istanza di accesso agli atti presentata dalla ricorrente in data
28.02.2018;
e per la declaratoria
-
della spettanza dell'accesso con conseguente condanna della P.A.
all'ostensione dei documenti richiesti ed alla estrazione di copia;
...
Considerato che, in ragione della pendenza del giudizio
instaurato a seguito dell’impugnativa del provvedimento prot. n. 53571 del
14.12.2017, notificato in data 29.12.2017, con cui la Prefettura di Avellino
– UTG Ufficio Antimafia ha informato che nei confronti della soc. -OMISSIS-
S.R.L. che “sussistono elementi che fanno ritenere concreto il pericolo di
tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionarne le scelte e gli
indirizzi ai sensi dell’art. 84 d.lgs. n. 159/2011”, la ricorrente domandava
(istanza del 28.02.2018) alla competente stazione dei carabinieri di Mercogliano l'accesso relazioni e/o comunicazioni rese nei confronti dei
-OMISSIS- nell’ambito dell’attività istruttoria finalizzata alla verifica in
punto di sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, poste a
fondamento del provvedimento impugnato;
Rilevato che la sopra menzionata Stazione dei Carabinieri respingeva la
domanda, opponendo che "quanto richiesto, ossia gli eventuali atti
originati da questo Comando non possono considerarsi a fondamento del
provvedimento emesso dalla Prefettura di Avellino" (v. provvedimento prot. n.
14/9-2 del 26.03.2018, not. 26.03.2018);
Ritenuto che la ricorrente ha esercitato l'actio ad exhibendum, ai sensi
dell'art. 25 della legge n. 241 del 1990 e dell'art. 116 cod. proc. amm., con
richiesta al giudice amministrativo dell'annullamento del provvedimento
sopra epigrafato e dell'accertamento del diritto di accesso agli atti
invocati, e con conseguente condanna dell'Amministrazione a consentire
l'esibizione e l'estrazione di copia della suindicata documentazione;
Rilevato che si è costituito in giudizio il Ministero della Difesa,
opponendosi all'accoglimento del ricorso e che alla Camera di Consiglio del
04.07.2018, ascoltati i rappresentanti delle parti, la causa è passata in
decisione;
Ritenuto:
-
che, come è stato rilevato in giurisprudenza (v., tra le altre, Cons. Stato,
Sez. V, 23.02.2010 n. 1067), il diritto alla trasparenza dell'azione
amministrativa costituisce situazione attiva meritevole di autonoma
protezione, indipendentemente dalla pendenza e dall'oggetto di una
controversia giurisdizionale, e non è condizionata al necessario giudizio di
ammissibilità e rilevanza cui è subordinata la positiva delibazione di
istanze a finalità probatorie, sicché resta rimessa al libero apprezzamento
dell'interessato la scelta di avvalersi del rimedio giurisdizionale offerto
dall'art. 25 della legge n. 241 del 1990 ovvero di conseguire la conoscenza
dell'atto nel diverso giudizio pendente tra le parti mediante la richiesta
di esibizione istruttoria, e con l'ulteriore conseguenza che, non
costituendo il diritto di accesso una pretesa meramente strumentale alla
difesa in giudizio della situazione sottostante ma essendo in realtà diretto
al conseguimento di un autonomo bene della vita, la relativa domanda
giudiziale si presenta indipendente non solo dalla sorte del processo
principale nel quale venga fatta valere l'anzidetta situazione ma anche
dall'eventuale infondatezza od inammissibilità della domanda giudiziale che
il richiedente, una volta conosciuti gli atti, potrebbe proporre;
-
che, in ragione di ciò, il diritto di accesso non è ostacolato dalla
pendenza di un giudizio civile o amministrativo nel corso del quale gli
stessi documenti potrebbero essere richiesti (v. anche Cons. Stato, Sez. IV,
27.01.2011 n. 619);
-
che nella fattispecie si presenta allora illegittimo il diniego opposto alla
ricorrente, la quale ha titolo all'ostensione degli atti istruttori posti a
fondamento dell’impugnata informativa, anche se resta incerto se e in quali
limiti quegli atti potrebbero venire in rilievo nel processo in corso,
dovendo il giudice chiamato a pronunciarsi sulla domanda di accesso
verificare unicamente la sussistenza dei presupposti legittimanti detta
istanza e non anche la rilevanza dei documenti richiesti rispetto
all’adozione del provvedimento impugnato e, quindi, al giudizio principale
pendente (compito riservato a quella sede);
-
che non si oppone, poi, all'accoglimento della domanda giudiziale la
circostanza che si tratterebbe di atti riguardanti un’indagine penale,
avendo la giurisprudenza chiarito che l'esistenza di un'indagine penale non
implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti
che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di
indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli
coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso (cfr.
TAR Puglia, Lecce, n. 2331/2014); soltanto gli atti di indagine compiuti
dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto
nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p.;
-
che, nella specie, l’amministrazione richiesta si è limitata ad opporre la
generica irrilevanza degli atti istruttori richiesti ai fini dell’adozione
dell’interdittiva impugnata e non la pendenza di un procedimento penale
ovvero la sussistenza del segreto istruttorio;
-
che l'art. 22, l. 07.08.1990, n. 241 estende il diritto di accesso agli
atti amministrativi ai "documenti amministrativi", in tal modo
comprendendovi tutti gli atti istruttori del procedimento, anche se non
provenienti dall'amministrazione, se sulla base di questi risulti essersi
formata la volontà dell'amministrazione medesima;
Considerato, in conclusione:
-
che va annullato il diniego opposto al ricorrente e quindi ordinata
all’amministrazione resistente l'esibizione degli atti oggetto della
richiesta di accesso del 28.03.2018;
-
che a tanto l'ente resistente provvederà entro trenta giorni dalla
comunicazione della presente decisione o dalla sua notificazione, se
anteriore, previa segnalazione con congruo preavviso del tempo e del luogo
stabiliti per l'esame e l'estrazione di copia della documentazione (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 24.05.2018 n. 1165 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aggiornamento al
05.12.2022 |
|
Abuso edilizio in condominio
su parti comuni:
l'ordinanza di demolizione deve essere notificata
esclusivamente nei confronti di tutti i singoli
condòmini comproprietari (e non dell'amministratore
pro-tempore). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Laddove
gli abusi edilizi rilevati risultino realizzati su parti comuni, l’ordinanza
di ripristino non può essere rivolta all’amministratore pro tempore
del condominio ma deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei
singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse.
Con riferimento alla disciplina previgente (rispetto
alla riforma recata dalla legge 11.12.2012, n. 220, Modifiche alla
disciplina del condominio negli edifici), era prevalente in giurisprudenza
la tesi della qualificazione del condominio come ente di gestione -che opera
in rappresentanza e nell'interesse comune dei partecipanti e limitatamente
all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei
diritti autonomi di ciascun condomino- privo di personalità giuridica.
Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza formatasi prima della novella del
2012, il condominio “non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti
e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i
servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini”.
La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha costantemente qualificato il
condominio “come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica
distinta da quella dei singoli condomini”.
---------------
L’avversata ordinanza di demolizione si rivela illegittima in quanto:
- ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti di proprietà
esclusiva, l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi abusivamente
modificati non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del
condominio, non risultando lo stesso qualificato come “responsabile
dell’abuso”;
- anche ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti
comuni, l’ordinanza di ripristino non poteva essere rivolta
all’amministratore pro tempore del condominio, atteso “che le parti comuni
dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli
condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato
sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei
singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011,
registrata al n. -OMISSIS- del 13.12.2011, notificata il 20.01.2012, con la
quale il dirigente del Dipartimento Attività Edilizie e Repressione
Abusivismo del Comune di Messina ha ordinato al ricorrente nella qualità di
provvedere, entro il termine di 90 giorni dalla notificazione dell’ordinanza
medesima, al ripristino quo-ante dello stato dei luoghi abusivamente
modificati, con l’avvertimento che, decorso infruttuosamente il predetto
termine, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le
vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a
quelle abusive, verranno acquisite di diritto al patrimonio comunale;
...
Il deducente avvocato -OMISSIS-, nella qualità di amministratore del
condominio dell’isolato 248 in via -OMISSIS-, Messina, ha sottoscritto per
la presentazione al Comune intimato una d.i.a., prot. n. -OMISSIS-
dell’01.12.2009, relativa al progetto per il restauro dell’organismo
architettonico dell’isolato che amministra.
Nel prescritto termine di legge -giorni trenta dalla presentazione- non è
pervenuto alcun provvedimento inibitorio dell’attività edilizia oggetto
della d.i.a. e, quindi, sono stati regolarmente intrapresi i lavori.
Successivamente, tra fine settembre ed inizio ottobre del 2011, sono stati
effettuati due accertamenti da parte dell’Ufficio tecnico comunale,
all’esito dei quali il Dipartimento Attività Edilizie e Repressione
Abusivismo, senza alcuna preliminare contestazione o comunicazione di avvio
del procedimento, ha adottato due distinte ordinanze repressive, aventi
entrambe per destinatario il predetto amministratore pro tempore, con
le quali, rispettivamente, gli si ordinava
- il pagamento di una sanzione pecuniaria di € 516,00 (ordinanza
prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011) per la realizzazione di opere abusive in
assenza di autorizzazione o d.i.a. nonché
- (ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011, in questa sede
impugnata) di procedere al ripristino dello stato dei luoghi, secondo il
Comune abusivamente modificati, per alcune “altre” opere, di
proprietà esclusiva di alcuni condomini, avvertendo che in caso di
inottemperanza il bene e l’area di sedime (non specificamente indicati)
nonché quella necessaria alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive sarebbero stati acquisiti al patrimonio comunale.
Il ricorrente ha contestato, con memoria trasmessa al Comune di Messina
l’01.03.2012, entrambi i provvedimenti, evidenziando che l’eventuale
pagamento della sanzione pecuniaria irrogata con la prima ordinanza
non avrebbe costituito, comunque, acquiescenza alle contestazioni mosse e
che, per la seconda ordinanza, non sussistevano le condizioni
l’applicazione della sanzione della rimessione in pristino e l’acquisizione
al patrimonio comunale e che, comunque, egli non poteva essere destinatario
di una tale ordinanza (riguardante pretesi abusi su immobili di proprietà
privati), chiedendone l’annullamento in autotutela ed avvertendo che, in
mancanza, si sarebbe visto costretto a proporre azione giurisdizionale.
Nel silenzio dell’Amministrazione comunale il deducente ha proposto l’azione
di annullamento.
...
2. Il ricorso merita di essere accolto, nei sensi e nei termini in appresso
specificati.
Con riferimento alla disciplina previgente (rispetto alla riforma recata
dalla legge 11.12.2012, n. 220, Modifiche alla disciplina del condominio
negli edifici), era prevalente in giurisprudenza la tesi della
qualificazione del condominio come ente di gestione -che opera in
rappresentanza e nell'interesse comune dei partecipanti e limitatamente
all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei
diritti autonomi di ciascun condomino- privo di personalità giuridica (cfr.
Cass. civ., sez. II, 03.04.2003, n. 5147; Cass. civ., sez. II, 09.06.2000,
n. 7891; Cass. civ., sez. II, 14.12.1993, n. 12304).
Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza formatasi prima della novella del
2012, il condominio “non è titolare di un patrimonio autonomo, né di
diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli
impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini”
(cfr. Cass. civ., Sez. Un., 08.04.2008, n. 9148).
La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha costantemente qualificato il
condominio “come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica
distinta da quella dei singoli condomini” (cfr., ex plurimis,
Cass. civ. sez. III, 16.05.2011, n. 10717; Cass. civ. sez. II, 26.03.2010,
n. 7300; Cass. civ. sez. III, 18.02.2010, n. 3900; Cass. civ. sez. II,
21.01.2010, n. 1011; Cass. civ., sez. trib., 07.12.2004, n. 22942;
l’orientamento giurisprudenziale in questione, peraltro, è stato più di
recente ribadito da, ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 06.10.2021, n.
27080; Cass. civ., sez. II, 26.09.2018, n. 22911; Cass. civ., sez. III,
31.10.2017, n. 25855).
Orbene, l’avversata ordinanza di demolizione ex art. 7 della legge
28.02.1985, n. 47 si rivela illegittima in quanto:
- ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti di proprietà
esclusiva, l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi abusivamente
modificati non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore
del condominio, non risultando lo stesso qualificato come “responsabile
dell’abuso”;
- anche ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti
comuni, l’ordinanza di ripristino non poteva essere rivolta
all’amministratore pro tempore del condominio, atteso “che le
parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma
dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire
l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente
nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle
stesse” (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 18.05.2022, n. 6276; cfr.
anche TAR Basilicata, sez. I, 14.01.2022, n. 14; TAR Campania, Napoli, sez.
VIII, 10.07.2020, n. 3005).
3. In conclusione, previo assorbimento delle restanti censure, il ricorso
merita di essere accolto per le ragioni sopra evidenziate con conseguente
annullamento dell’ordinanza impugnata (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 01.12.2022 n. 3130 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Affinché
un bene immobile abusivo possa legittimamente essere
oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale, ai sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, occorre che
il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i
comproprietari, al pari anche del provvedimento acquisitivo.
Ciò poiché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di
partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa
dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio nei riguardi
dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell'ordinanza
di demolizione, l'inottemperanza alla quale costituisce presupposto per
l'irrogazione della sanzione acquisitiva; nonché perché con la sanzione
dell'acquisizione si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già
titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (e cioè il fabbricato
e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui
necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio,
deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una
spoliazione solo pro quota.
...
Nel caso di specie, di tale
notifica, indirizzata a tutti i comproprietari, il Comune non ha offerto
prova. Si tratta, perciò, di valutare se possa ritenersi equipollente ad
essa la notifica indirizzata al condominio.
Sul punto, è già stato affermato che, secondo una consolidata
giurisprudenza, il condominio è un mero ente di gestione, privo di
personalità giuridica.
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche
introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla
disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo
attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha
comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria
personalità giuridica.
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono
di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto
consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni
deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini,
in quanto unici (com)proprietari delle stesse.
---------------
Con ricorso notificato il 19.07.2021 e tempestivamente depositato, i
ricorrenti, comproprietari del fondo sito presso il Comune di Ariccia, via
... n. 2/F, (fg 19, part. 343), hanno impugnato la determina comunale n. 472
del 2021, con la quale è stata disposta l’acquisizione al patrimonio
comunale del bene, a causa della inottemperanza all’ordine di demolizione n.
150 del 10.07.2015.
Quest’ultimo, a sua volta, era stato emesso a seguito di annullamento, da
parte del Comune, del permesso di costruire in sanatoria n. 13 del 2013, e
notificato al condominio di via ... n. 2F.
In seguito, con verbale del 03.05.2021, il Comune ha accertato
l’inottemperanza, e adottato, a causa di ciò, l’atto oggetto di ricorso.
Con un unico motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art.
31 del T.U. dell’edilizia e dell’art. 15 della legge regionale n. 15 del
2008, perché l’acquisizione al patrimonio pubblico del bene non è stata
preceduta da notifica ai comproprietari dell’ordine di demolizione.
In via preliminare, e superando l’eccezione di inammissibilità avanzata
dalla difesa comunale, va rimarcato che l’atto impugnato non si limita a dar
conto della inottemperanza all’ordine di demolizione, ma dispone
l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale. Esso è perciò senza
dubbio lesivo, con riferimento ad eventuali vizi suoi propri.
Inoltre, lo stesso Comune ammette di avere notificato l’ordine di
demolizione al solo amministratore del condominio.
Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito, in linea generale, che perché un
bene immobile abusivo possa legittimamente essere oggetto dell'ulteriore
sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al patrimonio comunale ai
sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, occorre che il presupposto ordine di
demolizione sia stato notificato a tutti i comproprietari, al pari anche del
provvedimento acquisitivo.
Ciò poiché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di
partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa
dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio nei riguardi
dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell'ordinanza
di demolizione, l'inottemperanza alla quale costituisce presupposto per
l'irrogazione della sanzione acquisitiva; nonché perché con la sanzione
dell'acquisizione si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già
titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (e cioè il fabbricato
e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui
necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio,
deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una
spoliazione solo pro quota (da ultimo, Tar Napoli, n. 4616 del 2021).
Nel caso di specie, di tale notifica, indirizzata a tutti i comproprietari,
il Comune non ha offerto prova, come si è visto. Si tratta, perciò, di
valutare se possa ritenersi equipollente ad essa la notifica indirizzata al
condominio.
Sul punto, è già stato affermato che, secondo una consolidata
giurisprudenza, il condominio è un mero ente di gestione, privo di
personalità giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288;
06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR Lombardia, Milano, II,
05.12.2016, n. 2302).
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche
introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla
disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo
attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha
comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria
personalità giuridica (Cass. civ., SS.UU., 18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono
di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto
consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni
deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini,
in quanto unici (com)proprietari delle stesse (Tar Napoli, n. 3005 del 2020;
Tar Milano, n. 1764 del 2019).
Né rileva in senso contrario la sentenza n. 4303 del 2011 di questo
Tribunale, che si limita a riconoscere all’amministratore la legittimazione
ad impugnare atti repressivi in ordine ad abusi commessi sulle parti comuni
dell’edificio, e non vale, perciò, a superare la necessità della notifica ad
ogni condomino dell’ordine di demolizione, nel caso in cui si intenda
dichiarare l’effetto ablativo della proprietà.
Infine, non è conferente l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990
richiamato dalla difesa comunale, atteso che non si è in presenza di un
vizio formale del procedimento, ma della carenza del presupposto stesso
perché possa operare la sanzione della acquisizione gratuita.
Di conseguenza, l’atto impugnato va annullato (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 18.05.2022 n. 6276 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, "Gli interventi e le opere
realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o
demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso".
Costituisce, inoltre, ius receptum che l'ordine di demolizione in questione
può essere adottato nei confronti dell’attuale proprietario, anche se non
responsabile dell'abuso edilizio, perché l'abuso costituisce illecito
permanente e tali misure hanno carattere ripristinatorio, né la loro
irrogazione esige l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si
imputa la realizzazione dell'abuso.
...
In specie, l’ordine impugnato è stato ingiunto (unicamente) nei confronti di
un soggetto (i.e. il condominio):
i) che non rientra in nessuna delle due esposte
categorie, dovendosi precisare al riguardo che il condominio costituisce un
mero ente di gestione, privo di personalità giuridica, spettando la
proprietà dei beni comuni ai singoli condomini;
ii) che, dunque, non può dirsi passivamente
legittimato rispetto all’ordine stesso. Ciò conclamando, secondo quanto già
statuito da condivisibile giurisprudenza, la sua illegittimità per
violazione dell’invocato paradigma normativo.
---------------
1. Con il ricorso in esame, depositato in data 07/12/2021, il Condominio
deducente (in persona del legale rappresentante pro tempore) ha
impugnato il provvedimento del Comune di Potenza, in epigrafe specificato,
recante l’ordine di demolizione di un manufatto abusivo ad esso afferente.
1.1. L’impugnazione è affidata a plurimi motivi, tra cui in particolare la
deduzione del difetto di legittimazione passiva della parte ricorrente.
...
4. Il ricorso è fondato nei sensi appresso specificati.
Coglie nel segno il primo motivo di impugnazione –con assorbimento di
ogni altra censura– atteso che:
- ai sensi dell'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, "Gli interventi
e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono
rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso".
Costituisce, inoltre, ius receptum che l'ordine di demolizione in
questione può essere adottato nei confronti dell’attuale proprietario, anche
se non responsabile dell'abuso edilizio, perché l'abuso costituisce illecito
permanente e tali misure hanno carattere ripristinatorio, né la loro
irrogazione esige l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si
imputa la realizzazione dell'abuso;
- in specie, l’ordine impugnato è stato ingiunto (unicamente) nei
confronti di un soggetto:
i) che non rientra in nessuna delle due esposte
categorie, dovendosi precisare al riguardo che il condominio costituisce un
mero ente di gestione, privo di personalità giuridica, spettando la
proprietà dei beni comuni ai singoli condomini (cfr. Cassazione civile, sez.
un., 18/09/2014, n. 19663);
ii) che, dunque, non può dirsi passivamente
legittimato rispetto all’ordine stesso. Ciò conclamando, secondo quanto già
statuito da condivisibile giurisprudenza (cfr. TAR Campania, sez. VIII,
10/07/2020, n. 3005; TAR Lombardia, sez. II, 29/07/2019 n. 1764; TAR
Campania, Salerno, sez. II, 29/11/2019, n. 2126), la sua illegittimità per
violazione dell’invocato paradigma normativo.
5. In conclusione, il ricorso merita accoglimento per le ragioni esposte e,
per l’effetto, va disposto l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR
Basilicata,
sentenza 14.01.2022 n. 14 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIO: L'ordinanza
di demolizione adottata nei confronti dell'amministratore del condominio è
illegittima poiché non risulta essere né proprietario del bene su cui gli
abusi sono stati commessi e neppure il responsabile degli stessi.
Invero, “…la misura volta a colpire l’abuso
realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei
confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle
stesse”.
---------------
... per l’annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 49/URB data
28.06.2019 emessa dal Comune di Roccapiemonte;
...
1. Con l’ordinanza di demolizione n. 49/URB del 01.07.2019, l’ente locale
indicato in epigrafe, constata la sussistenza di “variazioni del
perimetro dell’edificio, nonché modifica del prospetto e diversa
sistemazione esterna, comportanti una difformità plani-volumetrica rispetto
ai titoli edilizi rilasciati”, con riferimento all’edificio ubicato nel
medesimo Comune, in via ..., n. 104/106, ha ingiunto la demolizione delle
opere abusive.
L’ordinanza in questione è stata rivolta ai proprietari delle singole
porzioni immobiliari dell’edificio, alla società che ha presumibilmente
realizzato l’immobile e, infine, “all’amministratore del Condominio nella
persona di Al.Li. …”.
2. Contro questa ordinanza ha proposto ricorso proprio quest’ultimo
destinatario dell’ordine di demolizione, il quale, con il primo motivo, ha
dedotto il suo difetto di legittimazione passiva.
3. Si è costituito in giudizio il Comune intimato, il quale ha contestato il
ricorso ex adverso proposto, senza però argomentare alcunché circa la
censura appena riassunta.
4. All’udienza del 20.11.2019, constatata la completezza del contraddittorio
e degli altri presupposti di legge, il Collegio, previo avviso alle parti ai
sensi dell’art. 60 c.p.a., ha trattenuto la causa in decisione.
Ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n. 380 del 2001 “Il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di
interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero
con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge
al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi
del comma 3”.
La norma è chiara, nel suo dato testuale, nell’individuazione dei possibili
destinatari dell’ordine di demolizione, individuandoli nel proprietario del
bene sul quale è stata commessa la violazione edilizia e nel responsabile
della stessa, ove le due persone non coincidano.
Rispetto a tale inequivocabile dato normativo risulta alquanto inspiegabile
la ragione per la quale il Comune di Roccapiemonte abbia rivolto la sua
attività provvedimentale nei confronti di un soggetto che non rientra in
nessuna delle due categorie prese in considerazione dalla norma di legge. La
motivazione del provvedimento non chiarisce, infatti, la ragione di una
simile, improvvida iniziativa.
L’assunto appena esposto è confermato anche da alcuni precedenti del G.A.,
citati nel proprio ricorso dall’odierno ricorrente.
In particolare, il TAR Lombardia–Milano, sez. II, 29.07.2019 n. 1764 rileva
che “…la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni
deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini,
in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
5. Il provvedimento adottato risulta allora illegittimo in parte qua,
ossia nella misura in cui individua quale destinatario del comando anche
l’odierno ricorrente, che non risulta essere né proprietario del bene su cui
gli abusi sono stati commessi e neppure il responsabile degli stessi.
Conseguentemente, va accolto il primo motivo di ricorso, con
assorbimento delle altre ulteriori doglianze, e va disposto l’annullamento
del provvedimento, limitatamente all’interesse dell’odierno ricorrente (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 29.11.2019 n. 2126 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aggiornamento al
28.11.2022 |
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Questioni varie in materia di
fabbricati "diruti" o "ruderi" che dir si
voglia... |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di preesistente consistenza nella
ricostruzione di un rudere.
Secondo la concezione tradizionale, la
figura della “ristrutturazione edilizia”
presupponeva la preesistenza di un
fabbricato da ristrutturare provvisto di
murature perimetrali, strutture orizzontali
e copertura. Conseguentemente, era stata
sempre esclusa dalla giurisprudenza la
possibilità che la ricostruzione di un
rudere potesse ricondursi entro la nozione
di ristrutturazione, trattandosi, al
contrario, di un intervento del tutto nuovo.
Tuttavia il legislatore, con l’art. 30,
primo comma, del d.l. n. 69 del 2013
convertito con legge n. 98 del 2013, ha
profondamente innovato la disciplina
modificando l’art. 3, primo comma, lett. d),
del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale
stabilisce ora che nell’ambito degli
interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi <<…anche quelli volti al
ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti,
attraverso la loro ricostruzione, purché sia
possibile accertarne la preesistente
consistenza>>.
In sostanza, questa disposizione,
qualificando come interventi di
ristrutturazione edilizia anche quelli di
ricostruzione, consente di sostituire gli
immobili in precedenza andati distrutti con
nuovi edifici, e ciò anche nel caso in cui
gli strumenti urbanistici vigenti non
consentano la realizzazione di nuove
costruzioni. Si tutela in questo modo, non
solo l’interesse del privato, ma anche
l’interesse pubblico volto ad evitare la
permanenza di ruderi sul territorio.
Tuttavia, affinché la ricostruzione possa
qualificarsi come ristrutturazione, è
necessario che il nuovo edificio abbia le
stesse dimensioni di quello crollato. Questa
limitazione si ricava dall’ultima parte
della norma la quale, come visto, richiede
che sia possibile accertare la “preesistente
consistenza” dell’immobile.
...
Poiché, nel caso concreto, la richiesta di
rilascio del permesso di costruire
presentata dal ricorrente è stata respinta
proprio in quanto si è ritenuta non
dimostrata la preesistente consistenza
dell’immobile, per risolvere la controversia
in esame, occorre stabilire cosa si intenda
per “preesistente consistenza”, quale sia il
livello di precisione preteso dalla norma
con riguardo a tale elemento e in che modo
ne possa essere fornita la dimostrazione.
Per quanto riguarda il primo punto (nozione
di “preesistente consistenza”), possono
ritenersi condivisibili le conclusioni alle
quali è giunta la giurisprudenza secondo cui
gli interventi di ripristino di cui all’art.
3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380
del 2001 sono ammissibili a condizione che
siano determinabili le caratteristiche
essenziali dell’edificio preesistente (fra
cui volumetria, altezza, struttura
complessiva), con la conseguenza che anche
la mancanza di uno solo di questi elementi
determina l’insussistenza del requisito
previsto dalla norma. Parimenti
condivisibile risulta l’affermazione secondo
cui la verifica riguardante gli elementi
necessari per determinare la preesistente
consistenza non può essere rimessa ad
apprezzamenti meramente soggettivi o al
risultato di stime o calcoli effettuati su
dati parziali, ma deve invece basarsi su
dati certi, completi ed obiettivamente
apprezzabili..
Quando l’edificio crollato è stato
realizzato a seguito del rilascio di un
titolo edilizio, la preesistente consistenza
può essere facilmente dimostrata mediante la
produzione di quel titolo e della
documentazione progettuale ad esso allegata
nella quale sono riportate con precisione le
caratteristiche dimensionali del bene.
Il problema si pone però se, come nel caso
in esame, l’immobile sia stato edificato in
epoca antecedente all’anno 1967, quando la
realizzazione di nuove costruzioni non
presupponeva il rilascio di un titolo
edilizio, non essendo in questo caso
possibile disporre della suindicata
documentazione.
Ritiene il Collegio che, in queste
specifiche ipotesi, l’amministrazione non
possa pretendere la produzione di progetti
aventi data certa che dimostrino, con
assoluta precisione, tutte le
caratteristiche dimensionali dell’edificio
crollato, posto che questa pretesa
renderebbe di fatto inapplicabile la norma
di cui all’art. 3, primo comma, lett. d),
del d.P.R n. 380 del 2001 per gli immobili
edificati prima dell’anno 1967. Per questi
immobili, occorre quindi ammettere la
possibilità di fornire in modo diverso la
dimostrazione della preesistente
consistenza, producendo prove che
inevitabilmente non possiedono quel grado di
precisione che caratterizza la
documentazione progettuale, fermo restando
ovviamente che, anche in questo caso, la
prova deve comunque riguardare tutte le
caratteristiche essenziali dell’edificio
preesistente.
La possibilità di fornire prova diversa da
quella consistente nella documentazione
progettuale (e che inevitabilmente possiede
un minor grado di precisione rispetto a
quest’ultima) è del resto ammessa anche
dalla giurisprudenza sopra richiamata la
quale afferma che la prova della
preesistente consistenza può essere fornita
anche attraverso la produzione di
aerofotogrammetrie. Nello stesso senso è
orientata la giurisprudenza del giudice
amministrativo, il quale ammette che
l’accertamento della consistenza iniziale
del manufatto demolito o crollato può
fondarsi anche su documentazione
fotografica, aerofotogrammetrie e mappe
catastali, che consentano di delineare, con
un sufficiente grado di sicurezza, gli
elementi essenziali dell’edificio distrutto.
Ritiene il Collegio che, nell’apprezzamento
di queste diverse prove, l’Amministrazione
debba dare applicazione ai principi di buona
fede e proporzionalità, tenendo conto anche
delle caratteristiche dell’intervento che si
intende realizzare, nel senso che il livello
di precisione richiesto della prova fornita
deve essere proporzionale all’importanza di
tale intervento.
Da quanto illustrato discende che, se
l’immobile che si intende realizzare ha
dimensioni modeste e incide in maniera poco
significativa sul carico urbanistico, il
permesso di costruire deve essere rilasciato
quando dalla documentazione prodotta in sede
procedimentale emerga che il manufatto da
realizzare avrà sostanzialmente le stesse
dimensioni di quello andato distrutto, e ciò
anche nel caso in cui non sia possibile
risalire con estrema precisione a tutti i
dati dimensionali di quest’ultimo.
---------------
... per l'annullamento
- del provvedimento di Diniego al Permesso di Costruire del 13.11.2017, a firma del Capo Settore
Sviluppo del Territorio arch. Da.La., con cui il Comune di Biassono si
pronunciava negativamente sull'istanza
avanzata dal ricorrente per ottenere un
titolo per la ricostruzione del fabbricato
(piccolo magazzino) di sua proprietà, sito
in -OMISSIS-, parzialmente crollato a
seguito di un evento meteorologico
(nevicata) verificatosi nel 1985;
- se di necessità, del preavviso di diniego del 16.10.2017 (prot.
18217), a firma del Capo Ufficio Servizio
Edilizia Privata arch. Gi.Bo.;
- della nota datata 20.12.2017 con cui il Comune respingeva
l'istanza di riesame in autotutela del
diniego opposto;
- di ogni altro atto presupposto, antecedente, consequenziale e
connesso a quelli che precedono.
...
Con il primo motivo di ricorso,
l’interessato –dopo aver rilevato che la
sua istanza è stata respinta in quanto,
secondo quanto riportato nel provvedimento,
non sarebbe stata fornita la prova della
reale consistenza dell’edificio crollato–
sostiene che l’Amministrazione avrebbe
errato nel ritenere che gli interventi di
ristrutturazione edilizia da effettuarsi ai
sensi dell’art. 3, lett. d), del d.P.R. n.
380 del 2001 siano ammessi solo nel caso in
cui siano state provate con estrema
esattezza tutte le misure dell’immobile
andato distrutto.
Aggiunge la parte che, nel
corso del procedimento, sarebbero stati
peraltro forniti alla stessa Amministrazione
tutti gli elementi disponibili (fra cui
anche una dichiarazione sostitutiva di atto
di notorietà ed una aerofotogrammetria
risalente all’anno 1973) che, a suo dire,
sarebbero sufficienti per determinare le
reali dimensioni dell’edificio crollato, e
ciò anche considerando che l’immobile
sarebbe stato realizzato prima dell’anno
1967, quando non vi era la necessità di
conseguire titoli edilizi, e che per questa
ragione non esisterebbero attualmente i
progetti da cui ricavarne con estrema
precisione le esatte misure.
Queste censure sono riprese e sviluppate nel
secondo motivo di ricorso, con il quale
parte ricorrente sostiene ancora,
richiamando alcuni precedenti
giurisprudenziali, che l’aerofotogrammetria
costituirebbe documento sufficiente per
ricavare le dimensioni dell’edificio
crollato, tanto più che il rilievo aerofotogrammetrico del territorio comunale
sarebbe stato effettuato su incarico
all’epoca conferito dallo stesso Comune di
Biassono. La decisione assunta dalla
pubblica amministrazione sarebbe quindi
contraria al principio di collaborazione con
il privato cittadino, non avendo il
provvedimento di diniego neppure illustrato
le ragioni che hanno indotto il Comune a
considerare non rilevanti gli elementi
probatori prodotti in fase procedimentale
dal ricorrente.
Ritiene il Collegio che queste censure siano
fondate per le ragioni di seguito esposte.
Secondo la concezione tradizionale, la
figura della “ristrutturazione edilizia”
presupponeva la preesistenza di un
fabbricato da ristrutturare provvisto di
murature perimetrali, strutture orizzontali
e copertura. Conseguentemente, era stata
sempre esclusa dalla giurisprudenza la
possibilità che la ricostruzione di un
rudere potesse ricondursi entro la nozione
di ristrutturazione, trattandosi, al
contrario, di un intervento del tutto nuovo.
Tuttavia il legislatore, con l’art. 30,
primo comma, del d.l. n. 69 del 2013
convertito con legge n. 98 del 2013, ha
profondamente innovato la disciplina
modificando l’art. 3, primo comma, lett. d),
del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale
stabilisce ora che nell’ambito degli
interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi <<…anche quelli volti al
ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti,
attraverso la loro ricostruzione, purché sia
possibile accertarne la preesistente
consistenza>>.
In sostanza, questa disposizione,
qualificando come interventi di
ristrutturazione edilizia anche quelli di
ricostruzione, consente di sostituire gli
immobili in precedenza andati distrutti con
nuovi edifici, e ciò anche nel caso in cui
gli strumenti urbanistici vigenti non
consentano la realizzazione di nuove
costruzioni. Si tutela in questo modo, non
solo l’interesse del privato, ma anche
l’interesse pubblico volto ad evitare la
permanenza di ruderi sul territorio.
Tuttavia, affinché la ricostruzione possa
qualificarsi come ristrutturazione, è
necessario che il nuovo edificio abbia le
stesse dimensioni di quello crollato. Questa
limitazione si ricava dall’ultima parte
della norma la quale, come visto, richiede
che sia possibile accertare la “preesistente
consistenza” dell’immobile.
Poiché, nel caso concreto, la richiesta di
rilascio del permesso di costruire
presentata dal ricorrente è stata respinta
proprio in quanto si è ritenuta non
dimostrata la preesistente consistenza
dell’immobile, per risolvere la controversia
in esame, occorre stabilire cosa si intenda
per “preesistente consistenza”, quale sia il
livello di precisione preteso dalla norma
con riguardo a tale elemento e in che modo
ne possa essere fornita la dimostrazione.
Per quanto riguarda il primo punto (nozione
di “preesistente consistenza”), possono
ritenersi condivisibili le conclusioni alle
quali è giunta la giurisprudenza secondo cui
gli interventi di ripristino di cui all’art.
3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380
del 2001 sono ammissibili a condizione che
siano determinabili le caratteristiche
essenziali dell’edificio preesistente (fra
cui volumetria, altezza, struttura
complessiva), con la conseguenza che anche
la mancanza di uno solo di questi elementi
determina l’insussistenza del requisito
previsto dalla norma. Parimenti
condivisibile risulta l’affermazione secondo
cui la verifica riguardante gli elementi
necessari per determinare la preesistente
consistenza non può essere rimessa ad
apprezzamenti meramente soggettivi o al
risultato di stime o calcoli effettuati su
dati parziali, ma deve invece basarsi su
dati certi, completi ed obiettivamente
apprezzabili (cfr. Cass. pen. Sez. III, 28.04.2020, n. 13148; id.,
08.10.2015,
n. 45147).
Quando l’edificio crollato è stato
realizzato a seguito del rilascio di un
titolo edilizio, la preesistente consistenza
può essere facilmente dimostrata mediante la
produzione di quel titolo e della
documentazione progettuale ad esso allegata
nella quale sono riportate con precisione le
caratteristiche dimensionali del bene.
Il problema si pone però se, come nel caso
in esame, l’immobile sia stato edificato in
epoca antecedente all’anno 1967, quando la
realizzazione di nuove costruzioni non
presupponeva il rilascio di un titolo
edilizio, non essendo in questo caso
possibile disporre della suindicata
documentazione.
Ritiene il Collegio che, in queste
specifiche ipotesi, l’amministrazione non
possa pretendere la produzione di progetti
aventi data certa che dimostrino, con
assoluta precisione, tutte le
caratteristiche dimensionali dell’edificio
crollato, posto che questa pretesa
renderebbe di fatto inapplicabile la norma
di cui all’art. 3, primo comma, lett. d), del
d.P.R n. 380 del 2001 per gli immobili
edificati prima dell’anno 1967. Per questi
immobili, occorre quindi ammettere la
possibilità di fornire in modo diverso la
dimostrazione della preesistente
consistenza, producendo prove che
inevitabilmente non possiedono quel grado di
precisione che caratterizza la
documentazione progettuale, fermo restando
ovviamente che, anche in questo caso, la
prova deve comunque riguardare tutte le
caratteristiche essenziali dell’edificio
preesistente.
La possibilità di fornire prova diversa da
quella consistente nella documentazione
progettuale (e che inevitabilmente possiede
un minor grado di precisione rispetto a
quest’ultima) è del resto ammessa anche
dalla giurisprudenza sopra richiamata la
quale afferma che la prova della
preesistente consistenza può essere fornita
anche attraverso la produzione di
aerofotogrammetrie (cfr. Cass. pen. Sent. n.
45147 del 2015 cit.). Nello stesso senso è
orientata la giurisprudenza del giudice
amministrativo, il quale ammette che
l’accertamento della consistenza iniziale
del manufatto demolito o crollato può
fondarsi anche su documentazione
fotografica, aerofotogrammetrie e mappe
catastali, che consentano di delineare, con
un sufficiente grado di sicurezza, gli
elementi essenziali dell’edificio distrutto
(in tal senso, cfr. TAR Lombardia-Brescia, sez. I,
06.07.2020, n. 517;
TAR Campania-Napoli, sez. II, 23.12.2019, n. 6098; TAR Liguria, sez. I, 11.06.2020, n. 364).
Ritiene il Collegio che, nell’apprezzamento
di queste diverse prove, l’Amministrazione
debba dare applicazione ai principi di buona
fede e proporzionalità, tenendo conto anche
delle caratteristiche dell’intervento che si
intende realizzare, nel senso che il livello
di precisione richiesto della prova fornita
deve essere proporzionale all’importanza di
tale intervento.
Da quanto illustrato discende che, se
l’immobile che si intende realizzare ha
dimensioni modeste e incide in maniera poco
significativa sul carico urbanistico, il
permesso di costruire deve essere rilasciato
quando dalla documentazione prodotta in sede
procedimentale emerga che il manufatto da
realizzare avrà sostanzialmente le stesse
dimensioni di quello andato distrutto, e ciò
anche nel caso in cui non sia possibile
risalire con estrema precisione a tutti i
dati dimensionali di quest’ultimo.
Venendo ora al caso concreto, va osservato
che dalle foto prodotte in sede
procedimentale si evince che, nell’area dove
si intende realizzare l’intervento, sono
ancora presenti i ruderi di alcuni muri
perimetrali e di alcune colonne di sostegno
della copertura dell’immobile crollato. In
quella sede è stata inoltre prodotta una
aerofotogrammetria, da cui è possibile
ricavare che l’immobile distrutto era un
modesto edificio, avente altezza simile a
quella degli immobili adiacenti. Dal rilievo
fotogrammetrico è altresì possibile ricavare
la pendenza delle falde del tetto (cfr. doc.
4 di parte ricorrente).
L’Amministrazione, nel provvedimento
impugnato, non spiega le ragioni per le
quali si è ritenuto che la documentazione
prodotta in sede procedimentale dal
ricorrente non sia utile alla prova della
preesistente consistenza del manufatto. Solo
nelle memorie difensive, il Comune di
Biassono ha precisato che ciò si è
considerato dirimente ai fini del rigetto
dell’istanza è stata la mancata
dimostrazione dell’altezza. Anche nelle
memorie, tuttavia, non si precisano le
ragioni per la quali si è ritenuto che la
documentazione prodotta dal ricorrente non
sia idonea a dimostrare l’altezza del
fabbricato crollato. Queste mancanze
sarebbero già sufficienti per dichiarare
l’illegittimità del provvedimento.
In ogni caso, il Collegio deve osservare che
–poiché il fabbricato che si intende
ricostruire è stato realizzato in epoca
risalente, prima che vi fosse la necessità
di ottenimento del titolo edilizio– non è
possibile pretendere la prova assolutamente
esatta dei suoi dati dimensionali, fra cui
l’altezza, per affermare l’applicabilità
dell’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Ciò che si sarebbe dovuto infatti
verificare, anche considerando lo scarso
rilievo dimensionale del fabbricato e la sua
concreta destinazione (magazzino), è se il
privato, con la documentazione depositata
nel procedimento, abbia dimostrato di voler
realizzare un immobile avente un’altezza
che, in sostanza, non si discosta da quella
del bene distrutto così come ricavabile
dagli elementi a disposizione (altezza delle
colonne di sostegno della copertura, rilievo
fotogrammetrico, ecc…).
Per queste ragioni deve essere ribadita la
fondatezza delle censure in esame. Il
ricorso va pertanto accolto con conseguente
annullamento degli atti impugnati
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 18.11.2022 n. 2566 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Si
discute di un rudere ubicato su un’area
sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004.
Nel caso di specie, ritiene il Collegio che, in primo luogo non si sia
in presenza di un edificio “esistente”, e che, in ogni caso, l’intervento
progettato dai ricorrenti non costituisca “ristrutturazione edilizia”, ma
“nuova costruzione”, come giustamente ritenuto dall’Amministrazione
esistente.
Intanto, appunto, manca un edificio “esistente” da
ristrutturare. Certamente è esistito sull’area in questione un edificio in
epoca remota, attestato dalla sua iscrizione nel Catasto Napoleonico
(1811–1853) e successivamente nel Catasto Lombardo–Veneto (1854–1886); ma
già nel cessato Catasto (1887–1904) l’immobile perde la sua identificazione
strutturale e catastale precedentemente abbinata alla particella n. 1875 (“edificio
con corte di pertinenza di mq 290 di superficie”) e nel Nuovo Catasto
(dal 1905 in poi) viene depennato come fabbricato e incorporato con la
relativa area di pertinenza nella particella n. 1877 del Catasto Terreni.
In effetti, come attestato dalla documentazione (anche fotografica) in atti,
il rudere in questione si riduce a tracce della preesistente muratura
perimetrale, ormai inglobate da decenni all’interno della vegetazione
arborea che ha completamente colonizzato l’area.
Manca, quindi, il presupposto previsto dall’art. 12.5 del P.T.C. (“edificio
esistente”) affinché si possa persino ipotizzare un intervento di
ristrutturazione.
Peraltro, è noto che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del dlgs 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di ristrutturazione edilizia e quelli di
ripristino di edifici crollati o demoliti (come nel caso di specie) sono
ammissibili “soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente”.
Così disponeva, infatti, l’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. 380/2021
nel testo in vigore alla data di adozione del provvedimento impugnato (“Rimane
fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del
dlgs 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli
interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di
edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione
edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente;”).
La norma è stata mantenuta e anzi resa ancora più stringente nella nuova
formulazione introdotta dall'art. 10, comma 1, lett. b), n. 2), D.L.
16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.09.2020, n.
120, il quale ha previsto che, “con riferimento agli immobili sottoposti
a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al
dlgs 22.01.2004, n. 42, nonché a quelli ubicati nelle zone
omogenee A, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi
di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio
preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.
...
Nel caso di specie, appare oggettivamente impossibile desumere dal rudere
attualmente esistente quale fosse la consistenza volumetrica dell’edificio
preesistente e, soprattutto, quale fosse la sua sagoma la quale, come detto, in ambito vincolato costituisce un
parametro inderogabile da rispettare in sede di ristrutturazione edilizia e
di ripristino di immobili demoliti o crollati.
Invero, per sagoma di intende “la conformazione planovolumetrica della
costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale,
così che le sole aperture che non prevedano superfici sporgenti vanno
escluse dalla nozione stessa di sagoma”; in sostanza, la sagoma indica la forma della
costruzione complessivamente intesa, ovvero il contorno che assume
l'edificio.
In tale contesto, la valutazione effettuata dall’Ente Parco circa la configurabilità, nel caso di specie, di una “nuova costruzione”
(vietata) e non di una “ristrutturazione edilizia” (consentita)
appare corretta e immune dalle censure di parte ricorrente.
Sicché, in definitiva, in mancanza di documentazione probatoria idonea ad attestare sia la
consistenza volumetrica originaria dell’edificio preesistente e sia
soprattutto la sagoma dell’edificio preesistente, correttamente è stata
esclusa, alla luce delle norme applicate, l’assentitibilità di un intervento
di “ristrutturazione edilizia” all’interno del contesto vincolato per
cui è causa, trattandosi di un intervento di “nuova costruzione”
espressamente vietato dallo strumento urbanistico attuativo del Parco.
---------------
... per l'annullamento:
- del provvedimento di diniego n. 365 Prot. del 06.02.2019, con il
quale il Parco dei Colli ha rigettato l'istanza per l'ottenimento di decreto
di conformità al Piano di Coordinamento del Parco e conseguente
autorizzazione paesaggistica di intervento di ristrutturazione di edificio
di antica formazione ai sensi dell'art. 146 del D.lgs. n. 42/2004;
- di ogni altro atto presupposto, consequenziale e comunque
connesso, nonché, di eventuali atti medio tempore intervenuti e non
conosciuti.
...
1. Con il primo motivo, la parte ricorrente ha dedotto vizi di “Violazione
e/o falsa applicazione delle Norme Tecniche di Attuazione al Piano delle
Regole - Capo II – Definizioni Urbanistiche – 2.1 parametri edificatori -
del Piano di Gestione del Territorio del Comune di Ponteranica; dell’art.
12, comma 3 e 5, L.R. 8/1991 - Norme Tecniche di Attuazione del Piano di
Coordinamento del Parco dei Colli di Bergamo; dell’art. 146 comma del D.lgs.
n. 42/2004; Contraddittorietà tra più atti. Eccesso di potere per
travisamento ed erronea valutazione dei fatti”:
- il provvedimento impugnato ed il presupposto parere della
Commissione per il Paesaggio sarebbero illegittimi nella parte in cui hanno
ritenuto non assentibile l’intervento di ristrutturazione edilizia proposto
dai ricorrenti sul presupposto che, allo stato, sarebbe impossibile la
verifica della sagoma dell’edificio originario, di modo che l’intervento
costituirebbe una “nuova costruzione”, non ammissibile in zona ex
art. 12, comma 3, delle TTA del PTC del Parco;
- tali valutazioni sarebbero erronee e illegittime perché in
contrasto con le opposte considerazioni formulate dal Comune di Ponteranica
nella nota del 09.01.2018, con la quale è stata accertata la “precedente
esistenza del fabbricato e l’esatta identificazione planivolumetrica”,
sulla scorta della documentazione storico-fotografica allegata dai
richiedenti alla propria istanza;
- nel formulare tali valutazioni, il Comune di Ponteranica ha fatto
applicazione del punto V dell’art. 2.1. delle NTA del proprio PGT (in
materia di “Volume degli edifici (mc)”, laddove si prevede che “Il
volume degli edifici di antica formazione divenuti ruderi, dovrà essere
dimostrato attraverso il rinvenimento delle murature perimetrali ancora
esistenti, nonché da documentazione probatoria (accatastamenti, fotografie,
relazioni storiche) attestante la consistenza planivolumetrica e la
destinazione d’uso preesistente.”;
- il provvedimento impugnato sarebbe pertanto in contrasto con la
normativa applicata dal Comune di Ponteranica, in forza della quale quest’ultimo
ha riconosciuto l’esistenza planivolumetrica delle rimanenze edilizie del
vecchio Borgo di Rosciano e la facoltà per i ricorrenti di attuarne la
ristrutturazione edilizia;
- in definitiva, l’intervento richiesto dai ricorrenti avrebbe
dovuto essere assentito ai sensi dell’art. 12, comma 5, delle NTA del PTC
del Parco (L.R. 8/1991), il quale ammette gli interventi di ristrutturazione
edilizia degli edifici esistenti.
La censura, osserva il Collegio, non può essere condivisa.
1.1. Si discute di un rudere ubicato su un’area di proprietà dei ricorrenti
ricompresa all’interno del perimetro del Parco dei Colli di Bergamo e
sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004. In
particolare, l’area in questione è inclusa nella Zona C 1 “zona a parco
agricolo forestale”, disciplinata dall’art. 12 delle Norme Tecniche di
Attuazione del P.T.C. del Parco dei Colli di Bergamo (approvato con L.R.
13.04.1991 n. 8). Tale norma prevede che nella zona a parco
agricolo-forestale (C1) “sono vietate le nuove costruzioni” (art.
12.1); sono invece consentiti, previo parere del consorzio, gli interventi
–tra l’altro– di “ristrutturazione edilizia (…) degli edifici esistenti”
(art. 12.5).
1.2. Nel caso di specie, ritiene il Collegio che, in primo luogo non si sia
in presenza di un edificio “esistente”, e che, in ogni caso, l’intervento
progettato dai ricorrenti non costituisca “ristrutturazione edilizia”, ma
“nuova costruzione”, come giustamente ritenuto dall’Amministrazione
esistente.
1.3. Intanto, appunto, manca un edificio “esistente” da
ristrutturare. Certamente è esistito sull’area in questione un edificio in
epoca remota, attestato dalla sua iscrizione nel Catasto Napoleonico
(1811–1853) e successivamente nel Catasto Lombardo–Veneto (1854–1886); ma
già nel cessato Catasto (1887–1904) l’immobile perde la sua identificazione
strutturale e catastale precedentemente abbinata alla particella n. 1875 (“edificio
con corte di pertinenza di mq 290 di superficie”) e nel Nuovo Catasto
(dal 1905 in poi) viene depennato come fabbricato e incorporato con la
relativa area di pertinenza nella particella n. 1877 del Catasto Terreni.
In effetti, come attestato dalla documentazione (anche fotografica) in atti,
il rudere in questione si riduce a tracce della preesistente muratura
perimetrale, ormai inglobate da decenni all’interno della vegetazione
arborea che ha completamente colonizzato l’area.
Manca, quindi, il presupposto previsto dall’art. 12.5 del P.T.C. (“edificio
esistente”) affinché si possa persino ipotizzare un intervento di
ristrutturazione.
1.4. Peraltro, è noto che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di ristrutturazione edilizia e quelli di
ripristino di edifici crollati o demoliti (come nel caso di specie) sono
ammissibili “soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente”.
Così disponeva, infatti, l’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. 380/2021
nel testo in vigore alla data di adozione del provvedimento impugnato (“Rimane
fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli
interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di
edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione
edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente;”).
La norma è stata mantenuta e anzi resa ancora più stringente nella nuova
formulazione introdotta dall'art. 10, comma 1, lett. b), n. 2), D.L.
16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.09.2020, n.
120, il quale ha previsto che, “con riferimento agli immobili sottoposti
a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, nonché a quelli ubicati nelle zone
omogenee A, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi
di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di
ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio
preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.
1.5. Nel caso di specie, appare oggettivamente impossibile desumere dal
rudere attualmente esistente quale fosse la consistenza volumetrica
dell’edificio preesistente e, soprattutto, quale fosse la sua sagoma.
1.6. Sulla consistenza volumetrica dell’edificio preesistente il parere
preventivo reso dal Responsabile dell’Area tecnica del Comune di Ponteranica
nella fase istruttoria del procedimento de quo perviene a conclusioni
meramente congetturali, laddove ritiene di potere risalire alla consistenza
volumetrica del fabbricato originario assumendo come parametri di
riferimento la superficie del fabbricato desumibile dalle tracce perimetrali
dell’attuale rudere, e un’altezza “virtuale” pari a 3 metri, “non
essendo dimostrabile la consistenza dei piani e quindi l’altezza”.
1.7. Ma se già questa valutazione deduttiva e congetturale appare alquanto
opinabile, è oggettiva e indiscutibile l’impossibilità di desumere
dall’attuale stato del rudere quale fosse la sagoma dell’edificio
preesistente, la quale, come detto, in ambito vincolato, costituisce un
parametro inderogabile da rispettare in sede di ristrutturazione edilizia e
di ripristino di immobili demoliti o crollati.
Per sagoma di intende “la conformazione planovolumetrica della
costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale,
così che le sole aperture che non prevedano superfici sporgenti vanno
escluse dalla nozione stessa di sagoma” (Cassazione penale, sez. III,
20/05/2015, n. 20846); in sostanza, la sagoma indica la forma della
costruzione complessivamente intesa, ovvero il contorno che assume
l'edificio.
Nel caso di specie, della sagoma originaria non vi è traccia nella
documentazione in atti, sia nella progettazione di parte ricorrente sia
nelle –pur benevoli– valutazioni del tecnico comunale.
1.8. In tale contesto, la valutazione effettuata dall’Ente Parco circa la
configurabilità, nel caso di specie, di una “nuova costruzione”
(vietata) e non di una “ristrutturazione edilizia” (consentita)
appare corretta e immune dalle censure di parte ricorrente.
1.9. Né si rinviene alcun contrasto tra il diniego espresso dall’Ente Parco
e il parere favorevole espresso dal tecnico del Comune di Ponteranica,
tenuto conto:
- che nella valutazione della sussistenza dei presupposti per il
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica all’interno del proprio
territorio, l’Ente Parco è tenuto ad applicare le previsioni del proprio
strumento urbanistico, e non è condizionata dalle valutazioni -eventualmente
diverse- svolte al riguardo da altri enti con riguardo ad altri piani o
strumenti regolatori;
- che lo stesso tecnico comunale, nel ritenere la “coerenza”
del progetto di ristrutturazione rispetto allo strumento urbanistico
comunale, ha comunque richiamato espressamente la necessità del rispetto
delle norme urbanistiche e ambientali sovraordinate del “superiore PTC
Parco”, e quindi dell’”ottenimento dell’atto amministrativo (Decreto)
di compatibilità per la ricostruzione del rudere, allo stesso PTC Parco (…)
rilasciato dall’Ente parco preposto”;
- che in ogni caso, il provvedimento dell’Ente Parco appare
coerente anche con le previsioni della strumentazione urbanistica del Comune
di Ponteranica, tenuto conto che quest’ultima prevede che la volumetria degli
edifici di antica formazione divenuti ruderi possa essere desunta in via
deduttiva in presenza di due condizioni, entrambe insussistenti nella specie
in esame, vale a dire:
1) murature perimetrali ancora esistenti;
2) documentazione probatoria (quali accatastamenti, fotografie, relazioni
storiche) attestante la consistenza planovolumetrica e la destinazione d’uso
preesistente; nel caso di specie, della muratura perimetrale restano solo
tracce sparute e inglobate da vegetazione ultradecennale, e soprattutto
manca del tutto documentazione probatoria relativa alla preesistente
consistenza volumetrica del fabbricato, tanto che lo stesso tecnico comunale
l’ha dovuta dedurre in via meramente congetturale.
1.10 In definitiva, alle stregua di tali considerazioni, ritiene il Collegio
che, in mancanza di documentazione probatoria idonea ad attestare sia la
consistenza volumetrica originaria dell’edificio preesistente e sia
soprattutto la sagoma dell’edificio preesistente, correttamente sia stata
esclusa, alla luce delle norme applicate, l’assentitibilità di un intervento
di “ristrutturazione edilizia” all’interno del contesto vincolato per
cui è causa, trattandosi di un intervento di “nuova costruzione”
espressamente vietato dallo strumento urbanistico attuativo del Parco.
1.11. D’altra parte, la semplice visione dei rendering
tridimensionali del progetto di parte ricorrente (doc. 7, pag. 20) induce a
dubitare fortemente che l’edificio in progetto costituisca la “riproduzione
fedele della casa colonica così come appariva fini dai primi anni dell’’800”.
La censura in esame va quindi disattesa (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 02.11.2022 n. 1068 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittimo il diniego della richiesta "ristrutturazione edilizia"
circa la ricostruzione di un immobile diruto poiché materialmente non
possibile determinarne, con certezza, l’ingombro planivolumetrico ed il sedime.
La disciplina regionale, in accordo con quanto previsto
dal Legislatore nazionale, estende il concetto di ristrutturazione
edilizia all'ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si
rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza
originaria con un'indagine tecnica.
La giurisprudenza ha chiarito che l'accertamento della consistenza iniziale
del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi,
quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe
catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di
sicurezza, gli elementi essenziali dell'edificio diruto.
E’ necessario e sufficiente, quindi, per qualificare l’intervento come
ristrutturazione edilizia, che l’originaria consistenza dell’edificio
sia individuabile sulla base di riscontri documentali o altri elementi certi
e verificabili; ove, invece non sia possibile l’individuazione certa dei
connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture
orizzontali e copertura) attesa la mancanza di elementi sufficienti a
testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare,
scatta la qualificazione dell’intervento di ricostruzione come nuova
edificazione.
---------------
Secondo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato
già richiamato, «affinché si possa configurare un intervento di
ristrutturazione edilizia –che oggi (a seguito delle modifiche all'art.
3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001 apportate dal d.l. 69/2013, conv.
con l. 98/2013), ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione– è necessario che sia possibile accertare l’originaria
consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere
esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un
rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizia “nel caso in cui
manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le
caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto
costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in
cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di
copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come
edificio allo stato esistente”».
---------------
Come già rammentato, il discrimine perché possa
parlarsi di ristrutturazione edilizia e non di nuova costruzione
–ad eccezione delle ipotesi di premialità contemplate all’art. 3, comma 1,
lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001– è da rintracciarsi proprio il rispetto
delle preesistenti volumetrie.
Ciò, del resto, in linea con gli arresti giurisprudenziali per i quali la
ristrutturazione edilizia «presuppone come elemento indispensabile la
preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche
planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole
ricostruire; non è sufficiente quindi che si dimostri che un immobile in
parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri
oltre all'an anche il quantum e cioè l'esatta consistenza dell'immobile
preesistente del quale si chiede la ricostruzione; occorre, quindi, la
possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla
ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che,
seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere
comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità
strutturale, in relazione anche alla sua destinazione».
Altresì, «spetta
alla parte richiedente provare la preesistenza del fabbricato, le sue esatte
dimensioni e sagoma. I ruderi del preesistente fabbricato, poi, devono
essere idonei a consentire l’esatta configurazione di ciò che si asserisce
era già esistente, dovendosi in caso contrario parlare di nuova
costruzione … è quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di
un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia
nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e
le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto
costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in
cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di
copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come
edificio allo stato esistente. In mancanza di elementi strutturali non è
infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i
ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata».
---------------
3. E’ controversa la legittimità del diniego opposto dal Comune di Città
della Pieve all’istanza proposta dal sig. Le. per il rilascio di un permesso
di costruire per opere di ristrutturazione edilizia consistenti nella «ricostruzione
di un edificio con la medesima sagoma e volumetria dell’esistente» (così
nella Relazione tecnica, doc. 10 di parte ricorrente), ai sensi dell’art. 7,
comma 1, lett. d), della l.r. n. 1 del 2015.
L’odierno ricorrente, che ha acquistato il complesso immobiliare nel 2012,
ha chiesto al Comune di Città della Pieve la ricostruzione di un manufatto
non più esistente –già dalla data dell’acquisto, considerato che dal 2007
l’area è accatastata quale “prato”– producendo la documentazione
richiamata in fatto a riprova della preesistenza dello stesso e della sua
consistenza.
L’Amministrazione comunale ha negato il rilascio del permesso di costruire
in quanto: «la documentazione progettuale allegata all’istanza contiene
una ricostruzione planimetria dell’ingombro a terra del preesistente
edificio basata sulla materializzazione di coordinate topografiche fornite
dall’Agenzia del Territorio, Ufficio Provinciale di Perugia e da
rinvenimenti di alcuni “tratti di fondazione in loco, mentre la
ricostruzione delle parti in elevazione è stata desunta esclusivamente dalla
documentazione fotografica allegata alle precedenti pratiche edilizie
depositate agli atti di questo Ufficio Tecnico e da una foto aerea risalente
al volo del 17.10.1984 … pertanto … sulla scorta della documentazione
allegata all’istanza, la ricostruzione dell’ingombro volumetrico del
fabbricato indicata nelle tavole grafiche progettuali sia stata eseguita
sulla base di elementi che non dimostrino inequivocabilmente ed
oggettivamente la preesistente consistenza del fabbricato».
Di conseguenza, l’intervento proposto è stato ritenuto non conforme alla
vigente normativa in quanto non qualificabile come “ristrutturazione
edilizia”.
4. I primi due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente e si
presentano infondati, anche alla luce delle risultanze della verificazione
disposta dal Collegio, per quanto di seguito esposto.
4.1. Giova rammentare che ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. d), della
l.r. n. 1 del 2015 (nel testo vigente ratione temporis), negli
interventi di “ristrutturazione edilizia” sono altresì ricompresi «quelli
volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o
demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne
la preesistente consistenza».
La previsione normativa riprende la definizione di cui all’art. 3, comma 1,
lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, per cui «[c]ostituiscono inoltre
ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza».
Pertanto la disciplina regionale, in accordo con quanto previsto dal
Legislatore nazionale, estende il concetto di ristrutturazione all'ipotesi
di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio
e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un'indagine
tecnica (in tal senso cfr., ex multis, C.d.S., sez. VI, 03.10.2019,
n. 6654; TAR Toscana, sez. III, 26.05.2020, n. 631); la giurisprudenza ha
chiarito che l'accertamento della consistenza iniziale del manufatto
demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad
esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali,
che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli
elementi essenziali dell'edificio diruto (in tal senso cfr. TAR Campania,
Napoli, sez. II, 23.12.2019, n. 6098; TAR Liguria, 11.06.2020, n. 364; Cass. pen., sez. III, 28.04.2020, n. 13148).
E’ necessario e sufficiente, quindi, per qualificare l’intervento come
ristrutturazione, che l’originaria consistenza dell’edificio sia
individuabile sulla base di riscontri documentali o altri elementi certi e
verificabili (Cass. pen, sez. III, 25.06.2015, n. 26713; Cass. pen., sez.
III, 30.09.2014, n. 40342); ove, invece non sia possibile l’individuazione
certa dei connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali,
strutture orizzontali e copertura) attesa la mancanza di elementi
sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio
da recuperare, scatta la qualificazione dell’intervento di ricostruzione
come nuova edificazione (cfr. C.d.S., sez. IV, 17.09.2019, n. 6188; Id.
21.10.2014, n. 5174; C.d.S., sez. I, parere 27.05.2020 n. 1095; TAR
Veneto, sez. II, 09.07.2021, n. 910).
La disciplina regionale, all’art. 22, comma 4, del reg. reg. n. 2 del 2015,
è intervenuta a specificare quanto sopra, disponendo che «[q]uando
l'edificio non è individuabile nella sua interezza originaria, perché
parzialmente diruto, la sua consistenza, in assenza di chiari elementi
tipologici e costruttivi è definita da elementi sufficienti a determinare la
consistenza edilizia e l'uso dei manufatti, quali:
a) studi e analisi storico-tipologiche supportate anche da
documentazioni catastali o archivistiche;
b) documentazione fotografica che dimostri la consistenza
originaria dell'edificio;
c) atti pubblici di compravendita;
d) certificazione catastale».
4.2 Come già rammentato, il Collegio ha ritenuto di disporre verificazione «al
fine di accertare se -alla luce degli elementi prodotti in sede
procedimentale dall’odierno ricorrente e considerato il disposto degli artt.
7, comma 1, l.r. n. 1 del 2015 e 22 del reg. reg. n. 2 del 2015- sia
possibile determinare in modo oggettivo la consistenza dell’immobile
demolito (ingombro planivolumetrico e sedime) e se la stessa corrisponda con
quanto dichiarato in sede di istanza di titolo abilitativo edilizio».
Nella relazione depositata in data 31.03.2022 il Verificatore, dato conto
dell’esame degli atti di causa e di quanto emerso dall’incontro con le parti
nel corso delle operazioni di verifica, ha evidenziato che:
- dall’esame delle istanze presentate dal dante causa dell’odierno
ricorrente nel 1983 «si è riscontrata la totale mancanza di quegli
elaborati grafici (piante, prospetti e sezioni) che normalmente sono parte
integrante dei titoli abilitativi e che avrebbero potuto dare certezza sulla
consistenza del fabbricato rurale al tempo»;
- per quanto attiene al censimento del bene al Catasto Fabbricati
dell’Agenzia delle Entrate «lo stesso risulta essere stato registrato
solo al Catasto Terreni e, quindi, privo dei grafici indicanti le
destinazioni d’uso di ogni locale e relative altezze»;
- dall’esame della restante documentazione (fotografie, mappe
storiche e rilievi) sono emerse incongruità, per cui «l’estratto di mappa
catastale non corrisponde con certezza allo stato dei luoghi relativi agli
anni ‘80», non essendo inoltre possibile «una valida lettura delle
altezze»;
- «non essendo presenti riprese fotografiche di tutti i
prospetti che rappresentino per intero il bene, non è possibile conoscere
tutte le effettive altezze del fabbricato, sia in gronda che al colmo,
indispensabili per poter ricostruirne la sagoma».
In conclusione, il Verificatore ha evidenziato che «dall’esame
complessivo della documentazione e per quanto sopra esposto, [si] ritiene
che non sia oggettivamente possibile determinare con certezza l’ingombro
planivolumetrico e del sedime dell’edificio né, tanto meno, se quanto
dichiarato in sede di istanza di titolo abilitativo edilizio possa
corrispondere con le reali fattezze dell’immobile preesistente»,
confermando in tal modo quanto affermato dal Comune circa l’impossibilità di
definire la consistenza del preesistente manufatto e disvelando
l’infondatezza delle censure attoree.
Secondo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato già richiamato, «affinché
si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi (a
seguito delle modifiche all'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001
apportate dal d.l. 69/2013, conv. con l. 98/2013), ricomprende anche
l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati
o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è necessario che sia possibile
accertare l’originaria consistenza del manufatto edilizio, con il corollario
che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di
ricostruzione di un rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizia “nel
caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le
caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto
costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in
cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di
copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come
edificio allo stato esistente”» (TAR Veneto, sez. II, 09.07.2021, n.
910; cfr. C.d.S., sez. IV, 17.09.2019, n. 6188; Id. 21.10.2014, n. 5174; Id.,
sez. I, parere 27.05.2020, n. 1095).
Non si presentano meritevoli di condivisione le contestazioni mosse dalla
difesa attorea all’attività ed alle risultanze della verificazione.
Va evidenziato, in primo luogo, che l’ordinanza istruttoria non prevedeva la
necessità dell’effettuazione di un sopralluogo, rimettendone la facoltà alla
valutazione del tecnico incaricato, posto che le valutazioni del
verificatore dovevano essere effettuate sulla base delle risultanze degli
atti di causa; inoltre, risulta essere stato comunque garantito il
contraddittorio con le parti, che però nulla hanno ritenuto di aggiungere a
quanto già depositato in atti (cfr. verbale del 28.03.2022).
Né può condividersi l’affermazione di parte ricorrente circa l’ultroneità
dell’accertamento delle altezze del manufatto preesistente, stante
l’asserita sufficienza della verifica della S.U.C. (superficie utile
coperta) riferibile al preesistente manufatto al fine della comparazione con
quella progettualmente dichiarata dall’odierno ricorrente.
Come già rammentato, il discrimine perché possa parlarsi di ristrutturazione
edilizia e non di nuova costruzione –ad eccezione delle ipotesi di premialità contemplate all’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001–
è da rintracciarsi proprio il rispetto delle preesistenti volumetrie (cfr.
da ultimo TAR Puglia, Bari, sez. III, 28.10.2021, n. 1571).
Ciò, del resto, in linea con gli arresti giurisprudenziali per i quali la
ristrutturazione edilizia «presuppone come elemento indispensabile la
preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche
planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole
ricostruire; non è sufficiente quindi che si dimostri che un immobile in
parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri
oltre all'an anche il quantum e cioè l'esatta consistenza dell'immobile
preesistente del quale si chiede la ricostruzione; occorre, quindi, la
possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla
ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che,
seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere
comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità
strutturale, in relazione anche alla sua destinazione» (TAR Campania,
Salerno, sez. II, 08.07.2021 n. 1680; TAR Abruzzo, L'Aquila, sez. I, 18.12.2020, n. 530; C.d.S., sez. VI, 05.12.2016, n. 5106).
La giurisprudenza amministrativa ha anche recentemente ribadito che «spetta
alla parte richiedente provare la preesistenza del fabbricato, le sue esatte
dimensioni e sagoma. I ruderi del preesistente fabbricato, poi, devono
essere idonei a consentire l’esatta configurazione di ciò che si asserisce
era già esistente, dovendosi in caso contrario parlare di nuova costruzione
… è quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia
riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui
manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le
caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto
costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in
cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di
copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come
edificio allo stato esistente (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 5174 del
21.10.2014, e TAR Lombardia, Brescia, sentenza n. 1167 del 26.09.2017).
In
mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la
consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che
considerarsi alla stregua di un’area non edificata» (C.G.A.R.S., sez.
giur., 07.02.2022, n. 163; C.d.S., sez. IV, 17.09.2019, n. 6188) (TAR Umbria,
sentenza 01.10.2022 n. 723 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza si è già espressa nel senso che un manufatto costituito da
alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente
solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture
orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente.
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la
consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che
considerarsi alla stregua di un’area non edificata.
E viepiù l’intervento non può rientrare tra gli “interventi di restauro e di
risanamento conservativo” che sono quelli rivolti a “conservare l'organismo
edilizio e ad assicurarne la funzionalità, mediante un insieme sistematico
di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali
dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni
d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle
previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani
attuativi…”, considerato quanto già esposto sulla impossibilità di
apprezzare l’effettiva consistenza del manufatto preesistente, che già nel
1973 era allo stato di rudere, privo di copertura e con murature ampiamente
crollate e considerato che lo stesso è stato oggetto di successivi
interventi abusivi che ne hanno radicalmente modificato la consistenza.
Invero, la finalità “del restauro e del risanamento conservativo è
quella di rinnovare l'organismo edilizio in modo sistematico e globale, pur
sempre però nel rispetto (perché sempre di conservazione si tratta) dei suoi
elementi essenziali tipologici, formali e strutturali” e “la ricostruzione
di un rudere non può rientrare, a livello concettuale, nell'ambito della
categoria del "restauro e risanamento conservativo", alla stregua della
caratterizzazione di quest'ultima, secondo quanto stabilito dal riportato
art. 3, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001…omissis…Il concetto di
costruzione esistente postula, invero, la possibilità di individuazione
della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente
nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia
esistente nella attualità, sicché l'intervento edificatorio sulla stessa non
costituisce trasformazione urbanistico edilizia del territorio rilevante in
termini di nuova costruzione”.
---------------
Le censure di cui i primi quattro motivi di ricorso, che si
esaminano congiuntamente in quanto tra loro connesse, con cui si lamenta, in
sostanza, il difetto di motivazione e di istruttoria del provvedimento
impugnato e la asserita contraddittorietà con precedenti determinazioni con
riferimento alla erronea qualificazione dell’intervento in questione da
parte dell’amministrazione comunale, non sono fondate secondo quanto segue.
Diversamente da quanto dedotto dal ricorrente, infatti, l’intervento in
questione non può essere qualificato come di restauro e risanamento
conservativo ex art. 3, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 e
neppure di ristrutturazione edilizia ex lett. d) del medesimo articolo,
dal momento che il manufatto cui si riferiscono gli interventi e che si
assume di voler “ricostruire”, eliminando le superfetazioni e riportandolo
alla “consistenza originaria” di cui alle tavole allegate all’istanza
risalente al 1973, in realtà già nel 1973 era un edificio privo di copertura
e con murature ampiamente crollate, come si ricava dalla relativa pratica da
cui emerge anche che la Soprintendenza ha espresso parere contrario
all’approvazione del progetto presentato nel 1973 “per alterazione
paesistica”, per cui già allora non era possibile raggiungere un
significativo grado di sicurezza sui limiti dimensionali e morfologici
dell’originario manufatto che ora si vorrebbe “risanare”. L’impossibilità di
apprezzare l’effettiva consistenza del manufatto preesistente conduce già ad
escludere nel caso di specie la configurabilità di un intervento di
“ristrutturazione edilizia” e viepiù di “risanamento e restauro
conservativo”.
La ristrutturazione edilizia, infatti, ricomprende ex art. art. 3, comma 1,
lett. d), del d.P.R. n. 380/2001, nella dizione pro tempore vigente, anche
gli interventi volti “al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché
sia possibile accertarne la preesistente consistenza”, con la precisazione
che con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni “gli
interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di
edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione
edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e
caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio preesistente e
non siano previsti incrementi di volumetria”.
E la giurisprudenza si è già espressa nel senso che un manufatto costituito
da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia
presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di
strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato
esistente. In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile
valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono
che considerarsi alla stregua di un’area non edificata (cfr. Cons. di Stato,
sent. n. 6188 del 2019).
E viepiù l’intervento non può rientrare tra gli “interventi di restauro e di
risanamento conservativo” che sono quelli rivolti a “conservare l'organismo
edilizio e ad assicurarne la funzionalità, mediante un insieme sistematico
di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali
dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni
d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle
previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani
attuativi…”, considerato quanto già esposto sulla impossibilità di
apprezzare l’effettiva consistenza del manufatto preesistente, che già nel
1973 era allo stato di rudere, privo di copertura e con murature ampiamente
crollate e considerato che lo stesso è stato oggetto di successivi
interventi abusivi che ne hanno radicalmente modificato la consistenza.
...
Come
anche di recente ribadito dal Consiglio di Stato (cfr. sent. n. 6455 del
2020) la finalità “del restauro e del risanamento conservativo, infatti, è
quella di rinnovare l'organismo edilizio in modo sistematico e globale, pur
sempre però nel rispetto (perché sempre di conservazione si tratta) dei suoi
elementi essenziali tipologici, formali e strutturali” e “la ricostruzione
di un rudere non può rientrare, a livello concettuale, nell'ambito della
categoria del "restauro e risanamento conservativo", alla stregua della
caratterizzazione di quest'ultima, secondo quanto stabilito dal riportato
art. 3, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001…omissis…Il concetto di
costruzione esistente postula, invero, la possibilità di individuazione
della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente
nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia
esistente nella attualità, sicché l'intervento edificatorio sulla stessa non
costituisce trasformazione urbanistico edilizia del territorio rilevante in
termini di nuova costruzione” (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 02.09.2022 n. 5565 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: L'ambito
della ristrutturazione va esteso all'ipotesi della ricostruzione di edifici,
anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire alla consistenza
iniziale. Tuttavia, per quanto allargato, il concetto di ristrutturazione
non può ontologicamente prescindere dall'apprezzabile traccia di una
costruzione preesistente, mancando la quale non si ravvisa il tratto
distintivo fondamentale che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla
nuova edificazione. Questo è rappresentato, a norma della definizione
generale dettata dall'art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001, dalla
"trasformazione" di organismi edilizi, la quale presuppone che l'intervento
si riferisca a una porzione di territorio a sua volta già compiutamente
trasformata.
Detto altrimenti: “Con particolare riferimento alla ricostruzione di un
rudere, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione
di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di
ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al
volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel
suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente sostanza,
rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un
manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione
che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla
collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso
oggettivamente diversa da quella preesistente. In particolare, un manufatto
costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in
cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di
copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come
edificio allo stato esistente”.
---------------
È infondato anche il settimo motivo [Violazione di legge
(art. 146 D.lgs. 42/2004 in relazione all’art. 3, D.P.R. 380/2001 e ss.mm.ii.)
– Eccesso di potere (difetto di motivazione - illogicità - contraddittorietà -
difetto di istruttoria - travisamento – sviamento - straripamento di potere) -
Incompetenza], con cui si afferma l’erroneità delle argomentazioni poste a
fondamento del parere.
In particolare, secondo la ricorrente, l’intervento andrebbe qualificato
come risanamento conservativo e consolidamento o come ristrutturazione.
Tuttavia, secondo la stessa giurisprudenza richiamata in ricorso: “L'ambito
della ristrutturazione va esteso all'ipotesi della ricostruzione di edifici,
anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire alla consistenza
iniziale. Tuttavia, per quanto allargato, il concetto di ristrutturazione
non può ontologicamente prescindere dall'apprezzabile traccia di una
costruzione preesistente, mancando la quale non si ravvisa il tratto
distintivo fondamentale che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla
nuova edificazione. Questo è rappresentato, a norma della definizione
generale dettata dall'art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001, dalla
"trasformazione" di organismi edilizi, la quale presuppone che l'intervento
si riferisca a una porzione di territorio a sua volta già compiutamente
trasformata” (TAR Toscana, Firenze, Sez. III, 06/09/2021, n. 1151).
Detto altrimenti: “Con particolare riferimento alla ricostruzione di un
rudere, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione
di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di
ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al
volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel
suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente sostanza,
rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un
manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione
che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla
collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso
oggettivamente diversa da quella preesistente. In particolare, un manufatto
costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in
cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di
copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come
edificio allo stato esistente” (TAR Lazio, Roma, Sez. II-quater,
06/11/2018, n. 10729) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 13.06.2022 n. 1655 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Presupposto
degli interventi di restauro e di intervento conservativo è che sia
possibile rispettare gli originari elementi tipologici, formali e
strutturali dell’edificio, al fine di conservare l’organismo edilizio e
assicurarne la funzionalità. Il risanamento conservativo costituisce
un’interventi di recupero sul patrimonio edilizio esistente, onde postula
necessariamente la preesistenza di un fabbricato, ossia di un organismo
edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, in
modo da poterla individuare come costruzione esistente, di modo che
l'intervento edificatorio sulla stessa non costituisca trasformazione
urbanistico edilizia del territorio rilevante in termini di nuova
costruzione.
Le nozioni di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia,
costituendo interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente,
postulano pertanto la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o
risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali,
strutture orizzontali e coperture. E ciò senza considerare, nella
prospettiva assunta dall’Amministrazione, che detti presupposti sono
richiesti perfino per la ristrutturazione, attività diversa e più incisiva,
come sopra illustrato, dal restauro e dal risanamento conservativo.
Di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o su un edificio demolito
costituisce nuova opera. “La ricostruzione dei ruderi di cui non si riesca a
provare l’originaria consistenza, ovvero dei quali siano venuti a mancare
tutti gli elementi idonei a verificarne sagoma e volumi va intesa invece
come nuova costruzione soggetta alle comuni regole edilizie”.
La dimostrazione della preesistenza del fabbricato nella sua consistenza
originaria e con le caratteristiche volumetriche e architettoniche proprie
del manufatto che si vuole risanare è impedita anche se manca uno solo degli
elementi da cui desumere l’originaria consistenza come quello relativo
all’altezza (desumibile dalla copertura). “La ricostruzione di un rudere non
è riconducibile nell'alveo della ristrutturazione edilizia laddove il
manufatto sia costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, oppure sia
presente solo parte della predetta muratura e sia privo di copertura e di
strutture orizzontali, atteso che lo stesso, in tale stato, non può essere
riconosciuto come edificio allo stato esistente”.
Per quanto riguarda gli interventi di ripristino di edifici diruti, “occorre
distinguere l'ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione
tale da consentire la sua fedele ricostruzione (nel qual caso è possibile
parlare di demolizione e ricostruzione, e dunque, di ristrutturazione)
dall'ipotesi in cui, invece, sussista un organismo edilizio dotato di sole
mura perimetrali e privo di copertura (nel qual caso, gli interventi in
questione non possono essere classificati come interventi di restauro e
risanamento conservativo, ma di nuova costruzione, attesa la mancanza di
elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche
dell'edificio da recuperare)”.
La giurisprudenza, pertanto, ritiene rilevante la misurazione di ogni
dimensione del precedente fabbricato per ritenere il medesimo esistente e
quindi restaurabile e risanabile.
---------------
In ogni caso, anche a ritenere che il Piano paesaggistico
ammetta la ristrutturazione, ai sensi dell’art. 3, comma 4, della l.r. n. 20
del 2000 (pure richiamata nel preambolo del provvedimento impugnato),
istitutiva del Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di
Agrigento, in relazione alla Zona I archeologica non sono ammesse nuove
costruzioni e interventi di ristrutturazione ma “possono essere autorizzati,
nel rispetto dell'ambiente archeologico e paesaggistico, soltanto: a)
(omissis); b) (omissis); c) (omissis) d) gli interventi di manutenzione
ordinaria, restauro e risanamento conservativo di cui all'articolo 20,
lettere a) e b), della legge regionale 27.12.1978, n. 71”, che regola
la materia urbanistica sul territorio siciliano.
La normativa archeologica richiama quindi la nozione urbanistico-edilizia di
restauro e risanamento conservativo.
Ai sensi dell’art. 20, lett. c), della legge regionale urbanistica n. 71 del
1978 sono definiti interventi di restauro e di risanamento conservativo
“quelli rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la
funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto
degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne
consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi
comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi
costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli
impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi
estranei all'organismo edilizio”. In base alla medesima disposizione si
distingue il restauro e risanamento conservativo così come sopra definito
dalla ristrutturazione di cui alla successiva lett. d (“quelli rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere
che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”).
La definizione (dettata in materia urbanistica ed edilizia, e fatta propria
dalla l.r. n. 20 del 2000, istitutiva del Parco archeologico e paesaggistico
della Valle dei Templi di Agrigento) di restauro e risanamento conservativo
contenuta nella legge regionale n. 71 del 1978 è riproposta con la lett. c),
art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001, recepito nell’ordinamento regionale con il
rinvio dinamico di cui all’art. 1 l.r. n. 16 del 2016.
Secondo detta disciplina sono interventi di restauro e di risanamento
conservativo “gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo
edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di
opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali
dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni
d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle
previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani
attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il
rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli
elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso,
l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio”.
Anche in forza dell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 detti interventi (di
restauro e risanamento conservativo) si distinguono dagli interventi di
ristrutturazione edilizia di cui alla successiva lett. d) dell’art. 3
(modificata dall'art. 1, comma 1, lett. a), del d.lgs. 27.12.2002 n. 301
e dall'art. 30, comma 1, lett. a), del d.l. 21.06.2013 n. 69).
Per molti dei corpi compresi nel progetto controverso l’Amministrazione ha
motivato il diniego qualificando gli interventi come nuove costruzioni e
facendo riferimento alla sopra richiamata normativa che vieta nell’area
interessata la realizzazione di nuove costruzioni.
La giurisprudenza amministrativa ha infatti affermato che “In materia
urbanistica sono interventi di nuova costruzione quelli di
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, non rientranti fra gli
interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e
risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia” (Cons. St., sez. II,
22.04.2021 n. 3264).
Alla qualificazione in termini di nuova costruzione di molti degli
interventi proposti ha contribuito la constatazione dell’impossibilità di
ricostruire la consistenza del manufatto originario, che rende non
classificabile come restauro e risanamento conservativo l’intervento
progettato.
In presenza di detta constatazione, è recessivo il richiamo alla circolare
della Soprintendenza 21.03.2014 n. 13879, con la quale è stato affermato
che rimane “affidato al responsabile del giudizio di ciascuna Soprintendenza
l’accertamento e la verifica della sussistenza di elementi fisici e
documenti che diano l’assoluta consistenza originaria dell’edifico da
ricostruire”, ma dopo aver precisato che un fabbricato privo di mura
perimetrali, strutture orizzontali e manto di copertura “non può essere
considerato edificio e, pertanto, non può essere oggetto di
ristrutturazione, ma soltanto di nuova costruzione” (in termini anche la
precedente nota 03.06.2013 n. 27162).
In tale contesto la circolare del 2014 contiene un riferimento a una
pronuncia del Consiglio di Stato la quale, in relazione alla ricostruzione
dei ruderi, ha stabilito, quale presupposto generale, la necessità di poter
determinare i connotati essenziali del precedente manufatto sulla base dei
muri perimetrali e delle strutture orizzontali e di copertura, al fine di
non qualificare l’intervento edilizio come nuova costruzione. Nella stessa
occasione, dopo avere precisato che “nel caso contrario potrebbe essere
discutibile la possibilità di evidenziare la consistenza”, ha ritenuto che
“la parziale mancanza fisica dei connotati essenziali di un edificio può
essere superata se è possibile darne evidenza certa”.
In base alla richiamata (risalente) giurisprudenza, a parte che detta
possibilità è ricondotta a una mancanza parziale dei connotati, è comunque
richiesta un’evidenza certa dei caratteri essenziale dell’edificio, che nel
caso di specie l’Amministrazione ha ritenuto non essere stata raggiunta.
Presupposto degli interventi di restauro e di intervento conservativo è
infatti che sia possibile rispettare gli originari elementi tipologici,
formali e strutturali dell’edificio, al fine di conservare l’organismo
edilizio e assicurarne la funzionalità. Il risanamento conservativo
costituisce un’interventi di recupero sul patrimonio edilizio esistente,
onde postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato, ossia di un
organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura, in modo da poterla individuare come costruzione esistente, di
modo che l'intervento edificatorio sulla stessa non costituisca
trasformazione urbanistico edilizia del territorio rilevante in termini di
nuova costruzione (Cons. St., sez. II, 24.10.2020 n. 6455).
Le nozioni di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia,
costituendo interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente,
postulano pertanto la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o
risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali,
strutture orizzontali e coperture. E ciò senza considerare, nella
prospettiva assunta dall’Amministrazione, che detti presupposti sono
richiesti perfino per la ristrutturazione, attività diversa e più incisiva,
come sopra illustrato, dal restauro e dal risanamento conservativo.
Di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o su un edificio demolito
costituisce nuova opera. “La ricostruzione dei ruderi di cui non si riesca a
provare l’originaria consistenza, ovvero dei quali siano venuti a mancare
tutti gli elementi idonei a verificarne sagoma e volumi va intesa invece
come nuova costruzione soggetta alle comuni regole edilizie” (CGARS 07.11.2019 n. 949).
La dimostrazione della preesistenza del fabbricato nella sua consistenza
originaria e con le caratteristiche volumetriche e architettoniche proprie
del manufatto che si vuole risanare è impedita anche se manca uno solo degli
elementi da cui desumere l’originaria consistenza come quello relativo
all’altezza (desumibile dalla copertura). “La ricostruzione di un rudere non
è riconducibile nell'alveo della ristrutturazione edilizia laddove il
manufatto sia costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, oppure sia
presente solo parte della predetta muratura e sia privo di copertura e di
strutture orizzontali, atteso che lo stesso, in tale stato, non può essere
riconosciuto come edificio allo stato esistente” (Cons. St., sez. IV, 17.09.2019 n. 6188).
Per quanto riguarda gli interventi di ripristino di edifici diruti, “occorre
distinguere l'ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione
tale da consentire la sua fedele ricostruzione (nel qual caso è possibile
parlare di demolizione e ricostruzione, e dunque, di ristrutturazione)
dall'ipotesi in cui, invece, sussista un organismo edilizio dotato di sole
mura perimetrali e privo di copertura (nel qual caso, gli interventi in
questione non possono essere classificati come interventi di restauro e
risanamento conservativo, ma di nuova costruzione, attesa la mancanza di
elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche
dell'edificio da recuperare)” (Cons. St., sez. VI, 02.09.2020 n.
5350).
La giurisprudenza, pertanto, ritiene rilevante la misurazione di ogni
dimensione del precedente fabbricato per ritenere il medesimo esistente e
quindi restaurabile e risanabile (CGARS,
sentenza 11.04.2022 n. 444 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Sulla
ricostruzione di un rudere.
Per costante e tralatizia giurisprudenza del giudice amministrativo, spetta
alla parte richiedente provare la preesistenza del fabbricato, le sue esatte
dimensioni e sagoma.
I ruderi del preesistente fabbricato, poi, devono essere idonei a consentire
l’esatta configurazione di ciò che si asserisce era già esistente, dovendosi
in caso contrario parlare di nuova costruzione.
Nella presente fattispecie manca la prova delle dimensioni e della sagoma
del preesistente fabbricato.
Il concetto di rudere che consentirebbe una legittima ricostruzione è stato
definito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato:
“E' quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia
riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui
manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le
caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto
costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in
cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di
copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come
edificio allo stato esistente.
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la
consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che
considerarsi alla stregua di un’area non edificata”.
---------------
1.Il signor Se.Ir. ricorre in appello per chiedere la riforma della sentenza
emessa dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione
staccata di Catania, in data 05.12.2018.
2. L’odierna parte appellante, unitamente al coniuge, si era rivolta al
giudice amministrativo per chiedere l’annullamento dell'ordinanza di
demolizione n. 82 del 21.11.2016 emanata dal Comune di Mascali.
L’ordine di demolizione aveva ad oggetto opere edilizie realizzate sul
terreno sito in Mascali, Via ... n. ..., individuato in catasto al foglio 3
part. 128 di proprietà dei coniugi Se.Ir. e Ma.Za..
Le opere venivano così descritte: “un fabbricato composto da un piano
terra, della superficie di mq. 126,88, desitanto a civile abitazione
realizzato in cls armato (fondazioni, pilastri, travi e solaio in
latero-c.a.) ed un parte della copertura e a tetto in legno rifinito con
manto di tegole; da un piano primo-sottotetto della superficie di mq. 97,50
realizzato con struttura portante in cls armato (pilastri e travi) e
copertura in legno rifinita con manto di tegole, altro manufatto destinato a
deposito, della superficie di mq. 89,38, realizzato con struttura in ferro,
copertura in lamierino e parzialmente completato con muratura perimetrale in
blocchi di cls”.
3. Il ricorso, proposto da Se.Ir. e Ma.Za., veniva affidato ad un unico
motivo nel quale venivano articolate censure di violazione di legge, eccesso
di potere, difetto di motivazione, con le quali parte ricorrente contestava
che il Comune di Mascali aveva erroneamente qualificato le opere realizzate
in assenza di titolo edilizio mentre si tratterebbe di lavori di restauro e
recupero di un precedente ed esistente fabbricato per il quale i coniugi
appellanti avevano presentato "istanza al comune di Mascali per il
recupero e ricostruzione del vecchio fabbricato".
...
16. Per completezza di decisione il Collegio rileva che merita conferma
anche l’assunto del primo giudice che ha ritenuto infondate nel merito le
doglianze sottoposte al suo giudizio con il ricorso di primo grado e
sostanzialmente riproposte con l’atto di gravame.
L’assunto difensivo fondamentale è che nella presente fattispecie le opere
sarebbero da qualificare come opere di restauro e recupero di un precedente
ed esistente fabbricato.
Per costante e tralatizia giurisprudenza del giudice amministrativo spetta
alla parte richiedente provare la preesistenza del fabbricato, le sue esatte
dimensioni e sagoma.
I ruderi del preesistente fabbricato, poi, devono essere idonei a consentire
l’esatta configurazione di ciò che si asserisce era già esistente, dovendosi
in caso contrario parlare di nuova costruzione.
Nella presente fattispecie manca la prova delle dimensioni e della sagoma
del preesistente fabbricato.
Il concetto di rudere che consentirebbe una legittima ricostruzione è stato
definito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato.
“E' quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia
riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui
manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le
caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto
costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in
cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di
copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come
edificio allo stato esistente (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 5174 del
21.10.2014, e TAR Lombardia, Brescia, sentenza n. 1167 del 26.09.2017).
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la
consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che
considerarsi alla stregua di un’area non edificata” (Cons. St., sez. IV
sent. 17.09.2019, n. 6188)
Nell’atto di compravendita, più volte richiamato da parte appellante a
sostegno delle proprie argomentazioni si legge di “insistenti ruderi di
fabbricato rurale”.
Nell’ordinanza di demolizione, frutto del verbale di sopralluogo, si
descrive quanto realizzato nei seguenti termini: “un fabbricato composto
da un piano terra, della superficie di mq. 126,88, destinato a civile
abitazione realizzato in cls. armato (fondazioni, pilastri, travi e solaio
in latero-c.a.) ed un parte della copertura e a tetto in legno rifinito con
manto di tegole; da un piano primo- sottotetto della superficie di mq. 97,50
realizzato con struttura portante in cls. armato (pilastri e travi) e
copertura in legno rifinita con manto di tegole, altro manufatto destinato a
deposito, della superficie di mq. 89,38, realizzato con struttura in ferro,
copertura in lamierino e parzialmente completato con muratura perimetrale in
blocchi di cls.” .
E’ da condividere la parte della sentenza impugnata ove si afferma che: “in
ogni caso, a prescindere da ogni questione sulla tipologia di opere risulta
dirimente la circostanza che nessun titolo edilizio risulta rilasciato per
le opere in questione con conseguente legittimità dell'ordine di demolizione
delle opere abusivamente realizzate”.
17. Sulla base della considerazione appena esplicitata il Collegio ritiene,
conseguentemente, infondati anche gli ulteriori profili di doglianza
riproposti con l’atto di appello (CGARS,
sentenza 07.02.2022 n. 163 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Integra
i reati di cui agli artt. 44 del
d.P.R. n. 380 del
2001 e 181 del d.Lgs. n. 42 del 2004 la ricostruzione di un "rudere" senza
il
preventivo rilascio del permesso di costruire e dell'autorizzazione
paesaggistica,
sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di
ristrutturazione di
un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo
edilizio
dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché
non è
applicabile l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del
2013), che,
per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici
o parti di
essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della
S.C.I.A.
richiede, nelle zone vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un
edificio
(pareti, solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della
preesistente
consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica
dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in
ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura.
---------------
1.3. Il terzo motivo -con cui si contesta la sussunzione degli interventi
edilizi
nella nozione di nuova costruzione anziché in quella di manutenzione
straordinaria- è, del pari, inammissibile, dal momento che trattasi di censura già
sollevata e
motivatamente disattesa dalla Corte d'appello.
Quest'ultima ha rilevato
(pag. 5)
che, dall'esame delle pratiche amministrative e delle relazioni tecniche
riguardanti
interventi nelle medesime aree di cui si discute, il fabbricato descritto in
imputazione coinciderebbe con un vecchio e diruto manufatto rurale presente
nella
medesima particella catastale che, al momento in cui venne redatta la
relazione
tecnica citata, doveva ancora essere oggetto di ristrutturazione al fine di
renderlo
idoneo alla destinazione di casa-vacanza.
Dunque il fabbricato non sarebbe
il
risultato di un mero intervento di manutenzione straordinaria, comunicato
con
C.I.L.A. e riguardante un diverso immobile, bensì di un vero e proprio
intervento
di nuova costruzione, per il quale erano necessari sia il permesso di
costruire che
l'autorizzazione paesaggistica, essendovi stato anche un aumento di volume
(come ben evidenziato a pag. 3 della sentenza di primo grado).
Dunque, deve ritenersi che la Corte distrettuale ha fatto corretta
applicazione
del principio in base al quale integra i reati di cui agli artt. 44 del
d.P.R. n. 380 del
2001 e 181 del d.Lgs. n. 42 del 2004 la ricostruzione di un "rudere" senza
il
preventivo rilascio del permesso di costruire e dell'autorizzazione
paesaggistica,
sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di
ristrutturazione di
un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo
edilizio
dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché
non è
applicabile l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del
2013), che,
per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici
o parti di
essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della
S.C.I.A.
richiede, nelle zone vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un
edificio
(pareti, solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della
preesistente
consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica
dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in
ogni caso, il
rispetto della sagoma della precedente struttura (Sez. 3, n. 40342 del
03/06/2014,
Rv. 260552) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
03.02.2022 n. 3763). |
EDILIZIA PRIVATA: Dal
punto di vista generale, nelle controversie in materia edilizia, soggette
alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova
concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel
tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe
catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale.
---------------
L’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013 n. 69, conv.
nella l. 09.08.2013 n. 98, nel modificare l’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 cit., in tema di
ristrutturazione edilizia, ha previsto che
rientrino in tale nozione anche gli interventi “volti al ripristino di
edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la
loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente
consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli
interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono
interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la
medesima sagoma dell’edificio preesistente”.
Per effetto di tale modifica legislativa, può ritenersi ormai superato
l’orientamento giurisprudenziale, maturato nel vigore del testo originario
del citato articolo, che riteneva necessaria, ai fini della qualificazione
dell’intervento come ristrutturazione edilizia, la preesistenza di un
fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di alcune
componenti essenziali, quali murature perimetrali, strutture orizzontali e
copertura, posto che essa ha esteso l’ambito della ristrutturazione anche
alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali
sia possibile risalire ad una consistenza iniziale.
Tuttavia, anche dopo la novella de qua risulta comunque necessario che la
consistenza iniziale dell’edificio in rovina sia dimostrata tanto sotto il
profilo dell’an –ossia che un certo immobile sia esistito– tanto sotto
quello del quantum, inteso come destinazione d’uso ed ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato, potendo la prova della
esatta consistenza originaria, in assenza di elementi strutturali idonei,
essere raggiunta anche attraverso riscontri documentali od altri elementi
certi e verificabili, tra i quali documentazione fotografica,
aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con
sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto.
Pertanto, sebbene in astratto sia divenuto ammissibile un intervento di
ristrutturazione edilizia consistente nella ricostruzione di un rudere,
anche dopo il sopravvenire dell’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. n. 69 del
2013, conv. nella l. n. 98 del 2013, è comunque indispensabile in concreto
la fornitura di una prova oggettiva dell’esatta consistenza originaria
dell’antica costruzione.
---------------
E' noto che in materia urbanistica incombe sul privato l’onere della prova
dell’ultimazione di un’opera entro una certa data, al fine di dimostrare, ad
esempio, che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una
sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui, ratione temporis, non era
richiesto un atto di assenso, in quanto realizzata legittimamente senza
titolo, essendo egli l’unico soggetto che ha la disponibilità di documenti e
di elementi di prova e che può dimostrare con ragionevole certezza l’epoca
di realizzazione del manufatto.
Nel caso che ci occupa, parte ricorrente non ha assolto all’onere probatorio
in argomento, perché a sostegno delle proprie ragioni cita, innanzitutto, le
dichiarazioni rese dal procedente proprietario del terreno, oltre che di
altri soggetti, che offrono una ricostruzione dei fatti palesemente
discordante con i dati oggettivi utilizzati dall’Amministrazione, sui quali
non potrebbero prevalere neppure se fossero trasfuse in una testimonianza.
Sicché, non avendo parte
ricorrente apportato al processo quantomeno un principio di prova utile a
sollevare fondati dubbi sull’esattezza del quadro fattuale ricostruito dal Comune resistente, non
sussistono i presupposti per disporre una verificazione, come pur da ella
richiesto.
Al riguardo, infatti, è noto che ad una situazione di assoluta
carenza probatoria non può porsi rimedio con l’attività istruttoria
giudiziale, giacché una tale opzione si tradurrebbe nell’inversione del
principio dell’onere della prova come regolato dagli artt. 2697 cod. civ. e
115 cod. proc. civ., e ciò ancorché nel processo amministrativo il sistema
probatorio sia retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, in
considerazione dell’assetto non paritetico dei rapporti fattuali e giuridici
intercorrenti tra il privato e l’Amministrazione; pertanto, affinché possano
essere attivati i poteri istruttori giudiziali, la parte ricorrente deve
quantomeno avanzare un principio di prova a sostegno delle proprie
deduzioni.
---------------
Avendo, poi, parte ricorrente argomentato anche sull’infondatezza di tali
ragioni ostative, si esamina nel merito la questione della consistenza e
dell’epoca di realizzazione del manufatto oggetto di intervento.
Sul punto si osserva che, dal punto di vista generale, nelle controversie in
materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i
principi di prova concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello
spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta,
aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del
tutto residuale (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511; TAR Lazio,
Latina, sez. I, 30.03.2021 n. 207; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 29.03.2021 n. 2085; TAR Lazio, Latina, sez. I, 13.07.2020 n. 271; TAR
Piemonte, sez. II, 27.03.2013 n. 390; TAR Umbria, sez. I, 02.11.2011
n. 354).
Nel caso di specie, come si evince dalla lettura del verbale di sopralluogo
del 12.02.2014, il fabbricato rurale del quale i ricorrenti hanno
previsto la demolizione e ricostruzione è stato individuato in sito grazie
alla presenza di tracce di muratura in pietrame, collocate su un’area in cui
non esistono opere di urbanizzazione di nessun tipo e che è raggiungibile
solo percorrendo sentieri che si diramano dalla strada sterrata di accesso
alla proprietà. Le suddette tracce hanno consentito di identificare un
perimetro dell’edificio diruto che è discordante con quanto rappresentato
dall’ing. M.C. nella d.i.a. del 21.01.2013 e nelle successive
integrazioni documentali.
In particolare, è stato accertato che le murature de quibus non presentano
segni di fondazione e/o ringrossi e che, confrontando i rilievi
aerofotogrammetrici degli anni 1955, 1984, 1997 e 2004 con la mappa
catastale del 1923, utilizzata a fini di perimetrazione per l’apposizione
del vincolo idrogeologico, le tracce del fabbricato rurale distinto in
catasto al foglio n. 18, particella n. (ex) 223, risultano meno evidenti già
nel 1997. Inoltre, è emerso che il suddetto manufatto rurale di appena mq 17
ha poi generato un immobile distinto in catasto al foglio n. 18, particella
n. 1125, di ben mq 76, come da scheda del 23.03.2012, e che l’ampliamento
della consistenza iniziale può ritenersi posteriore al 2011, alla luce del
raffronto tra la citata aerofotogrammetria e le ortofoto geo-referenziate
fornite dal Corpo forestale dello Stato.
Tali circostanze appaiono decisive in senso ostativo all’ammissibilità
dell’intervento de quo nonostante la modifica normativa ricordata da parte
ricorrente ed intervenuta dopo la diffida del 22.02.2013, ma prima
dell’ordine di demolizione del 04.03.2014.
Infatti, l’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013 n. 69, conv.
nella l. 09.08.2013 n. 98, nel modificare l’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 cit., in tema di
ristrutturazione edilizia, ha previsto che
rientrino in tale nozione anche gli interventi “volti al ripristino di
edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la
loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente
consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli
interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono
interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la
medesima sagoma dell’edificio preesistente”.
Per effetto di tale modifica legislativa, può ritenersi ormai superato
l’orientamento giurisprudenziale, maturato nel vigore del testo originario
del citato articolo, che riteneva necessaria, ai fini della qualificazione
dell’intervento come ristrutturazione edilizia, la preesistenza di un
fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di alcune
componenti essenziali, quali murature perimetrali, strutture orizzontali e
copertura, posto che essa ha esteso l’ambito della ristrutturazione anche
alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali
sia possibile risalire ad una consistenza iniziale (TAR Lombardia, Brescia,
sez. I, 06.7.2020 n. 517; in termini Cons. Stato, sez. VI, 03.10.2019 n. 6654; TAR Toscana, sez. III, 26.05.2020 n. 631).
Tuttavia, anche dopo la novella de qua risulta comunque necessario che la
consistenza iniziale dell’edificio in rovina sia dimostrata tanto sotto il
profilo dell’an –ossia che un certo immobile sia esistito– tanto sotto
quello del quantum, inteso come destinazione d’uso ed ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato, potendo la prova della
esatta consistenza originaria, in assenza di elementi strutturali idonei,
essere raggiunta anche attraverso riscontri documentali od altri elementi
certi e verificabili, tra i quali documentazione fotografica,
aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con
sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto
(TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 06.07.2020 n. 517; TAR Liguria, sez. I,
11.06.2020 n. 364).
Pertanto, sebbene in astratto sia divenuto ammissibile un intervento di
ristrutturazione edilizia consistente nella ricostruzione di un rudere,
anche dopo il sopravvenire dell’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. n. 69 del
2013, conv. nella l. n. 98 del 2013, è comunque indispensabile in concreto
la fornitura di una prova oggettiva dell’esatta consistenza originaria
dell’antica costruzione.
Ebbene, nel caso che ci occupa l’esigenza di una
simile dimostrazione è già presente nella diffida del 22.02.2013, ove
si fa riferimento alla “mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le
dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare”, ma è
compiutamente esplicitata nel verbale del 12.02.2004, successivo
all’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. n. 69 cit., in cui la consistenza
iniziale del fabbricato rurale diruto è fatta risalire a data anteriore al
1923 ed è fissata in mq 17, laddove il nuovo accatastamento del 23.03.2012 e la d.i.a. del 21.01.2013 si riferiscono a una superficie di mq
76.
Così ricostruiti i termini della vicenda all’esame, è noto che in materia
urbanistica incombe sul privato l’onere della prova dell’ultimazione di
un’opera entro una certa data, al fine di dimostrare, ad esempio, che essa
rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale
ovvero fra quelle per cui, ratione temporis, non era richiesto un atto di
assenso, in quanto realizzata legittimamente senza titolo, essendo egli
l’unico soggetto che ha la disponibilità di documenti e di elementi di prova
e che può dimostrare con ragionevole certezza l’epoca di realizzazione del
manufatto (ex multis: Cons. Stato, sez. VI, 20.01.2020 n. 454; sez. II,
24.07.2019 n. 5220; TAR Lazio, Latina, sez. I, 30.03.2021 n. 207;
sez. I, 08.06.2020 n. 194; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 03.06.2019
n. 2986).
Nel caso che ci occupa, parte ricorrente non ha assolto all’onere probatorio
in argomento, perché a sostegno delle proprie ragioni cita, innanzitutto,
le dichiarazioni rese dal procedente proprietario del terreno, oltre che di
altri soggetti, prodotte in atti il 13.11.2014, che offrono una
ricostruzione dei fatti palesemente discordante con i dati oggettivi
utilizzati dall’Amministrazione, sui quali non potrebbero prevalere neppure
se fossero trasfuse in una testimonianza (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511; TAR Lazio, Latina, sez. I, 13.07.2020 n. 271).
Nessuna prova oggettiva è stata, poi, addotta da parte ricorrente in ordine
al fatto che la maggiore consistenza accatastata dopo l’acquisto del fondo
nel 2011 e dichiarata in d.i.a. risalga effettivamente al 1952, epoca nella
quale non era richiesto il preventivo rilascio di concessione edilizia per
gli interventi di ampliamento e nuova costruzione ed anche successiva al
1950, soglia cronologica rilevante ai fini dell’applicabilità dell’art. 4,
comma 1, lett. d), l.reg. n. 21 cit., che è preclusa per i manufatti
antecedenti. Infatti, l’unico dato oggettivo e documentale su tali punti è
costituito dal sopralluogo condotto il 07.02.2014, dalle
aerofotogrammetrie e dalla cartografia poste dal Comune di Gaeta a
fondamento delle proprie determinazioni, che dimostrano la risalenza del
manufatto rurale diruto a data anteriore al 1923 una sua consistenza di soli
mq 17 e non di mq 76, come dichiarato dall’ing. M.C. Si tratta, quindi, di
dati del tutto incompatibili con quelli del ben più esteso immobile
realizzato, asseritamente in ricostruzione, sulla base della d.i.a. del 21.01.2013, anche tenendo conto della facoltà di ampliamento previste
dall’art. 4, comma 1, lett. d), l.reg. n. 21 cit.
A smentire la correttezza dell’accertamento operato dall’Amministrazione non
vale neppure la perizia tecnica a firma dell’ing. Wa.So. prodotta in
atti il 14.11.2014 e che, a dire di parte ricorrente, lascerebbe
emergere “macroscopici errori ed approssimazioni” dei rilievi utilizzati dal
Comune e dal Corpo forestale dello Stato.
In realtà, tale perizia, che investe anche la questione se l’area in parola
sia mai stata percorsa dal fuoco negli anni 2007 e 2012, dedica alla
questione che ci occupa il § 3 (pag. 5-6), ove si afferma che:
a) l’epoca di
costruzione dell’edificio diroccato è databile intorno agli anni 50 del
secolo scorso a cagione dei materiali e della tecnica costruttiva impiegata
(pietrame locale e malta bastarda con tecnica a secco), i quali
“mostrerebbero chiaramente un invecchiamento di oltre 50 anni”;
b) le reali
dimensioni del fabbricato non sono apprezzabili dalle foto satellitari per
la presenza della vegetazione locale che ostacola l’esatto rilievo,
rinviandosi contestualmente sul punto alla dichiarazione del precedente
proprietario B.M.
Tuttavia, a ben vedere, sia l’epoca di costruzione sia la maggiore
consistenza del fabbricato in tal modo ipotizzate non appaiono sostenute da
specifiche evidenze utili a minare la credibilità dell’accertamento operato
dall’Amministrazione, atteso che, innanzitutto, un invecchiamento dei ruderi
di oltre 50 anni è pienamente compatibile con la datazione dell’immobile
indicata dal Comune di Gaeta e riportata a data anteriore al 1923. Inoltre,
la perizia tralascia di considerare che l’Amministrazione non è giunta alle
proprie conclusioni esclusivamente in via cartolare, cioè mediante la
valutazione di materiale fotografico e di mappe, perché, come si evince dal
verbale del 12.02.2014, la considerazione di detti documenti è
successiva all’accesso ai luoghi ed alle misurazioni ivi eseguite da
personale dall’Amministrazione civica e dal Corpo forestale dello Stato il 07.02.2014, in presenza dell’ing. M.C. nella sua qualità di proprietario
e direttore dei lavori.
Al riguardo si rileva che, peraltro, detto sopralluogo si è tenuto poco dopo
che l’area di interesse era stata ripulita dalla vegetazione, operazione
questa che parte ricorrente dichiara essere stata compiuta in occasione
dell’accatastamento nel 2012 e della presentazione della d.i.a. nel 2013 (cfr.
pag. 11 della memoria del 13.11.2021), sì che le considerazioni sul
punto svolte dal tecnico di parte per sollevare dubbi sulla risoluzione
delle foto satellitari, in realtà, non possono obliterare gli accertamenti
eseguiti sul posto e con una vegetazione ridotta rispetto a quella esistente
al momento delle riprese da satellite o da aereo. Inoltre, resta inteso che
il riferimento operato dal perito alla dichiarazione del precedente
proprietario non può certo conferire alla relazione tecnica alcuna oggettiva
attendibilità sul punto.
Stante quanto sopra, non avendo parte ricorrente apportato al processo
quantomeno un principio di prova utile a sollevare fondati dubbi
sull’esattezza del quadro fattuale ricostruito dal Comune resistente, non
sussistono i presupposti per disporre una verificazione, come pur da ella
richiesto.
Al riguardo, infatti, è noto che ad una situazione di assoluta
carenza probatoria non può porsi rimedio con l’attività istruttoria
giudiziale, giacché una tale opzione si tradurrebbe nell’inversione del
principio dell’onere della prova come regolato dagli artt. 2697 cod. civ. e
115 cod. proc. civ., e ciò ancorché nel processo amministrativo il sistema
probatorio sia retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, in
considerazione dell’assetto non paritetico dei rapporti fattuali e giuridici
intercorrenti tra il privato e l’Amministrazione; pertanto, affinché possano
essere attivati i poteri istruttori giudiziali, la parte ricorrente deve
quantomeno avanzare un principio di prova a sostegno delle proprie deduzioni
(TAR Lazio, Roma, sez. II, 26.06.2020 n. 7232; sez. II, 08.01.2020
n. 133; conf.: Cons. Stato, sez. IV, 04.01.2018 n. 36; TAR Lombardia,
Brescia, sez. I, 26.09.2019 n. 845; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 02.07.2018 n. 4375).
In definitiva, può ritenersi accertato che l’intervento edificatorio in
questione sia consistito nella realizzazione di una nuova costruzione in
zona agricola e non in una ristrutturazione edilizia nella forma della
ricostruzione di un rudere, poiché la consistenza e la collocazione
cronologica per esso dichiarate dal ricorrente nella d.i.a. del 21.01.2013 e nella successiva integrazione documentale si sono rivelate non
corrette, non essendo sorrette da elementi oggettivi sufficienti a
testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’antico edificio da
recuperare mediante le speciali facoltà edificatorie consentite dall’art. 4,
comma 1, lett. d), l.reg. n. 21 cit. (TAR Lazio-Latina,
sentenza 27.12.2021 n. 700 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: È stato affermato da autorevole giurisprudenza che vi è
ristrutturazione
edilizia quando “la stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma –in quest’ultimo caso– con ricostruzione, se non fedele (per effetto della
modifica apportata al testo unico dal dlgs 27.12.2002
n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della
costruzione preesistente”.
In base alla normativa statale
di principio, dunque, un intervento di demolizione e ricostruzione che non
rispetti la sagoma dell’edificio preesistente –intesa quest’ultima come la
conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro
considerato in senso verticale e orizzontale– configura un intervento di
nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
Nel caso di specie,
non solo non si interviene su un singolo edificio ma si muta pesantemente la
configurazione planivolumetrica complessiva dell’intera area, quindi si è in
presenza di ristrutturazione urbanistica la quale sussiste allorquando, come
nel caso in esame, l’intervento è “rivolto a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con un altro diverso”.
---------------
Afferma ancora la giurisprudenza che “l’esigenza di un piano di
lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia,
s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato
abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti
e, quindi, anche alla limitata funzione di armonizzare aree già compromesse
ed urbanizzate”.
È stato, altresì, precisato che “il criterio discretivo
tra l’intervento di demolizione e ricostruzione e la nuova costruzione è
costituito proprio, nel primo caso, dall’assenza di variazioni del volume,
dell’altezza o della sagoma dell’edificio, per cui, in assenza di tali
indefettibili e precise condizioni si deve parlare di intervento
equiparabile a nuova costruzione, da assoggettarsi alle regole proprie della
corrispondente attività edilizia. Tali criteri hanno un ancora maggiore
pregio interpretativo a seguito dell’ampliamento della categoria della
demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301 del 2002 in quanto
proprio perché non vi è più il limite della ‘fedele ricostruzione’ si
richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio
preesistente nel senso che debbono essere presenti gli elementi
fondamentali, in particolare per i volumi, per cui la ristrutturazione
edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova
costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio
preesistente e la successiva ricostruzione dell’edificio debba riprodurre le
precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi”.
---------------
V - Con il primo motivo del ricorso introduttivo, è contestata
la presunta violazione degli artt. 1 e 4 della L.R. 30.07.2009 n. 14, in
quanto il progetto presentato risulterebbe in deroga rispetto alle
previsioni urbanistiche comunali, come consentito, secondo l’argomentare
della ricorrente, dalle richiamate norme regionali e, pertanto, non
necessitante del preventivo strumento urbanistico attuativo.
Con il terzo motivo del gravame introduttivo, è altresì rilevata la presunta
violazione dell’art. 3, comma 1, lett. f), del T.U. dell’edilizia n.
380/2001. Si tratterebbe, a dire della ricorrente, di un intervento
straordinario di demolizione e ricostruzione da realizzare in deroga “alla
destinazione, agli indici e altri parametri dello strumento di
pianificazione”.
Sennonché, la realizzazione in deroga degli interventi di demolizione e
ricostruzione è ammessa dall’art. 1 della L.R. n. 14/2009 con riferimento
esclusivo agli indici e ai parametri relativi alla volumetria espressa.
Inoltre, l’art. 4 della medesima legge regionale sul “Piano Casa” ammette
interventi di demolizione e ricostruzione di edifici residenziali e non
residenziali, con incremento volumetrico con chiaro riferimento alle ipotesi
di ristrutturazione edilizia, non per la ristrutturazione urbanistica.
Nel
caso di specie, invece, si è in presenza di un complessivo cambio di
destinazione dell’area interessata che da produttiva diviene residenziale-commerciale, con inevitabile aggravio del peso urbanistico a
causa dei nuovi insediamenti abitativi. Inoltre, viene progettato un
edificio destinato ad attività commerciali, vale a dire una media struttura
di vendita. Infine, è posta la necessità di strutturare una nuova viabilità
interna, in relazione alla ridefinizione del layout della zona.
Si tratta, con ogni evidenza, di un insieme di interventi rivolti a
sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con un altro e diverso
disegno della zona, del lotto e della rete stradale interna.
È stato affermato da autorevole giurisprudenza che vi è ristrutturazione
edilizia quando “la stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma –in quest’ultimo caso– con ricostruzione, se non fedele (per effetto della
modifica apportata al testo unico dal decreto legislativo 27.12.2002
n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della
costruzione preesistente” (cfr.: Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2014 n.
2397; id., sez. IV, 30.03.2013, n. 2972).
In base alla normativa statale
di principio, dunque, un intervento di demolizione e ricostruzione che non
rispetti la sagoma dell’edificio preesistente –intesa quest’ultima come la
conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro
considerato in senso verticale e orizzontale– configura un intervento di
nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
Nel caso di specie,
non solo non si interviene su un singolo edificio ma si muta pesantemente la
configurazione planivolumetrica complessiva dell’intera area, quindi si è in
presenza di ristrutturazione urbanistica la quale sussiste allorquando, come
nel caso in esame, l’intervento è “rivolto a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con un altro diverso” (cfr.: Cons. Stato, IV sezione,
01.09.2015 n. 4077; idem sez. V, 16.12.2010 n. 8948).
L’espressa convinzione della sussistenza di una ristrutturazione
urbanistica, quindi l’inapplicabilità dell’art. 1 della L.R. n. 9/2014 in
ordine alla deroga, impone il rispetto delle previsioni di cui allo
strumento urbanistico generale, secondo il quale, nella zona B/4, vi è
necessità dello strumento urbanistico attuativo e non può procedersi al
rilascio diretto del permesso.
Afferma ancora la giurisprudenza che “l’esigenza di un piano di
lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia,
s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato
abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti
e, quindi, anche alla limitata funzione di armonizzare aree già compromesse
ed urbanizzate” (cfr.: Cons. Stato, sez. V, 29.02.2012 n. 1177; idem, IV,
13.10.2010 n. 7486).
È stato, altresì, precisato che “il criterio discretivo
tra l’intervento di demolizione e ricostruzione e la nuova costruzione è
costituito proprio, nel primo caso, dall’assenza di variazioni del volume,
dell’altezza o della sagoma dell’edificio, per cui, in assenza di tali
indefettibili e precise condizioni si deve parlare di intervento
equiparabile a nuova costruzione, da assoggettarsi alle regole proprie della
corrispondente attività edilizia. Tali criteri hanno un ancora maggiore
pregio interpretativo a seguito dell’ampliamento della categoria della
demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301 del 2002 in quanto
proprio perché non vi è più il limite della ‘fedele ricostruzione’ si
richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio
preesistente nel senso che debbono essere presenti gli elementi
fondamentali, in particolare per i volumi, per cui la ristrutturazione
edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova
costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio
preesistente e la successiva ricostruzione dell’edificio debba riprodurre le
precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 09.08.2018, n. 4880)” (cfr.: Cons. Stato, sez. II,
20.05.2019, n. 3208).
L’intervento edilizio proposto dalla ricorrente e denegato dal Comune
resistente non può considerarsi alla stregua di una mera istanza di
incremento volumetrico, mercé l’utilizzo della L.R. n. 9/2014. L’iniziativa
privata in esame, contiene, difatti, da un lato, la richiesta
dell’incremento volumetrico (soltanto per il quale la legge consente di
procedere in deroga agli strumenti urbanistici locali) ma, al contempo,
ridisegna l’impatto urbanistico dell’area il cui progetto non può che essere
sottoposto alle norme comunali che impediscono il rilascio diretto del
permesso.
Infondate, in conclusione, appaiono la prima e la terza censura riferite
alla violazione della L.R. n. 14/2009 e del T.U. sull’edilizia (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 28.10.2021 n. 1571 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
conformità al consolidato (e condiviso) orientamento della giurisprudenza,
si deve ritenere che gli interventi ricostruttivi,
sussumibili nel novero della ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. d), D.p.r. n. 380/2001 (in esito alle novità apportate con d.l. n.
69/2013, convertito dalla l. n. 98/2013), presuppongono “un minimo di
preesistenza edificata, ossia un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
Il concetto di costruzione esistente presuppone
la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in
modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica
entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l’intervento
edificatorio sulla stessa non rileva quale trasformazione urbanistico-edilizia del territorio in termini di nuova costruzione. Deve,
cioè, trattarsi di un manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia
abitato o abitabile, possa essere comunque individuato nei suoi connotati
essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua
destinazione.
---------------
Ad avviso del Collegio nella fattispecie difetta il presupposto oggettivo
di applicazione dell’art. 7, co. 8-bis l.r. Campania n. 19/2009, come novellata
con l.r. n. 5/2011, conformemente a quanto ritenuto, sul punto,
dall’estensore del provvedimento impugnato.
In base a tale disposizione, “è consentito il recupero edilizio soltanto
agli aventi titolo alla data di entrata in vigore della presente legge, in
deroga agli strumenti urbanistici vigenti, mediante intervento di
ricostruzione in sito, di edifici diruti e ruderi, purché…”.
Ora, in conformità al consolidato (e condiviso) orientamento della
giurisprudenza, si deve ritenere che gli interventi ricostruttivi,
sussumibili nel novero della ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. d), D.p.r. n. 380/2001 (in esito alle novità apportate con d.l. n.
69/2013, convertito dalla l. n. 98/2013), presuppongono “un minimo di
preesistenza edificata, ossia un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura (Cons. Stato, sez. II, n.
8035 del 15.12.2020). Il concetto di costruzione esistente presuppone
la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in
modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica
entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l’intervento
edificatorio sulla stessa non rileva quale trasformazione urbanistico-edilizia del territorio in termini di nuova costruzione. Deve,
cioè, trattarsi di un manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia
abitato o abitabile, possa essere comunque individuato nei suoi connotati
essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua
destinazione” (da Consiglio di Stato, 26.12.2020, n. 8337; cfr. Cons. Stato,
10.02.2004, n. 475 e 15.03.1990, n. 293; più di recente, sez. II,
24.10.2020, n. 6455).
Nella fattispecie, il manufatto indicato nell’atto d’acquisto (come anche
nei registri catastali) non si presenta all’attualità nello stato di rudere,
bensì in quello di rovine, trattandosi di meri “resti di mura” (cfr., sulla
distinzione fra ruderi e rovine, Consiglio di Stato,
10.02.2004, n. 475; conf.,
Tar Bolzano,
07.03.2006, n. 97). Dal corredo fotografico allegato alla perizia
di parte, versata in atti il 17.03.2014, si evince infatti che, allo stato,
non è presente null’altro che uno spigolo/porzione di un muro.
La mancanza del presupposto oggettivo di applicazione richiesto dall’art. 7,
co. 8-bis, l.r. Campania n. 19/2009 determina la legittimità del provvedimento
impugnato, anche in relazione al motivo di ricorso sub 3.4, posto che tale
ragione è stata ritualmente esposta nella comunicazione ex art. 10-bis l. n. 241/1990,
consentendo altresì l’assorbimento degli ulteriori profili dedotti dalla
p.a. e censurati dai ricorrenti (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 04.08.2021 n. 1881 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Affinché
si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi (a seguito delle modifiche all'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001 apportate dal d.l. 69/2013, conv. con
l. 98/2013), ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è
necessario che sia possibile accertare l’originaria consistenza del
manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della
ristrutturazione edilizia “nel caso in cui manchino elementi sufficienti a
testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare:
in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura
perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della
muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non
può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”.
Nel caso di specie, il ricorrente non ha assolto all’onere probatorio che grava
su colui debba dimostrare la preesistente consistenza del fabbricato andato
distrutto o demolito, tenuto conto che, secondo la giurisprudenza, “...gli
interventi sul patrimonio edilizio esistente presuppongono necessariamente
un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura ovvero la possibilità di individuare l’edificio preesistente nella
sua identità strutturale, quale specifica entità urbanistico-edilizia
esistente nella attualità; declinandosi altrimenti l’intervento come volto a
realizzare una nuova costruzione e non la ricostruzione di un precedente
immobile”.
---------------
Il succitato provvedimento negativo si sottrae a tutte le
censure mosse dal ricorrente.
Secondo un indirizzo giurisprudenziale consolidato, condiviso dal Collegio,
affinché si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi (a seguito delle modifiche all'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001 apportate dal d.l. 69/2013, conv. con
l. 98/2013), ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è
necessario che sia possibile accertare l’originaria consistenza del
manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della
ristrutturazione edilizia “nel caso in cui manchino elementi sufficienti a
testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare:
in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura
perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della
muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non
può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente” (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 17.09.2019, n. 6188; Id. 21.10.2014, n. 5174;
Consiglio di Stato, I Sezione, parere del 27.05.2020 n. 1095).
Il provvedimento impugnato ha fatto corretta applicazione, al caso di
specie, dei suesposti principi.
Le fonti storiche allegate dal ricorrente alla domanda di premesso di
costruire (fotografie che raffigurano l’immobile ad una certa distanza;
pianta catastale; articoli di giornale e una sentenza che ricostruiscono il
fatto di sangue avvenuto in prossimità del fabbricato nel 1926;
dichiarazioni di terzi che confermano l’esistenza del predetto fabbricato)
non offrono sicuri elementi per ricostruire con un sufficiente grado di
attendibilità i parametri edilizi fondamentali dell’edificio diruto, ormai
da circa novant’anni.
Dall’istruttoria svolta, e in particolare dagli esiti del sopralluogo svolto
dai tecnici comunali il 18.05.02018, documentando fotograficamente lo
stato dei luoghi, è emersa l’impossibilità di ricostruire con certezza la
consistenza originaria del fabbricato crollato sin dagli anni ’30 del secolo
scorso (nella relazione di sopralluogo di legge, in particolare, che “...1)
Non ci sono tracce planimetriche dell'esistenza del vecchio edificio
riportato nelle due foto storiche prodotte dal sig. Re.Gi., per
la pratica edilizia tendente a chiederne la ricostruzione in sito.
- Sono
accertabili sassi per lo più derivanti dal generale dissesto e crollo delle
vecchie "marogne" presenti in sito e che delimitano le balze in pendio.
- Ci
sono tre spezzoni dì stipiti di porta o di finestra, con cardini, ma al
riguardo non si ha la certezza che effettivamente siano appartenuti al
fabbricato in questione.
- Alcune pietre paiono essere state in qualche
maniera sistemate in fila, e mancano gli angolari murari che il tecnico
geom. Ca. ha rappresentato sui suoi disegni nello stato di fatto.
- Non
c'è nessun elemento che consenta di verificare le dimensioni planimetriche
di quella che si vorrebbe essere una precedente costruzione nel punto
individuato dalla mappa catastale.
- Non sono verificabili le dimensioni del
fabbricato riportate nella mappa catastale mancando ogni elemento
verificabile...”).
L’impossibilità di ricostruire con un sufficiente grado di attendibilità la
preesistente consistenza dell’immobile crollato ormai da circa novant’anni è
desumibile anche dal fatto che nelle tre richieste di titolo edilizio
presente dal ricorrente, dal 2016 al 2020, egli ha prospettato tre diversi
dimensionamenti del fabbricato originario:
- nella pratica edilizia n. 194/2016 le dimensioni dell’immobile sono state
calcolate in: lunghezza 10 metri, larghezza 5 metri ed altezza
matematicamente calcolata in 5,57 metri;
- nella pratica edilizia n. 230/2017, le dimensioni che precedono sono state
dapprima confermate e poi modificate con progetto (appena abbozzato)
allegato alla nota del 31.05.2018, che prevedeva una base di 9,80 x 4,10
metri ed un’altezza calcolata di 4,51 metri;
- nella pratica edilizia n. 22/2020, oggetto dell’impugnativa all’esame, la
base dell’edificio è stata individuata in 10,00/10.02 x 5,10/5,15 metri, con
altezza calcolata di 5,74 metri.
Il ricorrente non ha, in definitiva, assolto all’onere probatorio che grava
su colui debba dimostrare la preesistente consistenza del fabbricato andato
distrutto o demolito, tenuto conto che, secondo la giurisprudenza, “...gli
interventi sul patrimonio edilizio esistente presuppongono necessariamente
un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura ovvero la possibilità di individuare l’edificio preesistente nella
sua identità strutturale, quale specifica entità urbanistico-edilizia
esistente nella attualità; declinandosi altrimenti l’intervento come volto a
realizzare una nuova costruzione e non la ricostruzione di un precedente
immobile” (Cons. Stato Sez. II, 24.10.2020, n. 6455).
A ciò si aggiunga che, secondo quanto risulta dagli atti, i luoghi sono
stati modificati, attraverso la perimetrazione della base del presunto
edificio, mediante il collocamento di sassi e pietre varie, rendendo viepiù
impossibile approfondire e verificare ulteriormente l’originario stato dei
luoghi.
L’obiettiva impossibilità di verificare la consistenza dell’immobile diruto,
accertata nel corso del sopralluogo del maggio 2018, giustifica il
superamento delle valutazioni operate dal Comune, previo parere favorevole
vincolante della Soprintendenza. nelle precedenti autorizzazioni
paesaggistiche rilasciate sulla base di una ricostruzione dell’effettiva
consistenza dell’immobile diruto che si sono rivelate difformi rispetto alla
realtà accertata sul luogo dai tecnici comunali.
Del resto, si osserva che l’autorizzazione paesaggistica, pur essendo un
provvedimento prodromico al rilascio del titolo edilizio, non esaurisce
l’ambito d’indagine necessario ad assentire l’intervento, che dal punto di
vista edilizio deve essere scrutinato secondo le coordinate desumibili
dall’articolo 3, comma 1, lett. d), del T.U. Edilizia e dai principi
elaborati dalla giurisprudenza formatasi in materia.
Nel caso in esame, dagli atti di causa, si evince che l’intervento non
presentava criticità sotto il profilo della compatibilità con la tutela
paesaggistica, ma, come correttamente rilevato dal Comune, non poteva essere
qualificato come ristrutturazione edilizia, attesa l’impossibilità di
stabilire con un sufficiente grado di certezza i parametri edilizi
fondamentali dell’edificio diruto da circa novant’anni, presupposto
essenziale ai fini della qualificazione dell’intervento come
ristrutturazione edilizia.
Il provvedimento impugnato è immune dalle censure dedotte anche laddove ha
riscontrato la mancanza dei requisiti previsti dall’articolo 12 del DPR n.
380/2001 per il rilascio del permesso di costruire, in relazione alle opere
di urbanizzazione primaria concernenti la sistemazione della strada comunale
denominata “strada comunale di Mirabello”.
La documentazione prodotta dal ricorrente è stata, infatti, ritenuta dal
Comune inidonea rispetto all’obiettivo di realizzare una strada percorribile
in sicurezza per raggiungere l’abitazione oggetto d’intervento, con
valutazione che il Collegio reputa sorretta da adeguata istruttoria, non
affetta da travisamento del fatto né altrimenti illegittima.
Per tutto quanto sin qui esposto, il ricorso deve essere respinto (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 09.07.2021 n.
910 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Per
univa giurisprudenza, l’onere della prova dell’epoca di realizzazione di
un’opera edilizia incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad
essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di
dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto.
Tale prova non è stata fornita dall’interessato non potendosi a tal fine
ritenere sufficiente le risalenti risultanze catastali in quanto tali dati
non costituiscono fonte di prova certa sulla situazione di fatto esistente
sul piano immobiliare, rappresentando l’accatastamento un adempimento di
tipo fiscale-tributario, che fa stato ad altri fini, senza assurgere a
strumento idoneo —al di là di un mero valore indiziario— per evidenziare la
reale consistenza degli immobili interessati e la relativa conformità alla
disciplina urbanistico-edilizia. Parte ricorrente non ha, invero, fornito
alcun elemento a comprova della legittima edificazione della preesistenza.
Come chiarito anche dal Giudice d’Appello, deve escludersi che la
ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della
ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a
testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare.
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la
consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che
considerarsi alla stregua di un’area non edificata.
L’impossibilità di apprezzare la consistenza del manufatto preesistente
determina in radice l’esclusione della configurabilità di un intervento di
“ristrutturazione edilizia”, venendo in rilievo un intervento di nuova
costruzione.
---------------
3. La domanda di sanatoria ordinaria ha, infatti, ad oggetto
un intervento di ristrutturazione di un manufatto composto dal solo piano
terra avente la consistenza di circa 40 mq., con contestuale richiesta di
compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del
2004.
3.1. Le deduzioni di parte ricorrente muovono dalla preesistenza del
manufatto, originariamente di maggiore consistenza ma in gran parte
diroccato, che sarebbe asseritamente stato sottoposto ad un mero intervento
di recupero.
3.2. Come emerge dalla documentazione versata in atti e, segnatamente, dal
provvedimento gravato, l’amministrazione ha rigettato la domanda di
sanatoria ordinaria in considerazione dell’assenza di evidenze a comprova
sia della legittimità della preesistenza asserita sia della effettiva
pregressa edificazione dell’immobile, tenuto conto, in specie, dei rilievi
aerofotogrammetrici esaminati nell’ambito dell’istruttoria svolta, tali da
evidenziare l’avvenuta edificazione del manufatto nel periodo intercorrente
tra l’11.08.2014 ed il 03.11.2015.
3.3. Per univa giurisprudenza (il che esime da citazioni specifiche) l’onere
della prova dell’epoca di realizzazione di un’opera edilizia incombe sul
privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di
documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole
certezza l'epoca di realizzazione del manufatto.
3.4. Tale prova non è stata fornita dall’interessato non potendosi a tal
fine ritenere sufficiente le risalenti risultanze catastali in quanto tali
dati non costituiscono fonte di prova certa sulla situazione di fatto
esistente sul piano immobiliare, rappresentando l’accatastamento un
adempimento di tipo fiscale-tributario, che fa stato ad altri fini, senza
assurgere a strumento idoneo —al di là di un mero valore indiziario— per
evidenziare la reale consistenza degli immobili interessati e la relativa
conformità alla disciplina urbanistico-edilizia (cfr., ex multis, Consiglio
di Stato sez. VI, 09/02/2015, n. 631). Parte ricorrente non ha, invero,
fornito alcun elemento a comprova della legittima edificazione della
preesistenza.
3.5. Contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, inoltre,
l’istruttoria svolta dall’amministrazione, adeguatamente approfondita, ha
fatto emergere che il manufatto oggetto della domanda di sanatoria non
risulta dai rilievi aerofotogrammetrici esaminati, circostanza, questa, che,
oltre ad ulteriormente evidenziare l’inadeguatezza delle allegazioni
probatorie di parte del ricorrente consente di rilevare un ulteriore
rilevante profilo.
3.6. Come chiarito anche dal Giudice d’Appello, deve escludersi che la
ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della
ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a
testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare
(cfr., ex multis, Cons. St., 17.09.2019, n. 6188). In mancanza di
elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza
dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla
stregua di un’area non edificata (Cons. St., sez. V, sentenza n. 1025 del 15.03.2016).
3.7. L’impossibilità di apprezzare la consistenza del manufatto preesistente
determina in radice l’esclusione della configurabilità di un intervento di
“ristrutturazione edilizia”, venendo in rilievo un intervento di nuova
costruzione (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 14.06.2021 n. 4047 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Secondo condivisa giurisprudenza:
- <<Rientrano nella definizione di
"ristrutturazione edilizia" le opere di demolizione e di fedele ed originale
ricostruzione della parte in muratura d'un preesistente edificio pericolante
o di compromessa stabilità, le quali, per questa stessa loro natura, non
implicano alcun impatto negativo sull'interesse paesaggistico della zona -consistendo quest'ultimo nella tutela e nella conservazione dell'aspetto
esteriore dei luoghi, con specifico riferimento alla conservazione dei
caratteristici tipi edilizi esistenti-, né di conseguenza determinano la
violazione dell'autorizzazione resa dall'autorità>>; ed, ancora,
- <<Per qualificare l'intervento di
ricostruzione di un rudere come ristrutturazione, è necessario e sufficiente
che l'originaria consistenza dell'edificio sia accertabile nei suoi elementi
essenziali, con adeguato grado di sicurezza, sulla base di riscontri
documentali od altri elementi certi e verificabili>>.
Secondo quanto rilevato in tale sentenza alla luce della modifica
legislativa dell'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001,
intervenuta ad opera dell'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013, conv. in l. n.
98 del 2013, può ritenersi ormai superato l'orientamento giurisprudenziale
maturato nel vigore del testo originario del citato articolo, che riteneva
necessaria, ai fini della qualificazione dell'intervento come
ristrutturazione edilizia, la preesistenza di un fabbricato da
ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di alcune componenti
essenziali, quali murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
La novella legislativa ha difatti esteso l'ambito della ristrutturazione
alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali
sia possibile risalire ad una consistenza iniziale. La giurisprudenza
richiede poi che la consistenza iniziale debba essere dimostrata tanto sotto
il profilo dell'an (ossia che un certo immobile sia esistito) tanto sotto il
profilo del quantum, inteso come destinazione d'uso ed ingombro
planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato.
La sentenza in esame ammette
la possibilità che la prova della esatta consistenza originaria, in assenza
di elementi strutturali idonei, possa essere raggiunta anche attraverso
riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili..
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Quanto sopra rilevato potrebbe valere nel caso in cui si intendesse offrire
una dimostrazione che le opere contestate sono state realizzate in un arco
temporale in cui non si richiedeva alcun titolo abilitativo edilizio ovvero
il titolo era stato, all’epoca, rilasciato e le opere successive siano mero
recupero e ripristino di volumi e superfici a lui legittimamente edificati.
Ma non sembra ciò essere avvenuto nel caso in esame.
Al riguardo con ordinanza n. 707 del 16.05.2017 questa sezione riteneva
l’istanza cautelare meritevole di accoglimento ai fini del riesame da parte
dell’Amministrazione comunale, alla luce delle circostanze allegate e della
documentazione depositata dal ricorrente, al tempo stesso onerando la
predetta Amministrazione di depositare agli atti della causa l’esito
dell’istruttoria e di tutta la documentazione ritenuta utile in esito al
riesame.
In ottemperanza alla predetta ordinanza, il Comune procedente ha depositato
una articolata relazione istruttoria resa dal Settore Pianificazione
Urbanistica del Comune di Ercolano prot. n. 30181 del 05/06/2017, con relativi
allegati tecnico-giuridici, costituiti da pertinente documentazione
fotografica descrittiva dello stato attuale dello immobile, nonché da
rilievi catastali relativi allo stato originario dello stesso cespite, in
uno allo stralcio della normativa urbanistica e paesaggistica vigente e
riconducibile alla zona interessata dalle contestate opere edilizie.
Ciò ha condotto la Sezione, con successiva ordinanza n. 1865 del 29.11.2017, a respingere l’istanza cautelare dopo aver considerato che: <<alla
luce della documentazione depositata dall’amministrazione comunale in esito
all’ordinanza n. 707/2017, ….. emerge che il manufatto oggetto di
contestazione, sia per diverso posizionamento -in quanto occupante una
parte dell’originaria area di sedime del fabbricato esistente al 1940 e
riportata nella relativa scheda di accatastamento- sia per le modalità
costruttive e la tipologia di materiale utilizzato e riscontrato sui luoghi
(realizzazione di opere in cemento armato), appare costituire non un mero
ampliamento del manufatto originario, bensì un edificio difforme ed eseguito
ex novo rispetto al comodo rurale preesistente sul terreno di cui alla p.lla
421 ex 19>>.
Approfondendo la predetta Relazione istruttoria si apprende che in sede di
sopralluogo, effettuato in data 03.02.2017, come da documentazione
fotografica allegata “si riscontrano lavori in corso per la realizzazione ex
novo di un manufatto allo stato grezzo, con struttura portante in c.a.
(travi di fondazioni, pilastri e solai di copertura, quest'ultimi in parte
già realizzati ed in parte con sola orditura di putrelle), muratura esterna
di tompagno e divisori interni, nel mentre non risultano visibili strutture
inerenti un vecchio manufatto”.
In merito alla preesistenza di un manufatto risalente al 1940, da ricerche
di Ufficio si è evidenziato che catastalmente nell'area in argomento è
riportato un fabbricato rurale di mq. 40, individuato nel NCT al fg. 14 del
Comune di Ercolano, particella n. 421, ex n 19 all'impianto meccanografico
del 12.02.1985 (allegati nn. 3 e 4).
Il manufatto, riscontrato in sede di sopralluogo, di forma rettangolare,
occupa tutta l'area posta in fondo al giardino, anche quella a confine con
l'ex Bosco Reale ove è posizionato il manufatto riportato nel mappale
catastale. Le modalità di costruzione del nuovo manufatto, che è realizzato
anche sull'area di sedime del manufatto riportato in catasto, non possono
considerarsi un ampliamento del vecchio manufatto e ciò per tipologia di
materiali (muri in c.a., struttura in c.a.) e soprattutto per la presenza di
travi di fondazioni in c.a., la cui realizzazione ha dovuto comportare di
fatto la demolizione di quanto preesistente e quindi dal punto di vista
urbanistico l'intervento consistite nella demolizione di un manufatto
preesistente e la costruzione di un nuovo e diverso manufatto (per
dimensioni, per tipologia di materiali).
Inoltre a pag. 5 del ricorso si afferma: "Verso la prima metà del mese di
gennaio 2017, a seguito delle avverse condizioni metereologiche verificatesi
durante i mesi di dicembre 2016 e gennaio 2017, (all. 7 della CTP) nonché
all'avanzato stato di degrado in cui versavano gli immobili riportati nella
scheda di accatastamento n. 10304079 del 10.02.1940, (documentazione
fotografica all. 7 CTP) i solai degli stessi collassarono, creando così il
crollo di gran parte delle murature perimetrali; successivamente al crollo
parziale degli immobili sopra descritti, il sig. Ve., intervenne —in
assenza di nessun titolo abilitativo—per rimuovere le parti ancora
pericolanti e ricostruire il tutto.", confermando di fatto quanto già detto
in precedenza.
Si comprende, allora la ragione per la quale –contrariamente a quanto
dedotto dal ricorrente che fa riferimento a preesistenze del manufatto- nel
provvedimento impugnato si rileva che “le opere abusive in parola
costituiscono costruzione ex novo che quindi anche esse ricadono negli
interventi di “nuova costruzione” di cui all'art. 10, comma I, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, per il quale si richiede il permesso di costruire".
Nel caso in cui si voglia tener conto del solo manufatto esistente (che si
ribadisce essere una demolizione e ricostruzione) -prosegue la Relazione-
l'intervento effettuato su di esso rientra nella tipologia degli "interventi
di ristrutturazione edilizia", giusta articolo 3, comma 1, lett. d), del
D.P.R. n. 380/2001 (allegato n. 5) che così recita: "interventi di
ristrutturazione edilizia, gli interventi rivolti a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono
portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente,
fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché
sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con
riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli
interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di
edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione
edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente".
Secondo condivisa giurisprudenza: <<Rientrano nella definizione di
"ristrutturazione edilizia" le opere di demolizione e di fedele ed originale
ricostruzione della parte in muratura d'un preesistente edificio pericolante
o di compromessa stabilità, le quali, per questa stessa loro natura, non
implicano alcun impatto negativo sull'interesse paesaggistico della zona -consistendo quest'ultimo nella tutela e nella conservazione dell'aspetto
esteriore dei luoghi, con specifico riferimento alla conservazione dei
caratteristici tipi edilizi esistenti-, né di conseguenza determinano la
violazione dell'autorizzazione resa dall'autorità>> (Consiglio di Stato sez.
V, 15/01/1997, n. 45); ed, ancora, <<Per qualificare l'intervento di
ricostruzione di un rudere come ristrutturazione, è necessario e sufficiente
che l'originaria consistenza dell'edificio sia accertabile nei suoi elementi
essenziali, con adeguato grado di sicurezza, sulla base di riscontri
documentali od altri elementi certi e verificabili>> (TAR Brescia,
(Lombardia) sez. I, 06/07/2020, n. 517).
Secondo quanto rilevato in tale sentenza alla luce della modifica
legislativa dell'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001,
intervenuta ad opera dell'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013, conv. in l. n.
98 del 2013, può ritenersi ormai superato l'orientamento giurisprudenziale
maturato nel vigore del testo originario del citato articolo, che riteneva
necessaria, ai fini della qualificazione dell'intervento come
ristrutturazione edilizia, la preesistenza di un fabbricato da
ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di alcune componenti
essenziali, quali murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
La novella legislativa ha difatti esteso l'ambito della ristrutturazione
alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali
sia possibile risalire ad una consistenza iniziale. La giurisprudenza
richiede poi che la consistenza iniziale debba essere dimostrata tanto sotto
il profilo dell'an (ossia che un certo immobile sia esistito) tanto sotto il
profilo del quantum, inteso come destinazione d'uso ed ingombro
planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato.
La sentenza in esame ammette la possibilità che la prova della esatta
consistenza originaria, in assenza di elementi strutturali idonei, possa
essere raggiunta anche attraverso riscontri documentali od altri elementi
certi e verificabili. Ne consegue che il Comune resistente ha correttamente
applicato le disposizioni del Testo Unico sull’edilizia e il provvedimento
impugnato, diversamente da quanto dedotto, non necessitava di alcuna
motivazione ulteriore, anche in virtù del fatto che gli abusi accertati
ricadono in territorio soggetto a vincoli paesaggistici.
Sotto il profilo più strettamente paesaggistico, mette conto evidenziare
come l’impugnato provvedimento è stato emanato, dopo aver considerato che
l'intero territorio comunale di Ercolano, inoltre, è soggetto ai vincoli del
vigente P.R.G., approvato con D.P.R. Campania n. 2376 del 14.05.1975,
pubblicato sulla G.U. n. 177 del 1975, e del Piano Territoriale Paesistico
dei Comuni Vesuviani, approvato con D.M. BB.AA.CC. del 04.07.2002,
pubblicato sulla G.U. del 18.09.2002, serie generale n. 219.
L'immobile in argomento ricade nel vigente P.R.G. in zona omogenea
"Intensiva esistente" e nel
P.T.P. Comuni Vesuviani in zona "P.I. — Protezione Integrale".
A tal proposito, proprio in relazione alle prescrizioni imposte dal citato
PTP dei Comuni Vesuviani, va ribadito che l’area su cui ricadono le opere
realizzate dal ricorrente, oltre che essere ricompresa nella zonizzazione "P.I. Protezione Integrale”, è, altresì, disciplinata dall’ art. 7, 6° comma,
delle Norme Tecniche di Attuazione del predetto Piano paesistico, secondo
cui “... la ristrutturazione edilizia, con riferimento all’ art. 31, lett. d),
457/1978, (trasposto nell’ art. 3, 1° comma, DPR 380/2001), dovrà ammettersi
soltanto per gli edifici di recente impianto (realizzazione dopo il 1945),
con l’esclusione degli edifici di valore storico-artistico ed ambientale
paesistico nonché di quelli di cui ai punti 2 e 3 dell’art. 1 L. n. 1497/1939”
(cfr. art. 7, 6° comma, delle NTA del PTP dei Comuni Vesuviani, così come
testualmente richiamato alla pag. 2, penultimo capoverso della allegata
Relazione istruttoria comunale del 05/06/2017).
Sicché, come puntualmente rappresentato e dedotto nella richiamata Relazione
istruttoria comunale, tenuto conto della circostanza secondo cui, come
rilevabile dalla scheda di accatastamento n. 10304079 del 10/02/1940,
l’edificio preesistente, ricadente in proprietà Ve., è stato costruito
in periodo antecedente al 1940, consegue evidente la non autorizzabilità
delle contestate opere di ristrutturazione edilizie, in quanto aventi ad
oggetto un fabbricato realizzato antecedentemente all’anno 1945 e, dunque,
non assoggettabile, sotto il profilo paesaggistico, ai predetti interventi
di demolizione con ricostruzione.
Infine, secondo giurisprudenza condivisa, stante l’effettivo impatto che le
opere edilizie realizzate ingenerano sul bene tutelato, a legittimare
l’ordine di riduzione in pristino dello stato dei luoghi è sufficiente la
realizzazione di interventi di “nuova costruzione”, realizzati in totale
assenza del titolo abilitativo edilizio in zona peraltro assoggettata a
vincoli paesaggistici ed al D.L.vo 42/2004 e s.m. ed i., richiamato nelle
premesse dell'ordine demolitorio (cfr. TAR Roma, sez. I, 04/05/2016, n.
5114) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 26.04.2021 n. 2730 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nelle
controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice
amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione
dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei
ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova
per testimoni è del tutto residuale.
---------------
... per l’annullamento dell’ordinanza urbanistica n. 1, prot. n. 813, del
09.03.2011, notificata il 02.04.2011, con cui è stato ingiunto ai ricorrenti
di ripristinare lo stato dei luoghi, in relazione all’avvenuta realizzazione
di una pista sterrata lunga circa m. 300 e larga circa m. 2,40, con scarpate
dell’altezza variabile tra m 0,2 e m 1,00, giacente sui terreni distinti in
catasto al foglio n. 11, mappali nn. 179, 404, 96, 403, 223, 405, 371 e 95,
tutti sottoposti a tutela idrogeologica e paesaggistica.
...
Considerato che nelle controversie in materia edilizia, soggette
alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi
concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel
tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe
catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale (Cons.
Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511; TAR Lazio, Latina, sez. I, 13.07.2020 n.
271; TAR Piemonte, sez. II, 27.03.2013 n. 390; TAR Umbria, sez. I,
02.11.2011 n. 354);
Ritenuto che, pertanto, la richiesta istruttoria in argomento non
sia utilmente valutabile, poiché non è possibile provare per testi fatti che
si pongano in contrasto con le risultanze oggettive poste dalla p.a. a
fondamento del provvedimento impugnato e segnatamente con gli esiti degli
accertamenti svolti in luogo da personale del Corpo forestale dello Stato e
dell’Amministrazione civica resistente, che in data 19.01.2011 hanno
appurato, tra l’altro, che “i lavori sono di recente realizzazione in
quanto il terreno delle scarpate non si è ancora inerbito e la terra sembra
essere stata movimentata da poco tempo”, dunque circostanze
incompatibili con la ricostruzione di un semplice intervento manutentivo che
i ricorrenti vorrebbero comprovare per testimoni (TAR
Lazio-Latina,
sentenza 30.03.2021 n. 207 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come noto, l’onere di provare l’avvenuta ultimazione dei lavori
in tempo utile (ovvero di un indefettibile requisito di ammissibilità del
condono), grava esclusivamente sul richiedente. “Ciò in quanto solo
l’interessato può fornire inconfutabili documenti che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso. La
giurisprudenza ha peraltro anche affermato che tale prova deve essere
rigorosa, non risultando a tal fine sufficienti dichiarazioni sostitutive di
atto notorio, ma «richiedendosi invece una documentazione certa ed univoca,
sull’evidente presupposto che nessuno meglio di chi richiede la sanatoria e
ha realizzato l’opera può fornire elementi oggettivi sulla data di
realizzazione dell’abuso». In difetto della stessa, l’Amministrazione ha il dovere di negare
la sanatoria ...”.
Ed ancora: “Nelle controversie in materia edilizia, soggette alla
giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi
concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel
tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe
catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale”.
Da tali condivisibili principi giurisprudenziali discende che:
a) la prova dell’epoca di realizzazione si desume da dati
oggettivi;
b) essi resistono a dati quali quelli risultanti dagli estratti
catastali, ovvero alla prova testimoniale;
c) è onere del privato che contesti il dato dell’Amministrazione
fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell’immobile, "superando”
quella fornita dalla parte pubblica”.
Per quanto attiene, nello specifico, ai mezzi di prova di cui parte
ricorrente ha inteso avvalersi (dichiarazione sostitutiva a sua firma e dichiarazioni testimoniali rese in
sede civile), è sufficiente richiamarsi
alle costanti affermazioni giurisprudenziali sul tema:
“E’ costante la giurisprudenza del Consiglio di Stato nell’affermare
l’inutilizzabilità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà
nell’ambito del processo amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un
mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun
valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di
altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire
l'attività istruttoria dell'amministrazione.
Lo stesso principio si estende anche alle dichiarazioni testimoniali
giurate, come quelle in atti.
D’altro canto, l'attitudine certificativa e probatoria della dichiarazione
sostitutiva dell'atto di notorietà e delle autocertificazioni o auto
dichiarazioni è limitata a specifici status o situazioni rilevanti in
determinate attività o procedure amministrative e non vale a superare quanto
attestato dall'Amministrazione, sino a querela di falso, dall'esame
obiettivo delle risultanze documentali.
Inoltre, la testimonianza scritta, acquisita nelle forme prescritte dal c.p.c.,
non può assolvere al ruolo, che le sarebbe proprio, di mezzo di prova, sulla
base del quale definire il giudizio sulla fondatezza della doglianza, ma
regredisce a mero principio di prova idoneo soltanto a legittimare
l’esercizio dei poteri istruttori del giudice.
Dette dichiarazioni, pertanto, non possono avere nessuna minima valenza
dimostrativa in ordine alla prova di un fatto che deve essere
ragionevolmente certa, perché da essa dipende l’ammissibilità del condono
cui aspira parte appellante”.
---------------
1 - Po.Fr. ha impugnato la determina n. 306 del 14/11/2017 a firma del
Responsabile del Settore Tecnico del Comune di Durazzano con cui sono state
respinte le istanze di condono edilizio n. 722 (protocollata in data
01/04/1986) e n. 1993 (protocollata il 30/09/1986).
...
6.1.1 - Nel caso in esame, il manufatto oggetto della prima istanza di
condono –per come “rilevato” e fotografato dai tecnici comunali
all’atto del sopralluogo del 26/09/2017 (all. 9 e 10 alla memoria di
costituzione del Comune)- risulta significativamente trasformato rispetto a
quello oggetto della domanda, essendo stato ampliato mediante annessione di
altro manufatto, unitamente al quale costituisce un unicum dal punto
di vista funzionale.
Il manufatto oggetto dell’istanza di condono ha, così, perso la sua
originaria consistenza per effetto della trasformazione avvenuta
successivamente alla presentazione della domanda di condono. Il
provvedimento di diniego –per tale parte- è quindi legittimo, in quanto il
condono non avrebbe potuto essere più rilasciato per l’opera indicata nella
domanda, ormai materialmente non più esistente.
6.1.2 - Né può convenirsi con parte ricorrente laddove afferma che la
sostituzione di una finestra con una porta non determini una radicale
trasformazione del bene e ciò perché –nello specifico- l’operata
trasformazione si è resa funzionale all’unificazione di due manufatti
adiacenti, creando, così, un aliquid novi.
6.2 - La tesi attorea si scontra, poi, con l’ulteriore “criticità”
della fattispecie in esame, rappresentata dalla non sicura datazione del
manufatto oggetto dell’istanza di condono prot. n. 1993.
6.2.1 - Come noto, l’onere di provare l’avvenuta ultimazione dei lavori in
tempo utile (ovvero di un indefettibile requisito di ammissibilità del
condono), grava esclusivamente sul richiedente. “Ciò in quanto solo
l’interessato può fornire inconfutabili documenti che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso. La
giurisprudenza ha peraltro anche affermato che tale prova deve essere
rigorosa, non risultando a tal fine sufficienti dichiarazioni sostitutive di
atto notorio, ma «richiedendosi invece una documentazione certa ed univoca,
sull’evidente presupposto che nessuno meglio di chi richiede la sanatoria e
ha realizzato l’opera può fornire elementi oggettivi sulla data di
realizzazione dell’abuso» (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 01.10.2019,
n. 6578). In difetto della stessa, l’Amministrazione ha il dovere di negare
la sanatoria ...”, Consiglio di Stato sez. II, sent. 15/02/2021 n. 1403.
Ed ancora: “Nelle controversie in materia edilizia, soggette alla
giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi
concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel
tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe
catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale” (TAR
Torino sez. II 27/03/2013 n. 390, TAR Perugia, sez. I, 02/11/2011 n. 354).
1.2. Da tali condivisibili principi giurisprudenziali discende che:
a) la prova dell’epoca di realizzazione si desume da dati
oggettivi;
b) essi resistono a dati quali quelli risultanti dagli estratti
catastali, ovvero alla prova testimoniale;
c) è onere del privato che contesti il dato dell’Amministrazione
fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell’immobile, “superando”
quella fornita dalla parte pubblica” – Consiglio di Stato, sez. IV, sent.
511/2016.
6.2.1.1 - Per quanto attiene, nello specifico, ai mezzi di prova di cui
parte ricorrente ha inteso avvalersi (dichiarazione sostitutiva a sua firma,
già allegata all’istanza prot. n. 1993 e dichiarazioni testimoniali rese in
sede civile, depositate unitamente al ricorso), è sufficiente richiamarsi
alle costanti affermazioni giurisprudenziali sul tema:
“E’ costante la giurisprudenza del Consiglio di Stato nell’affermare
l’inutilizzabilità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà
nell’ambito del processo amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un
mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun
valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di
altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire
l'attività istruttoria dell'amministrazione (ex multis Cons. Stato, sez. IV,
07.08.2012, n. 4527; id., sez. VI, 08.05.2012, n. 2648; id., sez. IV,
03.08.2011, n. 4641; id., sez. IV, 03.05.2005, n. 2094; id., sez. IV,
29.04.2002, n. 2270).
Lo stesso principio si estende anche alle dichiarazioni testimoniali
giurate, come quelle in atti.
D’altro canto, l'attitudine certificativa e probatoria della dichiarazione
sostitutiva dell'atto di notorietà e delle autocertificazioni o auto
dichiarazioni è limitata a specifici status o situazioni rilevanti in
determinate attività o procedure amministrative e non vale a superare quanto
attestato dall'Amministrazione, sino a querela di falso, dall'esame
obiettivo delle risultanze documentali (cfr., ex multis, Consiglio di Stato,
sez. V, 20.05.2008, n. 2352).
Inoltre, come ha chiarito di recente l’Adunanza Plenaria di questo
Consiglio, la testimonianza scritta, acquisita nelle forme prescritte dal
c.p.c., non può assolvere al ruolo, che le sarebbe proprio, di mezzo di
prova, sulla base del quale definire il giudizio sulla fondatezza della
doglianza, ma regredisce a mero principio di prova idoneo soltanto a
legittimare l’esercizio dei poteri istruttori del giudice (cfr. Adunanza
Plenaria 20.11.2014, n. 32).
Dette dichiarazioni, pertanto, non possono avere nessuna minima valenza
dimostrativa in ordine alla prova di un fatto che deve essere
ragionevolmente certa, perché da essa dipende l’ammissibilità del condono
cui aspira parte appellante. [omissis]” (Cons. St., Sez. VI,
17.12.2019, nr. 211, da ultimo richiamato da TAR Veneto, sez. II, sent.
1252/2020).
6.2.1.2 – Quanto alle dichiarazioni rese nel giudizio civile conclusosi, in
secondo grado, con la sentenza della Corte d’Appello di Napoli n. 493/15
(dichiarazioni la cui utilizzabilità come fonte di convincimento anche nel
processo amministrativo è stata già affermata –in punto di diritto- dalla
Sezione con sent. 03/06/2019 n. 2986), si osserva che le stesse non giovano
alla tesi di parte ricorrente: i riferimenti ivi contenuti risultano
estremamente generici, datando la realizzazione dei fabbricati agli anni
1982/1983 ovvero 1983/1984 (secondo altro teste); il teste Bu. (per quanto
si ricava dalla lettura della sentenza) ha dichiarato, invece, che i lavori
alla falegnameria iniziarono nel 1982 e che lui stesso si occupò della
realizzazione del capannone nel 1984.
6.2.1.3 - Il solo dato documentale offerto dal Po. a sostegno della sua tesi
è un rilievo aerofotogrammetrico scaturito da un volo effettuato il
18/05/1984, che evidentemente, nulla dice circa l’esistenza di entrambi i
manufatti alla data dell’01/10/1983.
6.2.2 - Giova, infine, rimarcare (quanto alla conseguenza che il Comune trae
dall’esistenza della finestra sul manufatto abusivamente edificato sulla
part. 491) che se è vero che il ricorrente non era tenuto a rappresentare
eventuali manufatti collocati su particella diversa da quella su cui insiste
l’immobile da condonare, non è men vero che la presenza della finestra sul
prospetto sud (prospiciente la particella n. 490), evincibile dallo stralcio
planimetrico allegato alla relazione tecnica integrativa della pratica di
condono n. 722 (datata 28/07/1986), induce logicamente ad escludere che –a
tale data– potesse esservi alcuna costruzione “in appoggio” sul muro
perimetrale lato sud su cui si apre la finestra.
6.2.3 - Alla luce delle suesposte coordinate ermeneutiche e risultanze
istruttorie, può affermarsi che non a ragione si duole parte ricorrente
delle conclusioni cui è addivenuto il Comune con riguardo all’epoca di
ultimazione del manufatto insistente sulla particella n. 490.
6.2.3.1 – Tutto quanto innanzi esposto è sufficiente a fondare la
legittimità del provvedimento di diniego impugnato, risultando le scrutinate
ragioni sufficienti a sorreggerlo.
6.2.4 – In applicazione dell’art. 21-octies, co. 2, l. 241/1990 secondo cui
«non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento
amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione
dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato», possono assorbirsi le restanti censure di
carattere procedimentale articolate in ricorso
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 29.03.2021 n. 2085 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, nel testo
vigente ratione temporis, disponeva che tra gli
“interventi di ristrutturazione edilizia” erano ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione, con la stessa volumetria e
sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie
per l’adeguamento alla normativa antisismica.
In ordine all’interpretazione di tale norma è più volte intervenuta la
giurisprudenza amministrativa, la quale ha chiarito che il concetto di
ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un
fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura, con la conseguenza che la
ricostruzione su ruderi o su un edificio che risulta da tempo demolito,
anche se soltanto in parte, costituisce a tutti gli effetti una nuova opera,
che, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesaggistiche
vigenti al momento della riedificazione.
---------------
Il ricorso, che ha ad oggetto un diniego di sanatoria per la
ricostruzione di un rudere ubicato in zona agricola, va rigettato.
Invero, l’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, nel testo
vigente ratione temporis, disponeva, per quanto d’interesse, che tra gli
“interventi di ristrutturazione edilizia” erano ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione, con la stessa volumetria e
sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie
per l’adeguamento alla normativa antisismica.
In ordine all’interpretazione di tale norma è più volte intervenuta la
giurisprudenza amministrativa, la quale ha chiarito che il concetto di
ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un
fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e copertura, con la conseguenza che la
ricostruzione su ruderi o su un edificio che risulta da tempo demolito,
anche se soltanto in parte, costituisce a tutti gli effetti una nuova opera,
che, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesaggistiche
vigenti al momento della riedificazione (Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2019, n. 5588, 25.06.2013, n. 3456 e 13.10.2010, n. 7476).
Nella specie il diniego è stato motivato con riferimento al fatto che non
era stata data adeguata dimostrazione della reale consistenza e
conformazione della sagoma dell’immobile da ricostruire, non essendo,
all’uopo, sufficiente, il mero rinvenimento di parti di muratura o di tracce
di fondazioni più o meno vetuste, in mancanza di altri elementi certi.
Trattasi di una puntuale motivazione, che non è stata scalfita dalle
osservazioni procedimentali del ricorrente, il quale si è limitato a fare
riferimento alla documentazione fotografica prodotta, da cui risultavano
parti di fondazioni nei lati sud e ovest, nonché a un saggio dal lato nord,
da cui emergeva la sottostante muratura di fondazione; né ulteriori elementi
probatori sono stati forniti nel corso del giudizio.
Concludendo, per le ragioni suesposte, il ricorso è infondato e va rigettato
(TAR Sicilia-Palermo Sez. II,
sentenza 11.02.2021 n. 527 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In conformità a un indirizzo giurisprudenziale
consolidatissimo, grava sulla
parte privata l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per
conseguire la sanatoria di un abuso edilizio, a partire dall’epoca della sua
realizzazione e dall’effettiva consistenza delle opere realizzate.
Gli
elementi probatori necessari a documentare l’attività realizzata si trovano
infatti nella disponibilità dell’autore degli abusi, di modo che la
distribuzione dell’onere probatorio risponde al principio della vicinanza
alla prova, da tempo invalso in ambito processualcivilistico e oggi
espressamente recepito dall’art. 64, co. 1, c.p.a..
Ne deriva che spetta all’interessato provare che l’intervento abusivo abbia
riguardato un fabbricato preesistente, come pure dimostrare la consistenza
originaria di quest’ultimo.
La prova, peraltro, non può essere data
attraverso autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive rese dallo stesso
autore dell’abuso, ovvero dai tecnici incaricati da costui, le quali sono
sprovviste di valore certificativo o probatorio nei confronti
dell’amministrazione procedente e, al più, possono concorrere alla
formazione di un più ampio quadro indiziario, se unite ad altri e affidabili
riscontri oggettivi.
...
Per inciso, anche a voler prestare piena fede a dette dichiarazioni,
potrebbe considerarsi dimostrata la preesistenza delle fondazioni, ovvero di
“mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici”, vale a
dire, nella migliore delle ipotesi, dei resti di una costruzione non meglio
identificata e identificabile nelle sue componenti essenziali.
L’intervento, come anche sostenuto dalla difesa comunale, finirebbe così per
atteggiarsi a ricostruzione di un rudere, pacificamente riconducibile
nell’alveo della nuova opera soggetta a permesso di costruire.
---------------
2.1.1. Il ricorso è infondato.
L’art. 2, co. 1, della legge regionale toscana n. 53/2004 ammette a sanatoria
straordinaria le opere e gli interventi sottoposti a concessione edilizia,
ovvero a denuncia di inizio di attività, che siano stati realizzati con
variazioni essenziali dal titolo abilitativo o, comunque, in difformità
rispetto ad esso, anche se non conformi agli strumenti urbanistici; nonché
le opere e gli interventi sottoposti a denuncia di inizio attività
realizzati in assenza o in difformità dal titolo abilitativo, anche se non
conformi agli strumenti urbanistici.
Il legislatore toscano nell’esercizio delle sue prerogative (cfr. Corte Cost.,
28.06.2004, n. 196) ha dunque escluso dal “terzo condono”, per quanto
qui interessa, gli interventi soggetti al regime della concessione
edilizia/permesso di costruire realizzati in assenza del titolo. E, come
riferito inizialmente, il diniego qui impugnato si fonda proprio sulla
ritenuta inammissibilità a sanatoria dell’intervento realizzato dalla
ricorrente, qualificato dal Comune in termini di “costruzione ex novo”, in
quanto tale bisognosa di concessione/permesso di costruire, nella specie mai
richiesto e rilasciato.
La qualificazione dell’intervento riveste pertanto, ai fini della decisione,
un ruolo dirimente e preliminare rispetto agli ulteriori temi controversi.
Il Comune desume che si sarebbe in presenza di una nuova costruzione dalla
stessa istanza di sanatoria e dalla relazione tecnica alla stessa allegata,
che si limitano a riportare la descrizione del manufatto abusivo nel suo
stato attuale e finale, senza alcun riferimento a un’attività di restauro di
un fabbricato preesistente. E già nel contraddittorio procedimentale,
originato dalle osservazioni al preavviso di diniego, aveva appunto rilevato
come l’istanza di condono non facesse alcuna menzione di preesistenze
edilizie.
Di contro, la ricorrente sostiene che nell’istanza di sanatoria non si
parlerebbe mai di nuova costruzione, e che la prova della preesistenza
sarebbe stata fornita con la relazione tecnico-amministrativa del 19.04.2012, trasmessa al Comune a integrazione della pratica e successivamente
unita alle osservazioni formulate a norma dell’art. 10-bis l. n. 241/1990,
ove si attesta l’ubicazione del manufatto “nel medesimo luogo ove
risultavano mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici",
come attestato peraltro da atto pubblico di compravendita del 14.12.1999
(trascritto a Grosseto il 28.12.1999 RGN 18757, registrato ad Orbetello il
30.12.1999 al n. 597) intercorso tra la società ‘Is.Ro. di Ma.
E.C. s.a.s.” e la sig.ra An.An. (...)”.
Nella medesima relazione tecnico-amministrativa si legge altresì che la
costruzione “risulta essere stata riedificata su fondazioni comunque
preesistenti (restituzione in pristino)”.
Ricostruiti nel dettaglio gli argomenti delle parti, il collegio in primo
luogo ricorda che –in conformità a un indirizzo giurisprudenziale
consolidatissimo, dal quale non vi è ragione di discostarsi– grava sulla
parte privata l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per
conseguire la sanatoria di un abuso edilizio, a partire dall’epoca della sua
realizzazione e dall’effettiva consistenza delle opere realizzate. Gli
elementi probatori necessari a documentare l’attività realizzata si trovano
infatti nella disponibilità dell’autore degli abusi, di modo che la
distribuzione dell’onere probatorio risponde al principio della vicinanza
alla prova, da tempo invalso in ambito processualcivilistico e oggi
espressamente recepito dall’art. 64, co. 1, c.p.a..
Ne deriva che spetta all’interessato provare che l’intervento abusivo abbia
riguardato un fabbricato preesistente, come pure dimostrare la consistenza
originaria di quest’ultimo. La prova, peraltro, non può essere data
attraverso autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive rese dallo stesso
autore dell’abuso, ovvero dai tecnici incaricati da costui, le quali sono
sprovviste di valore certificativo o probatorio nei confronti
dell’amministrazione procedente e, al più, possono concorrere alla
formazione di un più ampio quadro indiziario, se unite ad altri e affidabili
riscontri oggettivi (fra le molte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.04.2020, n. 2660; id., sez. II, 18.03.2020, n. 1929; id., sez. IV,
01.04.2019, n. 2115).
Nel caso in esame, le sole dichiarazioni asseverate riferibili alla
ricorrente o ai suoi tecnici sono quelle originariamente contenute nella
pratica di sanatoria (l’istanza di condono e la relazione tecnica allegata),
che, come si è visto, si limitano a descrivere lo stato attuale del
fabbricato e non fanno riferimento a preesistenze, né qualificano
l’intervento nei termini pretesi dalla signora An. (restauro e
risanamento conservativo).
La relazione tecnico-amministrativa dell’aprile 2012 e le osservazioni al
preavviso di diniego riferiscono, dal canto loro, che la preesistenza del
fabbricato sarebbe attestata dal contratto di acquisto della proprietà,
risalente al 14.12.1999, ma l’affermazione non può essere verificata,
stante la mancata produzione in giudizio del contratto, che pure deve
presumersi nella disponibilità della ricorrente.
Del pari, non è stata prodotta la relazione di accompagnamento a un’istanza
a suo tempo presentata da certo arch. Te. ai sensi dell’art. 13 della legge
n. 47/1985, anch’essa citata nelle osservazioni ex art. 10-bis e nella
relazione tecnico-amministrativa, e che confermerebbe l’avvenuta
riedificazione del fabbricato su fondazioni preesistenti.
Facendo applicazione dell’indirizzo interpretativo richiamato da principio,
gli elementi probatori a disposizione –che si riducono a dichiarazioni
provenienti dalla stessa parte interessata o dai suoi professionisti di
fiducia– sono del tutto inadeguati a dimostrare la preesistenza del
fabbricato.
Per inciso, anche a voler prestare piena fede a dette dichiarazioni,
potrebbe considerarsi dimostrata la preesistenza delle fondazioni, ovvero di
“mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici”, vale a
dire, nella migliore delle ipotesi, dei resti di una costruzione non meglio
identificata e identificabile nelle sue componenti essenziali. L’intervento,
come anche sostenuto dalla difesa comunale, finirebbe così per atteggiarsi a
ricostruzione di un rudere, pacificamente riconducibile nell’alveo della
nuova opera soggetta a permesso di costruire (cfr. TAR Toscana, sez. III,
22.02.2019, n. 286).
Né vale sostenere, da parte della ricorrente, che attraverso la nozione di
rudere il Comune abbia inteso integrare a posteriori la motivazione
dell’atto impugnato. Ribadito che la preesistenza del fabbricato non è stata
dimostrata, gli argomenti difensivi spesi dal Comune sono volti (non a
integrare il provvedimento impugnato, ma) a evidenziare come gli unici
elementi ricavabili dalla relazione tecnico-amministrativa della ricorrente
non permettano di risalire a una preesistenza definita nei suoi elementi
costitutivi, di modo che, a tutto voler concedere, non ne risentirebbe la
qualificazione dell’intervento in termini di nuova costruzione.
2.1.2. In forza di tutto quanto precede, il ricorso non può trovare
accoglimento (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 22.01.2021 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la
preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole
ricostruire.
Non è sufficiente, quindi, che si dimostri che un immobile in parte poi
crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an
anche il quantum e cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del
quale si chiede la ricostruzione.
Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di
certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in
modo tale che, seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso
possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come
identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensiva, del diniego permesso di costruire
n. 117 del 25.09.2019 del Comune dell’Aquila;
...
Viene in decisione il ricorso
avverso il diniego opposto all’istanza di rilascio del permesso titolo in
sanatoria con cambio di destinazione d’uso di un piccolo manufatto in legno,
che la ricorrente afferma di aver ricostruito in sostituzione di un
preesistente volume in muratura, del quale, prima della demolizione,
restavano alcuni muri perimetrali ed era visibile la linea di appoggio della
falda di copertura sul muro perimetrale di un adiacente fabbricato.
Preliminarmente deve essere chiarito che, come eccepito dal Comune, non
hanno alcun rilievo ai fini del decidere le critiche mosse dalla ricorrente
all’annullamento del permesso di costruire rilasciato per la fedele
ricostruzione di un preesistente fabbricato già adibito ad uso commerciale e
alla pedissequa ordinanza di demolizione.
Infatti sia l’annullamento, sia la pedissequa ordinanza di demolizione non
sono stati impugnati.
Pertanto il procedimento avviato ad istanza della ricorrente per la
sanatoria dell’intervento edilizio, ormai privo di titolo legittimante, si
inquadra nel modello tipico delineato dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001
dell’accertamento di conformità che presuppone la dimostrazione della doppia
conformità dell’intervento edilizio, alla normativa vigente sia al momento
in cui fu realizzato, sia alla data del rilascio del titolo in sanatoria.
Secondo quanto sostenuto nel ricorso il nuovo manufatto sarebbe la replica
dell’immobile -del quale sono visibili nelle ortofoto in atti (all. 5 della
memoria del 03.11.2020) i resti di mura perimetrali- non già, come invece
asserito nel provvedimento di diniego, della baracca di lamiere di minori
volume e superficie in quanto in parte appoggiata e in parte interna al
perimetro del fabbricato originario.
Su tale evidenza il tribunale ha accolto l’istanza cautelare, riservando al
merito l’accertamento della corrispondenza dei parametri plano-volumetrici
del nuovo edificio rispetto a quelli del manufatto preesistente, requisito
indispensabile che il diniego impugnato ritiene insussistente, per potersi
qualificare l’intervento come ristrutturazione ammessa sul sedime e con i
distacchi originari e non nuova costruzione soggetta al rispetto delle
distanze previste per la zona urbanistica ove ricade l’area interessata
dall’intervento.
La giurisprudenza è concorde nel ritenere che “La ristrutturazione
edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del
fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed
architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire. Non è
sufficiente quindi che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o
demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il
quantum e cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si
chiede la ricostruzione; occorre, quindi, la possibilità di procedere, con
un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi
strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente
“abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi
connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua
destinazione” (Consiglio di Stato, sez. VI, 05/12/2016, n. 5106).
Sulla base di detto orientamento il diniego gravato appare carente in punto
di istruttoria e di motivazione perché non considera che i muri superstiti
del preesistente manufatto sono assemblati con pietre e mattoni –come è
evidente dalle ortofoto in atti- e pertanto non può escludersi che il
manufatto del quale facevano parte, sia stato realizzato in epoca precedente
al 1967 in regime di edilizia libera e dunque assistito da un titolo
legittimante.
Sempre in via presuntiva, contrariamente a quanto affermato nel diniego,
neppure può escludersi che il nuovo fabbricato abbia un volume non eccedente
quello del preesistente manufatto in muratura.
Il Comune si è infatti concentrato erroneamente sul confronto fra il volume
del manufatto oggetto di sanatoria e quello della baracca in lamiere che non
ha alcuna rilevanza ai fini del procedimento di accertamento di conformità
richiesto dalla ricorrente.
L’istanza si sanatoria, come del resto l’istanza di rilascio del permesso di
costruire annullato, ha ad oggetto, come si evince chiaramente dalle
osservazioni endoprocedimentali a firma del tecnico incaricato (all. 21 del
ricorso), la verifica di conformità dell’edificio realizzato in sostituzione
del più ampio e più risalente manufatto in muratura, il cui volume peraltro
si sarebbe potuto accertare prendendo in considerazione il perimetro
delineato dai muri superstiti e la linea di ammorsamento della copertura
ancorata al fabbricato adiacente, ancora visibile sul muro perimetrale (cfr.
ortofoto precedenti al sisma del 2009 – all. 5 del ricorso).
Con specifico riferimento a detta linea di ammorsamento è presumibile che si
trattasse proprio e univocamente della copertura del manufatto crollato, non
essendovi elementi per inferire che su detta linea fosse ancorato un
preesistente balcone o camminamento esterno, in quanto detto muro
perimetrale è completamente privo di aperture.
In conclusione nessuna delle motivazioni addotte a sostegno del diniego
resiste alle censure dedotte nel ricorso:
- non la mancata dimostrazione della legittimità dell’esistente,
ovvero la conformità al regime urbanistico del fabbricato preesistente
all’intervento di demolizione perché il Comune ha erroneamente individuato
l’immobile “ante demolizione” nella baracca in lamiere e non nel
manufatto in pietra presumibilmente preesistente al 1967, che sia
nell’istanza di rilascio del permesso di costruire, sia nell’istanza di
sanatoria viene indicato come il volume preesistente oggetto di
ricostruzione;
- non per contrasto con l’art. 3 d.P.R. n. 380/2001 per la
ricostruzione con diverso volume, perché il volume preesistente è stato
calcolato nel diniego impugnato sulle dimensioni della baracca di lamiere e
non su quelle del preesistente fabbricato in muratura che la ricorrente ha
inteso demolire e ricostruire riproducendone le dimensioni presumibilmente
accertabili sulla base dei muri superstiti e della quota della copertura
misurabile dalla linea di ancoraggio all’edificio adiacente;
- non per contrasto con l’art. 3 d.P.R. n. 380/2001 per il mancato
rispetto delle distanze dai confini e dalla strada, perché il Comune non ha
considerato, che trattandosi di demolizione e ricostruzione, l’area di
sedime e, quindi, anche le distanze da osservare sono quelle originarie del
manufatto in muratura, ai sensi dell’art. 3 d.P.R. n. 380/2001 vigente
ratione temporis e dell’art. 46 delle NTA del PRG del Comune dell’Aquila
che, per gli interventi d demolizione e ricostruzione nella zona
residenziale delle frazioni, ove ricade l’area interessata dall’intervento
edilizio in esame, ammette la conservazione delle distanze preesistenti e la
ricostruzione sul ciglio stradale, esclusi gli aggetti e le proiezioni sugli
spazi pubblici (TAR
Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 18.12.2020 n. 530 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La questione del rilievo da dare alla fatiscenza del patrimonio edilizio
preesistente ai fini della configurabilità di un singolo intervento come
incidente sullo stesso, e non “nuova costruzione”, è già stata affrontata
più volte da questo Consiglio di Stato, con riferimento a quel particolare
tipo di attività edilizia che, con neologismo urbanistico ormai diffuso a
livello di disciplina comunale, va sotto la definizione di “ripristino
filologico”.
Esso si connota nel complesso delle attività, in verità anche
di eliminazione di volumetrie mediante abbattimento di eventuali
superfetazioni, per riportare alla consistenza “storica” complessi ormai diruti, o irrimediabilmente manomessi.
Non essendo il “ripristino filologico” una categoria edilizia definita, alla
quale possa ascriversi una determinata disciplina normativa, il relativo
inquadramento necessita di un’indagine specifica che abbia riguardo al
risultato che si intende conseguire, ma anche alla “base di partenza”
dell’intervento.
La giurisprudenza amministrativa sviluppatasi proprio con riferimento a
tale tipologia di intervento, riconducibile a seconda dei casi a risanamento
conservativo o ristrutturazione edilizia, ribadisce comunque come in
entrambi i casi si tratti di interventi di recupero sul patrimonio edilizio
“esistente”, traslati nell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal previgente art.
31 della legge n. 457/1978, che già li contemplava. La loro finalità di
“conservazione”, seppur lato sensu intesa, postula dunque pur sempre la
preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un
organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura.
Il concetto di costruzione esistente presuppone a sua volta la
possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in
modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica
entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l’intervento
edificatorio sulla stessa non rileva quale trasformazione urbanistico-edilizia
del territorio in termini di nuova costruzione. Deve, cioè, trattarsi di un
manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia abitato o abitabile,
possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come
identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione.
In buona sostanza, il rilascio di un titolo edilizio per procedere alla
ristrutturazione è subordinato alla possibilità di individuare, in maniera
pressoché certa, l’esatta cubatura e sagoma d’ingombro del fabbricato su cui
intervenire. Solo se è chiara la base di partenza, è possibile discutere
l’entità e la qualità delle modifiche apportabili senza travalicare i limiti
definitori della ristrutturazione.
Costituisce pertanto vera e propria
costruzione ex novo e non già ristrutturazione, né tanto meno restauro o
risanamento conservativo e, come tale, è soggetta a concessione edilizia
secondo le regole urbanistiche vigenti al momento dell’istanza del privato,
«la ricostruzione di un intero fabbricato, diruto da lungo tempo e del quale
residuavano, al momento della presentazione dell’istanza del privato, solo
piccole frazioni dei muri, di per sé inidonee a definire l’esatta volumetria
della preesistenza, in quanto l’effetto ricostruttivo così perseguito mira
non a conservare o, se del caso, a consolidare un edificio comunque definito
nelle sue dimensioni, né alla sua demolizione e fedele ricostruzione […]
bensì a realizzarne uno del tutto nuovo e diverso».
---------------
8. Il Collegio ritiene l’appello fondato, e come tale da accogliere.
9. La Sezione ritiene che la vicenda ruoti intorno a due nozioni essenziali:
da un lato, la definizione di ristrutturazione edilizia e la conseguente riconducibilità alla stessa di un’attività di “recupero”, inteso in senso
etimologico, di un antico complesso, solo in parte ancora empiricamente
percepibile, in altra invece “intuibile”, in ragione delle poche vestigia
residue di crolli generalizzati dovuti all’usura del tempo; dall’altro, le
regole rivenienti dalla legge regionale n. 20 del 1998, col preciso intento
di agevolare gli interventi di conversione in strutture ricettive di vecchi
fabbricati tipici dell’antica architettura rurale della zona (trulli,
masserie e simili).
Afferma il primo giudice che i confini della ristrutturazione edilizia, per
come definita all’art. 3, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001, sono diversi
nell’ipotesi in cui essa si concretizzi nella ricostruzione, previa
demolizione, rispetto a quella in cui, invece, non si demolisca alcunché. In
tale seconda ipotesi non è infatti necessario rispettare i limiti originari
di sagoma e di volume. Da qui, la ritenuta insufficienza istruttoria da
parte del Comune che non avrebbe adeguatamente valutato la documentazione
fornita allo scopo di attestare la preesistenza di corpi di fabbrica.
10. La ricostruzione non è sufficiente a fotografare la peculiarità della
fattispecie, limitandosi ad un’analisi definitoria teorica al punto da
inserirvi, quale elemento di forza, la non necessità di demolire previamente
alcunché, essendo gli edifici in controversia già a terra.
Né assume rilievo
il distinguo che il primo giudice ha inteso enfatizzare tra ristrutturazione
c.d. “leggera” e ristrutturazione “pesante”, riveniente dal combinato
disposto tra l’art. 3, lett. d), del T.U.E., che declina la relativa
definizione in termini generali, e l’art. 10, che ritaglia al suo interno i
casi in cui per le modifiche intervenute (alla sagoma, al volume, ai
prospetti, alle superfici e, nelle zone omogenee A, anche alla destinazione
d’uso) si rende necessario il permesso di costruire.
Nel caso di specie,
infatti, come ribadito dall’appellata nelle proprie memorie, essa non
rivendica la possibilità di realizzare la progettualità proposta mediante
semplice d.i.a. (oggi s.c.i.a.); la qualificazione dell’intervento come
ristrutturazione, ancorché “pesante” costituisce il necessario grimaldello
per accedere ai benefici della legge regionale n. 20 del 1998, approcciandosi ad una destinazione d’uso per la quale gli indici di
fabbricabilità previsti dalle N.T.A. del P.R.G. sono diversi e le
limitazioni, anche funzionali, alla edificabilità del suolo, strumentali
alla realizzazione della struttura ricettiva.
In sintesi, l’angolazione
prospettica dalla quale va riguardata la vicenda non è quella degli effetti
dell’attività di recupero, bensì della configurazione dell’immobile da
recuperare, recte, ancora prima, della esistenza “materiale”
dell’immobile stesso, le cui “cubature virtuali” devono traslare nella nuova
edificazione, in quanto continuativa della precedente.
11. La questione del rilievo da dare alla fatiscenza del patrimonio edilizio
preesistente ai fini della configurabilità di un singolo intervento come
incidente sullo stesso, e non “nuova costruzione”, è già stata affrontata
più volte da questo Consiglio di Stato, con riferimento a quel particolare
tipo di attività edilizia che, con neologismo urbanistico ormai diffuso a
livello di disciplina comunale, va sotto la definizione di “ripristino
filologico”.
Esso si connota nel complesso delle attività, in verità anche
di eliminazione di volumetrie mediante abbattimento di eventuali
superfetazioni, per riportare alla consistenza “storica” complessi ormai diruti, o irrimediabilmente manomessi.
Non essendo il “ripristino filologico” una categoria edilizia definita, alla
quale possa ascriversi una determinata disciplina normativa, il relativo
inquadramento necessita di un’indagine specifica che abbia riguardo al
risultato che si intende conseguire, ma anche alla “base di partenza”
dell’intervento.
12. La giurisprudenza amministrativa sviluppatasi proprio con riferimento a
tale tipologia di intervento, riconducibile a seconda dei casi a risanamento
conservativo o ristrutturazione edilizia, ribadisce comunque come in
entrambi i casi si tratti di interventi di recupero sul patrimonio edilizio
“esistente”, traslati nell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal previgente art.
31 della legge n. 457/1978, che già li contemplava. La loro finalità di
“conservazione”, seppur lato sensu intesa, postula dunque pur sempre la
preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un
organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura.
Il concetto di costruzione esistente presuppone a sua volta la
possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in
modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica
entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l’intervento
edificatorio sulla stessa non rileva quale trasformazione urbanistico-edilizia del territorio in termini di nuova costruzione. Deve,
cioè, trattarsi di un manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia
abitato o abitabile, possa essere comunque individuato nei suoi connotati
essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua
destinazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10.02.2004, n. 475 e 15.03.1990, n. 293; più di recente, sez. II, 24.10.2020, n. 6455).
In buona sostanza, il rilascio di un titolo edilizio per procedere alla
ristrutturazione è subordinato alla possibilità di individuare, in maniera
pressoché certa, l’esatta cubatura e sagoma d’ingombro del fabbricato su cui
intervenire. Solo se è chiara la base di partenza, è possibile discutere
l’entità e la qualità delle modifiche apportabili senza travalicare i limiti
definitori della ristrutturazione.
Costituisce pertanto vera e propria
costruzione ex novo e non già ristrutturazione, né tanto meno restauro o
risanamento conservativo e, come tale, è soggetta a concessione edilizia
secondo le regole urbanistiche vigenti al momento dell’istanza del privato,
«la ricostruzione di un intero fabbricato, diruto da lungo tempo e del quale
residuavano, al momento della presentazione dell’istanza del privato, solo
piccole frazioni dei muri, di per sé inidonee a definire l’esatta volumetria
della preesistenza, in quanto l’effetto ricostruttivo così perseguito mira
non a conservare o, se del caso, a consolidare un edificio comunque definito
nelle sue dimensioni, né alla sua demolizione e fedele ricostruzione […]
bensì a realizzarne uno del tutto nuovo e diverso» (Cons. Stato, Sez. V,
03.04.2000, n. 1906; id., 15.04.2004, n. 2142, 01.12.1991, n.
2021, 10.03.1997, n. 240 e 04.11.1994, n. 1261).
13. Né può addebitarsi al Comune alcuna carenza di istruttoria, tenuto
altresì conto che l’onere probatorio della consistenza del complesso
immobiliare gravava interamente sul privato richiedente.
I documenti prodotti, infatti, quali le mappe del catasto onciario e del
catasto urbano, gli elaborati grafici del P.R.G. e le riprese aeree
originali, da un lato confermano l’incontestata presenza in loco del
manufatto; dall’altro rilevano l’effettivo stato di macerie, talvolta
addirittura di singoli massi facenti presumibilmente parte di mura fondanti,
ma nulla dicono della effettiva consistenza del fabbricato, alla cui
ricostruzione si addiviene pertanto solo con un corposo sforzo di fantasia,
ispirandosi alle caratteristiche morfologiche comuni a quella specifica
tipologia.
Quanto alla relazione “sulla preesistenza planovolumetrica della masseria
Gh.” redatta dai progettisti di parte in data 02.03.2009 per
riscontrare la richiesta di integrazione istruttoria avanzata dagli uffici
comunali, a prescindere dalle interessanti digressioni storiche sulle
masserie in genere e su quella di cui è causa, in particolare, essa nulla
aggiunge alla ricostruzione della base “obiettiva” su cui si è fondata
l’ipotesi progettuale. Molti elementi architettonici vengono richiamati per
evocare il tipico assetto delle masserie e, quindi, presumibilmente, anche
di quella di cui è causa; ma sul piano descrittivo non può che darsi atto,
almeno con riferimento ad una consistente parte del complesso, che gli
edifici sono pressoché totalmente abbattuti.
In particolare, nel breve paragrafo rubricato proprio “documentazione
comprovante la volumetria da ricostruire” si fa riferimento ai “resti delle
fondamenta in situ” e alle riprese fotografiche aeree originali: le quali
peraltro, una volta prodotte (in prima battuta non erano state neppure
allegate alla relazione) non forniscono alcun elemento integrativo di
conoscenza, consentendo una visione vaga, e per linee piane, piuttosto che
per spessori.
Infine, si dà atto che alcune strutture originarie sono “quasi totalmente”
crollate (es., i vani con copertura a tetto a doppia falda, ovvero i
“voluminosi corpi di fabbrica, risalenti ai primi del ‘900”). Di alcune di
esse si ipotizza la presenza, elencandole descrittivamente (“sicuramente vi
erano”), quali quelle per la lavorazione e lo stoccaggio dei prodotti
caseari, i vani per alloggi del massaro e dei lavoratori, braccianti
agricoli, ecc. Ne emerge un quadro descrittivo di sicura suggestione
storica, ma assai scarsa aderenza alla realtà fattuale, che tenta di
ricostruire, non descrive per come è, valorizzando anche il futuro utilizzo
di materiali e tecniche architettoniche idonee ad evocarne le presumibili
sembianze originarie.
14. Da quanto detto emerge la correttezza del diniego opposto dal Comune di
Lecce alla richiesta di permesso di costruire per ristrutturazione edilizia,
riferita peraltro al complesso nella sua interezza e non limitata, come
forse sarebbe stato più opportuno, alle sole parti dello stesso
effettivamente insistenti ancora in loco. A ciò consegue anche
l’inapplicabilità della invocata legge regionale n. 20 del 1998, avente ad
oggetto le sole attività di consolidamento, restauro e ristrutturazione di
edifici rurali variamente denominati, rientranti nel regime giuridico della
l. 01.06.1939, n. 1089, da destinare a strutture ricettive.
Ne consegue
altresì anche quella delle N.T.A. invocate dall’appellata, in quanto
riferite al recupero di cubature da destinare a ricettività, non estensibili
alla normale attività edilizia consentita in ragione della destinazione
(agricola) della zona. Di tutto ciò peraltro si dava dettagliato conto nel
preavviso di diniego del 24.05.2010, evidenziando come con la progettualità complessiva proposta si sarebbe realizzato un aumento della
volumetria esistente, così ponendosi comunque in contrasto con il più volte
richiamato art. 1 della l.r. 22.07.1998, n. 20, che la vieta, almeno in
riferimento alle aree superficiarie.
15. Che tale sia la cornice ordinamentale corretta nella quale calare
l’odierna fattispecie è confermato altresì dal tenore letterale della legge
regionale.
Il richiamo ivi contenuto al rispetto comunque della volumetria fuori terra
“esistente”, evoca dunque la necessità che se ne possa computare l’esatta
consistenza; la necessità di salvaguardare prospetti e caratteristiche
architettoniche e artistiche dell’immobile, egualmente ne implica la piena
visualizzazione. La ratio, dunque, appare quella di recuperare da situazioni
di degrado il patrimonio storico-culturale di settore, laddove esso ancora
sussista, non ricostruirlo ex novo, seppur con modalità quanto più
rispettose possibile della loro plausibile configurazione effettiva.
16. Per quanto sopra detto l’appello deve essere accolto e, per l’effetto,
deve essere riformata la sentenza n. 1023 del 2011 della sez. staccata di
Lecce del TAR per la Puglia, con conseguente reiezione del ricorso n.r.g.
1829/2010 e conferma della determina del 14.07.2010, di diniego del
permesso di costruire richiesto (Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 15.12.2020 n. 8035 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Nelle
controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice
amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione
dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei
ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova
per testimoni è del tutto residuale.
---------------
4.2 Neppure è suscettibile di condivisione il secondo motivo di
ricorso, posto che, all’esito dell’istruzione probatoria disposta dal
collegio su richiesta del ricorrente, gli elementi emersi attraverso
l’assunzione delle testimonianze de quibus non sono in grado di
superare le risultanze oggettive offerte dal Comune di Pontinia.
Al riguardo è sufficiente ricordare che nelle controversie in materia
edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi
di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello
spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta,
aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del
tutto residuale (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511; TAR Piemonte, sez.
II, 27.03.2013 n. 390; TAR Umbria, sez. I, 02.11.2011 n. 354).
Nella specie, i dati oggettivi versati dall’Amministrazione offrono una
ricostruzione dei fatti non collimante con la prova testimoniale (peraltro
di due sui tre testi indicati), in quanto le fotografie satellitari
dell’area di cui è causa, risalenti al 2002, 2004 e 2019, dimostrano
l’esistenza del manufatto in questione soltanto a partire da quest’ultimo
anno, con la conseguenza che la prova dell’epoca di realizzazione della
suddetta autorimessa resiste al dato desumibile dalle suddette testimonianze
(Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511) (TAR
Lazio-Latina,
sentenza 13.07.2020 n. 271 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: L'art.
3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001, nel testo modificato
dall'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013, conv. in L. n. 98 del 2013,
ricomprende fra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche
quelli "volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile
accertarne la preesistente consistenza.” Il successivo comma 2 dispone che
“Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli
strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi (…)”.
La legge 98/2013 ha superato la previgente nozione di ristrutturazione, che
non ricomprendeva gli interventi finalizzati a ricostruire edifici allo
stato di rudere, sul presupposto che la demolizione e successiva
ricostruzione richiedesse necessariamente la sussistenza di un immobile da
ristrutturare.
La novella legislativa, infatti, “ha allargato il concetto di
ristrutturazione all'ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si
rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza
originaria con un'indagine tecnica.
L'accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato
deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione
fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di
delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali
dell'edificio diruto”.
E’ necessario e sufficiente, quindi, per qualificare l’intervento come
ristrutturazione, che l’originaria consistenza dell’edificio sia
individuabile sulla base di riscontri documentali od altri elementi certi e
verificabili.
Il vincolo della intellegibilità delle caratteristiche del fabbricato
demolito non include invece alcun limite in relazione alla maggiore o minore
risalenza nel tempo dell’intervento di demolizione.
In definitiva, la
qualificazione dell’intervento di ricostruzione come nuova edificazione
scatta ove sia impossibile l’individuazione certa dei connotati essenziali
del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura), attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le
dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 9887 di data 28.09.2016,
di diniego dell’istanza di autorizzazione del piano attuativo presentata per
un intervento di ricostruzione di fabbricato preesistente.
...
Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
L'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001, nel testo
modificato dall'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013, conv. in L. n. 98 del 2013,
ricomprende fra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli "volti
al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o
demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne
la preesistente consistenza.” Il successivo comma 2 dispone che “Le
definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti
urbanistici generali e dei regolamenti edilizi (…)”.
La legge 98/2013 ha superato la previgente nozione di ristrutturazione, che
non ricomprendeva gli interventi finalizzati a ricostruire edifici allo
stato di rudere, sul presupposto che la demolizione e successiva
ricostruzione richiedesse necessariamente la sussistenza di un immobile da
ristrutturare.
La novella legislativa, infatti, “ha allargato il concetto di
ristrutturazione all'ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si
rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza
originaria con un'indagine tecnica (in tal senso cfr., ex multis, Cons. St.,
sez. VI, 03.10.2019, n. 6654; TAR Toscana, sez. III, 26.05.2020, n. 631).
L'accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato
deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione
fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di
delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali
dell'edificio diruto (in tal senso cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II,
23.12.2019, n. 6098).” (TAR Liguria Sez. I, 11.06.2020, n. 364; conforme
Cass. pen. Sez. III, 28.04.2020, n. 13148).
E’ necessario e sufficiente, quindi, per qualificare l’intervento come
ristrutturazione, che l’originaria consistenza dell’edificio sia
individuabile sulla base di riscontri documentali od altri elementi certi e
verificabili (Cass. pen. Sez. III, 25.06.2015, n. 26713; Cass. pen. Sez. III,
30.09.2014, n. 40342).
Il vincolo della intellegibilità delle caratteristiche del fabbricato
demolito non include invece alcun limite in relazione alla maggiore o minore
risalenza nel tempo dell’intervento di demolizione.
L’intervento di ricostruzione proposto dai ricorrenti mira a ricostruire un
edificio demolito presumibilmente negli anni ‘50, la cui consistenza è
evincibile sia dallo stato dei luoghi (conformazione della corte e segni
presenti sulla muratura del fabbricato adiacente) sia dalle mappe del
cessato catasto fabbricati, dal N.C.U.E. vigente e dalle schede catastali
risalenti all’anno 1994. Da tali elementi è possibile rilevare la
consistenza planimetrica del fabbricato originario.
La documentazione fotografica storica prodotta anche nel presente giudizio è
invece idonea ad attestarne la consistenza volumetrica e le caratteristiche
costruttive.
Inoltre il permesso di costruire del 1972, secondo le allegate tavole
prodotte in giudizio, già prevedeva la ricostruzione dell’immobile.
Sicché la consistenza originaria dell’edificio può dirsi accertabile.
La qualificazione dell’intervento di ricostruzione come nuova edificazione
scatta -infatti- ove sia impossibile l’individuazione certa dei connotati
essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali
e copertura), attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le
dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare, circostanza che
qui non si verifica. Il fabbricato previsto ha infatti una sagoma, un
ingombro ed un impatto che risultano nella sostanza del tutto coincidenti
con la situazione pregressa.
Né in specie, trattandosi di area vincolata, l’intervento deve considerarsi
precluso in relazione alla prevista riduzione dell’altezza originaria
dell’edificio, atteso che la sagoma originaria è stata mantenuta e
l’allineamento con l’edificio limitrofo è stato introdotto modificando il
progetto originario, al fine di corrispondere ad una specifica prescrizione
imposta dalle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo paesistico, e
quindi mira ad una più efficace tutela dello stesso.
Priva di pregio risulta anche la motivazione allegata dal comune in
relazione all’interesse pubblico al mantenimento della destinazione della
corte ad area di sosta privata, atteso che detta valutazione risulta
inidonea a superare la ricorrenza dei presupposti di applicazione del
disposto normativo richiamato dai ricorrenti. Così come il richiamo alle
previsioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi,
sulle quali prevale –per espressa disposizione normativa– la qualificazione
operata dal TU.
Per le esposte considerazioni, in accoglimento dei motivi I, III e V e con
assorbimento dei restanti motivi di gravame, il ricorso va accolto (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 06.07.2020 n. 517 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Come
ha chiarito la giurisprudenza, mentre in precedenza la riedificazione di un
rudere era qualificata come nuova costruzione, la novella legislativa del
2013 ha allargato il concetto di ristrutturazione edilizia all’ipotesi di
edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e
di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un’indagine tecnica.
L’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato
deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione
fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di
delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali
dell’edificio diruto.
In proposito, prive di pregio sono le deduzioni della difesa civica, secondo
cui le risultanze catastali e la dichiarazione sostitutiva sarebbero
totalmente sfornite di qualsivoglia valore probatorio.
Infatti, è certamente vero che l’accatastamento fa stato solo ai fini
fiscali. Tuttavia, dati, planimetrie e mappe catastali possono comunque
costituire un elemento di prova in ordine alla situazione degli immobili,
specialmente se, come nella specie, si inseriscano in modo coerente nel
materiale probatorio acquisito agli atti.
Parimenti, in materia di dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, la
giurisprudenza ha chiarito che le stesse, seppur non sufficienti, da sole, a
costituire piena prova, possono comunque assumere valore indiziario,
contribuendo a formare un quadro complessivo di elementi concordanti.
In generale, sull’ammissibilità delle dichiarazioni scritte di terzi, si
richiama la consolidata giurisprudenza civile in materia di prove c.d.
atipiche, tra cui Cass. n. 792/2020 e n. 17932/2015, secondo cui tali
scritti, pur non avendo efficacia di prova testimoniale, sono rimessi alla
libera valutazione del giudice e possono fornire utili elementi di
convincimento, con la precisazione che tale orientamento, in quanto
espressione di principi generali, risulta applicabile al processo
amministrativo ex art. 39, comma 1, c.p.a..
---------------
... per l’annullamento del provvedimento del Comune di Varazze prot. n.
24276 del 26.10.2016, comunicato in data 11.11.2016, recante diniego di
permesso di costruire per demolizione e ricostruzione, con cambiamento di
destinazione d’uso, di fabbricato diruto;
...
1. Con i motivi I), II) e III) della narrativa in fatto, la
società ricorrente si duole che il Comune, in base ad una scorretta
interpretazione dell’art. 2, comma 1, lett. b), della L.R. n. 49/2009,
avrebbe negato rilievo alla determinazione del volume del magazzino
diroccato effettuata dal proprio tecnico, travisando le risultanze
documentali ed i calcoli conseguentemente eseguiti.
Le censure sono fondate.
1.1. Al fine di promuovere l’adeguamento ed il rinnovo del patrimonio
edilizio, la L.R. n. 49/2009 (c.d. Piano casa) consente una serie di
interventi in deroga ai piani urbanistici comunali, tra i quali la
demolizione e ricostruzione di fabbricati, con possibilità di incremento
fino al 35% della volumetria esistente (art. 7, comma 1).
In virtù dell’art. 2, comma 1, lett. b), della medesima L.R. n. 49/2009 è
suscettibile di intervento edilizio (nella specie, di demo-ricostruzione)
anche l’edificio diruto, vale a dire quello “di cui parti, anche
significative e strutturali, siano andate distrutte nel tempo ma di cui sia
possibile documentare l’originario inviluppo volumetrico complessivo e la
originaria configurazione tipologica, a fini della sua ricostruzione”.
La formulazione della norma è sostanzialmente analoga a quella dell’art. 3,
comma 1, lett. d), del d.p.r. n. 380/2001, nel testo modificato dall’art. 30
del d.l. n. 69/2013, conv. in l. n. 98/2013, che ricomprende fra gli
interventi di ristrutturazione anche quelli “volti al ripristino di
edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la
loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente
consistenza”.
Come ha chiarito la giurisprudenza, mentre in precedenza la riedificazione
di un rudere era qualificata come nuova costruzione, la novella legislativa
del 2013 ha allargato il concetto di ristrutturazione all’ipotesi di
edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e
di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un’indagine tecnica
(in tal senso cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 03.10.2019, n.
6654; TAR Toscana, sez. III, 26.05.2020, n. 631).
L’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato
deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione
fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di
delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali
dell’edificio diruto (in tal senso cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II,
23.12.2019, n. 6098).
1.2. In applicazione dei richiamati principi, ritiene il Collegio che la
deducente abbia prodotto plurimi e coerenti elementi che, oltre a costituire
una chiara testimonianza del manufatto sul territorio, permettono di
individuarne in maniera attendibile la pregressa effettiva consistenza.
In particolare, i seguenti documenti consentono di accertare dimensioni e
caratteristiche dell’edificio da ripristinare:
- la visura catastale della particella 244 del foglio 49 (doc. 10
ricorrente), classata quale ente urbano con superficie di mq. 29;
- la mappa catastale del foglio 49 (doc. 2 ricorrente), dalla quale
risulta che sulla particella 244 insisteva un fabbricato con antistante
corte scoperta;
- i rilievi fotografici del rudere (doc. 6 ricorrente), nei quali
sono visibili, seppur rovinate a terra, tre delle quattro colonne in cemento
armato e le tegole del tetto in laterizio alla marsigliese;
- le fotografie storiche (doc. 4 ricorrente), che, pur riprendendo
il rustico a lunga distanza, consentono comunque di tratteggiarne la sagoma;
- le aerofotogrammetrie del 1975 (doc. 5 ricorrente), nelle quali
risulta distintamente riconoscibile il tetto a due falde con copertura in
tegole marsigliesi;
- la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà delle due
precedenti proprietarie (doc. 10 ricorrente), le quali hanno attestato che
il magazzino aveva una pianta di circa mt. 5 x 5, era coperto da un tetto a
due falde e aveva un’altezza massima di mt. 3,5.
In proposito, prive di pregio sono le deduzioni della difesa civica, secondo
cui le risultanze catastali e la dichiarazione sostitutiva sarebbero
totalmente sfornite di qualsivoglia valore probatorio.
Infatti, è certamente vero che l’accatastamento fa stato solo ai fini
fiscali. Tuttavia, dati, planimetrie e mappe catastali possono comunque
costituire un elemento di prova in ordine alla situazione degli immobili (in
argomento cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 16.04.2015, n. 1957;
TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 22.05.2020, n. 5424; TAR Calabria, Catanzaro,
sez. II, 05.05.2020, n. 780), specialmente se, come nella specie, si
inseriscano in modo coerente nel materiale probatorio acquisito agli atti
(in generale, sulla sinergia tra risultanze catastali ed assetto
urbanistico-edilizio del territorio, cfr. Cons. St., sez. II, 08.04.2020, n.
2326).
Parimenti, in materia di dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, la
giurisprudenza ha chiarito che le stesse, seppur non sufficienti, da sole, a
costituire piena prova, possono comunque assumere valore indiziario,
contribuendo a formare un quadro complessivo di elementi concordanti (in tal
senso cfr., ex aliis, Cons. St., sez. VI, 19.10.2018, n. 5988; TAR
Liguria, sez. I, 27.05.2020, n. 327; TAR Piemonte, sez. II, 10.01.2018, n.
45; in generale, sull’ammissibilità delle dichiarazioni scritte di terzi, si
richiama la consolidata giurisprudenza civile in materia di prove c.d.
atipiche, tra cui Cass. n. 792/2020 e n. 17932/2015, secondo cui tali
scritti, pur non avendo efficacia di prova testimoniale, sono rimessi alla
libera valutazione del giudice e possono fornire utili elementi di
convincimento, con la precisazione che tale orientamento, in quanto
espressione di principi generali, risulta applicabile al processo
amministrativo ex art. 39, comma 1, c.p.a.).
Pertanto, sulla base delle risultanze documentali sopra indicate e delle
misurazioni eseguite in loco (essendo le colonne crollate ma ancora
sostanzialmente integre), il tecnico della ricorrente ha individuato la
pianta del fabbricato in un rettangolo di mt. 5,27 x 4,05, con una
superficie di mq. 21,34, ed ha conseguentemente calcolato il volume
dell’edificio preesistente in mc. 67,01 (cfr. la tavola 5 di progetto, doc.
8 ricorrente).
La planimetria catastale prodotta dal Comune (doc. 8 resistente), lungi dal
porsi in contrasto con la suddetta ricostruzione, ne costituisce anzi piena
conferma, in quanto raffigura, sulla particella 244, sia il manufatto con
pianta rettangolare, avente base e altezza di dimensioni quasi uguali, sia
il cortile antistante.
Tale elaborato planimetrico risulta quindi perfettamente concordante con i
risultati delle misurazioni del professionista, che, come si è detto, ha
determinato la superficie della pianta del manufatto in mq. 21,34,
nell’ambito della maggior superficie dell’intero mappale pari a mq. 29, in
quanto comprendente anche la corte esterna.
Né la suddetta planimetria contrasta con la dichiarazione delle danti causa,
secondo cui la pianta dell’edificio era di circa mt. 5 x 5, dal momento che
proprio tale elaborato catastale dimostra che la base e l’altezza della
pianta avevano dimensioni quasi uguali, sì da risultare visivamente molto
simili ai lati di un quadrato.
Per quanto riguarda l’altezza del fabbricato, i tre pilastri in c.l.a.
presenti in situ misurano mt. 3 e, pertanto, comprovano che tale era
l’altezza di gronda. L’altezza di colmo è stata invece individuata dal
tecnico in circa mt. 3,5, partendo dal dato oggettivo che l’inclinazione
delle tegole marsigliesi non è mai inferiore al 30% e procedendo alla
ricostruzione grafica sulla base di tale parametro (cfr. doc. 10
ricorrente).
Anche la rappresentazione del tetto, quindi, coincide perfettamente con la
dichiarazione delle precedenti proprietarie, secondo cui la copertura aveva
un’altezza massima di mt. 3,5.
Infine, come osservato da parte ricorrente, il Comune ha travisato
l’elaborato predisposto dal professionista, in quanto ha ritenuto che questi
abbia incluso nel computo del volume anche l’area corrispondente alla corte
esterna. Dalla tavola n. 5 (doc. 8 ricorrente) risulta invece palese che il
perito ha correttamente quantificato la cubatura del manufatto preesistente,
prendendo come base la sola pianta di mq. 21,34 (e non l’intera superficie
del mappale di mq. 29).
È pertanto evidente che il tecnico della deducente ha ricostruito la
volumetria dell’edificio diroccato in maniera attendibile e tecnicamente
verificabile, sulla base di documenti e dati oggettivi.
Per contro, il diniego dell’amministrazione resistente si fonda su
un’erronea lettura del progetto presentato dall’esponente e si risolve, in
sostanza, in un’interpretazione abrogante dell’art. 2, comma 1, lett. b),
della L.R. n. 49/2009.
2. In relazione a quanto precede, il ricorso si appalesa fondato e va,
dunque, accolto (TAR Liguria, Sez.
I,
sentenza 11.06.2020 n. 364 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Perché
si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che
oggi ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione– è necessario sia possibile accertare l’originaria
consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere
esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un
rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizia “nel caso in cui manchino
elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche
dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da
alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente
solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture
orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”.
In mancanza di sufficienti elementi strutturali non è infatti possibile
valutare la consistenza originaria dell’edificio da consolidare ed eventuali
ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata.
---------------
8.1 Con l’unico ordine di doglianze, la ricorrente contesta il
diniego di permesso di costruire in sanatoria impugnato laddove avrebbe
erroneamente qualificato l’intervento edilizio di cui alla istanza del 02.09.2016 come “nuova costruzione”, omettendo di fare applicazione
della disciplina vigente in materia di ristrutturazioni edilizie e di
interventi di restauro e risanamento conservativo.
8.2 La censura è priva di pregio.
8.3 Per indirizzo giurisprudenziale consolidato, pienamente condiviso dal
Collegio, perché si possa configurare un intervento di ristrutturazione
edilizia –che oggi ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione– è necessario sia possibile accertare l’originaria
consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere
esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un
rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizia “nel caso in cui manchino
elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche
dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da
alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente
solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture
orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2019, n. 6188; Id. 21.10.2014,
n. 5174).
In mancanza di sufficienti elementi strutturali non è infatti possibile
valutare la consistenza originaria dell’edificio da consolidare ed eventuali
ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 15.03.2016, n. 1025).
8.4 Traslando i superiori principi all’odierno gravame, le conclusioni cui
perviene il provvedimento di diniego impugnato sfuggono alle proposte
censure.
Ed invero, l’intervento edilizio oggetto della istanza di sanatoria
presentata dalla ricorrente aveva le caratteristiche di una nuova
costruzione ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380 del
2001 e non di una ristrutturazione edilizia.
In tal senso depongono le risultanze degli accertamenti istruttori eseguiti
dall’Amministrazione procedente, e segnatamente il verbale di sopralluogo
compiuto in data 06.09.2016 da personale dello Sportello Unico
Edilizia e della Polizia Municipale, da cui si evince che “sul rudere
oggetto dei lavori e nell’adiacente corte, in luogo di un mero
consolidamento delle strutture murarie si realizzavano opere murarie prima
non esistenti. In particolare la porzione sud del rudere veniva ricostruita
ed elevata uniformemente fino alla quota massima di ml. 4,50 dal piano di
calpestio (ml. 5,90 misurati dal piede della scarpata sud, sottostante)
ricostruendo una consistente parte del paramento murario. La struttura
realizzata si configura come struttura muraria in elevazione (superiore a m.
3) e non come consolidamento di muratura esistente di cui alla iniziale CILA
prot. 35034/2016)”. Dal medesimo verbale risulta che sulla struttura muraria
in elevazione veniva realizzato un pergolato di 19,18 mq, inserito in un
contesto di opere di sistemazione del terreno fatte di nuova pavimentazione,
gradini e muri perimetrali.
Dalla documentazione fotografica della Polizia Municipale, acquisita al
procedimento e versata in atti, si evince altresì che prima dell’intervento
edilizio oggetto della istanza di sanatoria esisteva in loco esclusivamente
il rudere di una porzione di muro sul solo lato sud di un vecchio
fabbricato. Poiché tale rudere, per caratteristiche dimensionali, non
permetteva di risalire all’originaria consistenza del vecchio fabbricato
(ampiezza ed altezza), ne discende, in ossequio ai ricordati indirizzi
giurisprudenziali, l’impossibilità di fare nella specie applicazione della
disciplina della ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3, comma 1, lett.
d), del D.P.R. n. 380 del 2001.
In altri termini, come correttamente dedotto dal Ministero riferente, la
ricostruzione di un rudere può essere ascritta alla ristrutturazione
edilizia soltanto se preesistano all’intervento le caratteristiche
dimensionali e strutturali dell’organismo edilizio originario che si intende
recuperare. Non nei casi in cui, come nella vicenda controversa, il rudere
consisteva nella rimanenza di un muro perimetrale, insistente soltanto su
uno dei quattro lati, privo di copertura e di strutture orizzontali. In tale
evenienza, deve essere difatti negata in radice la stessa preesistenza di un
organismo edilizio e, pertanto, deve ritenersi preclusa l’applicazione della
disciplina relativa alle ristrutturazioni edilizie.
8.5 Per gli argomenti che precedono, l’Amministrazione comunale ha
correttamente qualificato l’intervento edilizio oggetto dell’istanza di
permesso di costruire in sanatoria come “nuova costruzione”, facendo
conseguente applicazione della relativa disciplina sulle distanze dai
confini e dai fabbricati (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 08.06.2020 n. 1095 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sembra opportuno richiamare l'evoluzione normativa e giurisprudenziale in
materia di "ristrutturazione" avente ad oggetto un "rudere".
Prima della modifica legislativa intervenuta nel 2013, la formulazione
dell'art. 3 D.P.R. n. 380/2001 non apriva alla possibilità di ricondurre la
ricostruzione di un rudere entro la nozione di ristrutturazione, venendo al
contrario qualificata come intervento del tutto nuovo per il quale,
pertanto, doveva ritenersi indefettibile la sussistenza del permesso di
costruire.
In seguito alla modifica del suddetto art. 3, lett. d), con il c.d. Decreto
"del fare" (D.L. n. 69/2013), il concetto di ristrutturazione è stato
ampliato, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili
vincolati ai sensi del D.lgs. n. 42/2004, introducendo la possibilità di
ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
La disposizione in esame, nella formulazione attualmente vigente, definisce
come "interventi di ristrutturazione edilizia" quelli «rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere
che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente,
fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché
sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che,
con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del dlgs 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di
demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici
crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».
Il testo della norma consente di individuare due distinte ipotesi di
ristrutturazione:
- la prima attiene ad una tipologia di intervento che può
comportare il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, nonché l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti;
- la seconda, invece, considera la possibilità della
demolizione e ricostruzione nel rispetto dell'originaria volumetria ed, in
presenza di vincolo, anche della sagoma.
La giurisprudenza amministrativa ha denominato la prima ristrutturazione
"conservativa" e la seconda ristrutturazione "ricostruttiva".
Questa Corte, inoltre, ha avuto modo di precisare che, considerata la
disciplina vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti
nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso
di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle
opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata,
hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio.
Diversamente, sono assoggettati alla procedura semplificata della SCIA gli
interventi aventi ad oggetto opere non rientranti in zona paesaggisticamente
vincolata, rispettando la preesistente volumetria, anche ove venga
modificata la sagoma dell'edificio.
---------------
2.2. Deduce il ricorrente, con il secondo motivo, il vizio di cui
all'art. 606, lett. b) c.p.p. in relazione agli artt. 3, co. 1, lett. b) e/o
d), 10, 22, 23 D.P.R. n. 380/2001, nella parte in cui si disapplicano i
criteri imposti dalla predetta normativa, ai fini del riconoscimento della
tipologia di ristrutturazione de quo senza variazione di volume.
Si censura, in quanto contrario all'art. 3, co. 1, lett. b) e/o d), D.P.R.
n. 380/2001, l'apprezzamento operato dal giudice del riesame circa la non
riconducibilità dell'intervento edilizio alla tipologia della "manutenzione
straordinaria" e/o della "ristrutturazione edilizia" in conseguenza della
diversità di sagome dell'edificato risultante dai lavori eseguiti. Sia la
lett. b) che la lett. d) del summenzionato art. 3 escluderebbero, infatti,
l'apprezzabilità della sagoma ai fini della qualificazione dell'intervento
quale manutenzione straordinaria o ristrutturazione edilizia. Elemento da
valutare sarebbe infatti la sola volumetria.
Erroneamente, pertanto, il Tribunale di Messina avrebbe posto in essere una
comparazione tra la forma della pianta e la superficie della stessa, essendo
tali parametri sconosciuti alla disciplina di riferimento sopra richiamata.
Il ricorrente richiama, inoltre, l'art. 10, d.P.R. n. 380/2001 il quale, nel
catalogare gli interventi subordinati a permesso di costruire, vi riconduce
le ristrutturazioni che "comportino modifiche della volumetria
complessiva degli edifici" ovvero che "non comportino modificazioni
della sagoma" relativamente agli immobili "sottoposti a vincoli ai
sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42". Tra questi ultimi non
rientrerebbe quello oggetto del presente giudizio.
In ogni caso, ad avviso del ricorrente, ove vi fosse stata una modifica
della volumetria tra l'esistente ed il ristrutturato, l'intervento sarebbe
da ritenere legittimo in ragione dell'avvenuta presentazione della SCIA ai
sensi dell'art. 23, co. 1, lett. a), D.P.R. n. 380/2001. L'ordinanza sarebbe
dunque illegittima nella parte in cui sostituisce all'accertamento circa la
corrispondenza della volumetria il parametro della superficie e della
sagoma.
...
5. Non merita accoglimento anche il secondo motivo del ricorso.
Sembra opportuno richiamare l'evoluzione normativa e giurisprudenziale in
materia di "ristrutturazione" avente ad oggetto un "rudere".
Prima della modifica legislativa intervenuta nel 2013, la formulazione
dell'art. 3 D.P.R. n. 380/2001 non apriva alla possibilità di ricondurre la
ricostruzione di un rudere entro la nozione di ristrutturazione, venendo al
contrario qualificata come intervento del tutto nuovo per il quale,
pertanto, doveva ritenersi indefettibile la sussistenza del permesso di
costruire (Cass., Sez. III, 26.10.2007, n. 45240; Cass., Sez. III,
23.01.2007, n. 15054; Cass., Sez. III, 13.01.2006, n. 20776).
In seguito alla modifica del suddetto art. 3, lett. d), con il c.d. Decreto
"del fare" (D.L. n. 69/2013), il concetto di ristrutturazione è stato
ampliato, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili
vincolati ai sensi del D.lgs. n. 42/2004, introducendo la possibilità di
ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
La disposizione in esame, nella formulazione attualmente vigente, definisce
come "interventi di ristrutturazione edilizia" quelli «rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere
che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente,
fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché
sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che,
con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di
demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici
crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».
Il testo della norma consente di individuare due distinte ipotesi di
ristrutturazione:
- la prima attiene ad una tipologia di intervento che può
comportare il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, nonché l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti;
- la seconda, invece, considera la possibilità della
demolizione e ricostruzione nel rispetto dell'originaria volumetria ed, in
presenza di vincolo, anche della sagoma.
La giurisprudenza amministrativa ha denominato la prima ristrutturazione
"conservativa" e la seconda ristrutturazione "ricostruttiva"
(Cons. di Stato, Sez. V, 05.12.2014, n. 5988).
Questa Corte, inoltre, ha avuto modo di precisare che, considerata la
disciplina vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti
nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso
di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle
opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata,
hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio.
Diversamente, sono assoggettati alla procedura semplificata della SCIA gli
interventi aventi ad oggetto opere non rientranti in zona paesaggisticamente
vincolata, rispettando la preesistente volumetria, anche ove venga
modificata la sagoma dell'edificio (Cass., Sez. III, 03.06.2014, n. 40342) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.04.2020 n. 13148). |
EDILIZIA PRIVATA: Ciò
che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione
è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione
di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di
un "insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente"), ovvero la cui stessa
struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con
ricostruzione, se non "fedele", comunque rispettosa della volumetria e,
nell'ipotesi di immobili vincolati, anche della sagoma della costruzione
preesistente.
Infatti, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo
l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di
ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al
volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel
suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente.
È stato affermato in proposito che “La ristrutturazione edilizia
presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella
consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche
proprie del manufatto che si vuole ricostruire”; non è sufficiente che si
dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è
necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum, cioè l'esatta
consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione.
Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di
certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in
modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso
possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali come
identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (in casi
analoghi la giurisprudenza ha preteso che l'immobile esista quanto meno in
quelle strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di consistenza,
possano farlo giudicare presente nella realtà materiale).
Del resto la c.d. demo-ricostruzione -ovvero un'incisiva forma di recupero
di preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione edilizia-
tradizionalmente pretende la pressoché fedele ricostruzione di un fabbricato
identico a quello già esistente, dalla cui strutturale identificabilità,
come organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura, non si può dunque, in ogni caso, prescindere.
L'attività di ricostruzione di ruderi deve considerarsi, a tutti gli
effetti, realizzazione di una nuova costruzione, avendo questi perduto i
caratteri dell'entità urbanistico-edilizia originaria sia in termini
strutturali che funzionali; imprescindibile condizione perché sia possibile
accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato,
è che tale accertamento venga effettuato con il massimo rigore e si fondi su
dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie, etc.,
in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del
manufatto preesistente, e non dunque "studi storici" o rilevazioni inerenti
ad edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della
struttura per delineare la consistenza del manufatto crollato.
In definitiva, non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte
poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre
all'an anche il quantum, cioè l'esatta consistenza dell'immobile
preesistente del quale si chiede la ricostruzione; bisogna procedere, con un
sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali
dell'edificio.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione, del provvedimento 20/06/2018
prot. n. 2748 di diniego della richiesta di permesso di costruire prot. n.
1665 dell’11/04/2018; del preavviso di diniego 29/05/2018 prot. n. 2387,
nonché degli atti presupposti.
...
1. Con il ricorso in esame parte ricorrente deduce la violazione dell’art.
3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380/2001, della Legge n. 241/1990, nonché
l’eccesso di potere per difetto dei presupposti e di istruttoria.
2. Il Collegio, preso atto della rinuncia di parte ricorrente
all’applicazione dell’art. 7, comma 8-bis, della L.R. n. 19/2009 e della
concentrazione del provvedimento di diniego sul rimanente motivo, ritiene in
via preliminare, quanto alla normativa rilevante ai fini del decidere, di
osservare che il D.L. n. 69/2013 (conosciuto anche come "Decreto del fare"),
convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 98/2013, intervenendo sul DPR
n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), ha considerevolmente ampliato il
concetto di ristrutturazione, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma
ai soli immobili vincolati ed introducendo la possibilità di
ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
Oggi gli interventi di ristrutturazione sono essenzialmente quelli "rivolti
a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere
che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente,
fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché
sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con
riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.Lgs.
22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione
e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o
demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove
sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente".
2.1 E’ ben chiaro a questo Organo giudicante che ciò che contraddistingue la
ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta
trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si
conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme
sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o
in parte diverso dal precedente"), ovvero la cui stessa struttura fisica
venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se
non "fedele", comunque rispettosa della volumetria e, nell'ipotesi di
immobili vincolati, anche della sagoma della costruzione preesistente.
Infatti, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo
l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di
ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al
volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel
suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente (Cass. civile,
II, 30/06/2017, n. 16268).
È stato affermato in proposito che “La ristrutturazione edilizia
presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella
consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche
proprie del manufatto che si vuole ricostruire” (Cons. Stato, IV,
15/09/2006, n. 5375); non è sufficiente che si dimostri che un immobile in
parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri
oltre all'an anche il quantum, cioè l'esatta consistenza
dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione.
Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di
certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in
modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile",
esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali come
identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (in casi
analoghi la giurisprudenza ha preteso che l'immobile esista quanto meno in
quelle strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di consistenza,
possano farlo giudicare presente nella realtà materiale: Cons. Stato, V,
21/10/2014, n. 5174; 15/03/1990, n. 293; 20/12/1985, n. 485).
2.2 Del resto la c.d. demo-ricostruzione -ovvero un'incisiva forma di
recupero di preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione
edilizia- tradizionalmente pretende la pressoché fedele ricostruzione di un
fabbricato identico a quello già esistente, dalla cui strutturale identificabilità, come organismo edilizio dotato di mura perimetrali,
strutture orizzontali e copertura, non si può dunque, in ogni caso,
prescindere (Cons. Stato, V, 10/02/2004, n. 475).
L'attività di ricostruzione di ruderi deve considerarsi, a tutti gli
effetti, realizzazione di una nuova costruzione, avendo questi perduto i
caratteri dell'entità urbanistico-edilizia originaria sia in termini
strutturali che funzionali (Cons. Stato, VI, 05/12/2016, n. 5106);
imprescindibile condizione perché sia possibile accertare la preesistente
consistenza di ciò che si è demolito o è crollato, è che tale accertamento
venga effettuato con il massimo rigore e si fondi su dati certi ed
obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie, etc., in base ai
quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto
preesistente, e non dunque "studi storici" o rilevazioni inerenti ad
edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della
struttura per delineare la consistenza del manufatto crollato.
In definitiva, non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte
poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre
all'an anche il quantum, cioè l'esatta consistenza
dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione; bisogna
procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli
elementi strutturali dell'edificio.
3. Ciò premesso, l'onere della prova dell'ultimazione entro una certa data
di un'opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra
quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale, ovvero fra
quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, incombe
sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità
di documenti e di elementi di prova in grado di dimostrare con ragionevole
certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (cfr. Cons. Stato, VI,
05/03/2018, n. 1391).
Accade che il privato da un lato porti a sostegno della propria tesi
sulla realizzazione dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili
(aeorofotgrammetrie e dichiarazioni sostitutive di edificazione ante
01/09/1967) e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in
ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di
titolo edilizio.
Nella fattispecie, ciò ai fini dell’accoglimento del ricorso, parte
ricorrente ha fornito elementi quali:
- la planimetria catastale richiamata nell’atto pubblico del
24/10/1996 che comprova la reale consistenza in scala 1:200 dell’immobile
oggetto dell’intervento di ristrutturazione edilizia, ovvero piano terra e
primo piano rispettivamente di altezza mt. 3,80 e 3,70;
- la specificazione sempre in detto atto che il fabbricato è
composto di nove vani tra piano terra e primo piano;
- i rilievi fotografici dello stato di fatto indicati nella stessa
tavola in cui si nota che l’altezza dei muri perimetrali è maggiore dei mt.
3,80 del piano terra;
- la ricostruzione grafica dell’immobile sulla base dei voli
effettuati dall’Aeronautica militare.
3.1 Il Collegio con tali premesse, come peraltro ritenuto al concorrere di
simili presupposti da giurisprudenza (Cons. Stato, VI, 19/10/2018, n. 5988)
richiamata da parte ricorrente, è dell’avviso che, conformemente ai principi
sopra richiamati, la parte privata abbia fornito una serie di elementi
coerenti e plurimi in ordine alla consistenza dell'immobile preesistente,
previa ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, risultando
integrate le caratteristiche essenziali minime per poter essere oggetto di
un intervento di ristrutturazione.
Rispetto a tali elementi, non risulta che il Comune abbia svolto il
necessario approfondimento istruttorio e motivazionale, essendosi limitato a
formule generiche e sostanzialmente di stile; in pratica, dopo che
successivamente al preavviso di diniego del 29/05/2018 parte ricorrente
aveva rinunciato alla volumetria aggiuntiva dichiarando di voler rispettare
la sagoma ed il preesistente posizionamento sull’area di sedime, nella parte
dispositiva del provvedimento definitivo del 20/06/2018 (pag. 3) si è
insistito nel sottolineare ai punti 1.b) e 1.c) la non applicabilità della
L.R. n. 19/2009, ormai non più rilevante, mentre, al contrario, non sono
state puntualmente esplicitate le ragioni giuridiche a giustificazione della
reiezione a seguito di un’istruttoria che non poteva prescindere dai
sopraindicati documenti forniti dall’istante, non risultando così possibile
verificare l’avvenuto rispetto dei limiti della discrezionalità e della
giustificata restrizione della sfera giuridica della parte privata.
Inoltre, si è genericamente asserito che lo stabile sarebbe stato demolito
tra il 1981 ed il 1982, laddove tale assunto è smentito in atti, ove si
consideri che il fabbricato è tutt’oggi presente nella sua realtà materiale;
semmai una parte era stata oggetto di demolizione nell’ambito di un
procedimento di espropriazione finalizzato all’ampliamento della confinante
strada Madonna della Neve, ma trattasi di sezione che non era stata oggetto
di valutazione ai fini del calcolo della volumetria assentibile.
3.2 In altri termini, a fronte dei plurimi e coerenti documenti in ordine
alla consistenza dell'immobile preesistente, il Comune ha erroneamente
valutato che nelle controversie in materia edilizia, soggette alla
giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi
concernenti la collocazione dei manufatti, tanto nello spazio quanto nel
tempo, si rinvengono nei ruderi, nelle fondamenta, nelle aerofotogrammetrie
e nelle mappe catastali, ragion per cui la prova dell'epoca di realizzazione
si desume da dati oggettivi in ordine ai quali è onere del privato, che
contesti il dato dell'Amministrazione, fornire prova rigorosa della diversa
epoca di realizzazione dell'immobile, superando quella fornita dalla parte
pubblica (Cons. Stato, IV, 09/02/2016, n. 511).
Nel caso di specie, in particolare, la Pubblica Amministrazione non ha
fornito la necessaria prova, limitandosi a valutare come irrilevanti gli
elementi concreti forniti attraverso formule di stile non sufficienti alla
luce dei principi sopra richiamati, ciò sul presupposto che oggi sarebbe
presente solo parte della muratura perimetrale e l’intervento richiesto
ricadrebbe nella categoria della nuova costruzione.
4. In conclusione, il ricorso deve essere accolto con conseguente
annullamento dei provvedimenti oggetto di impugnazione (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 23.12.2019 n. 6098 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: A
seguito della modifica legislativa, dovuta al d.l. 21.07.2013 n. 69, che ha
inserito nella lett. d) del comma 1 dell’art. 3 T.U.ED. il riferimento agli
interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione” quest'ultimi, ad
oggi, rientrano nel concetto di "ristrutturazione edilizia" “purché sia
possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Rispetto al regime previgente, quindi, il concetto di "ristrutturazione
edilizia" è stato allargato al caso di edificio che più non esiste, di cui
però la consistenza originaria si può ricostruire, evidentemente con
un’indagine tecnica, ipotesi che la giurisprudenza in precedenza escludeva.
---------------
1. L’appello è fondato e va accolto, ai sensi e nei limiti di quanto segue.
2. Il primo motivo di appello, centrato in sintesi sulla
impossibilità di assentire la costruzione sanata in base alle norme edilizie
vigenti in quel momento, è fondato ed assorbente.
2.1 Anzitutto, non è controverso in fatto quanto si è spiegato in narrativa,
ovvero che il fabbricato originario di proprietà della controinteressata
appellata è crollato il giorno 11.05.2006, che l’istanza per ottenere il
primo permesso di costruire è stata presentata circa sei mesi dopo,
precisamente il giorno 13.11.2006, e che il primo permesso di costruire è
stato rilasciato il 22.04.2008. Sul punto si è pronunciata la sentenza di I
grado (motivazione, § 4.2) e anche nel permesso di costruire originario
appena citato si legge, come detto in premesse, che il fabbricato esistente
era stato “oggetto di crollo” (doc. 1 in I grado ricorrente
appellante allegato al ricorso principale, cit.).
2.2 Ciò posto, nemmeno è controverso che l’immobile in questione si trovasse
in zona classificata dallo strumento urbanistico come zona omogenea B1,
disciplinata dall’art. 81 NTA, per cui gli interventi da realizzare
all’interno di essa erano subordinati all’approvazione di uno strumento
attuativo, indicato come piano particolareggiato o piano di recupero: il
testo della norma è riportato, per tutti, a p. 59 dell’appello, e sul punto,
dato per pacifico anche dalla sentenza di I grado (motivazione § 4), non vi
è contestazione.
2.3 A fronte di ciò, la sentenza di I grado ricorda in astratto che ai sensi
degli artt. 27, comma 4, e 31, comma 1, lett. d), della l. 05.08.1978 n.
458 quando la pianificazione urbanistica subordina il rilascio della
concessione edilizia, e quindi l’intervento di nuova costruzione per cui
essa è necessaria, all’approvazione di uno strumento attuativo, anche quando
essa non è ancora intervenuta sono consentiti gli interventi minori, e in
particolare gli interventi di ristrutturazione.
Tanto premesso, la sentenza in questione ritiene che l’intervento per cui è
causa rientri appunto in quest’ultima categoria, e quindi che la sanatoria
sia stata legittimamente rilasciata, trattandosi di intervento consentito,
dato che “avuto riguardo al limitato scarto temporale esistente tra il
crollo e l’istanza di ristrutturazione (circa sei mesi, verosimilmente
impegnati per la redazione del progetto, e tenuto conto altresì della pausa
estiva), è evidente che non si tratta di intervento ex novo attuato su area
precedentemente non interessata da alcun manufatto, ma di semplice
ristrutturazione di immobile (poco tempo prima) esistente” (motivazione,
§ 4.2 in fine).
2.4 Ad avviso del Collegio, che condivide sul punto quanto sostenuto dalla
difesa della ricorrente appellante, tale conclusione non va condivisa, alla
luce della giurisprudenza che si è soffermata su come vada qualificato
l’intervento che porta, genericamente, a ripristinare un immobile crollato.
La norma applicabile alla fattispecie è l’art. 3 del T.U. 06.06.2001 n. 380,
vigente all’epoca dei fatti, che aveva sostituito con identici contenuti
l’art. 31 della l. 458/1978. Al comma 1, lettera d), di questa norma, si
legge che si definiscono "interventi di ristrutturazione edilizia"
quelli che sono rivolti a “trasformare gli organismi edilizi mediante un
insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il
ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi
anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quella preesistente, fatte salve le sole innovazioni
necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
2.5 Argomentando dalla norma così formulata, la giurisprudenza riteneva
quindi che per parlare di ristrutturazione fosse sempre necessaria
l'esistenza dell'immobile nel suo complesso e non nelle singole parti, con
un minimo di consistenza idoneo a farlo ritenere presente nella realtà,
consistenza che comunque doveva essere dimostrata con esattezza; nel caso di
ristrutturazione di un rudere, qualificava invece l’intervento come nuova
costruzione, trattandosi di intervenire su un manufatto che ormai aveva
perduto i caratteri dell’originaria unità urbanistico edilizia: in questi
termini, per tutte, C.d.S. sez. VI 05.12.2016 n. 5106 e sez. IV 05.07.2000
n. 3735.
2.6 La situazione è cambiata invece a seguito di una ben precisa modifica
legislativa, dovuta al d.l. 21.07.2013 n. 69, e quindi posteriore al
provvedimento impugnato, che ha inserito nella lett. d) del comma 1
dell’art. 3 T.U appena esaminato il riferimento agli interventi “volti al
ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti,
attraverso la loro ricostruzione” che quindi ora rientrano nel concetto
di ristrutturazione “purché sia possibile accertarne la preesistente
consistenza”.
Rispetto al regime previgente, quindi, il concetto di ristrutturazione è
stato allargato al caso di edificio che più non esiste, di cui però la
consistenza originaria si può ricostruire, evidentemente con un’indagine
tecnica, ipotesi che la giurisprudenza in precedenza escludeva: si veda per
tutte la citata C.d.S. 5106/2016, secondo la quale “a nulla rileva che,
attraverso complesse attività tecniche, si riesca a risalire all'originaria
consistenza dell'edificio”.
2.7 Applicando i principi appena delineati al caso di specie, non risulta
che il permesso di costruire originario abbia in qualche modo dato conto
della possibilità di riconoscere sul posto, nonostante il crollo, i
caratteri essenziali della costruzione preesistente, il che si sarebbe
richiesto all’epoca dei fatti, dato che, come detto in narrativa, si
riferisce in modo esplicito alla costruzione di un “nuovo fabbricato”
(doc. 1 in I grado ricorrente appellante allegato al ricorso principale, cit.).
Il motivo va quindi accolto, perché in tali termini –mancando un difforme
accertamento della realtà dei fatti- si sarebbe dovuto rispettare l’art. 82
delle NTA, e quindi l’intervento assentito va ritenuto non conforme alle
norme vigenti all’epoca di realizzazione (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.10.2019
n. 6654 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Ancora
oggi, è da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile
nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi
sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio
da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze
di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della
muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non
può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente.
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la
consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che
considerarsi alla stregua di un’area non edificata.
Nel caso di specie, deve quindi convenirsi con il TAR che la risalente
assenza di copertura, unitamente al parziale crollo delle mura perimetrali,
costituisse già di per sé condizione sufficiente ad escludere la
riconducibilità dell’intervento assentito agli interventi di
ristrutturazione edilizia rientrando piuttosto tra quelli di nuova
costruzione.
---------------
L’impossibilità di apprezzare la consistenza del manufatto preesistente
conduce ad escludere, in radice, la configurabilità di un intervento di “ristrutturazione
edilizia” sia alla stregua dell’art. 31, comma 1, lett. d), della n. 457
del 1978 (richiamato dal PTP), sia in base l’attuale formulazione della
normativa statale in materia di ristrutturazione edilizia.
Quest’ultima, come noto, ricomprende oggi anche gli interventi volti «al
ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti,
attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza», con la precisazione che «con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo
22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione
e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o
demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove
sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente» (art. 3,
comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 380/2001, come modificato dall'art. 30,
comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
dalla l. 09.08.2013, n. 98.
Alla stregua delle prefate disposizioni, è quindi ancora oggi da escludere
che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della
ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a
testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare:
in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura
perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della
muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non
può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente (cfr. Cons. St.,
sez. IV, sentenza n. 5174 del 21.10.2014, e TAR Lombardia, Brescia, sentenza
n. 1167 del 26.09.2017).
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la
consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che
considerarsi alla stregua di un’area non edificata (Cons. St., sez. V,
sentenza n. 1025 del 15.03.2016).
Nel caso di specie, deve quindi convenirsi con il TAR che la risalente
assenza di copertura, unitamente al parziale crollo delle mura perimetrali,
costituisse già di per sé condizione sufficiente ad escludere la
riconducibilità dell’intervento assentito agli interventi di
ristrutturazione edilizia rientrando piuttosto tra quelli di nuova
costruzione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.09.2019 n. 6188 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Secondo
il tradizionale e consolidato indirizzo della giurisprudenza, la nozione di
ristrutturazione edilizia non può prescindere dalla preesistenza di un
fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato di quelle
componenti essenziali –murature perimetrali, strutture orizzontali e
copertura– idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza ed a
farlo giudicare presente nella realtà materiale. Con la conseguenza che la
ricostruzione di ruderi, vale a dire residui edilizi inidonei a identificare
i connotati essenziali dell’edificio, deve essere ricondotta nell’alveo
della nuova costruzione, non rilevando in contrario la possibilità di
risalire attraverso complesse indagini tecniche all’originaria consistenza
di un manufatto oramai non più esistente come tale.
Tale orientamento non è mutato neppure a seguito della novella apportata
all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal d.l. n. 69/2013, giacché, per potersi
parlare di ristrutturazione, occorre pur sempre che i resti della
costruzione crollata o demolita presentino caratteristiche tali da
consentire di determinarne l’effettiva consistenza.
Nondimeno, se pure si volesse ritenere che le modifiche legislative del 2013
abbiano esteso la nozione di ristrutturazione all’attività di ricostruzione
dei ruderi, nel caso in esame il manufatto da ricostruire manca del tutto,
essendone stata a suo tempo eliminata ogni traccia. Il che impedisce in
radice di rinvenire nell’intervento in questione i contenuti della
“trasformazione” di un organismo edilizio esistente, che, lo si è visto,
rappresenta il tratto distintivo della ristrutturazione edilizia alla
stregua della definizione generale dettata dall’art. 3 d.P.R. n. 380/2001.
---------------
La società estera An., con sede nella Repubblica Slovacca, e i signori
Ro.Do. e Fr. Di Tr. sono, rispettivamente, proprietaria la prima e
usufruttuari i secondi di un complesso immobiliare ubicato nel Comune di
Montecarlo, alla via ... 18, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
Nel luglio del 2017, essi hanno chiesto il rilascio del permesso di
costruire per riedificare un preesistente corpo di fabbrica costruito in
aderenza al fabbricato principale, e crollato nel 1988.
L’istanza è stata respinta dal Comune sul presupposto dell’assenza di prova
in ordine all’originaria consistenza dell’immobile, richiesta ai fini
dell’assenso alla ricostruzione dall’art. 134 della legge regionale toscana
n. 65/2014, e della qualificazione dell’intervento come nuova costruzione
non assentibile in zona vincolata.
...
2.1.1. Il ricorso è infondato.
L’art. 3, co. 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001 definisce interventi di
ristrutturazione edilizia quelli “rivolti a trasformare gli organismi
edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”, e, nel
testo modificato dal d.l. n. 69/2013, vi include il ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza
e, per gli immobili sottoposti a vincoli, all’ulteriore condizione che sia
rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente.
Correlativamente, la legge regionale toscana qualifica oggi come interventi
di “ristrutturazione edilizia ricostruttiva” quelli consistenti nel
“ripristino di edifici, o parti di essi, crollati o demoliti, previo
accertamento della originaria consistenza e configurazione”, dai quali
distingue “il ripristino di edifici, o parti di essi, crollati o
demoliti, previo accertamento della originaria consistenza e configurazione,
attraverso interventi di ricostruzione comportanti modifiche della sagoma
originaria, laddove si tratti di immobili sottoposti ai vincoli di cui al
Codice” (art. 134, co. 1, lett. h), n. 4, e lett. i) l.r. n. 65/2014).
Secondo il tradizionale e consolidato indirizzo della giurisprudenza, la
nozione di ristrutturazione edilizia non può prescindere dalla preesistenza
di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato di quelle
componenti essenziali –murature perimetrali, strutture orizzontali e
copertura– idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza ed a
farlo giudicare presente nella realtà materiale. Con la conseguenza che la
ricostruzione di ruderi, vale a dire residui edilizi inidonei a identificare
i connotati essenziali dell’edificio, deve essere ricondotta nell’alveo
della nuova costruzione, non rilevando in contrario la possibilità di
risalire attraverso complesse indagini tecniche all’originaria consistenza
di un manufatto oramai non più esistente come tale (fra le moltissime, cfr.
Cons. Stato, sez. VI, 05.12.2016, n. 5106, e i numerosi precedenti ivi
citati; id., sez. V, 21.10.2014, n. 5174 id., sez. V, 11.06.2013, n. 3221).
Tale orientamento non è mutato neppure a seguito della novella apportata
all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal ricordato d.l. n. 69/2013, giacché,
per potersi parlare di ristrutturazione, occorre pur sempre che i resti
della costruzione crollata o demolita presentino caratteristiche tali da
consentire di determinarne l’effettiva consistenza (cfr. Cons. Stato, sez.
V, 15.03.2016, n. 1025; TAR Lombardia–Milano, sez. II, 29.11.2017, n. 2287;
TAR Toscana, sez. I, 18.04.2017, n. 588).
Nondimeno, se pure si volesse ritenere che le modifiche legislative del 2013
abbiano esteso la nozione di ristrutturazione all’attività di ricostruzione
dei ruderi, nel caso in esame il manufatto da ricostruire manca del tutto,
essendone stata a suo tempo eliminata ogni traccia. Il che impedisce in
radice di rinvenire nell’intervento in questione i contenuti della “trasformazione”
di un organismo edilizio esistente, che, lo si è visto, rappresenta il
tratto distintivo della ristrutturazione edilizia alla stregua della
definizione generale dettata dall’art. 3 d.P.R. n. 380/2001.
L’argomento è dirimente. Per completezza della disamina, deve comunque
aggiungersi che l’originaria consistenza dell’immobile da ricostruire
neppure è stata adeguatamente dimostrata dai ricorrenti, la cui pretesa
risulta pertanto infondata sotto ogni profilo.
Del fabbricato demolito non vi sono rappresentazioni iconografiche, fatta
eccezione per la planimetria allegata alla denuncia di variazione catastale
presentata nel 1988, proprio a seguito della demolizione, che ne mostra
l’area di sedime.
A partire dall’area di sedime, i ricorrenti ricavano l’altezza massima del
fabbricato dai travicelli della copertura ancora visibili nella muratura
dell’edificio principale, per poi presumere che la copertura scendesse fino
al termine di quest’ultimo con la stessa pendenza della vecchia copertura
dell’adiacente porzione est. Il volume del fabbricato è ottenuto
moltiplicando la superficie dell’area di sedime per l’altezza media (si veda
la relazione tecnica a firma dell’ing. Le., in atti).
Come si vede, muovendo da un dato approssimativo, ma in qualche modo
verificabile (l’ampiezza dell’area di sedime si può ricavare dalla misura
delle pareti dell’edificio principale, in aderenza al quale era costruito
quello crollato), il calcolo del volume finisce per essere frutto di
un’ipotesi meramente congetturale, non essendovi elementi oggettivi dai
quali desumere la reale pendenza della copertura originaria. E, oltretutto,
non vi è prova che all’epoca della costruzione del fabbricato, poi demolito,
la copertura utilizzata dal tecnico dei ricorrenti come riferimento avesse
la medesima pendenza attuale (si tratta di porzione immobiliare
ristrutturata nel 2013, stando alla stessa relazione tecnica di parte
ricorrente, ma la consistenza delle opere di ristrutturazione non è nota).
Se tanto basta per evidenziare la
sostanziale arbitrarietà del calcolo volumetrico eseguito dai ricorrenti, a
maggior ragione gli scarsissimi elementi disponibili non permettono di
verificare il rispetto dell’identità di sagoma (intesa come perimetro
dell’edificio considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il suo
contorno, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli
sporti: per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.01.2017, n. 353), requisito
indefettibilmente richiesto dal citato art. 3, co. 1, lett. d), d.P.R. n.
380/2001 per gli edifici vincolati, ovvero ricadenti in area vincolata (cfr.
TAR Toscana, sez. III, 05.04.2016, n. 582; Cass. pen., sez. III, 09.07.2018,
n. 39340).
Il diniego del permesso di costruire, in definitiva, appare assunto del
tutto legittimamente dal Comune di Montecarlo con riferimento
all’impossibilità di risalire alla consistenza dell’edificio da ricostruire
e all’irriducibilità dell’intervento nei confini della ristrutturazione
edilizia.
In contrario non rileva, evidentemente, il positivo giudizio reso dalla
Commissione comunale per il paesaggio, al quale sono estranee valutazioni di
tipo urbanistico-edilizio, ma che si limita all’accertamento della
compatibilità dell’intervento con il vincolo gravante sull’area. Nessuna
contraddittorietà è pertanto ravvisabile nelle scelte del Comune.
3. Alla luce delle considerazioni esposte, il ricorso non può trovare
accoglimento (TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza 22.02.2019 n. 286 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
MODALITÀ ACCERTATIVE DELLA PREESISTENTE CONSISTENZA DI UN
EDIFICIO CROLLATO O DEMOLITO DA RICOSTRUIRSI CON
RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA.
L’accertamento della preesistente
consistenza di un edificio crollato o demolito che si
intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai
sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d),
non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi
storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga
tipologia, restando una simile verifica confinata
nell’ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo
alcuna oggettiva evidenza.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza
in esame attiene alla questione dell’individuazione del
titolo edilizio necessario al fine di realizzare interventi
di ricostruzione e demolizione di manufatti abusivi.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte
d’Appello aveva confermato la sentenza del tribunale che, a
sua volta, aveva affermato la responsabilità penale di un
imputato per il reato di cui all’art. 480 c.p.
Al medesimo veniva contestato il concorso nell’illecito
rilascio di un parere paesaggistico sulla base una relazione
tecnica, integrativa della domanda presentata dal
progettista, nella quale si attestava falsamente che le
opere previste nella proposta progettuale non comportavano
variazione di sagoma né aumenti delle volumetrie esistenti,
fatti indicati nell’imputazione come smentiti dall’esame
degli atti, trattandosi di intervento modificativo della
sagoma e degli indici planovolumetrici rispetto
all’esistente, considerando l’altezza non rilevabile, in
quanto il vecchio fabbricato rurale da ristrutturare
risultava crollato, come documentato dalle fotografie a
corredo della pratica edilizia.
Sarebbero stati così costituiti gli indispensabili falsi
presupposti che consentivano al tecnico comunale di
rilasciare il provvedimento autorizzatorio.
Avverso la detta sentenza proponeva ricorso per cassazione
l’imputato, in particolare sostenendo che i giudici
erroneamente non avrebbero preso in esame il contenuto del
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), come
modificato dal D.L. n. 69 del 2013, art. 30, segnatamente
per quanto concerne la ristrutturazione dei ruderi.
Osservava, a tale proposito, che trattandosi di edificio
crollato, non potevano che prendersi in esame i parametri
murari ancora esistenti per risalire, attraverso uno studio
storico e rilevazioni inerenti edifici simili che presentino
maggiori elementi identificativi della struttura, per
delineare l’originaria consistenza del manufatto da
ristrutturare.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima, ha dato atto del significativo dato fattuale della
obiettiva impossibilità di individuare le originarie
caratteristiche costruttive dell’immobile crollato, definito
nelle sentenze di merito come “un mero ammasso di pietre
a secco con un accenno di andamento solo di due muri
perimetrali e di piccola parte di un terzo muro”.
Una tale evenienza giustificava, di per sé, secondo la
Cassazione, la possibilità di qualificare l’intervento come
ristrutturazione.
Quanto, poi, alla possibilità di risalire alla originaria
consistenza dell’edificio, ormai ridotto a rudere,
attraverso lo “studio storico” o rilevazioni inerenti
ad edifici simili che presentino maggiori elementi
identificativi della struttura per delineare la consistenza
del manufatto crollato, i giudici della S.C. hanno ricordato
la giurisprudenza consolidata in materia che impone estremo
rigore nella verifica della consistenza del preesistente
manufatto, da effettuarsi su dati oggettivi inconfutabili e
completi (Cass. pen., Sez. III, 22.01.2014, n. 5912, M. e
altri, CED, 258597; Id., Sez. III, 25.06.2015, n. 26713, P.,
inedita; Id., Sez. III, 13.10.2015, n. 48947, P.M. in proc.
P.,CED, 266031), ma hanno altresì aggiunto che ciò si
risolverebbe nel consentire la edificazione di volumi della
cui preesistenza non vi sarebbe alcuna certezza, sulla base
di mere supposizioni, tali essendo i risultati di eventuali
comparazioni con altri edifici le cui caratteristiche siano
analoghe e note.
La sentenza aveva, dunque, giustamente escluso la
correttezza della soluzione prospettata dalla difesa,
proprio sulla base della impossibilità di “dare contezza
specifica degli esatti limiti del preesistente” ed
escludendo, altrettanto correttamente, ogni validità del
mero richiamo dell’esistenza del manufatto nell’atto di
compravendita del terreno per la genericità del richiamo e
l’assenza di descrizione dello stesso (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39340
- Urbanistica e
appalti 6/2018). |
aggiornamento al
12.11.2022 |
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Sulla
nozione di "lotto intercluso" ai fini della sua
edificabilità con o senza preventivo piano attuativo. |
EDILIZIA PRIVATA: Sotto
il profilo urbanistico, il “lotto intercluso” è costituito da enclavi non ancora
edificate e situate all’interno di un’area già integralmente urbanizzata
che, per tale ragione, sono edificabili anche in assenza di un Piano
urbanistico attuativo o di una Convenzione di lottizzazione.
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11) Con il SECONDO MOTIVO la ricorrente ha dedotto la violazione:
i) dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 in materia di accertamento
di conformità;
ii) dell’art. art. 44 del Regolamento edilizio comunale (REC) in
materia di “superficie drenante” del lotto per realizzare nuove
edificazioni;
iii) dell’art. 42 del medesimo REC in punto di distanze dai
confini.
Il motivo è infondato.
11.1) La doglianza sub i) è palesemente infondata atteso che la ricorrente
non ha mai richiesto alcun accertamento di conformità ex art. 36, ma ha
semplicemente formulato un’istanza esplorativa al Comune sulla possibilità
di deroga rispetto ad alcuni parametri edilizi ostativi alla sanatoria
dell’intervento in questione (deroga, peraltro, esclusa dal Comune con nota
n. -OMISSIS- dell’-OMISSIS- 2021).
Ne consegue che nessuna violazione dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 è
configurabile, non essendo mai stata attivata il relativo procedimento.
11.2) Infondato è anche il profilo sub ii) secondo cui la superficie
drenante richiesta dall’art. 44 del REC –pacificamente mancante nel lotto
della ricorrente– sarebbe reperibile nell’area che circonda il compendio
immobiliare ad ovest e a sud, operazione che sarebbe consentita dalla
Convenzione urbanistica relativa al Piano Attuativo n. 11 che, in origine,
aveva regolato l’edificazione della zona e la realizzazione dell’abitazione
della ricorrente.
a) In primo luogo si rileva che, se anche tale operazione fosse stata
effettuabile durante il periodo di efficacia della Convenzione (e ciò non è
in alcun modo dimostrato), siccome detta Convenzione urbanistica è
pacificamente scaduta, risultano inapplicabili le relative norme e preclusa
qualsiasi possibilità di scambio o cessione di indici edificatori (o di
altro tipo) tra fondi diversi che, oltretutto, sono ormai sottratti alla
disponibilità della ricorrente perché da tempo sono stati ceduti al Comune
in esecuzione della Convenzione suddetta.
b) È infondata anche la tesi secondo cui l’intervento edilizio contestato
sarebbe ammesso in quanto effettuato in un “lotto intercluso delle zone
residenziali” per il quale l’art. 44 del REC non imporrebbe un limite
vincolante per la superficie drenante prevedendo che “Nei casi di
interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, di interventi di
ristrutturazione urbanistica, di interventi da realizzarsi in aree ricadenti
in lotti interclusi delle zone residenziali, i parametri di superficie
scoperta e drenante di cui al primo comma costituiscono obbiettivo a cui
tendere”.
Sennonché tale disposizione risulta inapplicabile al fondo della ricorrente
perché:
- esso non è intercluso (in senso fisico), atteso che ad esso si
accede direttamente dalla strada pubblica;
- lo stesso non è intercluso neppure sotto il profilo urbanistico
giacché il “lotto intercluso” è costituito da enclavi non ancora
edificate e situate all’interno di un’area già integralmente urbanizzata
che, per tale ragione, sono edificabili anche in assenza di un Piano
urbanistico attuativo o di una Convenzione di lottizzazione (ex multis:
Cons. Stato, Sez. sez. IV, 02.04.2020, 2228), ma tale situazione non ricorre
nel caso di specie sia perché tale qualità del fondo non è stata dimostrata,
sia perché il lotto della ricorrente è già stato edificato e non vi è prova
che la zona circostante sia stata integralmente urbanizzata, anche perché il
Piano attuativo originario è stato attuato solo parzialmente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 24.10.2022 n. 993 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
fattispecie del c.d. “lotto intercluso” costituisce un’evenienza del
tutto eccezionale, subordinata alla dimostrazione che sussista una
situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante
dall'attuazione del piano esecutivo, non essendo sufficiente, al fine di
superare la preclusione rappresentata dalla mancata adozione della
pianificazione attuativa, fare leva sulla situazione di sufficiente
urbanizzazione della zona stessa.
Il rilascio del permesso di costruire in assenza dello
strumento urbanistico attuativo rappresenta una deroga eccezionale alla
regola generale e imperativa, scolpita dall'art. 9 del d.P.R. n. 380/2001,
secondo cui il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente
disposto solo dopo che si sia concluso il procedimento per la adozione dello
strumento urbanistico attuativo e che lo stesso sia divenuto perfetto ed
efficace, deroga la cui applicazione è subordinata al ricorrere di
stringenti e rigorosi presupposti, tra i quali la presenza, nell'area da
edificare, di tutte le opere di urbanizzazione (primaria e secondaria)
previste dagli strumenti urbanistici.
Tra le deroghe al principio sancito dall’art. 9 del d.P.R. n. 380/2001
risiede la fattispecie del c.d. “lotto intercluso” che si realizza, secondo
l’opinione largamente prevalente nel formante giurisprudenziale,
“allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e
secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al
p.r.g. In sintesi, si consente l'intervento costruttivo diretto purché si
accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente
corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo
scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di
attività procedimentale per l'ente pubblico.
Quindi, lo strumento urbanistico deve considerarsi superfluo posto che è
stata ormai raggiunta la piena edificazione e urbanizzazione della zona
interessata, raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti dai
piani esecutivi (i.e. piano attuativo)”.
Ed ancora, “In presenza di una normativa urbanistica generale che preveda
per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di
un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva
sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa. L'assenza
del piano attuativo non è surrogabile con l'imposizione di opere di
urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; l'obbligo
dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è
idoneo, infatti, a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali
opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo. Non
sono configurabili equipollenti al piano attuativo, circostanza questa che
impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere
effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile
edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile
approvazione, se ritardata, può essere stimolata dall'interessato con gli
strumenti consentiti dal sistema”.
Dalle coordinate ermeneutiche sopra tratteggiate emerge come la fattispecie
del c.d. “lotto intercluso” costituisca un’evenienza del tutto eccezionale,
subordinata alla dimostrazione che sussista una situazione di fatto
perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano
esecutivo, non essendo sufficiente, al fine di superare la preclusione
rappresentata dalla mancata adozione della pianificazione attuativa, fare
leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa.
---------------
7.3. Passando all’ultimo motivo di doglianza mosso avverso il provvedimento
impugnato, esso va accolto, pur se per ragioni non pienamente coincidenti
con quelle prospettate dalla parte ricorrente.
Essa, infatti, sostiene l’illegittimità del provvedimento gravato e, di
contro, la fondatezza della propria pretesa alla formazione del
silenzio-assenso sull’istanza di permesso di costruire dalla medesima presentata
basandosi sull’istituto del c.d. “lotto intercluso” per cui, in
presenza di una porzione di territorio circondata in ogni lato da
appezzamenti di terreno edificati e dotata di tutte le infrastrutture
occorrenti all’urbanizzazione primaria e secondaria della zona,
l’amministrazione non potrebbe rifiutarsi di rilasciare il richiesto
permesso di costruire, rendendo di fatto inutile subordinare l’intervento
edificatorio diretto all’attuazione di piani esecutivi allorché –come nel
caso di specie– la proprietà del ricorrente sia l’unica rimasta inedificata.
Sennonché tale rilievo non persuade.
E’ costante in giurisprudenza l’affermazione secondo cui il rilascio del
permesso di costruire in assenza dello strumento urbanistico attuativo
rappresenta una deroga eccezionale alla regola generale e imperativa,
scolpita dall'art. 9 del d.P.R. n. 380/2001, secondo cui il rilascio del
titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che si sia
concluso il procedimento per la adozione dello strumento urbanistico
attuativo e che lo stesso sia divenuto perfetto ed efficace, deroga la cui
applicazione è subordinata al ricorrere di stringenti e rigorosi
presupposti, tra i quali la presenza, nell'area da edificare, di tutte le
opere di urbanizzazione (primaria e secondaria) previste dagli strumenti
urbanistici (si veda, da ultimo, TAR Lazio-Roma, sez. II-quater, sent. n.
5917/2022).
Tra le deroghe al principio sancito dall’art. 9 del d.P.R. n. 380/2001
risiede la fattispecie del c.d. “lotto intercluso” che si realizza,
secondo l’opinione largamente prevalente nel formante giurisprudenziale, “allorquando
l'area edificabile di proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e
secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al
p.r.g. In sintesi, si consente l'intervento costruttivo diretto purché si
accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente
corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo
scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di
attività procedimentale per l'ente pubblico (cfr. Cons. St., sez. IV,
29.01.2008, n. 268; sez. V, 03.03.2004, n. 1013; sez. IV, Sent., 10.06.2010,
n. 3699).
Quindi, lo strumento urbanistico deve considerarsi superfluo posto che è
stata ormai raggiunta la piena edificazione e urbanizzazione della zona
interessata, raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti dai
piani esecutivi (i.e. piano attuativo) (si esprime così Cons. St., sez. IV,
sent. n. 5488/2014. Parimenti in termini, più recentemente, TAR Lazio–Roma,
sez. II-quater, sent. n. 12665/2020)”.
Quanto alla dimostrazione dell’effettiva superfluità della pianificazione
attuativa al fine di dotare l’area delle opere di urbanizzazione occorrenti
per consentire l’edificazione con intervento diretto, sempre la
giurisprudenza ha precisato che “In presenza di una normativa urbanistica
generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata
zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale
prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione
della zona stessa. L'assenza del piano attuativo non è surrogabile con
l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo
edilizio; l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione è idoneo, infatti, a sopperire solo alla mancanza fisica e
materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello
strumento esecutivo. Non sono configurabili equipollenti al piano attuativo,
circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o
giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia
tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo,
la cui indefettibile approvazione, se ritardata, può essere stimolata
dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema” (Cons. St.,
sent. n. n. 5488/2014, cit).
Dalle coordinate ermeneutiche sopra tratteggiate emerge come la fattispecie
del c.d. “lotto intercluso” costituisca un’evenienza del tutto
eccezionale, subordinata alla dimostrazione che sussista una situazione di
fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del
piano esecutivo, non essendo sufficiente, al fine di superare la preclusione
rappresentata dalla mancata adozione della pianificazione attuativa, fare
leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 20.07.2022 n. 10349 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
non necessità di un previo piano attuativo, circa l'edificazione di un
lotto, si è consolidato un orientamento interpretativo che individua
distinte soluzioni interpretative in rapporto alle diverse situazioni
concrete di volta in volta emergenti.
- Costituisce ormai principio pacifico ed acquisito che la
necessità della presentazione di un previo piano attuativo si impone qualora
si tratti di asservire per la prima volta all'edificazione, mediante la
costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate, che
obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente
aggregato abitativo, la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria
e secondaria.
In tal caso non può prescindersi dalla previa predisposizione di un piano
esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato) quale
presupposto per il rilascio della concessione edilizia.
Si tratta delle situazioni in cui si impone la esigenza di non infrangere la
integrità originaria del territorio, sicché occorre rispettare rigorosamente
la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione dello strumento
urbanistico generale e della susseguente predisposizione dello strumento
urbanistico d'attuazione, utile a garantire e una pianificazione razionale e
ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico
ed edilizio.
- Diversamente, qualora si verta in presenza di un lotto intercluso
o in altri analoghi casi in cui la zona risulti totalmente urbanizzata
attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i
necessari bisogni della collettività -quali strade, spazi di sosta,
fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia
elettrica, scuole, etc.- lo strumento urbanistico esecutivo non può
ritenersi più necessario e non può, pertanto, legittimarsi un rifiuto da
parte del Comune che sia basato su un mero argomento formale.
- Esistono, tuttavia, delle situazioni intermedie, non
necessariamente identificabili né sovrapponibili con le fattispecie di
“lotto intercluso” oppure con altre similari, nelle quali l'area interessata
dall'intervento può risultare anche solo in parte, edificata, e,
parallelamente, può essere più o meno asservita da opere di urbanizzazione.
In tali casi, ove si è in presenza di una anche parziale edificazione e non
completa urbanizzazione, si è affermata una soluzione interpretativa,
ispirata alla esigenza di assicurare un equilibrato contemperamento dei
diversi interessi in gioco, volta a valorizzare e rendere più pregnante
l'onere motivazionale gravante a carico della amministrazione interessata.
In tali casi, si ritiene che la amministrazione sia tenuta altresì a
verificare e valutare quale sia lo stato di urbanizzazione già presente
nella zona e debbia congruamente evidenziare e motivare quali siano le
concrete e ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova
costruzione.
- È stato anche osservato al riguardo che l'Ente locale, avendo la
disponibilità dei dati tecnici attestanti la reale consistenza del reticolo
connettivo del suo territorio, sia per quanto concerne la urbanizzazione
primaria, sia per le opere di urbanizzazione secondaria, è senza dubbio in
grado di stabilire se e in che misura un ulteriore, un eventuale carico
edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto del territorio già
realizzato o in via di realizzazione.
Ed infatti la esistenza delle opere di urbanizzazione, rilevante ai fini
della necessità o meno della previa redazione di un piano di lottizzazione o
di altro strumento urbanistico attuativo, prima del rilascio della
concessione edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza
delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale valutazione circa la
congruità del grado di urbanizzazione di un'area -valutazione rimessa
all'apprezzamento di merito dell'amministrazione- non può che essere
effettuata alla stregua della normativa sugli “standards” urbanistici di cui
al combinato disposto del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e art. 17 l. 06.08.1967 n.
765, onde l'equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata
urbanizzazione non è configurabile quando non si riscontri l'esistenza di
opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle quantità minime
prescritte.
Tale valutazione di congruità e sufficienza rispetto agli standards previsti
dalla normativa ed ai bisogni della collettività locale, è riservata al
Comune al quale è consentito rifiutare ulteriori assensi edilizi, purché
motivi adeguatamente le ragioni del diniego, in rapporto alla situazione
generale del comprensorio a quel momento esistente.
---------------
3. L'area individuata come "attività primaria di tipo A", che non
risulta essere mai stata oggetto di ritipizzazione e per la quale non è in
corso alcuna procedura di variante urbanistica, secondo l’istante avrebbe
subito una totale metamorfosi urbanistica, poiché, attualmente, è quasi
interessata da una intensa edificazione.
Secondo il ricorrente la zona interessata dalla richiesta di accertamento di
conformità si sarebbe venuta urbanizzando attraverso un processo di
progressiva edificazione che, a distanza ormai di decenni dalla data di
approvazione dello strumento urbanistico, renderebbe inattuale l’osservanza
degli strumenti urbanistici, essendo sopravvenuti interventi che hanno
modificato sostanzialmente la conformazione e strutturazione edilizia ed
urbanistica dell'area.
4. Ciò premesso occorre, a questo punto, richiamare l'orientamento
giurisprudenziale fatto proprio anche da questo Tribunale sulla questione di
diritto sottesa al presente giudizio.
Osserva il Collegio che in materia si è consolidato un orientamento
interpretativo che individua distinte soluzioni interpretative in
rapporto alle diverse situazioni concrete di volta in volta emergenti.
Costituisce ormai principio pacifico ed acquisito che, la necessità della
presentazione di un previo piano attuativo si impone qualora si tratti di
asservire per la prima volta all'edificazione, mediante la costruzione di
uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate, che obiettivamente
richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato
abitativo, la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria.
In tal caso non può prescindersi dalla previa predisposizione di un piano
esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato) quale
presupposto per il rilascio della concessione edilizia (cfr., C.d.S., Ad.
Plen., 20.05.1980, n. 18 e 06.12.1992 n. 12; Idem, Sez. V, 07.01.1999 n. 1;
TAR Campania, Napoli, IV Sezione, 02.03.2000, n. 596).
Si tratta delle situazioni in cui si impone la esigenza di non infrangere la
integrità originaria del territorio, sicché occorre rispettare rigorosamente
la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione dello strumento
urbanistico generale e della susseguente predisposizione dello strumento
urbanistico d'attuazione, utile a garantire e una pianificazione razionale e
ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico
ed edilizio.
4.1. Diversamente, qualora si verta in presenza di un lotto intercluso o in
altri analoghi casi in cui la zona risulti totalmente urbanizzata attraverso
la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari
bisogni della collettività -quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di
distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, etc.- lo
strumento urbanistico esecutivo non può ritenersi più necessario e non può,
pertanto, legittimarsi un rifiuto da parte del Comune che sia basato su un
mero argomento formale (cfr., per tutte, TAR Campania, Napoli IV Sezione,
06.06.2000, n. 1819).
4.2. Esistono, tuttavia, delle situazioni intermedie, non necessariamente
identificabili né sovrapponibili con le fattispecie di “lotto intercluso”
oppure con altre similari, nelle quali l'area interessata dall'intervento
può risultare anche solo in parte, edificata, e, parallelamente, può essere
più o meno asservita da opere di urbanizzazione.
In tali casi, ove si è in presenza di una anche parziale edificazione e non
completa urbanizzazione, si è affermata una soluzione interpretativa,
ispirata alla esigenza di assicurare un equilibrato contemperamento dei
diversi interessi in gioco, volta a valorizzare e rendere più pregnante
l'onere motivazionale gravante a carico della amministrazione interessata.
In tali casi, si ritiene che la amministrazione sia tenuta altresì a
verificare e valutare quale sia lo stato di urbanizzazione già presente
nella zona e debbia congruamente evidenziare e motivare quali siano le
concrete e ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova
costruzione (cfr. C.d.S., Ad. Plen., 06.10.1992, n. 12; idem, V Sezione,
03.10.1997, n. 1097, 25.10.1997 n. 1189 e 18.08.1998 n. 1273; TAR Lazio,
Roma, II Sezione, 29.09.2000 n. 76-OMISSIS-; TAR Campania, Napoli, IV
Sezione, 02.03.2000, n. 596).
4.3. È stato anche osservato al riguardo che l'Ente locale, avendo la
disponibilità dei dati tecnici attestanti la reale consistenza del reticolo
connettivo del suo territorio, sia per quanto concerne la urbanizzazione
primaria, sia per le opere di urbanizzazione secondaria, è senza dubbio in
grado di stabilire se e in che misura un ulteriore, un eventuale carico
edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto del territorio già
realizzato o in via di realizzazione.
Ed infatti la esistenza delle opere di urbanizzazione, rilevante ai fini
della necessità o meno della previa redazione di un piano di lottizzazione o
di altro strumento urbanistico attuativo, prima del rilascio della
concessione edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza
delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale valutazione circa la
congruità del grado di urbanizzazione di un'area -valutazione rimessa
all'apprezzamento di merito dell'amministrazione- non può che essere
effettuata alla stregua della normativa sugli “standards” urbanistici
di cui al combinato disposto del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e art. 17 l.
06.08.1967 n. 765, onde l'equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato
di adeguata urbanizzazione non è configurabile quando non si riscontri
l'esistenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle
quantità minime prescritte (cfr. Consiglio Stato sez. V, 29.04.2000, n.
2562).
4.4. Tale valutazione di congruità e sufficienza rispetto agli standards
previsti dalla normativa ed ai bisogni della collettività locale, è
riservata al Comune al quale è consentito rifiutare ulteriori assensi
edilizi, purché motivi adeguatamente le ragioni del diniego, in rapporto
alla situazione generale del comprensorio a quel momento esistente (TAR
Puglia-Bari, Sezz. unite,
sentenza 14.05.2022 n. 664 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Anche
in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello
strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di
fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia
addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale
ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi
in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad
una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza
all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico
di completamento della zona.
Ciò in quanto l’esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per
il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla
più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate,
che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in
caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e
urbanizzata.
Invero, “Per costante giurisprudenza, i casi in cui è consentito prescindere
dalla formazione del piano attuativo al quale, in linea di principio, lo
strumento urbanistico di livello superiore subordini il rilascio del
permesso di costruire su un dato lotto sono assolutamente eccezionali, e si
riducono a quelli in cui la situazione di fatto, in presenza di una
pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile
con il piano attuativo stesso: si fa l'esempio usuale del lotto residuale ed
intercluso, che sia compreso in un'area per il resto completamente
urbanizzata.
Di contro, il piano attuativo continua ad essere richiesto, e non è
consentito prescindere dalla previsione del piano di livello superiore, nei
casi in cui la zona sia effettivamente in gran parte edificata, ma ci si
trovi di fronte ad un'edificazione disomogenea, che esige un intervento di
riordino, per potenziare e armonizzare le opere di urbanizzazione esistenti.
Apprezzare se sussista una situazione di quest'ultimo tipo, ovvero una quasi
completa edificazione che consente di non richiedere il piano attuativo è
poi espressione dell'ampia discrezionalità di cui il Comune dispone in
materia urbanistica, fermo restando che è richiesta una puntuale
motivazione”.
---------------
Al riguardo la giurisprudenza condivisa dal Collegio ritiene che anche in
presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento
attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in
presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura
incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed
intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in
cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una
situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza
all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno
urbanistico di completamento della zona; ciò in quanto l’esigenza di un
piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione
edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il
preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di
urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di
armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una
necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto
intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata
(Consiglio di Stato, Sez. II, 09.12.2020, n. 7843).
“Per costante giurisprudenza, i casi in cui è consentito prescindere
dalla formazione del piano attuativo al quale, in linea di principio, lo
strumento urbanistico di livello superiore subordini il rilascio del
permesso di costruire su un dato lotto sono assolutamente eccezionali, e si
riducono a quelli in cui la situazione di fatto, in presenza di una
pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile
con il piano attuativo stesso: si fa l'esempio usuale del lotto residuale ed
intercluso, che sia compreso in un'area per il resto completamente
urbanizzata.
Di contro, il piano attuativo continua ad essere richiesto, e non è
consentito prescindere dalla previsione del piano di livello superiore, nei
casi in cui la zona sia effettivamente in gran parte edificata, ma ci si
trovi di fronte ad un'edificazione disomogenea, che esige un intervento di
riordino, per potenziare e armonizzare le opere di urbanizzazione esistenti.
Apprezzare se sussista una situazione di quest'ultimo tipo, ovvero una quasi
completa edificazione che consente di non richiedere il piano attuativo è
poi espressione dell'ampia discrezionalità di cui il Comune dispone in
materia urbanistica, fermo restando che è richiesta una puntuale motivazione”
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.11.2021, n. 7620) (TAR Campania-Napoli,
Sez. III,
sentenza 13.04.2022 n. 2533 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il principio generale per il quale lo strumento urbanistico
attuativo diviene superfluo e non più esigibile da parte
dell'amministrazione comunale tenuta al rilascio del titolo edilizio “…. non
assume valenza assoluta e deve essere contemperato con l'altro consolidato
principio, secondo il quale l'esigenza di un piano urbanistico attuativo,
quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si impone anche
per garantire un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo
allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi,
pure al più limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate
per le quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di
una pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l'ipotesi di lotto
intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa
urbanizzazione.
In altri termini, il principio secondo cui può prescindersi nelle zone di
espansione dalla previa presentazione di un piano particolareggiato o di
lottizzazione, qualora la zona sia completamente urbanizzata, recede nel
caso in cui sussista una specifica previsione della strumentazione
urbanistica che imponga l'assolvimento di tale onere prima di avviare
l'attività edilizia”.
---------------
1.7 Infine, non può essere valorizzata la prospettata tesi del “lotto
intercluso”.
Sul punto è sufficiente richiamare l’orientamento per cui nella fattispecie
il principio generale per il quale lo strumento urbanistico attuativo
diviene superfluo e non più esigibile da parte dell'amministrazione comunale
tenuta al rilascio del titolo edilizio “…. non assume valenza assoluta e
deve essere contemperato con l'altro consolidato principio, secondo il quale
l'esigenza di un piano urbanistico attuativo, quale presupposto per il
rilascio del permesso di costruire, si impone anche per garantire un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più
limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate per le
quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di una
pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l'ipotesi di lotto
intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa
urbanizzazione.
In altri termini, il principio secondo cui può prescindersi nelle zone di
espansione dalla previa presentazione di un piano particolareggiato o di
lottizzazione, qualora la zona sia completamente urbanizzata, recede nel
caso in cui sussista una specifica previsione della strumentazione
urbanistica che imponga l'assolvimento di tale onere prima di avviare
l'attività edilizia (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.04.2016 n. 1434;
Consiglio di Stato, Sez. V, 29.02.2012 n. 1177; Consiglio di Stato, Sez. IV,
10.01.2012 n. 26; TAR Campania-Napoli, Sez. II, 03.07.2017 n. 3538 e
05.04.2016 n. 1662; TAR Campania Salerno, Sez. I, 23.03.2015 n. 633; TAR
Campania Napoli, Sez. VIII, 03.07.2012 n. 3140)” (TAR Campania-Napoli,
sez. II – 16/06/2020 n. 2449; cfr. anche Consiglio di Stato, sez. II –
18/03/2020 n. 1926) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 09.03.2022 n. 247 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: La
necessità dello strumento attuativo è superata nei casi in cui la situazione
di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona,
renda inutile il ricorso ad una pianificazione di dettaglio.
In particolare, il titolo abilitativo edilizio può essere oggetto di
rilascio anche in assenza del piano attuativo, richiesto dalle norme di
piano regolatore, quando il lotto del richiedente possa definirsi
“intercluso”, ossia quando l’area sia l’unica a non essere stata ancora
edificata, trovandosi in una zona integralmente interessata da costruzioni e
dotata delle opere di urbanizzazione.
Il lotto, al fine di essere considerato “intercluso”, deve presentare alcune
caratteristiche, ed in particolare ciò “si realizza allorquando l’area
edificabile di proprietà del richiedente il permesso di costruire:
a) sia l’unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie),
previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto
edilizio del tutto conforme al p.r.g.”.
In altri termini, è possibile prescindere dalla lottizzazione convenzionata
prescritta dalle norme tecniche di piano solo ove nell’area interessata
sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante
dall’attuazione della lottizzazione stessa, quando, in particolare,
nell’area siano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari
agli standard urbanistici minimi prescritti.
Tuttavia, il titolo abilitativo edilizio non può essere rilasciato in
assenza di un piano attuativo nell’ipotesi in cui, “per effetto di una
edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige
un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e
talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona,
ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o
integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli
standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico
collegamento con le zone contigue, già asservite all’edificazione”.
Infatti, il piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della
concessione edilizia, si rivela necessario al fine di un armonico raccordo
con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere
di urbanizzazione già esistenti, nonché di armonizzare aree già compromesse
ed urbanizzate.
---------------
Il Collegio osserva che, come più volte affermato in sede pretoria, la
necessità dello strumento attuativo è superata nei casi in cui la situazione
di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona,
renda inutile il ricorso ad una pianificazione di dettaglio.
In particolare, il titolo abilitativo edilizio può essere oggetto di
rilascio anche in assenza del piano attuativo, richiesto dalle norme di
piano regolatore, quando il lotto del richiedente possa definirsi “intercluso”,
ossia quando l’area sia l’unica a non essere stata ancora edificata,
trovandosi in una zona integralmente interessata da costruzioni e dotata
delle opere di urbanizzazione.
Il lotto, al fine di essere considerato “intercluso”, deve presentare
alcune caratteristiche, ed in particolare ciò “si realizza allorquando
l’area edificabile di proprietà del richiedente il permesso di costruire: a)
sia l’unica a non essere stata ancora edificata; b) si trovi in una zona
integralmente interessata da costruzioni; c) sia dotata di tutte le opere di
urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti
urbanistici; d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme
al p.r.g.” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 07/11/2014, n. 5488; Cons. Stato,
Sez. II, 18/08/2020, n. 5073; Cons. Stato, Sez. II, 08/06/2021, n. 4378;
Cons. Stato, Sez. IV, 23/12/2021, n. 8544).
In altri termini, è possibile prescindere dalla lottizzazione convenzionata
prescritta dalle norme tecniche di piano solo ove nell’area interessata
sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante
dall’attuazione della lottizzazione stessa, quando, in particolare,
nell’area siano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari
agli standard urbanistici minimi prescritti.
Tuttavia, il titolo abilitativo edilizio non può essere rilasciato in
assenza di un piano attuativo nell’ipotesi in cui, “per effetto di una
edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige
un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e
talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona,
ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o
integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli
standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico
collegamento con le zone contigue, già asservite all’edificazione” (cfr.
Cons. Stato, Sez. II, 03/06/2020, n. 3472).
Infatti, il piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della
concessione edilizia, si rivela necessario al fine di un armonico raccordo
con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere
di urbanizzazione già esistenti, nonché di armonizzare aree già compromesse
ed urbanizzate (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 12/07/2018, n. 4271;
Cons. Stato, Sez. IV, 13/04/2016, n. 1434; Cons. Stato, Sez. IV, 17/07/2013,
n. 3880) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 01.03.2022 n. 362 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Come
chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, «in termini
urbanistico-edilizi, la nozione di lotto intercluso, siccome strettamente
correlata alla possibilità di edificare un fondo in assenza di un piano
urbanistico attuativo o di un piano di lottizzazione, non richiede affatto
l'interclusione del terreno da tutti i lati, ma l'esistenza di un'area c.d.
"relitto" e autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita:
ossia, compiutamente e definitivamente collegata e integrata con già
esistenti opere di urbanizzazione (strade, servizi, piazze, giardini) e/o
con altri immobili adiacenti».
---------------
Anche con riferimento al rispetto
della disciplina relativa al lotto minimo, con l’ordinanza n. 394 del 2019
(punto 5) è stato demandato al verificatore il calcolo delle superfici
interessate.
Il verificatore ha convenuto sulla circostanza che il lotto della società Ri.
ha una superficie complessiva pari a 1170 mq, pertanto inferiore al lotto
minimo prescritto dall’art. 55, comma 18, NTA, ritenendo, tuttavia, che la
normativa urbanistica non sia stata violata, stante l’applicabilità della
disciplina specificamente posta per il lotto intercluso dal successivo comma
19.
Le conclusioni del verificatore sono meritevoli di condivisione.
Va evidenziato che il comma 19 dell’art. 55 NTA prevede che: «Nelle zone
di cui al comma precedente potranno essere consentite nuove costruzioni o
ampliamenti su singolo lotto, inferiore al minimo prescritto, che risulti
intercluso sia da altri già edificati o destinati ad edifici pubblici, sia
per effetto di vincoli di inedificabilità imposti dal nuovo PRG. Nel caso il
lotto edificabile risulti inferiore al lotto minimo richiesto per una
percentuale fino al 10%, l'intervento può essere realizzato compensando per
la superficie mancante con aree da asservire della medesima zona urbanistica».
I due periodi del citato comma disciplinano due fattispecie differenti:
al primo periodo è prevista una deroga al lotto minimo per i lotti
interclusi -senza ulteriori limitazioni- mentre il secondo periodo
disciplina la possibilità di integrazione del lotto minimo mediante gli
asservimenti nella limitata misura del 10%.
Nel caso in esame risulta applicabile la prima previsione derogatoria in
quanto, come evidenziato dal verificatore, «[d]alla disamina delle
immagini disponibili sia su Google Earth o su Google Maps e da quanto
verificato in sede di sopralluogo si ha evidenza che il lotto in esame, di
forma pressoché rettangola, è inserito per tre lati tra tre costruzioni già
esistenti, mentre il quarto lato fronteggia la pubblica via Ippocrate ed un
fosso. Oltre a questo, sfruttando la visualizzazione delle immagini storiche
presente in Google Earth (vedi documentazione fotografica n. 18 e n. 19) si
può facilmente verificare che tutti e tre gli edifici sopra erano già
presenti prima dell’inizio della costruzione di quello in esame. Si può
quindi ritenere che quello in esame possa rientrare nella definizione di
“lotto intercluso”».
Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, «in termini
urbanistico-edilizi, la nozione di lotto intercluso, siccome strettamente
correlata alla possibilità di edificare un fondo in assenza di un piano
urbanistico attuativo o di un piano di lottizzazione, non richiede affatto
l'interclusione del terreno da tutti i lati, ma l'esistenza di un'area c.d.
"relitto" e autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita:
ossia, compiutamente e definitivamente collegata e integrata con già
esistenti opere di urbanizzazione (strade, servizi, piazze, giardini) e/o
con altri immobili adiacenti» (TAR Sicilia, Catania, sez. IV,
18.01.2019, n. 64; cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. I, 26.11.2019, n. 1903)
(TAR Umbria,
sentenza 31.01.2022 n. 47 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Il
Consiglio di Stato ha fornito
un interessante, quanto utile, riepilogo degli orientamenti giurisprudenziali
sulla necessità o meno dell’approvazione dei piani attuativi prima del
rilascio del permesso di costruire, individuando tre possibili situazioni
che si possono in concreto verificare e le relative conseguenze sulla
richiesta del titolo.
La prima, attiene alle zone inedificate.
Nel caso di zone assolutamente inedificate, da asservire per la prima volta
all'edificazione, mediante costruzione di uno o più fabbricati, aree non
ancora urbanizzate, l’esistenza del piano esecutivo (piano di lottizzazione
o piano particolareggiato, PUE) è senza dubbio presupposto indispensabile
per il rilascio del titolo edilizio. In tali situazioni deve essere
rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione
del piano regolatore generale e della realizzazione dello strumento
urbanistico d'attuazione, che garantisce una pianificazione razionale e
ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico.
Pertanto, in tali casi, è da ritenersi legittimo il rigetto della istanza
edificatoria fondato sulla mancanza di strumento urbanistico di attuazione.
La seconda riguarda zone totalmente urbanizzate e l’ipotesi del lotto
intercluso (propugnata anche dall’appellante).
La fattispecie del lotto intercluso rappresenta una deroga eccezionale al
principio generale per cui il rilascio del titolo edilizio può essere
legittimamente disposto solo dopo che si sia concluso il procedimento per la
adozione dello strumento urbanistico attuativo e che lo stesso sia divenuto
perfetto ed efficace.
Per “lotto intercluso” o “lotto residuo”, la giurisprudenza amministrativa
intende un’area compresa in zona totalmente dotata di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi
prescritti, cioè da opere e servizi realizzati per soddisfare i necessari
bisogni della collettività quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di
distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, etc...
In particolare si realizza la fattispecie del lotto intercluso solo se
l'area edificabile:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie),
previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al Piano
Regolatore Generale.
In termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare l’area in termini di
lotto intercluso non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i
lati, bensì l’esistenza di un’area c.d. "relitto", autonomamente edificabile
perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente
collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione (strade,
servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili adiacenti.
In presenza del lotto intercluso, poiché la completa e razionale
edificazione e urbanizzazione del comprensorio interessato ha già creato una
situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione
del piano esecutivo (piano particolareggiato, piano di lottizzazione, etc.),
lo strumento urbanistico esecutivo si ritiene superfluo. Ne deriva, in casi
del genere, l'illegittimità della pretesa del Comune di subordinare il
rilascio del titolo edilizio alla predisposizione di un piano di
lottizzazione, pur astrattamente previsto dallo strumento generale.
La terza situazione è quella che si può definire “situazione intermedia”
(pure questa propugnata dall’appellante).
Nelle situazioni intermedie, nelle quali il territorio risulti già più o
meno urbanizzato, il piano attuativo diviene lo strumento indispensabile per
l'ordinato assetto del territorio e il rilascio del titolo edilizio può
essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia
divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo
procedimento.
Tuttavia è stato ritenuto che quando sia ravvisabile una sostanziale, anche
se non completa, urbanizzazione dell’intero comprensorio a cui appartiene
l'area oggetto della richiesta edilizia, la mancanza dello strumento
attuativo, in se e per sé, non può essere invocata ad esclusivo fondamento
del diniego di concessione edilizia. In tal caso, l'Amministrazione dovrà
condurre adeguata istruttoria al fine di valutare lo stato di urbanizzazione
già presente nella zona ed evidenziare le concrete ed ulteriori esigenze di
urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione.
Infatti solo il Comune,
essendo in possesso delle informazioni concernenti l'effettiva consistenza
del suo territorio, delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, dei
servizi pubblici, e delle edificazioni pubbliche e private già esistenti, è
in grado di stabilire se e in quale misura un ulteriore eventuale carico
edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto del territorio già
presente.
Il Comune, quindi, dovrà preventivamente esaminare, in relazione alla
dimensione dell'intervento richiesto, allo stato dei luoghi, alla
documentazione prodotta dall'interessato ed alle prescrizioni di zona del
piano di fabbricazione, se il Piano regolatore fornisca indicazioni
esaustive sulle modalità edificatorie nonché lo stato di urbanizzazione e di
edificazione dell'area interessata in relazione all'adeguatezza e fruibilità
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di conseguenza
valutare se persiste o meno la necessità di adottare il piano attuativo
prima del rilascio del permesso di costruire, dando atto delle dette
verifiche nelle motivazioni della propria decisione.
Sempre in tema, avuto riguardo al profilo del silenzio-assenso, la giurisprudenza ha affermato che, in
linea di principio, l’equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di
sufficiente urbanizzazione ai fini del rilascio del titolo edilizio non
opera nel procedimento di formazione del silenzio-assenso sulla domanda di
costruzione.
---------------
9. L’appello è fondato, nei sensi e limiti che di seguito
verranno esposti.
9.1. L’area in argomento è classificata come zona D2.2 (artigianali e
commerciali di nuovo impianto e di ristrutturazione urbanistica) del P.R.G.
Ai sensi dell’art. 49 delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G., nella
zona D2.2 non sono ammessi interventi diretti ma si rende necessaria la
preventiva approvazione del Piano Urbanistico Esecutivo (P.U.E.) per
l’intera zona risultante dalla cartografia di P.R.G. (vedi memoria-documento
depositato dal Comune nel giudizio di primo grado in data 22.05.2020).
9.2. Il Consiglio di Stato (sez. IV, sentenza 03/12/2019, n. 8270) ha fornito
un interessante, quanto utile, riepilogo degli orientamenti giurisprudenziali
sulla necessità o meno dell’approvazione dei piani attuativi prima del
rilascio del permesso di costruire, individuando tre possibili situazioni
che si possono in concreto verificare e le relative conseguenze sulla
richiesta del titolo.
La prima, attiene alle zone inedificate.
Nel caso di zone assolutamente inedificate, da asservire per la prima volta
all'edificazione, mediante costruzione di uno o più fabbricati, aree non
ancora urbanizzate, l’esistenza del piano esecutivo (piano di lottizzazione
o piano particolareggiato, PUE) è senza dubbio presupposto indispensabile
per il rilascio del titolo edilizio. In tali situazioni deve essere
rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione
del piano regolatore generale e della realizzazione dello strumento
urbanistico d'attuazione, che garantisce una pianificazione razionale e
ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico.
Pertanto, in tali casi, è da ritenersi legittimo il rigetto della istanza
edificatoria fondato sulla mancanza di strumento urbanistico di attuazione.
La seconda riguarda zone totalmente urbanizzate e l’ipotesi del lotto
intercluso (propugnata anche dall’appellante).
La fattispecie del lotto intercluso rappresenta una deroga eccezionale al
principio generale per cui il rilascio del titolo edilizio può essere
legittimamente disposto solo dopo che si sia concluso il procedimento per la
adozione dello strumento urbanistico attuativo e che lo stesso sia divenuto
perfetto ed efficace.
Per “lotto intercluso” o “lotto residuo”, la giurisprudenza amministrativa
intende un’area compresa in zona totalmente dotata di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi
prescritti, cioè da opere e servizi realizzati per soddisfare i necessari
bisogni della collettività quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di
distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, etc...
In particolare si realizza la fattispecie del lotto intercluso solo se
l'area edificabile:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie),
previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al Piano
Regolatore Generale.
In termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare l’area in termini di
lotto intercluso non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i
lati, bensì l’esistenza di un’area c.d. "relitto", autonomamente edificabile
perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente
collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione (strade,
servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili adiacenti.
In presenza del lotto intercluso, poiché la completa e razionale
edificazione e urbanizzazione del comprensorio interessato ha già creato una
situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione
del piano esecutivo (piano particolareggiato, piano di lottizzazione, etc.),
lo strumento urbanistico esecutivo si ritiene superfluo. Ne deriva, in casi
del genere, l'illegittimità della pretesa del Comune di subordinare il
rilascio del titolo edilizio alla predisposizione di un piano di
lottizzazione, pur astrattamente previsto dallo strumento generale.
La terza situazione è quella che si può definire “situazione intermedia”
(pure questa propugnata dall’appellante).
Nelle situazioni intermedie, nelle quali il territorio risulti già più o
meno urbanizzato, il piano attuativo diviene lo strumento indispensabile per
l'ordinato assetto del territorio e il rilascio del titolo edilizio può
essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia
divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo
procedimento.
Tuttavia è stato ritenuto che quando sia ravvisabile una sostanziale, anche
se non completa, urbanizzazione dell’intero comprensorio a cui appartiene
l'area oggetto della richiesta edilizia, la mancanza dello strumento
attuativo, in se e per sé, non può essere invocata ad esclusivo fondamento
del diniego di concessione edilizia. In tal caso, l'Amministrazione dovrà
condurre adeguata istruttoria al fine di valutare lo stato di urbanizzazione
già presente nella zona ed evidenziare le concrete ed ulteriori esigenze di
urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione.
Infatti solo il Comune,
essendo in possesso delle informazioni concernenti l'effettiva consistenza
del suo territorio, delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, dei
servizi pubblici, e delle edificazioni pubbliche e private già esistenti, è
in grado di stabilire se e in quale misura un ulteriore eventuale carico
edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto del territorio già
presente.
Il Comune, quindi, dovrà preventivamente esaminare, in relazione alla
dimensione dell'intervento richiesto, allo stato dei luoghi, alla
documentazione prodotta dall'interessato ed alle prescrizioni di zona del
piano di fabbricazione, se il Piano regolatore fornisca indicazioni
esaustive sulle modalità edificatorie nonché lo stato di urbanizzazione e di
edificazione dell'area interessata in relazione all'adeguatezza e fruibilità
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di conseguenza
valutare se persiste o meno la necessità di adottare il piano attuativo
prima del rilascio del permesso di costruire, dando atto delle dette
verifiche nelle motivazioni della propria decisione.
9.3. Sempre in tema, avuto riguardo al profilo del silenzio-assenso anche
questo propugnato dall’appellante, la giurisprudenza ha affermato che, in
linea di principio, l’equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di
sufficiente urbanizzazione ai fini del rilascio del titolo edilizio non
opera nel procedimento di formazione del silenzio-assenso sulla domanda di
costruzione (Cons. Stato, sez. IV. 1642/2008; sez. IV, n. 3699/2010) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.12.2021 n. 8544 - link a
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URBANISTICA: Ha chiarito la giurisprudenza consolidata che "in tema
di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti
urbanistici ed edilizi, contenute nel piano regolatore, nei piani attuativi
o in altro strumento generale individuato dalla normativa regionale, si
distinguono
- le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le
potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata (nel cui
ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione, la destinazione di aree a
soddisfare gli standard urbanistici, la localizzazione di opere pubbliche o
di interesse collettivo) e
- le altre regole che, più in dettaglio,
disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria, generalmente contenute
nelle norme tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio
(disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze, sull'osservanza di
canoni estetici, sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali,
regole tecniche sull'attività costruttiva, ecc.).
Per le disposizioni
appartenenti alla prima categoria si impone, in relazione all'immediato
effetto conformativo dello ius aedificandi dei proprietari dei suoli
interessati che ne deriva, ove se ne intenda contestare il contenuto, un
onere di immediata impugnativa in osservanza del termine decadenziale a
partire dalla pubblicazione dello strumento pianificatorio. Mentre, a
diversa conclusione si perviene con riguardo alle prescrizioni di dettaglio
contenute nelle norme di natura regolamentare destinate a regolare la futura
attività edilizia, che sono suscettibili di ripetuta applicazione ed
esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto applicativo e,
dunque, possono essere oggetto di censura in occasione della sua
impugnazione".
---------------
Nel sistema di pubblicità-notizia
disciplinato dalla legislazione urbanistica nazionale e regionale, nonché ai
sensi dell'art. 124 t.u.e.l. n. 267/2000, il termine per l'impugnazione
dello strumento urbanistico generale decorre non dalla notifica ai singoli
proprietari interessati dalla disciplina del territorio, ma dalla data di
pubblicazione del decreto di approvazione o, al più tardi, dall'ultimo
giorno della pubblicazione all'albo pretorio dell'avviso di deposito presso
gli uffici comunali dei documenti riferiti al piano approvato, salvo che
esso non incida specificatamente, con effetti latamente espropriativi, su
singoli, determinati beni”.
Sostanzialmente, si deve far valere, non rientrando il caso di specie tra
quelli che possono giustificare la deroga rappresentata dalla comunicazione
individuale “il principio generale secondo cui la presunzione di conoscenza
dello strumento urbanistico consegue alla mera pubblicazione dell’atto di
approvazione.
---------------
6. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Le doglianze espresse dal ricorrente paiono appuntarsi, nella sostanza
espositiva, su due profili di illegittimità dell'atto: l’erroneo inserimento
del proprio lotto in zona C, anziché in zona B del PRG, nonché, comunque, la
mancata applicazione della disciplina del cd. “fondo intercluso”.
7. Deve allora essere subito rilevato come, per quanto riguarda la presunta
erronea valutazione effettuata in sede di redazione del piano, questa non
può essere fatta valere nel presente giudizio. In primo luogo infatti, tale
censura sarebbe inammissibile, stante l’omessa impugnazione, anche nel
presente giudizio, dell’atto presupposto, ossia lo stesso Piano Regolatore
Generale.
7.1. Quand’anche si riconoscesse autonomia al predetto motivo di
impugnazione, si dovrebbe comunque ritenere che questa risulti
irrimediabilmente tardiva, risalendo il Piano Regolatore Generale del Comune
di Tropea al 1998. L’immediatezza degli effetti lesivi del piano sulla sfera
giuridica di parte ricorrente porta a considerare che sarebbe stato
necessario, qualora vi fossero stati motivi di doglianza, impugnare l’atto
in seguito alla sua emanazione.
In tal senso infatti, ha chiarito la giurisprudenza consolidata che "in tema
di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti
urbanistici ed edilizi, contenute nel piano regolatore, nei piani attuativi
o in altro strumento generale individuato dalla normativa regionale, si
distinguono le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le
potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata (nel cui
ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione, la destinazione di aree a
soddisfare gli standard urbanistici, la localizzazione di opere pubbliche o
di interesse collettivo) e le altre regole che, più in dettaglio,
disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria, generalmente contenute
nelle norme tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio
(disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze, sull'osservanza di
canoni estetici, sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali,
regole tecniche sull'attività costruttiva, ecc.).
Per le disposizioni
appartenenti alla prima categoria si impone, in relazione all'immediato
effetto conformativo dello ius aedificandi dei proprietari dei suoli
interessati che ne deriva, ove se ne intenda contestare il contenuto, un
onere di immediata impugnativa in osservanza del termine decadenziale a
partire dalla pubblicazione dello strumento pianificatorio. Mentre, a
diversa conclusione si perviene con riguardo alle prescrizioni di dettaglio
contenute nelle norme di natura regolamentare destinate a regolare la futura
attività edilizia, che sono suscettibili di ripetuta applicazione ed
esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto applicativo e,
dunque, possono essere oggetto di censura in occasione della sua
impugnazione" (Cons. Stato, sez. VI, 28.06.2021, n. 4887; Cons. Stato,
sez. IV, 12.02.2021, n. 1276).
Orbene, nel caso di specie la censura investe proprio la circostanza per cui
la zonizzazione operata in zona C e non B determinerebbe l'impossibilità per
il ricorrente di porre in essere alcuna attività di edificazione nel suo
fondo, salva l'applicazione della disciplina del lotto intercluso, anch'essa
oggetto di censura e di cui si dirà infra; di tal che, il PRG assume, sotto
questo profilo, immediata portata lesiva, ma non è stato impugnato,
tanto meno tempestivamente.
Né sarebbe opponibile, come del resto non è stato fatto, la mancata
comunicazione o notificazione individuale.
Infatti, deve ricordarsi come “nel sistema di pubblicità-notizia
disciplinato dalla legislazione urbanistica nazionale e regionale, nonché ai
sensi dell'art. 124 t.u.e.l. n. 267/2000, il termine per l'impugnazione
dello strumento urbanistico generale decorre non dalla notifica ai singoli
proprietari interessati dalla disciplina del territorio, ma dalla data di
pubblicazione del decreto di approvazione o, al più tardi, dall'ultimo
giorno della pubblicazione all'albo pretorio dell'avviso di deposito presso
gli uffici comunali dei documenti riferiti al piano approvato, salvo che
esso non incida specificatamente, con effetti latamente espropriativi, su
singoli, determinati beni” (Cons. di Stato, sez. VI, 13.02.2017, n. 622).
Sostanzialmente, si deve far valere, non rientrando il caso di specie tra
quelli che possono giustificare la deroga rappresentata dalla comunicazione
individuale “il principio generale secondo cui la presunzione di conoscenza
dello strumento urbanistico consegue alla mera pubblicazione dell’atto di
approvazione” (Cons. di Stato, sez. VI, 17.05.2021, n. 3834).
7.2. Da quanto esposto consegue che gli ipotetici vizi del piano regolatore
non possono essere esaminati in questa sede, non essendo stati fatti valere
nei termini previsti per la loro impugnazione (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 23.12.2021 n. 2348 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve rilevarsi come la giurisprudenza, nell’ammettere casi in cui
non sia necessario un piano attuativo dello strumento urbanistico generale,
specifichi i requisiti necessari per poter adottare questo regime
facilitato. Non bisogna, infatti, trascurare, come quella del fondo
intercluso si ponga come una deroga alla disciplina generale e che,
pertanto, possa essere accettata soltanto al ricorrere di determinate
condizioni.
In tal senso, infatti, la giurisprudenza amministrativa "ritiene
realizzata la fattispecie del lotto intercluso solo se l'area edificabile di
proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e
secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al
Piano Regolatore Generale.
In termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare l’area in termini di
lotto intercluso non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i
lati, bensì l’esistenza di un’area c.d. "relitto", autonomamente edificabile
perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente
collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione (strade,
servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili adiacenti.
In presenza del lotto intercluso, poiché la completa e razionale
edificazione e urbanizzazione del comprensorio interessato ha già creato una
situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione
del piano esecutivo (piano particolareggiato, piano di lottizzazione, etc.),
lo strumento urbanistico esecutivo si ritiene superfluo”.
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8. Il ricorrente ha compiutamente invece lamentato la mancata applicazione
nel suo caso della disciplina riguardante il fondo intercluso.
Sul punto, deve rilevarsi come la giurisprudenza, nell’ammettere casi in cui
non sia necessario un piano attuativo dello strumento urbanistico generale,
specifichi i requisiti necessari per poter adottare questo regime
facilitato. Non bisogna, infatti, trascurare, come quella del fondo
intercluso si ponga come una deroga alla disciplina generale e che,
pertanto, possa essere accettata soltanto al ricorrere di determinate
condizioni.
8.1. In tal senso, infatti, la giurisprudenza amministrativa "ritiene
realizzata la fattispecie del lotto intercluso solo se l'area edificabile di
proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e
secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al
Piano Regolatore Generale.
In termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare l’area in termini di
lotto intercluso non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i
lati, bensì l’esistenza di un’area c.d. "relitto", autonomamente edificabile
perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente
collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione (strade,
servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili adiacenti.
In presenza del lotto intercluso, poiché la completa e razionale
edificazione e urbanizzazione del comprensorio interessato ha già creato una
situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione
del piano esecutivo (piano particolareggiato, piano di lottizzazione, etc.),
lo strumento urbanistico esecutivo si ritiene superfluo” (Cons. Stato, sez.
II, 03.12.2019, n. 8270) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 23.12.2021 n. 2348 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Secondo
condivisibile giurisprudenza, "in presenza di una normativa
urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una
determinata zona l’esistenza di un piano attuativo, non è consentito
superare questa prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente
urbanizzazione della zona stessa né surrogare l’assenza del piano attuativo
con l’imposizione di opere di urbanizzazione all’atto del rilascio del
titolo edilizio. L’inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo
impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere
effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile
edificare, vanificando la funzione del piano attuativo”.
Peraltro, la giurisprudenza configura come del tutto eccezionali le fattispecie in cui sono superabili le
previsioni degli strumenti urbanistici che condizionano il rilascio del
titolo edilizio alla presentazione di piani attuativi. Tali fattispecie
riguardano i casi “nei quali la situazione di fatto, in presenza di una
pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile
con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area
completamente urbanizzata)”.
In altre parole, l’omissione dello strumento attuativo, così come la
configurazione dell’ipotesi del c.d. “lotto intercluso”, rappresentano, alla
stregua dell’insegnamento giurisprudenziale, ipotesi eccezionali, associate
peraltro a rilevanti oneri probatori ricadenti sulla parte privata.
---------------
3.2. Secondo la condivisibile giurisprudenza del Supremo
Consesso di Giustizia Amministrativa, “in presenza di una normativa
urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una
determinata zona l’esistenza di un piano attuativo, non è consentito
superare questa prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente
urbanizzazione della zona stessa né surrogare l’assenza del piano attuativo
con l’imposizione di opere di urbanizzazione all’atto del rilascio del
titolo edilizio. L’inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo
impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere
effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile
edificare, vanificando la funzione del piano attuativo” (cfr., ex multis,
Cons. Stato, Sez. II, 31.10.2019, n. 7463).
3.3. Reputa il Collegio che, in difetto del piano attuativo o di misure
equipollenti, debba escludersi la possibilità di accedere alla richiesta,
formulata da ultimo dalla ricorrente, di verificazione o CTU nel presente
grado di giudizio, giacché la portata imperativa e inderogabile della
normativa urbanistica in subiecta materia porta a ritenere infondate le
censure riguardanti vizi della motivazione e dell’istruttoria del
provvedimento impugnato, non essendo nella disponibilità
dell’Amministrazione porre nel nulla la prescrizione di strumenti di
attuazione contenuta negli atti di pianificazione.
3.4. Peraltro, la giurisprudenza citata dalla ricorrente a sostegno dei
motivi di ricorso configura come del tutto eccezionali (cfr. Cons. Stato,
Sez. VI, 19.03.2018, n. 1707) le fattispecie in cui sono superabili le
previsioni degli strumenti urbanistici che condizionano il rilascio del
titolo edilizio alla presentazione di piani attuativi. Tali fattispecie
riguardano i casi “nei quali la situazione di fatto, in presenza di una
pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile
con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area
completamente urbanizzata)” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 8469/2019).
3.5. In altre parole, l’omissione dello strumento attuativo, così come la
configurazione dell’ipotesi del c.d. “lotto intercluso”, rappresentano, alla
stregua dell’insegnamento giurisprudenziale, ipotesi eccezionali, associate
peraltro a rilevanti oneri probatori ricadenti sulla parte privata (Cons.
Stato, Sez. VI, n. 1707/2018 cit.) (TAR Puglia-Lecce,
Sez. II,
sentenza 09.12.2021 n. 1801 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: E'
principio ormai acquisito che la necessità di preventiva presentazione di un
piano attuativo si impone
qualora si tratti di asservire per la prima volta all’edificazione, mediante
la costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate che
obiettivamente richiedano la realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria; in tal caso, non può prescindersi dalla previa
predisposizione della pianificazione attuativa, sotto forma di piano
particolareggiato o di piano/convenzione di lottizzazione, quale presupposto
per il rilascio del permesso di costruire.
Diversamente, quando si verta in
presenza di un lotto intercluso o in altri casi analoghi in cui la zona
risulti totalmente urbanizzata attraverso la realizzazione delle opere e dei
servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività, quali
strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione dell’acqua,
dell’energia elettrica e del gas, scuole, ecc., lo strumento urbanistico attuativo
deve ritenersi superfluo e non più esigibile da parte dell’amministrazione
comunale tenuta al rilascio del titolo edilizio.
Tuttavia, il delineato principio generale non assume valenza assoluta e deve
essere contemperato con l’altro consolidato principio, secondo il quale
l’esigenza di un piano urbanistico attuativo, quale presupposto per il
rilascio del permesso di costruire, si impone anche per garantire un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più
limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate per le
quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di una
pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l’ipotesi di lotto
intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa
urbanizzazione.
In altri termini, il principio secondo cui può prescindersi nelle zone di
espansione dalla previa presentazione di un piano particolareggiato o di
lottizzazione qualora la zona sia completamente urbanizzata, recede nel caso
in cui sussista una specifica previsione della strumentazione urbanistica
che imponga l’assolvimento di tale onere prima di avviare l’attività
edilizia.
---------------
Considerato che:
- tale censura va disattesa;
- infatti, è ben vero che è principio ormai acquisito che la
necessità di preventiva presentazione di un piano attuativo si impone
qualora si tratti di asservire per la prima volta all’edificazione, mediante
la costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate che
obiettivamente richiedano la realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria; in tal caso, non può prescindersi dalla previa
predisposizione della pianificazione attuativa, sotto forma di piano
particolareggiato o di piano/convenzione di lottizzazione, quale presupposto
per il rilascio del permesso di costruire.
Diversamente, quando si verta in
presenza di un lotto intercluso o in altri casi analoghi in cui la zona
risulti totalmente urbanizzata attraverso la realizzazione delle opere e dei
servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività, quali
strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione dell’acqua,
dell’energia elettrica e del gas, scuole, ecc., lo strumento urbanistico attuativo deve ritenersi superfluo e non più esigibile da parte
dell’amministrazione comunale tenuta al rilascio del titolo edilizio (cfr.
per tutte TAR Sicilia Catania, Sez. I, 29.10.2015 n. 2518).
Tuttavia, il delineato principio generale non assume valenza assoluta e deve
essere contemperato con l’altro consolidato principio, secondo il quale
l’esigenza di un piano urbanistico attuativo, quale presupposto per il
rilascio del permesso di costruire, si impone anche per garantire un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più
limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate per le
quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di una
pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l’ipotesi di lotto
intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa
urbanizzazione; in altri termini, il principio secondo cui può prescindersi
nelle zone di espansione dalla previa presentazione di un piano
particolareggiato o di lottizzazione qualora la zona sia completamente
urbanizzata, recede nel caso in cui sussista una specifica previsione della
strumentazione urbanistica che imponga l’assolvimento di tale onere prima di
avviare l’attività edilizia (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.04.2016 n. 1434; Consiglio di Stato, Sez. V, 29.02.2012 n. 1177;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.01.2012 n. 26; TAR Campania Napoli, Sez. II,
03.07.2017 n. 3538 e 05.04.2016 n. 1662; TAR Campania
Salerno, Sez. I, 23.03.2015 n. 633; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 03.07.2012 n. 3140).
Orbene, applicando le suesposte coordinate ermeneutiche al caso in
questione, deve essere affermata l’inattaccabilità della ragione ostativa al
rilascio del titolo edilizio in sanatoria individuata dall’amministrazione
con riguardo alla carenza della pianificazione attuativa, se solo si pone
mente al dato pacifico che l’art. 42 delle NTA del PRG subordina
espressamente l’espletamento dell’attività edificatoria nella zona D2 di
interesse alla previa approvazione di piani urbanistici esecutivi (di
iniziativa pubblica o privata) o di un progetto unitario per superfici non
inferiori a 60.000 mq.;
- quanto sopra esposto riveste carattere assorbente ed esime il
Collegio dall’esaminare le rimanenti censure con cui parte ricorrente
contesta il gravato diniego di sanatoria in ordine ai profili motivazionali
emarginati alle lettere ii) e iii) del superiore “Rilevato che”, dal momento
che comunque l’impianto complessivo di tale atto risulta validamente
sorretto dalla mancanza della pianificazione attuativa.
Soccorre, al
riguardo, il condiviso principio secondo il quale, laddove una
determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una
pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a
supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi
indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento
nel suo complesso resti esente dall’annullamento (cfr. Consiglio di Stato,
A.P., 29.02.2016 n. 5; Consiglio di Stato, Sez. V, 06.03.2013 n.
1373 e 27.09.2004 n. 6301; Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.07.2010
n. 4243);
- nemmeno l’ultima doglianza rivolta nei confronti del diniego di
sanatoria, incentrata sulla violazione dell’art. 10-bis della legge n.
241/1990 in ragione dell’omesso invio del preavviso di rigetto, a ben vedere
si profila convincente; difatti, il provvedimento in parola non riesce ad
essere inficiato dalla dedotta omissione, in quanto appare evidente, alla
luce delle circostanze del caso e di quanto poco sopra esplicitato, che il
contenuto della negativa (e vincolata) disposizione comunale non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sicché la
partecipazione della società interessata non avrebbe comunque influito nel
determinare un esito diverso dell’istanza di accertamento di conformità,
secondo il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990 (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 29.11.2021 n. 7608 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Costituisce regola generale ed imperativa, in
materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g.
che impongano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio:
tali prescrizioni -di solito contenute nelle n.t.a.- sono vincolanti e
idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo.
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che la
sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il
rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo
che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando
è concluso il relativo procedimento;
b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il
rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano
attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla
situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa;
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di
opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; invero,
l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di
tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo;
d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo, circostanza
questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano
essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile
edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile
approvazione, se ritardata, può essere stimolata dall'interessato con gli
strumenti consentiti dal sistema;
e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone
parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di
compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di
dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto.
La giurisprudenza ha individuato, tuttavia, un’eccezione a tale stringente
necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del
territorio: il cd “lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo la detta impostazione, allorquando
l'area edificabile di proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie),
previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto purché si accerti
la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a
quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare
defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico, essendo stato raggiunto lo scopo e i risultati perseguiti dai
piani esecutivi/attuativi.
Per altro, la giurisprudenza si è spinta a puntualizzare il bisogno di un
piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione
edilizia, anche al fine ricordato dal Comune ossia “allo scopo di potenziare
le opere di urbanizzazione già esistenti ... onde essa potrebbe essere
rinvenuta finanche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di
zona già edificata e urbanizzata”.
Comunque, più in generale, con riferimento al grado di urbanizzazione, la
relativa valutazione, a fronte della ratio e della natura eccezionale della
regola sottesa al c.d. “lotto intercluso”, in assenza di strumento attuativo,
deve ritenersi rimessa all’esclusivo apprezzamento discrezionale del comune, che, semmai, ove intenda rilasciare il titolo
edilizio, deve compiere una penetrante istruttoria per accertare che la
pianificazione esecutiva non conservi una qualche utile funzione, anche in
relazione a situazioni di degrado che possano recuperare margini di
efficienza abitativa, riordino e completamento razionale e non sia in grado
di esprimere scelte programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel
p.r.g..
---------------
Lo strumento urbanistico attuativo non è necessario sia
in caso di c.d. "lotto intercluso" sia in altri casi analoghi, per i
quali, essendo la zona d'intervento totalmente urbanizzata, il piano
esecutivo sarebbe ormai privo d'oggetto.
In altri termini, la completa urbanizzazione del sito rende inutile il
piano di lottizzazione, quale strumento di regia della regolamentazione
armonica di dettaglio del territorio.
Peraltro, la completa urbanizzazione non sempre comporta la possibilità di
soprassedere al piano attuativo, ove il Comune, ovviamente adeguatamente
motivando un diniego, fornisca idonee giustificazioni circa le ulteriori
esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione.
Quindi, “il
principio secondo cui va esclusa la necessità di strumenti attuativi per il
rilascio di concessioni in zone già urbanizzate è applicabile solo nei casi
nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa
edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo
(si pensi al caso del lotto residuale ed intercluso in area compiutamente
urbanizzata), ma non anche
alle ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si
trovi di fronte ad una situazione che assai più di altre esige un piano attuativo idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora
addirittura definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della
zona”.
In conclusione, “l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto
per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla
più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate,
che richiedano una necessaria pianificazione della "maglia", e perciò anche
in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e
urbanizzata.
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IV. Ciò posto, la Sezione ha avuto modo di chiarire (cfr. TAR Catania, I,
29/05/2019, n. 1313) «che costituisce regola generale ed imperativa, in
materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g.
che impongano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio:
tali prescrizioni -di solito contenute nelle n.t.a.- sono vincolanti e
idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo (cfr. Cons. St., sez. IV,
30.12.2008, n. 6625)».
«Corollari immediati di tale principio fondamentale, come ricordato da
recente giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. IV, 07.11.2014, n. 5488;
TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 02.03.2017, n. 352), sono:
a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua
attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il
rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo
che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando
è concluso il relativo procedimento (cfr. Cons. St., sez. V, 01.04.1997,
n. 300);
b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il
rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano
attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla
situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 03.11.2008, n. 5471);
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di
opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; invero,
l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di
tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo
(cfr. Cons. St., sez. IV, 26.01.1998, n. 67; Cass. pen., sez. III, 26.01.1998, n. 302; Cons. St., sez. V, 15.01.1997, n. 39);
d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo, circostanza
questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano
essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile
edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile
approvazione, se ritardata, può essere stimolata dall'interessato con gli
strumenti consentiti dal sistema (cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008,
n. 6625);
e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone
parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di
compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di
dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto (cfr. Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n.
35880)».
«La giurisprudenza ha individuato, tuttavia, un’eccezione a tale stringente
necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del
territorio: il cd “lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo la detta impostazione, allorquando
l'area edificabile di proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie),
previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto purché si accerti
la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a
quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare
defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.01.2008, n. 268; sez. V,
03.03.2004, n. 1013; sez. IV, Sent., 10.06.2010,
n. 3699), essendo stato raggiunto lo scopo e i risultati perseguiti dai
piani esecutivi/attuativi».
Per altro, continua la detta decisione n. 1313/2019, «la giurisprudenza si è
spinta a puntualizzare il bisogno di un piano di lottizzazione, quale
presupposto per il rilascio della concessione edilizia, anche al fine
ricordato dal Comune ossia “allo scopo di potenziare le opere di
urbanizzazione già esistenti ... onde essa potrebbe essere rinvenuta
finanche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già
edificata e urbanizzata” (C.S., sez. V, n. 5450 del 2011 e giurisprudenza ivi
richiamata; C.S. sez. IV, n. 1906/2018).
Comunque, più in generale, con riferimento al grado di urbanizzazione, la
relativa valutazione, a fronte della ratio e della natura eccezionale della
regola sottesa al c.d. “lotto intercluso”, in assenza di strumento attuativo,
deve ritenersi rimessa all’esclusivo apprezzamento discrezionale del comune
(cfr. Cons. St., sez. IV, 01.08.2007, n. 4276; Cons. St. sez. IV, 10.06.2010, n. 3699), che, semmai, ove intenda rilasciare il titolo
edilizio, deve compiere una penetrante istruttoria per accertare che la
pianificazione esecutiva non conservi una qualche utile funzione, anche in
relazione a situazioni di degrado che possano recuperare margini di
efficienza abitativa, riordino e completamento razionale e non sia in grado
di esprimere scelte programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel
p.r.g. (cfr. Cons. St. sez. V, 27.10.2000, n. 5756; sez. V, 08.07.1997, n. 772, sez. IV, 10.06.2010, n. 3699)».
In altri termini, posto che non viene contestato, e quindi rimane
incontestabile, che il PRG preveda la possibilità di assenso soltanto
mediante un piano di lottizzazione, la perfetta urbanizzazione della zona,
ad avviso di parte ricorrente, renderebbe, per giurisprudenza costante,
inutile il ricorso a detta forma autorizzatoria per un intervento
edificatorio nel territorio, essendo sufficiente la semplice concessione
edilizia.
Come già ritenuto (cfr. TAR Catania, I, 11.01.2011, n. 8; 03.12.2010, n.
4610), <<l’art. 21, comma 3, della l.r. 27.12.1978, n. 71, così recita:
"A modifica di quanto prescritto nel punto II dell'art. 28 della legge
regionale 26.05.1973, n. 21, ferme restando le altre disposizioni agevolative contenute nella predetta norma, l'attuazione degli strumenti
urbanistici generali, relativamente alle zone territoriali "B", può
effettuarsi a mezzo di singole concessioni, quando esistano le opere di
urbanizzazione primaria (almeno rete idrica, viaria e fognante) e risultino
previste dallo strumento urbanistico generale quelle di urbanizzazione
secondaria.".
Lo strumento urbanistico attuativo, quindi, non è necessario sia
in caso di c.d. "lotto intercluso" sia in altri casi analoghi, per i
quali, essendo la zona d'intervento totalmente urbanizzata, il piano
esecutivo sarebbe ormai privo d'oggetto (cfr., ex multis, Consiglio Stato,
sez. V, 22.06.2004, n. 4350; TAR Lazio Roma, sez. II, 06.03.2007,
n. 2195).
«In altri termini, la completa urbanizzazione del sito rende inutile il
piano di lottizzazione, quale strumento di regia della regolamentazione
armonica di dettaglio del territorio».
Peraltro, la completa urbanizzazione non sempre comporta la possibilità di
soprassedere al piano attuativo, ove il Comune, ovviamente adeguatamente
motivando un diniego, fornisca idonee giustificazioni circa le ulteriori
esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione (cfr., TAR
Puglia Lecce, sez. III, 02.02.2005, n. 440 e giurisprudenza ivi
citata).
Quindi (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 07.11.2001, n. 5721), “il
principio secondo cui va esclusa la necessità di strumenti attuativi per il
rilascio di concessioni in zone già urbanizzate è applicabile solo nei casi
nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa
edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (si pensi al caso del lotto residuale ed intercluso in area
compiutamente urbanizzata: Sez. V, 26.09.1995, n. 1351), ma non anche
alle ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si
trovi di fronte ad una situazione che assai più di altre esige un piano attuativo idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora
addirittura definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della
zona”.
In conclusione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.10.2010, n. 7486),
“l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio
della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo
con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere
di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione
di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una
necessaria pianificazione della "maglia", e perciò anche in caso di lotto
intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata
(Consiglio Stato: sez. IV, 01.10.2007, n. 5043 e 15.05.2002, n.
2592; sez. V, 01.12.2003, n. 7799 e 06.10.2000, n. 5326)>>.
Ciò posto, il provvedimento impugnato contesta la possibilità di
soprassedere al piano di lottizzazione, ritenendolo necessario, come per
altro si evince anche in sede di accoglimento dell’osservazione al P.R.G.,
laddove le opere di completamento urbanistico secondario vengono delegate
alla fase attuativa del Piano regolatore.
Vi è di più.
Come premesso, l’area in questione non si identifica né come residuale, né
come, appunto, completamente urbanizzata (altrimenti, per altro, più
debitamente sarebbe stata classificata come “B”, circostanza, questa, come
chiarito, comunque non dirimente, sicché, a fortiori, non può dirsi lo sia
per la zona “C”), di guisa che non sussiste alcuno dei presupposti sopra
rappresentati per ritenere inutile una pianificazione d’insieme attuativa,
rimanendo sufficiente il semplice titolo edilizio diretto.
Né, conclusivamente, sussistono i presupposti per la configurazione di un
lotto intercluso, le cui specifiche caratteristiche non sono state
dimostrate, né, invero, sostenute (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 08.11.2021 n. 3326 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con riferimento alle caratteristiche di “lotto intercluso”, il
Collegio rileva che la pretermissione della pianificazione attuativa che sia
imposta da un P.R.G. (a mezzo, in particolare, di un Piano particolareggiato
o di una lottizzazione convenzionata) configura una fattispecie eccezionale
(che consegue appunto solo alla comprovata ricorrenza, nel lotto
interessato, dei caratteri propri del cd. “fondo intercluso”).
In sostanza, il soggetto interessato a procedere ad attività di costruzione
senza la previa predisposizione degli strumenti attuativi richiesti dalla
locale disciplina urbanistica, ha l’onere di dimostrare che il proprio
terreno è l’unico a non essere ancora stato edificato nell’ambito di una
zona dotata di tutte le opere di urbanizzazione nella misura individuata
dalla normativa di settore e dal locale P.R.G. come standard minimo.
Altrimenti detto, l’interessato ha l’onere di dimostrare sia che nel
comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a
quella che deriverebbe dall’attuazione della lottizzazione stessa, in
considerazione della presenza di opere di urbanizzazione primaria e
secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti, sia che il
proprio fondo sia l’unico a non essere stato ancora edificato.
---------------
Quanto al dedotto difetto di motivazione del provvedimento impugnato con
riferimento alle caratteristiche di “lotto intercluso” di cui
godrebbe il lotto della ricorrente, il Collegio rileva che la pretermissione
della pianificazione attuativa che sia imposta da un P.R.G. (a mezzo, in
particolare, di un Piano particolareggiato o di una lottizzazione
convenzionata) configura una fattispecie eccezionale (che consegue appunto
solo alla comprovata ricorrenza, nel lotto interessato, dei caratteri propri
del cd. “fondo intercluso”).
In sostanza, il soggetto interessato a procedere ad attività di costruzione
senza la previa predisposizione degli strumenti attuativi richiesti dalla
locale disciplina urbanistica, ha l’onere di dimostrare che il proprio
terreno è l’unico a non essere ancora stato edificato nell’ambito di una
zona dotata di tutte le opere di urbanizzazione nella misura individuata
dalla normativa di settore e dal locale P.R.G. come standard minimo.
Altrimenti detto, l’interessato ha l’onere di dimostrare sia che nel
comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a
quella che deriverebbe dall’attuazione della lottizzazione stessa, in
considerazione della presenza di opere di urbanizzazione primaria e
secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti, sia che il
proprio fondo sia l’unico a non essere stato ancora edificato (Cons. Stato
Sez. IV, 14/11/2018, n. 6417) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 29.10.2021 n. 2933 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Va riconosciuto che in termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare un
lotto come “intercluso” non è necessaria l'interclusione del terreno da
tutti i lati e l’assenza di un’uscita sulla strada pubblica, secondo la
nozione “civilistica” (interclusione “assoluta”), bensì l'esistenza di
un'area c.d. "relitto", autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente collegata e
integrata con già esistenti opere di urbanizzazione o con altri immobili
adiacenti.
La giurisprudenza, nell’individuare la condizione del lotto intercluso quale
ipotesi derogatoria alla necessaria presenza di strumenti urbanistici per la
disciplina del territorio, ne ha indicato i presupposti nel fatto che l'area
sia l'unica a non essere stata ancora edificata in una zona integralmente
interessata da costruzioni, che sia dotata di tutte le opere di
urbanizzazione (primarie e secondarie) previste dagli strumenti urbanistici
e che sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al piano
regolatore generale.
In tale ipotesi “lo strumento urbanistico deve
considerarsi superfluo posto che è stata ormai raggiunta la piena
edificazione e urbanizzazione della zona interessata, raggiungendo in tal
modo la scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo)”.
---------------
Ciò premesso, con il primo motivo di ricorso gli esponenti denunciano che
l’area di loro proprietà, in quanto interclusa e comunque inserita in un
contesto interamente residenziale, avrebbe le caratteristiche proprie
dell’ambito di completamento, corrispondendo esattamente alla definizione
prevista dalla normativa regionale, risultando -per contro- errata la
qualificazione recata dalla contro-deduzione comunale, ove si afferma che
l’area dovrebbe essere considerata come “Ambito di Trasformazione” e, come
tale, essere sottoposta a nuove valutazioni in sede di VAS.
Va riconosciuto che in termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare un
lotto come “intercluso” non è necessaria l'interclusione del terreno da
tutti i lati e l’assenza di un’uscita sulla strada pubblica, secondo la
nozione “civilistica” (interclusione “assoluta”), bensì l'esistenza di
un'area c.d. "relitto", autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente collegata e
integrata con già esistenti opere di urbanizzazione o con altri immobili
adiacenti (Cons. Stato, Sez. II, 03.12.2019, n. 8270).
La giurisprudenza, nell’individuare la condizione del lotto intercluso quale
ipotesi derogatoria alla necessaria presenza di strumenti urbanistici per la
disciplina del territorio, ne ha indicato i presupposti nel fatto che l'area
sia l'unica a non essere stata ancora edificata in una zona integralmente
interessata da costruzioni, che sia dotata di tutte le opere di
urbanizzazione (primarie e secondarie) previste dagli strumenti urbanistici
e che sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al piano
regolatore generale. In tale ipotesi “lo strumento urbanistico deve
considerarsi superfluo posto che è stata ormai raggiunta la piena
edificazione e urbanizzazione della zona interessata, raggiungendo in tal
modo la scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo)” (Cons. Stato, Sez. IV,
07.12.2014 n. 5488).
Dette caratteristiche non ricorrono nel caso di specie e, comunque, le
allegazioni dei ricorrenti sono inidonee a documentarne specificamente e
comprovarne la sussistenza, considerato tra l’altro che la qualificazione
del lotto quale “reliquato” rimasto inedificato, dagli stessi invocata,
confligge con il fatto che il terreno di cui è questione non solo confina a
sud con la strada comunale ma che anche la più ampia adiacente area a nord
risulta attualmente non edificata (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 30.03.2020, n. 255) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.06.2021 n. 563 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
verifica della condizione di perdurante insufficienza dell’urbanizzazione
primaria e secondaria, alla quale è funzionalmente collegata l’esigenza di
approvare gli strumenti attuativi, è stata affrontata dalla giurisprudenza
amministrativa che, già in epoca risalente, ha affermato, in via generale, che ai
fini del rilascio di una concessione edilizia uno stato di sufficiente
urbanizzazione della zona, che rende superflua la pianificazione di
dettaglio, deve ritenersi equivalente all’operatività di un piano attuativo
ancorché previsto dal piano regolatore generale.
Spetta tuttavia al Comune verificare l’effettiva concreta completa
urbanizzazione dell’area in cui si dovrebbe inserire l'intervento
costruttivo del privato e accertare quindi la compatibilità effettiva del
nuovo insediamento edilizio rispetto allo stato di urbanizzazione della
zona.
La valutazione della situazione di fatto e, quindi, la ritenuta sussistenza
o meno dello stato di sufficiente urbanizzazione, rientra dunque nella
potestà discrezionale tecnico amministrativa del Comune e, come tale, non è
sindacabile davanti al giudice amministrativo salvi i casi di abuso
macroscopico.
Il vincolo imposto dalla precitata disciplina urbanistica potrebbe
essere superato solo nell’ipotesi in cui il lotto oggetto di intervento
fosse del tutto “intercluso”, nel senso che è stato precisato dalla
giurisprudenza oramai pacifica, ossia in presenza dei seguenti presupposti:
a) sia l’unico, nel comparto di riferimento, a non essere ancora stato
edificato;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni e dotata di
tutte le opere di urbanizzazione, primaria e secondaria, previste dagli
strumenti urbanistici.
---------------
Ben può giustificarsi e risultare pienamente legittima la previsione della
necessità di un piano attuativo, anche con riferimento a zone del tessuto
urbano che risultino già edificate e dotate delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria.
Costituisce ius receptum che:
a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i
casi in cui il p.r.g. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il
rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello
strumento attuativo;
b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità
dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di
fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia
addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale
ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell’ipotesi
in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte
ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza
all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico
di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della
viabilità secondaria nella zona o integrando l’urbanizzazione esistente per
garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e
le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già
asservite all’edificazione);
c) l’esigenza di un piano particolareggiato, quale presupposto per il
rilascio del permesso di costruire, si impone anche al fine di un armonico
raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare
le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata
funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano
una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto
intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
Nel dettaglio, si è statuito che “Pure in presenza di una zona già
urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi
nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa
edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano
attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente
urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una
edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige
un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e
talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona,
ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o
integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli
standard minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico
collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione".
---------------
18. La verifica della condizione di perdurante insufficienza
dell’urbanizzazione primaria e secondaria, alla quale è funzionalmente
collegata l’esigenza di approvare gli strumenti attuativi, è stata
affrontata dalla giurisprudenza amministrativa che, già in epoca risalente (cfr.
Consiglio di Stato, Sezione V, 13.10.1988, n. 561; Consiglio di Stato,
Sezione V, 05.05.1990, n. 425), ha affermato, in via generale, che ai
fini del rilascio di una concessione edilizia uno stato di sufficiente
urbanizzazione della zona, che rende superflua la pianificazione di
dettaglio, deve ritenersi equivalente all’operatività di un piano attuativo
ancorché previsto dal piano regolatore generale.
19. Spetta tuttavia al Comune verificare l’effettiva concreta completa
urbanizzazione dell’area in cui si dovrebbe inserire l'intervento
costruttivo del privato e accertare quindi la compatibilità effettiva del
nuovo insediamento edilizio rispetto allo stato di urbanizzazione della zona
(cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 04.05.1995, n. 699).
20. La valutazione della situazione di fatto e, quindi, la ritenuta
sussistenza o meno dello stato di sufficiente urbanizzazione, rientra dunque
nella potestà discrezionale tecnico amministrativa del Comune e, come tale,
non è sindacabile davanti al giudice amministrativo salvi i casi di abuso
macroscopico (cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 11.06.2002, n. 3253).
21. Il vincolo imposto dalla precitata disciplina urbanistica potrebbe
essere superato solo nell’ipotesi in cui il lotto oggetto di intervento
fosse del tutto “intercluso”, nel senso che è stato precisato dalla
giurisprudenza oramai pacifica (per tutte: Consiglio di Stato, Sezione II,
n. 4224 del 20.062019), ossia in presenza dei seguenti presupposti:
a) sia l’unico, nel comparto di riferimento, a non essere ancora stato
edificato;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni e dotata di
tutte le opere di urbanizzazione, primaria e secondaria, previste dagli
strumenti urbanistici.
22. Orbene, nel caso di specie, l’assenza di queste condizioni è stata
chiaramente evidenziata nella parte motiva del provvedimento impugnato, ove
si legge testualmente:
“Si precisa che nell’ambito “I.5” sono presenti altri Lotti non edificati
oltre al Lotto oggetto d’intervento ed inoltre le opere di Urbanizzazione
sia primarie che secondarie estese all’intero ambito sono, allo stato
attuale, parzialmente realizzate”.
23. In particolare, come si legge nelle difese comunali, nell’ambito “I.5”
sono attualmente presenti, oltre a quello oggetto di intervento, altri 5
lotti totalmente inedificati (per una superficie complessiva di 20.111 mq
pari al 15% circa della superficie complessiva dell’ambito I.5 pari a
134.840 mq).
Inoltre, nell’ambito “I.5” le opere di urbanizzazione, sia primarie che
secondarie, sono attualmente realizzate solo parzialmente.
24. Sollecitato sul punto l’ufficio comunale ha precisato che “In merito
allo stato delle Opere di Urbanizzazione del Comparto in questione, si
specifica che non esiste un progetto unitario delle opere ma solo interventi
sporadici”.
25. Del resto la stessa ricorrente, in punto di opere di urbanizzazione
primaria, fa riferimento esclusivamente a quelle di cui è dotato il lotto di
intervento e non a quelle generali dell’ambito territoriale “I.5” nel quale
lo stesso è inserito (e in relazione al quale, come detto, dev’essere
valutata l’interclusione del lotto) e, quanto alle opere di urbanizzazione
secondaria, conferma che sono localizzate in altri comparti della sottozona
CF e non sono quindi comprese nel comparto in questione.
26. La ricognizione fattuale dell’area da parte dell’amministrazione, alla
quale come detto la giurisprudenza attribuisce in via esclusiva la
valutazione urbanistica, esclude quindi che possa ravvisarsi all’interno del
comparto I.5 quella trama edilizia e urbanistica continua e coerente che
esclude e rende superflua la prescrizione dello strumento di attuazione e,
conseguentemente, impedisce il rilascio della concessione edilizia diretta.
27. Non è infine superfluo riportare quanto recentemente riaffermato nella
materia in esame dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato,
Sezione IV, n. 1668 del 26.02.2021):
“Ben può giustificarsi e risultare pienamente legittima la previsione della
necessità di un piano attuativo, anche con riferimento a zone del tessuto
urbano che risultino già edificate e dotate delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria.
Costituisce ius receptum (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 14.04.2020, n. 2390; Cons. Stato, sez. IV, 25.02.2020, n. 1398; Cons. Stato,
sez. IV, 20.04.2018, n. 2397, che richiama Cons. Stato, sez. IV, 08.02.2018, n. 825; sez. IV, 13.04.2016, n. 1434; sez. IV,
04.07.2017, n. 3256; sez. IV, 17.07.2013, n. 3880; sez. IV, 21.08.2013, n.
4200; sez. V, 29.02.2012, n. 1177) che:
a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i
casi in cui il p.r.g. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il
rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello
strumento attuativo;
b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità
dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di
fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia
addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale
ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell’ipotesi
in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte
ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza
all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico
di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della
viabilità secondaria nella zona o integrando l’urbanizzazione esistente per
garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e
le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già
asservite all’edificazione);
c) l’esigenza di un piano particolareggiato, quale presupposto per il
rilascio del permesso di costruire, si impone anche al fine di un armonico
raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare
le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata
funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano
una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto
intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
Nel dettaglio, si è statuito che “Pure in presenza di una zona già
urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi
nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa
edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano
attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente
urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una
edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige
un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e
talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona,
ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o
integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli
standard minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico
collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione” (Cons.
Stato, Sez. IV, 26.10.2020, n. 6502)” (TAR
Sardegna, Sez. I,
sentenza 15.06.2021 n. 437 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 9, comma 2, del D.P.R. 06.06.2001, n.
380, “nelle aree nelle
quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti
dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione”
sono consentiti interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria,
restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione.
In base alla disciplina legislativa, non sono, dunque, consentiti interventi
di nuova costruzione, in mancanza di strumento urbanistico attuativo.
La giurisprudenza considera tale norma dell’art. 9,
comma 2, del Testo Unico edilizia come una norma generale ed imperativa in
materia di governo del territorio, che impone, ai fini degli interventi
diretti costruttivi, il rispetto delle previsioni del piano regolatore
generale richiedenti, per una determinata zona, la pianificazione di
dettaglio, con la conseguenza che in presenza di una normativa urbanistica
generale che preveda, per il rilascio del titolo edilizio in una determinata
zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare questa
prescrizione, mentre
sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il PRG consenta
il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione
dello strumento attuativo.
In base a tale giurisprudenza, la necessità dello strumento attuativo è
esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una
pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile
con un piano attuativo, quale il lotto residuale ed intercluso in area
completamente urbanizzata, ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di
una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che
esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando
e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della
zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella
zona o integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli
standard minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico
collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione.
Infatti, l’esigenza di un piano particolareggiato, quale presupposto per il
rilascio del permesso di costruire, si impone anche al fine di un armonico
raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare
le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata
funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano
una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto
intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
---------------
Dagli accertamenti istruttori effettuati nel corso del giudizio, risulta
quindi evidente che non si possa ritenere il lotto di proprietà degli
appellanti interamente intercluso, non essendo collocato in una area
interamente urbanizzata e completa di opere di urbanizzazione.
Come è noto, ai sensi dell’art. 9, comma 2, del D.P.R. 06.06.2001, n.
380, correttamente citato dal giudice di primo grado, “nelle aree nelle
quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti
dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione”
sono consentiti interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria,
restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione.
In base alla disciplina legislativa, non sono, dunque, consentiti interventi
di nuova costruzione, in mancanza di strumento urbanistico attuativo.
La giurisprudenza, anche della Sezione, considera tale norma dell’art. 9,
comma 2, del Testo Unico edilizia come una norma generale ed imperativa in
materia di governo del territorio, che impone, ai fini degli interventi
diretti costruttivi, il rispetto delle previsioni del piano regolatore
generale richiedenti, per una determinata zona, la pianificazione di
dettaglio, con la conseguenza che in presenza di una normativa urbanistica
generale che preveda, per il rilascio del titolo edilizio in una determinata
zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare questa
prescrizione (cfr. Cons. Stato, sez. II, 31.10.2019, n. 7463; id. Sez
II, 18.02.2020, n. 1241; Sez. IV, 26.10.2020, n. 6502), mentre
sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il PRG consenta
il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione
dello strumento attuativo (Cons. Stato Sez. IV, 14.04.2020, n. 2390).
In base a tale giurisprudenza, la necessità dello strumento attuativo è
esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una
pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile
con un piano attuativo, quale il lotto residuale ed intercluso in area
completamente urbanizzata, ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di
una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che
esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando
e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della
zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella
zona o integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli
standard minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico
collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 26.10.2020, n. 6502; id. Sez. IV, 14.04.2020,
n. 2390; id. Sez. IV 13.04.2016 n. 1434).
Infatti, l’esigenza di un piano particolareggiato, quale presupposto per il
rilascio del permesso di costruire, si impone anche al fine di un armonico
raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare
le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata
funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano
una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto
intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.04.2020, n. 2390; 20.04.2018, n.
2397) (Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 25.02.2021 n. 1634 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa ha individuato situazioni in presenza delle quali il
permesso di costruire può essere legittimamente rilasciato anche in assenza
del piano attuativo richiesto dallo strumento urbanistico sovraordinato, in
particolare quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata
ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che integralmente
interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria.
Qualora, cioè, nel comprensorio
interessato, sussista una situazione di fatto corrispondente a quella
derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo strumento
urbanistico generale, ovvero siano presenti opere di urbanizzazione primaria
e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti, sì da rendere
superflui gli strumenti attuativi (…) In questo senso, e con queste
precisazioni, il piano attuativo ammette equipollenti, per dir così, in via
di fatto.
---------------
Le censure di parte ricorrente possono essere esaminate congiuntamente.
Ai fini del corretto inquadramento normativo della fattispecie, giova
preliminarmente evidenziare che l’art. 28-bis del d.P.R. n. 380/2001,
ripetutamente evocato da parte ricorrente sia nel ricorso introduttivo sia
nella memoria di replica alla relazione ministeriale istruttoria, dispone,
tra l’altro, che “1. Qualora le esigenze di urbanizzazione possano essere
soddisfatte con una modalità semplificata, è possibile il rilascio di un
permesso di costruire convenzionato.
2. La convenzione, approvata con delibera del consiglio comunale, salva
diversa previsione regionale, specifica gli obblighi, funzionali al
soddisfacimento di un interesse pubblico, che il soggetto attuatore si
assume ai fini di poter conseguire il rilascio del titolo edilizio, il quale
resta la fonte di regolamento degli interessi.
3. Sono, in particolare, soggetti alla stipula di convenzione:
a) la cessione di aree anche al fine dell'utilizzo di diritti
edificatori;
b) la realizzazione di opere di urbanizzazione fermo restando
quanto previsto dall'articolo 32, comma 1, lett. g), del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163;
c) le caratteristiche morfologiche degli interventi;
d) la realizzazione di interventi di edilizia residenziale sociale
(…)”.
Occorre in primo luogo osservare che dalla piana lettura della norma
discende che il rilascio di un “permesso di costruire convenzionato”
costituisce una facoltà (stante la locuzione “è possibile”) –e non già un
obbligo– per l’ente interessato.
Purtuttavia, questo non toglie che, alla luce delle argomentazioni della
società richiedente, peraltro corredate da un’articolata relazione tecnica,
il Comune avrebbe avuto l’onere di effettuare, nel caso di specie, una
verifica preliminare sull’effettiva necessità o meno del piano urbanistico
attuativo, in relazione all’effettivo livello di urbanizzazione della zona
interessata dall’intervento proposto ed alla natura (di lotto intercluso)
dell’area in questione.
In ordine a tale profilo soccorre l’orientamento, peraltro richiamato
dall’odierna ricorrente, secondo cui “la giurisprudenza amministrativa, qui
condivisa (v., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 5471 del 2008 e sez. V,
n. 5251 del 2013), ha individuato situazioni in presenza delle quali il
permesso di costruire può essere legittimamente rilasciato anche in assenza
del piano attuativo richiesto dallo strumento urbanistico sovraordinato, in
particolare quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata
ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che integralmente
interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria; qualora, cioè, nel comprensorio
interessato, sussista una situazione di fatto corrispondente a quella
derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo strumento
urbanistico generale, ovvero siano presenti opere di urbanizzazione primaria
e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti, sì da rendere
superflui gli strumenti attuativi (…) In questo senso, e con queste
precisazioni, il piano attuativo ammette equipollenti, per dir così, in via
di fatto” (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3977/2016).
Ebbene, applicando alla fattispecie in esame tali principi, che il Collegio
condivide, deve rilevarsi che prima di considerare indispensabile la previa
adozione del PUA l’amministrazione avrebbe dovuto verificare in modo
puntuale e approfondito la natura del lotto interessato e lo stato reale di
urbanizzazione della intera zona, allo scopo di accertare la sussistenza
delle condizioni –di “piena” o comunque “adeguata” urbanizzazione– per
poter derogare alle previsioni contenute nella disciplina comunale di
settore.
Dagli atti di causa, invero, anche alla luce della perizia tecnica
depositata da parte ricorrente, detta verifica non sembra essere stata
effettuata dal Comune in modo adeguato e sufficientemente approfondito o
comunque non se ne rinviene traccia nella motivazione del provvedimento di
diniego adottato all’esito dell’istruttoria, che, pertanto, non può
considerarsi sorretto da un sostegno motivazionale e istruttorio adeguato.
Alla luce di quanto precede, la censura relativa al difetto di motivazione
del provvedimento avversato deve essere accolta, con salvezza, tuttavia, di
una eventuale rinnovazione dell’azione amministrativa che dovrà conformarsi
alle considerazioni svolte da questo Collegio.
Il ricorso deve essere, quindi, accolto entro i limiti così individuati,
fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione (Consiglio di
Stato, Sez. I,
parere 11.08.2020 n. 1397 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Costituisce ius receptum che:
a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta
interpretazione i casi in cui il P.R.G. (o lo strumento urbanistico
equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza
previa approvazione dello strumento attuativo;
b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la
necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la
situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione
della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il
lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non
anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si
trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a
restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un
disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il
sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione
esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e
servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone
contigue, già asservite all'edificazione);
c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per
il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla
più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate,
che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in
caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e
urbanizzata”.
Altresì, “la giurisprudenza amministrativa ha individuato situazioni in presenza delle quali il permesso di
costruire può essere legittimamente rilasciato anche in assenza del piano attuativo richiesto dallo strumento urbanistico sovraordinato, in
particolare quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata
ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che integralmente
interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria; qualora, cioè, nel comprensorio
interessato, sussista una situazione di fatto corrispondente a quella
derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo strumento
urbanistico generale, ovvero siano presenti opere di urbanizzazione primaria
e secondaria pari agli standards urbanistici minimi prescritti, sì da
rendere superflui gli strumenti attuativi”.
Sicché, il piano attuativo non serve solo per garantire un equilibrato sviluppo
urbanistico del territorio, ma anche per garantire un armonico raccordo con
il preesistente aggregato abitativo, attraverso, ad esempio, il
potenziamento delle opere di urbanizzazione già esistenti.
Per valutare
l’adozione di siffatti piani occorre valutare e verificare lo stato di
edificazione della zona interessata dall’intervento, nonché il grado di
urbanizzazione primaria e secondaria, in relazione all’adeguatezza ed alla
fruibilità delle opere esistenti, anche a fronte della consistenza
dell’intervento stesso e dell’incremento del carico urbanistico da questo
discendente.
---------------
Tale conclusione non è condivisibile.
“Costituisce ius receptum (cfr., ex plurimis e da ultimo, Cons. Stato, sez.
IV, 04.07.2017, n. 3256; sez. IV, 17.07.2013, n. 3880; sez. IV, 21.08.2013, n. 4200; sez. V, 29.02.2012, n. 1177) che:
a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta
interpretazione i casi in cui il P.R.G. (o lo strumento urbanistico
equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza
previa approvazione dello strumento attuativo;
b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la
necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la
situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione
della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il
lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non
anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si
trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a
restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un
disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il
sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione
esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e
servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone
contigue, già asservite all'edificazione);
c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per
il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla
più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate,
che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in
caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e
urbanizzata” ( Cons. Stato, sez. IV, 6737/2019).
Precisa inoltre il Consiglio di Stato “la giurisprudenza amministrativa, […]
(v., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 5471 del 2008 e sez. V, n. 5251 del
2013), ha individuato situazioni in presenza delle quali il permesso di
costruire può essere legittimamente rilasciato anche in assenza del piano
attuativo richiesto dallo strumento urbanistico sovraordinato, in
particolare quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata
ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che integralmente
interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria; qualora, cioè, nel comprensorio
interessato, sussista una situazione di fatto corrispondente a quella
derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo strumento
urbanistico generale, ovvero siano presenti opere di urbanizzazione primaria
e secondaria pari agli standards urbanistici minimi prescritti, sì da
rendere superflui gli strumenti attuativi” (Cons. Stato, sez. VI,
3997/2016).
Il piano attuativo non serve solo per garantire un equilibrato sviluppo
urbanistico del territorio, ma anche per garantire un armonico raccordo con
il preesistente aggregato abitativo, attraverso, ad esempio, il
potenziamento delle opere di urbanizzazione già esistenti.
Per valutare
l’adozione di siffatti piani occorre valutare e verificare lo stato di
edificazione della zona interessata dall’intervento, nonché il grado di
urbanizzazione primaria e secondaria, in relazione all’adeguatezza ed alla
fruibilità delle opere esistenti, anche a fronte della consistenza
dell’intervento stesso e dell’incremento del carico urbanistico da questo
discendente (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 14.07.2020 n. 1324 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
presenza di una zona già urbanizzata, va esclusa la necessità dello
strumento attuativo solo nei casi nei casi nei quali la situazione di fatto,
in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia
addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale
ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi
in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad
una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza
all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico
di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della
viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per
garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e
le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già
asservite all'edificazione).
Ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto
per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla
più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate,
che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in
caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e
urbanizzata.
---------------
7. Il primo giudice ha fatto corretta applicazione dei principi risultanti
dalla giurisprudenza consolidata di questo Consiglio, nell’accertamento
dell’esistenza o meno delle condizioni che consentono l’intervento diretto
in mancanza di strumenti attuativi, nella specie in assenza del Piano
Particolareggiato nella sottozona dove è collocato il lotto di interesse.
Infatti, secondo tali principi (ex plurimis e da ultimo, Cons. Stato,
sez. IV nn. 2397 e 825 del 2018), in presenza di una zona già urbanizzata,
va esclusa la necessità dello strumento attuativo solo nei casi nei casi nei
quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa
edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano
attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente
urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una
edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige
un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e
talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona
(ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o
integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli
standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico
collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione).
Ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto
per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla
più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate,
che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in
caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e
urbanizzata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 4200 del 2013, ove numerosi
riferimenti ulteriori, cui adde sez. V, n. 1177 del 2012) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 02.04.2020 n. 2228 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Un
titolo edilizio può essere rilasciato, anche in assenza del piano attuativo
richiesto dalle norme di piano regolatore, solo se è stato accertato che il
lotto del richiedente
è l'unico a non essere stato ancora edificato e si trova in una zona che,
oltre ad
essere integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere
di urbanizzazione
primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti.
E, comunque, anche in presenza di una zona già urbanizzata, la necessità
dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di
fatto, in presenza
di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura
incompatibile
con un piano attuativo, ma non anche nell'ipotesi in cui, per effetto di una
edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige
un intervento
idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo
ex
novo un disegno urbanistico della zona, ad esempio, completando il sistema
della
viabilità secondaria o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire
il rispetto
degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per
l'armonico
collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione.
Ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto
per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un
armonico raccordo con il preesistente
aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già
esistenti
e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già
compromesse
ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e
perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona
già edificata e urbanizzata.
---------------
11. Come, infatti, la più recente giurisprudenza amministrativa ha chiarito,
un
titolo edilizio può essere rilasciato, anche in assenza del piano attuativo
richiesto dalle norme di piano regolatore, solo se è stato accertato che il
lotto del richiedente
è l'unico a non essere stato ancora edificato e si trova in una zona che,
oltre ad
essere integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere
di urbanizzazione
primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti.
E, comunque, anche in presenza di una zona già urbanizzata, la necessità
dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di
fatto, in presenza
di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura
incompatibile
con un piano attuativo, ma non anche nell'ipotesi in cui, per effetto di una
edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige
un intervento
idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo
ex
novo un disegno urbanistico della zona, ad esempio, completando il sistema
della
viabilità secondaria o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire
il rispetto
degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per
l'armonico
collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione.
Ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto
per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un
armonico raccordo con il preesistente
aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già
esistenti
e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già
compromesse
ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e
perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona
già edificata
e urbanizzata (TAR Lecce, (Puglia) sez. I, 02/10/2018, n. 1394; conformi,
Cons. St., sez. IV, 27.03.2018, n. 1906; Cons. St., 13.04.2016, n. 1434) (Corte
di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.11.2019 n.
47280). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi del combinato disposto degli artt. 9 e 3 d.P.R. n. 380/2001 in assenza
di strumenti urbanistici attuativi sono consentite attività di manutenzione
ordinaria, attività di manutenzione straordinaria, attività di restauro
conservativo ed in forza del secondo comma dell’art. 9 attività di ristrutturazione edilizia. In assenza di
strumenti urbanistici attuativi non sono consentiti interventi di nuova
costruzione.
Alla luce della giurisprudenza di questo Consiglio, formatasi sull’art.
9 d.P.R. n. 380/2001:
- il piano attuativo prescritto dallo strumento generale è
indefettibile (e ciò era già desumibile dalla legge urbanistica n. 1150 del
1942);
- il piano attuativo è strumento indispensabile per l’affermazione
dell’ordinato assetto del territorio;
- è irrilevante ogni indagine di fatto sulla sussistenza o meno
‘nei pressi’ o ‘nella zona’ delle opere di urbanizzazione, anche se, in precedenza, l’amministrazione abbia
violato le previsioni dello strumento generale, rilasciando permessi di
costruire in assenza del prescritto piano attuativo, tranne il caso del
“piccolo” lotto intercluso, da intendere quale area di limitata estensione,
circondata da edifici all’interno di un tessuto completamente edificato.
---------------
2. Con nota prot. n. 12902 dell’11.04.2008 il Dirigente dell‘Ufficio
Tecnico del Comune di Pompei, comunicava il rigetto dell‘istanza di permesso
di costruire presentata dal sig. Gi.An. sulla base delle
seguenti considerazioni:
a) il lotto è classificato nel vigente p.r.g. “zona di
ristrutturazione Bl”, e ai sensi dell’art. 15 del regolamento edilizio,
approvato con D.P.G.R. n. 4160 del 29.01.1976, è soggetto a intervento
urbanistico preventivo;
b) il piano attuativo non è mai stato approvato;
c) l’art. 9, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e ss.mm. e ii.
vieta nuove edificazioni nelle zone per le qual era previsto ma non è stato
emanato un piano attuativo.
3. Lamenta il ricorrente violazione e falsa applicazione dell’art. 9 d.P.R.
n. 380/2001, violazione e falsa applicazione del P.R.G. di Pompei,
violazione e falsa applicazione degli artt. 5, 9, 13,15 delle N.T.A.,
violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. 241/1990; eccesso di potere
per carenza di istruttoria, eccesso di potere per difetto di motivazione.
4. Sostiene il ricorrente che il Comune avrebbe dovuto rilasciare il
permesso di costruire nonostante l’assenza di un piano attuativo del piano
regolatore generale.
Ai sensi del combinato disposto dell’articolo 9 e dell’art. 3 d.P.R. n.
380/2001 in assenza di strumenti urbanistici attuativi sono consentite
attività di manutenzione ordinaria, attività di manutenzione straordinaria,
attività di restauro conservativo ed in forza del secondo comma
dell’articolo 9 attività di ristrutturazione edilizia. In assenza di
strumenti urbanistici attuativi non sono consentiti interventi di nuova
costruzione.
Alla luce della giurisprudenza di questo Consiglio, formatasi sull’articolo
9 d.P.R. n. 380/2001:
- il piano attuativo prescritto dallo strumento generale è
indefettibile (e ciò era già desumibile dalla legge urbanistica n. 1150 del
1942: decisioni sez. V, 23.03.2000, n. 1594; sez. V, 08.07.1997, n.
772; sez. V, 16.06.1997, n. 640; sez. V, 30.04.1997, n. 412; sez. V,
22.03.1995, n. 451);
- il piano attuativo è strumento indispensabile per l’affermazione
dell’ordinato assetto del territorio (sez. IV, 10.05.2012, n. 2707; sez. IV,
05.03.2008, n. 940; sez. V, 03.03.2004, n. 1013; sez. IV, 25.08.2003, n. 4812);
- è irrilevante ogni indagine di fatto sulla sussistenza o meno
‘nei pressi’ o ‘nella zona’ delle opere di urbanizzazione (sez. IV, 21.12.2009, n. 8531), anche se, in precedenza, l’amministrazione abbia
violato le previsioni dello strumento generale, rilasciando permessi di
costruire in assenza del prescritto piano attuativo, tranne il caso del
“piccolo” lotto intercluso (sez. IV, nn. 6625 e 2674 del 2008; sez. IV,
05.03.2008, n. 940), da intendere quale area di limitata estensione,
circondata da edifici all’interno di un tessuto completamente edificato (Cons.
Stato, sez. IV, 2026/2019).
Alla luce della giurisprudenza appena richiamata deve ritenersi infondata la
censura di violazione e falsa applicazione dell’articolo 9 d.P.R. n.
380/2001.
In assenza di piano attuativo l’amministrazione non ha l’obbligo
di fondare la propria valutazione circa l’ammissibilità della istanza di
permesso di costruzione sulla circostanza che l’area sia già stata edificata
e che una parte delle opere di urbanizzazione siano state realizzate: né
certamente è fondante la circostanza che in casi analoghi l’amministrazione
abbia rilasciato permessi di costruire illegittimi, perché il giudice non
può estendere illegittimità commesse (Consiglio di Stato, Sez.
I,
parere 14.06.2019 n. 1718 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'esigenza
di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della
concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il
preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di
urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di
armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una
necessaria pianificazione della «maglia», e perciò anche in caso di lotto
intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
---------------
Anche il secondo motivo di ricorso va disatteso.
La Sezione ricorda la
giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia secondo cui “l'esigenza di
un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della
concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il
preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di
urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di
armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una
necessaria pianificazione della «maglia», e perciò anche in caso di lotto
intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata (C.
di S., IV, 01.10.2007, n. 5043 e 15.05.2002 , n. 2592; V, 01.12.2003, n. 7799 e
06.10.2000, n. 5326)” (Consiglio di Stato, Sez. V,
1177/2012) (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 12.01.2018 n. 142 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La fattispecie
del cd. "lotto intercluso" si realizza allorquando l'area edificabile di proprietà
del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e
secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al
piano regolatore generale.
---------------
La Sezione considera preliminarmente che il Consiglio di Stato è più volto
intervenuto sulla tematica del c.d. “lotto intercluso” e sui riflessi di
tale situazione sulla disciplina urbanistica (tra le più recenti, Cons. St.,
Sez. IV, 07.11.2014, n. 5488).
Tale fattispecie si realizza allorquando l'area edificabile di proprietà
del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e
secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al
piano regolatore generale.
Nel caso in esame, è palese dalla documentazione fotografica e grafica che
la proprietà del ricorrente non risponde agli stringenti requisiti
individuati dalla giurisprudenza affinché l’area possa ritenersi lotto
intercluso, in quanto, pur essendo ubicata in un contesto urbanizzato ed
edificato, confina a nord-est con un lotto non edificato, come correttamente
osservato dal Comune.
Mancando il presupposto del “lotto intercluso”, che avrebbe potuto
consentire di derogare alle prescrizioni del piano regolatore generale, il
quale prevede per il rilascio del titolo edilizio nella zona in questione
l’esistenza di un piano attuativo, non è consentito neppure superare tale
prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione
della zona stessa (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471) (Consiglio
di Stato, Sez. I,
parere 13.06.2017 n. 1398 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Palazzo
Spada scioglie i dubbi sul concetto di 'lotto intercluso'. Non si può
qualificare come 'lotto intercluso' il lotto che confina con un’altra
area più vasta anch’essa inedificata.
Il lotto che confina con un’altra area più vasta
anch’essa inedificata non si può qualificare, dal punto di vista
urbanistico, come 'lotto intercluso'.
Lo ha ribadito il Consiglio di Stato (IV Sez.) con la
sentenza 20.07.2016 n. 3293.
La nozione di lotto intercluso in tema di pianificazione urbanistica “ha
una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore
pianificazione (Cons. Stato Sez. IV 17/07/2013 n. 3880; idem 21712/2012 n.
6656), stante la presenza di sufficienti opere di urbanizzazione primaria e
secondaria”.
Anche se la zona è parzialmente urbanizzata, non si può prescindere “dalla
previa approvazione di uno strumento attuativo proprio perché l’ulteriore
edificazione espone la zona in cui è inserita l’area de qua al rischio di
compromissione definitiva dei valori urbanistici, mentre la pianificazione
attuativa può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il
disordine edificativo in atto nonché di assicurare un armonico raccordo con
il preesistente aggregato abitativo”.
---------------
7. Passando agli aspetti sostanziali della controversia, appare utile qui
richiamare in maniera riassuntiva le ragioni poste a fondamento del diniego
di cui al provvedimento dirigenziale n. 211586 del 23/09/2013, così
identificabili:
a) - contrasto del progettato intervento con le previsioni di cui
all’art. 39 delle NTA del PRG che impongono nella zona in cui insiste l’area
de qua la preventiva presentazione e approvazione di piani particolareggiati
o di lottizzazioni;
b) - mancanza in capo al lotto in questione delle caratteristiche
della interclusione ( che potrebbe eventualmente consentire l’intervento
diretto);
c) - assenza della dotazione per la maglia urbanistica in questione
di adeguati standard di urbanizzazione ex D.M. n. 1444/1968 imposte
anch’esse dall’art. 39 delle NTA citato, condizione quest’ultima
riconducibile alla predetta norma per connessione logica.
Il sig. Ca., allo scopo di demolire le circostanze ostative opposte
dall’Amministrazione comunale sia in primo grado che in questa sede deduce,
con due motivi formulati in termini pressoché eguali, tre argomentazioni che
infra si va ad indicare.
Con il primo mezzo d’impugnazione l’interessato fa valere la questione c.d.
dei “tessuti edificati”: sostiene, in particolare, che l’area di sua
proprietà è inclusa in tale tipologia urbanistica e per ciò stesso
usufruirebbe della possibilità di intervento diretto senza l’intermediazione
di un piano esecutivo, ai sensi delle disposizioni recate dall’art. 6 della
l.r. n. 6/1985.
Così non è.
Invero, la normativa di favore invocata (erroneamente) dal ricorrente
comporta unicamente l’esclusione dall’obbligo per tali aree di essere
incluse in un piano pluriennale di attuazione, laddove la presenza di opere
di urbanizzazione esonera appunto l’area così caratterizzata
dall’inserimento in detto strumento di attuazione delle previsioni della
pianificazione urbanistica generale.
Ora in base alla normativa regionale nel frattempo intervenuta è venuto meno
l’obbligo di formazione del p.p.a , tenuto conto che per il Comune di Bari
il piano pluriennale di attuazione è decaduto dal 2005, sicché al momento
della richiesta di rilascio di permesso di costruire per l’area de qua
(dicembre 2012) il suindicato regime normativo di esonero non era più
operativo, dovendosi applicare a questo punto le regole stabilite dalla
giurisprudenza in tema di deroga dall’obbligo di approvazione (interclusione
del lotto e/o presenza di adeguata dotazione di standard ex d.m. n.
1444/1968).
Ed è proprio sulla base della circostanza relativa all’assenza delle
suindicate condizioni (ovvero l’interclusione del lotto e la sufficiente
presenza in loco di opere di urbanizzazione primaria e secondaria) che viene
rilevata (correttamente) dal Comune a mezzo dell’assunto provvedimento di
diniego l’impossibilità di assentire in via diretta il progettato intervento
edilizio.
Al riguardo il ricorrente con il secondo motivo di gravame, variamente
articolato, contesta la fondatezza dei rilievi operati dall’Amministrazione,
ma i profili di doglianza non valgono ad inficiare la sussistenza e validità
delle suindicate condizioni ostative.
Invero, il lotto in questione non reca, dal punto di vista urbanistico, le
caratteristiche del lotto intercluso per la semplice ragione che è
confinante con un’altra area più vasta anch’essa inedificata per cui non può
dirsi che il terreno edificabile del sig. Ca. sia l’unico a non essere stato
ancora edificato e se così è non può qualificarsi come “lotto intercluso”
(Cons. Stato Sez. IV 07/11/2014 n. 5488).
Peraltro la nozione di lotto intercluso in tema di pianificazione
urbanistica ha una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per
un’ulteriore pianificazione (Cons. Stato Sez. IV 17/07/2013 n. 3880; idem
21712/2012 n. 6656), stante la presenza di sufficienti opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, ma non è questo il caso che ci occupa,
posto che in loco non è possibile ravvisare la sussistenza di un’adeguata
dotazione degli standard urbanistici prescritti dal d.m. n. 1444/1968.
Invero, anche a voler ammettere, come in sostanza rivendica il ricorrente,
che la zona sia parzialmente urbanizzata, questo non equivale a consentire
di prescindere dalla previa approvazione di uno strumento attuativo proprio
perché l’ulteriore edificazione espone la zona in cui è inserita l’area
de qua al rischio di compromissione definitiva dei valori urbanistici,
mentre la pianificazione attuativa può ancora conseguire l’effetto di
correggere e compensare il disordine edificativo in atto nonché di
assicurare un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.07.2016 n. 3293 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza amministrativa ha accolto una nozione di interclusione più
ampia di quella civilistica (c.d. fondo intercluso), ritenendo che ove una
norma di P.R.G. prenda in considerazione il lotto intercluso per
disciplinarne l’edificabilità, questo non può intendersi quello compreso tra
altri edifici e senza affaccio sulla pubblica via, essendo un’area così
situata non utilizzabile a fini edilizi.
Intercluso è invece il lotto, pure affacciante sulla pubblica via, compreso
tra edifici che sorgono su almeno due lati.
---------------
Con riguardo al primo motivo di gravame si osserva, preliminarmente,
che nella relazione tecnica allegata al progetto si dichiara che
l’ampliamento che si vuole realizzare ricade all’interno di un esiguo lotto
con superficie complessiva inferiore ai mq. 200,00 e sarebbe, quindi, da
considerarsi “lotto intercluso” con superficie inferiore ai 200 mq. e
con una volumetria massima realizzabile di mc. 1.000 in conformità al
disposto dell’art. 28 della l.r. n. 21/1973.
La censura non è meritevole di accoglimento.
Infatti, una delle ragioni del diniego di concessione consiste nella
circostanza rilevata nel provvedimento impugnato che il lotto indicato per
la progettazione, ricadente in zona “B1.3” dello strumento
urbanistico è contiguo ad altra area libera avente la medesima destinazione
urbanistica “…e quindi complessivamente il lotto edificabile risulta
superiore al minimo previsto dall’art. 28 l.r. n. 21/1973 (200 mq.) …”.
Si osserva in proposito che la giurisprudenza amministrativa ha accolto una
nozione di interclusione più ampia di quella civilistica (c.d. fondo
intercluso), ritenendo che ove una norma di P.R.G. prenda in considerazione
il lotto intercluso per disciplinarne l’edificabilità, questo non può
intendersi quello compreso tra altri edifici e senza affaccio sulla pubblica
via, essendo un’area così situata non utilizzabile a fini edilizi.
“Intercluso è invece il lotto, pure affacciante sulla pubblica via,
compreso tra edifici che sorgono su almeno due lati” (cfr. Cons. St.,
sez. V, 21.10.1985 n. 339; TAR Catania, sez. I, 04.01.2008, n. 56) (CGARS,
parere 09.05.2016 n. 557 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica –
Nuovi insediamenti e strumenti attuativi – Urbanizzazione
primaria – Necessità – DPR n. 380/2001 – L. n. 1150/1942.
L’approvazione di interventi destinati a
creare nuovi insediamenti in una zona per la quale P.R.G.,
subordina l’attività edificatoria all’adozione di Piani
Particolareggiati ovvero di Piani di Lottizzazione
Convenzionati, in assenza dei prescritti strumenti
attuativi, rende necessaria, ai fini della legittimità
dell’intervento, la prova rigorosa della preesistenza e
sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, tali da
rendere del tutto superfluo lo strumento attuativo
(Cass. Sez. 3 n. 35880 del 25.06.2008).
...
Lotto intercluso – Esonero dal piano di lottizzazione –
Presupposti e limiti – Approvazione del piano di
lottizzazione – Rientra tra i poteri discrezionale
dell’autorità.
L’esonero dal piano di lottizzazione
previsto in un piano regolatore generale può avvenire
riguardo ai casi assimilabili a quello del “lotto
intercluso”, nel quale nessuno spazio si rinviene per
un’ulteriore pianificazione, mentre detto esonero è precluso
in caso di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al
rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali
la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di
correggere e compensare il disordine edificativo in atto
(Cons. Stato, Sez. 5, 01/12/2003, n. 7799, Soc. P. C. Comune
di Roma; conf. sez. 6, 03.11.2003 n. 6833, Min. Beni
Culturali c. Maniviro s.r.l.).
Peraltro, la approvazione del piano di
lottizzazione, a differenza del permesso di costruire, non è
atto dovuto, pur se conforme al piano regolatore generale,
ma costituisce sempre espressione di potere discrezionale
dell’autorità chiamata a valutare l’opportunità di dare
attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico
generale (cfr.
Cons. Stato, Sez. 4, 02/03/2004, n. 957; Cons. Stato, Sez.
4, 02/03/2001, n. 1181) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.02.2013 n. 5870 - link a www.ambientediritto.it). |
aggiornamento all'08.11.2022 |
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Ancòra sul tema di quando,
anni addietro, scattava l'obbligo di munirsi della "licenza
edilizia" e sul correlato significato di "centro abitato": |
EDILIZIA PRIVATA: Pur avendo,
il ricorrente, fornito un principio di prova circa
la realizzazione dell’immobile anteriormente al 1967 e, dunque, prima che l.
n. 765/1967 (c.d. “legge ponte”) introducesse un obbligo
generalizzato di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la
realizzazione di opere in qualsiasi parte del territorio comunale- lo stesso non
ha, invece, in alcun modo dimostrato che esso si trovasse al di fuori del
centro abitato, atteso che, nei centri abitati, prima di allora
l’art. 31 della legge urbanistica n. 1150/1942 già prevedeva tale obbligo,
disponendo che “chiunque intenda eseguire nuove costruzioni ovvero
ampliare quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri abitati e
dove esiste il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione
di cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza edilizia”.
---------------
La giurisprudenza amministrativa è da sempre consolidata nel
ritenere che l’onere di fornire la prova rigorosa della collocazione dei
manufatti -tanto nello spazio, quanto nel tempo- incomba sull’interessato,
l’unico in grado di fornire atti e documenti che offrano al riguardo una
ragionevole certezza dell’epoca e delle condizioni di realizzazione di un
manufatto, e non già sull’amministrazione, che, in presenza di un’opera
edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha, invece,
il dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ne ricorrano i
presupposti, il provvedimento di demolizione.
---------------
Sia il ricorso introduttivo che il successivo ricorso per motivi aggiunti
sono infondati, attesa la legittimità, sotto i profili contestati, degli
impugnati provvedimenti di demolizione e conseguente acquisizione al
patrimonio comunale.
Non sono, infatti, meritevoli di accoglimento le censure con cui si tenta di
dimostrare la piena legittimità delle opere sanzionate, non valendo quanto
affermato e prodotto in giudizio a smentire il carattere abusivo del
manufatto per cui è causa, effettivamente eseguito (come riconosciuto dallo
stesso ricorrente) in assenza di un titolo edilizio.
Rileva, infatti, come egli -pur avendo fornito un principio di prova circa
la realizzazione dell’immobile anteriormente al 1967 e, dunque, prima che l.
n. 765/1967 (c.d. “legge ponte”) introducesse un obbligo
generalizzato di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la
realizzazione di opere in qualsiasi parte del territorio comunale- non
abbia, invece, in alcun modo dimostrato che esso si trovasse al di fuori del
centro abitato di Scafati, atteso che, nei centri abitati, prima di allora
l’art. 31 della legge urbanistica n. 1150/1942 già prevedeva tale obbligo,
disponendo che “chiunque intenda eseguire nuove costruzioni ovvero
ampliare quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri abitati e
dove esiste il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione
di cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza edilizia”.
Parte ricorrente si limita, infatti, a tal proposito a riferire “che il
manufatto in questione è posto assolutamente al di fuori del centro abitato:
ancor oggi, tra l’altro, la località ove è ubicato l’immobile di proprietà
del ricorrente è rappresentata all’esterno del centro abitato”, senza
depositare alcun documentazione atta a dimostrare, almeno nell’attualità,
tale circostanza.
La giurisprudenza amministrativa è, infatti, da sempre consolidata nel
ritenere che l’onere di fornire la prova rigorosa della collocazione dei
manufatti -tanto nello spazio, quanto nel tempo- incomba sull’interessato,
l’unico in grado di fornire atti e documenti che offrano al riguardo una
ragionevole certezza dell’epoca e delle condizioni di realizzazione di un
manufatto, e non già (come vorrebbe parte ricorrente) sull’amministrazione,
che, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo edilizio
che la legittimi, ha, invece, il dovere di sanzionarla ai sensi di legge e
di adottare, ove ne ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione
(in tal senso, TAR Napoli, Campania, sezione VIII, n. 4122/2017) (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 14.10.2022 n. 2668 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
ribadito l’orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato secondo
cui grava sul proprietario, e non sulla P.A.,
l’onere di dimostrare l’epoca di realizzazione dell’opera edilizia abusiva:
“In tema di costruzione abusive, l'onere della prova circa la data di
realizzazione dell'opera edilizia abusiva grava sul privato; la p.a., non
deve dare indicazioni in ordine all'epoca di realizzazione dell'illecito,
non rientrando tale verifica tra i contenuti dell'ordinanza di demolizione”
---------------
Va ribadita la legittimità e l’applicabilità delle disposizioni
regolamentari comunali prescrittive del rilascio del titolo abilitativo alle
costruzioni al di fuori del perimetro urbano e, quindi, derogatorie rispetto
al regime liberalizzato sancito dall’art. 31, comma 1, della l. n.
1150/1942, atteso che,
- come è già stato condivisibilmente osservato “queste ben possono
assoggettare ad autorizzazione sindacale una serie di opere edili o di
attività costruttive, che presentino la comune caratteristica di provocare
mutamenti ambientali –tali da concretarsi in veri e propri interventi
edificatori, o in innovazioni funzionali, o in migliorie meramente
estetiche–, con ciò introducendo un controllo oggettivo più forte di quello
stabilito da norme primarie in materia edilizia, all'evidente fine di
sottoporre l'assetto del territorio comunale ad una più penetrante e
rigorosa tutela”;
- così come, nello stesso senso, milita pure il tenore letterale
dell’art. 31, comma 5, della l. n. 47/1985, che ammette al regime di
sanatoria le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era
richiesto il rilascio della licenza di costruzione non solo «ai sensi
dell’art. 31, primo comma, della l. 17.08.1942, n. 1150», ma anche ai sensi
«dei regolamenti edilizi comunali».
---------------
L’adozione dell’ordinanza di demolizione non presuppone l’accertamento della
responsabilità nella commissione dell’illecito, ma l’esistenza di una
situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione
urbanistico-edilizia.
L’ordine di demolizione inoltre è un atto vincolato, ancorato esclusivamente
alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione
circa la sussistenza del concreto interesse pubblico alla rimozione neppure
quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione, non
potendo configurarsi alcun legittimo affidamento in relazione a situazioni
contra legem, essendo stata la relativa ponderazione tra l’interesse
pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
---------------
8. Va in primo luogo ribadito l’orientamento giurisprudenziale assolutamente
consolidato che stabilisce che grava sul proprietario, e non sulla P.A.,
l’onere di dimostrare l’epoca di realizzazione dell’opera edilizia abusiva:
“In tema di costruzione abusive, l'onere della prova circa la data di
realizzazione dell'opera edilizia abusiva grava sul privato; la p.a., non
deve dare indicazioni in ordine all'epoca di realizzazione dell'illecito,
non rientrando tale verifica tra i contenuti dell'ordinanza di demolizione”
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 16/02/2022, n. 1152).
Nel caso in esame, la ricorrente non ha provato, contrariamente a quanto
genericamente asserito nel ricorso, la data di realizzazione delle opere
contestate.
9. Piuttosto, la prospettazione della parte, secondo cui tutte le opere
contestate risulterebbero esistenti dagli inizi degli anni sessanta o
quantomeno dal 1994, allorché fu svolta la perizia del C.T.U. del Tribunale
di Nocera Inferiore (cfr. all. 2 ricorso), risulta smentita per tabulas,
dal momento che le tavole aerofotogrammetriche relative al volo del 2003,
allegate al verbale di accertamento tecnico prot. n. 176974 del 25/11/2015
dimostrano l’assenza, a tale data, della superfetazione in lamiera
metallica, indicata al punto 2, e della tettoia a struttura metallica,
indicata al punto 3 dell’ordinanza impugnata.
A conferma di ciò, dalla stessa perizia del 1994, risulta che sull’immobile
in questione, «interamente compreso in area di rispetto ferroviario, non
edificabile» (cfr. p. 7 perizia), erano all’epoca presenti solo una
baracca in blocchi di cemento con copertura in lamiera ondulata e luci di
accesso chiuse da due saracinesche in ferro, di dimensioni circa m 6,5 x 5,
altezza m. 3, e un piccolo locale w.c. in blocchi di cemento, opere che,
oltre a essere evidentemente differenti rispetto alle strutture rilevate nel
2015 dai tecnici della P.A., comprovano piuttosto l’inesistenza all’epoca
delle opere abusive indicate al secondo, terzo e quarto punto dell’impugnata
ordinanza n. 16/2016.
Ne è risultato, come accertato nel verbale 176974/2015, un complessivo
intervento abusivo realizzato in più epoche, caratterizzato da “un’unica
organicità dell’opera”.
10. È evidente quindi come la ricorrente non abbia compiutamente provato il
carattere risalente -ante cd. Legge Ponte del 1967- dei manufatti, né
conseguentemente la legittimità delle opere contestate attraverso idonei
titoli edilizi, opere che ricadono, tra l’altro, in area di rispetto
ferroviario e soggiacciono certamente al disposto dell’art. 49 del DPR n.
753/1980, secondo cui: “Lungo i tracciati delle linee ferroviarie è
vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi
specie ad una distanza, da misurarsi in proiezione orizzontale, minore di
metri trenta dal limite della zona di occupazione della più vicina rotaia”.
11. Sul punto, non può poi condividersi quanto osservato in replica dalla
ricorrente circa la non obbligatorietà dell’allora vigente Regolamento
Edilizio Comunale, approvato con deliberazione del Commissario Prefettizio
n. 800 del 12/04/1954, che prevedeva l’obbligo di munirsi di licenza
edilizia per gli interventi di costruzione o modifica da effettuarsi
nell’ambito dell’intero territorio comunale, in quanto -ad avviso della
parte- previsione in contrasto con la legge urbanistica n. 1150/1942 che
limitava invece la necessità del titolo edilizio ai soli centri abitati.
Vale infatti ribadire la legittimità e l’applicabilità delle disposizioni
regolamentari comunali prescrittive del rilascio del titolo abilitativo alle
costruzioni al di fuori del perimetro urbano e, quindi, derogatorie rispetto
al regime liberalizzato sancito dall’art. 31, comma 1, della l. n.
1150/1942, atteso che,
- come è già stato condivisibilmente osservato “queste
ben possono assoggettare ad autorizzazione sindacale una serie di opere
edili o di attività costruttive, che presentino la comune caratteristica di
provocare mutamenti ambientali –tali da concretarsi in veri e propri
interventi edificatori, o in innovazioni funzionali, o in migliorie
meramente estetiche–, con ciò introducendo un controllo oggettivo più forte
di quello stabilito da norme primarie in materia edilizia, all'evidente fine
di sottoporre l'assetto del territorio comunale ad una più penetrante e
rigorosa tutela” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.10.1995, n. 1425);
- così come, nello stesso senso, milita pure il tenore letterale dell’art.
31, comma 5, della l. n. 47/1985, che ammette al regime di sanatoria le
opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto il
rilascio della licenza di costruzione non solo «ai sensi dell’art. 31,
primo comma, della l. 17.08.1942, n. 1150», ma anche ai sensi «dei
regolamenti edilizi comunali» (Tar Campania, Salerno, sentenza n.
1678/2018).
12. Quanto al profilo della responsabilità del proprietario, vale osservare
che l’adozione dell’ordinanza di demolizione non presuppone l’accertamento
della responsabilità nella commissione dell’illecito, ma l’esistenza di una
situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione
urbanistico-edilizia (Tar Campania, Salerno, sentenza n. 215/2022).
12. L’ordine di demolizione inoltre è un atto vincolato, ancorato
esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una
specifica motivazione circa la sussistenza del concreto interesse pubblico
alla rimozione neppure quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla
sua realizzazione, non potendo configurarsi alcun legittimo affidamento in
relazione a situazioni contra legem, essendo stata la relativa ponderazione
tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore (TAR
Campania-Salerno, Sez. III,
sentenza 13.10.2022 n. 2661 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
consolidato insegnamento giurisprudenziale, l'onere di dimostrare che le
opere rientrano fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis
incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto a essere nella
disponibilità di documenti e di elementi probatori in grado di attestare con
ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto.
In secondo luogo, l'art. 31 l. 1150/1942, nella formulazione precedente alla
modifica apportata dalla l. Ponte, assoggettava a licenza edilizia le opere
realizzate «nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale».
Pertanto, anteriormente al 01.09.1967, potevano essere legittimamente
edificate senza titolo costruzioni al di fuori dei centri abitati e sempre
purché il relativo comune non fosse già dotato di piano regolatore.
Ebbene,
il primo piano regolatore generale del Comune, esteso a tutto il
territorio comunale risale al 1959,
sicché la dimostrazione dell'anteriorità dell'opera al 01.09.1967 non
spiegherebbe alcun effetto in favore del ricorrente.
---------------
8. L'unico profilo per cui il momento di esecuzione dell'opera
può assumere rilevanza attiene all'applicabilità della l. 765/1967 (l.
Ponte) che, modificando l'art. 31 l. 1150/1942, ha per la prima volta
imposto il rilascio della licenza edilizia per le costruzioni, iniziate a
partire dal 01.09.1967 (data di entrata in vigore della l. Ponte),
anche al di fuori dei centri abitati dei comuni privi di piano regolatore.
Su tale aspetto è incentrato il secondo motivo di ricorso, per mezzo del
quale il ricorrente deduce che l'opera sia stata realizzata anteriormente al
01.09.1967 e non abbisognasse il rilascio di alcun titolo edilizio.
La censura è infondata per due ragioni.
In primo luogo, l'affermazione attorea è priva di prova e, per consolidato
insegnamento giurisprudenziale, l'onere di dimostrare che le opere rientrano
fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis incombe sul
privato a ciò interessato, unico soggetto a essere nella disponibilità di
documenti e di elementi probatori in grado di attestare con ragionevole
certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (ex multis, tra le ultime,
Cons. Stato, Sez. VI , 27.01.2022, n. 570; TAR Milano, Sez. II, 26.08.2020, n. 1616).
In secondo luogo, l'art. 31 l. 1150/1942, nella formulazione precedente alla
modifica apportata dalla l. Ponte, assoggettava a licenza edilizia le opere
realizzate «nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale».
Pertanto, anteriormente al 01.09.1967, potevano essere legittimamente
edificate senza titolo costruzioni al di fuori dei centri abitati e sempre
purché il relativo comune non fosse già dotato di piano regolatore. Ebbene,
il primo piano regolatore generale del Comune di Torino, esteso a tutto il
territorio comunale –ivi inclusa la zona collinare a est del Po, ove si
trova la palazzina di via ...– risale al 1959 (doc. 21 Comune),
sicché la dimostrazione dell'anteriorità dell'opera al 01.09.1967 non
spiegherebbe alcun effetto in favore del ricorrente (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 07.10.2022 n. 822 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l'obbligo generalizzato
della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove
costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti,
nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sul territorio comunale. Prima di
allora, l'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva tale obbligo
limitatamente ai centri abitati.
Nel caso di specie, è pacifico che all’epoca in cui sono stati posti in
essere gli abusi, il Comune fosse già dotato di Regolamento
edilizio e piano di fabbricazione, come evidenziato nell’ordinanza di
demolizione.
Pertanto, per tutto il territorio del Comune, la necessità del
titolo abilitativo edilizio risale al 1955, in forza dell’approvazione del
relativo regolamento edilizio. Il comune infatti, pur in assenza di una
norma primaria che imponesse ai proprietari di munirsi di titolo abilitativo
per effettuare interventi edificatori, aveva adottato il citato regolamento
edilizio con cui si prevedeva l’obbligo di chiedere apposita licenzia per
costruire, ricostruire o modificare sostanzialmente edifici (art. 3).
È orientamento giurisprudenziale pacifico e condiviso dal Collegio che
l’obbligo imposto dal regolamento edilizio fosse valido e cogente anche in
assenza della legge urbanistica. Infatti, la previsione di una
pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati
contenuta nella legge del 1942 certamente non impediva ai Comuni di
estendere all'intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L.
n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell'attività
edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi di una tipica
prerogativa ad essi spettante.
Da quanto sopra, consegue che le opere realizzate in difformità dalla
licenza edilizia del 18.02.1965 devono considerarsi abusive, in quanto in
quella data era cogente nel territorio comunale l’obbligo di
dotarsi di titolo edilizio.
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1. Il ricorso è articolato in tre motivi, con i quali si deduce
(i) che non fosse necessario alcun titolo per la realizzazione
dell’immobile, in quanto edificato in epoca antecedente all’entrata in
vigore della Legge n. 765/1967, e quindi non sarebbero rilevanti le
difformità rispetto alla licenza edilizia,
(ii) che la sanzione demolitiva irrogata sarebbe incongrua in
relazione al lasso di tempo decorso e che
(iii) l’avvenuto rilascio del certificato di abitabilità
configurerebbe un implicito atto di sanatoria.
2. Il ricorso è infondato.
3. In relazione al primo motivo, va osservato in termini generali che
l'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l'obbligo
generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi
(intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di
manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sul territorio
comunale. Prima di allora, l'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150
prevedeva tale obbligo limitatamente ai centri abitati.
Nel caso di specie, è pacifico che all’epoca in cui sono stati posti in
essere gli abusi, il Comune di Merate fosse già dotato di Regolamento
edilizio e piano di fabbricazione, come evidenziato nell’ordinanza di
demolizione.
Pertanto, per tutto il territorio del Comune di Merate, la necessità del
titolo abilitativo edilizio risale al 1955, in forza dell’approvazione del
relativo regolamento edilizio. Il comune infatti, pur in assenza di una
norma primaria che imponesse ai proprietari di munirsi di titolo abilitativo
per effettuare interventi edificatori, aveva adottato il citato regolamento
edilizio con cui si prevedeva l’obbligo di chiedere apposita licenzia per
costruire, ricostruire o modificare sostanzialmente edifici (art. 3).
È orientamento giurisprudenziale pacifico e condiviso dal Collegio che
l’obbligo imposto dal regolamento edilizio fosse valido e cogente anche in
assenza della legge urbanistica. Infatti, la previsione di una
pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati
contenuta nella legge del 1942 certamente non impediva ai Comuni di
estendere all'intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L.
n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell'attività
edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi di una tipica
prerogativa ad essi spettante (cfr. in tema, ex plurimis, TAR
Campania, Napoli, Sez. IV, 12.06.2014, n. 3245; Consiglio di Stato, Sez.
VII, 23.05.2022, n. 4083; TAR Venezia, Sez. II, 01.04.2022, n.
524; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23.12.2019, n. 2730).
Da quanto sopra, consegue che le opere realizzate in difformità dalla
licenza edilizia del 18.02.1965 devono considerarsi abusive, in quanto in
quella data era cogente nel territorio comunale di Merate l’obbligo di
dotarsi di titolo edilizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.06.2022 n. 1345 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
termini generali, è noto che l’art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha
introdotto l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli
interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e
demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti
sul territorio comunale.
Prima di allora, l’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva tale
obbligo limitatamente ai centri abitati, disponendo che: «chiunque intenda eseguire nuove costruzioni
ovvero ampliare quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri
abitati e dove esiste il Piano Regolatore Comunale anche dentro le zone di
espansione di cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza
edilizia».
La definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci
dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla
giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella
situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case
continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione.
---------------
8. Con il primo motivo di appello si eccepisce la falsa applicazione
dell’art. 31 della l. 1150/1942.
In particolare si contesta l’assunto secondo il quale prima del 01.09.1967 -e più precisamente dal 1942- le nuove costruzioni e gli ampliamenti
di costruzioni esistenti erano già soggette all’ottenimento del titolo
edilizio, se ricadenti all’interno del centro abitato ovvero delle zone di
espansione.
Si sostiene che:
- l’art. 31 della l. 1150/1942, nel testo antecedente alle modifiche
apportate dalla l. 765/1967, imponeva la licenza edilizia «nei centri
abitati ed ove esista il Piano Regolatore Comunale, anche dentro le zone di
espansione di cui al n. 2 dell’art. 7»;
- nei comuni (come quello di Grassobbio) non soggetti all’obbligo di dotarsi
di Piano Regolatore Generale ex art. 8, comma 2, l. 1150/1942, la licenza
edilizia era obbligatoria esclusivamente nel “centro abitato” e non nelle
“zone di espansione”;
- il Programma di Fabbricazione del 1961 dimostra sia che l’area in cui
sorge il fabbricato era collocata in “zona semintensiva”, diversa e distinta
dal centro abitato, sia che in Grassobbio non vigeva, all’epoca, alcun Piano
Regolatore Generale;
- il fondo per cui è causa ricadeva, all’epoca, nella parte del territorio
comunale completamente inedificata, posta ad Est dell’asse autostradale, a
considerevole distanza dall’abitato di Grassobbio e che nella “zona semintensiva” non esisteva alcun aggregato di case continue e vicine.
Alla luce di queste considerazioni si censurano gli argomenti addotti dal
primo giudice per sostenere che, nella specie, la costruzione necessitasse
di licenza edilizia:
- il “centro abitato” che la legge urbanistica ha assoggettato all’obbligo
di licenza sin dalla sua entrata in vigore non coincide affatto con le tutte
zone regolate dai programmi di fabbricazione, e il fabbricato di cui si
discute era fuori dal centro abitato;
- l’obbligo di licenza non esiste in tutte le aree di nuovo impianto, bensì
soltanto in quelle ove esista il P.R.G.
Il motivo è fondato.
8.1 In termini generali, è noto che l’art. 10 della legge 06.08.1967, n.
765, ha introdotto l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti
gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti,
modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di
urbanizzazione) eseguiti sul territorio comunale. Prima di allora, l’art. 31
della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva tale obbligo limitatamente ai
centri abitati, disponendo che: «chiunque intenda eseguire nuove costruzioni
ovvero ampliare quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri
abitati e dove esiste il Piano Regolatore Comunale anche dentro le zone di
espansione di cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza
edilizia».
La definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini
univoci dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla
giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella
situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case
continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione
(Cons. Stato, Sezione VI, 21.02.2022, n. 1222).
Nel caso di specie è indubbio che all’epoca in cui fu posto in essere
l’asserito abuso originario il Comune fosse privo di Piano Regolatore e che,
sulla base della documentazione prodotta dall’appellante, l’immobile de qua
si trovasse in una zona chiaramente distinta dal centro abitato inteso in
senso formale e sostanziale (a quest’ultimo riguardo nell’accezione accolta
da questa Sezione e prima richiamata).
Ne deriva che nessun abuso è configurabile nell’ipotesi in cui siano stati
realizzati, senza titolo, interventi edilizi in area posta fuori dal centro
abitato, in un momento storico in cui nessuna norma comunale prevedeva la
necessità del titolo abilitativo fuori dal centro abitato. Tali opere sono
legittime e pertanto il provvedimento di primo grado poggia su un
presupposto erroneo (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.05.2022 n. 3807 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
tempo trascorso fra la realizzazione dell'abuso e l'adozione dell'ordine di
demolizione non determina, in capo al privato, l'insorgenza di uno stato di
legittimo affidamento e né innesta in capo all'amministrazione uno specifico
onere di motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo rafforza il
carattere abusivo dell'intervento edilizio.
---------------
L’introduzione dell’obbligo del possesso del titolo abilitativo per
l’esercizio dello ius aedificandi, pena la riduzione in pristino, è da farsi
risalire in generale al 1942 per i centri storici con la legge urbanistica
e, per tutto il territorio nazionale, al 1967, in seguito all’entrata in
vigore della l. n. 765 del 1967.
---------------
Peraltro, in relaziona al caso di specie, non può aver alcuna
incidenza la asserita risalenza nel tempo degli abusi realizzati, di per sé
da considerarsi smentita per tabulas dalla documentazione prodotta in atti
dall’odierno interventore ad opponendum, non potendo ammettersi la
sussistenza di alcun legittimo affidamento a vedere conservata una
situazione di fatto contra ius che il trascorrere del tempo non può
legittimare.
Come evidenziato in giurisprudenza, “il tempo trascorso fra la realizzazione
dell'abuso e l'adozione dell'ordine di demolizione non determina, in capo al
privato, l'insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e né innesta in
capo all'amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto
il decorso del tempo rafforza il carattere abusivo dell'intervento edilizio”
(cfr. TAR Campania Napoli, Sez. II, 09.05.2019, n. 2500), trattandosi
peraltro, di per sé, di un illecito avente carattere permanente.
Era onere della ricorrente, dunque, fornire piena prova della preesistenza
al 1935 -e non già, al 1967- dell’opera in questione, in applicazione della
regola generale contenuta nell’art. 2697 c.c. (per quanto riguarda il
processo amministrativo, dall’art. 64, comma 1, d.lgs. n. 104 del 2010,
secondo cui “Spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che
siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle
domande e delle eccezioni”).
È del resto largamente noto che nel territorio del Comune di Napoli
l’obbligo di munirsi di un titolo edilizio sia in vigore dal 1935, ossia da
ben prima della legge ponte del 06.08.1967, n. 765.
Invero, per le costruzioni da realizzare nel territorio del Comune di
Napoli, l’obbligo per gli interessati di richiedere la licenza edilizia è
stato introdotto dall’art. 1, Regolamento Edilizio del Comune di Napoli dal
1935, con la conseguenza che ai fini della legittimità -sotto il profilo urbanistico-edilizio- di un’opera non è sufficiente dimostrarne la
realizzazione in data antecedente al 1967, ma è necessario provare che la
stessa sia stata eseguita in epoca anteriore al 1935; occorre in proposito
conseguentemente ribadire che “l’introduzione dell’obbligo del possesso del
titolo abilitativo per l’esercizio dello ius aedificandi, pena la riduzione
in pristino, è da farsi risalire in generale al 1942 per i centri storici
con la legge urbanistica e, per tutto il territorio nazionale, al 1967, in
seguito all’entrata in vigore della l. n. 765 del 1967. Per tutto il
territorio del Comune di Napoli, la necessità del titolo abilitativo
edilizio risale addirittura al 1935, in forza del regolamento edilizio, ben
prima quindi della l. n. 47 del 1985” (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. IV,
08.09.2014, n. 4745).
A tutto voler concedere, l’assunto della vetustà, poi, oltre ad essere
indimostrato nel suo risalire ad epoca anteriore al 1935, è comunque
autonomamente smentito dalle planimetrie allegate all’atto di compravendita
del 2008. In dette planimetrie il lucernaio oggetto di controversia è
assente, potendosene di conseguenza presumere in modo realistico la
realizzazione solo successivamente a tale data (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 16.05.2022 n. 3274 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per consolidata giurisprudenza, rispetto al
periodo antecedente al 1967, la definizione di centro abitato non è
rinvenibile in termini univoci, dovendosi fare riferimento a criteri
empirici, per cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto
costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, anche
distante dal centro, con interposte strade, piazze o simili.
---------------
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Non è in contestazione tra le parti che il fabbricato oggetto di causa sia
stato edificato negli anni 1954/1955.
L’art. 31 della legge urbanistica del 1942, nel testo vigente al momento in
cui il fabbricato oggetto è stato realizzato, ossia nell’anno 1955,
richiedeva la licenza per “eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero
ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei centri
abitati ed ove esista il piano regolatore comunale”.
Osserva che Collegio che «Per consolidata giurisprudenza, rispetto al
periodo antecedente al 1967, la definizione di centro abitato non è
rinvenibile in termini univoci, dovendosi fare riferimento a criteri
empirici, per cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto
costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, anche
distante dal centro, con interposte strade, piazze o simili» (cfr. Cons.
Stato, Sez. II, 11.10.2021, n. 6770 di recente Cons. Stato Sez. VI,
21.06.2021, n. 4771; Sez. II, 09.06.2020, n. 3677) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 21.04.2022 n. 1357 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: - in termini generali, è noto che l’art. 10 della legge
06.08.1967, n.
765, ha introdotto l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti
gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti,
modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di
urbanizzazione) eseguiti sul territorio comunale;
- prima di allora, l’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva
tale obbligo limitatamente ai centri abitati, disponendo che: «chiunque
intenda eseguire nuove costruzioni ovvero ampliare quelle già esistenti o
modificare la struttura nei centri abitati e dove esiste il piano regolatore
comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7 deve
chiedere apposita licenza edilizia»;
- la definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci
dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla
giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella
situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case
continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione;
- ciò posto, l’onere di provare la data di realizzazione e la consistenza
dell’immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso, mentre solo la
deduzione da parte di quest’ultimo di concreti elementi di riscontro
trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo
all’amministrazione.
---------------
Considerato in diritto che
- in via preliminare, va rimarcato che, non avendo il Comune di Arce
proposto appello incidentale, sono passati in giudicati i capi di sentenza
che hanno accolto i primi due motivi di ricorso (segnatamente:
l’incompetenza del Comune a contestare la mancanza dell’autorizzazione
sismica; l’omesso previo annullamento del titolo edilizio consistente nel
permesso di costruire in sanatoria n. 2/2017, con cui era stato regolarmente
assentito il porticato in legno);
- in termini generali, è noto che l’art. 10 della legge 06.08.1967, n.
765, ha introdotto l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti
gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti,
modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di
urbanizzazione) eseguiti sul territorio comunale;
- prima di allora, l’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva
tale obbligo limitatamente ai centri abitati, disponendo che: «chiunque
intenda eseguire nuove costruzioni ovvero ampliare quelle già esistenti o
modificare la struttura nei centri abitati e dove esiste il piano regolatore
comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7 deve
chiedere apposita licenza edilizia»;
- la definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci
dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla
giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella
situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case
continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione;
- ciò posto, l’onere di provare la data di realizzazione e la consistenza
dell’immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso, mentre solo la
deduzione da parte di quest’ultimo di concreti elementi di riscontro
trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.02.2022 n. 1222 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' noto che l’obbligo generalizzato di
richiedere la licenza edilizia per eseguire nuove costruzioni, ampliare,
modificare o demolire quelle esistenti, ovvero per procedere all’esecuzione
di opere di urbanizzazione sul terreno, è stato generalizzato dall’art. 10
L. 06.08.1967 n. 765 (mentre in precedenza l’art. 31, comma 1, L. 17.08.1942
n. 1150 imponeva di premunirsi di licenza edilizia solo per gli interventi
nei centri abitati e nelle zone di espansione previste dal piano
regolatore).
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Priva di pregio risulta la considerazione secondo la quale poiché gli
interventi in questione si collocherebbero all’interno di una zona del
territorio comunale classificata “zona di espansione”, andrebbero
automaticamente qualificati come “modifiche di lieve entità”.
Ed invero è noto che l’obbligo generalizzato di richiedere la licenza
edilizia per eseguire nuove costruzioni, ampliare, modificare o demolire
quelle esistenti, ovvero per procedere all’esecuzione di opere di
urbanizzazione sul terreno, è stato generalizzato dall’art. 10 L. 06.08.1967
n. 765 (mentre in precedenza l’art. 31, comma 1, L. 17.08.1942 n. 1150
imponeva di premunirsi di licenza edilizia solo per gli interventi nei
centri abitati e nelle zone di espansione previste dal piano regolatore).
E nel caso di specie le opere realizzate dalla ricorrente, alterando lo
stato dei luoghi, con incremento del carico urbanistico, avrebbero richiesto
per la loro consistenza, il previo rilascio del permesso di costruire,
sicché legittimamente ne è stata ordinata la demolizione (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 29.10.2021 n. 2933 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: È noto che l’art. 10 della legge
06.08.1967, n. 765, ha introdotto
l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi
edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e
demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti
sul territorio comunale.
Prima di allora, l’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva tale obbligo limitatamente ai centri abitati,
disponendo che: «chiunque intenda eseguire nuove costruzioni ovvero ampliare
quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri abitati e dove
esiste il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di
cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza edilizia».
La definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci
dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla
giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella
situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case
continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione.
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8.‒ In ragione dell’epoca di realizzazione del
portico-manufatto, nell’anno 1954, la sua costruzione non richiedeva alcun
titolo abilitativo. È dunque erronea la qualificazione di ‘abusività’
presupposta negli atti impugnati.
8.1‒ I rilievi mossi dall’Amministrazione nella memoria depositata in vista
dell’udienza pubblica ‒in cui si sostiene che le risultanze istruttorie non
confermerebbero la fondatezza delle argomentazioni di parte appellante‒ non
colgono nel segno.
8.2.‒ Il distacco del manufatto dall’edificio limitrofo (al quale si fa
riferimento nella relazione) non pone in discussione la circostanza che
l’edificio rappresentato nelle Ortofoto sia lo stesso fatto oggetto dei
provvedimenti impugnati.
8.3.‒ La circostanza che il manto di copertura con onduline e vetroresina
sia stato realizzato in epoca successiva all’anno 1967, non ha rilievo ai
fini del presente giudizio: il diniego e l’ordine di demolizione si
riferiscono infatti all’intero edificio, senza distinguere tra la parte
muraria (stimata in epoca anteriore al 1967) ed il manto di copertura
realizzato con onduline e vetroresina (strutture quest’ultime che, peraltro,
gli appellanti affermano che sarebbero state eliminate una volta assentita
la trasformazione del portico in garage).
8.4.‒ La deduzione secondo cui gli immobili di cui si discute sarebbero
stati situati all’interno del centro abitato del Comune di Cassolnovo,
ragione per cui nemmeno la loro datazione ad epoca antecedente al 1954
sarebbe idonea a far ritenere la loro edificazione ‘libera’, è sfornita di
qualunque riscontro.
È noto che l’art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto
l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi
edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e
demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti
sul territorio comunale. Prima di allora, l’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva tale obbligo limitatamente ai centri abitati,
disponendo che: «chiunque intenda eseguire nuove costruzioni ovvero ampliare
quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri abitati e dove
esiste il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di
cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza edilizia».
La definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci
dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla
giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella
situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case
continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione.
Ebbene, nel caso di specie, l’Amministrazione ‒oltre a non allegare la
vigenza di un piano regolatore all’epoca dei fatti‒ non ha depositato alcun
elaborato cartografico da cui risulti che, storicamente, i terreni di
proprietà degli appellanti fossero compresi in una zona contrassegnata dalla
presenza di case continue e vicine (circostanza contestata dagli appellanti
secondo cui trattavisi di portico agricolo eretto in aperta campagna, come
dimostrato dalla struttura tipicamente rurale che il piccolo borgo di
Cassolnovo) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.06.2021 n. 4771 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza ha chiarito che nel sistema giuridico vigente la definizione
di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci, per cui occorre fare
riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui
il centro abitato va individuato nella situazione di fatto costituita dalla
presenza di un aggregato di case continue e vicine, comunque suscettibile di
espansione.
Nell'ambito urbanistico edilizio, in riferimento alla nozione di 'centro abitato', si fonda essenzialmente sulla presenza di immobili, opere e
strutture già idonee a fare ritenere che la zona sia in qualche modo già
antropizzata.
Anche questa sezione ha recentemente affermato che in assenza di un atto
urbanistico di perimetrazione del centro abitato, la nozione di centro
abitato urbanisticamente rilevante deve essere ancorata alla sussistenza di
circostanze di fatto (aggregato di case continue e vicine), piuttosto che a
formali qualificazioni provvedimentali, che possono semmai fungere da
supporto probatorio di carattere integrativo.
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Il motivo di ricorso non può essere accolto.
A prescindere da ogni approfondimento circa la preesistenza dell’immobile in
questione alla data del 1967, infatti, risulta dagli atti di causa che
l’immobile non si trova al di fuori dalla perimetrazione del centro abitato.
Come rilevato il Comune nelle sue difese e comprovato dagli atti di causa,
l’area su cui fu costruito il manufatto oggetto del presente gravame era già
all’epoca della sua costruzione qualificabile come un agglomerato
urbano/residenziale. La circostanza è provata dalla foto aerea dell’Istituto
Geografico Militare (datata 1964), dal testamento del 1973 e dai rilievi
catastali (datati 1982), da cui emerge che la proprietà è circondata da
altri beni immobili.
La giurisprudenza ha sul punto chiarito che nel sistema giuridico vigente la
definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci, per cui
occorre fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza,
secondo cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto
costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine,
comunque suscettibile di espansione (Consiglio di Stato sez. IV,
19/08/2016, n. 3656).
Nell'ambito urbanistico edilizio, in riferimento alla nozione di 'centro abitato', si fonda essenzialmente sulla presenza di immobili, opere e
strutture già idonee a fare ritenere che la zona sia in qualche modo già
antropizzata (TAR Campania, Salerno, sez. II, 22/01/2021, n. 199).
Anche questa sezione ha recentemente affermato che in assenza di un atto
urbanistico di perimetrazione del centro abitato, la nozione di centro
abitato urbanisticamente rilevante deve essere ancorata alla sussistenza di
circostanze di fatto (aggregato di case continue e vicine), piuttosto che a
formali qualificazioni provvedimentali, che possono semmai fungere da
supporto probatorio di carattere integrativo (TAR Campania Napoli, sez. II, 02/10/2020, n. 4183).
Alla luce di tali principi giurisprudenziali, deve ritenersi che anche ante
1967 nell’area in cui si trova l’immobile in esame occorreva il rilascio di
un titolo edilizio, dovendo qualificarsi l’area entro la quale esso è
situato come “centro abitato” (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 08.06.2021 n. 3840 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Regolamento Edilizio comunale del 25.05.1938, dal
quale risulta l’obbligo di munirsi di titolo edilizio anche per le opere
realizzate fuori dal centro abitato, non può ritenersi illegittimo in quanto
-secondo la giurisprudenza- non può fondatamente sostenersi che
il regolamento edilizio comunale fosse divenuto illegittimo e non più
applicabile una volta entrata in vigore la L. n. 1150/1942, che, all’art.
31, limitava la necessità della licenza edilizia all’attività edificatoria
svolta all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione previste
dai piani.
Infatti, la previsione di una pianificazione e di un controllo
obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non impediva ai Comuni di
estendere all’intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L.
n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell’attività
edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi di una tipica
prerogativa ad essi spettante.
---------------
7.2 Ad abundantiam occorre specificare che il motivo è infondato anche nella
parte in cui afferma che le opere realizzate fuori dal centro storico negli
anni tra il 1950 ed il 1960 non richiedevano titolo edilizio in quanto il
Comune ha depositato il Regolamento Edilizio del Comune di Senago 25.05.1938 dal quale risulta l’obbligo di munirsi di titolo edilizio anche per le
opere realizzate fuori dal centro abitato.
Né in merito può ritenersi che tale regolamento fosse illegittimo in quanto
secondo la giurisprudenza (TAR Abruzzo-Pescara - Sez. I, 14.01.2010, n. 23;
TAR Veneto, Sez. II, 30.01.2014 n. 121) non può fondatamente sostenersi che
il regolamento edilizio comunale fosse divenuto illegittimo e non più
applicabile una volta entrata in vigore la L. n. 1150/1942, che, all’art.
31, limitava la necessità della licenza edilizia all’attività edificatoria
svolta all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione previste
dai piani. Infatti, la previsione di una pianificazione e di un controllo
obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non impediva ai Comuni di
estendere all’intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L.
n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell’attività
edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi di una tipica
prerogativa ad essi spettante (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.12.2019 n. 2730 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per quanto riguarda, il capannone, rileva come parte ricorrente
non abbia fornito alcuna prova circa la realizzazione dello stesso
anteriormente al 1967 e, dunque, prima che l. n. 765/1967 (c.d. “legge
ponte”) introducesse un obbligo generalizzato di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la realizzazione di opere in qualsiasi parte del
territorio comunale (prima, invece, sussistente, ai sensi dell’art. 31 della
legge urbanistica n. 1150/1942, solo per edificare nei centri abitati, a
prescindere dalla dotazione o meno di strumenti urbanistici da parte dei
Comuni).
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa è da sempre consolidata nel
ritenere che l’onere di fornire la prova rigorosa dell’ultimazione delle
opere abusive incomba sull’interessato, l’unico in grado di fornire atti e
documenti che offrano la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di
un manufatto, e non già sull’amministrazione che, in presenza di un’opera
edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha, invece,
il dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ne ricorrano i
presupposti, il provvedimento di demolizione.
---------------
Il ricorso è infondato, in ragione della legittimità sotto i profili
contestati dell’impugnata ordinanza di demolizione.
Non sono, innanzi tutto, meritevoli di accoglimento le censure articolare in
ricorso con cui parte ricorrente tenta di dimostrare la piena legittimità
delle opere sanzionate, non valendo quanto affermato e prodotto in giudizio
da parte ricorrente a smentire il carattere abusivo di tali interventi,
effettivamente eseguiti in assenza di un titolo edilizio nonostante
rientrino (come correttamente ritenuto dall’amministrazione comunale) in
parte -per quanto riguarda, il capannone, il manufatto destinato a
spogliatoi e wc e il locale destinato alla guardiania- “tra quelle indicate
nell’art. 31 del DPR 06.06.2001 n. 380” (“Interventi eseguiti in assenza di
permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”)
ed, in parte -per quel che concerne le tettoie ed il locale tecnologico
antincendio- “tra quelle indicate nell’art. 33 del DPR 06.06.2001 n. 380”
(“Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità”).
Per quanto riguarda, il capannone, rileva, infatti, come parte ricorrente
non abbia fornito alcuna prova circa la realizzazione dello stesso
anteriormente al 1967 e, dunque, prima che l. n. 765/1967 (c.d. “legge
ponte”) introducesse un obbligo generalizzato di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la realizzazione di opere in qualsiasi parte del
territorio comunale (prima, invece, sussistente, ai sensi dell’art. 31 della
legge urbanistica n. 1150/1942, solo per edificare nei centri abitati, a
prescindere dalla dotazione o meno di strumenti urbanistici da parte dei
Comuni), essendo la giurisprudenza amministrativa da sempre consolidata nel
ritenere che l’onere di fornire la prova rigorosa dell’ultimazione delle
opere abusive incomba sull’interessato, l’unico in grado di fornire atti e
documenti che offrano la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di
un manufatto, e non già -come vorrebbe parte ricorrente-
sull’amministrazione che, in presenza di un’opera edilizia non assistita da
un titolo edilizio che la legittimi, ha, invece, il dovere di sanzionarla ai
sensi di legge e di adottare, ove ne ricorrano i presupposti, il
provvedimento di demolizione (in tal senso, da ultimo, TAR Napoli,
Campania, sezione VIII, n. 4122/2017, nonché, in epoca più risalente, TAR
Toscana, sezione II, n. 158/1992).
A ciò si aggiunga come parte ricorrente abbia dichiarato che lo stabilimento
produttivo sarebbe “composto da vari capannoni, per una superficie coperta
di oltre 10.000 mq” per poi produrre in atti titoli edilizi cumulativamente
idonei ad assentirne soltanto 5.545 metri quadri circa (in tal senso la
denunzia prodotta in giudizio da parte ricorrente, alla quale avrebbe fatto
seguito la citata ordinanza comunale del 14.05.1972) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 15.06.2018 n. 951 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In punto di diritto, il Collegio rileva come l’introduzione del
regime relativo alla necessità di un titolo abilitativo edilizio per
l’esercizio dello ius edificandi è da farsi risalire, in generale, al 1942
per i centri storici con la legge urbanistica e, per tutto il territorio
nazionale, al 1967 in seguito all’entrata in vigore della legge n. 765/1967.
Peraltro, per tutto il territorio del Comune, la necessità del
titolo abilitativo edilizio risale addirittura al 1935 in forza di
regolamento edilizio.
Il Comune già prima del 1942, pur in assenza di una norma
primaria che imponesse ai proprietari di munirsi di titolo abilitativo per
effettuare interventi edificatori, aveva adottato un regolamento edilizio,
approvato appunto nel 1935, con cui aveva previsto l’obbligo di munirsi di
licenza edilizia per gli interventi da effettuarsi sull’intero territorio
comunale.
L'art. 1 del regolamento edilizio del 1935 aveva stabilito, difatti, al
comma 2, che nel territorio del Comune di Napoli, non era permesso eseguire,
senza licenza del Sindaco, e con modalità diverse da quelle stabilite: "a)
costruzione di nuovi edifici, sopralzi od ampliamenti di quelli esistenti;
b) demolizione, ricostruzione parziale o totale, modifica, trasformazione o
restauro di edifici esistenti;
c) spostamento o rimozione di elementi di
fabbricato di altre cose e materie che abbiano comunque carattere storico,
archeologico, artistico od anche semplicemente panoramico, e che siano
esposti alla vista del pubblico;
d) restauro, decorazione o attintatura
delle facciate dei fabbricati rivolte alla strada pubblica o comunque
visibili da strade giardini, o spazi pubblici;
e) apposizione sulle facciate
esterne dei fabbricati, o impianto, comunque in vista del pubblico, di
fanali insegne ecc....
f) esecuzione di scavi od opere sotterranee in genere;
g) qualunque altra opera che possa interessare lo sviluppo, l'igiene e
l'estetica della Città in relazione al contenuto del regolamento”.
Alla stregua di tali considerazioni, le opere oggetto di contestazione
devono ritenersi tutte eseguite senza titolo, in quanto databili ad epoca
per la quale era già stato introdotto nel Comune l’obbligo di dotarsi di
licenza edilizia.
---------------
Riguardo al secondo aspetto, attinente la contestazione dell’epoca di
realizzazione della costruzione, la consulenza tecnica espletata a firma
dell’Ing. Gi.Gu. ha consentito di giungere a conclusioni attendibili sulla
valutazione degli elementi su cui porte ricorrente basava la propria tesi, e
segnatamente delle foto aeree dalle quali lo stesso assumeva desumibile la
presenza di ombre, a suo dire identificative della struttura de qua.
In particolare, l’indagine del consulente ha esattamente riguardato tutti i
corpi di fabbrica presenti nella contestazione di cui al secondo
provvedimento, impugnato con i motivi aggiunti, ancorché durante l’accesso
del 08.11.2012 esperito dinanzi al precedente CTU, fosse stato erroneamente
assunto a base di indagine un grafico ove non era indicata la tettoia,
contraddistinta come corpo C.
Basti in proposito rilevare come le parti non hanno potere dispositivo circa
l’ampiezza dell’indagine affidata dal Collegio al Consulente di ufficio,
indagine che chiaramente involgeva tutti i manufatti oggetto del secondo
ordine di demolizione, che ha sostituito il precedente.
Circa le valutazioni del Consulente di ufficio ing. Gu. sulla databilità
delle strutture, le stesse possono essere pienamente condivise dal Collegio,
in quanto fondate su una scrupolosa disamina delle foto aeree e della
cartografia dal consulente acquisita, e su ampia acquisizione documentale,
oggetto di analisi fondata su validi criteri logici e tecnici.
Al riguardo, dalla relazione di consulenza tecnica di ufficio emerge:
- il corpo verandato A deve distinguersi in una parte sviluppata
verso oriente, da ritenersi realizzata nel periodo 1956-1967, ed in una
porzione occidentale, che risulta realizzata tra il 1981 ed il 1985;
- il corpo B sottostante la tettoia C, è databile solo nel senso
che sia certamente antecedente al 1985;
- la tettoia C è da ritenersi realizzata tra il 1956 ed il 1967.
La medesima parte ricorrente non ha, inoltre, dimostrato, in punto di fatto,
l’effettiva risalenza della specifica opera abusiva a data anteriore.
In punto di diritto, inoltre, il Collegio rileva come l’introduzione del
regime relativo alla necessità di un titolo abilitativo edilizio per
l’esercizio dello ius edificandi è da farsi risalire, in generale, al
1942 per i centri storici con la legge urbanistica e, per tutto il
territorio nazionale, al 1967 in seguito all’entrata in vigore della legge
n. 765/1967 (e non all’anno 1968).
Peraltro, per tutto il territorio del Comune di Napoli, la necessità del
titolo abilitativo edilizio risale addirittura al 1935 in forza di
regolamento edilizio.
Il Comune di Napoli difatti, già prima del 1942, pur in assenza di una norma
primaria che imponesse ai proprietari di munirsi di titolo abilitativo per
effettuare interventi edificatori, aveva adottato un regolamento edilizio,
approvato appunto nel 1935, con cui aveva previsto l’obbligo di munirsi di
licenza edilizia per gli interventi da effettuarsi sull’intero territorio
comunale (TAR Campania–Napoli, Sez. IV, n. 2051/2010; TAR Campania–Napoli,
Sez. IV, 11362/2010; TAR Campania-Napoli, Sez. IV, n. 6879/2009).
L'art. 1 del regolamento edilizio del 1935 aveva stabilito, difatti, al
comma 2, che nel territorio del Comune di Napoli, non era permesso eseguire,
senza licenza del Sindaco, e con modalità diverse da quelle stabilite: "a)
costruzione di nuovi edifici, sopralzi od ampliamenti di quelli esistenti;
b) demolizione, ricostruzione parziale o totale, modifica, trasformazione o
restauro di edifici esistenti;
c) spostamento o rimozione di elementi di
fabbricato di altre cose e materie che abbiano comunque carattere storico,
archeologico, artistico od anche semplicemente panoramico, e che siano
esposti alla vista del pubblico;
d) restauro, decorazione o attintatura
delle facciate dei fabbricati rivolte alla strada pubblica o comunque
visibili da strade giardini, o spazi pubblici;
e) apposizione sulle facciate
esterne dei fabbricati, o impianto, comunque in vista del pubblico, di
fanali insegne ecc....
f) esecuzione di scavi od opere sotterranee in genere;
g) qualunque altra opera che possa interessare lo sviluppo, l'igiene e
l'estetica della Città in relazione al contenuto del regolamento”.
Alla stregua di tali considerazioni, le opere oggetto di contestazione
devono ritenersi tutte eseguite senza titolo, in quanto databili ad epoca
per la quale era già stato introdotto nel Comune di Napoli l’obbligo di
dotarsi di licenza edilizia (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 12.06.2014 n. 3245 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aggiornamento al
31.10.2022 |
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IN EVIDENZA |
COMPETENZE PROGETTUALI: Sulla
questione della nullità del contratto d’opera professionale stipulato con in
geometra avente ad
oggetto la progettazione di una costruzione contenente strutture in cemento
armato.
Il criterio per accertare se una
costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione
rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16,
lett. m), del r.d. n. 274 del 1929- consiste nel valutare le difficoltà
tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le
capacità occorrenti per superarle.
A questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato,
assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona
sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla
normativa di cui alla l. n. 64 del 1974, la quale impone calcoli complessi,
che esulano dalle competenze professionali dei geometri.
---------------
2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 112
c.p.c. e 345 c.p.c. e 1421 c.c. (in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c.),
nonché degli artt. 16, comma 1, lett. l) e m), del r.d. n. 274/1929; 1 del
r.d. n. 2229/1939; 1418, 15421, 2229, 2230 e 2231 c.c. e della legge n.
1086/1971 (in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.).
Non essendo in contestazione che l’edificio da progettare si fondasse su una
struttura in cemento armato, avrebbe errato, secondo il ricorrente, la
sentenza di merito a ritenere l’eccezione di nullità proposta in violazione
dell’art. 345 c.p.c., per l’assorbente considerazione che trattasi di
questione rilevabile d’ufficio, sulla scorta della giurisprudenza di
legittimità di cui a Cass., Sez. Un., n. 14828/2012 e Cass., Sez. Un., n.
21095/2014.
Pertanto, dal momento che l’edificio in questione eccedeva certamente la
nozione di “modesta costruzione civile” di cui all’art. 16, comma 1,
lett. m), del r.d. n. 274/1929, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto
dichiarare nullo il contratto di prestazione d’opera intercorso tra le
parti, con conseguente impossibilità per i controricorrenti di reclamare
qualsivoglia compenso, ai sensi dell’art. 2231 c.c.
...
7. Il primo motivo è fondato, e il suo accoglimento determina
l’assorbimento di tutti gli altri.
La Corte d’Appello di Perugia, nella sentenza impugnata, non ha esaminato la
questione relativa alla nullità del contratto costituente il titolo della
pretesa fatta valere dai controricorrenti con l’originario ricorso
monitorio, dichiarando l’inammissibilità della relativa eccezione in quanto
non sollevata in seno al processo di primo grado e non più sollevabile in
appello, “secondo il disposto di cui all’art. 345 c.p.c. trattandosi di
eccezione nuova”.
Tale statuizione, tuttavia, non tiene conto della rilevabilità d’ufficio
della nullità del contratto, con conseguente applicabilità del secondo comma
della disposizione citata, il quale, a contrario, consente la proposizione
di nuove eccezioni, nella misura in cui si tratti -per l’appunto- di
eccezioni rilevabili d’ufficio (si veda, di recente, Cass., n. 19161/2020,
alla cui stregua “il giudice di appello è tenuto a procedere al rilievo
officioso di una nullità contrattuale nonostante sia mancata la rilevazione
in primo grado e l'eccezione di nullità sia stata sollevata in sede di
gravame, venendo in rilievo un'eccezione in senso lato, come tale
proponibile in appello a norma dell'art. 345, comma 2, c.p.c.”).
Già Cass., Sez. Un., n. 26242/2014, aveva affermato che “nel giudizio di
appello ed in quello di cassazione, il giudice, in caso di mancata
rilevazione officiosa, in primo grado, di una nullità contrattuale, ha
sempre facoltà di procedere ad un siffatto rilievo”. A fronte
dell’eccezione dell’appellante, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto,
pertanto, esaminare la questione della nullità del contratto d’opera
professionale stipulato con i geometri odierni controricorrenti, avente ad
oggetto la progettazione di una costruzione contenente strutture in cemento
armato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, infatti, “a norma
dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, che non è stato modificato
dalla legge n. 1068 del 1971, la competenza dei geometri è limitata alla
progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con
esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture
in cemento armato, mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste
strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo
alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o
destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni
di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le
persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni
civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato. Pertanto,
la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia
riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti
sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto redatto da
un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un
ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista
competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di
competenze inderogabilmente affidate dal committente al professionista
abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le
relative responsabilità” (in questi termini:
- la recente Cass., n. 100/2021, ma si veda anche Cass., n.
29227/2019 -secondo cui “la disposizione, contenuta nell'art. 16 del r.d.
n. 274 del 1929, secondo cui i geometri non sono abilitati a redigere
"progetti di massima" ove riguardanti costruzioni in cemento armato, fuori
dalle ipotesi eccezionalmente consentite dalla lett. l), risponde ad
evidenti ragioni di pubblico interesse e lascia all'interprete ristretti
margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della
modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di
calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità,
indicando, invece, un preciso requisito, ovverosia la natura di annesso
agricolo dei manufatti. Ne consegue l'inammissibilità di un'interpretazione
estensiva o evolutiva di tale disposizione, che, in quanto norma
eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi
pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme -art. 2
della l. n. 1086 del 1971 e art. 17 della l. n. 64 del 1974- che
disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in
quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali
stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale”- nonché,
con precipuo riguardo al rilievo officioso della nullità,
- Cass., n. 20438/2019, nella quale si legge che “è nullo il
contratto di affidamento della direzione dei lavori di costruzioni civili ad
un geometra, ove la progettazione richieda l'esecuzione, anche parziale, dei
calcoli in cemento armato, attività demandata agli ingegneri, attese le
limitate competenze attribuite ai geometri dall'art. 16 del r.d. n. 274 del
1929. Tale nullità è rilevabile, ai sensi dell'art. 1421 c.c., anche
d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, incontrando siffatto
principio, in sede di legittimità, il limite del divieto degli accertamenti
di fatto, sicché nel giudizio di cassazione la nullità è rilevabile solo se
siano acquisiti agli atti tutti gli elementi di fatto dai quali possa
desumersene l'esistenza”).
8. Alla cassazione della sentenza impugnata consegue, pertanto, il rinvio
alla Corte d’Appello di Perugia (in diversa composizione), cui è demandata
la valutazione di merito circa la tipologia ed entità delle opere in cemento
armato contemplate dal progetto commissionato ai geometri Pa. e
Ar., in ossequio alla regula iuris per cui “il
criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e
quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei
geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), del r.d. n. 274 del 1929-
consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e
l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a
questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato, assume
significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica,
con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa
di cui alla l. n. 64 del 1974, la quale impone calcoli complessi, che
esulano dalle competenze professionali dei geometri”
(Cass., n. 5871/2017) (Corte di cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 20.09.2022 n. 27502). |
COMPETENZE PROGETTUALI: A
norma dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, che non è stato
modificato dalla legge n. 1068 del 1971, la competenza dei geometri è
limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni
civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale-
di strutture in cemento armato, mentre, in via d'eccezione, si estende anche
a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo, solo con
riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici
rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari
operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo
per le persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le
costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato.
Pertanto, la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra
in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli
architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto
redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero
che un ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il
professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione,
trattandosi di competenze inderogabilmente affidate dal committente al
professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale
gravano le relative responsabilità.
Si è anche, in particolare, specificato –contrariamente a quanto assunto
nell’impugnata sentenza- che i limiti posti dall'art. 16, lett. m), del r.d.
11.02.1929, n. 274 alla competenza professionale dei geometri rispondono ad
una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di
pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti margini di
discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia
della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e
dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità, indicando invece un
preciso requisito, ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti
(aspetto, questo, pacificamente da escludere con riferimento alla
fattispecie), per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici
anche nei casi di impiego di cemento armato.
È da ritenersi, pertanto, esclusa la possibilità di un'interpretazione
estensiva o "evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto norma
eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi
pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme –quali
l’art. 2 della legge 05.11.1971, n. 1086 e l’art. 17 della legge 02.02.1974,
n. 64– che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone
sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze
professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa
professionale.
Ne consegue che, qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto
una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto
anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando
la progettazione –richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in
cemento armato– sia riservata alla competenza degli ingegneri. Ed è anche
pacifico che, a norma dell'art. 2231 c.c., quando l'esercizio di un'attività
professionale è condizionato all'iscrizione in un albo o elenco, la
prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il
pagamento del compenso, onde, in tali ipotesi, non può ritenersi esperibile
neppure l'azione generale di arricchimento di cui all'art. 2041 c.c.
---------------
1. Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato la violazione e
falsa applicazione dell’art. 16 del R.D. 11.02.1929, n. 274 e dell’art. 1
del R.D. 16.11.1939, n. 2229, in relazione agli artt. 11, 12 e 14 delle
disposizioni sulla legge in generale e agli artt. 1418, 2229 e 2231 c.c.
In particolare, la ricorrente, con questa doglianza, ha inteso dedurre che,
sulla base delle caratteristiche dell’immobile in relazione al quale il
geom. Pa. aveva prestato la sua opera professionale, consistenti –come
accertato in sede di c.t.u.- nella realizzazione di una soletta di
fondazione in cemento armato, di murature d’ambito sempre in cemento armato
per il seminterrato, di solai latero-cementizi, di travi e di una scala in
cemento armato, al citato geometra non avrebbe potuto essere riconosciuto il
necessario titolo abilitativo per l’esecuzione delle contestate prestazioni,
ragion per cui –alla stregua delle richiamate norme– egli non poteva aver
diritto alla percezione di alcun compenso per la predetta attività svolta
oltre i limiti delle proprie competenze.
...
3. Rileva il collegio che il primo motivo è fondato e deve essere, quindi,
accolto per le ragioni che seguono.
Va, infatti, osservato che -essendo rimasto accertato in fatto che la
prestazione del Pa., in qualità di geometra, fu eseguita in epoca
antecedente al dicembre 2010 (ovvero prima dell’entrata in vigore del d.lgs.
n. 212/2010, con la quale fu disposta l’abrogazione dell’art. 1 del R.D. n.
2229/1939) e che la stessa non aveva ad oggetto una piccola costruzione
accessoria nell’ambito di edifici agricoli (sulla scorta delle inequivoche
caratteristiche precedentemente descritte, involgenti plurimi interventi
edilizi comportanti l’utilizzo di cemento armato relativi alla
ristrutturazione di un immobile adibito a civile abitazione)– la doglianza è
meritevole di accoglimento alla stregua della consolidata giurisprudenza di
questa Corte occupatasi della questione (cfr., ad es., Cass. n. 286/1984,
Cass. n. 3021/2005, 19292/2009 e Cass. n. 5871/2016).
Secondo il principio univocamente dalla stessa affermato (al quale dovrà
uniformarsi il giudice di rinvio), a norma dell'art. 16, lett. m), r.d.
11.02.1929, n. 274, che non è stato modificato dalla legge n. 1068 del 1971,
la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e
vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che
comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato,
mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma
della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo alle piccole
costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle
industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e
che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, essendo
riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche
modeste, che adottino strutture in cemento armato.
Pertanto, la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra
in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli
architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto
redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero
che un ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il
professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione,
trattandosi di competenze inderogabilmente affidate dal committente al
professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale
gravano le relative responsabilità.
Si è anche, in particolare, specificato –contrariamente a quanto assunto
nell’impugnata sentenza- che i limiti posti dall'art. 16, lett. m), del r.d.
11.02.1929, n. 274 alla competenza professionale dei geometri rispondono ad
una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di
pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti margini di
discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia
della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e
dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità, indicando invece un
preciso requisito, ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti
(aspetto, questo, pacificamente da escludere con riferimento alla
fattispecie), per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici
anche nei casi di impiego di cemento armato.
È da ritenersi, pertanto, esclusa la possibilità di un'interpretazione
estensiva o "evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto norma
eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi
pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme –quali
l’art. 2 della legge 05.11.1971, n. 1086 e l’art. 17 della legge 02.02.1974,
n. 64– che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone
sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze
professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa
professionale.
Ne consegue che, qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto
una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto
anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando
la progettazione –richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in
cemento armato– sia riservata alla competenza degli ingegneri. Ed è anche
pacifico che, a norma dell'art. 2231 c.c., quando l'esercizio di un'attività
professionale è condizionato all'iscrizione in un albo o elenco, la
prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il
pagamento del compenso, onde, in tali ipotesi, non può ritenersi esperibile
neppure l'azione generale di arricchimento di cui all'art. 2041 c.c. (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 21.03.2022 n.
9072). |
COMPETENZE PROGETTUALI: La
categoria del «progetto architettonico» non ha riscontro ai
fini ed agli effetti dell'art. 16 del regolamento professionale di cui al
r.d. 11.02.1929 n. 274, in base al quale i geometri non possono redigere
progetti, sia di massima che esecutivi, di costruzioni che comportino
l'impiego di conglomerati cementizi, semplici o armati, in strutture
statiche e portanti.
La competenza dei geometri è limitata alla
progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con
esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture
in cemento armato, mentre„ in via d'eccezione, si estende anche a queste
strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo
alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o
destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni
di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le
persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni
civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato.
Ne deriva che, "qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una
costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche
relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la
progettazione -richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in cemento
armato- sia riservata alla competenza degli ingegneri".
---------------
Il giudice di appello ha ritenuto di dover
escludere tale nullità sul rilievo che, nel caso di specie, "l'attività
dei professionisti si è incentrata esclusivamente sulla progettazione
architettonica di un immobile da adibire a civile abitazione,
sull'ottenimento delle relative autorizzazioni paesaggistico-ambientali,
sulle pratiche edilizie, sull'autorizzazione sismica
rilasciata a seguito della presentazione di calcoli antisismici ai sensi
della legge 66/1974-d.lgs. 380/2001, non avendo, al contrario, mai
avuto ad oggetto la progettazione strutturale dell'opera".
Così argomentando, tuttavia, la sentenza impugnata non ha
considerato che "la categoria del «progetto architettonico» non
ha riscontro, ai fini di causa, nella legge e nella giurisprudenza delle
sezioni civili di questa Corte, la quale ha sempre affermato che i geometri, ai sensi dell'art. 16
del regolamento professionale di cui al r.d. 11.02.1929 n. 274,
non possono redigere progetti, sia di massima che esecutivi, di
costruzioni che comportino l'impiego di conglomerati cementizi,
semplici o armati, in strutture statiche e portanti".
La Corte, inoltre, neppure ha chiarito in cosa si sia
sostanziata la successiva attività di "progettazione strutturale" (e
da chi sia stata svolta), ovvero se essa abbia messo capo ad un
autonomo progetto e, eventualmente, da chi lo stesso sia stato
firmato. Circostanze, ambedue, di grande rilievo, posto che, da un
lato, "l'eventuale successivo intervento, nella fase esecutiva ed in
quella della direzione dei lavori di un tecnico di livello superiore a
quello del redattore del progetto originario, non può valere a sanare
ex post la nullità per violazione di norme imperative, del contratto
d'opera professionale, da valutarsi con esclusivo riferimento al
momento genetico del rapporto", così come, dall'altro, non idonea ad assicurare il rispetto
della suddetta normativa imperativa è la circostanza che "un
progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un
ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in cemento
armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì
titolare della progettazione, trattandosi di competenze
inderogabilmente affidate dal committente al professionista
abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano
le relative responsabilità".
D'altra parte, la sentenza impugnata non sembra attribuire
adeguato rilievo al fatto che l'attività edilizia in questione risulti
avvenuta in zona sismica, circostanza che di per sé comporta il
"conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla
normativa di cui alla legge n. 64 del 1974, la quale impone calcoli
complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri".
Il terzo motivo di ricorso deve essere, pertanto, accolto,
nei termini appena indicati, cassando in relazione la sentenza impugnata,
con rinvio alla Corte di Appello perché decida
nel merito, alla stregua del seguente principio di diritto:
"la categoria del «progetto architettonico» non ha
riscontro ai fini ed agli effetti dell'art. 16 del regolamento professionale
di cui al r.d. 11.02.1929 n. 274, in base al quale i geometri non possono
redigere progetti, sia di massima che esecutivi, di costruzioni che
comportino l'impiego di conglomerati cementizi, semplici o armati, in
strutture statiche e portanti".
---------------
5.3. Il terzo motivo, invece, è fondato, nei termini di seguito
indicati.
5.3.1. Non è, infatti, corretto l'assunto con cui la Corte perugina
ha escluso la nullità del contratto per cui è causa, derivante dalla
violazione dell'art. 1 del regio decreto 16.11.1939, n. 2229
(norma applicabile, "ratione temporis", alla presente fattispecie,
risultando il contratto "de quo" stipulato prima che tale norma fosse
abrogata dal decreto legislativo 13.12.2010, n. 212, "atteso
che la menzionata abrogazione, comportando l'introduzione di una
disciplina innovativa e non già interpretativa della normativa
previgente, non ha prodotto effetti retroattivi idonei ad incidere
sulla qualificazione degli atti compiuti prima della sua entrata in
vigore e non ha, dunque, influito sulla invalidità del contratto,
regolata dalla legge del tempo in cui lo stesso è stato concluso";
cfr., da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 12.11.2019, n. 29227, Rv.
656184-01; nello stesso senso già Cass. Sez. 2, sent. 30.08.2013, n. 19989; Rv. 627757-01).
Sul punto, invero, occorre muovere dalla constatazione che la
previsione normativa suddetta va coordinata con quella di cui
all'art. 16, comma 1, lett. m), del regio decreto 11.02.1929,
n. 274, secondo cui "la competenza dei geometri è limitata alla
progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili,
con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre„ in via d'eccezione, si
estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del
medesimo articolo, solo con riguardo alle piccole costruzioni
accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie
agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che
per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone,
essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni
civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato".
Ne deriva che, "qualora il rapporto professionale abbia avuto ad
oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il
contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un
geometra, quando la progettazione -richiedendo l'adozione anche
parziale dei calcoli in cemento armato- sia riservata alla
competenza degli ingegneri" (così, da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 08.01.2021, n. 100, Rv. 659984-01).
5.3.2. Ciò premesso, il giudice di appello ha ritenuto di dover
escludere tale nullità sul rilievo che, nel caso di specie, "l'attività
dei professionisti si è incentrata esclusivamente sulla progettazione
architettonica di un immobile da adibire a civile abitazione,
sull'ottenimento delle relative autorizzazioni paesaggistico-ambientali,
sulle pratiche edilizie, sull'autorizzazione sismica
rilasciata a seguito della presentazione di calcoli antisismici ai sensi
della legge 66/1974-d.lgs. 380/2001, non avendo, al contrario, mai
avuto ad oggetto la progettazione strutturale dell'opera".
Così argomentando, tuttavia, la sentenza impugnata non ha
considerato che "la categoria del «progetto architettonico» non ha
riscontro, ai fini di causa, nella legge e nella giurisprudenza delle
sezioni civili di questa Corte, la quale ha sempre affermato (cfr.
sentenze di questa Corte n. 3262 del 1979 e 286 del 1984, non
recenti, ma mai contraddette) che i geometri, ai sensi dell'art. 16
del regolamento professionale di cui al r.d. 11.02.1929 n. 274,
non possono redigere progetti, sia di massima che esecutivi, di
costruzioni che comportino l'impiego di conglomerati cementizi,
semplici o armati, in strutture statiche e portanti" (così, in
motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 05.11.2004, n. 21185, Rv.
577961-01; si veda anche Cass. Sez. 2, sent. 07.09.2009, n.
19229, Rv. 609967-01, che nega, del pari, rilievo anche alla
nozione di "progetto di massima").
La Corte perugina, inoltre, neppure ha chiarito in cosa si sia
sostanziata la successiva attività di "progettazione strutturale" (e
da chi sia stata svolta), ovvero se essa abbia messo capo ad un
autonomo progetto e, eventualmente, da chi lo stesso sia stato
firmato. Circostanze, ambedue, di grande rilievo, posto che, da un
lato, "l'eventuale successivo intervento, nella fase esecutiva ed in
quella della direzione dei lavori di un tecnico di livello superiore a
quello del redattore del progetto originario, non può valere a sanare
ex post la nullità per violazione di norme imperative, del contratto
d'opera professionale, da valutarsi con esclusivo riferimento al
momento genetico del rapporto" (Cass. Sez. 2, sent. n. 19229 del
2009, cit.), così come, dall'altro, non idonea ad assicurare il rispetto
della suddetta normativa imperativa è la circostanza che "un
progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un
ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in cemento
armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì
titolare della progettazione, trattandosi di competenze
inderogabilmente affidate dal committente al professionista
abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano
le relative responsabilità" (Cass. Sez. 2, ord. n. 100 del 2021, cit.).
D'altra parte, la sentenza impugnata non sembra attribuire
adeguato rilievo al fatto che l'attività edilizia in questione risulti
avvenuta in zona sismica, circostanza che di per sé comporta il
"conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla
normativa di cui alla legge n. 64 del 1974, la quale impone calcoli
complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri"
(da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 2, sient. 08.03.2017, n.
5871, Rv. 643365-01; nello stesso senso Cass. Sez. 2, sent. 08.04.2009, n. 8543, Rv. 607639-01).
5.3.3. Il terzo motivo di ricorso deve essere, pertanto, accolto,
nei termini appena indicati, cassando in relazione la sentenza impugnata,
con rinvio alla Corte di Appello di Perugia perché decida nel merito, alla
stregua del seguente principio di diritto:
"la categoria del «progetto architettonico» non ha
riscontro ai fini ed agli effetti dell'art. 16 del regolamento professionale
di cui al r.d. 11.02.1929 n. 274, in base al quale i geometri non possono
redigere progetti, sia di massima che esecutivi, di costruzioni che
comportino l'impiego di conglomerati cementizi, semplici o armati, in
strutture statiche e portanti" (Corte
di Cassazione, Sez. III civile,
ordinanza
10.12.2021 n. 39230). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Con
riferimento alla sottoscrizione dell'offerta tecnica, consistente in
migliorie da apportarsi al progetto esecutivo, da parte di un architetto
piuttosto che di un ingegnere, trattandosi di opere idrauliche di competenza
esclusiva di tale ultima categoria professionale, la stessa risulta
illegittima tale da imporre alla stazione appaltante l'esclusione della
concorrente poi divenuta aggiudicataria, senza alcuna possibilità di
soccorso istruttorio, trattandosi di criticità direttamente inerenti
all'offerta.
Invero,
il riparto di competenze fra la professione di architetto e quella di
ingegnere è stabilito ex lege in modo vincolante, non
potendo neppure essere derogato –afferendo alla qualificazione funzionale
delle diverse categorie professionali– dalla lex specialis di gara, peraltro nel caso di specie
del tutto <<neutrale>> attesa la formulazione letterale della relativa
disposizione (sopra cit.), di talché giova osservare, sotto un primo e generale
profilo, che la categoria di
opere previste dalla lex specialis coincida con la OG8 (i.e., «Opere
fluviali, di difesa, di sistemazione idraulica e di bonifica»), quindi afferisca all’evidenza a opere che non rientrano nella nozione di «edilizia
civile» di cui all’art. 52, comma 1, r.d. n. 2537 del 1925 (a tenore del
quale «Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella
di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le
operazioni di estimo ad esse relative»), e che esulano pertanto dalla
competenza degli architetti.
Sicché la categoria OG8, considerata sul piano astratto, insomma,
già esula dalle lavorazioni di edilizia civile ricadenti nella “competenza
concorrente” di architetto e ingegnere.
La costante giurisprudenza del Consiglio di Stato riconosce, in coerenza con
quanto appena osservato, che <<Il R.D. 23.10.1925 n. 2537 recante il
regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere esclude per via
degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la possibilità che un
architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad
opere idrauliche>>.
In definitiva, la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche,
che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, è di
pertinenza degli ingegneri, in base all’interpretazione letterale,
sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D..
...
Priva di pregio l’argomentazione spesa in senso contrario secondo la quale, non trattandosi di appalto integrato, ai
concorrenti veniva richiesta non già l’elaborazione di un nuovo progetto, ma
solo l’inserimento di elementi migliorativi od aggiuntivi ad un progetto
esecutivo già redatto dalla stazione appaltante e posto a base di gara, con
conseguente possibilità che l’offerta tecnica, concernente proposte
migliorative e non varianti, fosse sottoscritta da un architetto.
A prescindere dalla configurazione come vere e proprie varianti ovvero mere
migliorie, il dato incontrovertibile attiene all’incidenza oggettiva della
tipologia di lavorazione prospettata, afferente la progettazione di opere
idrauliche prive di connessione con attività di edilizia civile e pertanto
esulanti dalla competenza degli architetti.
In tal senso è stato affermato
che <<non è tanto l'incisività della proposta migliorativa, ossia la
capacità della stessa di modificare l'originario progetto esecutivo, a
costituire il criterio di individuazione della categoria professionale di
appartenenza del tecnico redattore competente -tra l'altro, una variante
sostanziale al progetto esecutivo non sarebbe nemmeno configurabile in
termini di proposta migliorativa- quanto l'oggetto specifico di tale
attività professionale, a prescindere dagli effetti modificativi che il
contributo del tecnico possa determinare sull'assetto progettuale delle
opere oggetto di affidamento; in altri termini, non conta se e quanto le
proposte migliorative redatte dall'architetto fossero modificative del
progetto esecutivo posto a base di gara, essendo rilevante piuttosto che
qualsiasi contributo di natura tecnico progettuale fosse oggetto di
elaborazione di un tecnico qualificato come competente, ossia un ingegnere>>.
---------------
6. – Ciò posto, è fondato il primo motivo del ricorso
principale, incentrato sull’incompetenza dell’architetto che ha sottoscritto
l’offerta tecnica presentata dall’aggiudicataria.
6.1. – Premesso che il riparto di competenze fra la professione di
architetto e quella di ingegnere è stabilito ex lege in modo vincolante, non
potendo neppure essere derogato –afferendo alla qualificazione funzionale
delle diverse categorie professionali– dalla lex specialis di gara (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 15.12.2020, n. 8027), peraltro nel caso di specie
del tutto <<neutrale>> attesa la formulazione letterale della relativa
disposizione (sopra cit.), giova osservare, sotto un primo e generale
profilo, giustamente valorizzato da parte ricorrente, che la categoria di
opere previste dalla lex specialis coincida con la OG8 (i.e., «Opere
fluviali, di difesa, di sistemazione idraulica e di bonifica»), quindi afferisca all’evidenza a opere che non rientrano nella nozione di «edilizia
civile» di cui all’art. 52, comma 1, r.d. n. 2537 del 1925 (a tenore del
quale «Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella
di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le
operazioni di estimo ad esse relative»), e che esulano pertanto dalla
competenza degli architetti (Cons. St., Sez. V, 22.07.2021, n. 5510).
6.1.1. – Sicché la categoria OG8, considerata sul piano astratto, insomma,
già esula dalle lavorazioni di edilizia civile ricadenti nella “competenza
concorrente” di architetto e ingegnere.
La costante giurisprudenza del Consiglio di Stato riconosce, in coerenza con
quanto appena osservato, che <<Il R.D. 23.10.1925 n. 2537 recante il
regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere esclude per via
degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la possibilità che un
architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad
opere idrauliche>> (Cons. Stato, Sez. V, 19.05.2016 n. 2095; Cons.
Stato, Sez. V, 21.11.2018, n. 6593; cfr. anche Id., III, 01.07.2020, n. 4208).
In definitiva, la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche,
che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, è di
pertinenza degli ingegneri, in base all’interpretazione letterale,
sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D. (cfr. già Cons.
Stato, Sez. IV, 22.05.2000, n. 2938; id., Sez. V, 06.04.1998, n. 416; id., Sez. IV, 19.02.1990, n. 92).
6.1.2. – Tale conclusione non muta, ma anzi è avvalorata, laddove (lungi dal
far riferimento unicamente alla tipologia dell’opera nel suo complesso come
genericamente descritta dall’attestazione SOA) si prendano in
considerazione, come necessario, le proposte migliorative in concreto
articolate dall’aggiudicataria.
Si consideri, in chiave puramente esemplificativa, la miglioria A1.5
<<Protezione dell’alveo con graticciate per il contenimento del terreno a
monte delle gabbionate>>, di per sé involgente opera idraulica, ovvero il
semplice tenore letterale della miglioria A1.8 <<Sistemazione idraulica di
tratto aggiuntivo>>, ovvero ancora la miglioria A3.1 <<Realizzazione di
briglie nei tratti con maggiore pendenza e a rischio erosione>> (con la
quale si propone di realizzare delle briglie aggiuntive nei tratti
dell'alveo caratterizzati da maggiore pendenza e nei tratti immediatamente
precedenti alle anse più strette).
Trattasi, come evidente sulla base della mera descrizione delle singole
proposte, di lavorazioni attinenti alla materia idraulica e del tutto prive
di connessioni con il concetto di edilizia civile di cui al richiamato art.
52 del stesso regio decreto n. 2537 del 1925, pur se estensivamente
interpretato alla luce della giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sez.
VI, 15.03.2013 n. 1550: <<si può affermare che il concetto di ‘opere di
edilizia civile’ si estenda sicuramente oltre gli ambiti più specificamente
strutturali, fino a ricomprendere l’intero complesso degli impianti
tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti
idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell’edificazione>>).
6.2. – Priva di pregio l’argomentazione spesa in senso contrario dalla Ba.Ho. s.r.l., secondo la quale, non trattandosi di appalto integrato, ai
concorrenti veniva richiesta non già l’elaborazione di un nuovo progetto, ma
solo l’inserimento di elementi migliorativi od aggiuntivi ad un progetto
esecutivo già redatto dalla stazione appaltante e posto a base di gara, con
conseguente possibilità che l’offerta tecnica, concernente proposte
migliorative e non varianti, fosse sottoscritta da un architetto.
A prescindere dalla configurazione come vere e proprie varianti ovvero mere
migliorie, il dato incontrovertibile attiene all’incidenza oggettiva della
tipologia di lavorazione prospettata, afferente la progettazione di opere
idrauliche prive di connessione con attività di edilizia civile e pertanto
esulanti dalla competenza degli architetti.
In tal senso è stato affermato
che <<non è tanto l'incisività della proposta migliorativa, ossia la
capacità della stessa di modificare l'originario progetto esecutivo, a
costituire il criterio di individuazione della categoria professionale di
appartenenza del tecnico redattore competente -tra l'altro, una variante
sostanziale al progetto esecutivo non sarebbe nemmeno configurabile in
termini di proposta migliorativa- quanto l'oggetto specifico di tale
attività professionale, a prescindere dagli effetti modificativi che il
contributo del tecnico possa determinare sull'assetto progettuale delle
opere oggetto di affidamento; in altri termini, non conta se e quanto le
proposte migliorative redatte dall'architetto Co. fossero modificative del
progetto esecutivo posto a base di gara, essendo rilevante piuttosto che
qualsiasi contributo di natura tecnico progettuale fosse oggetto di
elaborazione di un tecnico qualificato come competente, ossia un ingegnere>>
(TAR Campania, Napoli, sez. I, 03.05.2017, n. 2329).
6.3. – È fondato, conclusivamente, il primo motivo di impugnazione, con
riferimento alla sottoscrizione dell'offerta tecnica, consistente in
migliorie da apportarsi al progetto esecutivo, da parte di un architetto
piuttosto che di un ingegnere, trattandosi di opere idrauliche di competenza
esclusiva di tale ultima categoria professionale. Tale profilo di
illegittimità avrebbe dovuto imporre alla stazione appaltante l'esclusione
della concorrente poi divenuta aggiudicataria, senza alcuna possibilità di
soccorso istruttorio, trattandosi di criticità direttamente inerenti
all'offerta (Consiglio di Stato, sez. V, 21.11.2018, n. 6593) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 08.10.2021 n. 2113 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: In
termini generali, il riparto di competenze professionali fra architetti e
ingegneri è regolato, in termini vincolanti, dal r.d. n. 2537 del 1925, in
particolare dagli artt. 51 , 52 e 54, non superati dal d.P.R. n. 328 del
2001 (recante Modifiche ed integrazioni della disciplina dei requisiti per
l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove per l’esercizio di
talune professioni, nonché della disciplina dei relativi ordinamenti,
incluse le professioni di ingegnere ed architetto ex art. 1), anche alla
luce dei richiami di cui ai relativi artt. 16, comma 1, e 46, comma 2, che
lasciano ferme «le riserve e le attribuzioni già stabilite dalla vigente
normativa».
Il riparto di competenze fra l’una e l’altra professione è dunque stabilito
ex lege in modo vincolante, non potendo neppure essere derogato -afferendo
alla qualificazione funzionale delle diverse categorie professionali- dalla
lex specialis di gara.
In tale contesto, la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
riconosce, in chiave generale, che “la progettazione delle opere viarie,
idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli
fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri, in base all’interpretazione
letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D.”.
In questa prospettiva, “nello stabilire l’ampiezza delle competenze
riconosciute, rispettivamente, agli ingegneri e agli architetti ai sensi del
combinato disposto degli articoli 51 e 52 dello stesso regio decreto n. 2537
del 1925, la giurisprudenza ha confermato l’orientamento tradizionale, in
ordine alla ricomprensione nell’esclusivo appannaggio della professione di
ingegnere delle opere di carattere più marcatamente tecnico-scientifico”,
fra cui quelle “di ingegneria idraulica, di ammodernamento e ampliamento
della rete idrica comunale”.
Alla luce del riparto di competenze così tracciato, in relazione alle opere
esulanti dall’ambito funzionale dell’architetto quest’ultimo non è abilitato
alla sottoscrizione di documenti tecnici neppure se relativi a proposte
progettuali migliorative o varianti.
D’altra parte, solo in presenza di opere rigorosamente accessorie a quelle
edili è ammissibile un’abilitazione estensiva in capo al professionista
architetto, atteso che “il concetto di ‘opere di edilizia civile’ si estend[e]
sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a
ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici” se “a corredo
del fabbricato”; occorre quindi che vi sia un nesso di precipua accessorietà
fra l’intervento e l’edificio, e cioè che il primo risulti “strettamente
servente un’opera di edilizia civile” per poter rientrare nel perimetro di
competenza (anche) dell’architetto.
Alla luce di ciò, questa V Sezione ha affermato chiaramente che “Il r.d.
23.10.1925 n. 2537 recante il regolamento delle professioni di architetto e
di ingegnere esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi
interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo di un
ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche".
Allo stesso modo, s’è affermato come “la progettazione delle opere viarie,
idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli
fabbricati, sia di pertinenza degli ingegneri, alla luce delle disposizioni
di cui agli artt. 51, 52 e 54 r.d. 23.10.1925, n. 2537. Infatti, il
discrimine tra le professioni di ingegnere e di architetto è rimasto segnato
anche nelle sopravvenute disposizioni del d.P.R. n. 328 cit.; pertanto, se
adeguamenti sono certamente possibili in riferimento al concetto di
‘edilizia civile’, interpretabile estensivamente, restano di pertinenza
della professione di ingegnere le opere che richiedono una competenza
tecnica specifica e che esulano dall’edilizia civile rientrante nella comune
competenza. In particolare, le opere idrauliche, specialmente se
interferenti con fiumi e corsi d’acqua, richiedono capacità professionali
per l’analisi dei fenomeni idrologici ed idraulici e presuppongono
l’applicazione di specifici metodi di calcolo (statistico, idrologico e
idraulico); per contro, gli architetti non possono essere compresi tra i
soggetti abilitati alla progettazione di opere idrauliche in quanto, sia ai
sensi degli artt. 51 e 52 r.d. 23.10.1925, n. 2537, che ai sensi dell’art.
16 d.P.R. 05.06.2001, n. 328, non hanno competenze riconosciute in materia".
---------------
4. Col terzo motivo l’appellante censura la sentenza nella parte in
cui ha accolto il primo motivo di ricorso principale in primo grado.
Deduce al riguardo la De.Co. che le opere oggetto di affidamento ben
rientrano nelle competenze del professionista architetto, cui compete
l’intero ambito dell’edilizia civile; peraltro nel caso di specie non è
prevista alcuna attività di progettazione esecutiva, bensì la mera
presentazione di migliorie, varianti od opere aggiuntive, sicché le
competenze dell’architetto risultano ben conformi ed appropriate alle opere
previste.
A ciò si aggiunga che gli interventi programmati coincidono con opere di
mitigazione del rischio frane a protezione degli edifici a monte
dell’abitato, e ben rientrano perciò nel perimetro di competenza (anche)
degli architetti ai sensi dell’art. 52 r.d. n. 2537 del 1925; né rilevano al
riguardo le categorie Soa di pertinenza (i.e., OG8 e OS21) che
riguardano piuttosto l’opera nel suo complesso.
In tale contesto, la riqualificazione degli interventi nel senso che essi
non rientrerebbero fra le opere di edilizia civile riconducibili alle
competenze (anche) del professionista architetto costituisce un vulnus allo
spazio riservato alla valutazione discrezionale della stazione appaltante.
4.1. Col quarto motivo l’appellante prosegue nel dolersi
dell’accoglimento del primo motivo di ricorso principale deducendo che, in
ogni caso, il professionista firmatario dei documenti d’offerta è nella
specie in possesso di laurea in “Architettura e Ingegneria Edile”
(cod. “4/S”), che lascia libero il titolare di scegliere a quale dei due
ordini professionali iscriversi.
Al riguardo la “abilitazione” richiamata dal disciplinare di gara è
da ritenersi connessa alla competenza professionale posseduta, non già
all’iscrizione a un albo piuttosto che a un altro; e d’altra parte l’art. 16
d.P.R. n. 328 del 2001 elenca fra le competenze dell’architetto iscritto al
“settore architettura” -qual è il professionista firmatario dei
documenti della De.Co.- anche attività di collaborazione rispetto a quelle
di progettazione di opere edilizie, comprese le opere pubbliche, così
includendovi senz’altro gli interventi oggetto dell’affidamento controverso.
4.2. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per ragioni di
connessione, sono infondati.
4.2.1. In termini generali, il riparto di competenze professionali fra
architetti e ingegneri è regolato, in termini vincolanti, dal r.d. n. 2537
del 1925, in particolare dagli artt. 51 , 52 e 54, non superati dal d.P.R.
n. 328 del 2001 (recante Modifiche ed integrazioni della disciplina dei
requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove per
l’esercizio di talune professioni, nonché della disciplina dei relativi
ordinamenti, incluse le professioni di ingegnere ed architetto ex art. 1),
anche alla luce dei richiami di cui ai relativi artt. 16, comma 1, e 46,
comma 2, che lasciano ferme «le riserve e le attribuzioni già stabilite
dalla vigente normativa» (cfr., inter multis, Cons. Stato, V,
11.02.2021, n. 1255; 17.07.2019, n. 5012).
Il riparto di competenze fra l’una e l’altra professione è dunque stabilito
ex lege in modo vincolante, non potendo neppure essere derogato
-afferendo alla qualificazione funzionale delle diverse categorie
professionali- dalla lex specialis di gara (cfr. Cons. Stato, V,
15.12.2020, n. 8027).
In tale contesto, la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
riconosce, in chiave generale, che “la progettazione delle opere viarie,
idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli
fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri, in base all’interpretazione
letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D. (cfr.
Cons. Stato, IV, 22.05.2000, n. 2938; id., V, 06.04.1998, n. 416; id., IV,
19.02.1990, n. 92)” (Cons. Stato, n. 5012 del 2019, cit.).
In questa prospettiva, “nello stabilire l’ampiezza delle competenze
riconosciute, rispettivamente, agli ingegneri e agli architetti ai sensi del
combinato disposto degli articoli 51 e 52 dello stesso regio decreto n. 2537
del 1925, la giurisprudenza ha confermato l’orientamento tradizionale, in
ordine alla ricomprensione nell’esclusivo appannaggio della professione di
ingegnere delle opere di carattere più marcatamente tecnico-scientifico”,
fra cui quelle “di ingegneria idraulica, di ammodernamento e ampliamento
della rete idrica comunale” (cfr. Cons. Stato, V, 27.09.2018, n. 6552;
VI, 15.03.2013, n. 1550).
Alla luce del riparto di competenze così tracciato, in relazione alle opere
esulanti dall’ambito funzionale dell’architetto quest’ultimo non è abilitato
alla sottoscrizione di documenti tecnici neppure se relativi a proposte
progettuali migliorative o varianti (cfr. Cons. Stato, n. 1255 del 2021, cit.).
D’altra parte, solo in presenza di opere rigorosamente accessorie a quelle
edili è ammissibile un’abilitazione estensiva in capo al professionista
architetto (Cons. Stato, V, 12.03.2015, n. 1692; n. 1255 del 2021, cit.),
atteso che “il concetto di ‘opere di edilizia civile’ si estend[e]
sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a
ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici” se “a corredo
del fabbricato” (Cons. Stato, n. 1550 del 2013, cit.; n. 6552 del 2018, cit.);
occorre quindi che vi sia un nesso di precipua accessorietà fra l’intervento
e l’edificio, e cioè che il primo risulti “strettamente servente un’opera di
edilizia civile” per poter rientrare nel perimetro di competenza (anche)
dell’architetto (Cons. Stato, n. 1692 del 2015, cit.).
Alla luce di ciò, questa V Sezione ha affermato chiaramente che “Il r.d.
23.10.1925 n. 2537 recante il regolamento delle professioni di architetto e
di ingegnere esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi
interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo di un
ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche" (Cons. Stato,
V, 19.05.2016 n. 2095).
Allo stesso modo, s’è affermato come “la progettazione delle opere
viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i
singoli fabbricati, sia di pertinenza degli ingegneri, alla luce delle
disposizioni di cui agli artt. 51, 52 e 54 r.d. 23.10.1925, n. 2537.
Infatti, il discrimine tra le professioni di ingegnere e di architetto è
rimasto segnato anche nelle sopravvenute disposizioni del d.P.R. n. 328 cit.;
pertanto, se adeguamenti sono certamente possibili in riferimento al
concetto di ‘edilizia civile’, interpretabile estensivamente, restano di
pertinenza della professione di ingegnere le opere che richiedono una
competenza tecnica specifica e che esulano dall’edilizia civile rientrante
nella comune competenza. In particolare, le opere idrauliche, specialmente
se interferenti con fiumi e corsi d’acqua, richiedono capacità professionali
per l’analisi dei fenomeni idrologici ed idraulici e presuppongono
l’applicazione di specifici metodi di calcolo (statistico, idrologico e
idraulico); per contro, gli architetti non possono essere compresi tra i
soggetti abilitati alla progettazione di opere idrauliche in quanto, sia ai
sensi degli artt. 51 e 52 r.d. 23.10.1925, n. 2537, che ai sensi dell’art.
16 d.P.R. 05.06.2001, n. 328, non hanno competenze riconosciute in materia"
(Cons. Stato, V, 21.11.2018, n. 6593; cfr. anche Id., III, 01.07.2020, n.
4208).
4.2.2. Facendo applicazione dei suesposti principi alla caso in esame, va
escluso che possa ravvisarsi nella specie una competenza in capo al
professionista architetto per le opere oggetto dell’affidamento.
4.2.2.1. Va premesso anzitutto che lo stesso disciplinare di gara
richiedeva, all’art. 16, che la documentazione d’offerta fosse sottoscritta
da “tecnici abilitati”, quali “ingegneri, architetti, geometri”
o altri, “per le rispettive competenze”.
4.2.2.2. In tale contesto, sotto un primo generale profilo, va rilevato come
le categorie di opere previste dalla lex specialis coincidano con la
OG8 (i.e., «Opere fluviali, di difesa, di sistemazione idraulica e
di bonifica») e la OS21 («Opere strutturali speciali», categoria
cd. “super-specialistica” che afferisce alla «costruzione di opere
destinate a trasferire i carichi di manufatti poggianti su terreni non
idonei a reggere i carichi stessi, di opere destinate a conferire ai terreni
caratteristiche di resistenza e di indeformabilità tali da rendere stabili
l’imposta dei manufatti e da prevenire dissesti geologici, di opere per
rendere antisismiche le strutture esistenti e funzionanti»).
Trattasi all’evidenza di opere che non rientrano nella nozione di «edilizia
civile» di cui all’art. 52, comma 1, r.d. n. 2537 del 1925 (a tenore del
quale «Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di
quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi
geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative»), e che esulano
pertanto dalla competenza degli architetti.
4.2.2.3. D’altra parte, le opere migliorative su cui la sentenza si sofferma
evidenziandone la eccentricità rispetto agli interventi di competenza degli
architetti si collocano effettivamente al di fuori delle opere di edilizia
civile ex art. 52 r.d. n. 2537 del 1925, né configurano opere accessorie o
strumentali a edifici civili; si tratta, piuttosto, di opere di carattere
essenzialmente idraulico quali
- la “Realizzazione di dreni sub orizzontali”, di cui al
capitolo 2/18 della relazione tecnica (“Si offre la realizzazione di
dreni sub orizzontali tra i pali in numero di 64 per una lunghezza di 6.00.
L’offerta prevede la perforazione e la posa in opera di tubo dreno del
diametro di 125 mm avvolto in uno speciale tessuto che ne garantisce
l’efficienza nel tempo”), oppure
- l’opera aggiuntiva consistente nella “Realizzazione canaletta
in trenchmat a valle della paratia”, sub capitolo 4/18 (“La canaletta
che verrà eseguita con tecniche di ingegneria naturalistica raccoglierà
tutte le acque di drenaggio a tergo della paratia per convogliarle alla
tubazione anch’essa offerta come ulteriore proposta migliorativa. La
canaletta è costituita da una geogriglia tridimensionale ottenuta per
l’accoppiamento di uno strato impermeabile inferiore ed una geogriglia
superiore che evita l’erosione del terreno. Per la stabilizzazione del telo
è prevista la posa in opera di pali di castagno nella sezione trasversale e
longitudinale […]”).
Lo stesso è a dirsi per opere aggiuntive quali
- la “Realizzazione sistema di smaltimento delle acque di
drenaggio” (sub capitolo 5/18), coincidenti con la “realizzazione di
una condotta in polietilene da 315 mm SN8 lunga 140 m che, percorrendo la
strada vicinale Fontaniello, recapita le acque dei drenaggi posti alle varie
quote, per sversarli nel canale a valle dell’area d’intervento”; o
- la “Realizzazione canaletta in trenchmat a monte della terra
rinforzata” (sub capitolo 7/18), consistente anch’essa in una “canaletta
che verrà eseguita con tecniche di ingegneria naturalistica raccoglierà
tutte le acque di drenaggio superficiali che sul versante raggiungeranno la
terra rinforzata. La canaletta è costituita da una geogriglia
tridimensionale ottenuta per l’accoppiamento di uno strato impermeabile
inferiore ed una geogriglia superiore che evita l’erosione del terreno. Per
la stabilizzazione del telo è prevista la posa in opera di pali di castagno
nella sezione trasversale e longitudinale […]”.
Si tratta all’evidenza di opere nient’affatto riconducibili all’edilizia
civile, e che neppure risultano di carattere accessorio rispetto ad edifici
civili.
Né una siffatta valutazione impinge del resto nella sfera di giudizio
tecnico-discrezionale rimessa alla competenza della stazione appaltante,
afferendo piuttosto alla cognizione dei profili di riparto funzionale
secundum legem fra le varie figure professionali a norma del r.d. n.
2537 del 1925, così come interpretato e applicato dalla costante
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato.
Allo stesso modo, non assume rilievo di per sé la circostanza che il
progetto esecutivo risultasse nella specie predisposto dall’amministrazione,
atteso che -come già posto in risalto (retro, sub § 4.2.1)- neppure le
singole varianti o proposte migliorative possono essere sottoscritte dal
professionista non legittimato ratione materiae (cfr. Cons. Stato, n.
1255 del 2021, cit.; n. 6552 del 2018, cit.).
Né ancora può rilevare che lo scopo ultimo degli interventi fosse quello di
assicurare la stabilità di edifici, atteso che tale rilievo, di carattere
meramente finalistico, non vale a qualificare l’intervento -avente un
diverso e ben definito oggetto strutturale- alla stregua di “edilizia
civile”.
4.2.3. In tale contesto, a diversa conclusione non conduce neanche il
richiamo alla circostanza che il professionista firmatario dei documenti
fosse in possesso di laurea in “Architettura e Ingegneria Edile” sub
cod. “4/S”, che prevede insegnamenti anche in materia ingegneristica
consentendo l’iscrizione all’uno o all’altro albo professionale.
Come correttamente rilevato dalla sentenza, infatti, i documenti d’offerta
andavano sottoscritti da professionisti abilitati allo svolgimento della
professione riservata, non rilevando al riguardo il solo possesso del
diploma di laurea, ancorché in materie pertinenti all’oggetto
dell’affidamento: nel caso di specie, il professionista firmatario non
risulta abilitato alla professione d’ingegnere né iscritto al relativo albo,
e il che è sufficiente all’esclusione dell’offerta per mancata
sottoscrizione dei relativi documenti da un professionista all’uopo
abilitato.
Allo stesso modo, non valgono a superare le previsioni di legge relative al
riparto di competenze fra architetti e ingegneri le solo esperienze
professionali nel settore concretamente sviluppate dal singolo
professionista.
Quanto al richiamo delle previsioni dell’art. 16 d.P.R. n. 238 del 2001 in
ordine alle competenze dell’architetto iscritto al “settore architettura”,
queste non valgono a superare il riparto funzionale fra ingegneri e
architetti come sopra ricostruito sulla base della vigente normativa, e
dunque a radicare la competenza dell’architetto per le opere qui in rilievo
pur al di fuori degli ambiti riconosciutigli dal r.d. n. 2537 del 1925.
Per tali ragioni, entrambi i motivi di doglianza risultano infondati.
5. In conclusione, per i suesposti motivi l’appello è infondato e va
respinto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.07.2021 n. 5510 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Secondo
la comune interpretazione offerta dalla giurisprudenza in tema di competenza
dei geometri alla progettazione di strade, agli stessi non è preclusa
l’opera professionale, ai sensi dell’art. 16, lett. b), del R.D. 11.2.1929
n. 274, nella progettazione di strade di non particolare complessità,
circostanza che si appaleserebbe (ad esempio) in caso di collegamenti di
grande lunghezza o difficoltà progettuali, per la presenza di ponti,
gallerie o grossi muri di contenimento.
---------------
13. Con il quarto motivo di ricorso i ricorrenti eccepiscono la
violazione dell'art. 16, lett. m), del R.D. 11.2.1929 n. 274, nella misura in
cui il progetto è stato sottoscritto da un geometra, anziché da un ingegnere
ovvero da un architetto.
Parte resistente replica, deducendo che, al contrario, l’opera è
riconducibile nell’alveo delle competenze professionali del geometra, ai
sensi dell’art. 16, lett. b), trattandosi di opere di collegamento di
strade, rilevando altresì la non particolare complessità dell’intervento,
anche sotto il profilo della lunghezza della strada (appena circa 600
metri).
Il Collegio non condivide la doglianza prospettata dai ricorrenti,
osservando che, secondo la comune interpretazione offerta dalla
giurisprudenza in tema di competenza dei geometri alla progettazione di
strade, agli stessi non è preclusa l’opera professionale, ai sensi dell’art.
16, lett. b), del r.d. citato, nella progettazione di strade di non
particolare complessità, circostanza che si appaleserebbe (ad esempio) in
caso di collegamenti di grande lunghezza o difficoltà progettuali, per la
presenza di ponti, gallerie o grossi muri di contenimento (v., in tal senso,
Tar Salerno, 17.11.2004, n. 2016; conf., Tar Lecce, 10.02.2006, 902).
Nella fattispecie, parte ricorrente non ha apportato particolari ed idonei
elementi probatori per fare ritenere che la progettazione dell’opera de qua
possa rientrare fra le opere di particolare complessità, come tali non
progettabili dal geometra (sugli anzidetti criteri di accertamento di tale
complessità, cfr., Consiglio di Stato, 21.02.2020, n. 1341) (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 15.07.2021 n. 1742 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Laddove
l’intervento edilizio richieda l’esecuzione di opere in cemento armato, è
quindi ben possibile affidare la progettazione e direzione dei lavori
relativi a queste ultime al tecnico in grado di eseguire i calcoli necessari
e di valutare i pericoli per la pubblica incolumità, affidando invece al
geometra l’attività di progettazione e direzione dei lavori incentrata sugli
aspetti architettonici della costruzione, purché questa possa considerarsi “modesta”
alla stregua del sopra citato art. 16 r.d. n. 274 del 1929.
Ma in tal caso “non si tratta, tuttavia, di assicurare la mera presenza di
un ingegnere progettista delle opere in cemento armato, che controfirmi o si
limiti ad eseguire i calcoli”.
Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del cemento
armato, deve pertanto essere competente a progettare e deve assumersi la
responsabilità del segmento del progetto complessivo riferito alle opere in
cemento armato, nel senso appunto che l’incarico non
può essere affidato al geometra, che si avvarrà della collaborazione
dell’ingegnere, ma deve essere sin dall’inizio affidato anche a quest’ultimo
per la parte di sua competenza e sotto la sua responsabilità.
---------------
212. Il quattordicesimo motivo concerne la violazione dell’art. 16,
comma 1, lett. m), del r.d. n. 274/1929 per essere stato il progetto redatto
e sottoscritto da un geometra, quando sono previste strutture in cemento
armato la cui progettazione e direzione è riservata agli ingegneri e
architetti.
213. Appare opportuno ricordare che l’oggetto ed i limiti dell’esercizio
professionale di geometra sono regolati dall’art. 16 del r.d. 11.02.1929, n.
274 (Regolamento per la professione di geometra), che all’attività di
progettazione, direzione e vigilanza (o sorveglianza) dedica al comma 1, le
lett. l) e m).
214. La lettera l) ricomprende l’attività di “progetto, direzione,
sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso di
industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese
piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono
particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono
comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone; nonché di
piccole opere inerenti alle aziende agrarie, come strade vicinali senza
rilevanti opere d’arte, lavori d’irrigazione e di bonifica, provvista
d’acqua per le stesse aziende e riparto della spesa per opere consorziali
relative, esclusa, comunque, la redazione di progetti generali di bonifica
idraulica ed agraria e relativa direzione.”
215. La lettera m) concerne invece l’attività di “progetto, direzione e
vigilanza di modeste costruzioni civili”.
216. Nell’ambito del quadro normativo in cui si inserisce la questione da
esaminare, rientra anche la disciplina delle opere di conglomerato
cementizio armato, normale e precompresso e a struttura metallica, contenuta
nella legge n. 1086 del 1971 (Norme per la disciplina delle opere di
conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura
metallica), confluita oggi nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) che all’art.
64, intitolato “Progettazione, direzione, esecuzione responsabilità”,
stabilisce -per quanto qui di interesse- che la costruzione delle opere di
cui all’articolo 53, comma 1 (tra cui le opere in conglomerato cementizio
armato normale), deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da
un tecnico abilitato, iscritto nel relativo albo, nei limiti delle proprie
competenze stabilite dalle leggi sugli ordini e collegi professionali e
l’esecuzione delle stesse deve aver luogo sotto la direzione di un tecnico
abilitato.
217. Inoltre, l’art. 65 del predetto T.U. n. 380/2001 in relazione alle
opere realizzate con materiali e sistemi costruttivi disciplinati dalle
norme tecniche in vigore, dispone che, prima del loro inizio, devono essere
denunciate dal costruttore allo sportello unico tramite posta elettronica
certificata (PEC) e che alla denuncia dev’essere allegato il progetto
dell’opera firmato dal progettista, dal quale risultino in modo chiaro ed
esauriente le calcolazioni eseguite, l’ubicazione, il tipo, le dimensioni
delle strutture, e quanto altro occorre per definire l’opera sia nei
riguardi dell’esecuzione sia nei riguardi della conoscenza delle condizioni
di sollecitazione, nonché una relazione illustrativa firmata dal progettista
e dal direttore dei lavori, dalla quale risultino le caratteristiche, le
qualità e le prestazioni dei materiali che verranno impiegati nella
costruzione.
218. Ovviamente il complessivo quadro regolamentare non esclude la
collaborazione fra professionisti, come riconoscono peraltro gli stessi
ricorrenti.
219. Laddove l’intervento edilizio richieda l’esecuzione di opere in cemento
armato, è quindi ben possibile affidare la progettazione e direzione dei
lavori relativi a queste ultime al tecnico in grado di eseguire i calcoli
necessari e di valutare i pericoli per la pubblica incolumità, affidando
invece al geometra l’attività di progettazione e direzione dei lavori
incentrata sugli aspetti architettonici della costruzione, purché questa
possa considerarsi “modesta” alla stregua del sopra citato art. 16 r.d. n.
274 del 1929 (cfr. Cons. Stato, Sezione II, 04.09.2015, n. 2359).
220. Ma in tal caso “non si tratta, tuttavia, di assicurare la mera
presenza di un ingegnere progettista delle opere in cemento armato, che
controfirmi o si limiti ad eseguire i calcoli (Cass. civ., Sez. II,
02.09.2011, n. 18038)” (cfr. TAR Campania, Napoli, Sezione VIII,
26.06.2020, n. 2684 e Cons. Stato, Sezione IV, 21.02.2020, n. 1341).
221. Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del cemento
armato, deve pertanto essere competente a progettare e deve assumersi la
responsabilità del segmento del progetto complessivo riferito alle opere in
cemento armato (cfr. TRGA Bolzano 13.02.2020, n. 45 con ampi richiami; TAR
Lombardia, Brescia, Sezione II, 18.04.2013, n. 361, ed implicitamente TAR
Marche, Ancona, 11.07.2013, n. 559), nel senso appunto che l’incarico non
può essere affidato al geometra, che si avvarrà della collaborazione
dell’ingegnere, ma deve essere sin dall’inizio affidato anche a quest’ultimo
per la parte di sua competenza e sotto la sua responsabilità (Cass. Civ.,
Sezione II, 30.08.2013, n. 19989) (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 29.04.2021 n. 128 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Per
consolidato intendimento, la progettazione delle opere viarie che non siano
strettamente connesse con i singoli fabbricati, è di pertinenza degli
ingegneri, in base all'interpretazione letterale, sistematica e teleologica
degli art. 51, 52 e 54, r.d. 23.10.1925, n. 2537 (Regolamento per le
professioni d'ingegnere e di architetto), in quanto le ridette previsioni
regolamentari sono espressamente mantenute in vigore dall'art. 1, d.p.r. n.
328 del 05.06.2001, oltre che dagli art. 16 (per gli architetti) e 46, comma
2 (per gli ingegneri iscritti alla sezione A), di cui allo stesso d.p.r..
In particolare,
- l’art. 51 cit. prevede che “sono di spettanza della
professione d'ingegnere il progetto, la condotta e la stima dei lavori per
estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od
indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori
relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione,
alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali,
nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le
operazioni di estimo”; e
- l’art. 54, ai commi 2 e 3, precisa che, mentre gli
ingegneri “sono autorizzati a compiere anche le mansioni indicate nell'art.
51 del presente regolamento, eccettuate le applicazioni industriali”, le
competenze dell’architetto sono espressamente escluse “per le applicazioni
industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di
comunicazione e di trasporto e alle opere idrauliche”.
Se, perciò, è ancora ammissibile (alla luce di una nozione estensiva di
“edilizia civile”) abilitare la figura professionale dell’architetto alla
sottoscrizione dei progetti relativi alla realizzazioni tecniche di
carattere rigorosamente accessorio, preordinate al mero collegamento di
opere edilizie alla viabilità ad esse strettamente servente, alcuna estensione si legittima in relazione alle “proposte
progettuali migliorative” ovvero alle “varianti” di cui all’art. 95, comma
14, e 94, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 50/2016, che, nella loro attitudine
integrativa o modificativa, sono in ogni caso accessorie all’opera viaria, e
non certamente alle opere di edilizia civile.
---------------
2.- Con il primo motivo di gravame l’appellante si duole che la
sentenza impugnata abbia disatteso la propria doglianza, con la quale aveva
lamentato che l’offerta tecnica della controinteressata Tr.To. s.r.l. era
stata sottoscritta da un architetto, non abilitato a curare la relativa
progettazione in quanto privo delle specifiche competenze richieste per il
tipo di lavorazioni poste a base di gara, secondo le prescrizioni di cui al
R.D. n. 2537 del 1925.
In particolare, si duole che il primo giudice –premessa una articolata
(quanto irrilevante) digressione in ordine alla distinzione tra i diversi
concetti di “variante” e “proposta migliorativa”– avrebbe respinto la
censura sull’assunto che le modifiche progettuali affidate alla elaborazione
dell’arch. Vi., incaricato dalla Tr.To. per la predisposizione della
offerta tecnica, attenessero, in concreto, ad opere di carattere meramente
accessorio.
2.1.- Il motivo è fondato.
Importa rammentare che il disciplinare di gara individuava, relativamente
alle opere da realizzare sulla base del progetto esecutivo validato dalla
stazione appaltante, le categorie OG3, classe II (inerente la “costruzione,
la manutenzione o la ristrutturazione di interventi a rete che siano
necessari per consentire la mobilità su gomma, ferro e aerea, qualsiasi sia
il loro grado di importanza, completi di ogni opera connessa, complementare
o accessoria”) e OS2, classe I (inerente la “costruzione di opere destinate
a trasferire i carichi di manufatti poggianti su terreni non idonei a
reggere i carichi stessi, di opere destinate a conferire ai terreni
caratteristiche di resistenza e di indeformabilità tali da rendere stabili
l’imposta dei manufatti e da prevenire dissesti geologici, di opere per
rendere antisismiche le strutture esistenti e funzionanti”).
Lo stesso disciplinare imponeva (al punto VI) la sottoscrizione, a pena di
esclusione, degli elaborati tecnici posti a corredo dell’offerta a cura di
un “tecnico abilitato”, alla luce della vigente normativa.
Ciò posto, per consolidato intendimento, la progettazione delle opere viarie
che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, è di
pertinenza degli ingegneri, in base all'interpretazione letterale,
sistematica e teleologica degli art. 51, 52 e 54, r.d. 23.10.1925, n.
2537 (Regolamento per le professioni d'ingegnere e di architetto), in quanto
le ridette previsioni regolamentari sono espressamente mantenute in vigore
dall'art. 1, d.p.r. n. 328 del 05.06.2001, oltre che dagli art. 16 (per
gli architetti) e 46, comma 2 (per gli ingegneri iscritti alla sezione A),
di cui allo stesso d.p.r. (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.12.2020, n.
8027; Id., sez. V, 17.07.2019, n. 5012).
In particolare, l’art. 51 cit. prevede che “sono di spettanza della
professione d'ingegnere il progetto, la condotta e la stima dei lavori per
estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od
indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori
relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione,
alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali,
nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le
operazioni di estimo”; e l’art. 54, ai commi 2 e 3, precisa che, mentre gli
ingegneri “sono autorizzati a compiere anche le mansioni indicate nell'art.
51 del presente regolamento, eccettuate le applicazioni industriali”, le
competenze dell’architetto sono espressamente escluse “per le applicazioni
industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di
comunicazione e di trasporto e alle opere idrauliche”.
Se, perciò, è ancora ammissibile (alla luce di una nozione estensiva di
“edilizia civile”) abilitare la figura professionale dell’architetto alla
sottoscrizione dei progetti relativi alla realizzazioni tecniche di
carattere rigorosamente accessorio, preordinate al mero collegamento di
opere edilizie alla viabilità ad esse strettamente servente (cfr. Cons.
Stato, sez. II, 12.03.2015, n. 1692/12 e Id., sez. VI, 15.03.2013, n.
1550), alcuna estensione si legittima in relazione alle “proposte
progettuali migliorative” ovvero alle “varianti” di cui all’art. 95, comma
14, e 94, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 50/2016, che, nella loro attitudine
integrativa o modificativa, sono in ogni caso accessorie all’opera viaria, e
non certamente alle opere di edilizia civile (cfr., in termini, Cons. Stato,
sez. V, 15.12.2020, n. 8027; Id., sez. V, 20.11.2018, n. 6552).
Nel caso di specie l’integrazione dell’offerta tecnica, operata da parte
appellata ed affidata all’architetto Vi., è consistita:
a) per un verso
nella “rimodulazione della progettazione della strada in ragione degli scavi
e delle sezioni reali terreno-roccia”, nonché nella “nuova progettazione
degli scavi in riferimento alle indagini geognostiche effettuate in sito […]
per i micropali a supporto dei muri di contenimento previsti in progetto a
base di appalto” (considerati inutili in quanto “tutti i muri poggia[va]no
sulla roccia”;
b) per altro verso, nella “realizzazione dei muri perimetrali
alla strada secondo la nuova progettazione”, con l’installazione di
“gabbionature rinverdite alla sommità delle scarpate”.
Si tratta, con ogni evidenza –di là dal non rilevante distinguo che ha
erroneamente orientato l’apprezzamento del primo giudice– di attività
riservata, alla luce della richiamata normativa, alla figura professionale
dell’ingegnere: il che è, di per sé, sufficiente a giustificare, in
accoglimento del formulato motivo di doglianza e con assorbimento degli
ulteriori motivi formulati, l’estromissione dell’aggiudicataria dalla
procedura, con conseguente annullamento della disposta aggiudicazione a suo
favore (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.02.2021 n. 1255 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
PROGETTUALI: Per
un verso, a norma dell'art. 16, lett. m), del r.d. 11.02.1929, n. 274
(che non è stato modificato dalla legge n. 1068 del 1971), la competenza dei
geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste
costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione
-anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre, in via d'eccezione,
si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo
articolo, solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito
degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole che non richiedano
particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non
comportino pericolo per le persone, essendo riservata agli ingegneri la
competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture
in cemento armato.
Con la conseguenza che la progettazione e la direzione di opere da parte di
un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli
ingegneri o degli architetti sono illegittime, a nulla rilevando in
proposito che un progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato
da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in cemento armato,
atteso che il professionista competente deve essere altresì titolare della
progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente da affidare dal
committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto
professionale, sul quale gravano le relative responsabilità.
E con la conseguenza ulteriore che, qualora il rapporto professionale abbia
avuto ad oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità
il contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un
geometra, quando la progettazione -richiedendo l'adozione anche parziale dei
calcoli in cemento armato- sia riservata alla competenza degli ingegneri.
Evidentemente, alla luce dell'insegnamento testé riferito a nulla vale che
si adduca che all'ingegnere contestualmente officiato è stato conferito
l'incarico di provvedere alle progettazioni strutturali e che ad egli
ricorrente è stato conferito l'incarico di occuparsi dell'aspetto
architettonico e della direzione dei lavori.
Per altro verso, il contratto di progettazione e direzione dei lavori
relativo a costruzioni civili che adottino strutture in cemento armato,
stipulato da un geometra anteriormente all'abrogazione -ad opera del d.lgs.
13.12.2010, n. 212- del r.d. 16.11.1939, n. 2229 è nullo in quanto contrario
a norme imperative.
Invero, la menzionata abrogazione, comportando l'introduzione di una
disciplina innovativa e non già interpretativa della normativa previgente,
non ha prodotto effetti retroattivi idonei ad incidere sulla qualificazione
degli atti compiuti prima della sua entrata in vigore e non ha, dunque,
influito sulla invalidità del contratto, regolata dalla legge del tempo in
cui lo stesso è stato concluso.
---------------
19. In tal guisa si osserva quanto segue.
Da un canto, nessuna delle figure di "anomalia motivazionale"
destinate ad acquisire significato alla stregua della pronuncia delle
sezioni unite testé menzionata -e tra le quali non è annoverabile il
semplice difetto di "sufficienza" della motivazione- si scorge in
relazione alle motivazioni cui la corte siciliana ha ancorato il suo
dictum.
In particolare, con riferimento al paradigma della motivazione "apparente"
-che ricorre allorquando il giudice di merito non procede ad una
approfondita disamina logico-giuridica, tale da lasciar trasparire il
percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. 21.07.2006, n. 16672)- la corte
d'appello ha compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il proprio iter
argomentativo.
Più esattamente ha esplicitato che la struttura progettata -un piano di
lottizzazione con la previsione di realizzazione di tre corpi di fabbrica in
cemento armato di quaranta unità immobiliari- non poteva certo definirsi "modesta
costruzione civile", in quanto postulante calcoli complessi e la
soluzione di problematiche estranee, per definizione, alla competenza di un
geometra. Ed ha soggiunto che l'invalidità dell'incarico professionale non
era esclusa dalla presenza collaborativa di un ingegnere; segnatamente che
l'invalidità del progetto redatto e presentato dal geometra La Ro. non era
superata dalla circostanza per cui un ingegnere avesse effettuato e
sottoscritto i calcoli strutturali e diretto i lavori relativi alle
strutture in cemento armato.
D'altro canto, la corte di merito di certo non ha omesso la disamina del
fatto controverso de quo agitur.
20. In ogni caso l'iter motivazionale che sorregge il dictum del
secondo giudice risulta in toto ineccepibile sul piano della
correttezza giuridica (tanto con precipuo riferimento al dedotto carattere
flessibile del parametro legislativo espresso dalla locuzione "modesta
costruzione civile": cfr. ricorso, pag. 10).
21. E' sufficiente ribadire gli insegnamenti di questa Corte.
21.1. Per un verso, l'insegnamento -menzionato pur dalla corte
distrettuale- a tenor del quale, a norma dell'art. 16, lett. m), del r.d.
11.02.1929, n. 274 (che non è stato modificato dalla legge n. 1068 del
1971), la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e
vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che
comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato,
mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma
della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo alle piccole
costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle
industrie agricole [il che non è nella fattispecie di cui al presente
ricorso] che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la
loro destinazione non comportino pericolo per le persone, essendo riservata
agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che
adottino strutture in cemento armato; con la conseguenza che la
progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia
riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti
sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto redatto da
un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un
ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista
competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di
competenze inderogabilmente da affidare dal committente al professionista
abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le
relative responsabilità; e con la conseguenza ulteriore che, qualora il
rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una costruzione per civili
abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche relativamente alla
direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la progettazione
-richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato- sia
riservata alla competenza degli ingegneri (cfr. Cass. 26.07.2006, n. 17028).
Evidentemente, alla luce dell'insegnamento testé riferito a nulla vale che
An. La Ro. adduca che all'ingegnere contestualmente officiato è stato
conferito l'incarico di provvedere alle progettazioni strutturali e che ad
egli ricorrente è stato conferito l'incarico di occuparsi dell'aspetto
architettonico e della direzione dei lavori (cfr. ricorso, pagg. 11-12).
21.2. Per altro verso, l'insegnamento a tenor del quale il contratto
di progettazione e direzione dei lavori relativo a costruzioni civili che
adottino strutture in cemento armato, stipulato da un geometra anteriormente
all'abrogazione -ad opera del d.lgs. 13.12.2010, n. 212- del r.d.
16.11.1939, n. 2229 [è il caso oggetto del presente ricorso], è nullo in
quanto contrario a norme imperative; invero, la menzionata abrogazione,
comportando l'introduzione di una disciplina innovativa e non già
interpretativa della normativa previgente, non ha prodotto effetti
retroattivi idonei ad incidere sulla qualificazione degli atti compiuti
prima della sua entrata in vigore e non ha, dunque, influito sulla
invalidità del contratto, regolata dalla legge del tempo in cui lo stesso è
stato concluso (cfr. Cass. 30.8.2013, n. 19989; Cass. (ord.) 12.11.2019, n.
29227) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 08.01.2021 n. 100). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Le
proposte migliorative sottoscritte dall’architetto redattore, per quanto
estremamente limitate, sono tutte inerenti a interventi di tipo
impiantistico o di bonifica: in quanto tali esse rientrano nella competenza
esclusiva di un ingegnere abilitato, e non possono rientrare anche nella
competenza di un architetto abilitato, secondo quanto stabilito dal R.D. 23.10.1925, n.
2537 Regolamento per le professioni di ingegnere ed architetto.
Sicché, merita piena condivisione l’assunto della sentenza di prime
cure secondo cui nel caso di interventi di carattere non edilizio, quali
erano quelli di cui all’offerta migliorativa dell’a.t.i. aggiudicataria, la
proposta doveva essere sottoscritta da un ingegnere, unico tecnico a ciò
abilitato, non potendo la lex specialis derogare al riparto di competenze,
fissato dalle norme, delle figure professionali dell’architetto e
dell’ingegnere.
---------------
13.5. Come esposto in fatto, la Sezione, considerato che la
soluzione di tali aspetti controversi richiedesse l’apporto di specifiche
cognizioni tecniche e specialistiche, ha disposto una verificazione al fine
di accertare in concreto quale fosse il contenuto delle proposte
migliorative, demandando al verificatore nominato di evidenziare “se e quali
delle proposte migliorative sottoscritte dall’architetto redattore si
debbano ritenere inerenti a interventi di tipo impiantistico o di bonifica
e, in caso positivo, se esse rientrino nella competenza esclusiva
dell’ingegnere abilitato ovvero se possano rientrare anche nella competenza
dell’architetto abilitato”.
Ed infatti, considerato che, come bene rilevato dal primo giudice, il bando
non conteneva alcun vincolo specifico quanto alla categoria di appartenenza
dei tecnici di cui le imprese concorrenti si sarebbero dovute avvalere per
la presentazione delle offerte tecniche, il Collegio ha ritenuto dirimente
ai fini della decisione dell’appello la delibazione in concreto delle
proposte migliorative presentate dall’aggiudicataria, al fine di individuare
quali avrebbero dovuto essere le competenze del tecnico redattore e quale la
categoria professionale di appartenenza.
Ciò in quanto, se è vero che il disciplinare consentiva la sottoscrizione da
parte di un tecnico abilitato (ingegnere o architetto), tuttavia un tale
riferimento non può che riferirsi al contenuto dell’offerta migliorativa
concretamente proposta.
13.6. In risposta ai quesiti formulati dal Collegio, la relazione di
verificazione depositata in atti, premesse talune considerazioni di
carattere generale sulla discarica controllata (la cui progettazione è
“tipicamente una progettazione impiantistica dei sistemi di drenaggio e
captazione”), ha evidenziato che, come desumibile dal titolo dell’intervento
a base di gara e dalla categoria prevalente dei lavori (OG12 - opere ed
impianti di bonifica e protezione ambientale), nonché dal Bando e
Disciplinare di gara (art. 11.2. ove si legge che “nell’attribuzione del
previsto punteggio saranno favorevolmente valutate le soluzioni che tendono
ad incrementare i livelli prestazionali attesi dei vari interventi di
bonifica previsti nel progetto a base di gara”), il progetto di cui trattasi
non può che essere considerato un intervento di tipo impiantistico o di
bonifica: tale è dunque anche il progetto migliorativo presentato da tutti i
partecipanti alla gara.
D’altro canto anche le lavorazioni accessorie (categorie scorporabili) non
possono considerarsi di tipo edilizio, appartenendo alle categorie OS21 -opere strutturali speciali- e OG8 -opere fluviali, di difesa, di
sistemazione idraulica e di bonifica.
13.7. Procedendo quindi ad analizzare la specifica offerta migliorativa
dell’a.t.i. La Ca., il verificatore ha rilevato come nella stessa si
legge testualmente che “particolare attenzione è stata posta ai sistemi di
drenaggio, regimazione e collettamento delle acque e di captazione e
dispersione del biogas, migliorando tutti gli aspetti possibili”, non
lasciando perciò adito a dubbi sul fatto che si tratti di interventi
impiantistici o di bonifica. Del resto, gli stessi estensori della proposta
migliorativa definivano come impiantistici un’intera serie di interventi
migliorativi (specificamente indicati nella relazione di verificazione: cfr.
pag. 6).
Quanto poi ai c.d. interventi accessori la mera presenza, accanto a quelli
tipicamente impiantistici o infrastrutturali e di bonifica (come quelli
relativi alla messa in sicurezza permanente della discarica), anche di
interventi di tipo edilizio, non consente di superare il rilievo per cui la
progettazione, nel suo complesso e considerati tutti gli elementi e le
componenti che ne costituiscono oggetto, è una progettazione di tipo
impiantistico o di bonifica.
A conferma ulteriore di ciò, il verificatore ha accertato, nell’analizzare
il progetto migliorativo risultante dalle tavole a firma dell’architetto e
dal computo metrico estimativo, la presenza di varianti migliorative
(“relative a modifiche dei diametri e dei materiali adoperati per le
condotte”), comportanti, per quanto di modesta entità, un diverso regime
idraulico all’interno della tubazione.
Tali interventi migliorativi, come pure quelli relativi al sistema di
impermeabilizzazione, dovevano essere necessariamente sottoposti a verifica
e a specifici calcoli progettuali: si infrange così l’assunto dell’a.t.i.
appellante sulla natura di mera fornitura degli interventi impiantistici di
cui alla proposta migliorativa, sul rilievo per cui non potrebbero comunque
essere considerati accettabili unicamente i calcoli progettuali effettuati
dai fornitori dei materiali, perché riferiti sempre a condizioni di
esercizio standard, normalmente diverse da quelle che si realizzano, di
volta in volta, nei vari interventi realizzativi.
13.8. A tale riguardo, nelle note in vista dell’udienza di discussione
l’appellante riconosce che, nella redazione della proposta migliorativa, il
professionista incaricato si sarebbe astenuto totalmente dalla redazione dei
calcoli specialistici, limitandosi ad effettuare una mera attività di
composizione funzionale delle diverse sezioni tecnologiche e attrezzature,
progettate e realizzate direttamente dai costruttori delle stesse: tuttavia,
da ciò non sarebbe potuto derivare l’esclusione dell’offerta migliorativa
dell’a.t.i. La Ca., ma al più la mancata attribuzione di alcun
punteggio in relazione alle prestazioni offerte, ma non verificate mediante
effettuazione di calcoli specialistici.
L’assunto non ha pregio.
Contrariamente a quanto sostenuto da parte appellante, il verificatore
nominato non si è limitato ad accertare la mancanza dei predetti calcoli, ma
ha espressamente auspicato (evidenziandone così la necessità) che gli
interventi migliorativi in parola, essenziali alla realizzazione della
discarica e della bonifica oggetto dell’appalto da affidarsi, fossero stati
sottoposti a verifica e a calcoli adeguati da parte del redattore del
progetto migliorativo.
Le conseguenze che derivavano da tale carenza non possono dunque essere
quelle indicate da parte appellante: a maggior ragione, in difetto dei
calcoli progettuali, la proposta migliorativa non solo non meritava alcun
punteggio, ma non poteva, infatti, essere oggetto di alcuna considerazione e
valutazione da parte della Commissione esaminatrice, risultando tamquam
non esset.
13.9. Su queste basi, il verificatore nominato ha concluso che le proposte
migliorative sottoscritte dall’architetto redattore, per quanto estremamente
limitate, sono tutte inerenti a interventi di tipo impiantistico o di
bonifica: in quanto tali esse rientrano nella competenza esclusiva di un
ingegnere abilitato, e non possono rientrare anche nella competenza di un
architetto abilitato, secondo quanto stabilito dal R.D. 23.10.1925, n.
2537 Regolamento per le professioni di ingegnere ed architetto.
14. Alla luce degli approfondimenti istruttori disposti da questo Consiglio
di Stato, merita dunque piena condivisione l’assunto della sentenza di prime
cure secondo cui nel caso di interventi di carattere non edilizio, quali
erano quelli di cui all’offerta migliorativa dell’a.t.i. aggiudicataria, la
proposta doveva essere sottoscritta da un ingegnere, unico tecnico a ciò
abilitato, non potendo la lex specialis derogare al riparto di competenze,
fissato dalle norme, delle figure professionali dell’architetto e
dell’ingegnere.
15. In conclusione, per le su esposte ragioni, l’appello va respinto e la
sentenza impugnata deve essere integralmente confermata, con assorbimento
degli altri motivi di censura non esaminati dal giudice di primo grado e qui
riproposti ex art. 101, comma 2, Cod. proc. amm. dall’appellata (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.12.2020 n.
8027 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Le
opere proposte (“modifica di alcune finestre e di taluni balconi siti al primo
piano, alla realizzazione di una scala interna ed alla sostituzione di
quella esterna”) non possono essere ascritte –sia per la loro natura, sia
per l’oggettiva inerenza a profili di staticità e sicurezza– al novero
delle “modeste costruzioni civili” che suffragano, quale competenza
sufficiente per l’attività di progettazione, quella dei geometri ai sensi
del R.D. 214/1929.
---------------
Con ricorso ritualmente proposto il sig. Sa.Mo. ha impugnato e chiesto
l’annullamento della disposizione dirigenziale n. 474 del 23.03.2017, con la
quale il Servizio Sportello Unico Edilizia Privata, Direzione Centrale
Pianificazione e Gestione del Territorio, ha rigettato la richiesta di
rilascio di un permesso di costruire, ex art. 4 della legge regionale
19/2009 (c.d. Piano Casa), avente ad oggetto l’ampliamento volumetrico di un
immobile sito in Napoli, alla Strada ... n. 27/b.
L’immobile oggetto del contendere, classificato in zona B (agglomerati
urbani di recente formazione, sottozona Bb), è “individuato tra le
attrezzature pubbliche come tra le attrezzature di quartiere”; in più,
risulta azzonato in ambito territoriale “destinato a istruzione, interesse
comune, parcheggi”.
Il ricorrente ha proposto di realizzare una “sopraelevazione ad un manufatto
esistente composto da due piani fuori terra”: un intervento che per il
Comune “non è compatibile con la specifica previsione del Prg”, oltre al
fatto che “per la complessità dei calcoli strutturali e per le implicazioni
che deriverebbero da un maggior carico sulle strutture esistenti è riservata
solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali”.
A fondamento del ricorso sono stati proposti i seguenti motivi:
1°) Difetto d’istruttoria e di motivazione; eccesso di potere per
contraddittorietà; violazione dell’art. 4 della legge regionale 19/2009,
dell’art. 9 del DPR 327/2001 e dell’art. 2 della legge 1187/1968.
Il ricorrente ha evidenziato che il fabbricato in questione avrebbe
conservato la propria destinazione iniziale, risultante dell’originario
titolo abilitativo edilizio, in quanto impressa prima dell’adozione della
variante generale al PRG della Città di Napoli: destinazione che resterebbe
immutata per effetto del regime derogatorio introdotto dall’art. 4 della
legge regionale 19/2009.
2°) Eccesso di potere per difetto d’istruttoria e violazione della legge
144/1949.
Il ricorrente ha contestato la preclusione della competenza del
geometra, sottolineando la necessità di scindere le attività progettuali.
...
Infondato è, altresì, il secondo motivo, dovendosi ritenere che le opere
proposte (“modifica di alcune finestre e di taluni balconi siti al primo
piano, alla realizzazione di una scala interna ed alla sostituzione di
quella esterna”) non possono essere ascritte –sia per la loro natura, sia
per l’oggettiva inerenza a profili di staticità e sicurezza– al novero
delle “modeste costruzioni civili” che suffragano, quale competenza
sufficiente per l’attività di progettazione, quella dei geometri ai sensi
del R.D. 214/1929 (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 05.10.2020 n. 4232 - link a
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APPALTI: La
possibilità di formulare offerte integrative del progetto
organizzativo a base d'asta è espressamente riconosciuta dall'art. 95, comma
14, lett. a), del d.lgs. 50/2016, il vigente Codice dei contratti pubblici,
sicché, anche nel caso in cui le varianti non siano ammesse dalla lex
specialis, è tuttavia da considerarsi comunque possibile per i partecipanti
presentare proposte, soluzioni ovvero variazioni migliorative.
Al riguardo,
il punctum dolens della questione richiede di delimitare esattamente la
differenza tra le varianti ammissibili solo negli stretti limiti della
disposizione richiamata e di quelle ad essa correlate, e i miglioramenti
dell'offerta, sempre proponibili dai concorrenti.
In questo senso, in una
gara d'appalto, costituiscono proposte migliorative le precisazioni, le
integrazioni e gli adattamenti che siano elaborati allo scopo di rendere il
progetto prescelto meglio rispondente alle esigenze proprie della Stazione
appaltante, sempre che non vengano modificati ed alterati i caratteri
essenziali delle prestazioni richieste, in quanto ciò implicherebbe una
totale divergenza con radicale discostamento dall'oggetto della gara stessa.
Per distinguersi tra varianti (non consentite) e migliorie
(consentite), il Consiglio di Stato ha chiarito che “…in sede di gara
d'appalto e allorquando il sistema di selezione delle offerte sia basato sul
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, le soluzioni
migliorative si differenziano dalle varianti perché le prime possono
liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a
diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di
valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque
preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite
dall'Amministrazione, mentre le seconde si sostanziano in modifiche del
progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui
ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della
stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione contenuta nel bando
di gara e l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i
limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un aliud
rispetto a quella prefigurata dalla Pubblica Amministrazione, pur tuttavia
consentito”.
Ne consegue che “le proposte migliorative consistono pertanto in
soluzioni tecniche che, senza incidere sulla struttura, sulla funzione e
sulla tipologia del progetto a base di gara, investono singole lavorazioni o
singoli aspetti tecnici dell'opera, lasciati aperti a diverse soluzioni,
configurandosi come integrazioni, precisazioni e migliorie che rendono il
progetto meglio corrispondente alle esigenze della stazione appaltante,
senza tuttavia alterare i caratteri essenziali delle prestazioni richieste”.
E’ stato anche precisato che “…la valutazione delle offerte tecniche come
pure delle ragioni che giustificano la soluzione migliorativa proposta
quanto alla sua efficienza e alla rispondenza alle esigenze della stazione
appaltante costituisce espressione di un'ampia discrezionalità tecnica, con conseguente insindacabilità nel
merito delle valutazioni e dei punteggi attribuiti dalla commissione, ove
non inficiate da macroscopici errori di fatto, da illogicità o da
irragionevolezza manifesta”.
---------------
2.1.- Giova premettere che, secondo affermata e condivisa
giurisprudenza, la possibilità di formulare offerte integrative del progetto
organizzativo a base d'asta è espressamente riconosciuta dall'art. 95, comma
14, lett. a), del d.lgs. 50/2016, il vigente Codice dei contratti pubblici,
sicché, anche nel caso in cui le varianti non siano ammesse dalla lex
specialis, è tuttavia da considerarsi comunque possibile per i partecipanti
presentare proposte, soluzioni ovvero variazioni migliorative.
Al riguardo,
il punctum dolens della questione richiede di delimitare esattamente la
differenza tra le varianti ammissibili solo negli stretti limiti della
disposizione richiamata e di quelle ad essa correlate, e i miglioramenti
dell'offerta, sempre proponibili dai concorrenti.
In questo senso, in una
gara d'appalto, costituiscono proposte migliorative le precisazioni, le
integrazioni e gli adattamenti che siano elaborati allo scopo di rendere il
progetto prescelto meglio rispondente alle esigenze proprie della Stazione
appaltante, sempre che non vengano modificati ed alterati i caratteri
essenziali delle prestazioni richieste, in quanto ciò implicherebbe una
totale divergenza con radicale discostamento dall'oggetto della gara stessa
(cfr. questa Sezione, 14.11.2019, n. 5366; TAR Emilia Romagna,
Parma, sez. I, 22.05.2019, n. 146).
2.2.- Per distinguersi tra varianti (non consentite) e migliorie
(consentite), il Consiglio di Stato ha chiarito che “…in sede di gara
d'appalto e allorquando il sistema di selezione delle offerte sia basato sul
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, le soluzioni
migliorative si differenziano dalle varianti perché le prime possono
liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a
diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di
valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque
preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite
dall'Amministrazione, mentre le seconde si sostanziano in modifiche del
progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui
ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della
stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione contenuta nel bando
di gara e l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i
limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un aliud
rispetto a quella prefigurata dalla Pubblica Amministrazione, pur tuttavia
consentito” (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 24.10.2013, n. 5160;
Idem, 20.02.2014, n. 819; Idem, sez. VI, 19.06.2017, n. 2969;
Idem, sez. III, 19.12.2017, n. 5967; Idem, sez. V, 18.02.2019,
n. 1097; Idem, 15.01.2019, n. 374; per una disamina tra varianti
migliorative e varianti non conformi al progetto posto a base di gara cfr:
Cons. di Stato, V, 26.10.2018, n. 6121; sulla non fattibilità tecnica
della soluzione progettuale dell'offerente a causa della previsioni di
varianti non consentite: Cons. di Stato, V, 18.03.2019, n. 1749).
2.3.- Ne consegue che “le proposte migliorative consistono pertanto in
soluzioni tecniche che, senza incidere sulla struttura, sulla funzione e
sulla tipologia del progetto a base di gara, investono singole lavorazioni o
singoli aspetti tecnici dell'opera, lasciati aperti a diverse soluzioni,
configurandosi come integrazioni, precisazioni e migliorie che rendono il
progetto meglio corrispondente alle esigenze della stazione appaltante,
senza tuttavia alterare i caratteri essenziali delle prestazioni richieste”.
E’ stato anche precisato che “…la valutazione delle offerte tecniche come
pure delle ragioni che giustificano la soluzione migliorativa proposta
quanto alla sua efficienza e alla rispondenza alle esigenze della stazione
appaltante costituisce espressione di un'ampia discrezionalità tecnica (Cons.
Stato, sez. V, 14.05.2018, n. 2853), con conseguente insindacabilità nel
merito delle valutazioni e dei punteggi attribuiti dalla commissione, ove
non inficiate da macroscopici errori di fatto, da illogicità o da
irragionevolezza manifesta (Cons. Stato, sez. III, 07.03.2014, n. 1072; 14.11.2017, n. 5258)” (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 10.07.2020 n. 3006 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Sulla
questione che
il
muro in cemento armato di contenimento, la cui sagoma non è alterata
rispetto al disegno contenuto nel progetto esecutivo, viene spostato dalla
destra alla sinistra del plinto con l’effetto di non fungere più da
immediato contenimento alla scarpata e che ciò non comporta alcuna
variazione in termini di stabilità dell’opera ma richiede,
quantomeno, le preliminari verifiche necessarie da parte di un tecnico abilitato
(laureato).
Per disciplinare la professione di geometra, il
legislatore è intervenuto per la prima volta col Regio decreto 11.02.1929 n.
274, il cui art. 16 ne circoscrive l’oggetto ed i limiti relativi alla
competenza tecnica.
In seguito, il legislatore, col regio decreto 16.11.1939 n. 2229 –contenente
le “Norme per la esecuzione delle opere in conglomerato cementizio semplice
od armato”- all’art. 1 ha introdotto un limite generale alla competenza dei
geometri per le opere “di conglomerato cementizio semplice od armato la cui
stabilità possa comunque interessare l'incolumità delle persone”, in
precedenza inesistente, disponendo che tali opere dovessero “... essere
costruite in base ad un progetto esecutivo firmato da un ingegnere, ovvero
da un architetto iscritto nell'albo, nei limiti delle rispettive
attribuzioni, ai sensi della Legge 24.06.1923 n. 1395 e del Regio decreto
23.10.1925 n. 2537, sull’esercizio delle professioni di ingegnere e di
architetto e delle successive modificazioni”.
La disciplina regolamentare è stata successivamente modificata con
l’approvazione della Legge 05.11.1971 n. 1086 e della Legge 02.02.1974 n.
64.
In particolare, riguardo alle opere di conglomerato cementizio armato,
normale e precompresso ed a struttura metallica, la menzionata legge n. 1086
del 1971, all’art. 2, ha chiarito che: “La costruzione delle opere di cui
all'articolo 1 deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un
ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritti nel
relativo albo, nei limiti delle rispettive competenze. L'esecuzione delle
opere deve aver luogo sotto la direzione di un ingegnere o architetto o
geometra o perito industriale edile iscritto nel relativo albo, nei limiti
delle rispettive competenze.”.
Il quadro normativo sopra delineato è rimasto sostanzialmente inalterato a
seguito dell’intervento di riordino della materia operato dal d.p.r.
06.06.2001 n. 380, il testo unico dell’edilizia.
Con queste premesse, è quindi evidente che, in relazione ad una variazione
significativa dell’assetto delle costruzioni in cemento armato poste a
supporto e contenimento della palificazione, sarebbe stato necessario
l’intervento professionale di un ingegnere o di un architetto, almeno ai
fini della verifica circa l’immodificabilità delle condizioni di stabilità e
quindi di sicurezza pubblica.
---------------
9.-
Rimane da analizzare la contestazione, contenuta nel terzo motivo del
ricorso incidentale, concernente le variazioni alle opere in cemento armato
per arretrare, rispetto al progetto esecutivo, il posizionamento sul
marciapiede dei pali per la pubblica illuminazione, con conseguente
inidoneità della firma apposta, su questa specifica proposta migliorativa,
da un tecnico geometra in luogo di un ingegnere o architetto.
9.1.- Sul punto, It.Ap.i replica nel senso che la soluzione
migliorativa proposta:
- intende eliminare la condizione di pericolo presente nel progetto
esecutivo in modo da realizzare una superficie calpestabile del marciapiede
completamente libera da ostacoli e, quindi, evitare che i pedoni, per
aggirare l’ostacolo rappresentato dal palo dell’illuminazione, fossero
costretti a spostarsi verso la carreggiata stradale;
- non comporta variazioni alle opere in cemento armato previste in progetto,
in quanto la parete del muro di contenimento, posto a sostegno del
marciapiede, non risulta interrotta dall’inserimento del blocco palo;
pertanto per il profilo squisitamente tecnico-qualitativo, il posizionamento
adottato per i pali d’illuminazione e ai relativi blocco del palo non
comporta problematiche di tipo strutturale.
9.2.- La censura appare tuttavia meritevole di considerazione e, dunque,
fondata posto che –come emerge dai grafici- il muro in cemento armato di
contenimento, la cui sagoma effettivamente non è stata alterata rispetto al
disegno contenuto nel progetto esecutivo, viene spostato dalla destra alla
sinistra del plinto con l’effetto di non fungere più da immediato
contenimento alla scarpata.
Se è vero che, come sostiene la ricorrente, tutto ciò non comporta alcuna
variazione in termini di stabilità dell’opera, ciò avrebbe richiesto
quantomeno le verifiche necessarie da parte di un tecnico abilitato.
9.3.- Giova sul punto ricordare che, per disciplinare la professione di
geometra, il legislatore è intervenuto per la prima volta col Regio decreto
11.02.1929 n. 274, il cui art. 16 ne circoscrive l’oggetto ed i limiti
relativi alla competenza tecnica.
In seguito, il legislatore, col regio decreto 16.11.1939 n. 2229 –contenente le “Norme per la esecuzione delle opere in conglomerato cementizio semplice od armato”- all’art. 1 ha introdotto un limite generale
alla competenza dei geometri per le opere “di conglomerato cementizio
semplice od armato la cui stabilità possa comunque interessare l'incolumità
delle persone”, in precedenza inesistente, disponendo che tali opere
dovessero “... essere costruite in base ad un progetto esecutivo firmato da
un ingegnere, ovvero da un architetto iscritto nell'albo, nei limiti delle
rispettive attribuzioni, ai sensi della Legge 24.06.1923 n. 1395 e del
Regio decreto 23.10.1925 n. 2537, sull’esercizio delle professioni di
ingegnere e di architetto e delle successive modificazioni”.
La disciplina regolamentare è stata successivamente modificata con
l’approvazione della Legge 05.11.1971 n. 1086 e della Legge 02.02.1974 n. 64.
In particolare, riguardo alle opere di conglomerato cementizio armato,
normale e precompresso ed a struttura metallica, la menzionata legge n. 1086
del 1971, all’art. 2, ha chiarito che: “La costruzione delle opere di cui
all'articolo 1 deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un
ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritti nel
relativo albo, nei limiti delle rispettive competenze. L'esecuzione delle
opere deve aver luogo sotto la direzione di un ingegnere o architetto o
geometra o perito industriale edile iscritto nel relativo albo, nei limiti
delle rispettive competenze.”.
Il quadro normativo sopra delineato è rimasto sostanzialmente inalterato a
seguito dell’intervento di riordino della materia operato dal d.p.r. 06.06.2001 n. 380, il testo unico dell’edilizia.
Con queste premesse, è quindi evidente che, in relazione ad una variazione
significativa dell’assetto delle costruzioni in cemento armato poste a
supporto e contenimento della palificazione, sarebbe stato necessario
l’intervento professionale di un ingegnere o di un architetto, almeno ai
fini della verifica circa l’immodificabilità delle condizioni di stabilità e
quindi di sicurezza pubblica (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 10.07.2020 n. 3006 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: E' nullo il contratto di
affidamento della direzione dei lavori di costruzioni civili ad un
geometra, ove la progettazione richieda l'esecuzione, anche
parziale, dei calcoli in cemento armato, attività demandata agli
ingegneri, attese le limitate competenze attribuite ai geometri dall'art. 16
del r.d. n. 274 del 1929.
Tuttavia, verificare in quali limiti l'opera sia da considerare
modesta ovvero implichi l'utilizzo di cemento armato implica
evidentemente accertamenti in fatto, essendosi specificamente precisato che la violazione delle norme imperative sui limiti
dei poteri del professionista, stabiliti dalla legge professionale
(nella specie, l'art. 16 del R.D. 11.02.1929 n. 274, che
consente al geometra la progettazione, la direzione o la vigilanza di
modeste costruzioni civili), determina la nullità del
contratto di opera professionale, rilevabile, ai sensi dell'art.
1421 cod. civ., anche d'ufficio, in ogni stato e grado del
procedimento, incontrando tale principio, in sede di legittimità,
il limite del divieto degli accertamenti di fatto (nella specie,
l'accertamento relativo alla modesta importanza della
costruzione), sicché nel giudizio di cassazione la nullità è
rilevabile solo se siano acquisiti agli atti tutti gli elementi di
fatto dai quali possa desumersene l'esistenza.
---------------
2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa
applicazione dell'art. 1141 (rectius 1421 c.c.) e dell'art. 16 del
r.d. n. 274/1929.
Rileva la ricorrente che nel corso del giudizio di merito aveva eccepito che
il contratto intercorso tra le parti aveva ad oggetto la progettazione di un
capannone industriale di rilevanti dimensioni e con struttura in cemento
armato che esorbitava dalle competenze che la legge riserva al geometra.
Ciò implica la nullità del contratto e l'assenza del diritto al
corrispettivo da parte dell'opposto.
Il motivo è infondato.
La Corte d'Appello è pervenuta al rigetto della deduzione circa la nullità
del contratto professionale intercorso tra le parti, in quanto avente ad
oggetto la progettazione di opere che esulavano da quelle che la legge
riserva alla competenza del geometra, non già ritenendo di escludere il
rilievo d'ufficio della nullità ex art. 1421 c.c., né tanto meno ritenendo
che l'eccezione di nullità fosse stata tardivamente sollevata (e ciò avendo
ribadito che quella in esame costituisce un'eccezione in senso lato,
liberamente deducibile in sede di appello e comunque rilevabile in ogni
stato e grado anche d'ufficio), ma piuttosto osservando che non era stata in
precedenza, e nei termini segnati dal codice di rito, contestata la
ricorrenza dei fatti costitutivi della pretesa attorea, ed in particolare il
possesso in capo al Pe. della qualifica professionale per svolgere
l'incarico per il quale era stato richiesto ed ottenuto il
decreto ingiuntivo.
Ed, invero, ribadita la correttezza del principio richiamato in ricorso,
circa la possibilità per il giudice, anche in sede di legittimità di poter
rilevare d'ufficio la nullità del contratto i cui effetti sono oggetto di
causa (come nel caso in cui venga richiesto il pagamento del corrispettivo),
principio che ha ricevuto ampia e definitiva consacrazione negli interventi
delle Sezioni Unite di cui alle sentenze nn. 26242 e 26243 del 2014, va del
pari ribadita la correttezza della conclusione secondo cui (cfr. da ultimo
Cass. n. 5871/2016) è nullo il contratto di affidamento della direzione dei
lavori di costruzioni civili ad un geometra, ove la progettazione richieda
l'esecuzione, anche parziale, dei calcoli in cemento armato, attività
demandata agli ingegneri, attese le limitate competenze attribuite ai
geometri dall'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929 (conf. Cass. n. 6402/2011;
Cass. n. 19292/2009).
Tuttavia, verificare in quali limiti l'opera sia da considerare modesta
ovvero implichi l'utilizzo di cemento armato implica evidentemente
accertamenti in fatto (così Cass. n. 8543/2009), essendosi specificamente
precisato che (cfr. Cass. n. 8576/1994) la violazione delle norme imperative
sui limiti dei poteri del professionista, stabiliti dalla legge
professionale (nella specie, l'art. 16 del R.D. 11.02.1929 n. 274, che
consente al geometra la progettazione, la direzione o la vigilanza di
modeste costruzioni civili), determina la nullità del contratto di opera
professionale, rilevabile, ai sensi dell'art. 1421 cod. civ., anche
d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, incontrando tale
principio, in sede di legittimità, il limite del divieto degli accertamenti
di fatto (nella specie, l'accertamento relativo alla modesta importanza
della costruzione), sicché nel giudizio di cassazione la nullità è
rilevabile solo se siano acquisiti agli atti tutti gli elementi di
fatto dai quali possa desumersene l'esistenza.
Alla luce di tali considerazioni, il riferimento alla non contestazione
operato dal giudice di appello deve correttamente essere inteso come
correlato alla circostanza che i fatti sulla scorta dei quali il Pe.
reclamava il suo diritto al compenso, ivi inclusa la loro idoneità a
giustificare la validità dell'incarico, non fossero mai stati in precedenza
contestati, e che quindi l'asserzione solo in comparsa conclusionale circa
l'invalidità del contratto, in assenza della dimostrazione dell'effettiva
ricorrenza delle condizioni per ritenere invalidamente assunto l'incarico di
progettazione, non consentiva alla Corte di merito di accedere alla tesi
della
nullità.
Il motivo di ricorso appare peraltro sul punto evidentemente carente del
requisito di specificità, assumendo apoditticamente che si tratterebbe della
progettazione di un capannone industriale di rilevanti dimensioni con
struttura in cemento armato, senza però in alcun modo individuare le fonti
di prova già raccolte nel giudizio di merito dalle quali si potrebbe
evincere l'effettiva ricorrenza dei presupposti fondanti il rilievo di
nullità (e ciò anche a tacere del fatto che in controricorso il Pe. richiama
i progetti e le planimetrie progettuali elaborate e sottoscritte da un
professionista abilitato al compimento di tali attività, adducendo che
l'incarico conferitogli non implicasse lo svolgimento di alcuna attività di
tipo progettuale concernente parti strutturali fondanti o comunque in
cemento armato, né lo svolgimento dell'attività di direttore dei lavori) (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 29.07.2019 n. 20438). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Si rammenta che
- il citato art. 51 stabilisce: “Sono di spettanza della
professione d'ingegnere, il progetto, la condotta e la stima dei lavori per
estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od
indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori
relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione,
alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali,
nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le
operazioni di estimo”;
- l’art. 54, secondo e terzo comma, prevede: “Coloro
che abbiano conseguito il diploma di laurea d'ingegnere-architetto presso
gli istituti d'istruzione superiore indicati nell'art. 1 della legge entro
il 31.12.1924, ovvero lo conseguiranno entro il 31.12.1925,
giusta le norme stabilite dall'art. 6 del R.D. 31.12.1923, n. 2909,
sono autorizzati a compiere anche le mansioni indicate nell'art. 51 del
presente regolamento, eccettuate le applicazioni industriali. La presente
disposizione è applicabile anche a coloro che abbiano conseguito il diploma
di architetto civile nei termini suddetti, ad eccezione però di quanto
riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori
relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere
idrauliche”.
Ciò detto, esse sfuggono alla competenza degli architetti, non
rientrando nel concetto di edilizia civile di cui all’art. 52 (“Formano
oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto
le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di
estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano
rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici
contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle
arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica
ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”),
ancorché tale concetto sia considerato nella sua accezione più vasta,
richiamata dalla giurisprudenza. Invero, “si
può affermare che il concetto di ‘opere di edilizia civile’ si estenda
sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a
ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del
fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di
riscaldamento compresi nell’edificazione”.
Deve ancora rammentarsi che, nello stabilire l’ampiezza delle
competenze riconosciute, rispettivamente, agli ingegneri e agli architetti
ai sensi del combinato disposto degli articoli 51 e 52 dello stesso regio
decreto n. 2537 del 1925, la giurisprudenza ha confermato l’orientamento
tradizionale, in ordine alla ricomprensione nell’esclusivo appannaggio della
professione di ingegnere delle opere di carattere più marcatamente
tecnico-scientifico, di ingegneria idraulica, di ammodernamento e
ampliamento della rete idrica comunale.
Recentemente la Sezione ha affermato che “Il r.d. 23.10.1925 n. 2537
recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere
esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la
possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i
lavori relativi ad opere idrauliche”.
---------------
Nessuna di tali considerazioni risulta tuttavia
convincente e condivisibile.
2.1.1. Quanto alla prima, è priva di qualsiasi valenza dirimente la
circostanza che la legge di gara abilitava anche gli architetti alla
sottoscrizione dell’offerta tecnica, atteso che la società odierna
appellante contesta proprio tale previsione.
La questione deve essere pertanto essere risolta facendo riferimento
(indipendentemente da ogni considerazione circa la astratta differenza tra
le migliorie e le varianti, come risultante dalla giurisprudenza
amministrativa cui la sentenza fa riferimento, Cons. Stato, V, 10.01.2017 n. 42; ma vedasi anche tra altre, V,
09.09.2014 n. 4578 e, più di
recente, V, 14.05.2018 n. 2853) alla concreta disciplina rinvenibile dal
bando di gara e alla puntuale funzione rimessa agli elaborati tecnici
siccome ivi previsti.
L’appalto de quo, avente a oggetto i lavori “Grande viabilità urbana – 1°
lotto funzionale (tratto via Due Pozzi – via Paradiso)”, attiene alla
realizzazione di opere viarie e idrauliche: in particolare, le opere
rientranti nell’appalto rientrano (pag. 3 della lex specialis) nelle
categorie SOA: prevalente OG3 (strade, autostrade e ponti); scorporabile OG6
(acquedotti); subappaltabile OG10 (impianti per la trasformazione alta/media
tensione e per la distribuzione di energia elettrica in corrente alternata e
continua e impianti di pubblica illuminazione).
L’offerta tecnica, secondo la previsione del bando (pag. 17), consta di una
relazione tecnica contenente “proposte migliorative e aggiuntive” che
vengono preconizzate anche in relazione: alla viabilità e al pacchetto
stradale; all’inserimento di una pista ciclabile; alla regolazione degli
innesti tra la viabilità e la pista ciclabile; all’aumento delle condizioni
di sicurezza stradale; agli impianti fognari; all’impianto di smaltimento
delle acque meteoriche; all’impianto di fogna nera.
Ciò posto, la conclusione che l’offerta tecnica delle partecipanti non
avrebbe potuto sovvertire le caratteristiche progettuali già stabilite
dall’Amministrazione non risulta innanzitutto decisiva, considerato che,
quand’anche non nella forma più radicale della variante, le previste
migliorie e integrazioni -e soprattutto queste ultime- avevano proprio
l’obiettivo di impattare sulla viabilità e sulle opere idrauliche come
risultante dal progetto posto a gara. Proprio per tali ragioni esse non
possono che rientrare nella competenza esclusiva degli ingeneri, ai sensi
degli artt. 51 e 54 del regio decreto 23.10.1925, n. 2537,
“Approvazione del regolamento per le professioni di ingegnere e di
architetto”.
Si rammenta che
- il citato art. 51 stabilisce: “Sono di spettanza della
professione d'ingegnere, il progetto, la condotta e la stima dei lavori per
estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od
indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori
relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione,
alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali,
nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le
operazioni di estimo”;
- l’art. 54, secondo e terzo comma, prevede: “Coloro
che abbiano conseguito il diploma di laurea d'ingegnere-architetto presso
gli istituti d'istruzione superiore indicati nell'art. 1 della legge entro
il 31.12.1924, ovvero lo conseguiranno entro il 31.12.1925,
giusta le norme stabilite dall'art. 6 del R.D. 31.12.1923, n. 2909,
sono autorizzati a compiere anche le mansioni indicate nell'art. 51 del
presente regolamento, eccettuate le applicazioni industriali. La presente
disposizione è applicabile anche a coloro che abbiano conseguito il diploma
di architetto civile nei termini suddetti, ad eccezione però di quanto
riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori
relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere
idrauliche”.
Per altro verso esse sfuggono alla competenza degli architetti, non
rientrando nel concetto di edilizia civile di cui all’art. 52 (“Formano
oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto
le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di
estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano
rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici
contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle
arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica
ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”),
ancorché tale concetto sia considerato nella sua accezione più vasta,
richiamata dalla giurisprudenza (Cons. Stato, VI, 15.03.2013 n. 1550: “si
può affermare che il concetto di ‘opere di edilizia civile’ si estenda
sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a
ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del
fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di
riscaldamento compresi nell’edificazione”).
Deve al riguardo ancora rammentarsi che, nello stabilire l’ampiezza delle
competenze riconosciute, rispettivamente, agli ingegneri e agli architetti
ai sensi del combinato disposto degli articoli 51 e 52 dello stesso regio
decreto n. 2537 del 1925, la giurisprudenza ha confermato l’orientamento
tradizionale, in ordine alla ricomprensione nell’esclusivo appannaggio della
professione di ingegnere delle opere di carattere più marcatamente
tecnico-scientifico, di ingegneria idraulica, di ammodernamento e
ampliamento della rete idrica comunale (Cons. Stato, VI, n. 1550/2013, cit.).
Recentemente la Sezione ha affermato che “Il r.d. 23.10.1925 n. 2537
recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere
esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la
possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i
lavori relativi ad opere idrauliche” (Cons. Stato, V, 19.05.2016 n.
2095) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.11.2018 n. 6552 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Si rammenta che:
- l'art. 51 RD 23.10.1925 n. 2537
stabilisce che: “Sono di spettanza della
professione d'ingegnere, il progetto, la condotta e la stima dei lavori per
estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od
indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori
relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione,
alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali,
nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le
operazioni di estimo”;
- l’art. 54, secondo e terzo comma, prevede che: “Coloro
che abbiano conseguito il diploma di laurea d'ingegnere-architetto presso
gli istituti d'istruzione superiore indicati nell'art. 1 della legge entro
il 31.12.1924, ovvero lo conseguiranno entro il 31.12.1925,
giusta le norme stabilite dall'art. 6 del R.D. 31.12.1923, n. 2909,
sono autorizzati a compiere anche le mansioni indicate nell'art. 51 del
presente regolamento, eccettuate le applicazioni industriali. La presente
disposizione è applicabile anche a coloro che abbiano conseguito il diploma
di architetto civile nei termini suddetti, ad eccezione però di quanto
riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori
relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere
idrauliche”.
Ciò detto, esse sfuggono alla competenza degli architetti, non
rientrando nel concetto di edilizia civile di cui all’art. 52 (“Formano
oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto
le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di
estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano
rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici
contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle
arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica
ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”), ancorché tale concetto sia considerato nella sua accezione più vasta,
richiamata dalla giurisprudenza. Invero, “si
può affermare che il concetto di ‘opere di edilizia civile’ si estenda
sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a
ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del
fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di
riscaldamento compresi nell’edificazione”.
Deve ancora rammentarsi che, nello stabilire l’ampiezza delle
competenze riconosciute, rispettivamente, agli ingegneri e agli architetti
ai sensi del combinato disposto degli articoli 51 e 52 dello stesso regio
decreto n. 2537 del 1925, la giurisprudenza ha confermato l’orientamento
tradizionale, in ordine alla ricomprensione nell’esclusivo appannaggio della
professione di ingegnere delle opere di carattere più marcatamente
tecnico-scientifico, di ingegneria idraulica, di ammodernamento e
ampliamento della rete idrica comunale.
Recentemente la Sezione ha affermato che “Il r.d. 23.10.1925 n. 2537
recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere
esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la
possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i
lavori relativi ad opere idrauliche”.
---------------
2. Passando all’esame del primo motivo dell’appello principale, lo
stesso si rivela fondato.
2.1. La sentenza appellata ha respinto il corrispondente primo motivo del
ricorso della La.Ed. e St., ancorando la legittimità della sottoscrizione
dell’offerta tecnica del Consorzio aggiudicatario da parte di un architetto
(invece che ad un ingegnere) a due ordini di considerazioni:
- la prima,
secondo cui il fatto che l’offerta tecnica contenesse offerte migliorative
non sovvertiva per definizione le caratteristiche essenziali del progetto
esecutivo posto a base di gara (con la conseguenza che nel concreto
l’offerto poteva essere indifferentemente sottoscritta da un ingegnere o da
un architetto);
- la seconda, secondo cui l’oggetto dell’appalto
consisteva in un’articolata opera di (ri)sistemazione urbana, così che il
contributo in termini di apporto tecnico progettuale sarebbe stato
astrattamente fornibile tanto da un architetto quanto da un ingegnere,
essendo le prestazioni professionali richieste del tutto equipollenti.
Nessuna di tali considerazioni risulta tuttavia convincente e condivisibile.
2.1.1. Quanto alla prima, è priva di qualsiasi valenza dirimente la
circostanza che la legge di gara abilitava anche gli architetti alla
sottoscrizione dell’offerta tecnica, atteso che la società odierna
appellante contesta proprio tale previsione.
La questione deve essere pertanto essere risolta facendo riferimento
(indipendentemente da ogni considerazione circa la astratta differenza tra
le migliorie e le varianti, come risultante dalla giurisprudenza
amministrativa cui la sentenza fa riferimento, Cons. Stato, V, 10.01.2017 n. 42; ma vedasi anche tra altre, V,
09.09.2014 n. 4578 e, più di
recente, V, 14.05.2018 n. 2853) alla concreta disciplina rinvenibile dal
bando di gara e alla puntuale funzione rimessa agli elaborati tecnici
siccome ivi previsti.
L’appalto de quo, avente a oggetto i lavori “Grande viabilità urbana – 1°
lotto funzionale (tratto via Due Pozzi – via Paradiso)”, attiene alla
realizzazione di opere viarie e idrauliche: in particolare, le opere
rientranti nell’appalto rientrano (pag. 3 della lex specialis) nelle
categorie SOA: prevalente OG3 (strade, autostrade e ponti); scorporabile OG6
(acquedotti); subappaltabile OG10 (impianti per la trasformazione alta/media
tensione e per la distribuzione di energia elettrica in corrente alternata e
continua e impianti di pubblica illuminazione).
L’offerta tecnica, secondo la previsione del bando (pag. 17), consta di una
relazione tecnica contenente “proposte migliorative e aggiuntive” che
vengono preconizzate anche in relazione: alla viabilità e al pacchetto
stradale; all’inserimento di una pista ciclabile; alla regolazione degli
innesti tra la viabilità e la pista ciclabile; all’aumento delle condizioni
di sicurezza stradale; agli impianti fognari; all’impianto di smaltimento
delle acque meteoriche; all’impianto di fogna nera.
Ciò posto, la conclusione che l’offerta tecnica delle partecipanti non
avrebbe potuto sovvertire le caratteristiche progettuali già stabilite
dall’Amministrazione non risulta innanzitutto decisiva, considerato che,
quand’anche non nella forma più radicale della variante, le previste
migliorie e integrazioni -e soprattutto queste ultime- avevano proprio
l’obiettivo di impattare sulla viabilità e sulle opere idrauliche come
risultante dal progetto posto a gara. Proprio per tali ragioni esse non
possono che rientrare nella competenza esclusiva degli ingeneri, ai sensi
degli artt. 51 e 54 del regio decreto 23.10.1925, n. 2537,
“Approvazione del regolamento per le professioni di ingegnere e di
architetto”.
Si rammenta che
- il citato art. 51 stabilisce: “Sono di spettanza della
professione d'ingegnere, il progetto, la condotta e la stima dei lavori per
estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od
indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori
relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione,
alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali,
nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le
operazioni di estimo”;
- l’art. 54, secondo e terzo comma, prevede: “Coloro
che abbiano conseguito il diploma di laurea d'ingegnere-architetto presso
gli istituti d'istruzione superiore indicati nell'art. 1 della legge entro
il 31.12.1924, ovvero lo conseguiranno entro il 31.12.1925,
giusta le norme stabilite dall'art. 6 del R.D. 31.12.1923, n. 2909,
sono autorizzati a compiere anche le mansioni indicate nell'art. 51 del
presente regolamento, eccettuate le applicazioni industriali. La presente
disposizione è applicabile anche a coloro che abbiano conseguito il diploma
di architetto civile nei termini suddetti, ad eccezione però di quanto
riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori
relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere
idrauliche”.
Per altro verso esse sfuggono alla competenza degli architetti, non
rientrando nel concetto di edilizia civile di cui all’art. 52 (“Formano
oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto
le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di
estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano
rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici
contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle
arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica
ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”), ancorché tale concetto sia considerato nella sua accezione più vasta,
richiamata dalla giurisprudenza (Cons. Stato, VI, 15.03.2013 n. 1550: “si
può affermare che il concetto di ‘opere di edilizia civile’ si estenda
sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a
ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del
fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di
riscaldamento compresi nell’edificazione”).
Deve al riguardo ancora rammentarsi che, nello stabilire l’ampiezza delle
competenze riconosciute, rispettivamente, agli ingegneri e agli architetti
ai sensi del combinato disposto degli articoli 51 e 52 dello stesso regio
decreto n. 2537 del 1925, la giurisprudenza ha confermato l’orientamento
tradizionale, in ordine alla ricomprensione nell’esclusivo appannaggio della
professione di ingegnere delle opere di carattere più marcatamente
tecnico-scientifico, di ingegneria idraulica, di ammodernamento e
ampliamento della rete idrica comunale (Cons. Stato, VI, n. 1550/2013, cit.).
Recentemente la Sezione ha affermato che “Il r.d. 23.10.1925 n. 2537
recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere
esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la
possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i
lavori relativi ad opere idrauliche” (Cons. Stato, V, 19.05.2016 n.
2095).
2.1.2. Ad analoghe conclusioni, di non condivisibilità del convincimento del
primo giudice, deve giungersi anche per il secondo ordine di considerazioni
che, oltre a sottovalutare immotivatamente e in concreto la portata delle
specifiche varianti migliorative e integrative costituenti, a termini del
bando di gara, precipuo oggetto della offerta tecnica delle partecipanti
alla procedura, si profila del tutto immotivata anche nel disattendere le
distinzioni insistenti tra le due considerate categorie professionali, come
pure lamentato dal primo motivo dell’appello in esame.
3. L’appello, assorbita ogni altra questione pure introdotta dalla parte
appellante (e tra esse quella della possibilità di una contemporanea
iscrizione agli ordini delle due considerate professioni di ingegnere e
architetto), va pertanto accolto, con conseguente riforma della sentenza
appellata e accoglimento della domanda demolitoria formulata in primo grado (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.09.2018 n.
6552 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: A norma dell’art. 16,
lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, e come si desume anche dalle ll. 05.11.1971, n. 1086 e
02.02.1974, n. 64, che hanno rispettivamente
disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone
sismiche, nonché dalla l. 02.03.1949, n. 144 (recante la tariffa
professionale), … la competenza dei geometri è limitata alla progettazione,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di
quelle che comportino l’adozione -anche parziale- di strutture in cemento
armato; solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a
norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si
tratti di piccole costruzioni accessorie nell’ambito di edifici rurali o
destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni
di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le
persone …
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e
quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei
geometri- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione
e l’esecuzione dell’opera comportano e le capacità occorrenti per superarle;
a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben
potendo anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza di
esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in
zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio
alla normativa di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi
che esulano dalle competenze professionali dei geometri.
---------------
Sulla qualificazione, infine, del professionista incaricato, il Comune
rileva che il progetto -assentito in base alla legge n. 219/1981 e
riguardante interventi di ricostruzione in area colpita dal terremoto del
novembre 1980 e del febbraio 1981- è sottoscritto da un perito edile, non
abilitato a tal fine.
Al riguardo, il Consiglio di Stato ha precisato che «a norma dell’art. 16,
lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, e come si desume anche dalle ll. 05.11.1971, n. 1086 e
02.02.1974, n. 64, che hanno rispettivamente
disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone
sismiche, nonché dalla l. 02.03.1949, n. 144 (recante la tariffa
professionale), … la competenza dei geometri è limitata alla progettazione,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di
quelle che comportino l’adozione -anche parziale- di strutture in cemento
armato; solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a
norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si
tratti di piccole costruzioni accessorie nell’ambito di edifici rurali o
destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni
di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le
persone …
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e
quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei
geometri- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione
e l’esecuzione dell’opera comportano e le capacità occorrenti per superarle;
a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben
potendo anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza di
esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in
zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio
alla normativa di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi
che esulano dalle competenze professionali dei geometri» (Cons. di Stato, V,
sent. n. 883/2015) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 26.03.2018 n. 430 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
PROGETTUALI: Il
criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e
quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei
geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), del r.d. n. 274 del 1929-
consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e
l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle e
a tale fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato, assume
significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica,
con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa
di cui alla legge n. 64 del 1974, la quale impone calcoli complessi che
esulano dalle competenze professionali dei geometri.
---------------
4. Le doglianze, che possono essere esaminate congiuntamente per l'evidente
connessione, sono infondate.
4.1. La Corte d'appello ha escluso il requisito della modestia della
costruzione con motivazione corretta sotto il profilo dell'applicazione dei
principi che regolano la materia, e immune da vizi logici.
Richiamata la documentazione in atti e la CTU disposta in primo grado, la
Corte territoriale ha chiarito che, oltre all'importo in sé rilevante, la
tipologia dei lavori di completamento del primo piano dell'edificio e di
sopraelevazione dell'ultimo coinvolgevano anche la statica dell'edificio, e
quindi comportavano difficoltà tecniche di progettazione e di esecuzione che
esulano dalla competenza professionale del geometra, dovendosi anche tenere
conto della sismicità dei luoghi, con conseguente assoggettamento alla
normativa contenuta nella legge n. 64 del 1974.
4.2. La sentenza impugnata si colloca nel solco della giurisprudenza di
questa Corte, che afferma, con orientamento consolidato, che il criterio per
accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua
progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi
dell'art. 16, lett. m), del r.d. n. 274 del 1929- consiste nel valutare le
difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera
comportano e le capacità occorrenti per superarle e a tale fine, mentre non
è decisivo il mancato uso del cemento armato, assume significativa rilevanza
il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente
assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla legge
n. 64 del 1974, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle
competenze professionali dei geometri (ex plurimis, Cass., sent.
08/04/2009 n. 8543) (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 08.03.2017 n. 5871). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Secondo
giurisprudenza, solo per gli
interventi di ordine strutturale “in taluni casi (e non sempre) potrebbe
ipotizzarsi un'assenza di competenze dei geometri”, mentre con riferimento a
lavori di manutenzione straordinaria “detta competenza non può astrattamente
escludersi, a meno che la concreta connotazione dell'intervento non lo
imponga”.
Medesima giurisprudenza, al fine di delimitare la
competenza dei geometri, ha affermato che “il criterio per accertare se la
progettazione di una costruzione rientri nella competenza professionale dei
geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929 n. 274,
consiste, infatti, nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione
e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle.
La delimitazione della competenza dei geometri e geometri laureati in tale
materia va effettuata anche in base al criterio economico e
tecnico-qualitativo della modestia o tenuità dell'opera, cosicché agli
stessi è preclusa la realizzazione di un complesso di opere che richieda una
visione di insieme, che ponga problemi di carattere programmatorio, che
imponga una valutazione complessiva di una serie di situazioni la cui
soluzione, sotto il profilo tecnico, può incontrare difficoltà non
facilmente superabili con la competenza professionale dei medesimi
professionisti”;
---------------
Vista, nel merito, la censura con la quale viene dedotto che
nessuno degli elaborati contenuti nella busta n. 2, concernenti la
documentazione tecnica dell’impresa aggiudicataria, risulta firmato da un
progettista abilitato, come richiesto a pena di esclusione dal punto XII.3
della lettera di invito, tale non potendo considerarsi il legale
rappresentante della suddetta impresa, essendo egli in possesso della sola
qualifica di geometra (e non di quella, asseritamente necessaria, di
ingegnere);
Rilevato preliminarmente che la lex specialis, al punto XII.3,
effettivamente dispone che “tutti i documenti precedentemente indicati
(relativi all’offerta tecnica: n.d.e.) dovranno essere sottoscritti, a pena
di esclusione, con firma leggibile e per esteso, dal legale rappresentante
del concorrente (…) nonché da un tecnico abilitato”;
Evidenziato altresì che i documenti costitutivi dell’offerta
tecnica dell’impresa aggiudicataria risultano effettivamente sottoscritti
dal solo legale rappresentante dell’impresa, geom. Gu.Fa.;
Considerato quindi che si rende necessario verificare se la
sottoscrizione dei suddetti documenti da parte del solo rappresentante
dell’impresa, in possesso del titolo di geometra, sia idonea ad assolvere
sia al ruolo di elemento di riconoscimento della paternità del documento e
di assunzione della responsabilità in ordine al suo contenuto, propria della
sottoscrizione da parte del legale rappresentante dell’impresa offerente,
sia a quello di garanzia della attendibilità ed affidabilità tecnica delle
proposte migliorative trasfuse nell’offerta tecnica;
Ritenuto che al quesito, con particolare riguardo al solo (ed unico
controverso) secondo aspetto, debba darsi risposta affermativa;
Evidenziato infatti che il progetto a base di gara, e la connessa
offerta migliorativa dell’impresa aggiudicataria, ha ad oggetto “lavori di
adeguamento normativo e di efficienza energetica” dell’edificio scolastico
interessato, articolati nelle seguenti tipologie di interventi (cfr. II.1
della lex specialis):
- “isolamento termico dell’involucro edilizio”, ovvero “sostituzione degli
infissi esistenti con infissi in alluminio a taglio termico con vetrate
termoisolanti e di sicurezza”;
- “adeguamento impianto elettrico”, ovvero “impianto video-citofonico”,
“lampade e lampade d’emergenza”, "sostituzione lampade interne per uffici,
aule e disimpegni e lampade esterne per corte, scale metalliche, ascensore,
area attualmente destinata a parcheggio”;
- “n. 2 scale esterne di sicurezza";
- “impianti idrici antincendio”: “impianti di rilevazione, segnalazione
incendi e opere complementari”;
- “servizi igienici e opere complementari”;
- “ascensore”;
- “rifacimento facciate esterne conseguente alla realizzazione di
ascensore”;
- “rifacimento superficie delle aree esterne relativamente a corte interna e
spazio attualmente destinato a parcheggio e manovra di autoveicoli e
raccordi rispetto alle scale metalliche esterne di sicurezza”;
Evidenziato che i lavori suindicati sono riconducibili alla
categoria edilizia della “manutenzione straordinaria”, senza implicazioni di
carattere strutturale;
Richiamato quindi, al fine di dimostrare l’infondatezza della
censura in esame, quanto statuito dalla giurisprudenza (cfr. TAR Sicilia,
Palermo, Sez. III, n. 3422 del 22.12.2014), nel senso che solo per gli
interventi di ordine strutturale “in taluni casi (e non sempre) potrebbe
ipotizzarsi un'assenza di competenze dei geometri”, mentre con riferimento a
lavori di manutenzione straordinaria “detta competenza non può astrattamente
escludersi, a meno che la concreta connotazione dell'intervento non lo
imponga”;
Rilevato che la medesima giurisprudenza, al fine di delimitare la
competenza dei geometri, ha affermato che “il criterio per accertare se la
progettazione di una costruzione rientri nella competenza professionale dei
geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929 n. 274,
consiste, infatti, nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione
e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle.
La delimitazione della competenza dei geometri e geometri laureati in tale
materia va effettuata anche in base al criterio economico e
tecnico-qualitativo della modestia o tenuità dell'opera, cosicché agli
stessi è preclusa la realizzazione di un complesso di opere che richieda una
visione di insieme, che ponga problemi di carattere programmatorio, che
imponga una valutazione complessiva di una serie di situazioni la cui
soluzione, sotto il profilo tecnico, può incontrare difficoltà non
facilmente superabili con la competenza professionale dei medesimi
professionisti”;
Ribadito in proposito che, nella specie, i lavori che vengono in
rilievo non presentano profili di particolare difficoltà o complessità né
importano una “visione d’insieme”, mentre, con specifico riferimento alle
opere impiantistiche, non può non rilevarsi che l’impresa aggiudicataria,
avente forma di impresa individuale, è abilitata all’esecuzione delle opere
impiantistiche di cui all’art. 1 d.m. n. 37 del 22.01.2008 ed il legale
rappresentante della stessa, firmatario come si è detto dell’offerta tecnica
e dei documenti che la compongono, ne è anche il responsabile tecnico (cfr.
il certificato della Camera di Commercio di cui all’all. n. 5 della
produzione difensiva dell’amministrazione intimata), ad ulteriore
dimostrazione del possesso da parte dello stesso delle competenze e delle
conoscenze tecniche necessarie per predisporre l’offerta migliorativa (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 29.07.2016 n. 1803 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: La
nozione di opere di edilizia civile, che ai sensi dell'art. 52 R.D. 23.10.1925 n. 2537 formano
oggetto della professione sia dell'ingegnere che dell'architetto, si estende
oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere <l'intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e
quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento
compresi nell'edificazione>.
Sicché, "è illegittimo il rifiuto
dell'ISPESL di procedere a verifica di un impianto di riscaldamento
installato, in un plesso scolastico solo perché il relativo progetto era
firmato da un architetto, trattandosi di opera accessoria
all'edificazione".
---------------
... per l'annullamento della determinazione del Responsabile Servizio, Area
tecnica, del Comune di Lauro n. 80 del 29.02.2016, avente ad oggetto
l’aggiudicazione definitiva dell’”appalto lavori di realizzazione di un
nuovo plesso scolastico nel Comune di Lauro”, di tutti gli atti connessi e
presupposti, nonché per la declaratoria di inefficacia del contratto
eventualmente stipulato e per la condanna al risarcimento del danno.
...
Vista la censura con la quale viene dedotto che l’impresa aggiudicataria
avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara, avendo prodotto un contratto di
avvalimento sottoposto alla condizione sospensiva dell’aggiudicazione dei
lavori a favore dell’impresa ausiliata, con la conseguenza che, nel corso
del procedimento di gara, la stessa era da ritenersi priva del requisito OG
1, classifica IV-bis, per il cui prestito era stato stipulato il suddetto
contratto di avvalimento;
Ritenuta l’infondatezza della censura suindicata;
Considerato infatti che il contratto di avvalimento oggetto di contestazione
è subordinato ad una condizione sospensiva di efficacia di carattere non
meramente potestativo, siccome coincidente con un evento (l’aggiudicazione
dell’appalto a favore dell’impresa avvalente) di carattere oggettivo ed
indipendente dalla mera volontà dell’impresa concorrente, con la conseguenza
che esso costituisce un mezzo giuridicamente idoneo a garantire che
l’impresa ausiliata disporrà, una volta intervenuta l’eventuale
aggiudicazione a suo favore dell’appalto, delle risorse e dei mezzi
necessari all’esecuzione della prestazione, in relazione al requisito
oggetto di avvalimento;
Rilevato che siffatta conclusione trova fondamento nel carattere
obbligatorio del contratto di avvalimento, così come tipizzato dall’art. 49,
comma 2, lett. f), d.lvo n. 163/2006 (che lo definisce come il “contratto in
virtù del quale l'impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del
concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse
necessarie per tutta la durata dell'appalto”) e nella necessaria coincidenza
temporale della sua concreta operatività, come previsto dalla norma
richiamata, con la “durata dell’appalto”, piuttosto che con quella del
procedimento di aggiudicazione;
Vista la censura con la quale l’esclusione dell’impresa aggiudicataria viene
altresì invocata dalla parte ricorrente sulla scorta della sottoscrizione
dell’offerta tecnica da essa presentata da parte di due architetti,
piuttosto che da professionisti abilitati ed iscritti all’Albo degli
Ingegneri, come sarebbe stato necessario prevedendo essa la realizzazione:
a) di un impianto fotovoltaico; b) di un impianto solare termico; c) di un
impianto di climatizzazione, ovvero di opere ad elevato contenuto innovativo
e tecnologico;
Ritenuta l’infondatezza della censura suindicata, alla luce della assenza di
specifiche prescrizioni sul punto della lex specialis e, soprattutto, di
quanto statuito dalla giurisprudenza (cfr. TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
n. 708 del 18.04.2012), nel senso che “la nozione di opere di edilizia
civile, che ai sensi dell'art. 52 R.D. 23.10.1925 n. 2537 formano
oggetto della professione sia dell'ingegnere che dell'architetto, si estende
oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere <l'intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e
quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento
compresi nell'edificazione>” (conforme Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4866
del 31.07.2009, secondo cui "di conseguenza, è illegittimo il rifiuto
dell'ISPESL di procedere a verifica di un impianto di riscaldamento
installato, in un plesso scolastico solo perché il relativo progetto era
firmato da un architetto, trattandosi di opera accessoria
all'edificazione");
Rilevato infatti che le suddette opere impiantistiche sono destinate ad
integrarsi nella (ed hanno quindi carattere accessorio rispetto alla)
realizzazione dell’opus principale oggetto di appalto, rappresentato dalla
edificazione di un plesso scolastico (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 25.05.2016 n. 1294 - link a
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COMPETENZE PROGETTUALI: Il
r.d. 23.10.1925 n. 2537, recante il regolamento delle professioni di
architetto e di ingegnere, esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3,
senza dubbi interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo
di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche.
---------------
Au.Soc.Coop. e Pr. S.r.l. partecipavano alla procedura di gara, indetta dal
Comune di Arienzo, per l’affidamento del servizio di direzione lavori,
misurazione e contabilità, assistenza al collaudo, nonché coordinamento
della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori per l'intervento di
potenziamento e sistemazione della rete idrica cittadina.
La gara era stata bandita con procedura aperta e con il criterio di
aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
La Pr. S.r.l. risultava aggiudicataria provvisoria e quindi definitiva, con
un punteggio complessivo di 95, mentre la Au.Soc.Coop., unica altra
concorrente rimasta in gara, si classificava seconda con un punteggio
complessivo di 73,26.
Au.Soc.Coop. impugnava i risultati della gara con ricorso al TAR della
Campania, iscritto al R.G. 745 del 2015, lamentando la mancata esclusione
dell’aggiudicataria, in quanto quest’ultima aveva indicato quale direttore
dei lavori un architetto e non un ingegnere, come invece avrebbe richiesto
l’oggetto dell'appalto inerente al “potenziamento e sistemazione della
rete idrica cittadina”, ai sensi degli artt. 51 e 54 del R.D. n.
2537/1925, alla luce dei quali sarebbe dovuta essere interpretata la
normativa dettata dal bando di gara, da ritenersi illegittima ove
interpretata nel senso inteso dalla stazione appaltante; inoltre la mancata
esclusione dell’aggiudicataria anche per l’ulteriore ragione che questa non
avrebbe dimostrato il possesso dei requisiti tecnici necessari, in quanto
avrebbe riferito il requisito posseduto dal socio alla società, pur se ormai
era scaduto il periodo di cinque anni dalla costituzione della società,
previsto dall’art. 253, comma 15, del codice dei contratti pubblici,
ribadendo, inoltre, anche sotto tale profilo, la violazione la violazione
degli artt. 51 e 54 del R.D. n. 2537/1925.
...
Anche detti motivi sono fondati.
Il r.d. 23.10.1925 n. 2537, recante il regolamento delle professioni di
architetto e di ingegnere, esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3,
senza dubbi interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo
di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche: e la Pr.
s.r.l. aveva indicato l’architetto Fr.Za., proprio amministratore unico e
direttore tecnico, quale direttore dei lavori di sistemazione della rete
idrica di Arienzo per cui è controversia.
Per le considerazioni suesposte i due appelli riuniti devono essere raccolti
per quanto concerne la revoca dell’aggiudicazione definitiva, mentre va
altresì accolto l’appello di Au.Soc.Coop. avverso quest’ultima in quanto
affidata alla Pr. s.r.l. (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.05.2016 n.
2095 - link a
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: La
distanza minima voluta dal d.m. 01.04.1968
(delle costruzioni rispetto al manto stradale), a prescindere dall'esistenza
di pericoli e/o ostacoli alla circolazione, è intesa non solo a costituire
una zona di rispetto -indipendentemente dalla circostanza che le
costruzioni sorgano a ridosso del manto stradale- ma anche ad impedire che
le stesse possano frapporsi ad eventuali opere di ampliamento ovvero di
ammodernamento della strada.
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La ratio principale sottesa alla individuazione
di fasce di rispetto consiste nella necessità di porre distanze minime tra
gli edifici e il manto stradale onde garantire l'incolumità degli utenti
della strada e delle zone circostanti: a tale ragione principale se ne
affiancano altre (quali quella di assicurare un'area contigua all'arteria
stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore
per l'esecuzione di lavori) che non sono immediatamente correlate alla
esigenza di sicurezza del traffico, pur costituendone logica conseguenza.
In
tale ottica, rappresentano un potenziale ostacolo all'esigenza di tutelare
la sicurezza stradale non solo quelle opere che, per sporgere dal suolo,
limitano la visibilità o in qualche modo disturbano la regolarità della
circolazione ma anche quelle che, pur non elevandosi rispetto al piano
stradale, incidono sull'assetto del territorio circostante, atteggiandosi
come un potenziale ostacolo, suscettibile di costituire, per la sua
prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e
alla incolumità delle persone.
Come già affermato in giurisprudenza, dunque,
l'espressione "edificazione", stante la ratio della norma, va intesa
nell'accezione più lata del termine "sì da farvi certamente rientrare ogni
stabile modificazione dello stato dei luoghi, con esclusione dei soli
interventi che, in quanto totalmente interrati, non incidono in alcun modo
sulla superficie, neppure in misura minima".
---------------
5. Neppure è condivisibile la seconda censura, con la quale viene
dedotta l’illegittimità, nel merito, del provvedimento in esame.
Si osserva sul punto che, la distanza minima voluta dal d.m. 01.04.1968
(delle costruzioni rispetto al manto stradale), a prescindere dall'esistenza
di pericoli e/o ostacoli alla circolazione, è intesa non solo a costituire
una zona di rispetto -indipendentemente dalla circostanza che le
costruzioni sorgano a ridosso del manto stradale- ma anche ad impedire che
le stesse possano frapporsi ad eventuali opere di ampliamento ovvero di
ammodernamento della strada.
Ancora, l'art. 23, comma 8, della l.r. n. 37/1985, nel testo vigente
all’epoca dei fatti per cui è causa, così disponeva: “possono conseguire la
concessione o l'autorizzazione in sanatoria le costruzioni ricadenti nelle
fasce di rispetto stradali definite dal decreto ministeriale 01.04.1968
sempre che a giudizio degli enti preposti alla tutela della viabilità le
costruzioni stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico”.
La circolare n. 3357/25 del 30.07.1985 -interpretativa della legge
47/1985 il cui articolo 32, comma 2, lett. c), fa riferimento al medesimo
concetto di “minaccia alla sicurezza del traffico” di cui alla predetta
norma regionale- ha chiarito che “quando l'abuso sia costituito da un
fabbricato di piccole dimensioni su strada diritta senza intersezioni, curve
o singolarità plano-volumetriche prossime, la concessione edilizia in
sanatoria sarà ammissibile ove il manufatto disti dalla strada almeno 5
metri, ovvero almeno metà della larghezza della strada, se superiore tale
frazione a 5 metri”.
6. In questo contesto normativo, la giurisprudenza chiamata a pronunciarsi
sul punto ha precisato che: “La ratio principale sottesa alla individuazione
di fasce di rispetto consiste nella necessità di porre distanze minime tra
gli edifici e il manto stradale onde garantire l'incolumità degli utenti
della strada e delle zone circostanti: a tale ragione principale se ne
affiancano altre (quali quella di assicurare un'area contigua all'arteria
stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore
per l'esecuzione di lavori) che non sono immediatamente correlate alla
esigenza di sicurezza del traffico, pur costituendone logica conseguenza. In
tale ottica, rappresentano un potenziale ostacolo all'esigenza di tutelare
la sicurezza stradale non solo quelle opere che, per sporgere dal suolo,
limitano la visibilità o in qualche modo disturbano la regolarità della
circolazione ma anche quelle che, pur non elevandosi rispetto al piano
stradale, incidono sull'assetto del territorio circostante, atteggiandosi
come un potenziale ostacolo, suscettibile di costituire, per la sua
prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e
alla incolumità delle persone. Come già affermato in giurisprudenza, dunque,
l'espressione "edificazione", stante la ratio della norma, va intesa
nell'accezione più lata del termine "sì da farvi certamente rientrare ogni
stabile modificazione dello stato dei luoghi, con esclusione dei soli
interventi che, in quanto totalmente interrati, non incidono in alcun modo
sulla superficie, neppure in misura minima" (cfr. TAR Emilia Romagna,
Parma, 26.01.2006, n. 370)” (cfr. TAR Palermo n. 3197/2014, confermata
dal CGARS con sentenza n. 955/2019 che ha ribadito che “Non è dubbio
pertanto che, ai fini dell’ammissibilità in sanatoria di un immobile, è
necessario che la distanza dello stesso dal limite stradale deve essere
almeno di 5 m”).
7. Nella fattispecie in esame, l’ufficio tecnico, con il diniego di nulla
osta impugnato, ha rilevato innanzitutto che “l'ampliamento in sanatoria,
confinante con la S.P. n. 54, consiste nella trasformazione di un terrazzo
coperto con cannizzo, ancorato su strutture lignee (travi e traverse),
tipico dell'isola di Pantelleria, preesistente da almeno 30 anni, modificato
attraverso l'apposizione di ante in legno e scorrevoli, su una struttura
costituita da travi in legno e muretto di delimitazione della proprietà, con
l'aggiunta di copertura con pannelli coibentati, ubicata a ridosso di un
complesso edilizio vetusto preesistente, sottolineando la precarietà della
struttura in relazione ai materiali e alla possibilità di amovibilità. La
preesistenza della porzione in sanatoria da almeno 30 anni, ed il suo
posizionamento a ridosso da altra porzione vetusta, non hanno alcuna
rilevanza ai fini dell'applicabilità delle limitazioni al rilascio delle
concessioni per opere eseguite su aree sottoposte a vincolo di
inedificabilità, dettate dalle norme in materia di recupero e sanatoria
delle opere abusive di cui alla L. n. 47/1985”.
Ha precisato che tutte le argomentazioni relative al diniego si riferiscono
all’abuso nella sua interezza, che ricomprende anche il muro che, oltre che
da delimitazione del lotto, funge da tamponatura del vano, da supporto agli
infissi e/o da sostegno delle travi di copertura.
Ha altresì evidenziato che il punto 4.3 della Circolare del Ministero dei
LL.PP. 30.07.1985 n. 3357/25 “precisa che sono sanabili le costruzioni
realizzate nelle fasce poste a protezione del nastro stradale, a condizione
che non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico” e che, per la
costruzione su strada in rettilineo, "il criterio per l'ammissibilità della
concessione edilizia in sanatoria … decorre ove il manufatto disti dalla
strada almeno 5m”.
Ha infine constatato che “la distanza del fabbricato dalla strada dalla
strada è pari a m 0,00, inferiore a m 5,00” ed ha concluso esprimendo il
proprio parere negativo.
8. Orbene, ritiene il Collegio che la distanza dell'immobile de quo dal
confine stradale, essendo sensibilmente inferiore ai 5,00 metri previsti
dalla normativa vigente quale vincolo assoluto di inedificabilità, ha
giustamente comportato il diniego del nulla osta da parte del Libero
Consorzio Comunale di Trapani.
Invero, come correttamente evidenziato dalla difesa del Consorzio, la
predetta circolare n. 3357/25 al paragrafo 4.3, nel prevedere che sono
sanabili le costruzioni realizzate nelle fasce poste a protezione del nastro
stradale a condizione che non costituiscano minaccia alla sicurezza del
traffico, “ha precisato i criteri per stabilire se esiste tale minaccia e
se, perciò, la concessione in sanatoria debba essere negata, indicando le
diverse tipologie: A) Abusi singoli su strada in rettilineo; B) Abusi
singoli su intersezione stradale; C) Abusi plurimi o di dimensioni notevoli
su strade in rettilineo; D) Abusi plurimi su intersezione stradale; E) Abusi
singoli o plurimi in corrispondenza di curve, dossi, disuniformità
planovolumetriche”.
La tipologia cui si riconduce il caso in esame è indubbiamente la A),
secondo cui: “Quando l'abuso sia costituito da un fabbricato di piccole
dimensioni su strada diritta senza intersezioni, curve o singolarità
plano-volumetriche prossime, la concessione edilizia in sanatoria sarà
ammissibile ove il manufatto disti dalla strada almeno 5 m, ovvero almeno
metà della larghezza della strada, se superiore tale frazione a 5 m.”.
Come già visto, non è dubbio che, ai fini dell'ammissibilità alla sanatoria
di un immobile, è necessario che la distanza dello stesso dal limite
stradale deve essere almeno di 5 m. e che detta distanza di 5.00 metri
costituisce vincolo assoluto di inedificabilità (in tal senso, oltre alla
giurisprudenza già citata, si veda C. di St. n. 5716/2002). Allorquando,
come nella fattispecie (l'immobile dista “0,00 m dal ciglio stradale”), tale
distanza è inferiore la costruzione costituisce minaccia alla sicurezza
della circolazione secondo quanto stabilito dalla Circolare in argomento.
L’ente proprietario ha correttamente dichiarato la sussistenza di un
pregiudizio alla sicurezza del traffico, affermando chiaramente che non
sussistono le condizioni minime relativamente alla distanza, come previste
sia dalla legge che dalla circolare citate.
Dunque l’accertamento “specifico” è stato effettuato, e la “peculiarità dei
luoghi” è stata constatata, (avendo effettuato sopralluogo e constatato che
non esistevano le condizioni minime di legge).
9. In conclusione il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 22.09.2022 n. 2630 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vincolo d'inedificabilità
gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde
dalle caratteristiche dell'opera realizzata.
Il divieto di costruzione sancito dal D.M. 01.04.1968, n. 1404 non può
essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di
ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla
sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità
delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una
fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, per l'esecuzione dei
lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la
realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di
costruzioni.
Pertanto, le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad
opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano
mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate
rispetto alle opere preesistenti.
Da quanto sopra deriva che il vincolo in questione ha carattere assoluto,
giacché non ha solo il fine di assicurare il transito sicuro sulla strada,
ma anche quello di consentire un'ampia capacità di manutenzione della
stessa, che non può essere valutata caso per caso (facendo così degradare il
vincolo da assoluto a relativo), non essendo possibile prevedere le future
evenienze manutentive.
---------------
8.6 Il complessivo quadro probatorio, emergente dalla documentazione in
atti, evidenzia, pertanto, non solo che il ricorrente ha omesso di
dimostrare l’anteriorità al 1967 delle opere oggetto della domanda di
condono –il che è sufficiente per il rigetto delle censure attoree– ma
anche che alla data del 1967 non vi erano opere edili sul fondo nella
disponibilità del Sig. El., risultando acquisiti al giudizio atti
incompatibili con un’attività edilizia a tale data già esaurita.
Tali considerazioni conducono al rigetto del secondo motivo di appello, sia
nella parte in cui deduce l’anteriorità delle opere de quibus rispetto al
1967, sia in quella in cui tende a censurare l’illegittimità di una delle
autonome rationes decidendi alla base del diniego di condono, data dalla
violazione della fascia di rispetto stradale imposta con D.M. n. 1404/1968.
Difatti, non risultando dimostrata la datazione delle opere oggetto della
domanda di condono, non risulta comprovata neppure la loro anteriorità
rispetto all’imposizione del vincolo di cui al D.M. m. 1404/1968, avente
natura di inedificabilità assoluta e, dunque, ostativo alla sanatoria delle
opere edificate in sua violazione.
8.7 Al riguardo, si osserva, infatti, che il vincolo d'inedificabilità
gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde
dalle caratteristiche dell'opera realizzata.
Il divieto di costruzione sancito dal D.M. 01.04.1968, n. 1404 non può
essere inteso restrittivamente, al solo scopo di prevenire l'esistenza di
ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla
sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità
delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una
fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, per l'esecuzione dei
lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la
realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di
costruzioni.
Pertanto, le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad
opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano
mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate
rispetto alle opere preesistenti (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato,
sez. VI, 30.11.2011, n. 7975).
Da quanto sopra deriva che il vincolo in questione ha carattere assoluto,
giacché non ha solo il fine di assicurare il transito sicuro sulla strada,
ma anche quello di consentire un'ampia capacità di manutenzione della
stessa, che non può essere valutata caso per caso (facendo così degradare il
vincolo da assoluto a relativo), non essendo possibile prevedere le future
evenienze manutentive (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.08.2022 n. 6780 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
l’orientamento della giurisprudenza amministrativa in tema di fascia di
rispetto stradale:
- “è dirimente osservare che, in disparte la
questione dell'applicabilità del D.M. n. 1404 del 1968, la condonabilità
dell'intervento edilizio in contestazione è comunque preclusa dal vincolo
dettato, in tema di distacchi delle costruzioni dalle sedi autostradali,
dall'art. 9, comma 1, della L. 24.07.1961, n. 729, secondo cui ‘lungo i
tracciati delle autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei
progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare
edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal
limite della zona di occupazione dell'autostrada stessa’.
Il citato vincolo di inedificabilità -preordinato non solo a prevenire la
presenza di ostacoli costituenti un possibile pregiudizio per la
circolazione, ma anche ad assicurare la disponibilità di un'area contigua
alla sede stradale all'occorrenza utilizzabile per un ampliamento della
medesima- si traduce in un divieto assoluto di edificazione, ragion per cui
è pertinente il richiamo fatto dall'A. alla previsione di cui all'art. 33
della L. 28.02.1985, n. 47, il quale non prevede la possibilità di sanatoria
delle opere realizzate in contrasto con un vincolo di inedificabilità
imposto in epoca anteriore all'esecuzione (mentre non trova applicazione
l'art. 32 della stessa legge, in base al quale è ammissibile la sanatoria,
anche tramite silenzio-assenso, per le opere insistenti su aree vincolate
dopo l'esecuzione).
La predetta disposizione, vigente all'epoca di realizzazione dell'abuso,
trova continuità normativa nei limiti di edificazione -da rispettare tanto
fuori del centro abitato che nell'ambito di quest'ultimo- introdotti dal
D.Lgs. 30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) e dal suo regolamento
di attuazione: segnatamente, l'art. 28 del D.P.R. 16.12.1992, n. 495
(Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada),
nel disciplinare le "fasce di rispetto per l'edificazione nei centri
abitati", fissa il limite di metri 30 per le strade di tipo A, cioè per le
autostrade (come definite dall'art. 2 del codice della strada)”;
- “Si
ritiene, invero, che il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di
rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche
dell'opera realizzata.
Il divieto di costruzione sancito dall'art. 9 della L. n. 729 del 1961 e dal successivo D.M. n. 1404 del 1968, dunque, non può
essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di
ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla
sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico ed all'incolumità
delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una
fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, per l'esecuzione dei
lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la
realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla
presenza di costruzioni.
Pertanto, le distanze previste vanno osservate comunque anche con
riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che
costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano
arretrate rispetto alle opere preesistenti.
L'inderogabilità del vincolo e la sua natura assoluta fanno rientrare lo
stesso, in tema di condono edilizio, nell'ambito applicativo dell'articolo
33 della L. n. 47 del 1985, disciplinante le ‘Opere non suscettibili di
sanatoria’.
Ed, invero, la norma prevede, per quanto qui di interesse, che ‘Le opere di
cui all'articolo 31 non sono suscettibili di sanatoria quando siano in
contrasto con i seguenti vincoli, qualora questi comportino inedificabilità
e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse: ....d) ogni
altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree’”.
---------------
Quanto alla pretesa necessità di una valutazione della pericolosità in
concreto del fabbricato abusivo (ossia che non costituisca minaccia alla
sicurezza del traffico), il provvedimento impugnato è esente da censure,
essendo la distanza stabilita per legge già volta a tutelare le medesime
esigenze di sicurezza del traffico.
Il vincolo, infatti, non ha soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza di
ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla
sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità
delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una
fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per
l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di
materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi
alla presenza di costruzioni.
Si fa quindi riferimento a un ampio concetto di esigenza manutentiva,
anch’essa attinente alla sicurezza e fluidità della circolazione, che non si
presta ad essere valutata caso per caso per l’impossibilità oggettiva di
potere prevedere tutte le future evenienze.
---------------
5. Il ricorso è infondato e le censure devono essere complessivamente
analizzate poiché connesse.
5.1. Anzitutto, deve essere chiarito che il fabbricato abusivo –realizzato
nel 1972 come indicato da parte ricorrente– è stato pacificamente edificato
quando il tratto autostradale di che trattasi era già esistente.
5.2. Quanto alla distanza del fabbricato abusivo dal confine autostradale, è
incontestato che trattasi di mt. 20,60 (e infatti questa misurazione è
indicata dall’interessata anche nelle proprie osservazioni del 17.09.2012).
Tuttavia, secondo parte ricorrente, si dovrebbe utilizzare come termine di
riferimento il ciglio autostradale, così pervenendo a una distanza di metri
36.
La tesi è infondata.
Il criterio di computo adottato dall’ANAS nel caso in esame è corretto, in
quanto la distanza deve essere misurata dal confine stradale inteso come
linea della fascia di esproprio, posto che la definizione di confine è
sancita normativamente dall’art. 3, co. 10, del nuovo codice della strada.
In particolare, l’art. 3, comma 1, punto 10, del D.lgs. 30.04.1992 n. 285,
definisce il “confine stradale” come “il limite della proprietà
stradale quale risulta dagli atti di acquisizione o dalle fasce di
esproprio del progetto approvato” (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sezione
Seconda, n. -OMISSIS-).
5.3. Puntualizzate tali premesse in punto di fatto e chiarito che l’immobile
è stato realizzato successivamente al tratto autostradale, deve essere ora
precisato che il vincolo esisteva già all’epoca di costruzione
dell’immobile.
La norma ratione temporis applicabile era l’art. 9 della L.
24.07.1961, n. 729, che prevedeva che “[comma 1] Lungo i tracciati delle
autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei progetti regolarmente
approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti
di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite della zona di
occupazione dell'autostrada stessa. La distanza è ridotta a metri 10 per gli
alberi da piantare. [comma 2] Le distanze di cui al comma precedente possono
essere ridotte per determinati tratti ove particolari circostanze lo
consiglino, con provvedimento del Ministro per i lavori pubblici, presidente
dell'A.N.A.S., su richiesta degli interessati e sentito il Consiglio di
amministrazione dell'A.N.A.S.”.
Nel caso di specie, non ricorreva l’ipotesi di deroga alle distanze prevista
dal comma 2, sicché all’epoca della costruzione del fabbricato la distanza
minima dalla sede autostradale restava fissata in 25 mt ai sensi della norma
citata, in vigore dal 1961.
Non rileverebbe nemmeno il fatto che l’edificio fosse situato o meno
all’interno del centro abitato. Ciò perché il vincolo di inedificabilità
nella fascia di 25 metri dal confine autostradale era comunque chiaramente
già posto dall’art. 9 l. n. 729/1961 cit. Anche prima dell’adozione del D.M.
01.04.1968 n. 1404 –che ha dettato le distanze minime dal nastro stradale in
attuazione dell’art. 19 l. n. 765/1967 (secondo cui “Fuori del perimetro
dei centri abitati debbono osservarsi nella edificazione distanze minime a
protezione del nastro stradale, misurate a partire dal ciglio della strada.
Dette distanze vengono stabilite con decreto del Ministro per i lavori
pubblici […]”)– l’area confinante con le autostrade non era liberamente
edificabile se fuori dal centro abitato.
5.4. Le osservazioni sopra svolte conducono al rigetto dei primi due motivi
di ricorso e sono in linea con l’orientamento della giurisprudenza
amministrativa, che il Collegio condivide e richiama (cfr. Cons. Stato, Sez.
VI, 16.04.2019, n. 2501: “è dirimente osservare che, in disparte la
questione dell'applicabilità del D.M. n. 1404 del 1968, la condonabilità
dell'intervento edilizio in contestazione è comunque preclusa dal vincolo
dettato, in tema di distacchi delle costruzioni dalle sedi autostradali,
dall'art. 9, comma 1, della L. 24.07.1961, n. 729, secondo cui ‘lungo i
tracciati delle autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei
progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare
edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal
limite della zona di occupazione dell'autostrada stessa’.
Il citato vincolo di inedificabilità -preordinato non solo a prevenire la
presenza di ostacoli costituenti un possibile pregiudizio per la
circolazione, ma anche ad assicurare la disponibilità di un'area contigua
alla sede stradale all'occorrenza utilizzabile per un ampliamento della
medesima- si traduce in un divieto assoluto di edificazione, ragion per cui
è pertinente il richiamo fatto dall'A. alla previsione di cui all'art. 33
della L. 28.02.1985, n. 47, il quale non prevede la possibilità di sanatoria
delle opere realizzate in contrasto con un vincolo di inedificabilità
imposto in epoca anteriore all'esecuzione (mentre non trova applicazione
l'art. 32 della stessa legge, in base al quale è ammissibile la sanatoria,
anche tramite silenzio-assenso, per le opere insistenti su aree vincolate
dopo l'esecuzione).
La predetta disposizione, vigente all'epoca di realizzazione dell'abuso,
trova continuità normativa nei limiti di edificazione -da rispettare tanto
fuori del centro abitato che nell'ambito di quest'ultimo- introdotti dal
D.Lgs. 30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) e dal suo regolamento
di attuazione: segnatamente, l'art. 28 del D.P.R. 16.12.1992, n. 495
(Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada),
nel disciplinare le "fasce di rispetto per l'edificazione nei centri
abitati", fissa il limite di metri 30 per le strade di tipo A, cioè per le
autostrade (come definite dall'art. 2 del codice della strada)”;
- v. anche Cons. Stato, Sez. VI, 06.11.2019, n. 7572: “Si
ritiene, invero, che il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di
rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche
dell'opera realizzata. Il divieto di costruzione sancito dall'art. 9 della
L. n. 729 del 1961 e dal successivo D.M. n. 1404 del 1968, dunque, non può
essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di
ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla
sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico ed all'incolumità
delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una
fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, per l'esecuzione dei
lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la
realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla
presenza di costruzioni.
Pertanto, le distanze previste vanno osservate comunque anche con
riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che
costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano
arretrate rispetto alle opere preesistenti (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV,
30.09.2008, n. 4719; Cons. Stato, 15.04.2013, n. 2062; Cass. Civ., II,
03.11.2010, n. 22422; TAR Toscana, III, 23.07.2012, n. 1347; TAR Campania,
II, 26.10.2012, n. 4283).
L'inderogabilità del vincolo e la sua natura assoluta fanno rientrare lo
stesso, in tema di condono edilizio, nell'ambito applicativo dell'articolo
33 della L. n. 47 del 1985, disciplinante le ‘Opere non suscettibili di
sanatoria’ (cfr. Cons. Stato, IV, n. 2062/2013 cit.).
Ed, invero, la norma prevede, per quanto qui di interesse, che ‘Le opere di
cui all'articolo 31 non sono suscettibili di sanatoria quando siano in
contrasto con i seguenti vincoli, qualora questi comportino inedificabilità
e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse: ....d) ogni
altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree’”.
5.5. Deve poi aggiungersi, quanto alla pretesa necessità di una valutazione
della pericolosità in concreto del fabbricato (ossia che non costituisca
minaccia alla sicurezza del traffico), che il provvedimento è esente da
censure, essendo la distanza stabilita per legge già volta a tutelare le
medesime esigenze di sicurezza del traffico.
Il vincolo, infatti, non ha soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza di
ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla
sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità
delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una
fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per
l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di
materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi
alla presenza di costruzioni. Si fa quindi riferimento a un ampio concetto
di esigenza manutentiva, anch’essa attinente alla sicurezza e fluidità della
circolazione, che non si presta ad essere valutata caso per caso per
l’impossibilità oggettiva di potere prevedere tutte le future evenienze (cfr.
TAR Sicilia, Palermo, 07.01.2022,-OMISSIS-).
5.6. Infine, con il terzo motivo di ricorso la ricorrente deduce che
alla data di emanazione del preavviso di rigetto con richiesta di
osservazioni da parte di Anas, il nulla-osta doveva intendersi già
favorevolmente reso ai sensi dell'art. 17, comma 6, L.r. 16/04/2003,
considerato che era già trascorso il termine perentorio di centottanta
giorni e che nessun chiarimento o integrazione all'interessata era stato
chiesto.
La censura è infondata.
L’art. 17, comma 6, della L.reg.sic. n. 4/2003 non
risulta applicabile alla fattispecie in esame atteso che la formazione del
silenzio-assenso da detta norma disciplinato presuppone l’attivazione di una
speciale procedura ad istanza di parte che nel caso in esame non risulta
attivata da parte ricorrente.
Tale norma, invero, ha delineato, per i procedimenti di condono indicati al
comma 1 dello stesso art. 17 (e, cioè, a quelli pendenti e “non ancora
definiti” alla data di entrata in vigore della L.reg.sic. n. 4/2003) una
specifica procedura acceleratoria, da avviarsi su istanza di parte, mediante
l’inoltro, da parte del richiedente la concessione o autorizzazione in
sanatoria, di “apposita perizia giurata a firma di un tecnico abilitato
all'esercizio della professione”; perizia giurata asseverante “l'esistenza
di tutte le condizioni di legge necessarie per l'ottenimento della sanatoria”
e gli altri requisiti richiesti dal comma 2 dell’art. 17 in commento. Ed è
in tale specifico contesto procedimentale (estraneo alla fattispecie
presente) che si colloca la previsione, al comma 6, del silenzio-assenso (cfr.,
in termini, TAR Sicilia, Palermo, 07.01.2022,-OMISSIS-).
6. Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso deve essere
rigettato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 27.06.2022 n. 2096 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto
autostradale ha carattere “assoluto” e prescinde dalle caratteristiche
dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art.
9 della l. n. 729 del 24.07.1961 e dal susseguente decreto
interministeriale n. 1404 del 01.04.1968, debbono ritenersi prevalenti
sulla stessa norma regionale; norma che, di fatto, relativamente alla fascia
di rispetto delle strade deve ritenersi priva di contenuto precettivo, a
nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno alla sicurezza del
traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte
costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di natura penale
connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale (anche di rango
primario) circa la possibile sanatoria degli stessi.
Detto vincolo “non ha soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza
di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità
alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e
all’incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal
concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri,
per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie,
senza limiti connessi alla presenza di costruzioni. Viene quindi fatto
riferimento ad un ampio concetto di esigenza manutentiva, anch’essa
attinente alla sicurezza e fluidità della circolazione, che non si presta ad
essere valutata caso per caso per l’impossibilità oggettiva di potere
prevedere tutte le future evenienze”.
---------------
Il ricorso è infondato.
Il Collegio richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo
cui:
- il vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto
autostradale ha carattere “assoluto” e prescinde dalle caratteristiche
dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art.
9 della l. n. 729 del 24.07.1961 e dal susseguente decreto
interministeriale n. 1404 del 01.04.1968, debbono ritenersi prevalenti
sulla stessa norma regionale; norma che, di fatto, relativamente alla fascia
di rispetto delle strade deve ritenersi priva di contenuto precettivo, a
nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno alla sicurezza del
traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte
costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di natura penale
connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale (anche di rango
primario) circa la possibile sanatoria degli stessi (cfr., da ultimo, TAR
Sicilia, Palermo, sez. I, 07/01/2022, n. 23 che a sua volta richiama Cons.
Stato, Sez. IV, 28.02.2018, n. 1250 e, ivi, richiami; id., 03.11.2015, n.
5014);
- detto vincolo “non ha soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza
di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità
alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e
all’incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal
concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri,
per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie,
senza limiti connessi alla presenza di costruzioni. Viene quindi fatto
riferimento ad un ampio concetto di esigenza manutentiva, anch’essa
attinente alla sicurezza e fluidità della circolazione, che non si presta ad
essere valutata caso per caso per l’impossibilità oggettiva di potere
prevedere tutte le future evenienze” (TAR Palermo, n. 23/2022 cit.).
Nel caso di specie, a seguito di sopralluogo, l’Anas ha accertato che la
distanza delle opere realizzate è inferiore a quella minima prevista dalla
normativa in esame per la concessione del nulla osta e, dunque, per la
sanabilità della costruzione; donde l’infondatezza del secondo motivo di
ricorso.
Quanto alla dedotta formazione del silenzio-assenso (primo motivo), questo Tar ha già avuto modo di affermare che detto istituto non trova applicazione
in presenza di un vincolo di inedificabilità assoluta, visto il disposto di
cui all’art. 35, c. 12, l. n. 47/1985, il quale, nel disciplinarne i
presupposti di operatività, espressamente lo esclude nei “casi di cui
all'articolo 33” (TAR Sicilia, Palermo, 23/01/2018, n. -OMISSIS-).
Conclusivamente, sulla scorta di quanto precede, il ricorso in quanto
infondato deve essere rigettato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 22.06.2022 n. 2031 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
delimitazione del cd. “centro abitato” è
affidato, dal Codice della Strada (art. 4), ad un provvedimento formale
della Giunta, in assenza del quale non vi è la possibilità per l’istante,
onde escludere l’applicazione della fascia di rispetto in contestazione, di
sostenere –contra l’evidenza della destinazione urbanistica impressa dal
P.R.G.- che il manufatto di interesse ricade all’interno del centro
abitato.
---------------
Il vincolo di inedificabilità assoluta imposto sulle aree ricomprese nella
fascia di rispetto stradale, in quanto funzionale a soddisfare anche
esigenze di manutenzione della rete viaria, impianto di cantieri, deposito
dei materiali e realizzazione di opere accessorie, prescinde dalle
caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento, in
concreto, dei connessi rischi per la circolazione stradale.
Allorché l'opera venga realizzata dopo l'imposizione del vincolo, la
sanabilità della stessa è, dunque, in ogni caso preclusa giusta il disposto
dell'art. 33, comma 1, l. n. 47/1985, proprio perché si è in presenza di un
vincolo incompatibile con qualsiasi manufatto, a prescindere dal fatto che
lo stesso possa o meno astrattamente esporre a pericolo la circolazione
stradale.
---------------
10. Parimenti infondato si appalesa il primo ed articolato
gruppo di censure (motivo sub. I) presupponente la sopravvenuta modifica
della destinazione urbanistica dell’area di insistenza del manufatto
abusivo, oggetto della richiesta di condono, da zona E, agricola, vigente
nel 2006, a zona L, di recupero urbanistico.
Ed invero, con le istanze formulate in data 25.10.2013 e 11.11.2013, parte
ricorrente ha chiesto all’ANAS il riesame del parere negativo prot. n.
CRM-0007684-P, già reso in data 14.03.2006, a fronte dell'istanza di
sanatoria avanzata al Comune di Velletri (prot. n. 20510 dell’01.04.1986).
Ciò posto, la rinnovazione, da parte della società, delle valutazioni in
precedenza espresse ha correttamente avuto, quale parametro di riferimento,
la destinazione urbanistica dell’area di riferimento pacificamente vigente
al momento del rilascio del parere riesaminato (2006), ovvero la vocazione
agricola della stessa, esterna al centro abitato (cd. zona E del P.R.G.).
Ne discende, quale immediato e diretto corollario, l’irrilevanza, ai fini
dell’esercizio del potere di riesame in contestazione, del sopravvenuto
mutamento della destinazione urbanistica dell’area in parola in termini di
zona di recupero (cd. zona L), presupponente un certo grado di
urbanizzazione (dovuta all’approvazione della Variante Generale al Piano
Regolatore recepita dal Comune di Velletri con deliberazione C.C. del
17/12/2009), con conseguente impossibilità, per la ricorrente, di addurre
utilmente siffatta sopravvenienza a motivo di illegittimità del rinnovato
parere negativo.
10.1 Peraltro, in base ad un costante orientamento della giurisprudenza,
anche di questo Tribunale, la delimitazione del cd. “centro abitato” è
affidato, dal Codice della Strada (art. 4), ad un provvedimento formale
della Giunta, in assenza del quale non vi è la possibilità per l’istante,
onde escludere l’applicazione della fascia di rispetto in contestazione, di
sostenere –contra l’evidenza della destinazione urbanistica impressa dal
P.R.G.- che il manufatto di interesse ricade all’interno del centro
abitato.
Costituiva, semmai, onere della ricorrente comprovare che l’area in parola,
fin dall’epoca della realizzazione dell’abuso di che trattasi, insisteva
all’interno del perimetro abitato, circostanza questa smentita per tabulas
dall’inclusione della stessa in zona agricola (E) del P.R.G. (cfr. TAR
Lazio, Roma, n. 1607/2020).
11. Fuori fuoco si appalesa anche il secondo motivo di gravame, secondo cui
il rinnovato diniego di nulla-osta avrebbe dovuto essere preceduto
dall’accertamento della pericolosità dell’immobile da sanare, avuto riguardo
alle esigenze di sicurezza della circolazione stradale.
Tale assunto si pone, infatti, in aperta collisione con quel consolidato
orientamento giurisprudenziale secondo cui il vincolo di inedificabilità
assoluta imposto sulle aree ricomprese nella fascia di rispetto stradale, in
quanto funzionale a soddisfare anche esigenze di manutenzione della rete
viaria, impianto di cantieri, deposito dei materiali e realizzazione di
opere accessorie, prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata e
dalla necessità di accertamento, in concreto, dei connessi rischi per la
circolazione stradale.
Allorché l'opera venga realizzata, come nella specie, dopo l'imposizione del
vincolo, la sanabilità della stessa è, dunque, in ogni caso preclusa giusta
il disposto dell'art. 33, comma 1, l. n. 47/1985, proprio perché si è in
presenza di un vincolo incompatibile con qualsiasi manufatto, a prescindere
dal fatto che lo stesso possa o meno astrattamente esporre a pericolo la
circolazione stradale (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 01/10/2021,
n. 6150; TAR Lazio, Roma, sez. II, 27/05/2020, n. 5571; TAR Lombardia,
Brescia, Sez. I, 21.03.2011, n. 450; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 11.01.2011, n. 24; Cass. civ., sez. II,
03.11.2010 n. 22422; Cons.
Stato, Sez. IV, 14.04.2010 n. 2076).
11.1 Ciò detto, l'operato dell’A.N.A.S. spa si è rivelato corretto in quanto
presupponente l'esistenza del vincolo e la sua piena operatività in presenza
di opere realizzate posteriormente all’entrata in vigore del D.M. 01.04.1968
ed a distanza non conforme a quanto stabilito dallo stesso decreto, ovvero
edificazione ad una distanza inferiore a 30 mt., trattandosi di zona esterna
al centro abitato e venendo in rilievo una strada statale di media
importanza, cd. Strada di tipo C (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 17.06.2022 n. 8102 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza amministrativa è
consolidata nell’affermare che il vincolo delle fasce di rispetto stradale
comporta un divieto assoluto di costruire, in base al quale,
indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla
necessità di accertamento in concreto dei rischi per la circolazione
stradale, sono inedificabili le aree site in fascia di rispetto
stradale o autostradale; tale vincolo opera direttamente e automaticamente,
per cui una volta attestata in concreto la violazione del vincolo di
inedificabilità, l'amministrazione può emettere solo un parere negativo
sull'istanza di condono.
In tale quadro, la circostanza che il vincolo
sia sopravvenuto alla realizzazione dell’abuso (in quanto la più ampia
fascia di rispetto di m. 30 è stata introdotta con il d.lgs. 285/1992) non
ha alcuna rilevanza, giacché comunque trattandosi di un vincolo assoluto,
esistente già al momento della presentazione dell’istanza di condono, esso
non è in alcun modo superabile.
---------------
Operate tali premesse, deve considerarsi che, nel caso di specie, risulta
senz’altro infondato quanto dedotto dalla ricorrente con il secondo motivo
di gravame.
Va in primo luogo rilevato che è incontestato tra le parti, in punto di
fatto, che le opere abusivamente realizzate ricadono in area di rispetto
stradale secondo quanto previsto dal d.lgs. 285/1992 (che prevede in questi
casi una fascia di rispetto di m. 30).
Tale circostanza, di per sé, esclude la possibilità di condonare le opere,
come correttamente ritenuto dal Comune resistente.
Ed infatti, come questa Sezione ha già avuto modo di rilevare, la
giurisprudenza amministrativa è consolidata nell’affermare che il vincolo
delle fasce di rispetto stradale comporta un divieto assoluto di costruire,
in base al quale, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera
realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei rischi per la
circolazione stradale, sono inedificabili le aree site in fascia di rispetto
stradale o autostradale; tale vincolo opera direttamente e automaticamente,
per cui una volta attestata in concreto la violazione del vincolo di
inedificabilità, l'amministrazione può emettere solo un parere negativo
sull'istanza di condono (cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 19/10/2018, n. 5985;
Tar Campania, Napoli, Sez. II, 02.11.2021 Nr. 8090; TAR Bologna, (Emilia
Romagna)
sez. I, 20/09/2019, n. 710).
In tale quadro, la circostanza che, come dedotto dal ricorrente, il vincolo
sia sopravvenuto alla realizzazione dell’abuso (in quanto la più ampia
fascia di rispetto di m. 30 è stata introdotta con il d.lgs. 285/1992) non
ha alcuna rilevanza, giacché comunque trattandosi di un vincolo assoluto,
esistente già al momento della presentazione dell’istanza di condono, esso
non è in alcun modo superabile. Ne consegue anche l’irrilevanza della
mancata acquisizione del parere dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo.
Quanto appena osservato vale, secondo ciò che si è in precedenza rilevato in
tema di provvedimenti plurimotivati, ad assorbire logicamente il rilievo del
primo motivo di censura, giacché l’infondatezza delle censure sviluppate con
il secondo motivo consente di escludere l’illegittimità del provvedimento
gravato (TAR Campania-Napoli, Sez.
II,
sentenza 17.06.2022 n. 4105 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Piscina
in fascia di rispetto stradale.
Il TAR Milano, con
riferimento alla realizzazione di una
piscina in fascia di rispetto stradale,
osserva che una volta accertata la
sussistenza del vincolo di rispetto
stradale, risulta del tutto legittimo il
diniego di sanatoria, poiché “il vincolo
imposto sulle aree site nella fascia di
rispetto stradale o autostradale è di
inedificabilità assoluta, traducendosi in un
divieto assoluto di costruire che rende
inedificabili le aree site nella fascia di
rispetto, indipendentemente dalle
caratteristiche dell’opera realizzata e
dalla necessità di accertamento in concreto
dei connessi rischi per la circolazione
stradale.
Il vincolo derivante dalla fascia
di rispetto si traduce in un divieto di
edificazione che rende le aree medesime
legalmente inedificabili, trattandosi di
vincolo di inedificabilità che è sancito
nell’interesse pubblico da apposite leggi”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.04.2022 n.
819 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
3. Con riguardo al primo motivo di ricorso –attraverso il quale è stata contestata la
legittimità della notifica degli atti
impugnati alla sig.ra Be. in proprio,
piuttosto che nella esclusiva veste di
legale rappresentante della società
CO.– le parti ricorrenti hanno preso
atto della rettifica del nominativo del
destinatario dell’ordinanza di demolizione
n. 1/2014 operata dal Comune di Mediglia a
seguito della notifica del ricorso (all. 6
del Comune) e, pertanto, la censura deve
ritenersi non più attuale.
In ogni caso la
stessa è comunque infondata, poiché laddove
la notificazione indirizzata alla persona
fisica che rappresenta l’ente risulta andata
a buon fine, la stessa produce effetto nei
confronti della persona giuridica
rappresentata, essendo questa posta in grado
di tutelarsi adeguatamente in sede
giurisdizionale (Consiglio di Stato, VI, 23.10.2015, n. 4884; anche, TAR
Sicilia, Palermo, III, 13.09.2019, n.
2185; TAR Sicilia, Catania, II, 23.11.2017, n. 2722; TAR Lombardia,
Milano, I, 05.07.2017, n. 1521).
4. Con la seconda e la terza doglianza, da
trattare congiuntamente stante la loro
stretta connessione, si assume
l’illegittimità dei provvedimenti impugnati
in quanto non sarebbero stati affatto
palesati i criteri sulla base dei quali si
sarebbe affermato che una parte della
piscina oggetto di richiesta di sanatoria
ricadrebbe nella fascia di rispetto stradale
della SP 159 “Dresano–Bettola di
Peschiera”, né sarebbero stati indicati il
punto del confine stradale dal quale è stata
effettuata la misurazione e di quanto
sarebbe stato violato il limite distanziale;
ciò che, oltre a determinare un difetto di
istruttoria e di motivazione, vizierebbe
anche il conseguente ordine di demolizione
adottato dal Comune.
4.1. Le censure sono infondate.
Va premesso che l’art. 16, comma 1, lett. b),
del Codice della strada prevede che “ai
proprietari o aventi diritto dei fondi
confinanti con le proprietà stradali fuori
dei centri abitati è vietato (…) costruire,
ricostruire o ampliare, lateralmente alle
strade, edificazioni di qualsiasi tipo e
materiale”; la violazione della citata
disposizione “importa la sanzione
amministrativa accessoria dell’obbligo per
l’autore della violazione stessa del
ripristino dei luoghi a proprie spese” (art.
16, comma 5).
L’art. 26 del Regolamento di
attuazione del medesimo Codice della strada
(“Fasce di rispetto fuori dai centri
abitati”) prevede, invece, al comma 2, lett.
c), che “fuori dai centri abitati, come
delimitati ai sensi dell’articolo 4 del
codice, le distanze dal confine stradale, da
rispettare nelle nuove costruzioni, nelle
ricostruzioni conseguenti a demolizioni
integrali o negli ampliamenti fronteggianti
le strade, non possono essere inferiori a
(…) 30 m per le strade di tipo C [strade
extraurbane secondarie]”.
Per completezza,
l’art. 3 del Codice della strada definisce
fascia di rispetto la “striscia di terreno,
esterna al confine stradale, sulla quale
esistono vincoli alla realizzazione, da
parte dei proprietari del terreno, di
costruzioni, recinzioni, piantagioni,
depositi e simili”.
Non è contestato in giudizio che la SP 159
“Dresano–Bettola di Peschiera” appartenga
al novero delle strade extraurbane
secondarie di Tipo C, come stabilito con la
Disposizione Dirigenziale n. 28/2009 del 25.05.2009, r.g. n. 8514/2009 (richiamata
nell’atto della Città Metropolitana).
Nel ricorso si eccepisce la mancata
indicazione da parte degli Enti procedenti
dei criteri utilizzati per stabilire i punti
da cui sono state poi misurate le distanze
tra la piscina oggetto di richiesta di
sanatoria e la strada SP 159, assumendo
l’incomprensibilità delle ragioni da cui si
sarebbe desunta la violazione del limite dei
30 m. In realtà, nella nota del 24.11.2014, gli Uffici della Città Metropolitana
hanno precisato che il confine stradale è
stato individuato nel limite della proprietà
provinciale e non nel ciglio bitumato della
sede stradale, come ritenuto dalla parte
istante (all. 2 della Città Metropolitana).
Peraltro, su richiesta delle parti
ricorrenti –contrariamente a quanto
sostenuto nel ricorso in cui si assume che
nessun accertamento istruttorio sarebbe
stato effettuato– è stato svolto, in data
01.12.2014, un sopralluogo congiunto
con i Tecnici della Città Metropolitana,
attraverso il quale è stata confermata la
violazione del limite dei 30 m (all. 4 della
Città Metropolitana).
La difesa comunale ha
altresì rilevato che tale limite è stato
recepito anche nel Piano Urbano del
Traffico, atto ricompreso nel P.G.T., dove
si conferma il limite dei 30 m tra la SP 159
e l’area dove è collocata la piscina (Tavola
3, all. 10 del Comune).
Nessuna contestazione su tali aspetti è
stata formulata attraverso il ricorso,
essendosi limitate le ricorrenti a produrre
una perizia di parte attraverso la quale si
è proceduto a effettuare le rilevazioni
delle distanze, prendendo arbitrariamente a
riferimento i due ceppi “che identificano il
confine di proprietà della sede stradale
rispetto al ciglio stradale della S.P. 159”
(all. 7 al ricorso) e giungendo alla
conclusione che la distanza minima di 30 m
tra la strada provinciale e la piscina
risulta certamente rispettata.
Tale modus procedendi non appare ammissibile, atteso
che, in un giudizio di legittimità, “la
parte ricorrente non può limitarsi a
censurare gli atti sulla base della loro
mera non condivisibilità, fornendo un
diverso punto di vista del tutto soggettivo,
ma deve indicare i vizi di legittimità degli
stessi, non essendo ammessa in sede
giurisdizionale una valutazione di merito,
salvo i casi espressamente previsti, non
ricorrenti nella specie (art. 134 cod. proc.
amm.)” (TAR Valle d’Aosta, 22.09.2021, n. 58).
4.2. Una volta accertata la sussistenza del
vincolo di rispetto stradale, risulta del
tutto legittimo il diniego di sanatoria,
poiché “il vincolo imposto sulle aree site
nella fascia di rispetto stradale o
autostradale è di inedificabilità assoluta,
traducendosi in un divieto assoluto di
costruire che rende inedificabili le aree
site nella fascia di rispetto,
indipendentemente dalle caratteristiche
dell’opera realizzata e dalla necessità di
accertamento in concreto dei connessi rischi
per la circolazione stradale. Il vincolo
derivante dalla fascia di rispetto si
traduce in un divieto di edificazione che
rende le aree medesime legalmente
inedificabili, trattandosi di vincolo di
inedificabilità che è sancito nell’interesse
pubblico da apposite leggi” (Consiglio di
Stato, II, 12.02.2020, n. 1100; anche,
TAR Lazio, Roma, II stralcio, 29.03.2022, n. 3548). |
EDILIZIA PRIVATA: Le fasce di rispetto stradale, in attuazione delle
norme poste dal codice della strada, non costituiscono vincoli urbanistici,
ma misure poste a tutela della sicurezza stradale, che comportano l'inedificabilità
delle aree interessate e sono a tal fine recepite nella strumentazione
urbanistica primaria. Si tratta di un vincolo posto a tutela della sicurezza
della circolazione ed ha carattere assoluto ed inderogabile conformando in
tal senso la proprietà privata.
Infatti, in linea di diritto, il vincolo imposto sulle aree site nella
fascia di rispetto stradale ha valenza di inedificabilità assoluta,
traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende inedificabili le
aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle caratteristiche
dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei
connessi rischi per la circolazione stradale.
---------------
8. – Un secondo motivo di appello, che poi contiene
profili “spalmati” sulle ulteriori censure dedotte nel presente giudizio di
secondo grado, tanto che le stesse possono essere scrutinate congiuntamente
dal Collegio, attiene alla prospettazione secondo la quale l’area nella
quale è stato realizzato il manufatto non ricadrebbe in alcuna fascia di
rispetto stradale.
Si è già sunteggiato come il Comune di Mediglia abbia annullato, in
autotutela, l’autorizzazione paesaggistica precedentemente rilasciata per la
realizzazione della piscina in quanto detto atto favorevole confliggeva con
la destinazione edilizio-urbanistica dell’area in cui l’opera era stata
realizzata, posto che la stessa era destinata dall’allora vigente PRG a
“zona di rispetto stradale” che, in ragione di cui alla previsione dell’art.
26, l.r. Lombardia 51/1975, era definita quale zona destinata “alla
realizzazione di nuove strade o corsie di servizio, all’ampliamento di
corsie esistenti, alla realizzazione di parcheggi pubblici e percorsi
pedonali e ciclabili”.
Le appellanti lamentano che tale motivazione dell’atto di ritiro è frutto di
una inadeguata rappresentazione delle norme che disciplinano l’assetto del
territorio con riguardo all’area in questione. In particolare puntualizzano
che:
- il manufatto edificato non ricade in alcuna fascia di rispetto stradale
sia relativamente alla via Grandi che alla SP 159 Bettola-Sordio, ciò in
quanto dalla relazione del tecnico di parte prodotta in primo grado
(architetto Ma.) emerge che:
a) alla luce, in particolare, dell’art. 1,
comma 3, d.lgs. 285/1992, la Via Grandi è identificata come strada locale F
(ovvero una strada urbana situata all’interno del centro abitato) e, tenuto
conto, dell’art. 28, comma 2, del suddetto decreto, essendo esistente uno
strumento urbanistico vigente, non vi sono stabilite distanze minime dal
confine stradale ai fini della sicurezza della circolazione;
b) inoltre, il
PUT approvato con delibera di Giunta n. 157 del 17.06.1999 e con
delibera di Consiglio Comunale n. 81 del 20.12.1999 riporta
correttamente alla Tavola 3 l’assenza di fascia di rispetto stradale per il
tratto di strada definito “extraurbana locale F1” di cui alla Tavola 2;
c)
da quanto sopra emerge la prova che il tratto di strada che collega la via
Grandi dal civico 2 alla Provinciale SP 159 Bettola-Sordio, pur essendo
indicata come strada “extraurbana locale F1”, non ha la fascia di rispetto
stradale come si evince dalla Tavola 3;
d) successivamente sul tratto di
strada qui di interesse erano stai effettuati interventi di riqualificazione
(realizzazione di una corsia ciclabile, illuminazione e altro), di talché il
tecnico concludeva affermando “in via principale che sia da considerarsi
come indicato nel PUT che non vi è la presenza di fasce di rispetto stradale
contrariamente a quanto indicato nel PRG ben più datato e, in via
subordinata, che il Comune avrebbe dovuto classificare il tratto di strada
F1 extraurbano in strada urbana e pertanto priva di fasce di rispetto”
(così, testualmente, a pag. 12 dell’atto di appello);
- l’art. 28 d.P.R. 495/1992 (Regolamento di esecuzione ed attuazione del
codice della Strada) si limita a stabilire che “per le strade di tipo E ed
F, nei casi di cui al comma 1, non sono stabilite distanze minime dal
confine stradale ai fini della sicurezza della circolazione” e quindi non
prevede una distanza minima da osservare sempre all’interno dei centri
abitati, rimettendo la relativa fissazione a determinazioni da assumersi
caso per caso, circostanza che, nel caso di specie, si sarebbe verificata
avendo il comune fissato detta distanza in 20 metri nello strumento
urbanistico. E’ errato dunque affermare che l’area in questione sia
coinvolta in una fascia di rispetto stradale, impeditiva della realizzazione
della piscina;
- ad ogni modo il Piano urbano del traffico (PUT) del Comune di Mediglia
classifica la via Grandi quale “strada extraurbana locale”, all'interno del
centro abitato, che quindi non è assistita da alcuna fascia e distanza di
rispetto stradale.
Dalla documentazione versata in atti nei due gradi di giudizio si evince,
invece, che:
- l’area in questione ricade, secondo il PRG vigente all’epoca dei fatti qui
oggetto di contestazione, in “zona agricola E” che, per l’art. 21 delle NTA
al PRG viene qualificata alla stregua di una delle aree “prevalentemente
destinate alla produzione agricola e che si ritiene debbano mantenere od
acquisire tale funzione”;
- sempre per il PRG la via Grandi è inserita in una fascia di rispetto
stradale di 20 m, a partire dal ciglio stradale, mentre per la SP 159 è
prescritta una fascia pari a 30 m. (per come emerge dalle tavole del PRG);
- le due fasce del terreno oggetto di intervento si collocano, secondo il
PRG allora vigente, nell’area di rispetto stradale compresa fra due strade
in congiunzione (vale a dire la Via Achille Grandi e la SP 159
Bettola-Sordio). Dette aree sono destinate alla eventuale realizzazione di
nuove strade o corsie di servizio, all’ampliamento di corsie esistenti, alla
realizzazione di parcheggi pubblici, percorsi pedonali e ciclabili o adibite
a verde;
- nel parere reso dalla Commissione edilizia durante il procedimento di
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (successivamente annullata dal
comune) si legge che “il manufatto in progetto ricadrà esclusivamente nella
fascia di rispetto stradale relativa alla Via Achille Grandi”;
- inoltre –e a tal proposito- la Tavola n. 3 del PUT fissa il vincolo di
rispetto stradale per le strade qualificate di tipo “F1” (distanza di 20 mt.).
Con riferimento a tale ultimo aspetto merita di essere segnalato che,
sebbene neppure l’art. 28, comma 2, d.P.R. 495/1992 preveda che “per le
strade di tipo E ed F, nei casi di cui al comma 1, non sono stabilite
distanze minime dal confine stradale ai fini della sicurezza della
circolazione”, tale previsione non inibisce l’introduzione di specifiche
distanze da parte della normativa urbanistico edilizia comunale, come è
avvenuto nella specie (tanto che l’autorizzazione paesaggistica, seppur
inizialmente rilasciata dal comune, è stata da quest’ultimo annullata in
sede di autotutela).
In argomento, una volta confermato, secondo quanto si è sopra illustrato,
che il vincolo stradale sussisteva nella disciplina urbanistica locale
dell’epoca, è opportuno rammentare brevemente che, per costante
giurisprudenza, le fasce di rispetto stradale, in attuazione delle norme
poste dal codice della strada, non costituiscono vincoli urbanistici, ma
misure poste a tutela della sicurezza stradale, che comportano l'inedificabilità
delle aree interessate e sono a tal fine recepite nella strumentazione
urbanistica primaria. Si tratta di un vincolo posto a tutela della sicurezza
della circolazione ed ha carattere assoluto ed inderogabile conformando in
tal senso la proprietà privata (cfr., tra le molte, Cons. Stato, Sez. IV, 29.03.2021 n. 2602).
Infatti, in linea di diritto, il vincolo imposto sulle aree site nella
fascia di rispetto stradale ha valenza di inedificabilità assoluta,
traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende inedificabili le
aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle caratteristiche
dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei
connessi rischi per la circolazione stradale (cfr., in argomento, Cons.
Stato, Sez. VI, 24.11.2020 n. 7382).
Nel caso di specie, una volta che il P.R.G. vigente all’epoca dei fatti
inserisce l’area in questione nell’ambito di una zona a rispetto stradale (e
tale previsione non venga rimossa con effetto retroattivo), le eventuali
formali incongruenze recate dalle rappresentazioni grafiche allegate (per
come prospettato dalle appellanti) non mutano la portata prescrittiva dello
strumento urbanistico primario, che nel caso in esame si mostra impeditivo
rispetto alla realizzazione dell’opera, determinando la legittimità dei
provvedimenti adottati dal comune ed oggetto di impugnazione nel presente
contenzioso (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.04.2022 n. 2565 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
un pacifico orientamento giurisprudenziale, il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto
stradale ha carattere assoluto, e prescinde dalle caratteristiche dell’opera
realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della
legge n. 729 del 24.07.1961 e dal susseguente decreto interministeriale
n. 1404 del 01.04.1968 debbono ritenersi prevalenti sulla stessa norma
regionale invocata in ricorso; norma che, di fatto, relativamente alla
fascia di rispetto delle strade deve ritenersi priva di contenuto precettivo,
a nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno alla sicurezza del
traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte
costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di natura penale
connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale (anche di rango
primario) circa la possibile sanatoria degli stessi.
Quanto, poi, alla
valutazione della pericolosità in concreto del fabbricato (che non
costituisca minaccia alla sicurezza del traffico) –in disparte ogni
valutazione in ordine alla derogabilità o meno in Sicilia delle distanze
minime di cui al DM 1404/1968, ad opera dell’art. 23, comma 8, L.R. 37/1985,
che non costituisce oggetto di censura– il provvedimento appare esente da
mende avendo diffusamente motivato che il vincolo non ha soltanto lo scopo
di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire,
per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza
del traffico e all’incolumità delle persone, ma appare correlato alla più
ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile
all’occorrenza dal concessionario per l’esecuzione dei lavori, per
l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione
di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
---------------
L'Amministrazione competente alla tutela del vincolo in argomento è chiamata
ad esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica,
caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e non può
legittimamente svolgere quell'attività di comparazione e di bilanciamento
dell'interesse affidato alla sua cura (la tutela della sicurezza stradale)
con interessi di altra natura e spettanza che è propria della
discrezionalità amministrativa.
Pertanto non si richiede una specifica motivazione che dia conto della
valutazione delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono il diniego
avversato, o della comparazione di tale interesse con quelli dei privati
coinvolti e sacrificati.
---------------
5. Con il primo motivo, come detto, si deduce che l'art.
9 della legge n. 729/1961 non avrebbe potuto essere applicato alla
fattispecie, dato che verrebbe all’esame una materia riservata alla potestà
normativa esclusiva della Regione Siciliana, che era intervenuta in materia
con l'art. 23, comma 8, della legge regionale n. 37/1985, il quale prevedeva
una valutazione specifica in merito al pericolo per la sicurezza del
traffico da parte dell'ente preposto alla tutela della viabilità, non
effettuata dall'A.N.A.S.
La doglianza è infondata.
L'art. 23 richiamato dispone che "Possono conseguire la concessione o
l'autorizzazione in sanatoria le costruzioni ricadenti nelle fasce di
rispetto stradali definite dal decreto ministeriale 01.04.1968 sempre che
a giudizio degli enti preposti alla tutela della viabilità le costruzioni
stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico".
L'art. 9 della legge n. 729/1961 prevede a sua volta, che "Lungo i tracciati
delle autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei progetti
regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici
o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite
della zona di occupazione dell'autostrada stessa. La distanza è ridotta a
metri 10 per gli alberi da piantare".
Orbene, dal provvedimento impugnato risulta che l'A.N.A.S. ha ritenuto che
il criterio per stabilire la sussistenza di una minaccia alla sicurezza del
traffico doveva essere ricavato dal succitato art. 9 e che, pertanto, doveva
essere esclusa la possibilità di rilascio del nulla osta per le costruzioni
(quale quella della ricorrente) ubicate a meno di 25 metri dal limite della
zona di occupazione autostradale.
Tale prospettazione è, ad avviso del Collegio, condivisibile con conseguente
infondatezza della censura in esame tenuto conto degli interessi tutelati
dal ridetto art. 9.
Deve, infatti, ricordarsi che, secondo un pacifico orientamento
giurisprudenziale (per tutte Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.02.2018, n.
1250), il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto
stradale ha carattere assoluto, e prescinde dalle caratteristiche dell’opera
realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della
legge n. 729 del 24.07.1961 e dal susseguente decreto interministeriale
n. 1404 del 01.04.1968 debbono ritenersi prevalenti sulla stessa norma
regionale invocata in ricorso; norma che, di fatto, relativamente alla
fascia di rispetto delle strade deve ritenersi priva di contenuto precettivo,
a nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno alla sicurezza del
traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte
costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di natura penale
connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale (anche di rango
primario) circa la possibile sanatoria degli stessi.
Quanto, poi, alla
valutazione della pericolosità in concreto del fabbricato (che non
costituisca minaccia alla sicurezza del traffico) –in disparte ogni
valutazione in ordine alla derogabilità o meno in Sicilia delle distanze
minime di cui al DM 1404/1968, ad opera dell’art. 23, comma 8, L.R. 37/1985,
che non costituisce oggetto di censura– il provvedimento appare esente da
mende avendo diffusamente motivato che il vincolo non ha soltanto lo scopo
di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire,
per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza
del traffico e all’incolumità delle persone, ma appare correlato alla più
ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile
all’occorrenza dal concessionario per l’esecuzione dei lavori, per
l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione
di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
6. Parimenti infondato è il secondo ordine di censure, con il quale parte
ricorrente denunzia che la misurazione avrebbe dovuto essere effettuata a
partire dal ciglio della strada e non dal confine.
Rileva il Collegio che il
criterio adottato dall’ANAS nel caso in esame è corretto, in quanto la
distanza deve essere misurata dal confine stradale inteso come linea della
fascia di esproprio, posto che la definizione di confine è sancita normativamente dall'art. 3, comma 10, del nuovo codice della strada.
In particolare l’art. 3, comma 1, punto 10, del D.lgs. 30.04.1992, n. 285
definisce il “Confine stradale” come “il limite della proprietà stradale
quale risulta dagli atti di acquisizione o dalle fasce di esproprio del
progetto approvato; in mancanza, il confine è costituito dal ciglio esterno
del fosso di guardia o della cunetta, ove esistenti, o dal piede della
scarpata se la strada è in trincea”. Al confine stradale fa poi costante
riferimento, relativamente alle distanze imposte, il relativo regolamento
(D.P.R. n. 495/1992, in particolare l’art. 28).
Tanto premesso, posto che parte ricorrente si duole esclusivamente del
criterio applicato dall’A.N.A.S., ma non contesta la misurazione effettuata
sulla base di quel criterio –risultata pari a 19 mt.– può darsi per
accertato che il fabbricato in questione si trovi ad una distanza dal
confine autostradale comunque inferiore ai 25 metri previsti dall’invocato
art. 9, comma 1, l. n. 729/1961 (abrogata con D.L. n. 112/2008, convertito
in legge n. 133/2008).
7. Infondato è anche il terzo motivo di ricorso con il quale si deduce,
per
un verso, che il carico urbanistico presente sull’area dove sorge il
fabbricato della ricorrente impedirebbe al vincolo di inedificabilità
gravante sulla fascia di rispetto stradale di raggiungere lo scopo voluto
dal legislatore e, per altro verso, che la distanza del manufatto
dall’autostrada non assumerebbe rilievo in quanto tra questa ultima ed il
fabbricato della ricorrente si interponevano una strada comunale ed altri
fondi di proprietà altrui.
La censura è infondata per la considerazione che l'Amministrazione
competente alla tutela del vincolo in argomento è chiamata ad esercitare
valutazioni proprie della discrezionalità tecnica, caratterizzata dal
perseguimento di un unico interesse, e non può legittimamente svolgere
quell'attività di comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato
alla sua cura (la tutela della sicurezza stradale) con interessi di altra
natura e spettanza che è propria della discrezionalità amministrativa.
Pertanto non si richiede una specifica motivazione che dia conto della
valutazione delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono il diniego
avversato, o della comparazione di tale interesse con quelli dei privati
coinvolti e sacrificati.
Peraltro il Collegio non ravvisa i denunciati vizi di difetto di istruttoria
e di motivazione, in quanto il provvedimento è diffusamente motivato sia con
riferimento ai parametri normativi sui quali esso è fondato, sia in ordine
ai presupposti di fatto che asseverano l’espletamento di un’adeguata
istruttoria.
Quanto poi alla presenza all’interno della fascia di rispetto di una arteria
di natura diversa e di altri fondi di proprietà altrui osserva il Collegio
come tali circostanze non incidano sul vincolo di inedificabilità assoluta,
che va, comunque, garantito per superiori esigenze di sicurezza (cfr. in
termini TAR Palermo, Sez. III, 16.03.2020 n. 622) (TAR Sicilia-Palermo,
Sez. II,
sentenza 30.03.2022 n. 1104 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo d'inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto
autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche
dell'opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall'art.
9 l. 24.07.1961 n. 729 e dal susseguente d.m. 01.04.1968, n. 1404 non può
essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di
ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla
sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità
delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una
fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario, per
l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di
materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi
alla presenza di costruzioni, con la conseguenza che le distanze previste
vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello
della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur
rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti.
Altresì, il vincolo posto dal
legislatore non ha solo il fine di assicurare il transito sicuro sulla
strada, ma anche quello di consentire un'ampia capacità di manutenzione
della stessa, che non può essere valutata caso per caso, facendo così
degradare il vincolo da assoluto a relativo, per l'ovvia ragione che sarebbe
impossibile prevedere le future evenienze manutentive.
---------------
5. – L’appello non può essere accolto stante la infondatezza dei motivi
dedotti.
In primo luogo va rilevato che la società Autostrade, nel parere reso
ai sensi dell’art. 32 l. 47/1985, ha espresso il proprio avviso sfavorevole
al rilascio del condono edilizio in quanto:
- dalla documentazione prodotta si evinceva che l'edificio in
questione insiste ad una distanza minima di mt 1,50 dal confine della
proprietà autostradale in zona classificata dal P.R.G. come esterna rispetto
al perimetro del centro abitato;
- inoltre le opere sono state eseguite nel 1993 e quindi in epoca
successiva rispetto all’entrata in vigore del DM 01.04.1968 che ha posto il
vincolo di inedificabilità assoluta nell’ambito della fascia di rispetto
autostradale individuata in 60 mt..
Il Comune di Varazze, nel provvedimento impugnato in primo grado, ha
effettuato un espresso richiamo al suddetto parere, affermando in modo
sintetico ma comprensibile, che l’impedimento al diniego di condono era
costituito dalla realizzazione delle opere in un edificio che si trova
all’interno della fascia di rispetto autostradale.
Orbene tali elementi sono sufficienti a definire la motivazione del diniego,
avendo il Comune di Varazze fatto uso dello strumento della motivazione
ob relationem al parere reso dalla società Autostrade, quest’ultimo
correttamente evocato dagli uffici comunali e richiamato nel ridetto
provvedimento di diniego di condono specificandone in modo adeguato gli
elementi per rinvenirlo (nel senso della sufficienza di un siffatto richiamo
si veda, tra le molte, Cons. Stato, Sez. IV, 18.08.2017 n. 4032).
Ne deriva che il provvedimento impugnato in primo grado si presenta
sufficientemente motivato con il richiamo, seppur sintetico, al parere
sfavorevole reso dalla società Autostrade e alla confermata presenza del
vincolo di rispetto autostradale, applicabile ratione temporis al
caso di specie, nella cui area ricade l’immobile.
6. – In secondo luogo con riferimento alla doglianza attraverso la
quale si invoca la necessità di un prudente apprezzamento del vincolo in
questione e se ne sostiene la non applicabilità al caso in esame anche in
ragione della peculiarità della fattispecie, va detto che la giurisprudenza
di questo Consiglio, come quella della Corte di Cassazione, dalla quale ad
avviso del Collegio non vi è ragione di discostarsi, ha sostenuto in modo
costante il carattere inderogabile del vincolo.
Infatti il vincolo d'inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto
autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche
dell'opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall'art.
9 l. 24.07.1961 n. 729 e dal susseguente d.m. 01.04.1968, n. 1404 non può
essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di
ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla
sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità
delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una
fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario, per
l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di
materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi
alla presenza di costruzioni, con la conseguenza che le distanze previste
vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello
della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur
rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (cfr.,
ex plurimis, Cass. civ., Sez. II, 07.05.2014 n. 9889 e Cons. Stato,
Sez. II, 11.05.2020 n. 2949).
Da quanto sopra deriva che, per l’assolutezza del vincolo e del limite ad
ogni tipo di costruzione, destituita di fondamento è la tesi secondo la
quale il limite de quo non possa essere applicato alle opere oggetto
dell'intervento in questione.
Pertanto, non può che rilevarsi che il primo giudice ha fatto corretta
applicazione del principio secondo il quale il vincolo in questione ha
carattere assoluto giacché, come sopra rammentato, il vincolo posto dal
legislatore non ha solo il fine di assicurare il transito sicuro sulla
strada, ma anche quello di consentire un'ampia capacità di manutenzione
della stessa, che non può essere valutata caso per caso, facendo così
degradare il vincolo da assoluto a relativo, per l'ovvia ragione che sarebbe
impossibile prevedere le future evenienze manutentive (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.11.2021 n. 7975 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: C.
Tonola, La natura conformativa del vincolo di
inedificabilità della «fascia di rispetto stradale»
(commento tratto da www.njus.it).
La IV Sez. del Consiglio di Stato, con
sentenza
23.11.2021 n. 7846, ha ribadito la natura del vincolo di
inedificabilità della c.d. “fascia di rispetto stradale”.
Come è noto, le fasce di rispetto individuano le distanze minime a
protezione del nastro stradale dall’edificazione e coincidono, dunque, con
le aree esterne al confine stradale finalizzate alla eliminazione o
riduzione dell’impatto ambientale. L’ampiezza di tali fasce ovvero le
distanze da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni e
ricostruzioni e negli ampliamenti fronteggianti le strade, trova disciplina
in quanto stabilito dagli artt. 16, 17 e 18, D.L.vo 30.04.1992, n. 285
(Codice della strada) e dagli artt. 26, 27 e 28, d.P.R. 16.12.1992, n. 495
(Regolamento di attuazione).
Il vincolo di inedificabilità della “fascia di rispetto stradale” –che è una
tipica espressione dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di
una generalità di beni e di soggetti– non ha natura espropriativa, ma
unicamente conformativa, perché ha il solo effetto di imporre alla proprietà
l’obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di
salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente
dall’eventuale instaurazione di procedure espropriative (Cons. Stato, sez.
IV, 13.03.2008, n. 1095).
Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità poi, in presenza di un
vincolo conformativo previsto dalla legge (quale è la fascia di rispetto),
non sono predicabili riferimenti di effettualità edificatoria “di fatto”,
ma, ai fini del ristoro del proprietario inciso, rileva solo la distinzione
tra aree edificabili “di diritto” ed aree “giuridicamente” non edificabili
(Cass. civ., sez. I, 13.04.2006, n. 8707; Cass. civ., sez. I, 28.10.2005, n.
21092).
L’autonomia della disciplina delle fasce di rispetto stradale fa sì che ivi
possa essere autorizzata attività “eccentrica” rispetto alle prescrizioni
della zonizzazione, purché comunque svolta a beneficio della circolazione
stradale, e nel rispetto della sicurezza degli utenti (in tal senso, Cons.
Stato, sez. IV, 29.03.2021, n. 2602; Cons. Stato, sez. IV, 11.05.2015, n.
2880).
A più riprese, invero, è stato consentito un utilizzo delle c.d. “fasce di
rispetto” che, oggettivamente, pare di utilità minor, per gli utenti della
strada, rispetto ad un parcheggio a raso. In via generale, la giurisprudenza
ha chiarito che la fascia di rispetto stradale non può rappresentare un
ostacolo all'insediamento di nuovi impianti di distribuzione dei carburanti
che costituiscono un ordinario completamento della strada su cui circolano
autoveicoli che devono necessariamente potersi approvvigionare.
Alla luce di tali principi, espressi da una normativa –quale quella in
materia di distanze stradali e autostradali de qua– finalizzata a
consentire quell’attività edificatoria di complemento o necessaria alla più
agevole circolazione degli autoveicoli, i giudici amministrativi chiariscono
che l’Autorità amministrativa competente ben può concordare con un privato
“l’arretramento” di un preesistente edificio, rispetto ad un tratto
autostradale, in luogo della demolizione sic et simpliciter del
manufatto posto ad una distanza inferiore a quella legale, al fine di
agevolare la sicurezza dei trasporti e la viabilità.
Le parti ben possono, cioè, concordare tale arretramento (pur se questo a
sua volta riguarda un’area anch’essa inferiore alla distanza legale), che ad
un tempo consente di soddisfare gli interessi pubblici connessi alla
viabilità ed alla sicurezza, nonché quelli privati inerenti alla
prosecuzione dell’attività svolta nell’edificio da demolire. Allorquando vi
sia l’accordo su tale arretramento, la demolizione del preesistente
manufatto può essere senz’altro effettuata, mentre per la realizzazione del
nuovo edificio occorrono ovviamente tutti i titoli abilitativi richiesti.
Tra questi, qualora il nuovo edificio a sua volta riguardi un’area anch’essa
inferiore alla distanza legale, in sede di esame della istanza formulata dal
soggetto che ha stipulato l’accordo “di arretramento”, le Autorità pubbliche
devono tenere conto del precedente accordo che mirava a salvaguardare le
esigenze della viabilità e della sicurezza.
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Riferimenti Normativi:
Art. 16, D.L.vo 30.04.1992, n. 285 (Codice della strada) - Art. 17, D.L.vo
30.04.1992, n. 285 (Codice della strada) - Art. 18, D.L.vo 30.04.1992, n.
285 (Codice della strada) - Art. 26, d.P.R. 16.12.1992, n. 495 - Art. 27,
d.P.R. 16.12.1992, n. 495 - Art. 28, d.P.R. 16.12.1992, n. 495
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SENTENZA
19. Va dunque esaminato il primo motivo di appello, che è infondato.
20. Questo Consiglio ha avuto modo di statuire in precedenti contenziosi che
la disciplina delle fasce di rispetto stradale -stabilita dagli artt.
16, 17 e 18, del D.Lgs. n. 285/1992 e dagli artt. 26, 27 e 28, del d.P.R. n.
495/1992– costituendo una misura posta a tutela della sicurezza stradale (di
natura conformativa e non espropriativa, non riconducibile alla categoria
della “zonizzazione”), consente il legittimo insediamento di attività
"eccentrica", rispetto alle prescrizioni della zonizzazione, purché
comunque svolta a beneficio della circolazione stradale, e nel rispetto
della sicurezza degli utenti (in
tal senso, Cons. Stato, Sez. IV, 29.03.2021, n. 2602, e 11.05.2015, n.
2880).
21. In particolare, nella sentenza n. 2880/2015, questo Consiglio ha avuto
modo di evidenziare come “a più riprese è stato
consentito un utilizzo delle c.d. "fasce di rispetto" che, oggettivamente,
pare di utilità minore, per gli utenti della strada, rispetto ad un
parcheggio a raso (“in via generale, la fascia di rispetto stradale non può
rappresentare un ostacolo all'insediamento di nuovi impianti di
distribuzione dei carburanti che costituiscono un ordinario completamento
della strada su cui circolano autoveicoli che devono necessariamente potersi
approvvigionare; inoltre, il D.lgs. n. 32 del 1998 consente l'installazione
degli impianti all'interno delle fasce di rispetto stradale in quanto
all'art. 2, comma 3, prescrive espressamente che i Comuni debbano
“individuare le destinazioni d'uso compatibili con l'installazione degli
impianti all'interno delle zone comprese nelle fasce di rispetto di cui agli
artt. 16, 17 e 18 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, recante il
Nuovo codice della strada”.
22. La ratio decidendi, che traspare dai citati
precedenti, è quella di un’esegesi delle richiamate norme in materia di
distanze stradali e autostradali, finalizzata a consentire quell’attività
edificatoria di complemento o necessaria alla più agevole circolazione degli
autoveicoli.
23. A questo stesso principio si è ispirato l’accordo transattivo concluso
tra le parti, nella misura in cui il privato ha, infine, deciso di
rinunciare all’impugnazione degli atti della procedura espropriativa, per
cedere i suoi suoli, sui quali preesisteva, a distanza inferiore a quella
legale, un manufatto destinato allo svolgimento della sua attività
d’impresa, e pattuire, al contempo, la possibilità di ottenere dal
concessionario autostradale il suo appoggio, mediante l’espressione di un
parere favorevole, ad una ricostruzione del suddetto manufatto in un altro
sito della sua proprietà, pur sempre ad una distanza inferiore a quella
prevista dalla normativa autostradale.
24. In questi termini, considerato che l’accordo ha agevolato la
realizzazione di necessari lavori di “adeguamento del tratto di
attraversamento appenninico tra Sasso Marconi e Barnerino del Mugello”
(si trattava, in particolare, da quanto emerge dalla transazione, della
realizzazione dello svincolo autostradale di Sasso Marconi), esso si pone in
linea con i principi enunciati dalla citata giurisprudenza, cosicché, in
definitiva, la clausola impugnata dall’appellante si palesa valida.
25. Più in generale, ritiene la Sezione che –dalla complessiva normativa
dettata dal testo unico sugli espropri e dal codice della strada– si può
desumere un principio generale riguardante l’attività amministrativa, per la
quale l’Autorità competente ben può concordare con un privato “l’arretramento”
di un preesistente edificio, rispetto ad un tratto autostradale.
Al fine di agevolare la sicurezza dei trasporti e la viabilità, in luogo
della demolizione sic et simpliciter del manufatto posto ad una
distanza inferiore a quella legale, le parti ben possono concordare tale
arretramento (pur se questo a sua volta riguarda un’area anch’essa inferiore
alla distanza legale), che ad un tempo consente di soddisfare gli interessi
pubblici connessi alla viabilità ed alla sicurezza, nonché quelli privati
inerenti alla prosecuzione dell’attività svolta nell’edificio da demolire.
Allorquando vi sia l’accordo su tale arretramento, la demolizione del
preesistente manufatto può essere senz’altro effettuata, mentre per la
realizzazione del nuovo edificio occorrono ovviamente tutti i titoli
abilitativi richiesti.
Tra questi, qualora il nuovo edificio a sua volta riguardi un’area anch’essa
inferiore alla distanza legale, in sede di esame della istanza formulata dal
soggetto che ha stipulato l’accordo ‘di arretramento’, le Autorità
pubbliche devono tenere conto del precedente accordo che mirava a
salvaguardare le esigenze della viabilità e della sicurezza.
La clausola contestata dall’appellante, sotto tale profilo, risulta
espressiva del dovere -che comunque sarebbe derivato in capo alla società
Autostrade per l’Italia– di eseguire secondo buona fede e correttezza
l’accordo stipulato con l’appellante, dal momento che, qualora fosse stata
presentata l’istanza volta alla ricostruzione in altra area del nuovo
edificio, la medesima società avrebbe dovuto esprimere un parere coerente
con il contenuto del precedente accordo.
Ne consegue che la clausola contestata risulta di per sé valida.
26. Il primo motivo di appello va pertanto respinto (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.11.2021 n. 7846 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Non
può assegnarsi natura espropriativa ai vincoli derivanti dalla
ricomprensione dei terreni di proprietà privata all'interno della fascia di
rispetto stradale in quanto tale tipologia di vincolo "(che è una tipica
espressione dell'attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una
generalità di beni e di soggetti) ... ha il solo effetto di imporre alla
proprietà l'obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in
funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente
dall'eventuale instaurazione di procedure espropriative".
---------------
2. Per quanto concerne le ulteriori aree destinate a corridoio ecologico, va
richiamata la distinzione fra vincoli espropriativi ovvero
sostanzialmente tali, che possono essere imposti senza previsione di
indennizzo per un periodo massimo di cinque anni (decorso il quale
decadono), e vincoli conformativi che possono invece essere imposti a
tempo indeterminato senza che alcun indennizzo sia dovuto.
2.1 Il Consiglio di Stato (cfr. sez. IV – 21/06/2021 n. 4775) ha richiamato
le pronunce della Corte costituzionale 20/01/1966 n. 6 e 29/05/1968 n. 55,
nella quale <<ha distinto anzitutto i casi in cui la proprietà -ovvero
singoli diritti minori, che all'istituto della proprietà si ricollegano-
vengano sacrificati attraverso atti che, indipendentemente dalla forma
adottata, comportino sia una traslazione totale o parziale del diritto, sia
uno svuotamento di rilevante entità ed incisività del relativo contenuto,
pur rimanendone intatta l'appartenenza e la sottoposizione a tutti gli
oneri, anche fiscali connessi; in tali casi, ha ritenuto che la garanzia
della proprietà privata di cui all'art. 42 Cost. comporti la necessità di
corrispondere l'indennizzo e il carattere temporaneo del vincolo non
indennizzato. … Viceversa, la stessa Corte ha escluso che tali garanzie
siano dovute nel caso di disposizioni di vincolo le quali si riferiscano a
intere categorie di beni, siano riferite alla generalità dei soggetti e
sottopongano quindi tutti i beni di una qualche categoria, senza distinzione
fra di essi, ad un particolare "regime di appartenenza", ovvero conformino
in un dato modo il diritto relativo. … Sulla base di questa distinzione di
principio, secondo la costante giurisprudenza, non integrano vincolo
espropriativo le destinazioni di zona, anche quando prevedano una data opera
di interesse pubblico che però possa essere realizzata anche ad iniziativa
privata o promiscua, e non solo per iniziativa pubblica: così esattamente
C.d.S. sez. II 06.03.2020 n. 1643, relativa ad un'area a verde pubblico>>.
2.2 La giurisprudenza è concorde nel ritenere che la destinazione ad
attrezzature ricreative, sportive e a verde pubblico, data dal Piano
Regolatore Generale ad aree di proprietà privata, non implica l'imposizione
sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo
(TAR Lombardia Brescia, sez. I – 21/06/2021 n. 584, che ha richiamato
Consiglio di Stato, sez. II – 24/10/2020 n. 6455; TAR Puglia-Bari, sez. III
– 23/04/2020 n. 529): ciò comporta che la reiterazione nel tempo di detta
destinazione non impone particolari motivazioni all'amministrazione, né
obblighi di indennizzo in favore della proprietà.
Ha aggiunto il giudice di prime cure che “Quanto alla nuova destinazione
a "verde privato" impressa con il nuovo strumento urbanistico, essa appare
coerente con gli obiettivi di fondo della pianificazione, diretti alla
tutela del territorio e alla riduzione del consumo del suolo, anche mediante
la formazione di zone filtro e di tutela ambientale (cfr. Relazione
illustrativa generale del Documento di Piano, paragrafo 1.15.1, doc. 4
Comune), obiettivi condivisi da Regione, Provincia e ASL”.
2.3 Secondo TAR Sicilia-Catania, sez. II – 28/06/2021 n. 2115 “Anche di
recente è stato infatti statuito che "il vincolo di destinazione urbanistica
"zona attrezzature di interesse pubblico" impresso ad un'area dal piano
regolatore generale non ha natura sostanzialmente espropriativa tale da
comportarne la decadenza quinquennale, bensì costituisce un vincolo
conformativo con validità a tempo indeterminato e senza obbligo di
indennizzo in quanto le attrezzature in questione (nella fattispecie verde
di quartiere) sono realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua in
regime di economia di mercato e non dal solo intervento pubblico (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 24.05.2018, n. 3116; 13.10.2017, n. 4748; 12.04.2017, n.
1700)" (così Cons. St. 31.08.2018 n. 5125). Tanto meno può assegnarsi natura
espropriativa ai vincoli derivanti dalla ricomprensione dei terreni di
proprietà del ricorrente all'interno della fascia di rispetto stradale
richiamata dall'Amministrazione, in quanto tale tipologia di vincolo "(che è
una tipica espressione dell'attività pianificatoria della p.a. nei riguardi
di una generalità di beni e di soggetti) ... ha il solo effetto di imporre
alla proprietà l'obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo
in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica,
indipendentemente dall'eventuale instaurazione di procedure espropriative"
(Consiglio di Stato, sez. IV, 13.03.2008, n. 1095)”.
2.4 Applicando il principio così delineato al caso di specie, la previsione
di piano di un corridoio ecologico –contestata in questa sede– va
qualificata come vincolo conformativo legittimamente apposto, realizzabile
anche per iniziativa privata (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 06.10.2021 n. 822 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: "In tema di condono edilizio il vincolo di inedificabilità in
zona di rispetto stradale è considerato un vincolo di inedificabilità
assoluta e, di conseguenza, allorché l'abuso edilizio sia stato compiuto
dopo la sua imposizione, non si
applica l'art. 32, comma 2, lett. c), l. 28.02.1985 n. 47 ma, in base al
comma 3, il successivo art. 33 con conseguente insanabilità dell'abuso, a
nulla rilevando la non pericolosità della porzione di manufatto per la
sicurezza del traffico".
Ed ancora, "Il vincolo d'inedificabilità
sulle zone di rispetto stradale, imposto dall'art. 33 l. 28.02.1985 n.
47 ha carattere assoluto e pertanto -a differenza del vincolo di cui
all'art. 32, d'inedificabilità relativa, che può essere rimosso a
discrezione dell'autorità preposta alla cura dell'interesse tutelato-
contiene un divieto di edificazione a carattere assoluto, che comporta la
non sanabilità dell'opera realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi di
vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto".
"Sotto altro profilo va ancora osservato
che il provvedimento di diniego impugnato esordisce premettendo che l’art.
l'art. 23, comma 8, della L.R. n. 37/1985 ammette la possibilità di conseguire
la concessione o l'autorizzazione in sanatoria per le costruzioni ricadenti
nelle fasce di rispetto stradali definite dal D.M. 01.04.1968 sempre che a
giudizio degli enti preposti alla tutela della viabilità le costruzioni
stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico.
L’Anas
precisa poi, nel provvedimento, che tuttavia tale norma regionale non si
applica alle costruzioni ricadenti nella fascia di rispetto Autostradale
definita dall'art. 9 della Legge n. 729/1961 (poi abrogato) e ritiene
comunque inderogabili le distanze minime imposte dal D.M. 1404/1968 e dalla
circolare Anas n. 109707/2010 applicativa delle disposizioni dettate dal
Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti in applicazione degli artt.
26 e 28 del Regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice della Strada,
atteso che la giurisprudenza è stata sempre conforme nel ritenere il
carattere assoluto del vincolo introdotto a tutela della fascia di rispetto
autostradale, anche a prescindere dalle concrete caratteristiche dell’opera
realizzata […].
Il Collegio richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il vincolo d’inedificabilità
gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere “assoluto” e
prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto
di costruzione sancito dall’art. 9 della l. n. 729 del 24.07.1961 e dal
susseguente decreto interministeriale n. 1404 del 01.04.1968, debbono
ritenersi prevalenti sulla stessa norma regionale; norma che, di fatto,
relativamente alla fascia di rispetto delle strade deve ritenersi priva di
contenuto precettivo, a nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno
alla sicurezza del traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato
dalla Corte costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di
natura penale connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale
(anche di rango primario) circa la possibile sanatoria degli stessi”.
---------------
Essendo il vincolo di inedificabilità assoluta in questione correlato alla
più ampia esigenza di assicurare un'area contigua all'arteria stradale
utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore per
l'esecuzione di lavori ivi compresi quelli di ampliamento senza limiti
connessi alla presenza di costruzioni, deve ritenersi che la distanza minima
vada calcolata dal confine della proprietà autostradale e non dal ciglio
della autostrada.
Tale circostanza è, peraltro, confermata dall’art. 3, comma 1, punto n. 10,
del nuovo codice della strada approvato con D.Lgs. n. 285/1992, che
identifica il confine stradale con il limite della proprietà.
---------------
L'Amministrazione competente alla tutela del vincolo in argomento è chiamata
ad esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica,
caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e non può
legittimamente svolgere quell'attività di comparazione e di bilanciamento
dell'interesse affidato alla sua cura (la tutela della sicurezza stradale)
con interessi di altra natura e spettanza che è propria della
discrezionalità amministrativa.
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1. Come chiarito in fatto, la controversia ha ad oggetto il
parere negativo espresso dall’ANAS sulla istanza di sanatoria presentata dai
ricorrenti in quanto riferita ad immobile situato ad una distanza di mt.
13,40 dal confine dell’autostrada A/29.
2. Preliminarmente deve essere accolta l’eccezione sollevata dalla difesa
del Comune di Palermo circa la propria carenza di legittimazione passiva non
venendo all’esame del Collegio provvedimenti emessi dall’ente locale, né
dagli atti depositati in giudizio si percepisce un qualche collegamento con
l’attività istruttoria svolta dal comune sulla pratica di sanatoria
urbanistica.
Nella specie, le istanze di condono depositate in atti dalla
ditta Va.Be. riguardano due corpi di fabbrica realizzati su di
un’area di sedime con accesso da Via ... n. 1059, che
effettivamente non sembrano avere alcuna pertinenza con l’oggetto del
presente giudizio, stante le diverse particelle catastali su cui insiste
l’area ultima richiamata rispetto a quelle in contenzioso, pertanto la
chiamata in causa anche del comune di Palermo risulta ultronea.
3. L’infondatezza nel merito del ricorso consente di ritenere assorbita
l’eccezione di inammissibilità del gravame sollevata dall’ANAS s.p.a., non
avendo i Sigg.ri Ge.An., Va.Ma.Ad. e Va.An.,
costituitisi in giudizio quali eredi dell’originario ricorrente Va.Be., fornito prova della propria legittimazione attiva.
Tale
eccezione, ad ogni modo, sarebbe stata da accogliere essendo di fatto non
provata la qualità di eredi dei ricorrenti subentranti non essendo citato
negli atti di successione depositati in giudizio l’immobile oggetto di
causa, nonostante i chiarimenti forniti dai ricorrenti nella memoria del
17/06/2021.
4. Il collegio richiama precedenti di questo Tribunale che hanno già
affrontato, anche di recente, analoghe vicende con i quali si sono affermati
principi che vanno anche qui condivisi.
In primis, è infondata la censura con al quale si deduce l’applicabilità
dell’art. 23, comma 8, della l.r. n. 37/1985 venendo in considerazione una
materia riservata alla potestà normativa esclusiva della regione siciliana,
che prevedeva una valutazione specifica in merito al pericolo per la
sicurezza del traffico da parte dell’ente preposto alla tutela della
viabilità, non effettuata dall’A.N.A.S.
Con la sentenza del 17.05.2019, n. 1366, richiamata anche
dall’amministrazione resistente, questo collegio ha già avuto modo di
chiarire che: "In tema di condono edilizio il vincolo di inedificabilità in
zona di rispetto stradale è considerato un vincolo di inedificabilità
assoluta e, di conseguenza, allorché l'abuso edilizio sia stato compiuto
dopo la sua imposizione (ndr circostanza assodata nel caso in esame), non si
applica l'art. 32, comma 2, lett. c), l. 28.02.1985 n. 47 ma, in base al
comma 3, il successivo art. 33 con conseguente insanabilità dell'abuso, a
nulla rilevando la non pericolosità della porzione di manufatto per la
sicurezza del traffico" (TAR Lazio-Latina - Sez. I - 17.11.2011, n. 923).
Ed ancora è stato affermato che "Il vincolo d'inedificabilità
sulle zone di rispetto stradale, imposto dall'art. 33 l. 28.02.1985 n.
47 ha carattere assoluto e pertanto -a differenza del vincolo di cui
all'art. 32, d'inedificabilità relativa, che può essere rimosso a
discrezione dell'autorità preposta alla cura dell'interesse tutelato-
contiene un divieto di edificazione a carattere assoluto, che comporta la
non sanabilità dell'opera realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi di
vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto" (Consiglio Stato - Sez. IV -
05.07.2000, n. 3731).
"Sotto altro profilo va ancora osservato
che il provvedimento di diniego impugnato esordisce premettendo che l’art.
l'art. 23, comma 8, della L.R. n. 37/1985 ammette la possibilità di conseguire
la concessione o l'autorizzazione in sanatoria per le costruzioni ricadenti
nelle fasce di rispetto stradali definite dal D.M. 01.04.1968 sempre che a
giudizio degli enti preposti alla tutela della viabilità le costruzioni
stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico.
L’Anas
precisa poi, nel provvedimento, che tuttavia tale norma regionale non si
applica alle costruzioni ricadenti nella fascia di rispetto Autostradale
definita dall'art. 9 della Legge n. 729/1961 (poi abrogato) e ritiene
comunque inderogabili le distanze minime imposte dal D.M. 1404/1968 e dalla
circolare Anas n. 109707/2010 applicativa delle disposizioni dettate dal
Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti in applicazione degli artt.
26 e 28 del Regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice della Strada,
atteso che la giurisprudenza è stata sempre conforme nel ritenere il
carattere assoluto del vincolo introdotto a tutela della fascia di rispetto
autostradale, anche a prescindere dalle concrete caratteristiche dell’opera
realizzata […]. Il Collegio richiama il consolidato orientamento
giurisprudenziale (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2018, n.
1250 e, ivi, richiami; id., 03.11.2015, n. 5014), secondo cui il vincolo d’inedificabilità
gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere “assoluto” e
prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto
di costruzione sancito dall’art. 9 della l. n. 729 del 24.07.1961 e dal
susseguente decreto interministeriale n. 1404 del 01.04.1968, debbono
ritenersi prevalenti sulla stessa norma regionale; norma che, di fatto,
relativamente alla fascia di rispetto delle strade deve ritenersi priva di
contenuto precettivo, a nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno
alla sicurezza del traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato
dalla Corte costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di
natura penale connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale
(anche di rango primario) circa la possibile sanatoria degli stessi”.
Principi, come detto, ribaditi anche dalle successive sentenze n. 901/2019 e
n. 622/2020, sempre di questo Tribunale.
Nel caso di specie, a seguito di sopralluogo, l’Anas ha accertato che la
distanza del fabbricato dalla sede stradale è pari a ml. 13,40 e dunque
inferiore a quella minima prevista dalla normativa in esame (25 metri
dall’art. 9 della l. n. 729 del 24.07.1961 o 30 metri dagli artt. 26 e
28 D.P.R. 495/1992) per la concessione del nulla osta e, dunque, per la
sanabilità della costruzione.
5. Così come non può essere accolto il ricorso nella parte in cui si deduce
che la misurazione avrebbe dovuto essere fatta dal ciglio stradale e non dal
confine stradale.
In proposito, si rammenta che, essendo il vincolo di inedificabilità assoluta in questione correlato alla più ampia esigenza di
assicurare un'area contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi
momento dall'Ente proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi
compresi quelli di ampliamento senza limiti connessi alla presenza di
costruzioni, deve ritenersi che la distanza minima vada calcolata dal
confine della proprietà autostradale e non dal ciglio della autostrada. Tale
circostanza è, peraltro, confermata dall’art. 3, comma 1, punto n. 10, del
nuovo codice della strada approvato con D.Lgs. n. 285/1992, che identifica
il confine stradale con il limite della proprietà.
...
7. In relazione all’ultima censura, con la quale i ricorrenti lamentano la
mancata considerazione dello stato di fatto in concreto esistente nella zona
dove il vincolo di inedificabilità succitato sarebbe diffusamente violato,
lo stesso non è accoglibile.
A prescindere dalla genericità della censura che non consente un adeguato
approfondimento da parte del collegio circa le condizioni riscontrate di
saturazione urbanistica della zona (si fa presente che in nessun atto
depositato è rinvenibile l’indirizzo preciso dell’immobile in questione,
essendo sempre citate solo le particelle catastali come riferimento), la
censura è infondata per la considerazione che l'Amministrazione competente
alla tutela del vincolo in argomento è chiamata ad esercitare valutazioni
proprie della discrezionalità tecnica, caratterizzata dal perseguimento di
un unico interesse, e non può legittimamente svolgere quell'attività di
comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla sua cura (la
tutela della sicurezza stradale) con interessi di altra natura e spettanza
che è propria della discrezionalità amministrativa.
Peraltro, la ricorrente
non lamenta in concreto nemmeno una disparità di trattamento, non avendo
postulato che in casi analoghi l’Anas abbia rilasciato il nulla osta ad essa
invece denegato. Pertanto, il Collegio non ravvisa i denunciati vizi di
difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto il provvedimento è
diffusamente motivato sia con riferimento ai parametri normativi sui quali
esso è fondato, sia in ordine ai presupposti di fatto che asseverano
l’espletamento di un’adeguata istruttoria (cfr., TAR Sicilia-Palermo,
Sez. I, 17/05/2019, n. 1366).
8. Concludendo, il provvedimento gravato appare adeguatamente motivato e
sorretto da un’istruttoria che evidenzia il vulnus principale legato ad una
distanza inferiore ai 30 metri dal confine autostradale, e comunque
inferiore ai 25 metri previsti dall’art. 9 della L. 729/1961 (ora abrogata),
con ciò risultando atto obbligato il diniego stante il carattere assoluto
del vincolo in questione e non essendo tenuta l’amministrazione a svolgere
alcun ulteriore indagine circa l’effettività del pericolo per la sicurezza
del traffico da parte dell’ente preposto alla tutela della viabilità (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 23.07.2021 n. 2325 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Natura
del vincolo di inedificabilità previsto nella fascia di rispetto stradale.
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Fascia di rispetto stradale – Vincolo di inedificabilità – Natura
conformativa – Caratteristiche.
Il vincolo di inedificabilità previsto nella fascia di
rispetto stradale non ha natura espropriativa, riguardando una generalità di
beni e di soggetti ed avendo il solo effetto di conformare la proprietà in
funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente
dalla successiva eventuale attivazione di procedure espropriative.
L’inserimento nel piano urbanistico delle opere di viabilità, infatti, "pur
comportando un vincolo di inedificabilità delle parti del territorio
interessate, non concreta un vincolo preordinato ad esproprio, a meno che
tale destinazione non sia assimilabile all'indicazione delle reti stradali
all'interno e a servizio delle singole zone, di regola rimessa allo
strumento di attuazione e, come tale, riconducibile a vincoli imposti a
titolo particolare in funzione non già di una generale destinazione di zona,
ma della localizzazione lenticolare di un'opera pubblica, incidente su
specifici beni".
Il vincolo introdotto dallo strumento urbanistico non può quindi essere
qualificato come espropriativo, bensì come conformativo, atteso che "va
attribuita natura non espropriativa, ma conformativa del diritto di
proprietà sui suoli a tutti quei vincoli che non solo non siano
esplicitamente preordinati all’esproprio in vista della realizzazione di
un’opera pubblica, ma nemmeno si risolvano in una sostanziale ablazione dei
suoli medesimi, consentendo al contrario la realizzazione di interventi da
parte dei privati".
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Con riferimento al secondo motivo, in ragione dell’infondatezza degli
argomenti dedotti il Collegio ritiene di prescindere dallo scrutinio
dell’eccezione di tardività sollevata dalla resistente amministrazione,
peraltro riferibile solo alla tavola di Piano (T.01.PR-azzonamento) e non
anche all’articolo 44.1.NTA, costituente previsione di carattere
regolamentare.
Lo strumento urbanistico comunale ha indicato nelle cartografie dello
strumento urbanistico il futuro tracciato stradale solo ove già esattamente
localizzato. In particolare il PGT ha individuato, in conformità al Piano
provinciale, la prevista tangenziale, ma non anche la viabilità
complementare.
L’inserimento di alcune aree nel corridoio di salvaguardia implica una
limitazione delle facoltà connesse alla proprietà finalizzata proprio ad
impedire che nella fase di progettazione dell’opera pubblica possano essere
rilasciati titoli edilizi incompatibili, che potrebbero aggravare il
procedimento o i costi per la futura realizzazione dell’opera.
La giurisprudenza ha escluso peraltro che il vincolo di inedificabilità
previsto nella fascia di rispetto stradale abbia natura espropriativa,
riguardando una generalità di beni e di soggetti ed avendo il solo effetto
di conformare la proprietà in funzione di salvaguardia della programmazione
urbanistica, indipendentemente dalla successiva eventuale attivazione di
procedure espropriative (Cons. Stato, Sez. IV n. 5113 del 27.09.2012).
L’inserimento nel piano urbanistico delle opere di viabilità, infatti, “pur
comportando un vincolo di inedificabilità delle parti del territorio
interessate, non concreta un vincolo preordinato ad esproprio, a meno che
tale destinazione non sia assimilabile all'indicazione delle reti stradali
all'interno e a servizio delle singole zone, di regola rimessa allo
strumento di attuazione e, come tale, riconducibile a vincoli imposti a
titolo particolare in funzione non già di una generale destinazione di zona,
ma della localizzazione lenticolare di un'opera pubblica, incidente su
specifici beni (per tutte, cfr. Cass. civ., sez. I, 28.07.2010, n.
17677)” (TAR Toscana, Sez. I, 25.09.2012, n. 1555).
Il vincolo introdotto dallo strumento urbanistico non può quindi essere
qualificato come espropriativo, bensì come conformativo, atteso che “va
attribuita natura non espropriativa, ma conformativa del diritto di
proprietà sui suoli a tutti quei vincoli che non solo non siano
esplicitamente preordinati all’esproprio in vista della realizzazione di
un’opera pubblica, ma nemmeno si risolvano in una sostanziale ablazione dei
suoli medesimi, consentendo al contrario la realizzazione di interventi da
parte dei privati (cfr. Cons. Stato sez. IV 07.04.2010 n. 1982)” (Cons.
Stato, Sez. IV, 13.10.2017, n. 4748).
Pur imponendo limitazioni al diritto dominicale, l’inserimento nella fascia
di salvaguardia non incide sulle facoltà di godimento del bene in modo così
profondo da svuotarne o annullarne i contenuti e, quindi, non ha carattere
ablatorio.
Va esclusa, quindi, la dedotta violazione del dettato costituzionale, atteso
che “il contrasto con l’art. 42 della Carta costituzionale, (…) si può
ravvisare solo nei casi in cui pur restando intatta la titolarità del
diritto, quest'ultimo risulta annullato o menomato. Il problema si può
porre, dunque, solo con riferimento a quelle limitazioni che la Corte ha
individuato come tali da svuotare di contenuto il diritto di proprietà,
incidendo sul godimento del bene tanto profondamente da renderlo
inutilizzabile in rapporto alla destinazione inerente alla natura del bene
stesso o determinando il venir meno o una penetrante incisione del suo
valore di scambio. I ricorrenti, invece, sono proprietari di terreni a
destinazione agricola, la cui conservazione è dagli stessi indicata come
bene primario da perseguire e la presenza del vincolo di salvaguardia non ha
mai precluso la possibilità di continuare la coltivazione o di apportare
migliorie per favorirla, né è stato fornito alcun principio di prova che ne
sia stato gravemente inciso il valore di scambio” (TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 21.06.2017, n. 838).
Né l’ulteriore indicazione contenuta nel provvedimento interinale di questo
TAR, secondo cui “se però la situazione di blocco dell’utilizzazione delle
aree dovesse prolungarsi indefinitamente, il vincolo assumerebbe carattere
sostanzialmente espropriativo, e il ricorrente potrebbe opporsi al suo
mantenimento, oppure chiedere la fissazione di un termine per il
completamento della progettazione e l’esatta individuazione delle aree
necessarie alla viabilità comunale” può essere assunta come parametro di
legittimità degli atti qui avversati, come sostenuto da parte ricorrente,
costituendo solo un’indicazione pro futuro, riferita all’approvazione del
nuovo strumento urbanistico, all’eventuale reiterazione della disciplina qui
contestata, e ai rimedi esperibili dal privato interessato.
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.06.2021 n. 574 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
26, comma 2, d.P.R. 16.12.1992 n. 495 (Regolamento di esecuzione e
attuazione del nuovo codice della strada) prevede che fuori dai centri
abitati le distanze dal confine stradale, da rispettare nelle nuove
costruzioni, nelle ricostruzioni conseguenti a demolizioni integrali o negli
ampliamenti fronteggianti le strade, non possano essere inferiori a 20 m per
le strade di tipo F.
È noto che, secondo la giurisprudenza, il vincolo imposto sulle aree site
nella fascia di rispetto stradale sia di inedificabilità assoluta,
traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende non edificabili
le aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle
caratteristiche dell’opera realizzata e dalla necessità di accertamento in
concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale.
Ne consegue che, in difetto dell’atto di assenso da parte dell’ente
proprietario della strada a beneficio della quale è stabilita la fascia di
rispetto, nessuna edificazione è possibile e che, quindi, legittimamente il
Comune, ai fini delle valutazioni di competenza per pronunciarsi
sull’istanza di accertamento di conformità domandato dalla ricorrente, ha
richiesto la produzione del nulla osta (nel caso di specie) della Provincia.
---------------
3.4.2 Invece, con riguardo alla necessità di produzione del nulla osta ai
lavori da parte dell’Amministrazione provinciale, che deriva dal fatto che
tutte le opere di cui parte ricorrente ha chiesto l’accertamento di
conformità ricadono entro la fascia di rispetto stradale di m 20 dalla
strada provinciale n. 187 Gricilli, si osserva quanto segue.
L’art. 26, comma 2, d.P.R. 16.12.1992 n. 495 (Regolamento di esecuzione e
attuazione del nuovo codice della strada) prevede che fuori dai centri
abitati le distanze dal confine stradale, da rispettare nelle nuove
costruzioni, nelle ricostruzioni conseguenti a demolizioni integrali o negli
ampliamenti fronteggianti le strade, non possano essere inferiori a 20 m per
le strade di tipo F, come è la s.p. 187 Gricilli.
È noto che, secondo la giurisprudenza, il vincolo imposto sulle aree site
nella fascia di rispetto stradale sia di inedificabilità assoluta,
traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende non edificabili
le aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle
caratteristiche dell’opera realizzata e dalla necessità di accertamento in
concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale (Cons. Stato, sez.
II, 24.06.2020 n. 4052; sez. IV, 13.06.2017 n. 2878; sez. IV, 27.01.2015 n.
347; sez. IV, 14.04.2010 n. 2076).
Ne consegue che, in difetto dell’atto di assenso da parte dell’ente
proprietario della strada a beneficio della quale è stabilita la fascia di
rispetto, nessuna edificazione è possibile e che, quindi, legittimamente il
Comune di Priverno, ai fini delle valutazioni di competenza per pronunciarsi
sull’istanza di accertamento di conformità domandato dalla ricorrente, ha
richiesto la produzione del nulla osta della Provincia di Latina (TAR
Lazio-Latina,
sentenza 12.03.2021 n. 151 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o autostradale
comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende legalmente inedificabili.
Il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o
autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende
legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente
legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di
determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione,
espressione del potere conformativo della P.A. di cui all’art. 42 Cost.
Detto vincolo non ha natura espropriativa, né è preordinato
all’espropriazione, in base a quanto previsto dagli art. 32, comma 1, e 37,
comma 4, del d.p.r. n. 327/2001, e l’indennità di esproprio relativa alla
sola fascia di rispetto ablata deve, pertanto, calcolarsi secondo il valore
di mercato di terreno non edificabile.
Il vincolo di inedificabilità discende dalla legge, che prevale sulla
pianificazione e programmazione urbanistica, è sancito nell’interesse
pubblico e non può, perciò, configurarsi come mero “vincolo di distanza”,
dovendosi ritenere che l’area corrispondente alla fascia di rispetto, a
prescindere dall’assoggettamento alla procedura espropriativa, non ha alcuna
potenzialità edificatoria in virtù di disposizioni di legge, non derogabili
dalla sotto-ordinata regolamentazione urbanistica, come è dato desumere
anche dal tenore letterale dell’art. 37, comma 4, d.p.r. 327/2001.
---------------
In ordine alla nozione di «edificazione», questa Corte ha
chiarito che tale concetto non si identifica né si esaurisce in quello di edificabilità residenziale abitativa, ma ricomprende
tutte quelle forme di trasformazione del suolo che siano riconducibili alla
nozione tecnica di edificazione.
Anche in quelle pronunce in cui si è ritenuto che la realizzazione di un
parcheggio integri una forma di utilizzazione intermedia tra quella agricola
e quella edificatoria, si è posto in evidenza la necessità che dette forme
di utilizzazione siano assentite dalla normativa vigente, sia pure con il
conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative.
La giurisprudenza amministrativa è ferma nel ritenere che lo spargimento di
ghiaia su un'area che ne era in precedenza priva richiede la concessione
edilizia allorché appaia preordinata alla modifica della precedente
destinazione d'uso (circostanza questa che deve fondarsi su fatti
positivamente accertati).
E' stata quindi riconosciuta
«rilevanza urbanistica (anche) al solo spianamento di un terreno agricolo
con riporto di sabbia e ghiaia, realizzato al fine di ottenere un piazzale
per deposito e smistamento di autocarri».
In ambito penale, si è poi affermato che «in materia edilizia, ai sensi
delle disposizioni di cui al T.U. in materia edilizia (artt. 3 e 10 del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380), sono subordinati al preventivo rilascio del
permesso di costruire non soltanto gli interventi edilizi in senso stretto,
ma anche gli interventi che comportano la trasformazione in via permanente
del suolo inedificato».
Deve quindi ritenersi che ai fini della determinazione dell’ambito di estensione del divieto assoluto
di edificazione, vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto
stradale o autostradale, può rilevare anche un’attività di spianatura ed
asfaltatura dell’area, prodromica alla realizzazione di parcheggi «a raso»,
implicante una trasformazione edilizia ed urbanistica del suolo.
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3. La terza, la sesta e la settima censura, da trattare
unitariamente in quanto connesse, sono fondate.
In ordine alla qualificazione giuridica della fascia di rispetto, secondo
l'orientamento di questa Corte, il vincolo imposto sulle aree site in fasce
di rispetto stradale o autostradale comporta un divieto assoluto di
edificazione che le rende legalmente inedificabili, trattandosi di
limitazioni costituzionalmente legittime, in quanto concernenti la
generalità dei cittadini proprietari di determinati beni individuati a
priori per categoria e localizzazione, espressione del potere conformativo
della P.A. di cui all'art. 42 Cost. (tra le tante Cass. n.
14632/2018, n. 13516/2015 e n. 27114/2013).
Detto vincolo non ha natura espropriativa, né è preordinato
all'espropriazione, in base a quanto previsto dagli art. 32, comma 1, e 37,
comma 4, del d.p.r. n. 327/2001, e l'indennità di esproprio relativa alla
sola fascia di rispetto ablata deve, pertanto, calcolarsi secondo il valore
di mercato di terreno non edificabile (Cass. 14632/2018 e Cass. n.
5875/2015).
Questa Corte ha di recente ribadito (Cass. 13598/2020) che «il
vincolo di inedificabilità discende dalla legge, che prevale sulla
pianificazione e programmazione urbanistica, è sancito nell'interesse
pubblico e non può, perciò, configurarsi come mero "vincolo di distanza"
(sulla qualificazione della fascia di rispetto come vincolo di distanza
Cons. Stato n. 2076/2010 e Cass. n. 25118/2018)», dovendosi ritenere che
l'area corrispondente alla fascia di rispetto, a prescindere
dall'assoggettamento alla procedura espropriativa, non ha alcuna
potenzialità edificatoria in virtù di disposizioni di legge, non derogabili
dalla sotto-ordinata regolamentazione urbanistica, come è dato desumere
anche dal tenore letterale dell'art. 37, comma 4, d.p.r.
327/2001.
In ordine alla nozione di «edificazione», sempre questa Corte ha
chiarito che tale concetto non si identifica né si esaurisce in quello di
edificabilità residenziale abitativa, ma ricomprende tutte quelle forme di
trasformazione del suolo che siano riconducibili alla nozione tecnica di
edificazione (Cass. nn. 9669, 8028/2000; Cass. 4473/1999; Cass. SU
172/2001).
Anche in quelle pronunce in cui si è ritenuto che la realizzazione di un
parcheggio integri una forma di utilizzazione intermedia tra quella agricola
e quella edificatoria, si è posto in evidenza la necessità che dette forme
di utilizzazione siano assentite dalla normativa vigente, sia pure con il
conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative (Cass.
25718/2011; Cass. 23514/2017; Cass. 19295/2018; Cass. 6527/2019; Cass. SU
7454/2020, con riferimento ad utilizzazione per attrezzature sportive).
La giurisprudenza amministrativa (richiamata dal PG nelle conclusioni
scritte) è ferma nel ritenere che lo spargimento di ghiaia su un'area che ne
era in precedenza priva richiede la concessione edilizia allorché appaia
preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso (circostanza
questa che deve fondarsi su fatti positivamente accertati) (v. anche: Cons.
Stato, sez. VI, 12.06.2018, n. 3617; Cons. Stato, sez. V, 31.03.2016, n.
1268).
E' stata quindi riconosciuta
«rilevanza urbanistica (anche) al solo spianamento di un terreno agricolo
con riporto di sabbia e ghiaia, realizzato al fine di ottenere un piazzale
per deposito e smistamento di autocarri» (TAR Lombardia, Brescia, sez.
II, 18.02.2019, n. 157).
In ambito penale, si è poi affermato che «in materia edilizia, ai sensi
delle disposizioni di cui al T.U. in materia edilizia (artt. 3 e 10 del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380), sono subordinati al preventivo rilascio del
permesso di costruire non soltanto gli interventi edilizi in senso stretto,
ma anche gli interventi che comportano la trasformazione in via permanente
del suolo inedificato» (Cass. pen. 6930/2004: in applicazione di tale
principio la Corte ha ritenuto integrato il reato edilizio nella
trasformazione di un'area di circa mq. 70 da agricola a parcheggio per
autovetture mediante la messa in opera di ghiaia; conf. Cass. pen.
4916/2014; Cass. pen. 1308/2016).
Deve quindi ritenersi che, ai fini della determinazione dell'ambito di
estensione del divieto assoluto di edificazione, vincolo imposto sulle aree
site in fasce di rispetto stradale o autostradale, quale quella in oggetto,
sottostante il viadotto, può rilevare anche un'attività di spianatura ed
asfaltatura dell'area, prodromica alla realizzazione di parcheggi «a raso»,
implicante una trasformazione edilizia ed urbanistica del suolo.
Assumeva, pertanto, rilievo il fatto decisivo, il cui esame risulta
omesso dalla Corte di merito, allegato da Autostrade, rappresentato dai
lavori commissionati da Ar.Le. a terza Ditta di spianamento ed asfaltatura
dell'area, stante il divieto legale derivante dalla fascia di rispetto
autostradale (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
ordinanza 31.12.2020 n.
29983). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale o
autostradale è di inedificabilità assoluta traducendosi in un divieto
inderogabile di costruire, indipendentemente dalle caratteristiche
dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei
connessi rischi per la circolazione stradale. Invero, “L’inedificabilità
legale è sancita nell'interesse pubblico da apposite leggi -art. 41-septies
L. n. 1150 del 1942 aggiunto dall'art. 19 della L. n. 765 del 1967; art. 9
L. n. 729 del 1961- e dai relativi regolamenti di attuazione -D.M.
01.04.1968".
Il divieto prescinde dalla programmazione urbanistica ed è correlato
all'esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile,
all'occorrenza, dal concessionario per l'esecuzione dei lavori, per
l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione
di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni:
dunque, la proibizione non è finalizzata solamente a garantire la sicurezza
del traffico ed eventuali ampliamenti della carreggiata, ma anche ad
assicurare la disponibilità di una fascia di terreno da utilizzare per
l'impianto dei cantieri, il deposito dei materiali e l'esecuzione di tutti i
tipi di lavori che si rendessero necessari in relazione all'infrastruttura
stradale.
Il vincolo –privo di natura espropriativa– rientra tra le limitazioni
costituzionalmente legittime, in quanto concernenti la generalità dei
cittadini proprietari di determinati beni individuati a priori per categoria
e localizzazione, espressione del potere conformativo della pubblica
amministrazione di cui all'art. 42 della Costituzione.
La cornice legislativa di riferimento si rinviene nel Codice della Strada e
nel Regolamento di esecuzione. L'ampiezza delle fasce è infatti
specificamente disciplinata dal D.Lgs. 285/1992 (articoli 16, 17 e 18) e dal
D.P.R. 495/1992 (articoli 26, 27 e 28), che pongono un divieto di
edificabilità assoluta ed inderogabile nell’ambito della fascia di rispetto
autostradale, per una distanza di 60 metri fuori dai centri abitati e di 30
metri all'interno di essi.
---------------
Con
riguardo all’art. 9 della L. 729/1961 <<la giurisprudenza si è pronunciata
nel senso che la fascia di rispetto ivi prevista integrava un vincolo di
inedificabilità assoluta, in quanto preordinato non solo a prevenire la
presenza di ostacoli costituenti un possibile pregiudizio per la
circolazione, ma anche ad assicurare la disponibilità di un'area contigua
alla sede stradale all'occorrenza utilizzabile per un ampliamento della
medesima.
Medesime considerazioni valgono anche con riferimento alla fascia di
rispetto di 60 metri oggi prevista dal D.P.R. n. 495 del 1992 per le strade
di tipo A, tenuto conto dell'identità di ratio e del fatto che la norma
citata vieta all'interno di tale fascia di rispetto, qualsiasi nuova
costruzione, ancorché nella forma di ampliamento di un fabbricato
preesistente o di ricostruzione di edificio preesistente e integralmente
demolito. Tale previsione che penalizza sinanche la demolizione seguita da
fedele ricostruzione da cui si desume la volontà del legislatore di ritenere
rispondente ad un interesse prioritario il mantenimento dell'area adiacente
le autostrade sgombra da costruzioni idonee ad interferire con futuri
ampliamenti della sede stradale ovvero a compromettere la sicurezza pubblica
in caso di sinistri. Ciò depone indubitabilmente nel senso della natura
assoluta del vincolo di inedificabilità imposto ex lege>>.
Va sul punto soggiunto che l’art. 16, comma 1, lett. b), del Codice della
Strada inibisce testualmente, nelle fasce di rispetto, nuove costruzioni,
ricostruzioni e ampliamenti di edificazioni di qualsiasi tipo e materiale.
---------------
I ricorrenti censurano gli atti assunti dal Comune di Ravenna (oltre al
parere reso da Autostrade per l’Italia) che hanno disposto l’annullamento
parziale del permesso di costruire e intimato il ripristino dello stato dei
luoghi.
...
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
1. Osserva anzitutto il Collegio che, per consolidata giurisprudenza, il
vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale o
autostradale è di inedificabilità assoluta traducendosi in un divieto
inderogabile di costruire, indipendentemente dalle caratteristiche
dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei
connessi rischi per la circolazione stradale (Consiglio di Stato, sez. II –
12/02/2020 n. 1100, secondo il quale “L’inedificabilità legale è sancita
nell'interesse pubblico da apposite leggi -art. 41-septies L. n. 1150 del
1942 aggiunto dall'art. 19 della L. n. 765 del 1967; art. 9 L. n. 729 del
1961- e dai relativi regolamenti di attuazione -D.M. 01.04.1968 (Cons.
Stato, Sez. IV, 13.06.2017, n. 2878”).
Si veda, su quest’ultima riflessione, anche la pronuncia del Consiglio di
Stato, sez. II – 31/01/2020 n. 815.
1.1 Il divieto prescinde dalla programmazione urbanistica ed è correlato
all'esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile,
all'occorrenza, dal concessionario per l'esecuzione dei lavori, per
l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione
di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni (TAR
Lombardia-Milano, sez. I – 22/07/2020 n. 1415): dunque, la proibizione non è
finalizzata solamente a garantire la sicurezza del traffico ed eventuali
ampliamenti della carreggiata, ma anche ad assicurare la disponibilità di
una fascia di terreno da utilizzare per l'impianto dei cantieri, il deposito
dei materiali e l'esecuzione di tutti i tipi di lavori che si rendessero
necessari in relazione all'infrastruttura stradale (TAR Liguria, sez. I –
03/06/2019 n. 504; C.G.A. Sicilia – 21/01/2019 n. 48; Consiglio di Stato,
sez. IV – 04/02/2014 n. 485; TAR Lazio-Roma, sez. II-quater – 07/04/2020 n.
3809).
1.2 Il vincolo –privo di natura espropriativa– rientra tra le limitazioni
costituzionalmente legittime, in quanto concernenti la generalità dei
cittadini proprietari di determinati beni individuati a priori per categoria
e localizzazione, espressione del potere conformativo della pubblica
amministrazione di cui all'art. 42 della Costituzione (Corte di Cassazione,
sez. I civile – 30/06/2020 n. 13203 e l’ampia giurisprudenza di legittimità
evocata).
1.3 La cornice legislativa di riferimento si rinviene nel Codice della
Strada e nel Regolamento di esecuzione. L'ampiezza delle fasce è infatti
specificamente disciplinata dal D.Lgs. 285/1992 (articoli 16, 17 e 18) e dal
D.P.R. 495/1992 (articoli 26, 27 e 28), che pongono un divieto di
edificabilità assoluta ed inderogabile nell’ambito della fascia di rispetto
autostradale, per una distanza di 60 metri fuori dai centri abitati e di 30
metri all'interno di essi.
...
4. Non è neppure condivisibile
l’affermazione della derogabilità della fascia di protezione del nastro
autostradale.
Con riguardo all’art. 9 della L. 729/1961 –invocato dalla parte ricorrente–
il TAR Abruzzo Pescara (cfr. sentenza 23/07/2018 n. 252, che non risulta
appellata) ha statuito che <<la giurisprudenza si è pronunciata nel senso
che la fascia di rispetto ivi prevista integrava un vincolo di
inedificabilità assoluta, in quanto preordinato non solo a prevenire la
presenza di ostacoli costituenti un possibile pregiudizio per la
circolazione, ma anche ad assicurare la disponibilità di un'area contigua
alla sede stradale all'occorrenza utilizzabile per un ampliamento della
medesima (cfr Tar Liguria, sez. I n. 276/2015; Tar Palermo sez. II n.
34/2015).
Medesime considerazioni valgono anche con riferimento alla fascia di
rispetto di 60 metri oggi prevista dal D.P.R. n. 495 del 1992 per le strade
di tipo A, tenuto conto dell'identità di ratio e del fatto che la norma
citata vieta all'interno di tale fascia di rispetto, qualsiasi nuova
costruzione, ancorché nella forma di ampliamento di un fabbricato
preesistente o di ricostruzione di edificio preesistente e integralmente
demolito. Tale previsione che penalizza sinanche la demolizione seguita da
fedele ricostruzione da cui si desume la volontà del legislatore di ritenere
rispondente ad un interesse prioritario il mantenimento dell'area adiacente
le autostrade sgombra da costruzioni idonee ad interferire con futuri
ampliamenti della sede stradale ovvero a compromettere la sicurezza pubblica
in caso di sinistri. Ciò depone indubitabilmente nel senso della natura
assoluta del vincolo di inedificabilità imposto ex lege>>.
Va sul punto soggiunto che l’art. 16, comma 1, lett. b), del Codice della
Strada inibisce testualmente, nelle fasce di rispetto, nuove costruzioni,
ricostruzioni e ampliamenti di edificazioni di qualsiasi tipo e materiale.
5. Anche ammettendo che la zona di cui si discorre sia al di fuori del
Centro abitato, il divieto assume natura inderogabile.
In ogni caso, anche aderendo alla prospettazione di parte ricorrente, l’art.
9, comma 2, della L. 729/1961 così recita: “Le distanze di cui al comma
precedente possono essere ridotte per determinati tratti ove particolari
circostanze lo consiglino, con provvedimento del Ministro per i lavori
pubblici, presidente dell'A.N.A.S., su richiesta degli interessati e sentito
il Consiglio di amministrazione dell'A.N.A.S.”.
Applicando le regole per tempo vigenti, l’Ente gestore della strada (ASPI)
sarebbe chiamato a formulare il parere di competenza, che ha già emesso in
senso sfavorevole: in buona sostanza, in data 15/04/2013 ha già compiuto una
valutazione (negativa) quale autorità preposta alla cura dell’interesse
pubblico al corretto assetto viabilistico.
ASPI ha richiamato la circolare ANAS del 29/07/2010, mentre la circolare
82481/2011 –invocata dai ricorrenti– ammette nella fascia di rispetto
l’istallazione e la manutenzione di sotto-servizi (acquedotti, fognature,
linee di comunicazioni, gasdotti, metanodotti, etc.), ossia di opere che non
costituiscono edificazione (TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 29.10.2020 n. 689 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE -
URBANISTICA: In
ordine alla qualificazione giuridica della fascia di rispetto, il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale
o autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende
legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente
legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di
determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione,
espressione del potere conformativo della P.A. di cui all'art. 42 Cost..
Detto vincolo non ha natura espropriativa, né è preordinato
all'espropriazione, in base a quanto previsto dagli art. 32, comma 1, e 37,
comma 4, del d.p.r. n. 327/2001, e l'indennità di esproprio relativa alla
sola fascia di rispetto ablata deve, pertanto, calcolarsi secondo il valore
di mercato di terreno non edificabile.
---------------
Deve escludersi qualsiasi incidenza dell'area corrispondente alla fascia di
rispetto ablata sulla determinazione della volumetria edificabile del lotto
in cui è compresa.
Il vincolo di inedificabilità discende dalla legge, che prevale sulla
pianificazione e programmazione urbanistica, è sancito nell'interesse
pubblico e non può, perciò, configurarsi come mero "vincolo di distanza".
La connotazione di inedificabilità, che caratterizza ineludibilmente, anche
in base alle citate norme del T.U.E., la fascia di rispetto prima
dell'assoggettamento alla procedura ablatoria, osta a che se ne possa tenere
conto senza quella connotazione ai fini del computo della volumetria
edificabile, in unione con la parte non ablata, secondo la disciplina
urbanistica, che è sotto-ordinata gerarchicamente alla legge, fonte del
vincolo.
Non è, pertanto, condivisibile l'indirizzo, a cui si sono attenuti i Giudici
di merito (Cass. n. 5875/2012; Cass. n. 13970/2011), in base al quale anche
la superficie della fascia di rispetto deve computarsi nell'individuazione
della volumetria edificabile del lotto unitario, in quanto non vi sarebbe
interferenza o contrasto tra la qualificazione legale del vincolo e la
valutazione dello stesso ai fini urbanistici.
Deve, invece, ritenersi preclusa ogni difformità della seconda rispetto alla
prima, e ciò in quanto l'area corrispondente alla fascia di rispetto, a
prescindere dall'assoggettamento alla procedura espropriativa, non ha alcuna
potenzialità edificatoria in virtù di disposizioni di legge, non derogabili
dalla sotto-ordinata regolamentazione urbanistica, come è dato desumere
anche dal tenore letterale dell'art. 37, comma 4, d.p.r. 327/2001.
---------------
In tema di determinazione dell’indennità di espropriazione per pubblica
utilità, lo spostamento della fascia di rispetto autostradale all’interno
dell’area residua rimasta in proprietà degli espropriati, pur traducendosi
in un vincolo assoluto di inedificabilità, di per sé non indennizzabile, può
rilevare nella determinazione dell’indennizzo dovuto al privato, in
applicazione estensiva dell’art.33 d.p.r. n. 327 /2001, per il deprezzamento
dell’area residua mediante il computo delle singole perdite ad essa
inerenti, qualora risultino alterate le possibilità di utilizzo della stessa
ed anche per la perdita di capacità edificatoria realizzabile sulle più
ridotte superfici rimaste in proprietà.
Il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o
autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende
legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente
legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di
determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione,
espressione del potere conformativo della P.A. di cui all’art. 42 Cost.
La connotazione di inedificabilità, che caratterizza ineludibilmente, anche
in base alle citate norme del T.U. Espropriazioni, la fascia di rispetto
prima dell’assoggettamento alla procedura ablatoria, osta a che se ne possa
tenere conto senza quella qualità ai fini del computo della volumetria
edificabile, in unione con la parte non ablata, secondo la disciplina
urbanistica, che è sottordinata gerarchicamente alla legge, fonte del
vincolo.
Nell’ipotesi di spostamento della fascia di rispetto all’interno dell’area
residua di proprietà, concettualmente distinta dall’altra già considerata
(ablazione della fascia di rispetto), la corrispondente porzione del bene è
edificabile prima dell’imposizione sulla stessa del vincolo legale di
inedificabilità conseguente dall’ablazione della fascia di rispetto, mentre
diviene inedificabile solo dopo l’esproprio dell’originaria fascia di
rispetto, così producendosi, per la “nuova” fascia di rispetto che resta in
proprietà, la perdita, e quindi la sostanziale ablazione, di un diritto
diverso da quello di proprietà, ossia del diritto di costruire.
Ove si verifichi detta situazione, poiché deve aversi riguardo alla
consistenza dell’area ante procedura espropriativa e, in allora, non
esisteva il vincolo di inedificabilità su quella porzione di bene, non può
assumere rilevanza l’inedificabilità successiva della stessa ai fini
dell’applicazione dell’art. 33 d.p.r. n. 327/2001.
Dunque, l’edificabilità originaria di quella porzione consente di valutarne
la volumetria edificatoria realizzabile in unione con l’altra parte residua,
rimasta in proprietà degli espropriati, così come, peraltro, rimane in
proprietà anche la nuova fascia di rispetto
(massima tratta da www.sdanganelli.it).
---------------
1. Con il primo motivo la società ricorrente lamenta «Violazione e
falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'art. 360, comma 1,
n. 3, cod. proc. civ.. Violazione degli artt. 32, 33, 37 e 40 d.p.r. n.
327/2001 del d.p.r. 495/1992 art. 26 del d.lgs. n. 285/1992 art. 6-
dell'art. 41-septies l. n. 1150/1941, aggiunto dall'art. 19 l. n. 765/1967 -
art. 9 l. n. 729/1961 - D.M. 01.04.1968 art. 4».
La ricorrente deduce che la natura giuridica della fascia di rispetto
comporta l'inedificabilità assoluta, come da giurisprudenza di questa Corte
che richiama, e di conseguenza trova applicazione l'art. 40 TUE, e non
l'art. 33. Sostiene che l'area in fascia di rispetto non possa concorrere al
calcolo della superficie edificabile e l'indennità di espropriazione deve
liquidarsi in base al valore agricolo del terreno, senza che rilevi il
trasferimento della relativa volumetria.
Adduce la ricorrente che la disciplina non può essere derogata dagli
strumenti generali di pianificazione e il deprezzamento della parte residua
non può essere preso in considerazione perché la fascia di rispetto è un
vincolo legale conformativo che cagiona un pregiudizio non indennizzabile.
La disposizione legislativa precede e prevale sugli strumenti generali di
pianificazione del territorio e la Corte territoriale avrebbe dovuto
preliminarmente accertare se la destinazione edificatoria fosse preclusa
dalle norme di legge citate in rubrica.
...
6. Il primo motivo è fondato nei limiti di seguito precisati.
Occorre premettere che le articolate censure espresse con il primo motivo di
ricorso involgono questioni di diritto in ordine alle quali il Collegio
ritiene di disattendere l'istanza dei controricorrenti di rimessione alle
Sezioni Unite, trattandosi di tematiche che, pur presentando profili di
indubbio rilievo nomofilattico, possono essere decise dalla Sezione semplice
mediante interpretazione del contesto normativa in via estensiva e
chiarificatrice di principi già affermati da questa Corte, nel senso che
sarà illustrato.
Le questioni sottoposte allo scrutinio di questa Corte possono così
sintetizzarsi:
A) qualificazione giuridica della fascia di rispetto e correlata
incidenza, in ipotesi di sua ablazione, sul criterio di determinazione
dell'indennità di espropriazione e sull'individuazione della volumetria
edificabile, ante assoggettamento alla procedura di espropriazione,
dell'originario lotto unitario;
B) rilevanza, in ordine all'individuazione della medesima
volumetria edificabile, del solo "spostamento" della fascia di
rispetto, nell'ipotesi in cui il vincolo, in conseguenza dell'espropriazione
parziale, si sia spostato sull'area contigua, rimasta in proprietà
dell'espropriato, venutasi a trovare per effetto dell'espropriazione
all'interno della fascia di rispetto, nella quale in precedenza non
rientrava.
6.1. In ordine alla qualificazione giuridica della fascia di rispetto,
secondo l'orientamento di questa Corte che il Collegio ritiene di
condividere, il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale
o autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende
legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente
legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di
determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione,
espressione del potere conformativo della P.A. di cui all'art. 42 Cost. (tra
le tante Cass. n. 14632/2018, n. 13516/2015 e n. 27114/2013).
Detto vincolo non ha natura espropriativa, né è preordinato
all'espropriazione, in base a quanto previsto dagli art. 32, comma 1, e 37,
comma 4, del d.p.r. n. 327/2001, e l'indennità di esproprio relativa alla
sola fascia di rispetto ablata deve, pertanto, calcolarsi secondo il valore
di mercato di terreno non edificabile (Cass. 14632/2018 e Cass. n.
5875/2015).
6.2. In ordine alle tematiche, più controverse, che presuppongono la
sussistenza, accertata nella specie dalla Corte territoriale, dell'esproprio
parziale di bene unitario ai sensi dell'art. 33 d.p.r. n. 327 /2001, ritiene
il Collegio che sia condivisibile l'orientamento secondo cui deve escludersi
qualsiasi incidenza dell'area corrispondente alla fascia di rispetto ablata
sulla determinazione della volumetria edificabile del lotto in cui è
compresa (tra le altre Cass. n. 8121/2009 e Cass. n. 26899/2008).
Il vincolo di inedificabilità discende dalla legge, che prevale sulla
pianificazione e programmazione urbanistica, è sancito nell'interesse
pubblico e non può, perciò, configurarsi come mero "vincolo di distanza"
(sulla qualificazione della fascia di rispetto come vincolo di distanza cfr.
Cons. Stato n. 2076/2010 e Cass. n. 25118/2018).
La connotazione di inedificabilità, che caratterizza ineludibilmente, anche
in base alle citate norme del T.U.E., la fascia di rispetto prima
dell'assoggettamento alla procedura ablatoria, osta a che se ne possa tenere
conto senza quella connotazione ai fini del computo della volumetria
edificabile, in unione con la parte non ablata, secondo la disciplina
urbanistica, che è sotto-ordinata gerarchicamente alla legge, fonte del
vincolo.
Non è, pertanto, condivisibile l'indirizzo, a cui si sono attenuti i Giudici
di merito (Cass. n. 5875/2012; Cass. n. 13970/2011), in base al quale anche
la superficie della fascia di rispetto deve computarsi nell'individuazione
della volumetria edificabile del lotto unitario, in quanto non vi sarebbe
interferenza o contrasto tra la qualificazione legale del vincolo e la
valutazione dello stesso ai fini urbanistici.
Deve, invece, ritenersi preclusa ogni difformità della seconda rispetto alla
prima, e ciò in quanto l'area corrispondente alla fascia di rispetto, a
prescindere dall'assoggettamento alla procedura espropriativa, non ha alcuna
potenzialità edificatoria in virtù di disposizioni di legge, non derogabili
dalla sotto-ordinata regolamentazione urbanistica, come è dato desumere
anche dal tenore letterale dell'art. 37, comma 4, d.p.r. 327/2001.
6.3. A diversa conclusione si deve pervenire nell'ipotesi di spostamento
della fascia di rispetto all'interno dell'area residua di proprietà,
dovendosi rimarcare la sua dirimente distinzione dall'altra già considerata
(ablazione della fascia di rispetto).
Infatti, in ipotesi di spostamento, la corrispondente porzione del bene è
edificabile prima dell'imposizione sulla stessa del vincolo legale di
inedificabilità conseguente dall'ablazione della fascia di rispetto, mentre
diviene inedificabile solo dopo l'esproprio dell'originaria fascia di
rispetto, così producendosi, per la "nuova" fascia di rispetto che
resta in proprietà, la perdita, e quindi la sostanziale ablazione, di un
diritto diverso da quello di proprietà, ossia del diritto di costruire.
In altri termini, come chiarito da questa Corte in precedenti pronunce
(Cass. n. 5875/2012 e Cass. n. 23210/2012), il vincolo, in conseguenza
dell'espropriazione, può essersi spostato sull'area contigua, rimasta in
proprietà del privato, venutasi a trovare per effetto dell'espropriazione
all'interno della fascia di rispetto, nella quale in precedenza non
rientrava (Cass. n. 13970/2011; n. 6518/2007; n. 14643/2001). Ove si
verifichi detta situazione, poiché deve aversi riguardo alla consistenza
dell'area ante procedura espropriativa e, in allora, non esisteva il vincolo
di inedificabilità su quella porzione di bene, non può assumere rilevanza l'inedificabilità
successiva della stessa ai fini dell'applicazione dell'art. 33 d.p.r. n.
327/2001.
Dunque, l'edificabilità originaria di quella porzione consente di valutarne
la volumetria edificatoria realizzabile in unione con l'altra parte residua,
rimasta in proprietà degli espropriati, così come, peraltro, rimane in
proprietà anche la "nuova" fascia di rispetto. Negare rilevanza, nel
senso indicato, alla descritta situazione si porrebbe in contrasto con i
principi costantemente affermati da questa Corte in tema di espropriazioni
per pubblica utilità, anche alla luce delle pronunce della Corte
Costituzionale (sentenze n. 348/2007, n. 349/2007 e 181/2011) e della Corte
Europea dei Diritti dell'Uomo, secondo i quali non solo il sistema
indennitario deve ritenersi improntato al riconoscimento del valore venale
del bene ablato, ma l'indennizzo dovuto al proprietario, in base alla
disciplina dettata dal citato art. 33, riguarda anche la compromissione o
l'alterazione delle possibilità di utilizzazione della restante porzione del
bene rimasta nella disponibilità del proprietario stesso, in tutti i casi in
cui il distacco di una parte del fondo e l'esecuzione dell'opera pubblica
influiscano negativamente sulla proprietà residua, in modo da compensare il
pregiudizio arrecato dall'ablazione ad essa (tra le tante Cass. n.
34745/2019).
Con riguardo a detti principi deve orientarsi l'interpretazione dell'art. 33
nella fattispecie in esame, la cui peculiarità risiede nel collegamento
funzionale con una parte del fondo non espropriata, ma assoggettata, in
diretta dipendenza dall'ablazione della fascia di rispetto, a vincolo
assoluto di inedificabilità, e, quindi, alla perdita del diritto di
costruire, pur nella permanenza del diritto di proprietà.
In tale ottica interpretativa, può darsi rilevanza, ai fini della
configurabilità dell'esproprio parziale, a quel collegamento, a sua volta
direttamente funzionale all'espropriazione della proprietà dell'area già in
precedenza vincolata in quanto fascia di rispetto. Il fondamento normativa
di suddetta ricostruzione si può rinvenire nell'art. 32, comma 1, citato
d.p.r., che prescrive di tener conto, nella determinazione del valore del
bene ai fini indennitari, anche dell'espropriazione di un diritto diverso da
quello di proprietà, e a detta espropriazione è assimilabile l'ipotesi che
si sta scrutinando, in cui il proprietario ha perso il diritto di costruire
sulla porzione del fondo corrispondente alla "nuova" fascia di
rispetto.
In base a detta opzione ermeneutica, estensiva nei termini consentiti dalla
specificità del caso, il privato potrà ottenere il deprezzamento dell'area
residua non ablata commisurato alla reale perdita o diminuzione di capacità
edificatoria di essa.
Detto risultato può essere, infatti, raggiunto, in termini di effettività,
solo se la valutazione della capacità edificatoria, da effettuarsi mediante
comparazione delle caratteristiche del bene unitario ante e post procedura
espropriativa, comprenda, nella ricostruzione della situazione ante
procedura ablatoria, l'area della "nuova" fascia di rispetto
originariamente edificabile, determinandosi, diversamente opinando,
ingiustificata disparità di trattamento rispetto a situazioni con
caratteristiche iniziali identiche, quanto alla pregressa destinazione
urbanistica dell'area che, all'esito dell'espropriazione, rimane in
proprietà.
Resta da precisare, sempre in ragione della specificità del caso, che il
criterio di stima differenziale, che comporta la sottrazione all'iniziale
valore dell'intero immobile quello della parte rimasta in capo al privato,
non è vincolante e può essere sostituito dal criterio che procede al calcolo
del deprezzamento della sola parte residua, per poi aggiungerlo alla somma
liquidata per la parte espropriata, purché si raggiunga il medesimo
risultato di compensare l'intero pregiudizio arrecato dall'ablazione alla
proprietà residua (da ultimo Cass. n. 25385/2019 e n. 34745/2019).
Nella specie, poiché la perdita del diritto di costruire sull'area residua
corrispondente alla "nuova" fascia di rispetto non è indennizzabile,
il giudice di merito potrà accertare e calcolare la diminuzione di valore
dell'area residua rimasta in proprietà a seguito dell'avanzamento della
fascia di rispetto mediante il computo delle singole perdite ad essa
inerenti (Cass. n. 24304/2011).
In altri termini, l'indennizzo eventualmente spettante al proprietario per
la perdita di valore dell'area residua dovrà essere calcolato in relazione
alla più limitata capacità edificatoria consentita sulla più ridotta
superficie rimasta a seguito della creazione o dell'avanzamento della fascia
di rispetto (Cass. n. 7195 del 2013).
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, il primo motivo va
accolto nei limiti indicati, con la cassazione dell'ordinanza impugnata, e i
Giudici di merito dovranno attenersi al principio di diritto secondo il
quale, in tema di determinazione dell'indennità di espropriazione per
pubblica utilità, lo spostamento della fascia di rispetto autostradale
all'interno dell'area residua rimasta in proprietà degli espropriati, pur
traducendosi in un vincolo assoluto di inedificabilità, di per sé non
indennizzabile, può rilevare nella determinazione dell'indennizzo dovuto al
privato, in applicazione estensiva dell'art. 33 d.p.r. n. 327 /2001, per il
deprezzamento dell'area residua mediante il computo delle singole perdite ad
essa inerenti, qualora risultino alterate le possibilità di utilizzo della
stessa ed anche per la perdita di capacità edificatoria realizzabile sulle
più ridotte superfici rimaste in proprietà (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 30.06.2020 n. 13203). |
EDILIZIA PRIVATA: La
fascia di rispetto autostradale pone un divieto assoluto di edificabilità,
da applicare sia alle nuove costruzioni, sia alle ricostruzioni a seguito di
demolizione, sia agli ampliamenti di edifici fronteggianti le strade di tipo
A.
Norme vigenti del Codice della Strada e del Regolamento di attuazione
pongono un divieto di edificabilità assoluta ed inderogabile nell’ambito
della fascia di rispetto autostradale per una distanza di mt. 60 fuori dai
centri abitati e mt. 30 all’interno dei centri abitati oppure nelle aree
edificabili fuori (art. 16 seg. D.Lgs. 285/1992 e art. 26 seg. DPR
495/1992).
Tale distanza minima è volta ad assicurare il prioritario interesse pubblico
alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone oltre ad
assicurare l'esecuzione di lavori di manutenzione, la realizzazione di opere
accessorie e di ampliamento della sede stradale che sarebbero impediti dalla
presenza di edificazioni e/o manufatti prossimi alla sede stradale; per tali
motivi la normativa in materia impone delle distanze minime non derogabili
tra le costruzioni e le strade, cd. fasce di rispetto, che devono rimanere
inedificate a prescindere dall’effettivo pericolo ai beni giuridici protetti
nello specifico caso in esame (vedi, tra tante, Cons, Stato, sez, IV, n.
22076/2010 e 4719/2008 ove si rappresentano gli inconvenienti degli
insediamenti edilizi spontaneamente sorti a ridosso delle sedi stradali con
danno sia dell’interesse pubblico alla sicurezza della circolazione ed alla
agibilità dell’area adiacente, ma anche i costi a carico del pubblico erario
per l’installazione di barriere acustiche, antisfondamento, mezzi di
mitigazione visiva ed ambientale, etc.).
Si tratta di limiti che si applicano sia alle nuove costruzioni, sia alle
ricostruzioni a seguito di demolizione, sia agli ampliamenti di edifici
fronteggianti le strade di tipo A (autostrade di qualunque tipo).
---------------
... per l'annullamento:
quanto al ricorso n. 4500 del 2017:
- della Determinazione Dirigenziale n. prot. 4637 del 28/02/2017 di
diniego della domanda di condono edilizio prot. n. 6417 del 15/04/2004 –
pratica di sanatoria n. 138;
- della Deliberazione della Giunta Regionale del Lazio del
25.07.2007 n. 556 di adozione del Piano Territoriale Paesistico Regionale,
nonché della Deliberazione sempre della Giunta Regionale del Lazio del
21.12.2007 n. 1025 di modificazione, integrazione e rettifica della delibera
n. 556/2007;
quanto al ricorso n. 10821 del 2017:
- della Determinazione Dirigenziale n. prot. 15629 del 03/07/2017
di diniego della domanda di condono edilizio prot. n. 6417 del 15/04/2004 –
pratica di sanatoria n. 138;
- della Deliberazione della Giunta Regionale del Lazio del
25.07.2007 n. 556 di adozione del Piano Territoriale Paesistico Regionale,
nonché della Deliberazione sempre della Giunta Regionale del Lazio del
21.12.2007 n. 1025 di modificazione, integrazione e rettifica della delibera
n. 556/2007.
...
Il Collegio ritiene di invertire l’ordine dei motivi di ricorso, per
comodità espositiva, iniziando l’esame da quello che tende a contestare il
vincolo già esistente sull’area in questione al momento della commissione
dell’abuso.
Con il quarto motivo il ricorrente contesta che nel provvedimento
impugnato vengono richiamate anche norme non più in vigore (legge n. 729 del
24/07/1961 e DM n. 1404 del 01/04/1968), che non sono specificate le norme
del vigente Codice della Strada (D.Lgs. 285/1992 s.m.i.) e relativo
Regolamento di esecuzione (DPR 495/1992) applicate, che non si tiene conto
della richiesta inoltrata all’ANAS dal ricorrente né del fatto che sulla
fascia di rispetto vi sono già altre costruzioni.
Il rilievo è pretestuoso in quanto il contestato richiamo non ha alcuna
influenza nell’iter logico-giuridico seguito dall’Amministrazione, che non
ha fatto erronea applicazione di norme abrogate, ma di norme vigenti del
Codice della Strada e del Regolamento di attuazione –agevolmente
individuabili e non fraintese nel loro contenuto dispositivo- che pongono un
divieto di edificabilità assoluta ed inderogabile nell’ambito della fascia
di rispetto autostradale per una distanza di mt. 60 fuori dai centri abitati
e mt. 30 all’interno dei centri abitati oppure nelle aree edificabili fuori
(art. 16 seg. D.Lgs. 285/1992 e art. 26 seg. DPR 495/1992).
Come chiarito dall’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, tale
distanza minima è volta ad assicurare il prioritario interesse pubblico alla
sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone oltre ad assicurare
l'esecuzione di lavori di manutenzione, la realizzazione di opere accessorie
e di ampliamento della sede stradale che sarebbero impediti dalla presenza
di edificazioni e/o manufatti prossimi alla sede stradale; per tali motivi
la normativa in materia impone delle distanze minime non derogabili tra le
costruzioni e le strade, cd. fasce di rispetto, che devono rimanere
inedificate a prescindere dall’effettivo pericolo ai beni giuridici protetti
nello specifico caso in esame (vedi, tra tante, Cons, Stato, sez, IV, n.
22076/2010 e 4719/2008 ove si rappresentano gli inconvenienti degli
insediamenti edilizi spontaneamente sorti a ridosso delle sedi stradali con
danno sia dell’interesse pubblico alla sicurezza della circolazione ed alla
agibilità dell’area adiacente, ma anche i costi a carico del pubblico erario
per l’installazione di barriere acustiche, antisfondamento, mezzi di
mitigazione visiva ed ambientale, etc.).
Si tratta di limiti che si applicano sia alle nuove costruzioni, sia alle
ricostruzioni a seguito di demolizione, sia agli ampliamenti di edifici
fronteggianti le strade di tipo A (autostrade di qualunque tipo).
È pacifico che l’immobile in contestazione, realizzato previa demolizione
del preesistente pollaio e ricostruzione dislocata ed ampliata, si trova
all’interno della predetta fascia di rispetto (risultante dai certificati di
destinazione urbanistica del 1998 e del 2002).
Ne consegue che il diniego di sanatoria sancito con il provvedimento
impugnato risulta immune dai vizi dedotti e che il motivo ostativo in parola
precluda definitivamente la possibilità di condonare l’abuso, dato che il
vincolo in parola, apposto prima della realizzazione dell’abuso non ne
consente la sanatoria, ai sensi dell’art. 33 della legge n. 47/1985 (l’art.
32 limita la possibilità di sanatoria solo al caso di vincolo successivo ed
a condizione che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza
del traffico), richiamato dalla legge n. 326/2003 (vedi, da ultimo, Cons. St.,
sez. VI, n. 6614/2019; sez. IV n. 1225/2017).
Non giova al ricorrente invocare circostanze successive, quali l’aver
presentato all’Ufficio Tecnico delle Autostrade per l’Italia-Direzione V
tronco, una richiesta di nulla osta in deroga in data 26.09.2017, in corso
di esame, dato che tale fatto non vale ad inficiare il provvedimento
impugnato, la cui legittimità va valutata alla stregua delle circostanze di
fatto e di diritto esistenti al momento della sua adozione.
Né il vulnus dell’abuso commesso viene eliminato dalla realizzazione
di altre costruzioni nella medesima area che, ove edificate abusivamente
all’interno della fascia di rispetto stradale, già esistente prima della sua
realizzazione, in violazione di un vincolo di inedificabilità totale e
assoluto, più che giustificare la tolleranza dell’abuso commesso del
ricorrente potrebbero semmai giustificare l’adozione di ulteriori misure di
ripristino e sanzionatorie da parte dell’Amministrazione.
In conclusione, anche ritenendo superato il vincolo sismico (anch’esso
esistente al momento della realizzazione dell’abuso (come riportato nei
certificati di destinazione urbanistica del 1998 e del 2002) -per il quale
il ricorrente ha ottenuto il certificato di idoneità sismica in data
12/11/2007– l’istanza di sanatoria resta comunque inaccoglibile per
violazione delle distanze a protezione della sede autostradale (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 07.04.2020 n. 3809 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
la consolidata giurisprudenza, il vincolo imposto sulle aree site nella
fascia di rispetto stradale o autostradale è di inedificabilità assoluta
traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende inedificabili le
aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle caratteristiche
dell’opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei
connessi rischi per la circolazione stradale. Il vincolo derivante dalla
fascia di rispetto si traduce in un divieto di edificazione che rende le
aree medesime legalmente inedificabili, trattandosi di vincolo di
inedificabilità che è sancito nell’interesse pubblico da apposite leggi
-art. 41-septies L. n. 1150 del 1942 aggiunto dall’art. 19 della L. n. 765
del 1967; art. 9 L. n. 729 del 1961- e dai relativi regolamenti di
attuazione -D.M. 01.04.1968.
Il divieto di edificazione sancito dall’art. 4, D.M. 01.04.1968 non può
essere inteso restrittivamente, cioè al solo scopo di prevenire l’esistenza
di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità
alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla
incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse
generale, e, cioè, per esempio, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto
dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere
accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza di costruzioni.
Pertanto, in caso di opera realizzata dopo l’imposizione del vincolo di
assoluta inedificabilità previsto dal D.M. n. 1404 del 1968 si ricade
nell’ipotesi di cui all’art. 33, comma 1, della L. n. 47 del 1985, con la
conseguenza della non sanabilità dell’opera abusiva, trattandosi di vincolo
per sua natura incompatibile con ogni manufatto. Solo quindi, in caso di
opere abusive realizzate prima dell’imposizione del vincolo, si può
applicare l’ipotesi dell’art. 32, dovendosi ammettere solo in tal caso la
possibilità di sanatoria, previa acquisizione del parere previsto dall’art.
32, comma 4, lettera c), con riferimento alla sicurezza del traffico.
---------------
L’appello è infondato.
L’art. 32 della legge 28.02.1985, n. 47, applicabile anche alle domande di
condono presentate ai sensi della legge n. 724 del 1994, in forza del
richiamo operato dall’art. 39 di detta legge, subordina il rilascio del
titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili
sottoposti a vincolo al parere favorevole delle amministrazioni preposte
alla tutela del vincolo stesso, “salve le fattispecie previste
dall’articolo 33”.
In base al comma 2 del medesimo art. 32 “Sono suscettibili di sanatoria,
alle condizioni sotto indicate, le opere insistenti su aree vincolate dopo la
loro esecuzione e che risultino:
a) in difformità dalla legge 02.02.1974, n. 64, e successive
modificazioni, e dal D.P.R. 06.06.2001, n. 380, quando possano essere
collaudate secondo il disposto del quarto comma dell’articolo 35;
b) in contrasto con le norme urbanistiche che prevedono la
destinazione ad edifici pubblici od a spazi pubblici, purché non in
contrasto con le previsioni delle varianti di recupero di cui al capo III;
c) in contrasto con le norme del decreto ministeriale 01.04.1968,
n. 1404, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 13.04.1968, e con
agli articoli 16, 17 e 18 della legge 13.06.1991, n. 190, e successive
modificazioni, sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla
sicurezza del traffico.
3. Qualora non si verifichino le condizioni di cui al comma 2, si applicano
le disposizioni dell’art. 33”.
Ai sensi dell’art. 33 della legge 28.02.1985, n. 47, non sono suscettibili
di sanatoria le opere in contrasto con i seguenti vincoli “qualora questi
comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione
delle opere stesse:
a) vincoli imposti da leggi statali e regionali nonché dagli
strumenti urbanistici a tutela di interessi storici, artistici,
architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici;
b) vincoli imposti da norme statali e regionali a difesa delle
coste marine, lacuali e fluviali;
c) vincoli imposti a tutela di interessi della difesa militare e
della sicurezza interna;
d) ogni altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree”.
Nel caso di specie, l’area in cui sono poste le opere è soggetta a vincolo
di inedificabilità per la fascia di rispetto autostradale, ai sensi del D.M.
01.04.1968, n. 1404.
L’art. 4 di tale decreto ministeriale indica le distanze da osservarsi nella
edificazione a partire dal ciglio della strada e da misurarsi in proiezione
orizzontale, tra cui per la strade di tipo A la distanza di metri 60,00.
In base all’art. 3 sono strade di tipo A: le autostrade di qualunque tipo; i
raccordi autostradali riconosciuti quali autostrade ed aste di accesso fra
le autostrade e la rete viaria della zona.
Tale vincolo della fascia di rispetto stradale è stato quindi posto dal
detto decreto ministeriale anche prima della realizzazione dell’opera, che
nella domanda di condono e anche negli scritti difensivi è indicata
nell’anno 1985.
Ne deriva che il vincolo in questione, in quanto posto prima della
realizzazione delle opere, è un vincolo di inedificabilità assoluta,
disciplinato dall’art. 33 della legge n. 47 del 1985, che impedisce il
rilascio del condono, indipendentemente dalla richiesta di parere
all’autorità preposta alla tutela del vincolo.
Per la consolidata giurisprudenza, infatti, il vincolo imposto sulle aree
site nella fascia di rispetto stradale o autostradale è di inedificabilità
assoluta traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende
inedificabili le aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle
caratteristiche dell’opera realizzata e dalla necessità di accertamento in
concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale. Il vincolo
derivante dalla fascia di rispetto si traduce in un divieto di edificazione
che rende le aree medesime legalmente inedificabili, trattandosi di vincolo
di inedificabilità che è sancito nell’interesse pubblico da apposite leggi
-art. 41-septies L. n. 1150 del 1942 aggiunto dall’art. 19 della L. n. 765
del 1967; art. 9 L. n. 729 del 1961- e dai relativi regolamenti di
attuazione -D.M. 01.04.1968 (Cons. Stato, Sez. IV, 13.06.2017, n. 2878).
Il divieto di edificazione sancito dall’art. 4, D.M. 01.04.1968 non può
essere inteso restrittivamente, cioè al solo scopo di prevenire l’esistenza
di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità
alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla
incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse
generale, e, cioè, per esempio, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto
dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere
accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza di costruzioni (cfr.
Cons. di Stato, sez. IV, 14.04.2010, n. 2076; id., 27.01.2015, n. 347).
Pertanto, in caso di opera realizzata dopo l’imposizione del vincolo di
assoluta inedificabilità previsto dal D.M. n. 1404 del 1968 si ricade
nell’ipotesi di cui all’art. 33, comma 1, della L. n. 47 del 1985, con la
conseguenza della non sanabilità dell’opera abusiva, trattandosi di vincolo
per sua natura incompatibile con ogni manufatto. Solo quindi, in caso di
opere abusive realizzate prima dell’imposizione del vincolo, si può
applicare l’ipotesi dell’art. 32, dovendosi ammettere solo in tal caso la
possibilità di sanatoria, previa acquisizione del parere previsto dall’art.
32, comma 4, lettera c), con riferimento alla sicurezza del traffico (Cons.
Stato, Sez. VI, 02.09.2019, n. 6035).
Da tale quadro normativo e giurisprudenziale deriva la infondatezza del
primo motivo di appello con cui si deduce che sarebbe dovuto intervenire
il parere dell’ANAS, quale autorità preposta alla tutela del vincolo, non
essendo stato invece dedotto alcun elemento in fatto relativo alla
preesistenza dell’opera al vincolo della fascia di rispetto stradale,
risultando anzi l’opera realizzata nel 1985 in base a quanto dichiarato
nella domanda di condono e negli scritti difensivi (Consiglio di Stato, Sez.
II,
sentenza 12.02.2020 n. 1100 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale o
autostradale si traduce in un divieto di edificazione che rende le aree
medesime legalmente inedificabili, trattandosi di vincolo di inedificabilità
che, pur non derivando dalla programmazione e pianificazione urbanistica, è
pur sempre sancito nell’interesse pubblico da apposite leggi (art. 41-septies, l. n. 1150 del 1942, aggiunto dall’art. 19, l. n. 765 del 1967;
art. 9, l. n. 729 del 1961) e dai relativi provvedimenti di attuazione (d.m.
01.04.1968).
Ciò premesso, posto che l’immobile è stato costruito successivamente al 01.01.1968 [data di entrata in vigore del decreto ministeriale (Ministero
dei lavori pubblici) n. 1404 del 1968], sussiste un divieto assoluto di
edificare in aree site in fascia di rispetto stradale (vincolo assoluto di inedificabilità),
ai sensi dell’articolo 9 della legge n. 729/1961 e del citato decreto
ministeriale n. 1404 del 1968, sicché va applicato l’articolo 33, comma 1,
lett. d), della legge n. 47 del 1985, che statuisce
l’impossibilità di sanatoria in presenza di vincoli di inedificabilità.
Come chiarito dalla giurisprudenza, il vincolo di inedificabilità assoluta
rende non fabbricabili le aree site nella fascia di rispetto stradale
indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera abusivamente realizzata e
dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la
circolazione stradale, essendo correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse
generale, con la conseguenza che opera direttamente e automaticamente,
sicché, accertata la violazione del vincolo di inedificabilità, il parere
dell’amministrazione sull’istanza di sanatoria non può essere che negativo.
---------------
1. In data 25.01.1995, l’odierna appellante ha presentato al Comune di Alberobello domanda di concessione in sanatoria, ai sensi degli articoli 39
della legge n. 724 del 1994 e 31 e seguenti della legge n. 47 del 1985, per
un locale ad uso ristoro in zona agricola nelle vicinanze della Strada
provinciale 113 Monopoli-Alberobello.
Con note prot. numeri 7807 del 30.08.1996 e 9847 del 02.10.1996,
l’allora Provincia di Bari (oggi Città metropolitana di Bari) ha emesso
pareri negativi, stante la sussistenza di un vincolo di inedificabilità
introdotto, a protezione del nastro stradale, dal D.M. n. 1404 del 01.04.1968, prima dell’ultimazione dell’edificio da sanare.
2. Avverso tali pareri, l’interessata ha proposto il ricorso di primo grado
n. 3248 del 1996, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la
Puglia, sede di Bari.
L’allora Provincia Bari si è costituita nel giudizio di primo grado, mentre
il Comune di Alberobello non si è costituito.
3. Con l’impugnata sentenza n. 2328 del 14.10.2008, il Tar per la
Puglia, sede di Bari, sezione terza, ha respinto il ricorso e ha condannato
la ricorrente al pagamento, in favore dell’Amministrazione provinciale,
delle spese di lite, liquidate in euro 2.000.
...
7. L’appello è infondato e deve essere respinto alla stregua delle seguenti
considerazioni in fatto e in diritto.
8. È dirimente –e assorbente ogni altra considerazione– il fatto che
l’immobile è sito in zona agricola. Non è provato quanto affermato
dall’appellante circa l’ubicazione dell’immobile in zona esterna all’abitato
e tipizzata dal piano regolatore generale come ambito di particolare pregio
ambientale. È pertanto infondato il tentativo dell’appellante di sostenere
che la disciplina urbanistica dell’area su cui sorge il manufatto potesse
qualificarsi come “edificabile” ai sensi dell’articolo 26, comma 3, del d.P.R. n. 495 del 1992.
Non può peraltro sottacersi che “Il vincolo imposto sulle aree site nella
fascia di rispetto stradale o autostradale si traduce in un divieto di
edificazione che rende le aree medesime legalmente inedificabili,
trattandosi di vincolo di inedificabilità che, pur non derivando dalla
programmazione e pianificazione urbanistica, è pur sempre sancito
nell'interesse pubblico da apposite leggi (art. 41-septies, l. n. 1150 del
1942, aggiunto dall'art. 19, l. n. 765 del 1967; art. 9, l. n. 729 del 1961)
e dai relativi provvedimenti di attuazione (d.m. 01.04.1968)” (Consiglio
di Stato, Adunanza plenaria, decisione 16.11.2005, n. 9).
Ciò premesso, posto che l’immobile è stato costruito successivamente al 01.01.1968 [data di entrata in vigore del decreto ministeriale (Ministero
dei lavori pubblici) n. 1404 del 1968], sussiste un divieto assoluto di
edificare in aree site in fascia di rispetto stradale (vincolo assoluto di inedificabilità), ai sensi dell’articolo 9 della legge n. 729/1961 e del
citato decreto ministeriale n. 1404 del 1968, sicché va applicato l’articolo
33, comma 1, lettera d), della legge n. 47 del 1985, che statuisce
l’impossibilità di sanatoria in presenza di vincoli di inedificabilità.
8.1. Del tutto legittimamente il Tar non si è pronunciato sulle ulteriori
censure mosse dalla parte privata, in quanto assorbite dalla acclarata
presenza di un vincolo di inedificabilità assoluta del terreno su cui è
stato edificato il manufatto.
In ogni caso, in ordine alla censura di non necessaria acquisizione del
parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo (Provincia di Bari),
si evidenzia che ai sensi degli articoli 32, comma 1, della legge n. 47 del
1985 e 39 della legge n. 724 del 1994, il parere era certamente necessario (cfr.
Consiglio di Stato, sezione VI, sentenze 22.01.2019, n. 540, e 28.09.2012, n. 5125).
Con riferimento all’asserita esigenza di vagliare l’effettiva pericolosità
dell’opera per il traffico stradale, si osserva che, come chiarito dalla
giurisprudenza, il vincolo di inedificabilità assoluta rende non
fabbricabili le aree site nella fascia di rispetto stradale
indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera abusivamente realizzata e
dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la
circolazione stradale, essendo correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse
generale, con la conseguenza che opera direttamente e automaticamente,
sicché, accertata la violazione del vincolo di inedificabilità, il parere
dell’amministrazione sull’istanza di sanatoria non può essere che negativo (cfr.
Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 8 giugno 2011, n. 3498, 14.04.2010, n. 2076, e 15.04.2013, n. 2062; Cass. civ., sezione III, sentenza
21.02.2013, n. 4346).
Parimenti infondata è la deduzione per cui le distanze dal ciglio stradale
sarebbero derogabili in caso di impianti di interesse pubblico, poiché il
vincolo di inedificabilità è, per sua natura, incompatibile con qualsiasi
tipologia di manufatto.
È altresì infondata la doglianza relativa all’incompetenza del dirigente ad
emanare i pareri impugnati siccome di competenza della Giunta provinciale,
in quanto detto vizio, attesa la già rilevata natura vincolata dei
provvedimenti adottati, rientra nel novero dei vizi non invalidanti di cui
all’articolo 21-octies, comma 2, prima parte, della legge n. 241 del 1990, e
non ridonda, pertanto, in un’annullabilità.
9. In conclusione l’appello va respinto, con conseguente conferma della
sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 31.01.2020 n. 815 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Il
concessionario autostradale ha l’obbligo di segnalare la realizzazione di
un’opera all’interno della fascia di rispetto dell’autostrada al Concedente.
Per quanto attiene alle attività di tutela delle strade e delle fasce di
rispetto la giurisprudenza ha costantemente
affermato che “il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di
rispetto autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalla
caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione
sancito dall’art. 9 della l. n. 729/1961 e dal successivo d.m. n. 1404/1968
non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire
l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro
prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e
alla incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza
di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal
concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri,
per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie,
senza limiti connessi alla presenza di costruzioni".
Ne discende che “le distanze previste vanno osservate anche con riferimento
ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle
opere preesistenti”.
---------------
La società ricorrente gestisce un parco attrezzato ed una
pista di karting cross in virtù di una Convenzione stipulata con il Comune
di Cattolica nel 1989.
A seguito della realizzazione della terza corsia dell’autostrada A14, la
pista di karting risultava all’interno della fascia di rispetto e la società
presentava un progetto preliminare di ulteriore arretramento della sede
della pista che veniva respinto con i provvedimenti indicati in epigrafe.
Il primo motivo di ricorso riguarda la violazione dell’art. 10-bis L.
241/1990 poiché il Ministero resistente non ha notificato il preavviso di
diniego impedendo il formarsi del contraddittorio procedimentale.
Il secondo motivo contesta la violazione degli artt. 16 e 18 DPR 285/1992 e
26 e 27 DPR 495/1992 poiché le fasce di rispetto previste da tali norma non
si applicherebbero all’attività della società ricorrente in quanto la pista
di karting non costituisce un manufatto sopraelevato che può costituire
disturbo per la circolazione dei veicoli sull’autostrada.
Si costituivano in giudizio Autostrade per l’Italia ed il Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti chiedendo il rigetto del ricorso, eccependo
la prima anche l’inammissibilità per carenza di interesse essendo venuto
meno il provvedimento edilizio che consentiva l’esercizio dell’attività.
Il ricorso è infondato e ciò consente di prescindere dall’esame
dell’eccezione preliminare.
In merito al primo motivo al di là delle differente prospettazione delle
parti circa l’iter procedimentale che ha preceduto gli atti impugnati, i
provvedimenti non potrebbero avere un contenuto diverso e pertanto
l’omissione procedimentale è irrilevante.
Il concessionario autostradale ha l’obbligo di segnalare la realizzazione di
un’opera all’interno della fascia di rispetto dell’autostrada al Concedente;
per quanto attiene alle attività di tutela delle strade e delle fasce di
rispetto la giurisprudenza, che il Collegio condivide, ha costantemente
affermato che “il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di
rispetto autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalla
caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione
sancito dall’art. 9 della l. n. 729/1961 e dal successivo d.m. n. 1404/1968
non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire
l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro
prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e
alla incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza
di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal
concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri,
per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie,
senza limiti connessi alla presenza di costruzioni" (Consiglio di Stato, IV,
27.01.2015, n. 347).
Ne discende che “le distanze previste vanno osservate anche con riferimento
ad opere che non superino il livello della sede stradale (Cass. civ., n.
6118/1995) o che costituiscano mere sopraelevazioni (Cass. civ., n.
193/1987) o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle
opere preesistenti” (TAR Campania 1461/2011, Consiglio di Stato 2062/2013
e 2076/2010, TAR Lombardia 2353/2011 ) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez.
I,
sentenza 17.06.2019 n. 536 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: E'
principio pacifico che "In tema di condono edilizio il vincolo di
inedificabilità in zona di rispetto stradale è considerato un vincolo di
inedificabilità assoluta e, di conseguenza, allorché l'abuso edilizio sia
stato compiuto dopo la sua imposizione, non si applica l'art. 32, comma 2,
lett. c), l. 28.02.1985 n. 47 ma, in base al comma 3, il successivo art. 33
con conseguente insanabilità dell'abuso, a nulla rilevando la non
pericolosità della porzione di manufatto per la sicurezza del traffico".
Ed ancora è stato affermato che "Il vincolo d'inedificabilità sulle zone di
rispetto stradale, imposto dall'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 ha carattere
assoluto e pertanto -a differenza del vincolo di cui all'art. 32, d'inedificabilità
relativa, che può essere rimosso a discrezione dell'autorità preposta alla
cura dell'interesse tutelato- contiene un divieto di edificazione a
carattere assoluto, che comporta la non sanabilità dell'opera realizzata
dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile
con ogni manufatto".
---------------
Il vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto
autostradale ha carattere “assoluto” e prescinde dalle caratteristiche
dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art.
9 della l. n. 729 del 24.07.1961 e dal susseguente decreto interministeriale
n. 1404 del 01.04.1968, debbono ritenersi prevalenti sulla stessa norma
regionale.
Norma che, di fatto, relativamente alla fascia di rispetto delle strade deve
ritenersi priva di contenuto precettivo, a nulla rilevando il profilo del
pregiudizio o meno alla sicurezza del traffico; e ciò anche alla stregua di
quanto affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa
i riflessi di natura penale connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina
regionale (anche di rango primario) circa la possibile sanatoria degli
stessi.
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Il vincolo non ha soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli
materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede
autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle
persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una
fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per
l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di
materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi
alla presenza di costruzioni.
Viene quindi fatto riferimento ad un ampio concetto di esigenza manutentiva,
anch’essa attinente alla sicurezza e fluidità della circolazione, che non si
presta ad essere valutata caso per caso per l’impossibilità oggettiva di
potere prevedere tutte le future evenienze, specie in casi come quelli qui
in esame dove la distanza è risultata pari a ml. 13,75 e, pertanto,
notevolmente inferiore a quella minima prevista dalla normativa vigente
ratione temporis per la concessione del nulla osta, da non lasciare
spazio ad alcuna valutazione discrezionale all’amministrazione.
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Iil vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale
ha carattere “assoluto” e prescinde dalle caratteristiche dell’opera
realizzata.
---------------
L'Amministrazione competente alla tutela del vincolo in argomento è chiamata
ad esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica,
caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e non può
legittimamente svolgere quell'attività di comparazione e di bilanciamento
dell'interesse affidato alla sua cura (la tutela della sicurezza stradale)
con interessi di altra natura e spettanza che è propria della
discrezionalità amministrativa.
---------------
3.1. Le superiori censure sono infondate.
3.2. Deve infatti evidenziarsi che la ricorrente omette di considerare che
nel 1977 ha demolito e ricostruito l’immobile in assenza di titolo
autorizzativo, tant’è che l’Anas elevò il verbale di contestazione n. 39 del
24/06/1980; sicché l’epoca di realizzazione (abusiva) del fabbricato oggi
esistente deve farsi risalire al 1977, e dunque in epoca successiva
all’apposizione del vincolo autostradale. E’ infatti consolidato
orientamento giurisprudenziale che lo jus edificandi del lotto,
divenuto libero a seguito di demolizione e/o crolli, segua le norme
urbanistiche vigenti alla data di realizzazione, nel rispetto del regime
vincolistico vigente alla data di ricostruzione.
3.3. Alla stregua di quanto precede, appare irrilevante il richiamo alla
pronuncia di merito citata dalla ricorrente, essendo principio pacifico che
"In tema di condono edilizio il vincolo di inedificabilità in zona di
rispetto stradale è considerato un vincolo di inedificabilità assoluta e, di
conseguenza, allorché l'abuso edilizio sia stato compiuto dopo la sua
imposizione, non si applica l'art. 32, comma 2, lett. c), l. 28.02.1985 n.
47 ma, in base al comma 3, il successivo art. 33 con conseguente
insanabilità dell'abuso, a nulla rilevando la non pericolosità della
porzione di manufatto per la sicurezza del traffico" (TAR Lazio-Latina -
Sez. I - 17.11.2011, n. 923).
Ed ancora è stato affermato che "Il vincolo d'inedificabilità sulle zone
di rispetto stradale, imposto dall'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 ha carattere
assoluto e pertanto -a differenza del vincolo di cui all'art. 32, d'inedificabilità
relativa, che può essere rimosso a discrezione dell'autorità preposta alla
cura dell'interesse tutelato- contiene un divieto di edificazione a
carattere assoluto, che comporta la non sanabilità dell'opera realizzata
dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile
con ogni manufatto" (Consiglio Stato - Sez. IV - 05.07.2000, n. 3731).
3.4. Sotto altro profilo va ancora osservato che il provvedimento di diniego
impugnato esordisce premettendo che l’art. l'art. 23, comma 8, della L.R. n.
37/1985 ammette la possibilità di conseguire la concessione o
l'autorizzazione in sanatoria per le costruzioni ricadenti nelle fasce di
rispetto stradali definite dal D.M. 01.04.1968 sempre che a giudizio degli
enti preposti alla tutela della viabilità le costruzioni stesse non
costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico.
L’Anas precisa poi, nel provvedimento, che tuttavia tale norma regionale non
si applica alle costruzioni ricadenti nella fascia di rispetto Autostradale
definita dall'art. 9 della Legge n. 729/1961 (poi abrogato) e ritiene
comunque inderogabili le distanze minime imposte dal D.M. 1404/1968 e dalla
circolare Anas n. 109707/2010 applicativa delle disposizioni dettate dal
Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti in applicazione degli artt.
26 e 28 del Regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice della Strada,
atteso che la giurisprudenza è stata sempre conforme nel ritenere il
carattere assoluto del vincolo introdotto a tutela della fascia di rispetto
autostradale, anche a prescindere dalle concrete caratteristiche dell’opera
realizzata.
Orbene nel rilevare che la doglianza della ricorrente non sembra del tutto
centrata sulla motivazione in effetti adottata dall’Amministrazione, non
ponendo alcuna questione in ordine alla norma regionale citata nel
provvedimento, appare opportuno al Collegio precisare quanto segue.
Il Collegio richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr.,
ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2018, n. 1250 e, ivi, richiami;
id., 03.11.2015, n. 5014), secondo cui il vincolo d’inedificabilità gravante
sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere “assoluto” e
prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto
di costruzione sancito dall’art. 9 della l. n. 729 del 24.07.1961 e dal
susseguente decreto interministeriale n. 1404 del 01.04.1968, debbono
ritenersi prevalenti sulla stessa norma regionale; norma che, di fatto,
relativamente alla fascia di rispetto delle strade deve ritenersi priva di
contenuto precettivo, a nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno
alla sicurezza del traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato
dalla Corte costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di
natura penale connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale
(anche di rango primario) circa la possibile sanatoria degli stessi.
Nel caso di specie, a seguito di sopralluogo, l’Anas ha accertato che la
distanza è pari a ml. 13,75 e dunque inferiore a quella minima prevista
dalla normativa in esame per la concessione del nulla osta e, dunque, per la
sanabilità della costruzione.
Anche per detto profilo, pertanto, il provvedimento impugnato appare immune
da censure.
4. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente deduce la
violazione e falsa applicazione dell’art. 32, L. 28.02.1985 n. 47 – eccesso
di potere e travisamento.
Afferma che in tema di sanatoria di abusi edilizi, in applicazione della
Legge n. 47 del 1985, la natura del vincolo riveniente da una fascia di
rispetto stradale differisce a seconda che le opere edilizie abusive siano
state realizzate prima o dopo l’imposizione del vincolo, dovendosi ammettere
solo nel primo caso la possibilità di sanatoria (previa acquisizione del
parere previsto dall’art. 32), che resta invece esclusa nella seconda
ipotesi, ai sensi del successivo art. 33, comma 1, lett. d).
E ciò in quanto l’art. 32, comma 4 –nella versione vigente ratione
temporis– consente la sanatoria –tra le altre ipotesi– per le opere
abusive “in contrasto con le norme del D.M. 01.04.1968 … sempre che le
opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico”
(lett. c), quando esse siano “… insistenti su aree vincolate dopo la loro
esecuzione …”, sicché soltanto in tale caso, attesa la natura “relativa”
del vincolo (ai fini della sanatoria), l’Amministrazione deve darsi carico
di verificare che le opere “… non costituiscano minaccia alla sicurezza
del traffico”, mentre per gli interventi realizzati dopo l’imposizione
del vincolo opera la preclusione assoluta di cui all’art. 33, comma 1 (cita
TAR Toscana, sez. III, 12.03.2013, n. 405, TAR Emilia Romagna, Parma, sez.
I, 26.01.2006, n. 22).
4.1. Le superiori censure sono infondate in quanto si fondano sull’assunto
–già sopra smentito- che l’immobile per cui è causa sia stato realizzato in
epoca anteriore all’imposizione del vincolo della fascia di rispetto
stradale e che le opere di totale demolizione e ricostruzione che hanno
interessato il fabbricato nel 1977 non incidano in alcun modo nella
disciplina del regime vincolistico dell’area sulla quale esso insiste.
Deve poi aggiungersi, quanto alla pretesa necessità di una valutazione della
pericolosità in concreto del fabbricato (ossia che non costituisca minaccia
alla sicurezza del traffico), che il provvedimento appare esente da censure
avendo l’Anas implicitamente motivato sul punto; infatti, richiamando
copiosa giurisprudenza in materia, ha affermato che il vincolo non ha
soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali
suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale,
pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma
appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di
rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione
dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per
la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di
costruzioni.
Viene quindi fatto riferimento ad un ampio concetto di esigenza manutentiva,
anch’essa attinente alla sicurezza e fluidità della circolazione, che non si
presta ad essere valutata caso per caso per l’impossibilità oggettiva di
potere prevedere tutte le future evenienze, specie in casi come quelli qui
in esame dove la distanza è risultata pari a ml. 13,75 e, pertanto,
notevolmente inferiore a quella minima prevista dalla normativa vigente
ratione temporis per la concessione del nulla osta, da non lasciare
spazio ad alcuna valutazione discrezionale all’amministrazione.
5. Con il terzo motivo di ricorso deduce il vizio di eccesso di
potere delle stesse disposizioni citate nei precedenti motivi di ricorso per
carenza dei presupposti, sviamento, illogicità e contraddittorietà,
iniquità, disparità di trattamento.
Afferma la ricorrente che per consolidato orientamento giurisprudenziale, la
fascia di rispetto stradale si traduce in un divieto di edificazione che
rende le aree medesime legalmente inedificabili, ma tuttavia detto divieto
di edificazione non preclude il recupero di edifici esistenti entro le fasce
in oggetto.
Sicché il provvedimento sarebbe illegittimo a cagione del fatto in cui le
opere di cui si chiede la sanatoria rappresentano un mero rifacimento del
progetto originario che nulla ha alterato, in termini di cubatura, sia in
altezza che in profondità, lasciando altresì quasi immutato il prospetto
originario.
5.1. La censura è infondata per le medesime considerazioni sopra rassegnate
in ordine all’epoca di realizzazione del fabbricato -demolito e poi
ricostruito in assenza di titolo autorizzatorio- essendo inderogabile il
rispetto delle distanze imposte dal regime vincolistico vigente alla data di
ricostruzione.
6. Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente deduce la violazione
e falsa applicazione del punto 4.3, circolare del Ministero dei Lavori
Pubblici 30.07.1985, n. 3357/25 – eccesso di potere, sviamento, iniquità.
Sostiene che in tale Circolare, il Ministero dei Lavori pubblici premette
che “sono sanabili le costruzioni realizzate nelle fasce di rispetto a
protezione del nastro stradale, a condizione che non costituiscano minaccia
alla sicurezza del traffico” ed al contempo vengono indicati i criteri
che i Comuni e gli Enti proprietari delle strade debbano seguire per
accertare se esista o meno tale minaccia.
La circolare prevedrebbe, in particolare, che quando l’abuso sia costituito
da un fabbricato di piccole dimensioni su strada senza intersezioni o
singolarità plano-volumetriche prossime, la concessione edilizia in
sanatoria sarà ammissibile ove il manufatto disti dalla strada almeno 5 m,
ovvero almeno metà della larghezza della strada, se superiore a 5 m.
Ne inferisce il ricorrente che nel caso di specie i requisiti anzidetti
sarebbero pienamente rispettati, sicché l’Anas non avrebbe potuto negare il
chiesto nulla osta in sanatoria.
6.1. La censura è infondata per le considerazioni sopra svolte, atteso che
il vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale
ha carattere “assoluto” e prescinde dalle caratteristiche dell’opera
realizzata.
7. Con il quinto motivo di ricorso deduce i vizi di violazione e falsa
applicazione dell’art. 3 L. 241/1990 e dell’art. 97 Cost. – difetto di
istruttoria e motivazione - violazione dei principi di efficienza e buon
andamento, violazione del giusto procedimento.
Il provvedimento non sarebbe adeguatamente motivato e l’Anas non farebbe
alcun cenno della catena pressoché ininterrotta di costruzioni adibite a
civile abitazione che si snodano lungo tutto il litorale (da Isola delle
Femmine sin oltre Punta Raisi) e che hanno tutte la medesima distanza
(minima) dalla sopravvenuta A/29.
7.1. La censura è infondata per la considerazione che l'Amministrazione
competente alla tutela del vincolo in argomento è chiamata ad esercitare
valutazioni proprie della discrezionalità tecnica, caratterizzata dal
perseguimento di un unico interesse, e non può legittimamente svolgere
quell'attività di comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato
alla sua cura (la tutela della sicurezza stradale) con interessi di altra
natura e spettanza che è propria della discrezionalità amministrativa.
Peraltro la ricorrente non lamenta in concreto nemmeno una disparità di
trattamento, non avendo nemmeno postulato che in casi analoghi l’Anas abbia
rilasciato il nulla osta ad essa invece denegato.
Pertanto il Collegio non ravvisa i denunciati vizi di difetto di istruttoria
e di motivazione, in quanto il provvedimento è diffusamente motivato sia con
riferimento ai parametri normativi sui quali esso è fondato, sia in ordine
ai presupposti di fatto che asseverano l’espletamento di un adeguata
istruttoria.
8. Per tutti i surriferiti motivi il ricorso è infondato e va rigettato (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 17.05.2019 n. 1366 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo derivante da una fascia di rispetto autostradale ha l'effetto
urbanistico di prescrivere un semplice obbligo di distanza, ma non quello di
rendere l'area inedificabile, posto che la ratio delle disposizioni che
danno origine alla c.d. zona di rispetto viario sono quelle di garantire la
sicurezza della circolazione stradale.
Le zone di fascia di rispetto stradale vanno, quindi, calcolate ai fini
della volumetria edificabile, dal momento che esse sanciscono soltanto
l'obbligo urbanistico di costruire ad una certa distanza dalla strada, e
perciò di non realizzare alcun manufatto edilizio all'interno della predetta
fascia di rispetto stradale.
Quanto al calcolo delle distanze bisogna fare riferimento agli strumenti
urbanistici vigenti al momento della realizzazione dell'opera.
---------------
Con l'unico motivo di ricorso si deduce l'omessa motivazione di un
fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e la
violazione della L. 765/1967 e del D.M. 1404/1968 in relazione agli artt.
360 n. 3 e 5 c.p.c..
Il ricorrente lamenta che la decisione si fondi sull'errato della
sussistenza di una fascia di rispetto autostradale, calcolata in metri
sessanta dal limite autostradale, ritenendo l'area interessata
dall'intervento come ricadente fuori dal centro abitato laddove, da alcuni
atti amministrativi acquisiti al processo, e segnatamente dal certificato di
destinazione urbanistica, veniva certificata l'assenza di fasce di rispetto.
Il ricorrente richiamava altresì una delibera del Dirigente dell'Ufficio
Tecnico del Comune che considerava l'area in questione all'interno del
perimetro del centro abitato, con conseguente inapplicabilità della distanza
di mt. 60. Riteneva che fosse applicabile l'art. 9 L. 729/1961, che
stabilisce in metri 25 la distanza minima da osservare per la costruzione e
l'ampliamento di edifici in qualsiasi parte del territorio, senza
distinzione tra centro abitato e zone esterne a questo, con la conseguenza
che la distanza prescritta dalla legge sarebbe stata rispettata, in quanto
la costruzione dei Pe. si trovava a mt 30,37.
Ha, infine censurato la quantificazione del danno, quantificato nella
perdita di valore dell'immobile del Perugino, sul rilievo che esso fosse
totalmente abusivo e, pertanto incommerciabile.
Il motivo non è fondato.
Il vincolo derivante da una fascia di rispetto autostradale ha l'effetto
urbanistico di prescrivere un semplice obbligo di distanza, ma non quello di
rendere l'area inedificabile, posto che la ratio delle disposizioni
che danno origine alla c.d. zona di rispetto viario sono quelle di garantire
la sicurezza della circolazione stradale.
Le zone di fascia di rispetto stradale vanno, quindi, calcolate ai fini
della volumetria edificabile, dal momento che esse sanciscono soltanto
l'obbligo urbanistico di costruire ad una certa distanza dalla strada, e
perciò di non realizzare alcun manufatto edilizio all'interno della predetta
fascia di rispetto stradale.
Quanto al calcolo delle distanze bisogna fare riferimento agli strumenti
urbanistici vigenti al momento della realizzazione dell'opera.
Il ricorrente non ha invocato l'erronea applicazione dello strumento
urbanistico vigente, che prescriveva una fascia di rispetto di metri
sessanta, limitandosi a censurare la decisione attraverso il richiamo di
atti amministrativi, segnatamente il certificato di destinazione urbanistica
ed una delibera del Dirigente dell'Ufficio Tecnico del Comune del
23.10.1991, che, non solo non trascrive o allega, in violazione dell'art.
366 n. 6 c.p.c., ma che sono in conferenti rispetto alla decisione basata
sulle prescrizioni del Programma di Fabbricazione del Comune di Casalnuovo.
Poiché lo strumento urbanistico aveva determinato in metri sessanta la
fascia di rispetto, ai sensi del D.M. 1404/1968, non coglie nel segno il
richiamo all'art. 9 L. 729/1961 che stabilisce in metri 25 la distanza
minima da osservare per la costruzione e l'ampliamento di edifici in
qualsiasi parte del territorio, senza distinzione tra centro abitato e zone
esterne.
La sentenza gravata si rivela immune da censure, posto che, ha accertato che
il Programma di Fabbricazione del Comune di Casalnuovo vigente all'epoca
della concessione edilizia da parte della Se.Co. s.r.l. prevedeva che nella
fascia di rispetto di sessanta metri dall'autostrada ricadesse una zona con
destinazione a verde, con un indice di fabbricabilità inferiore rispetto a
quella realizzata ed allegata all'istanza di concessione edilizia.
La corte territoriale, sulla base di una corretta applicazione delle norme
di diritto, che il ricorrente censura attraverso le risultanze degli atti di
causa, ha accertato che il corpo B dell'edificio ricade nella fascia di
rispetto autostradale, causando alla proprietà Perugino un danno in termini
di soleggiamento e luminosità.
Non ha conseguentemente rilievo la censura relativa alla condanna
risarcitoria, genericamente dedotta nel ricorso, ed afferente alla presunta
incommerciabilità del bene in ragione della sua abusività e non in relazione
al godimento del bene.
Del tutto privo di fondamento è il dedotto vizio di omessa motivazione,
posto che la corte territoriale si è puntualmente soffermata su tutti gli
aspetti relativi alla dedotta violazione della fascia di rispetto, con
motivazione diffusa e congrua (Corte di cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 10.10.2018 n. 25118). |
EDILIZIA PRIVATA:
Osserva il Collegio che la predisposizione di un
piano di nuove costruzioni stradali ed autostradali risale
alla legge n. 729 del 24.07.1961 il cui art. 9, al comma 1,
stabiliva che: “Lungo i tracciati delle autostrade e
relativi accessi, previsti sulla base dei progetti
regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o
ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza
inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione
dell'autostrada stessa”.
La stessa norma al comma 3
stabiliva che: “Il divieto previsto dal presente articolo ha
effetto dalla data della pubblicazione di apposito avviso, a
cura del concessionario, sul Foglio degli annunzi legali
delle singole Prefetture competenti per territorio, recante
notizia dell'avvenuta approvazione del progetto di ciascuna
strada.”
Inoltre, con d.m. n. 1404 dell’01.04.1968 è stato imposto
per le nuove edificazioni al di fuori del perimetro del
centro abitato, ai sensi dell’art. 4, l’obbligo del rispetto
della distanza di 60 metri dal ciglio della strada per le
autostrade in quanto qualificate come strade di tipo A.
Successivamente, con il regolamento del codice della strada
approvato con d.p.r. 495/1992 è stato poi confermato
all’art. 26 il limite di 60 metri per le distanze da
osservare per le strade di tipo A fuori dai centri abitati,
riferite alle “nuove costruzioni, ricostruzioni conseguenti
a demolizioni integrali, o negli ampliamenti fronteggianti
le strade”, ridotto a 30 metri all’interno dei centri
abitati, oppure al di fuori dei centri abitati nel caso di
zone previste come edificabili o trasformabili dallo
strumento urbanistico generale, se lo strumento è
suscettibile di attuazione diretta, ovvero se per tali zone
siano già previsti strumenti attuativi.
Con riferimento all’art. 9 della legge n. 729/1961 la
giurisprudenza si è pronunciata nel senso che la fascia di
rispetto ivi prevista integrava un vincolo di
inedificabilità assoluta, in quanto preordinato non solo a
prevenire la presenza di ostacoli costituenti un possibile
pregiudizio per la circolazione, ma anche ad assicurare la
disponibilità di un’area contigua alla sede stradale
all’occorrenza utilizzabile per un ampliamento della
medesima.
Medesime considerazioni valgono anche con riferimento alla
fascia di rispetto di 60 metri oggi prevista dal d.p.r. n.
495/1992 per le strade di tipo A, tenuto conto dell’identità
di ratio e del fatto che la norma citata vieta all’interno
di tale fascia di rispetto, qualsiasi nuova costruzione, ancorché nella forma di ampliamento di un fabbricato
preesistente o di ricostruzione di edificio preesistente e
integralmente demolito.
Tale previsione che penalizza sinanche la demolizione seguita da fedele ricostruzione da
cui si desume la volontà del legislatore di ritenere
rispondente ad un interesse prioritario il mantenimento
dell’area adiacente le autostrade sgombra da costruzioni
idonee ad interferire con futuri ampliamenti della sede
stradale ovvero a compromettere la sicurezza pubblica in
caso di sinistri. Ciò depone indubitabilmente nel senso
della natura assoluta del vincolo di inedificabilità imposto
ex lege.
---------------
1. Con ricorso iscritto al n. 120/2017 i sig.ri Li.
Di Pa. e Li.Fi. adivano codesto TAR al fine
di richiedere l’annullamento, previa sospensiva, dei pareri
contrari rispettivamente espressi dal Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti e dalla Società Strada dei
Parchi s.p.a. rispetto all'istanza volta al rilascio del
permesso di costruire per un intervento di ristrutturazione
edilizia sulla copertura di un immobile di proprietà.
Esponevano che, quali proprietari di un immobile ubicato in
Cepagatti, censito in catasto urbano al fg. 8 part. n. 356,
realizzato nel 1968 ed adibito a civile abitazione, con
istanza del 04/01/2017 prot. n. 188, avevano richiesto al
Comune di Cepagatti il rilascio di un permesso di costruire
per l'esecuzione di un intervento di ristrutturazione
edilizia avente ad oggetto il miglioramento statico della
copertura del preesistente fabbricato, realizzato in forza
dei nulla osta del 04/04/1968 e del 28/09/1970, ed oggetto
di quattro distinti permessi di costruire.
Esponevano che l’Amministrazione comunale, verificata
l'ubicazione dell'immobile in fascia di rispetto
autostradale (Autostrada A25), indiceva una conferenza di
servizi che si concludeva in data 16.06.2017, con la presa
d’atto dei due pareri negativi espressi dal Ministero e
dalla società Strada dei Parchi, e che l'Amministrazione
comunale, con nota prot. 13288 del 27/06/2017, comunicava il
preavviso di diniego ex art. 10-bis L. n. 241/1990 al rilascio
del permesso di costruire.
...
3. Nel merito il ricorso è infondato e va respinto come di
seguito argomentato.
Come anticipato in fatto si discute nel giudizio
dell’approvazione di un progetto di ristrutturazione ed
adeguamento statico della copertura di una fabbricato sito
in Capagatti, all’interno della fascia di trenta metri di
rispetto dell’autostrada A25, con dismissione della
struttura di copertura esistente e nuova realizzazione della
stessa con modifiche della sagoma.
Il parere negativo espresso con nota prot. n. 9275 del
25.05.2017 dal Ministero delle Infrastrutture risulta
motivato poiché non è stata considerata esaustiva la
documentazione trasmessa dal Comune con nota prot. n. 10812
del 23.05.2017 a riscontro dell’interlocutoria prot. n. 7460
del 28.04.2017 (con cui si era richiesta la documentazione
progettuale di dettaglio, planimetrie e dettagli costruttivi
poi consegnata dalla stessa ricorrente), e poiché non era
risultato chiaro se l’edificazione fosse anteriore o
posteriore alla costruzione dell’autostrada, né alcuna
informativa era stata resa quanto all’ubicazione
dell’intervento rispetto alla fascia di rispetto del sedime
stradale.
Analogamente il diniego di nulla osta della Strada dei
Parchi intervenuto con nota prot. n. 10784 dell’01.06.2017
risulta motivato poiché, benché richiesti, non erano
pervenuti i nulla osta delle pregresse concessioni edilizie
rilasciate nel 1980 e nel 1982.
3.1 Ciò premesso, come ricavabile dalla documentazione
allegata da parte ricorrente, l’immobile oggetto di
ristrutturazione è stato interessato da più interventi
edilizi che nel tempo ne hanno modificato la conformazione
originaria e precisamente una prima concessione edilizia per
un fabbricato ad uso abitativo del 04.04.1968 con cui,
rispetto ad un piano terra esistente è stata autorizzata la
realizzazione di un primo piano, una successiva concessione
edilizia del 28.09.1970 rilasciata per l’ampliamento del
fabbricato con l’aggiunta di due vani ed una cucina al piano
terra ed al primo piano, altra concessione edilizia n. 499/1980
per un ulteriore ampliamento tramite costruzione di locali
accessori quali una cantina, garages ed una cucina rustica,
ed un successivo ampliamento autorizzato con concessione
edilizia del 22.09.1982.
Dalla relazione tecnica a cura del geom. P.T. allegata
alla richiesta di permesso di costruire si ricava che il
fabbricato è costituito da tre unità immobiliari ad uso
abitativo ed annessi accessori e che il progetto mirava al
consolidamento statico della copertura del fabbricato,
versante in precarie condizioni statiche, con demolizione
totale di quella esistente comprese le quinte in muratura,
la ricostruzione di nuove quinte in muratura di mattoni
forati o in pannelli lignei, e la installazione di una
nuova struttura portante in legno lamellare di abete con
tavolato chiuso e sovrastante nuovo manto di tegole in
laterizio.
In particolare ivi si precisa che la modifica
della copertura avrebbe comportato la rotazione di 90 gradi
del colmo di copertura, che non sarebbe stata ricostruita la
muratura di quinta prospiciente il tracciato autostradale ma
verso di essa sarebbe stata prevista la linea di grondaia a
quota inferiore a quella della citata quinta preesistente.
4. Le censure poste da parte ricorrente avverso il
provvedimento impugnato non sono meritevoli di favorevole
delibazione per i motivi che di seguito si vanno ad esporre.
4.1 Preliminarmente, dovendo ricostruire il quadro normativo
di riferimento sulla base della normativa vigente ratione
temporis, osserva il Collegio che la predisposizione di un
piano di nuove costruzioni stradali ed autostradali risale
alla legge n. 729 del 24.07.1961 il cui articolo 9 al comma 1
stabiliva che: “Lungo i tracciati delle autostrade e
relativi accessi, previsti sulla base dei progetti
regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o
ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza
inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione
dell'autostrada stessa”.
La stessa norma al comma 3
stabiliva che: “Il divieto previsto dal presente articolo ha
effetto dalla data della pubblicazione di apposito avviso, a
cura del concessionario, sul Foglio degli annunzi legali
delle singole Prefetture competenti per territorio, recante
notizia dell'avvenuta approvazione del progetto di ciascuna
strada.”
Inoltre, con d.m. n. 1404 dell’01.04.1968, pubblicato
in Gazzetta Ufficiale del 13.04.1968, è stato imposto
per le nuove edificazioni al di fuori del perimetro del
centro abitato, ai sensi dell’art. 4, l’obbligo del rispetto
della distanza di 60 metri dal ciglio della strada per le
autostrade in quanto qualificate come strade di tipo A.
Successivamente, con il regolamento del codice della strada
approvato con d.p.r. 495/1992 è stato poi confermato
all’art. 26 il limite di 60 metri per le distanze da
osservare per le strade di tipo A fuori dai centri abitati,
riferite alle “nuove costruzioni, ricostruzioni conseguenti
a demolizioni integrali, o negli ampliamenti fronteggianti
le strade”, ridotto a 30 metri all’interno dei centri
abitati, oppure al di fuori dei centri abitati nel caso di
zone previste come edificabili o trasformabili dallo
strumento urbanistico generale, se lo strumento è
suscettibile di attuazione diretta, ovvero se per tali zone
siano già previsti strumenti attuativi.
Con riferimento all’art. 9 della legge n. 729/1961 la
giurisprudenza si è pronunciata nel senso che la fascia di
rispetto ivi prevista integrava un vincolo di
inedificabilità assoluta, in quanto preordinato non solo a
prevenire la presenza di ostacoli costituenti un possibile
pregiudizio per la circolazione, ma anche ad assicurare la
disponibilità di un’area contigua alla sede stradale
all’occorrenza utilizzabile per un ampliamento della
medesima (cfr. Tar Liguria, sez. I n. 276/2015; Tar
Palermo sez. II n. 34/2015).
Medesime considerazioni valgono anche con riferimento alla
fascia di rispetto di 60 metri oggi prevista dal d.p.r. n.
495/1992 per le strade di tipo A, tenuto conto dell’identità
di ratio e del fatto che la norma citata vieta all’interno
di tale fascia di rispetto, qualsiasi nuova costruzione, ancorché nella forma di ampliamento di un fabbricato
preesistente o di ricostruzione di edificio preesistente e
integralmente demolito.
Tale previsione che penalizza sinanche la demolizione seguita da fedele ricostruzione da
cui si desume la volontà del legislatore di ritenere
rispondente ad un interesse prioritario il mantenimento
dell’area adiacente le autostrade sgombra da costruzioni
idonee ad interferire con futuri ampliamenti della sede
stradale ovvero a compromettere la sicurezza pubblica in
caso di sinistri. Ciò depone indubitabilmente nel senso
della natura assoluta del vincolo di inedificabilità imposto
ex lege.
4.2 Ciò posto, alla luce di quanto sopra risulta
innanzitutto destituito di fondamento l’assunto di parte
ricorrente attestato sull’irrilevanza del vincolo in quanto
ancorato alla mancata realizzazione dell’asse viario
autostradale all’epoca del rilascio della concessione
edilizia del 04.04.1968 con cui è stata assentita la
sopraelevazione del fabbricato esistente.
Parte ricorrente
al riguardo non ha dimostrato che all’epoca del rilascio
delle concessioni edilizie del 04.04.1968 per la
sopraelevazione del fabbricato, e del 28.09.1970 per il suo
ampliamento, non fosse ancora stato pubblicato alcun avviso
relativo all’asse viario in questione sul Foglio degli
Annunzi legali della Prefettura.
Di qui l’inconferenza dei motivi con cui si oppone
l’irrilevanza del vincolo rispetto agli interventi edilizi
di ampliamento del medesimo fabbricato realizzati con le
concessioni edilizie del 28.11.1980 e del 17.11.1982 in
quanto realizzati a distanza di “30 metri” e nella parte
dell’immobile non prospiciente il fronte autostradale,
tenuto conto che con il d.m. n. 1404/1968 il vincolo di
inedificabilità imposto, anche per gli ampliamenti, rispetto
alle autostrade di tipo A era fissato al di fuori dei centri
abitati in 60 metri, o al più, in presenza di strumentazione
attuativa in 30 metri.
4.3 Sul punto occorre evidenziare che solo con il
regolamento di attuazione del nuovo Codice della strada
approvato con d.p.r. n. 495/1992, e quindi in data
successiva al rilascio delle concessioni edilizie
menzionate, è stato precisato a livello normativo che il
limite di distanza fissato andava osservato rispetto agli
ampliamenti “fronteggianti le strade”.
In ogni caso, pur a voler accedere in via interpretativa
alla ricostruzione invocata, manca in atti la prova che gli
ampliamenti realizzati con le concessioni edilizie del
28.11.1980 e del 17.11.1982 riguardassero effettivamente la
parte non fronteggiante l’asse autostradale.
Né comunque può accedersi all’interpretazione propugnata
volta a scindere le opere autorizzate con i titoli
successivamente rilasciati come se si trattasse di manufatti
indipendenti in presenza di un immobile unitario costituito
da un piano terra ed un primo piano che nel tempo è stato
via via ampliato (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 23.07.2018 n. 252 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tanto precisato in ordine alla definizione di
“ristrutturazione edilizia”, occorre osservare che il nuovo
manufatto, se può sottrarsi ai limiti, precedentemente
previsti, del rispetto dell’area di sedime e della sagoma,
non di meno anche in tali casi è certamente tenuto al
rispetto del limite delle distanze dal confine e/o da altri
fabbricati, nel rispetto sia delle norme del codice civile
sia di quelle previste dai regolamenti edilizi e dalla
pianificazione urbanistica.
In sostanza:
- nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato
di una ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito
con coincidenza di area di sedime e di sagoma, esso –proprio perché “coincidente” per tali profili con il
manufatto preesistente– potrà sottrarsi al rispetto delle
norme sulle distanze innanzi citate, in quanto sostitutivo
di un precedente manufatto che già non rispettava dette
distanze (e magari preesisteva anche alla stessa loro
previsione normativa).
Ed infatti, “la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444
riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici
(o parti e/o sopraelevazioni di essi) “costruiti per la
prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in
sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere
distanze diverse”;
- invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza
il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime,
come pure consentito dalle norme innanzi indicate, occorrerà
comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio
perché esso –quanto alla sua collocazione fisica–
rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare –indipendentemente dalla sua qualificazione come
ristrutturazione edilizia o nuova costruzione– le norme
sulle distanze.
Ed in questo senso depone altresì la stessa
pronuncia n. 237/2017 di questo Tar
secondo cui, se non è in discussione la possibilità di
modificare la sagoma preesistente nel caso di
ristrutturazione, quando l’intervento fuoriesce
dall’originario contorno (orizzontale o verticale) ne deve
essere verificata la conformità ai parametri fissati dalla
normativa urbanistica.
Al fine della verifica del rispetto delle distanze, secondo
i principi innanzi enunciati, mentre non rileva che non vi
sia incremento di volumetria, ciò che rileva è che si
rispetti l’allineamento della preesistente copertura, e che
si sia inteso demolire e ricostruire quella preesistente
modificandone la sagoma in altezza, ed incrementando
l’ingombro volumetrico tramite innalzamento delle pareti
perimetrali.
Non può quindi sostenersi che nel caso di edificio situato
nella fascia di rispetto autostradale, devono intendersi
precluse solo quelle modifiche che comportano un
avvicinamento del fronte al tracciato viario, mentre sono
consentiti gli interventi rispettosi del "filo" edilizio
preesistente.
La tesi del ricorrente non può essere accolta in quanto urta
contro l'inequivoco disposto dell'art. 28 del d.p.r. n. 495
del 1992 il quale vieta l'ampliamento di edifici
preesistenti, che siano ubicati nella fascia di rispetto
dell'autostrada.
Trattandosi di norma assolutamente cogente, in quanto
finalizzata alla tutela del bene primario della sicurezza
del traffico, la ristrutturazione progettata dall'appellante
-comportando pacificamente una modificazione della sagoma
di un edificio che già è sito all'interno della fascia- non
poteva quindi essere in alcun modo autorizzata. Di qui
l’irrilevanza del motivo con cui si contesta l’assenza di
una specifica valutazione del pregiudizio alla circolazione
stradale connesso all’ampliamento contestato, stante la
natura assoluta del vincolo come sopra enunciata.
Alla luce di quanto esposto, prescindendosi dalla
qualificazione giuridica dell’opera, ed anche a voler
parlare di ristrutturazione edilizia, va ribadito che le
opere in edifici preesistenti costituenti modifiche di
sagoma, ampliamenti e sopraelevazioni siano soggette al
rispetto delle distanze legali.
---------------
1. Con ricorso iscritto al n. 120/2017 i sig.ri Li.
Di Pa. e Li.Fi. adivano codesto TAR al fine
di richiedere l’annullamento, previa sospensiva, dei pareri
contrari rispettivamente espressi dal Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti e dalla Società Strada dei
Parchi s.p.a. rispetto all'istanza volta al rilascio del
permesso di costruire per un intervento di ristrutturazione
edilizia sulla copertura di un immobile di proprietà.
Esponevano che, quali proprietari di un immobile ubicato in
Cepagatti, censito in catasto urbano al fg. 8 part. n. 356,
realizzato nel 1968 ed adibito a civile abitazione, con
istanza del 04/01/2017 prot. n. 188, avevano richiesto al
Comune di Cepagatti il rilascio di un permesso di costruire
per l'esecuzione di un intervento di ristrutturazione
edilizia avente ad oggetto il miglioramento statico della
copertura del preesistente fabbricato, realizzato in forza
dei nulla osta del 04/04/1968 e del 28/09/1970, ed oggetto
di quattro distinti permessi di costruire.
Esponevano che l’Amministrazione comunale, verificata
l'ubicazione dell'immobile in fascia di rispetto
autostradale (Autostrada A25), indiceva una conferenza di
servizi che si concludeva in data 16.06.2017, con la presa
d’atto dei due pareri negativi espressi dal Ministero e
dalla società Strada dei Parchi, e che l'Amministrazione
comunale, con nota prot. 13288 del 27/06/2017, comunicava il
preavviso di diniego ex art. 10-bis L. n. 241/1990 al rilascio
del permesso di costruire.
...
4.4 Quanto alla dedotta inapplicabilità del regime delle
distanze rispetto al progettato intervento di
ristrutturazione edilizia, occorre precisare in quali casi
di ristrutturazione edilizia è richiesto comunque il
rispetto della normativa sulle distanze tra le costruzioni.
Con specifico riferimento alla successione di norme del
tempo (per la parte che rileva nella presente sede), occorre
ricordare che l’art. 3, co. 1, lett. d), nel suo testo
originario, prevedeva che fossero interventi di
“ristrutturazione edilizia”, quelli:
- “rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un
insieme sistematico di opere che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e successiva fedele
ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma,
volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a
quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni
necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
Nel testo originario, erano presenti, due tipologie di
ristrutturazione edilizia, identiche quanto alla finale
realizzazione di un “organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente”, ma distinte dalla presenza (o meno)
della demolizione (anche parziale) del fabbricato
preesistente. Quest’ultima, ove effettuata, per poter
rientrare nel campo della ristrutturazione edilizia (e non
già della nuova costruzione), doveva concludersi con la
“fedele ricostruzione di un fabbricato identico”, al punto
da avere identità di sagoma, volume, area di sedime e, in
generale, caratteristiche dei materiali.
Il successivo DPR 27.12.2002 n. 301 ha apportato alla
definizione (di cui all’art. 3) alcune modifiche, con il
risultato di affermare che, nel caso di demolizione e
ricostruzione, per potersi definire l’intervento quale
“ristrutturazione edilizia”, lo stesso doveva portare ad un
manufatto “con la stessa volumetria e sagoma di quello
preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica”.
Come è dato osservare, con il nuovo testo il legislatore ha
abbandonato sia lo specifico riferimento alla identità di
area di sedime e di caratteristiche dei materiali, sia il
più generale concetto di “fedele ricostruzione” (non potendo quest’ultimo, a tutta evidenza, essere più ribadito una
volta che non sono più richieste le predette
caratteristiche).
Infine, il legislatore è nuovamente intervenuto sulla
disposizione in esame, in particolare con l'art. 30, comma
1, lett. a), d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito dalla L. 09.08.2013, n. 98.
Attualmente, quindi, sono "interventi di ristrutturazione
edilizia" quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza.
Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n.
42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione
e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici
crollati o demoliti costituiscono interventi di
ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la
medesima sagoma dell'edificio preesistente.
Come è dato osservare, con particolare riferimento alla
ristrutturazione edilizia cd. ricostruttiva, l’unico limite
ora previsto è quello della identità di volumetria, rispetto
al manufatto demolito, salve le “innovazioni necessarie per
l’adeguamento alla normativa antisismica”, e ad eccezione
degli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs. n. 42/2004,
per i quali è altresì prescritto il rispetto della “medesima
sagoma di quello preesistente”.
Tanto precisato in ordine alla definizione di
“ristrutturazione edilizia”, occorre osservare che il nuovo
manufatto, se può sottrarsi ai limiti, precedentemente
previsti, del rispetto dell’area di sedime e della sagoma,
non di meno anche in tali casi è certamente tenuto al
rispetto del limite delle distanze dal confine e/o da altri
fabbricati, nel rispetto sia delle norme del codice civile
sia di quelle previste dai regolamenti edilizi e dalla
pianificazione urbanistica.
In sostanza:
- nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato
di una ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito
con coincidenza di area di sedime e di sagoma, esso –proprio perché “coincidente” per tali profili con il
manufatto preesistente– potrà sottrarsi al rispetto delle
norme sulle distanze innanzi citate, in quanto sostitutivo
di un precedente manufatto che già non rispettava dette
distanze (e magari preesisteva anche alla stessa loro
previsione normativa).
Ed infatti (Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017 n. 4337), “la disposizione dell’art. 9 n. 2
D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali
gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi: Cons.
Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522) “costruiti per la
prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in
sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere
distanze diverse”.
- invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza
il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime,
come pure consentito dalle norme innanzi indicate, occorrerà
comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio
perché esso –quanto alla sua collocazione fisica–
rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare –indipendentemente dalla sua qualificazione come
ristrutturazione edilizia o nuova costruzione– le norme
sulle distanze.
Ed in questo senso depone altresì la stessa
pronuncia n. 237/2017, richiamata in atti, di questo Tar
secondo cui, se non è in discussione la possibilità di
modificare la sagoma preesistente nel caso di
ristrutturazione, quando l’intervento fuoriesce
dall’originario contorno (orizzontale o verticale) ne deve
essere verificata la conformità ai parametri fissati dalla
normativa urbanistica.
Al fine della verifica del rispetto delle distanze, secondo
i principi innanzi enunciati, mentre non rileva che non vi
sia incremento di volumetria, ciò che rileva è che si
rispetti l’allineamento della preesistente copertura, e che
si sia inteso demolire e ricostruire quella preesistente
modificandone la sagoma in altezza, ed incrementando
l’ingombro volumetrico tramite innalzamento delle pareti
perimetrali.
Non può quindi sostenersi che nel caso di edificio situato
nella fascia di rispetto autostradale, devono intendersi
precluse solo quelle modifiche che comportano un
avvicinamento del fronte al tracciato viario, mentre sono
consentiti gli interventi rispettosi del "filo" edilizio
preesistente.
La tesi del ricorrente non può essere accolta in quanto urta
contro l'inequivoco disposto dell'art. 28 del d.p.r. n. 495
del 1992 il quale vieta l'ampliamento di edifici
preesistenti, che siano ubicati nella fascia di rispetto
dell'autostrada.
Trattandosi di norma assolutamente cogente, in quanto
finalizzata alla tutela del bene primario della sicurezza
del traffico, la ristrutturazione progettata dall'appellante
-comportando pacificamente una modificazione della sagoma
di un edificio che già è sito all'interno della fascia- non
poteva quindi essere in alcun modo autorizzata. Di qui
l’irrilevanza del motivo con cui si contesta l’assenza di
una specifica valutazione del pregiudizio alla circolazione
stradale connesso all’ampliamento contestato, stante la
natura assoluta del vincolo come sopra enunciata.
Alla luce di quanto esposto, prescindendosi dalla
qualificazione giuridica dell’opera, ed anche a voler
parlare di ristrutturazione edilizia, va ribadito che le
opere in edifici preesistenti costituenti modifiche di
sagoma, ampliamenti e sopraelevazioni siano soggette al
rispetto delle distanze legali.
5. Va da ultimo respinta la
censura di eccesso di potere per disparità di trattamento
con le edificazioni limitrofe poste in prossimità del ciglio
autostradale.
Per consolidato e condiviso orientamento giurisprudenziale,
la disparità di trattamento è sinonimo di eccesso di potere
solo quando vi sia un’assoluta identità di situazioni
oggettive, che valga a testimoniare dell'irrazionalità delle
diverse conseguenze tratte dall'Amministrazione, cosa che
nella specie non è emersa (Cons. Stato, sez. V, 10.02.2000, n. 726 e Tar Lazio, Roma, sez. I, 17.01.2012, n.
463) (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 23.07.2018 n. 252 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ANAS, quale ente gestore della rete viaria
statale, è preposta alla tutela del vincolo di rispetto
stradale, essendo chiamata non solo a prevenire l’esistenza
di ostacoli materiali suscettibili di nuocere alla sicurezza
del traffico e all’incolumità delle persone, ma anche a
preservare la fascia di terreno utilizzabile,
all’occorrenza, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto
dei cantieri, per il deposito dei materiali e per la
realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi
alla presenza di costruzioni.
---------------
Costituisce jus receptum che il divieto di
costruzione entro la fascia di rispetto di una strada
statale comporta l’inedificabilità assoluta del suolo e,
dunque, la non sanabilità dell’opera, perché il vincolo è
incompatibile, per loro natura, con ogni manufatto.
Infatti, il c.d. vincolo stradale implicante un divieto
assoluto di edificazione si traduce in una limitazione
legale al diritto di proprietà su categorie di beni
individuate in via generale per la loro posizione relative
ad altri beni destinati all’uso pubblico..
Per effetto della natura assoluta di detto vincolo, poi, è
stato ritenuto che il diniego di condono di un edificio
abusivamente realizzato in sua violazione non richieda
nemmeno il previo accertamento sulla effettiva pericolosità
dello stesso per il traffico stradale.
---------------
Si ritiene manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale degli art. 32 e 33, l. n. 47/1985, in combinato
disposto con il d.m. 01.04.1968, per violazione degli
artt. 3, 42, 97 Cost., oltre che dagli artt. 117 Cost. e 5
TUE, nella parte in cui, per i fabbricati realizzati
successivamente all’entrata in vigore dello stesso decreto
ministeriale, prevedrebbe un indistinto diniego di
edificabilità per tutti gli immobili che ricadono nella
fascia di rispetto stradale, a prescindere dalla concreta
conformazione dei luoghi e della strada e da un effettivo
pericolo per la viabilità, dando vita a una limitazione del
diritto di proprietà “del tutto scissa (e/o comunque avulsa)
da qualunque concreto/qualificato interesse pubblico”.
Infatti, la limitazione al diritto di proprietà de qua, pur
particolarmente penetrante, non è, come pretende parte
ricorrente, del tutto scissa o avulsa da qualunque concreto
o qualificato interesse pubblico, rispondendo invece, come
chiarito da consolidata giurisprudenza, non solo
all’esigenza di garantire la sicurezza del traffico e
l’incolumità delle persone ma anche e soprattutto alla più
ampia necessità di assicurare all’ente proprietario o
gestore della strada una fascia di terreno da utilizzare,
all’occorrenza, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto
dei cantieri, per il deposito di materiali, per la
realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi
alla presenza di costruzioni.
---------------
4. In via preliminare, si rileva l’infondatezza
dell’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata
dalla difesa di ANAS s.p.a.
Infatti, tale società pubblica, quale ente gestore della
rete viaria statale, nella quale rientra la s.s. 7 Appia, è
preposta alla tutela del vincolo di rispetto stradale,
essendo chiamata non solo a prevenire l’esistenza di
ostacoli materiali suscettibili di nuocere alla sicurezza
del traffico e all’incolumità delle persone, ma anche a
preservare la fascia di terreno utilizzabile,
all’occorrenza, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto
dei cantieri, per il deposito dei materiali e per la
realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi
alla presenza di costruzioni (TAR Campania, Napoli, sez. VII, 21.10.2016 n. 4826).
Conseguentemente, l’impugnata nota del 30.09.2013 va
qualificata come l’atto conclusivo del sub-procedimento di
verifica della possibilità di sanare il manufatto abusivo di
proprietà della ricorrente in funzione degli interessi
pubblici sottesi al c.d. vincolo stradale ed attribuiti alle
cure di ANAS s.p.a.
Quindi, il parere negativo de quo,
espresso in applicazione dell’art. 33, l. n. 47 cit., che
esclude qualsivoglia edificazione dopo l’imposizione del
vincolo, incluso l’ampliamento di edifici esistenti, senza
alcuna discrezionalità da parte dell’organo preposto alla
sua tutela, è atto immediatamente lesivo della posizione
giuridica della sig. Ca., perché idoneo ad imprimere un
indirizzo ineluttabile alla determinazione conclusiva del
procedimento di sanatoria edilizia (ex multis: TAR
Campania, Napoli, sez. VIII, 03.04.2017 n. 1776; TAR
Lazio, Latina, sez. I, 23.09.2015 n. 634; TAR
Lazio, Roma, sez. II, 27.11.2014 n. 11887; TAR
Campania, Napoli, sez. VII, 18.04.2013 n. 2053).
Nel
medesimo senso depone anche la considerazione che ANAS
s.p.a. è l’unico soggetto competente ad esprimersi sulla
sicurezza o meno della viabilità su una strada statale, con
l’effetto che, come ben osserva la ricorrente, la
determinazione da esso assunta “non può essere
sostituita/surrogata da alcun altro ente (men che meno dal
Comune, avendo quest’ultimo competenza solo sulla viabilità
comunale”.
5. Nel merito, il ricorso è infondato.
Infatti, con riferimento alla questione, dirimente,
dell’applicabilità al caso di specie dell’art. 32, l. n. 47
cit., ovvero del successivo art. 33, si osserva che le opere
abusive di cui al presente giudizio sono state pacificamente
eseguite nel 1980, cioè dopo l’apposizione del vincolo
stradale, ai sensi dell’art. 41-septies, l. 17.08.1942
n. 1150, aggiunto dall’art. 19, l. 06.08.1967 n. 765, e
delle norme di attuazione recate dal d.m. 01.04.1968.
Ne consegue che nel caso di specie non viene in questione
l’art. 32, comma 2, lett. c), l. n. 47 cit., che riguarda l’inedificabilità
relativa di opere insistenti su aree “vincolate dopo la loro
esecuzione”, bensì l’art. 33, commi 1, lett. d), e 3, cit.,
concernente i vincoli di inedificabilità assoluta “imposti
prima della esecuzione delle opere stesse” (TAR Campania,
Napoli, sez. II, 30.01.2013 n. 660; TAR
Friuli Venezia Giulia, sez. I, 24.02.2012 n. 71).
Sul punto, è ormai jus receptum che il divieto di
costruzione entro la fascia di rispetto di una strada
statale comporta l’inedificabilità assoluta del suolo e,
dunque, la non sanabilità dell’opera, perché il vincolo è
incompatibile, per loro natura, con ogni manufatto (ex multis: Cons. Stato, sez. I, 27.05.2016 n. 282; TAR
Umbria, sez. I, 08.03.2018 n. 154).
Infatti, il c.d.
vincolo stradale implicante un divieto assoluto di
edificazione si traduce in una limitazione legale al diritto
di proprietà su categorie di beni individuate in via
generale per la loro posizione relative ad altri beni
destinati all’uso pubblico (Cons. Stato, sez. IV, 10.01.2018 n. 90; sez. IV, 13.06.2017 n. 2878; sez. IV, 20.03.2017 n. 1225; sez. IV, 17.05.2012 n. 2842).
Per
effetto della natura assoluta di detto vincolo, poi, è stato
ritenuto che il diniego di condono di un edificio
abusivamente realizzato in sua violazione non richieda
nemmeno il previo accertamento sulla effettiva pericolosità
dello stesso per il traffico stradale (Cons. Stato, sez. IV,
06.05.2010, n. 2644; TAR Campania, Napoli, sez. II, 26.10.2012 n. 4283; TAR Campania, Salerno, sez. I, 17.09.2012 n. 1645; TAR Lazio, Latina, sez. I, 17.11.2011 n. 923).
In definitiva, stante tutto quanto sopra considerato, il
parere espresso da ANAS s.p.a. nell’impugnata nota del 30.09.2013 si sottrae ai vizi di legittimità denunciati
dal ricorrente.
6. Infine, ai sensi dell’art. 1, comma 1, l. cost. 09.02.1948 n. 1, si ritiene manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale, sollevata da parte
ricorrente, degli art. 32 e 33, l. n. 47 cit., in combinato
disposto con il d.m. 01.04.1968, per violazione degli
artt. 3, 42, 97 Cost., oltre che dagli artt. 117 Cost. e 5
TUE, nella parte in cui, per i fabbricati realizzati
successivamente all’entrata in vigore dello stesso decreto
ministeriale, prevedrebbe un indistinto diniego di
edificabilità per tutti gli immobili che ricadono nella
fascia di rispetto stradale, a prescindere dalla concreta
conformazione dei luoghi e della strada e da un effettivo
pericolo per la viabilità, dando vita a una limitazione del
diritto di proprietà “del tutto scissa (e/o comunque avulsa)
da qualunque concreto/qualificato interesse pubblico”.
Infatti, la limitazione al diritto di proprietà de qua, pur
particolarmente penetrante, non è, come pretende parte
ricorrente, del tutto scissa o avulsa da qualunque concreto
o qualificato interesse pubblico, rispondendo invece, come
chiarito da consolidata giurisprudenza, non solo
all’esigenza di garantire la sicurezza del traffico e
l’incolumità delle persone (Cass. civ., sez. I, 13.04.2012 n. 5875; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 15.02.2013 n. 470) ma anche e soprattutto alla più ampia necessità
di assicurare all’ente proprietario o gestore della strada
una fascia di terreno da utilizzare, all’occorrenza, per
l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il
deposito di materiali, per la realizzazione di opere
accessorie, senza limiti connessi alla presenza di
costruzioni (cfr.: TAR Campania, Napoli, sez. VII, 21.10.2016 n. 4826; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 26.07.2016 n. 1887; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 10.07.2015 n. 1885; TAR Sicilia, Palermo, sez. II,
08.01.2015 n. 34) (TAR Lazio-Latina,
sentenza 11.07.2018 n. 397 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo d'inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha
carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata,
in quanto il divieto di costruzione sancito dall'art. 9 l. 24.07.1961 n. 729
(e dal susseguente d.m. 01.04.1968 n. 1404) non può essere inteso
restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli
materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede
autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle
persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una
fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario, per
l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di
materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi
alla presenza di costruzioni, con la conseguenza che le distanze previste
vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello
della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur
rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti.
---------------
3.2. Tanto premesso deve essere esaminata la doglianza contenuta
nell’odierno gravame principale nella misura in cui si invoca la necessità
di un prudente apprezzamento del vincolo in questione e se ne sostiene la
non applicabilità al caso in esame anche in ragione della peculiarità della
fattispecie.
La giurisprudenza di questo Consiglio, come quella della Corte di
Cassazione, ha sostenuto in modo costante il carattere inderogabile del
vincolo.
Il vincolo d'inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale
ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell'opera
realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall'art. 9 l.
24.07.1961 n. 729 (e dal susseguente d.m. 01.04.1968 n. 1404) non può essere
inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli
materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede
autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle
persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una
fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario, per
l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di
materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi
alla presenza di costruzioni, con la conseguenza che le distanze previste
vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello
della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur
rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (ex
plurimis, Cons. St., Sez. IV, 2062/2013; Id., Sez. I, 282/2016; Id.,
Sez. IV 5014/2015; Cass. civ., Sez. I, 25401/2016; Id., 25668/2015) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.02.2018 n. 1250 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come è noto, le fasce di rispetto
individuano le distanze minime a protezione
del nastro stradale dall’edificazione e
coincidono, dunque, con le aree esterne al
confine stradale finalizzate alla eliminazione
o riduzione dell’impatto ambientale.
L’ampiezza di tali fasce ovvero le distanze da
rispettare nelle nuove costruzioni, nelle
demolizioni e ricostruzioni e negli
ampliamenti fronteggianti le strade, trova
disciplina in quanto stabilito dal NCS
(articoli 16, 17 e 18, del D.LGT n. 285/1992)
e dal Regolamento di attuazione (articoli 26,
27 e 28, del DPR n. 495/1992). Il vincolo
di inedificabilità della "fascia di rispetto
stradale" -che è una tipica espressione
dell’attività pianificatoria della p.a. nei
riguardi di una generalità di beni e di
soggetti- non ha natura espropriativa, ma
unicamente conformativa, perché ha il solo
effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di
conformarsi alla destinazione impressa al
suolo in funzione di salvaguardia della
programmazione urbanistica, indipendentemente
dall’eventuale instaurazione di procedure
espropriative. Le fasce di rispetto
stradale previste dal D.Lgs. n. 285 del 1992 e
dal D.P.R. n. 495 del 1992 non costituiscono
vincoli urbanistici, ma misure poste a tutela
della sicurezza stradale che, tuttavia,
comportano l'inedificabilità delle aree
interessate e sono a tal fine recepite nella
strumentazione urbanistica primaria. La
giurisprudenza ha in proposito precisato che
il divieto in oggetto risulta finalizzato a
mantenere una fascia di rispetto, utilizzabile
per l’esecuzione di lavori, l’impianto di
cantieri, l’eventuale allargamento della sede
stradale, nonché per evitare possibili
pregiudizi alla percorribilità della via di
comunicazione; per cui le relative distanze
vanno rispettate anche con riferimento ad
opere che non superino il livello della sede
stradale. ---------------
In ordine alla
Circolare Ministero dei LL.PP. – Direzione
Generale Circolazione e Traffico n. 5980 del
30.12.1970, emanata allo scopo di
assicurare uniforme applicazione alle
disposizioni del D.M. n. 1404 dell’01.04.1968,
con esclusione soltanto di quelle aventi
carattere di edificazione quali alberghi e
motel, ristoranti, stazioni di servizio che
svolgono attività diversa da quella del
soccorso immediato, il relativo contenuto,
nella sua portata esplicativa, non può che
essere inteso alla luce dei contenuti della
giurisprudenza in materia. E’ pur vero che,
talvolta, la giurisprudenza ha ritenuto
assentibili insediamenti di attività
“eccentrica” rispetto alle prescrizioni della
zonizzazione, purché comunque svolta a
beneficio della circolazione stradale, e nel
rispetto della sicurezza degli utenti, come
per es.
- un parcheggio a raso o
- un impianto di carburanti
assumendo che “in via generale, la fascia di
rispetto stradale non può rappresentare un
ostacolo all'insediamento di nuovi impianti di
distribuzione dei carburanti che costituiscono
un ordinario completamento della strada su cui
circolano autoveicoli che devono
necessariamente potersi approvvigionare".
Inoltre, il d.lgs. 32/1998 consente
l'installazione degli impianti all'interno
delle fasce di rispetto stradale in quanto
all'art. 2, comma 3, prescrive espressamente
che i Comuni debbano "individuare le
destinazioni d'uso compatibili con
l'installazione degli impianti all'interno
delle zone comprese nelle fasce di rispetto di
cui agli artt. 16, 17 e 18 del dlgs
30.04.1992, n. 285, recante il Nuovo codice
della strada”. In tutte queste ipotesi,
tuttavia, il parametro di riferimento era
contenuta negli atti di pianificazione
comunale, orientati a conferire alle predette
fasce destinazioni compatibili con le finalità
enucleate dalla giurisprudenza, insuscettibili
di una lettura estensiva o analogica, siccome
norme di stretta interpretazione. Per
converso, laddove detta previsione non vi sia,
la fascia di rispetto stradale determina,
dunque, una limitazione dello ius aedificandi:
come stabilito dall’art. 26 del Regolamento
del Codice della Strada, al suo interno non è
consentito costruire, ricostruire o ampliare
fabbricati.
---------------
7.- Nel merito, carattere dirimente assume,
per il Tribunale, la circostanza ostativa per
la quale, l’area di intervento ricade
all’interno della fascia di rispetto della
S.S. n. 19, ed il PRG di Battipaglia nelle
fasce di rispetto stradale consente la sola
realizzazione di impianti per la gestione
della rete stradale. Le censure con le
quali parte ricorrente ha gravato siffatto
profilo, non risultano condivisibili. 7.a-
Come è noto, le fasce di rispetto individuano
le distanze minime a protezione del nastro
stradale dall’edificazione e coincidono,
dunque, con le aree esterne al confine
stradale finalizzate alla eliminazione o
riduzione dell’impatto ambientale.
L’ampiezza di tali fasce ovvero le distanze da
rispettare nelle nuove costruzioni, nelle
demolizioni e ricostruzioni e negli
ampliamenti fronteggianti le strade, trova
disciplina in quanto stabilito dal NCS
(articoli 16, 17 e 18, del D.LGT n. 285/1992)
e dal Regolamento di attuazione (articoli 26,
27 e 28, del DPR n. 495/1992). Il vincolo
di inedificabilità della "fascia di
rispetto stradale" -che è una tipica
espressione dell’attività pianificatoria della
p.a. nei riguardi di una generalità di beni e
di soggetti- non ha natura espropriativa, ma
unicamente conformativa, perché ha il solo
effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di
conformarsi alla destinazione impressa al
suolo in funzione di salvaguardia della
programmazione urbanistica, indipendentemente
dall’eventuale instaurazione di procedure
espropriative (cfr. Consiglio Stato, sez. IV,
13.03.2008, n. 1095). Le fasce di rispetto
stradale previste dal D.Lgs. n. 285 del 1992 e
dal D.P.R. n. 495 del 1992 non costituiscono
vincoli urbanistici, ma misure poste a tutela
della sicurezza stradale che, tuttavia,
comportano l'inedificabilità delle aree
interessate e sono a tal fine recepite nella
strumentazione urbanistica primaria (cfr. sul
punto, ad es., Cons. Stato, sez. IV,
20.10.2000, n. 5620). La giurisprudenza ha
in proposito precisato che il divieto in
oggetto risulta finalizzato a mantenere una
fascia di rispetto, utilizzabile per
l’esecuzione di lavori, l’impianto di
cantieri, l’eventuale allargamento della sede
stradale, nonché per evitare possibili
pregiudizi alla percorribilità della via di
comunicazione; per cui le relative distanze
vanno rispettate anche con riferimento ad
opere che non superino il livello della sede
stradale (cfr. Cass. n. 6118 dell’01.06.1995;
Cons. Stato, IV, n. 7275/2002, n. 5716/2002,
n. 3731/2000; TAR Calabria, Catanzaro, n.
130/2003; TAR Campania, Napoli, n. 5226/2001).
7.b.- Ciò premesso, risulta
per tabulas, giusta documentazione
versata in atti, che la strumentazione
urbanistica del comune di Battipaglia (Prg
approvato con decreto Ministro LL. PP. del
20.03.1972) consente nelle fasce di rispetto
stradale solo “impianti per la gestione
della rete stradale”. 7.c.- Quest’ultima
indicazione, ad avviso di parte attorea,
consentirebbe la realizzazione dell’impianto
progettato, afferente ad attività di soccorso
stradale, che, ad ogni effetto, rientrerebbe
tra le attività ammesse dal punto 7 della
Circolare Ministero dei LL.PP. – Direzione
Generale Circolazione e Traffico n. 5980 del
30.12.1970, emanata allo scopo di
assicurare uniforme applicazione alle
disposizioni del D.M. n. 1404 dell’01.04.1968,
con esclusione soltanto di quelle aventi
carattere di edificazione quali alberghi e
motel, ristoranti, stazioni di servizio che
svolgono attività diversa da quella del
soccorso immediato. 7.d.- Il Collegio non
condivide la tesi attorea. Il contenuto
della menzionata circolare, nella sua portata
esplicativa, non può che essere inteso alla
luce dei contenuti della giurisprudenza in
materia (riportata al punto 7.a) del capo che
precede). E’ pur vero che, talvolta, la
giurisprudenza ha ritenuto assentibili
insediamenti di attività “eccentrica”
rispetto alle prescrizioni della zonizzazione,
purché comunque svolta a beneficio della
circolazione stradale, e nel rispetto della
sicurezza degli utenti, come per es. un
parcheggio a raso (ex multis Cons. St.
n. 2880/2015) o un impianto di carburanti
assumendo che “in via generale, la fascia
di rispetto stradale non può rappresentare un
ostacolo all'insediamento di nuovi impianti di
distribuzione dei carburanti che costituiscono
un ordinario completamento della strada su cui
circolano autoveicoli che devono
necessariamente potersi approvvigionare";
inoltre, il d.lgs. 32/1998 consente
l'installazione degli impianti all'interno
delle fasce di rispetto stradale in quanto
all'art. 2, comma 3, prescrive espressamente
che i Comuni debbano "individuare le
destinazioni d'uso compatibili con
l'installazione degli impianti all'interno
delle zone comprese nelle fasce di rispetto di
cui agli artt. 16, 17 e 18 del decreto
legislativo 30.04.1992, n. 285, recante il
Nuovo codice della strada” (TAR Molise
Campobasso Sez. I, 23.09.2010, n. 1050). In
tutte queste ipotesi, tuttavia, il parametro
di riferimento era contenuta negli atti di
pianificazione comunale, orientati a conferire
alle predette fasce destinazioni compatibili
con le finalità enucleate dalla
giurisprudenza, insuscettibili di una lettura
estensiva o analogica, siccome norme di
stretta interpretazione. Per converso,
laddove detta previsione non vi sia, la fascia
di rispetto stradale determina, dunque, una
limitazione dello
ius aedificandi: come stabilito
dall’art. 26 del Regolamento del Codice della
Strada, al suo interno non è consentito
costruire, ricostruire o ampliare fabbricati
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza
05.05.2010 n. 2673). 7.e.- Nel caso che ci
occupa, lo strumento urbanistico vigente nel
Comune di Battipaglia, consente di realizzare
nelle fasce di rispetto stradali, fuori del
centro abitato, “solo impianti per la
gestione della rete stradale” che, ad
avviso del Collegio, non sono identificabili
con le opere da assentire con il progetto
respinto dall’amministrazione comunale, atteso
che la citata previsione afferisce ad opere
che funzionalmente ed oggettivamente siano
preordinate alla sola gestione della rete
stradale. 7.e.1.- Emerge dalla descrizione
delle opere contenuta in ricorso che parte
ricorrente intende realizzare: un corpo di
fabbrica destinato
- per circa 250,46 mq di superficie netta, a locali adibiti alla
custodia degli autoveicoli e motoveicoli posti
sotto sequestro dagli organi di polizia;
- per circa 27,55 mq destinato ad uffici di gestione e servizi;
- per circa 53,24 mq destinati a deposito, e
- per circa 65,88 mq di superficie netta destinati ad alloggio del
custode. Trattasi all’evidenza di un
impianto produttivo –da edificare al posto
delle fatiscenti strutture in lamiere, oggetto
di domanda di condono edilizio- incompatibile
ed estraneo alla previsione urbanistica che
consente di realizzare impianti per la
gestione della rete stradale, atteso che le
opere realizzande appaiono oggettivamente e
funzionalmente connesse alle attività di
sequestro, custodia e confisca amministrativa,
non necessariamente ma solo occasionalmente
riconducibile all’attività di soccorso
stradale.
In sostanza, con il progetto denegato, parte
ricorrente cerca di far discendere dalla
funzione minoritaria ed eventuale
dell’attività di soccorso, l’assenso alla
realizzazione di un impianto produttivo
funzionalmente preordinato ad altra attività
-non riconducibile all’ipotesi contemplata
dalla norma urbanistica- attraverso la
costruzione di nuovi fabbricati, la
ricostruzione e l’ampliamento di quelli
esistenti. Per le suesposte ragioni, il
ricorso è infondato e soggiace a reiezione
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 16.03.2016 n. 608 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come è noto, le fasce di rispetto individuano le distanze minime a protezione del nastro stradale dall’edificazione e coincidono, dunque, con le aree esterne al confine stradale finalizzate alla eliminazione o riduzione dell’impatto ambientale. L’ampiezza di tali fasce ovvero le distanze da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni e ricostruzioni e negli ampliamenti fronteggianti le strade, trova disciplina in quanto stabilito dal NCS
(artt. 16, 17 e 18, del D.LGT n. 285/1992) e
dal Regolamento di attuazione (artt. 26, 27 e 28, del DPR n. 495/1992). Il vincolo di inedificabilità della "fascia di rispetto stradale"
-che è una tipica espressione dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti- non ha natura espropriativa, ma unicamente conformativa, perché ha il solo effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dall’eventuale instaurazione di procedure espropriative.
Come affermato dalla Cassazione, poi, in presenza di un vincolo conformativo previsto dalla legge (quale è la fascia di rispetto), non sono predicabili riferimenti di effettualità edificatoria “di fatto”, ma, ai fini del ristoro del proprietario inciso, rileva solo la distinzione tra aree edificabili “di diritto” ed aree “giuridicamente"
non edificabili. Ciò è stato correttamente rilevato in passato, proprio dal TAR Veneto, Sez. I, 16.10.2006, n. 3442 (le fasce di rispetto stradale previste dal D.Lgs. n. 285 del 1992 e dal D.P.R. n. 495 del 1992 non costituiscono vincoli urbanistici, ma misure poste a tutela della sicurezza stradale che, tuttavia, comportano l'inedificabilità
delle aree interessate e sono a tal fine
recepite nella strumentazione urbanistica
primaria.
---------------
Le delibere consiliari di
adozione e di approvazione della variante
parziale al PRG vigente, nella parte in cui modificano l’art. 61 delle NTA consentendo lo svolgimento dell’attività di imprenditoriale parcheggio nella fasce di rispetto stradali, non sono affette dai riscontrati vizi e devono essere reputate legittime.
Tale approdo appare conforme a quanto a più
riprese affermato da condivisibile
giurisprudenza di merito che, a più riprese,
ha interpretato in termini non assoluti le
prescrizioni del codice della strada in
premessa citate. Giova precisare, infatti, che a più riprese è stato consentito un utilizzo delle c.d. “fasce di rispetto” che, oggettivamente, pare di utilità minore, per gli utenti della strada, rispetto ad un parcheggio a raso (“in via generale, la fascia di rispetto stradale non può rappresentare un ostacolo all'insediamento di nuovi impianti di distribuzione dei carburanti che costituiscono un ordinario completamento della strada su cui circolano autoveicoli che devono necessariamente potersi approvvigionare; inoltre, il d.lgs. 32/1998 consente l'installazione degli impianti all'interno delle fasce di rispetto stradale in quanto all'art. 2, comma 3 prescrive espressamente che i Comuni debbano "individuare le destinazioni d'uso compatibili con l'installazione degli impianti all'interno delle zone comprese nelle fasce di rispetto di cui agli artt. 16, 17 e 18 del dlgs 30.04.1992, n. 285, recante il Nuovo codice della strada”. Con riguardo all'ampiezza della fascia di rispetto stradale, si rileva che la medesima, in un contesto urbano densamente edificato ed abitato, persegue una serie di ragionevoli finalità -non limitate alla mera sicurezza ed alla conservazione/manutenzione delle vie, come per il D.M. n. 1444/1968- determinate proprio dalla presenza dell'elemento umano -destinazione pedonale, a parcheggio, misure antinquinamento, anche acustico, arredo urbano- oppure ricollegabili a criteri urbanistico-estetici.
--------------- 4.1. Il Collegio non concorda con la tesi esposta dal Tar e concorda invece con la tesi esposta dal Comune di Venezia appellante incidentale e dall’appellante principale Ma.Po.Pa.. Come è noto, le fasce di rispetto individuano le distanze minime a protezione del nastro stradale dall’edificazione e coincidono, dunque, con le aree esterne al confine stradale finalizzate alla eliminazione o riduzione dell’impatto ambientale. L’ampiezza di tali fasce ovvero le distanze da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni e ricostruzioni e negli ampliamenti fronteggianti le strade, trova disciplina in quanto stabilito dal NCS (articoli 16, 17 e 18, del D.LGT n. 285/1992) e dal Regolamento di attuazione (articoli 26, 27 e 28, del DPR n. 495/1992). Il vincolo di inedificabilità della "fascia di rispetto stradale"
-che è una tipica espressione dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti- non ha natura espropriativa, ma unicamente conformativa, perché ha il solo effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dall’eventuale instaurazione di procedure espropriative (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 13.03.2008, n. 1095).
Come affermato dalla Cassazione poi, in presenza di un vincolo conformativo previsto dalla legge (quale è la fascia di rispetto), non sono predicabili riferimenti di effettualità edificatoria “di fatto”, ma, ai fini del ristoro del proprietario inciso, rileva solo la distinzione tra aree edificabili “di diritto” ed aree “giuridicamente" non edificabili (cfr.
infra multa: Cassazione civile, sez. I, 13.04.2006, n. 8707; Cassazione civile, sez. I, 28.10.2005, n. 21092). Ciò è stato correttamente rilevato in passato, proprio dal TAR Veneto, Sez. I, 16.10.2006, n. 3442 (le fasce di rispetto stradale previste dal D.Lgs. n. 285 del 1992 e dal D.P.R. n. 495 del 1992 non costituiscono vincoli urbanistici, ma misure poste a tutela della sicurezza stradale che, tuttavia, comportano l'inedificabilità delle aree interessate e sono a tal fine recepite nella strumentazione urbanistica primaria (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, sez. IV, 20.10.2000, n. 5620). Il Tar, che nelle premesse descrittive (punto 7) sembrava avere correttamente colto che la modifica introdotta non escludesse che i parcheggi a raso siano a “servizio della strada” e, ancora, che risultino rispettate le previsioni urbanistiche di zona, è pervenuto ad una interpretazione contraria alle legittimità della variante, sulla scorta della considerazione che il parcheggio fosse organizzato con struttura imprenditoriale. 4.2. Contrariamente a quanto in sentenza esposto, non pare al Collegio che la possibile circostanza che un parcheggio sia organizzato in forma imprenditoriale leda alcuna delle dette esigenze/necessità. Innanzitutto è improprio richiamare nel caso di specie il concetto di “zonizzazione”: esso non rileva, in quanto la autonomia della disciplina delle fasce di rispetto stradale fa si che ivi possa essere autorizzata attività “eccentrica” rispetto alle prescrizioni della zonizzazione, purché comunque svolta a beneficio della circolazione stradale, e nel rispetto della sicurezza degli utenti. Con delibazione non illogica né abnorme, ma, anzi, positivamente apprezzabile, il Comune di Venezia ha ritenuto, ed ha inteso specificare, che tale possa essere l’allocazione di parcheggi a raso. In particolare –sempre valutando la problematica sotto il profilo urbanistico, l’unico rilevante nella specie e l’unico rientrante nella giurisdizione di questo Collegio- la circostanza che la possibilità di parcheggiare possa essere subordinata al versamento di un controvalore in denaro (né più né meno di ciò che avviene in presenza delle c.d. “zone blu” in tutte le città d’Italia, si badi) non implica il venire meno della condizione che il parcheggio sia “posto al servizio della strada e degli utenti”: il rispetto delle previsioni urbanistiche di zona (rectius: la neutralità delle stesse, ai fini della legittimità della allocazione di parcheggi nelle fasce di rispetto) discende dalla stessa destinazione delle medesime. Le affermazioni del Tar sono evidentemente fuorviate dalla riscontrata destinazione “allo svolgimento di un’attività commerciale e imprenditoriale”, e dalla imprenditorialità della iniziativa in questione fanno discendere in automatico la conseguenza che i detti parcheggi a raso, non siano “al servizio della strada”: parte appellante principale ha buon giuoco nel constatare che la “patrimonializzazione” del parcheggio, non implica che lo stesso cessi per ciò solo di essere posto al servizio degli utenti della strada, ovvero crei pericoli per la sicurezza stradale. Tale profilo di accoglimento del mezzo di primo grado appare al Collegio inesatto, e va pertanto riformato. Il Tar si era espresso statuendo “l’annullamento in parte qua anche della delibera del Consiglio Comunale n. 59/2013 laddove possa essere interpretata nel senso di costituire il presupposto per lo sfruttamento commerciale della fascia di rispetto stradale in violazione della disciplina urbanistica.” In contrario senso, evidenzia il Collegio che le delibere n. 5/2013 (di adozione) e n. 59/2013 (di approvazione) della variante parziale al PRG vigente, nella parte in cui modificano l’art. 61 delle NTA consentendo lo svolgimento dell’attività di imprenditoriale parcheggio nella fasce di rispetto stradali non sono pertanto affette dai riscontrati vizi e devono essere reputate legittime. Tale approdo appare conforme a quanto a più riprese affermato da condivisibile giurisprudenza di merito che, a più riprese, ha interpretato in termini non assoluti le prescrizioni del codice della strada in premessa citate (TAR Molise Campobasso Sez. I, 23.09.2010, n. 1050). Giova precisare, infatti, che a più riprese è stato consentito un utilizzo delle c.d. “fasce di rispetto” che, oggettivamente, pare di utilità minore, per gli utenti della strada, rispetto ad un parcheggio a raso (“in via generale, la fascia di rispetto stradale non può rappresentare un ostacolo all'insediamento di nuovi impianti di distribuzione dei carburanti che costituiscono un ordinario completamento della strada su cui circolano autoveicoli che devono necessariamente potersi approvvigionare; inoltre, il d.lgs. 32/1998 consente l'installazione degli impianti all'interno delle fasce di rispetto stradale in quanto all'art. 2, comma 3, prescrive espressamente che i Comuni debbano "individuare le destinazioni d'uso compatibili con l'installazione degli impianti all'interno delle zone comprese nelle fasce di rispetto di cui agli artt. 16, 17 e 18 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, recante il Nuovo codice della strada” TAR Molise Campobasso Sez. I, 23.09.2010, n. 1050). Anche in epoca più risalente, la giurisprudenza di merito ha patrocinato un approdo coincidente con quello raggiunto dal Collegio e sostenuto dall’appellante principale e dal Comune di Venezia (TAR Puglia Lecce Sez. I, 14.09.2006, n. 4456). Con riguardo all'ampiezza della fascia di rispetto stradale, si rileva che la medesima, in un contesto urbano densamente edificato ed abitato, persegue una serie di ragionevoli finalità -non limitate alla mera sicurezza ed alla conservazione/manutenzione delle vie, come per il D.M. n. 1444/1968- determinate proprio dalla presenza dell'elemento umano -destinazione pedonale, a parcheggio, misure antinquinamento, anche acustico, arredo urbano- oppure ricollegabili a criteri urbanistico-estetici (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.06.2015 n. 2880 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non v’è dubbio che in base alla normativa del codice della strada la delimitazione del
centro abitato avviene con uno specifico procedimento; ma è altrettanto certo che in carenza di tale determinazione la questione controversa deve essere affrontata da un lato sulla base della normativa vigente all’epoca dell’abuso e per altro verso verificando sul piano del diritto urbanistico se la sussistenza di un
centro abitato possa essere rappresentata dall’assetto interamente urbanizzato della zona realizzatosi in forza del piano regolatore. Sotto il primo profilo occorre muovere dal dato normativo per cui, in base all’art. 9 della legge n. 761/1961, le costruzioni debbono tenersi a distanza di rispetto dall’autostrada non inferiore ai 25 m.l.. Tale norma, vigente all’epoca dell’abuso, per espressa disposizione dell’art. 17-quater della legge n. 765/1967, è rimasta in vigore ben oltre l’avvento del DM 01.04.1968 attuativo della stessa, ed è stata abrogata solo con l’intervento dell’art. 231 del nuovo codice della strada (d.leg.vo n. 295/1992). Quanto alla valenza delle disposizioni di PRG, occorre rilevare che, in base all’art. 7 (comma 2, n. 2) della legge n. 1150 del 1942 (come modificata dall’art. 1 della legge n. 1187/1968) il piano regolatore deve recare tra l’altro la “precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano”.
Più precisa è la disposizione introdotta dall’art. 18, secondo comma, della legge n. 865/1971 che, nel definire il “centro edificato” ai fini urbanistico-edilizi, e sostanzialmente precisando direttamente il contenuto che deve avere il provvedimento di delimitazione, stabilisce che esso “comprende tutte le aree edificate”... Con tale ambito appare quindi del tutto collimare la realizzata previsione di PRG relativa a zona a completamento residenziale e saturazione. Sul versante della nozione di
centro abitato emergente dal codice della strada, fermo restando che la sua perimetrazione avviene mediante lo specifico procedimento indicato dal codice della strada, il Collegio ritiene che la mancata osservanza di tale indicazione normativa non prelude che, ai differenti fini urbanistici, la definizione in questione possa essere individuata sulla base delle norme del PRG; ciò anche considerato che la perimetrazione del
centro abitato ai sensi dell'art. 4 del Codice della strada (che si realizza attraverso uno specifico procedimento amministrativo) avviene, per espressa previsione della medesima disposizione, “ai fini dell'attuazione della disciplina della circolazione stradale”, fornendosi inoltre (art. 3, n. 8 del D.lgs. n. 285/1982) una nozione di
centro abitato affatto diversa da quella prevista dall'art. 4 della legge reg. n. 17/1982 e dell’art. 18 della legge n. 865/1971. Sul punto, dell’esame della giurisprudenza in materia, dopo un iniziale e datato orientamento generale per cui la perimetrazione del
centro abitato può risultare anche dallo strumento urbanistico,
emerge la tesi per cui “la delimitazione del centro abitato eventualmente disposta ai fini del codice della strada o del piano del traffico è del tutto irrilevante ai fini urbanistici”;
in particolare, "non sussiste la necessità di un apposito atto di perimetrazione allorché l’insistenza dell’immobile in
centro abitato emerge “ictu oculi” dalla semplice postazione dello stato dei luoghi”.
Anche recentissimamente è stato osservato che: “l'art. 1 del D.M. n. 1404 del 1968 afferma che le disposizioni contenute in tale testo normativo "relative alle distanze minime a protezione del nastro stradale, vanno osservate nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati e degli insediamenti previsti dai piani regolatori generali e dai programmi di fabbricazione", e che l'art. 9 della L. n. 729 del 1961, a sua volta, dispone al suo primo comma,
... che "lungo i tracciati delle autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione dell'autostrada stessa". In sintesi, ai fini della normativa edilizia sul condono edilizio, ad avviso del Collegio va confermato che la previsione da parte dello strumento urbanistico di una zona residenziale di completamento e la sua realizzazione mediante i relativi insediamenti abitativi, costituiscono elementi sufficienti ad integrare il concetto di
centro abitato (differente da quello accolto dal codice della strada) e pertanto a rendere inapplicabili i limiti di distanza di rispetto autostradale previsti dal DM del 1968, perché questi operano espressamente al di fuori del
centro abitato.
--------------- 2.2.- La questione in esame verte dunque sullo stabilire se, in carenza di un provvedimento di perimetrazione del
centro abitato, sia legittimo il diniego di condono di un abuso edilizio realizzato oltre i 25 ml dalla proprietà autostradale, in applicazione della predetta distanza di 60 metri.
L’individuazione della distanza applicabile si collega a sua volta alla questione se, in detta carenza, può tenersi conto (come sostengono gli appellanti) dello stato di urbanizzazione della zona o più precisamente delle disposizioni dello strumento urbanistico, le quali nella specie conformano la zona come B1 di completamento e saturazione residenziale. Non v’è dubbio che in base alla normativa del codice della strada la delimitazione del
centro abitato avviene con uno specifico procedimento (per questo profilo cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 3741/2007); ma è altrettanto certo che in carenza di tale determinazione la questione controversa deve essere affrontata da un lato sulla base della normativa vigente all’epoca dell’abuso e per altro verso verificando sul piano del diritto urbanistico se la sussistenza di un
centro abitato possa essere rappresentata dall’assetto interamente urbanizzato della zona realizzatosi in forza del piano regolatore. Sotto il primo profilo occorre muovere dal dato normativo per cui, in base all’art. 9 della legge n. 761/1961, le costruzioni debbono tenersi a distanza di rispetto dall’autostrada non inferiore ai 25 m.l.. Tale norma, vigente all’epoca dell’abuso, per espressa disposizione dell’art. 17-quater della legge n. 765/1967, è rimasta in vigore ben oltre l’avvento del DM 01.04.1968 attuativo della stessa, ed è stata abrogata solo con l’intervento dell’art. 231 del nuovo codice della strada (d.leg.vo n. 295/1992). Quanto alla valenza delle disposizioni di PRG, occorre rilevare che, in base all’art. 7 (comma 2, n. 2) della legge n. 1150 del 1942 (come modificata dall’art. 1 della legge n. 1187/1968) il piano regolatore deve recare tra l’altro la “precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano”.
Più precisa è la disposizione introdotta dall’art. 18, secondo comma, della legge n. 865/1971 che, nel definire il “centro edificato” ai fini urbanistico-edilizi, e sostanzialmente precisando direttamente il contenuto che deve avere il provvedimento di delimitazione, stabilisce che esso “comprende tutte le aree edificate”... Con tale ambito appare quindi del tutto collimare la realizzata previsione di PRG relativa a zona a completamento residenziale e saturazione. Sul versante della nozione di
centro abitato emergente dal codice della strada, fermo restando che la sua perimetrazione avviene mediante lo specifico procedimento indicato dal codice della strada, il Collegio ritiene che la mancata osservanza di tale indicazione normativa non prelude che, ai differenti fini urbanistici, la definizione in questione possa essere individuata sulla base delle norme del PRG; ciò anche considerato che, come ricorda la stessa decisione impugnata, la perimetrazione del
centro abitato ai sensi dell'art. 4 del Codice della strada (che si realizza attraverso uno specifico procedimento amministrativo) avviene, per espressa previsione della medesima disposizione, “ai fini dell'attuazione della disciplina della circolazione stradale”, fornendosi inoltre (art. 3, n. 8 del D.lgs. n. 285/1982) una nozione di
centro abitato affatto diversa da quella prevista dall'art. 4 della legge reg. n. 17/1982 e dell’art. 18 della legge n. 865/1971. Sul punto, dell’esame della giurisprudenza in materia, dopo un iniziale e datato orientamento generale per cui la perimetrazione del
centro abitato può risultare anche dallo strumento urbanistico (Cons. di Stato n. 167/1973), emerge la tesi (peraltro citata dalla stessa decisione gravata) per cui “la delimitazione del
centro abitato eventualmente disposta ai fini del codice della strada o del piano del traffico è del tutto irrilevante ai fini urbanistici (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
05.04.2005, n. 1560; idem, Sez. V, 07.03.1997, n. 211)”; in particolare secondo l’orientamento sopra citato (v. anche Cons. di Stato n. 1560/2005) “non sussiste la necessità di un apposito atto di perimetrazione allorché l’insistenza dell’immobile in
centro abitato emerge “ictu oculi” dalla semplice postazione dello stato dei luoghi”.
Anche recentissimamente è stato osservato (Cons. di Stato, sez. IV, n. 1118/2014) che: “l'art. 1 del D.M. n. 1404 del 1968 afferma che le disposizioni contenute in tale testo normativo "relative alle distanze minime a protezione del nastro stradale, vanno osservate nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati e degli insediamenti previsti dai piani regolatori generali e dai programmi di fabbricazione", e che l'art. 9 della L. n. 729 del 1961, a sua volta, dispone al suo primo comma, ……….. che "lungo i tracciati delle autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione dell'autostrada stessa"; In sintesi, ai fini della normativa edilizia sul condono edilizio, ad avviso del Collegio va confermato che la previsione da parte dello strumento urbanistico di una zona residenziale di completamento e la sua realizzazione mediante i relativi insediamenti abitativi, costituiscono elementi sufficienti ad integrare il concetto di
centro abitato (differente da quello accolto dal codice della strada) e pertanto a rendere inapplicabili i limiti di distanza di rispetto autostradale previsti dal DM del 1968, perché questi operano espressamente al di fuori del
centro abitato.
Di conseguenza, la fattispecie di sanatoria in esame non poteva trovare ostacolo nella disciplina di cui all’art. 33 della legge n. 47/1985, essendo costituita da un abuso realizzato in vigenza dell’art. 9 della legge n. 729/1961, in zona urbanizzata ai sensi del PRG e situato a distanza superiore ai 25 metri dalla proprietà autostradale. 3. - L’appello deve pertanto essere accolto con conseguente riforma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.09.2014 n. 4469 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di
rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche
dell'opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione connesso al
vincolo sancito dal D.M. 01.04.1968, n. 1404 non può essere inteso restrittivamente
……. ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare un'area
contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente
proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi compresi quelli di
ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
Pertanto tale distanze vanno mantenute anche con riferimento ad
opere che pur rientrando nella fascia stessa, siano arretrate rispetto ad
opere preesistenti.
---------------
2. E’ infondato il primo motivo mediante il quale si rileva la
violazione dell’art. 39 delle NTA e dell’art. 7 della L. Reg. 24/1985.
2.1 L’esame degli atti consente di rilevare come l’Amministrazione comunale
abbia correttamente applicato il sopra citato art. 7 e, ciò, nella parte in
cui consente, nelle fasce di rispetto stradali, l’esecuzione di una serie
limitata di opere edilizie, purché queste ultime non comportino
l’avanzamento dell’edificio esistente sul fronte stradale.
2.2 Si è accertato, infatti, che l’intervento richiesto in sanatoria
prevedeva la demolizione di un manufatto di mq. 56,79 in luogo della
realizzazione di un nuovo fabbricato di mq. 172,13.
Tale intervento ricadeva all’interno di una fascia di rispetto stradale che,
ai sensi, dell’art. 39, comma 1, delle NTA, costituisce area “destinata alla
conservazione, alla protezione, all’ampliamento e alla creazione di spazi
per il traffico pedonale e veicolare”.
2.3 Ne consegue come risulti evidente la legittimità del provvedimento e,
ciò, considerando che l’ampliamento proposto andava a costituire un
avanzamento verso la strada, ipotesi quest’ultima espressamente vietata
dalle disposizioni sopra citate.
2.4 Si consideri, inoltre, che un costante orientamento giurisprudenziale
(per tutti si veda TAR Toscana Sez. III, 24.01.2013, n. 112) ha
affermato che “il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di
rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche
dell'opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione connesso al
vincolo sancito dal D.M. 01.04.1968, n. 1404 non può essere inteso restrittivamente ……. ma appare correlato alla più ampia esigenza di
assicurare un'area contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi
momento dall'Ente proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi
compresi quelli di ampliamento senza limiti connessi alla presenza di
costruzioni; pertanto tale distanze vanno mantenute anche con riferimento ad
opere che pur rientrando nella fascia stessa, siano arretrate rispetto ad
opere preesistenti” (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.01.2014 n. 24 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio osserva che un pacifico orientamento giurisprudenziale ha affermato
che il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale
abbia carattere assoluto e prescinda dalle caratteristiche dell'opera
realizzata, in quanto il divieto di costruzione connesso al vincolo sancito
dal successivo D.M. 01.04.1968 n. 1404 non può essere inteso
restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli
materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede
stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle
persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare un'area
contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente
proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi compresi quelli di
ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni; pertanto
tale distanze vanno mantenute anche con riferimento ad opere che pur
rientrando nella fascia stessa, siano arretrate rispetto ad opere
preesistenti qual è nel caso di specie un filare di alberi.
Tale principio trova applicazione per tutte le opere stabilmente realizzate
sul terreno, a prescindere dalla loro tipologia, utilizzazione e dalla
precarietà dei materiali utilizzati.
Ne consegue che le opere realizzate all'interno della fascia di rispetto
stradale prevista al di fuori del perimetro del centro abitato (fascia di
venti metri per il caso specifico), se costruite dopo l'imposizione del
vincolo (come nel caso di specie), rientrano nella previsione di cui
all'art. 33, comma 1, lett. d), della legge 28.02.1985, n. 47 e non sono
suscettibili di sanatoria.
---------------
Il vincolo di inedificabilità ricadente sulle aree situate in fascia di
rispetto stradale non deriva dalla pianificazione e dalla programmazione
urbanistica, ma è sancito nell’interesse pubblico da apposite leggi che
rendono il suolo ad esso soggetto legalmente inedificabile, sicché tale
vincolo non ha né un contenuto propriamente espropriativo né può
qualificarsi come preordinato all’espropriazione, dovendosi tenere conto,
invece, di esso nella determinazione dell’indennità di esproprio.
---------------
1) Con atto ritualmente notificato e depositato, il nominato ricorrente ha
impugnato il provvedimento in epigrafe indicato, relativo al diniego di
sanatoria di un piccolo magazzino/ripostiglio realizzato abusivamente a
servizio dell’appartamento di proprietà, chiedendone –previa la sospensione
(la relativa istanza è stata respinta con ordinanza n. 224 del 1997),
l’annullamento per i tre motivi dedotti nell’atto introduttivo del giudizio
nei quali parte ricorrente lamenta:
- il vincolo stradale che non consentirebbe la sanatoria non
sarebbe assoluto, ma relativo, dovendosi diversamente considerare in
violazione dell’art. 42 della Costituzione perché non soggetto a decadenza
né a indennizzo;
- trattandosi di vincolo relativo, l’Amministrazione comunale
avrebbe dovuto chiedere il parere all’Autorità preposta al vincolo anziché
affermare apoditticamente l’insanabilità dell’abuso edilizio;
- mancherebbe il necessario parere di compatibilità espresso
dall’Autorità preposta al vincolo e un’adeguata motivazione sulle ragioni
del contrasto dell’abuso con il vincolo stesso che in realtà non
sussisterebbero, essendo collocato il manufatto al di sotto della sede
stradale e dietro una fila di cipressi secolari che lo sovrastano.
Una memoria difensiva è stata depositata dal ricorrente in data 14.12.2012.
In tale atto, oltre a insistere sui motivi dedotti viene dedotto che sarebbe
stata rilasciata nel 2001 un’autorizzazione a sanatoria per un altro abuso
(serra) posto a ridosso della strada e ciò confermerebbe la tesi già
propugnata che nella specie si tratterebbe di un vincolo di in edificabilità
relativa.
L’Amministrazione intimata non si è costituita in giudizio.
2) Il ricorso, nei tre motivi dedotti che possono essere trattati
congiuntamente, sono manifestamente infondati.
Il Collegio osserva che un pacifico orientamento giurisprudenziale anche di
questa Sezione, che il Collegio non ha motivo di disattendere, ha affermato
che il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale
abbia carattere assoluto e prescinda dalle caratteristiche dell'opera
realizzata, in quanto il divieto di costruzione connesso al vincolo sancito
dal successivo D.M. 01.04.1968 n. 1404 non può essere inteso
restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli
materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede
stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle
persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare un'area
contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente
proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi compresi quelli di
ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni; pertanto
tale distanze vanno mantenute anche con riferimento ad opere che pur
rientrando nella fascia stessa, siano arretrate rispetto ad opere
preesistenti qual è nel caso di specie un filare di alberi (cfr. sul punto
Cons. Stato, sez. IV, 30.09.2008 n. 4719; TAR Toscana, Sez. 3^ 23.07.2012,
n. 1347).
Tale principio trova applicazione per tutte le opere stabilmente realizzate
sul terreno, a prescindere dalla loro tipologia, utilizzazione e dalla
precarietà dei materiali utilizzati.
Ne consegue che le opere realizzate all'interno della fascia di rispetto
stradale prevista al di fuori del perimetro del centro abitato (fascia di
venti metri per il caso specifico), se costruite dopo l'imposizione del
vincolo (come nel caso di specie), rientrano nella previsione di cui
all'art. 33, comma 1, lett. d), della legge 28.02.1985, n. 47 e non sono
suscettibili di sanatoria.
Il ricorrente, che ha realizzato un'opera abusiva all'interno della predetta
fascia di rispetto ed al di fuori del perimetro del centro abitato, non può,
quindi, avvalersi della possibilità di sanatoria offerta dall'art. 32, comma
2, lett. c), della citata legge n. 47 del 1985 (per cui "Sono
suscettibili di sanatoria, alle condizioni sotto indicate, le opere
insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione e che risultino: [...]
c) in contrasto con le norme del D.M. 01.04.1968 n. 1404 pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 96 del 13.04.1968, sempre che le opere stesse non
costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico"), perché nella
fattispecie in esame il vincolo sull'area era stato imposto prima della
costruzione del manufatto. Donde l’Amministrazione non doveva e non poteva
sottoporre l’istanza all’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Trattandosi di vincolo assoluto permanente e inderogabile, non occorreva
alcuna particolare motivazione che si facesse carico della situazione in
concreto, essendo sufficiente la verifica della violazione del limite di
distanza dalla strada, configurandosi l'atto di diniego come un
provvedimento del tutto vincolato. In tal senso, neppure la presenza di una
fila di secolari cipressi posti sul ciglio stradale innanzi, quindi, al
manufatto abusivo, poteva costituire motivo di deroga, posto che,
verificandosi esigenze di pubblica necessità, anche tali alberi potrebbero
essere rimossi.
Dal che consegue, in particolare, anche l'infondatezza dei vizi dedotti nel
secondo e terzo motivo, come pure l’irrilevanza della
circostanza, peraltro non dimostrata con il deposito del titolo rilasciato
dall’Amministrazione, della sanatoria ottenuta nel 2001 per altro manufatto
adibito a serra,non potendo giustificare eventuali illegittime precedenti
autorizzazioni l'adozione di un provvedimento in ripetuta violazione della
legge. E ciò a prescindere dalla precarietà propria della tipologia di abuso
che sarebbe stato sanato.
Di alcun rilievo è, infine, la tesi che una tale qualificazione renderebbe
la disciplina del vincolo derivante dal rispetto delle fasce autostradali
contrario all’art. 42 della Costituzione. Come evidenziato, infatti dalla
giurisprudenza della Corte di Cassazione, il vincolo di inedificabilità
ricadente sulle aree situate in fascia di rispetto stradale non deriva dalla
pianificazione e dalla programmazione urbanistica, ma è sancito
nell’interesse pubblico da apposite leggi che rendono il suolo ad esso
soggetto legalmente inedificabile, sicché tale vincolo non ha né un
contenuto propriamente espropriativo né può qualificarsi come preordinato
all’espropriazione, dovendosi tenere conto, invece, di esso nella
determinazione dell’indennità di esproprio (cfr. Cass.ne. Sez. I civile,
13.04.2012 n. 5875; 06.09.2006 n. 19132) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 24.01.2013 n. 112 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aggiornamento al
25.09.2022 |
|
Autorizzazione
paesaggistica, richiesta di integrazioni
da parte della Soprintendenza:
il termine di 45 gg.
(ex art.
146 dlgs 42/2004) entro cui poter esprimere il proprio parere risulta
sospeso (e non interrotto). |
EDILIZIA PRIVATA: La
richiesta di integrazioni da parte della Soprintendenza comporta l’effetto
sospensivo, e non interruttivo, del termine di 45 giorni entro
cui esprimere il proprio parere ex art. 146 dlgs 42/2004.
Difatti, secondo l’orientamento condiviso da questo Collegio “Non può,
del resto, ritenersi che, con il richiedere l'integrazione documentale in
data 22.04.2021, la Soprintendenza abbia interrotto il termine di 45 giorni,
di cui si discute (che avrebbe, quindi, ripreso a decorrere, ex novo): ciò,
perché, in primis, l'art. 146, comma 5, d.l.vo 42/2004, configura tale
termine come innegabilmente perentorio, e non prevede affatto la facoltà,
dell'organo tutorio statale, d'interromperlo, ad libitum, mercé la
formulazione di richieste d'integrazione documentale, od istruttorie che a
dir si voglia.
In ogni caso, si tengano presenti, al fine della qualificazione
dell'effetto, conseguente alla richiesta d'integrazione documentale della
Soprintendenza, come meramente sospensivo, piuttosto che interruttivo, le
contrarie argomentazioni, condivise dal Collegio, esposte, da parte
ricorrente, nel contesto della terza censura dell'atto introduttivo
del giudizio: "Né varrebbe, in contrario, sostenere che il termine per
rendere il parere di competenza (20 o 45 giorni) sia iniziato nuovamente a
decorrere dall'integrazione documentale del 05.07.2021 e/o dai motivi
ostativi/osservazioni del privato del 16.07.2021.
Ciò, prima di tutto, perché la richiesta di integrazione documentale non
interrompe il termine del procedimento, ma lo sospende. Sul punto, la
lettura dell'intero "Codice dei beni culturali e del paesaggio" è univoca.
Il legislatore: a) non ha mai utilizzato il termine "interrompe"; b) al
contrario, ha sempre utilizzato il termine "sospende" in tema di
integrazione documentale; il riferimento va:
- all'art. 22, comma 2: "qualora la soprintendenza chieda
chiarimenti o elementi integrativi di giudizio, il termine indicato al comma
1 è sospeso fino al ricevimento della documentazione richiesta";
- all'art. 22, comma 3: "ove sorga l'esigenza di procedere
ad accertamenti di natura tecnica, la soprintendenza ne dà preventiva
comunicazione al richiedente ed, il termine indicato al comma 1 è sospeso
fino all'acquisizione delle risultanze degli accertamenti d'ufficio e
comunque per non più di trenta giorni";
- all'art. 159, comma 2, ultimo periodo: "in caso di
richiesta di integrazione documentale o di accertamenti il termine è sospeso
per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione
richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti";
- all'art. 159, comma 4, ultimo periodo: "in caso di
richiesta di integrazione documentale o di accertamenti, il termine è
sospeso per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione
richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti".
La correttezza della ricostruzione che precede trova conferma nell'art. 11,
comma 5, del d.P.R. n. 31/2017 ("... Il procedimento resta sospeso
...") il quale, come già ha avuto modo di chiarire codesto TAR, è una norma
"... di rango regolamentare, (che) non può certo essere in contrasto con la
disciplina primaria".
Muovendo da tale presupposto è evidente che i termini per rendere il parere
di competenza non registrano alcuna interruzione -rectius, non riprendono a
decorrere nuovamente dall'inizio- ma una mera sospensione”.
---------------
... per l’annullamento:
a- del diniego di autorizzazione paesaggistica ex art. 146 D.lgs.
n. 42/2004 prot. n. 28738 del 07.07.2022, notificato in pari data, del
Comune di Capaccio Paestum ad “Oggetto: Diniego di autorizzazione
paesaggistica ai sensi dell'art. 146 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e s.m.l. relativo all'istanza presentata dalla sig.ra Ga.Iv. nata a
... (SA) il ... in qualità di legale rappr. della
società "Ma.Gr. Srl' con sede in Capaccio Paestum (SA) al Viale
..., per la realizzazione di lavori di "Demolizione e
ricostruzione con aumento di volumetria di fabbricato esistente ai sensi
della Legge Regionale n. 19 del 28.12.2009 e ss.mm.li." in località Capaccio
Scalo, sull'area identificata in catasto al Foglio di Mappa n. 23,
particella n, 69” nella parte in cui rigetta la istanza di autorizzazione
paesaggistica;
b- del parere contrario della Soprintendenza Archeologia Belle Arti
e Paesaggio per le Province di Salerno e Avellino, prot. n. 13896-P del
17.06.2022 -così come citato dal Comune di Capaccio Paestum- e assunto al
protocollo del Comune di Capaccio Paestum n. 26030 del 21.06.2022 (prot.
pratica n. 34.43.04/165.567 Soprintendenza), notificato in data 05.07.2022, ad “Oggetto: Comune di CAPACCIO PAESTUM (SA) - località Capaccio Scalo
- Fg. 23 p.lla 69 sub 1, 2, 3. Istanza di autorizzazione paesaggistica ai
sensi dell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 22.01.2004 "Codice dei Beni
Culturali e del Paesaggio" per i Lavori di "Demolizione e ricostruzione
con aumento di volumetria del 35% di un fabbricato per civile abitazione
sito in località Capaccio Scalo" Piano Casa DITTA: GA.IV. legale
rappresentante di MA.GR. S.R.L. PARERE CONTRARIO” nella parte in
cui nega alla società ricorrente la autorizzazione paesaggistica richiesta;
c- ove occorra, della Comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza ai sensi dell’art. 10-bis Legge n. 241/1990
della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di
Salerno e Avellino (prot. Soprintendenza –così come citato dal Comune di
Capaccio Paestum– n. 10493-P del 10.05.2022; prot. Comune di Capaccio
Paestum n. 20452 del 10.05.2022) ad “Oggetto: Comune di CAPACCIO PAESTUM
(SA) - località Capaccio Scalo - Fg. 23 p.lla 69 sub 1, 2, 3. Istanza di
autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del
22.01.2004 "Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio" per i Lavori di
"Demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria del 35% di un
fabbricato per civile abitazione sito in località Capaccio Scalo” Piano Casa
DITTA: GA.IV. legale rappresentante di MA.GR. S.R.L.
"Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza" (L.
07.08.1990, n. 241 - art. 10-bis)”;
...
La società ricorrente, con il ricorso in epigrafe, notificato in data 28.07.2022 e depositato in pari data, deduceva in fatto:
- di aver presentato in data 30.12.2020 al Comune di Capaccio
Paestum una richiesta di permesso di costruire, con contestuale istanza di
autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004,
per lavori di “Demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria del
35% di un fabbricato per civile abitazione sito in località Capaccio Scalo”
in applicazione del Piano Casa L.R. 19/2009 così come modificata dalla L.R.
1/2011, utilizzando tecniche costruttive conformi alle normative in zona
sismica, materiali eco compatibili e miglioramento delle prestazioni
energetiche;
- che, in esito all’istruttoria comunale veniva predisposta la
relazione tecnica illustrativa con proposta favorevole ai sensi dell’art.
146, comma 7, D.lgs. n. 42/2004, con relativo parere favorevole della
Commissione Locale per il Paesaggio;
- che, in data 04.11.2021 il Comune inoltrava, con nota pervenuta
il 12.11.2021 e acquisita al protocollo il 15.11.2021, la richiesta di
autorizzazione paesaggistica in oggetto per il parere preventivo della
Soprintendenza ai sensi dell’art. 146, comma 5, del D.lgs. n. 42/2004;
- che, in data 21.12.2021 la Soprintendenza formulava una richiesta
di integrazioni, riscontrata dal Comune in data 17.03.2022, con nota
pervenuta il 25.03.2022 e protocollata il 04.04.2022;
- che, in data 10.05.2022 la Soprintendenza trasmetteva al Comune
la comunicazione dei motivi ostativi ai sensi dell’art. 10-bis della Legge
n. 241/1990;
- che l’Amministrazione provvedeva a notificare a mezzo Messo
comunale il preavviso di rigetto;
- di aver trasmesso, in data 07.06.2022, le osservazioni in merito
al suddetto preavviso di rigetto, rappresentandone l’illegittimità;
- che, in data 05.07.2022 il Comune notificava a mezzo Messo
comunale il parere contrario della Soprintendenza del 17.06.2022 e, in
data 07.07.2022, notificava il diniego di autorizzazione paesaggistica
adottato in considerazione del parere contrario della Soprintendenza.
A sostegno del gravame venivano articolati i seguenti motivi di diritto:
A. SULLA ILLEGITTIMITÀ DEL PARERE DELLA
SOPRINTENDENZA.
I. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 10-BIS L. N. 241/1990.
Si deduceva l’illegittimità del parere negativo della Soprintendenza in
quanto fondato su motivazioni non esplicitate nel preavviso di rigetto, il
quale conteneva formule vuote, atecniche, che non consentivano alla società
di sviluppare un contraddittorio completo e proficuo.
II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 146, COMMI 5 E 8, D.LGS. N.
42/2004.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 17 E 22 DELLE N.T.A.
DEL PIANO REGOLATORE DEL COMUNE DI CAPACCIO PAESTUM (APPROVATO CON DECRETO
DEL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE N. 9623 DEL 03.05.1991).
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 9 DEL D.M. 02.04.1968,
N. 1444.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEL D.M. 07.06.1967.
VIOLAZIONE
E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 L. N. 241/1990.
ILLEGITTIMITÀ DEL PROVVEDIMENTO PER DIFETTO DI MOTIVAZIONE.
Si deduceva l’illegittimità delle ragioni poste a fondamento del parere
della Soprintendenza, in quanto manifestamente illogiche, fondate su dati
erronei e comunque carenti sotto il profilo istruttorio.
In particolare, la Società ricorrente rappresentava, tramite relazione
tecnica allegata, che “il parere contrario da parte della Soprintendenza
sia totalmente infondato ed errato in quanto il progetto in questione:
- E' conforme sia ai vigenti strumenti urbanistici e sia in
applicazione della L.R. N. 19 del 28.12.2009, modificata dalla L.R. n. 1 del
05.01.2011 e ss.mm.ii.;
- Prevede la riduzione del rischio sismico e del risparmio
energetico in conformità alle vigenti disposizioni di legge;
- E' fortemente contestualizzato rispetto al centro cittadino di
Capaccio Scalo, e non è certo distonico, così come definito dalla
Soprintendenza:
- Promuove una tipologia edilizia moderna, capace di rispondere
agli standard qualitativi necessari che con le dovute personalizzazioni è
già presente sul territorio, risultando già stata assentita”.
B. SULLA ILLEGITTIMITA’ DEL PROVVEDIMENTO DEL
COMUNE DI CAPACCIO PAESTUM.
I. ILLEGITTIMITÀ IN VIA DERIVATA.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 10-BIS L. N. 241/1990.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 146, COMMI 5, 8 E 9,
D.LGS. N. 42/2004.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 17 E 22 DELLE N.T.A.
DEL PIANO REGOLATORE DEL COMUNE DI CAPACCIO PAESTUM (APPROVATO CON DECRETO
DEL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE N. 9623 DEL 03.05.1991).
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 9 DEL D.M. 02.04.1968,
N. 1444.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEL D.M. 07.06.1967.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 L. N. 241/1990.
ILLEGITTIMITÀ DEL PROVVEDIMENTO PER DIFETTO DI MOTIVAZIONE.
Si deduceva l’illegittimità derivata del provvedimento di diniego, in quanto
fondato esclusivamente sul parere contrario della Soprintendenza.
II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 146, COMMI 8 E 9, D.LGS. N.
42/2004.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 17-BIS L. N. 241/1990.
VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 L. N. 241/1990.
ECCESSO DI
POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE.
Si deduceva che, il parere della Soprintendenza doveva ritenersi non
vincolante in quanto tardivo e, conseguentemente, doveva essere
autonomamente e motivatamente valutato dal Comune nel provvedimento di
diniego; pertanto, il diniego di rilascio, fondato esclusivamente sul tale
parere, risultava illegittimo.
Altresì si seduceva la mancata motivazione del provvedimento di diniego
anche con riguardo al parere favorevole della Commissione per il Paesaggio.
...
Il gravame è in parte manifestamente inammissibile e in parte manifestamente
fondato e pertanto può essere deciso con sentenza in forma semplificata.
Innanzitutto, il ricorso va dichiarato inammissibile quanto all’impugnativa
del parere della Soprintendenza.
Come da consolidata giurisprudenza amministrativa “Il parere espresso
dalla Soprintendenza oltre il termine di quarantacinque giorni previsto
dalla legge perde la propria normale vincolatività degradando a parere non
vincolante. Quindi, l'Amministrazione procedente deve, a quel punto,
valutarlo criticamente e motivatamente” (ex multis, TAR Campania-Napoli Sez. III, sent. 14.01.2021, n. 275).
Nel caso di specie, non vi è possibilità di dubbio circa la (incontestata)
tardività del parere.
Invero, la richiesta di parere è pervenuta il 12.11.2021 (v. all. 2 del
fascicolo di parte resistente); la Soprintendenza ha richiesto integrazioni
in data 21.12.2021 e il Comune ha riscontrato la richiesta con nota
pervenuta il 25 marzo (v. all. 6 e 9 del fascicolo di parte resistente).
Successivamente, in data 10.05.2022 la Soprintendenza ha trasmesso al
Comune di Capaccio Paestum la comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza ai sensi dell’art. 10-bis Legge n. 241/1990 e,
non ritenendo sufficienti le osservazioni presentate dall’odierna
ricorrente, ha adottato il parere negativo in data 17.06.2022, notificato a
mezzo Messo comunale in data 05.07.2022 (v. all. 8 e 11 del fascicolo di
parte resistente).
La tardività discende, in particolare, dall’effetto sospensivo e non
interruttivo della richiesta di integrazioni da parte della Soprintendenza.
Difatti, secondo l’orientamento condiviso da questo Collegio “Non può,
del resto, ritenersi che, con il richiedere l'integrazione documentale in
data 22.04.2021, la Soprintendenza abbia interrotto il termine di 45 giorni,
di cui si discute (che avrebbe, quindi, ripreso a decorrere, ex novo): ciò,
perché, in primis, l'art. 146, comma 5, d.l.vo 42/2004, configura tale
termine come innegabilmente perentorio, e non prevede affatto la facoltà,
dell'organo tutorio statale, d'interromperlo, ad libitum, mercé la
formulazione di richieste d'integrazione documentale, od istruttorie che a
dir si voglia.
In ogni caso, si tengano presenti, al fine della qualificazione
dell'effetto, conseguente alla richiesta d'integrazione documentale della
Soprintendenza, come meramente sospensivo, piuttosto che interruttivo, le
contrarie argomentazioni, condivise dal Collegio, esposte, da parte
ricorrente, nel contesto della terza censura dell'atto introduttivo
del giudizio: "Né varrebbe, in contrario, sostenere che il termine per
rendere il parere di competenza (20 o 45 giorni) sia iniziato nuovamente a
decorrere dall'integrazione documentale del 05.07.2021 e/o dai motivi
ostativi/osservazioni del privato del 16.07.2021.
Ciò, prima di tutto, perché la richiesta di integrazione documentale non
interrompe il termine del procedimento, ma lo sospende. Sul punto, la
lettura dell'intero "Codice dei beni culturali e del paesaggio" è univoca.
Il legislatore: a) non ha mai utilizzato il termine "interrompe"; b) al
contrario, ha sempre utilizzato il termine "sospende" in tema di
integrazione documentale; il riferimento va:
- all'art. 22, comma 2: "qualora la soprintendenza chieda
chiarimenti o elementi integrativi di giudizio, il termine indicato al comma
1 è sospeso fino al ricevimento della documentazione richiesta";
- all'art. 22, comma 3: "ove sorga l'esigenza di procedere
ad accertamenti di natura tecnica, la soprintendenza ne dà preventiva
comunicazione al richiedente ed, il termine indicato al comma 1 è
sospeso
fino all'acquisizione delle risultanze degli accertamenti d'ufficio e
comunque per non più di trenta giorni";
- all'art. 159, comma 2, ultimo periodo: "in caso di
richiesta di integrazione documentale o di accertamenti il termine è
sospeso
per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione
richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti";
- all'art. 159, comma 4, ultimo periodo: "in caso di
richiesta di integrazione documentale o di accertamenti, il termine è
sospeso per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione
richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti".
La correttezza della ricostruzione che precede trova conferma nell'art. 11,
comma 5, del d.P.R. n. 31/2017 ("... Il procedimento resta
sospeso ...") il
quale, come già ha avuto modo di chiarire codesto TAR, è una norma "... di
rango regolamentare, (che) non può certo essere in contrasto con la
disciplina primaria" (cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. II, n. 1542 del
23.06.2021).
Muovendo da tale presupposto è evidente che i termini per rendere il parere
di competenza non registrano alcuna interruzione -rectius, non riprendono a
decorrere nuovamente dall'inizio- ma una mera sospensione” (TAR
Campania, Salerno, sez. II, sent. 29.11.2021, n. 2589).
Ne deriva che il ricorso è inammissibile in parte qua, poiché censura
un parere non avente natura provvedimentale
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 05.09.2022 n. 2325 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
aggiornamento al
29.08.2022 |
|
Pubblico impiego: sull'illegittima revoca anticipata della P.O..
La revoca anticipata dell'incarico
dirigenziale (ovvero P.O.) deve essere adottata
con un atto formale e deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni
organizzative, per costituire legittimo fondamento, devono attenere al
settore cui è preposto il dirigente (ovvero la Posizione
Organizzativa). |
PUBBLICO IMPIEGO: L.
Di Donna,
Illegittima la revoca anticipata dell’incarico di PO non ancorata
esplicitamente a un mutamento dell'assetto organizzativo (17.08.2022
- tratto da e link a www.neopa.it).
Con l’ordinanza 22.07.2022 n. 22926, la Sezione
Lavoro della Corte di Cassazione ha rammentato che la
revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa incontra i limiti
legislativamente e pattiziamente stabiliti.
In particolare, ricorda la Corte, l'art. 9 del CCNL del comparto Regioni ed
autonomie locali del 31.03.1999 (si v. oggi l’art. 14, comma 3, del CCNL del
comparto Funzioni locali), integrando la disciplina normativa, stabilisce,
al comma 3: «Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza
con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti
organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati
negativi».
La suddetta disciplina prevede, dunque, che la revoca di un incarico possa
scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento
degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente motivate;
quanto, in particolare alle ragioni riorganizzative, la revoca anticipata
dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, pur prevista dalla
contrattazione collettiva, deve essere adottata però con un atto formale e
richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore
cui è preposto il dirigente (cfr. Cass. 06.10.2020, n. 21482; Cass.
03.02.2017, n. 2972).
Non può pertanto ritenersi legittimamente disposta una revoca anticipata
dell’incarico indirettamente scaturita dal conferimento dello stesso al
segretario comunale per ragioni non riconducibili ad un mutamento
dell'assetto organizzativo (nel caso di specie la revoca è stata motivata
dall'esigenza generica di «assicurare la continuazione della gestione
coordinata del settore "segreteria-affari legali-innovazioni tecnologiche e
sistemi informatici" e del settore "affari istituzionali-personale e
interventi economici"»).
Invero, precisa l’ordinanza, con riguardo all'istituto della revoca
anticipata di cui all'art. 9 del CCNL 31.03.1999, ai fini della salvaguardia
dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità
dell'Amministrazione, la revoca deve essere adottata con un atto formale,
deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni organizzative, per
costituire legittimo fondamento della revoca anticipata dell'incarico
dirigenziale, devono attenere allo specifico settore cui è preposto il
dirigente (Cass. n. 2972/2017, cit.; Cass. 02.09.2010, n. 19009). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
revoca anticipata dell'incarico di P.O. incontra i limiti legislativamente e pattiziamente
stabiliti.
Muovendo dall'esame della normativa di riferimento, va ricordato
che l'art. 109 del d.lgs. n. 267 del 2000, rubricato «Conferimento di
incarichi dirigenziali», prevede, al primo comma: «Gli incarichi
dirigenziali sono conferiti a tempo determinato [...] con provvedimento
motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in
relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o
del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle
direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o
dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al
termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano
esecutivo di gestione [..] o per responsabilità particolarmente grave o
reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di
lavoro. L'attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente
assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi»; mentre
l'art. 9 del CCNL 31.03.1999, Enti locali, integrando la disciplina
normativa, stabilisce, al comma 3: «Gli incarichi possono essere revocati
prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti
mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di
risultati negativi».
Ebbene, la suddetta disciplina prevede, dunque, che la revoca di un
incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato
raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente
motivate; quanto, in particolare alle ragioni riorganizzative, la revoca
anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, pur prevista dalla
contrattazione collettiva, deve essere adottata però con un atto formale e
richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore
cui è preposto il dirigente.
Invero, con riguardo all'istituto della revoca anticipata di cui
all'art. 9 del CCNL 31.03.1999, ai fini della salvaguardia dei principi
costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione, la
revoca deve essere adottata con un atto formale, deve essere motivata in
modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo
fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono
attenere allo specifico settore cui è preposto il dirigente.
---------------
Rilevato che:
1. con sentenza n. 1091/2015, pubblicata in data 17.11.2015, la
Corte d'appello di Salerno confermava le due statuizioni del Tribunale di
Vallo della Lucania che avevano respinto le domande proposte (con distinti
ricorsi) da Ge.Br. nei confronti del Comune di Aiscea, la prima intesa a
ottenere, previa declaratoria di illegittimità del decreto del Sindaco di
Ascea del 01.10.2015, l'affermazione del suo diritto a dirigere il settore
Affari Istituzionali-Personale-Cultura-Turismo ed Interventi economici, con
reintegra in tale incarico, e, la seconda, diretta ad accertare che, dopo la
revoca dell'incarico di posizione organizzativa, gli erano state assegnate,
con una serie di atti volti a emarginarlo e isolarlo, mansioni inferiori,
donde il diritto al ristoro del danno, patrimoniale e non patrimoniale,
patito;
il Br., in servizio presso l'ente locale con inquadramento D,
posizione giuridica D6, premesso di essere stato nominato responsabile del
settore predetto con disposizione n. 72 del 23.05.2003 e che, dopo
l'insediamento del nuovo Sindaco, avvenuto a giugno 2004, gli era stato
conferito, in data 04.03.2005, un incarico di posizione organizzativa ai
sensi dell'art. 8 e ss. del CCNL 1999 e dell'art. 44 del Regolamento degli
uffici e dei servizi del Comune di Ascea, con termine di scadenza
trimestrale, poi prorogato, aveva dedotto che, nonostante lo scrutinio
d'efficienza del Nucleo di valutazione, il Sindaco aveva illegittimamente
conferito, in data 01.10.2005, la relativa delega al segretario comunale;
aveva soggiunto che, dopo l'entrata in carica della nuova Giunta,
l'ufficio da lui diretto era stato privato di un'unità di personale ed egli
era stato estromesso, con plurime condotte mobbizzanti, dalle decisioni
amministrative programmatiche che coinvolgevano il suo settore, con indebita
attribuzione di mansioni prettamente esecutive e conseguente insorgenza, per
effetto dell'illecita condotta dell'amministrazione, di una sindrome
ansioso-depressiva nonché di patologie ipertensive e ulcerose;
la Corte territoriale, adita dagli eredi del Br. con distinti
gravami, poi riuniti, respingeva i ricorsi ex art. 434 cod. proc. civ.;
osservava in particolare che la revoca dell'incarico di posizione
organizzativa, legittimamente disposta ai sensi dell'art. 9 CCNL 31.03.1999,
era dovuta non a insufficiente rendimento, ma a mutamento dell'assetto
organizzativo dell'ente, e di ciò dava atto il provvedimento del 01.10.2005,
il quale, nel conferire l'incarico in parola al segretario comunale,
evidenziava la necessità di «assicurare la continuazione della gestione
coordinata del settore "segreteria-affari legaliinnovazioni tecnologiche e
sistemi informatici" e del settore "affari istituzionalipersonale e
interventi economici"»;
sulla scorta delle testimonianze assunte in prime cure, la Corte di
merito, in sintonia con le argomentazioni del primo giudice, escludeva
l'esistenza di un comportamento mobbizzante o comunque di violazioni
dell'art. 2103 cod. civ., le quali non potevano dirsi integrate per il sol
fatto della revoca dell'incarico direttivo, stante la non configurabilità di
un diritto soggettivo a conservarlo;
rilevava infine la Corte territoriale che, dopo la revoca
dell'incarico, vissuta dal Br. come un sostanziale «declassamento»,
era insorta «aspra polemica con i vertici politici» culminata nel
rifiuto di accettare pratiche che provenivano dal segretario comunale e indi
nella vicenda del disposto trasferimento interno (impugnato in via
cautelare) al terzo piano, ove il Br. alfine si sistemò «in una posizione
priva di poteri effettivi ma in sostanza, e per così dire, autoindotta»;
2. avverso tale sentenza gli eredi di Br.Ge. hanno proposto ricorso
per cassazione affidato a sette motivi;
3. il Comune di Ascea ha resistito con controricorso illustrato con
memoria ex art. 378 cod. proc. civ., mentre l'Unione Italiana
Lavoro-Federazione Poteri Locali (UIL-FPL) è rimasta intimata.
Considerato che:
1. con il primo motivo i ricorrenti denunciano, in relazione
all'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa
applicazione degli artt. 2 e 5 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165 e dell'art. 9
CCNL 1999 del Comparto Enti Locali; sostengono che i mutamenti organizzativi
cui farebbe riferimento l'art. 9, cit., si riferirebbero agli atti di
macro-organizzazione incidenti sull'assetto organizzativo e strutturale
dell'ente, previsti dall'art. 2 d.lgs. n. 165, cit., mentre nella specie «l'incarico
conferito al segretario comunale, allo stesso modo dell'incarico conferito
al Br., è atto di tipo datoriale, adottato con i poteri del privato datore
di lavoro», di qui l'illegittimità della revoca non consentita per gli
atti di «microorganizzazione » di cui all'art. 5, d.lgs. n. 165„ cit.;
2. con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, ex art.
360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione degli artt. 7 e 32 del
Regolamento Uffici e Servizi del Comune di Ascea approvato con delibera di
Giunta comunale n. 72/03, degli artt. 89, 97, 107 e 109 del TUEL (d.lgs.
18.08.2000 n. 267), dell'art. 9 CCNL del 1999 e dell'art. 15 CCNL 2002
Comparto Enti Locali, dell'art. 52 d.lgs. n. 165/2001, dell'art. 2103 cod.
civ.; assumono che, ove manchino figure dirigenziali, gli uffici sono
affidati alla responsabilità dei dipendenti di cat. D e che al segretario
comunale non potrebbero essere affidati compiti di gestione «se non in
via transitoria, per motivi eccezionali», compiti che sarebbero invece
spettati esclusivamente al Br., siccome titolare di una posizione apicale
all'interno dell'ente, pena, in difetto, il suo inevitabile demansionamento;
3. il primo ed il secondo motivo, trattati
unitariamente, sono fondati nei sensi qui di seguito esposti. Denunciano, in
sostanza, i ricorrenti l'insussistenza dei presupposti della revoca
dell'incarico di posizione organizzativa e l'illegittimità del contestuale
conferimento dello stesso al segretario comunale.
In ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire
l'osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, nonché per omologia
con quanto prevede la norma di cui al secondo comma dell'art. 384 cod. proc.
civ., deve ritenersi che, nell'esercizio del potere di qualificazione in
diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata la questione,
sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella
specificamente indicata dalla parte e individuata d'ufficio, con il solo
limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come
accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella
stessa sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l'esperimento di
ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l'esercizio del
potere di qualificazione non deve inoltre confliggere con il principio del
monopolio della parte nell'esercizio della domanda e delle eccezioni in
senso stretto, con la conseguenza che resta escluso che la Corte possa
rilevare l'efficacia giuridica di un fatto se ciò comporta la modifica della
domanda per come definita nelle fasi di merito o l'integrazione di una
eccezione in senso stretto (Cass. 28.07.2017, n. 18775; Cass. 14.02.2014, n.
3437; 22.03.2007, n. 6935).
3.1 Ciò detto, è pacifico tra le parti che l'incarico del Br. quale
dirigente del settore Affari Istituzionali-Personale-Cultura-Turismo e
Interventi economici fosse stato, da ultimo, confermato in data 25/07/2003 e
che fosse altresì intervenuto un giudizio positivo del Nucleo di
valutazione; era stato poi emesso il decreto sindacale del 01.10.2005, con
il quale il Sindaco del Comune di Ascea aveva conferito l'incarico in parola
al segretario comunale;
la Corte territoriale, nell'assumere l'irrilevanza della durata
(trimestrale) dell'incarico, ha vagliato le determinazioni dell'Ente in
relazione alla sussistenza dei presupposti normativi per la revoca del
conferimento della posizione organizzativa («è irrilevante che l'incarico
dovesse avere la durata individuata dall'art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 o
dall'art. 44 del regolamento comunale, ciò che conta è che la revoca sia
stata legittimamente disposta»: così a pag. 6 della sentenza impugnata);
sennonché, la revoca anticipata dell'incarico incontra i limiti
legislativamente e pattiziamente stabiliti;
muovendo dall'esame della normativa di riferimento, va ricordato
che l'art. 109 del d.lgs. n. 267 del 2000, rubricato «Conferimento di
incarichi dirigenziali», prevede, al primo comma: «Gli incarichi
dirigenziali sono conferiti a tempo determinato [...] con provvedimento
motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in
relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o
del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle
direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o
dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al
termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano
esecutivo di gestione [..] o per responsabilità particolarmente grave o
reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di
lavoro. L'attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente
assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi»; mentre
l'art. 9 del CCNL 31.03.1999, Enti locali, integrando la disciplina
normativa, stabilisce, al comma 3: «Gli incarichi possono essere revocati
prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti
mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di
risultati negativi»;
ebbene, la suddetta disciplina prevede, dunque, che la revoca di un
incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato
raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente
motivate; quanto, in particolare alle ragioni riorganizzative, la revoca
anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, pur prevista dalla
contrattazione collettiva, deve essere adottata però con un atto formale e
richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore
cui è preposto il dirigente (cfr. Cass.
ordinanza 06.10.2020 n.
21482; Cass.
sentenza 03.02.2017 n. 2972);
3.2 nel caso di specie, invece, come è pacifico tra le parti, la
revoca era indirettamente scaturita dal conferimento dello stesso incarico
al segretario comunale, per effetto del quale il Br. era privato dei compiti
precedentemente assegnati; ma tale determinazione implicita, motivata
dall'esigenza generica di «assicurare la continuazione della gestione
coordinata del settore "segreteria-affari legali-innovazioni tecnologiche e
sistemi informatici" e del settore "affari istituzionali-personale e
interventi economici"»,
non ancorata esplicitamente a un mutamento dell'assetto organizzativo, non
integra quella «riorganizzazione» richiesta dalla disciplina pattizia
per la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale.
Invero, con riguardo all'istituto della revoca anticipata di cui
all'art. 9 del CCNL 31.03.1999, ai fini della salvaguardia dei principi
costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione, la
revoca deve essere adottata con un atto formale, deve essere motivata in
modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo
fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono
attenere allo specifico settore cui è preposto il dirigente (Cass.
sentenza 03.02.2017 n. 2972, cit.; Cass. 02.09.2010, n. 19009).
Pertanto, alla stregua (e nei limiti) dei rilievi suesposti, i
primi due motivi di ricorso devono essere accolti, dovendo la Corte
d'appello in sede di rinvio fare applicazione del principio di diritto
dianzi enunciato
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza
22.07.2022 n. 22926).
---------------
Si legga al riguardo anche:
● L. Oliveri,
Cassazione: illegittima la revoca di incarico di posizione organizzativa per
“esigenze organizzative” fittizie. Non ammissibile incaricare il
segretario comunale senza una effettiva e motivata modifica della
macrostruttura dell’ente, ma in base a decisione ad personam penalizzando il
precedente incaricato (17.08.2022 - link a https://leautonomie.asmel.eu).
...
No alle revoche di incarichi di preposizione ai vertici delle strutture
giustificati da “riorganizzazioni” solo fittizie, ma nella realtà volti
semplicemente ad incidere sull’incaricato che finisce per essere esautorato
a vantaggio di altri.
L’ordinanza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 22.07.2022, n. 22926
interviene opportunamente per stigmatizzare una prassi illegittima ma molto
diffusa nelle amministrazioni locali e non solo: l’abitudine, cioè, di
incidere negativamente sugli incarichi di dirigenti o posizioni
organizzative, destituendo soggetti “non graditi” o non “in linea”, sulla
base di riorganizzazioni che non riorganizzano nulla, ma semplicemente si
limitano a sostituire il precedente incaricato con un altro, senza
rispettare alcuna delle disposizioni appositamente previste dalla legge e
dalla contrattazione collettiva proprio per evitare revoche ad nutum.
(...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO: L’ipotesi
di sopravvenuti mutamenti organizzativi non ha attinenza con la procedura di
valutazione annuale né con la ratio, di partecipazione e di garanzia del
dipendente, sottesa all’obbligo del contraddittorio, sicché la previsione
del previo contraddittorio con l’interessato (ex art. 9, comma 4, del CCNL
31.03.1999 Regioni ed Autonome Locali)
riguarda la sola ipotesi di revoca anticipata dell’incarico di posizione
organizzativa in conseguenza dello specifico accertamento di risultati
negativi e non anche in caso di revoca per intervenuti mutamenti
organizzativi.
---------------
RILEVATO CHE
1. Con sentenza del 15.04.2016 la Corte di appello di Roma, in riforma della
sentenza del Tribunale di Tivoli, rigettava la domanda proposta da LU.FI.,
dipendente del Comune di GUIDONIA MONTECELIO (in prosieguo: il COMUNE):
- per l’accertamento della illegittimità della revoca anticipata
della posizione organizzativa conferitale presso l’Area VII del Comune a
seguito del trasferimento, con atto del 13.07.2010, dall’area VII all’area
III, per la dichiarazione di illegittimità dello stesso trasferimento ed il
risarcimento del danno patrimoniale;
- per l’accertamento di una fattispecie di mobbing e per il
risarcimento del conseguente danno non patrimoniale.
2. La Corte territoriale osservava che l’articolo 9 CCNL del Comparto
REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI del 31.03.1999 prevedeva due ipotesi di revoca
anticipata della posizione organizzativa, rispettivamente per esigenze
organizzative sopravvenute e per l’accertamento di risultati negativi.
3. Soltanto in questa seconda ipotesi era previsto il previo contraddittorio
con il dipendente interessato e non in caso di revoca per ragioni
organizzative, come confermato anche dalle disposizioni regolamentari.
4. Nella fattispecie di causa, il provvedimento di riassegnazione della FI.,
che non configurava trasferimento, era adeguatamente motivato per
relationem; dalla riorganizzazione disposta dal Comune, di cui dava atto
la stessa dipendente, derivava la necessità di garantire all’area III una
dirigenza tecnica ed un funzionario amministrativo (professionalità
posseduta dalla FI.).
5. Dalla legittimità degli atti impugnati derivava l’accoglimento
dell’appello incidentale del COMUNE e l’assorbimento dell’appello principale
della FI..
6. Ha proposto ricorso per cassazione della sentenza LU.FI., articolato in
sei ragioni di censura ed illustrato con memoria, cui ha resistito il COMUNE
con controricorso.
CONSIDERATO CHE
...
27. Con il quinto motivo la ricorrente ha lamentato ―ai sensi
dell’articolo 360 nr. 3 e nr. 5 cod. proc. civ.― la violazione e falsa
applicazione degli articoli 8 e 9 CCNL 31.03.1999 e dell’articolo 9 del
regolamento delle posizioni organizzative nonché l’omessa motivazione,
censurando la statuizione secondo cui l’obbligo del previo contraddittorio
con il dipendente riguarderebbe soltanto la revoca della posizione
organizzativa in conseguenza dell’ accertamento di risultati negativi e non
anche il caso di revoca per mutamenti organizzativi.
28. Si evidenzia che l’articolo 9 del CCNL REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI del
31.03.1999 prevede la procedura in contraddittorio, al comma quattro, «per
la revoca anticipata di cui al comma 3», comma comprendente entrambe le
ipotesi di revoca.
29. Si deduce, altresì, la carenza di motivazione della revoca, in quanto la
sentenza impugnata avrebbe avallato la tesi della revoca della posizione
organizzativa implicita nell’atto di trasferimento ad altra struttura,
laddove l’articolo 9 del regolamento delle posizioni organizzative richiede
la motivazione in ogni caso di revoca della posizione organizzativa.
30. La censura è inammissibile nella parte in cui deduce in via diretta la
violazione del regolamento comunale sulle posizioni organizzative, in quanto
esso non costituisce norma di diritto, ma disposizione adottata dal datore
di lavoro pubblico con i poteri privatistici di gestione del rapporto di
lavoro.
31. La deduzione della violazione dell’obbligo di motivazione della revoca
anticipata della posizione organizzativa ―obbligo previsto dall’articolo 9,
comma tre, CCNL REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI 31.03.1999― non si confronta con
la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha ritenuto assolto
l’obbligo di motivazione, in quanto detta motivazione era contenuta nello
stesso atto di riassegnazione della Fi. ad altra area (pagina 5 della
sentenza impugnata, capoverso 4 e capoverso 5).
32. Il motivo è infondato quanto all’assunta necessità del contraddittorio
con il dipendente interessato in caso di revoca della posizione
organizzativa dovuta a «mutamenti organizzativi».
33. Vero è che l’articolo 9, comma quattro, del CCNL REGIONI ED AUTONOMIE
LOCALI del 31.03.1999 prevede la procedura in contraddittorio per la revoca
anticipata dell’incarico «di cui al comma 3» e che il predetto comma
tre si riferisce congiuntamente alla revoca anticipata «in relazione a
intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico
accertamento di risultati negativi».
34. Tuttavia, la disposizione contenuta nell’ultima parte del comma quattro
va letta congiuntamente alle precedenti proposizioni dello stesso comma,
relative alla valutazione annuale dei risultati dell’ attività svolta dai
dipendenti cui sia attribuito un incarico di posizione organizzativa.
35. In particolare, il comma quattro dispone che la valutazione dei
risultati, regolata da criteri e procedure predeterminati dall’ente, se
positiva, dà titolo anche alla corresponsione della retribuzione di
risultato; se non positiva deve essere preceduta dal contraddittorio con il
dipendente interessato. L’ultima parte della stessa disposizione si
riferisce chiaramente ad una terza eventualità― ovvero l’accertamento «specifico»
di risultati negativi― che, a norma del precedente comma tre, determina
anche la revoca anticipata della posizione organizzativa e si limita a
prevedere che anche in questo caso la valutazione deve essere preceduta dal
contraddittorio con il dipendente interessato.
36. Resta invece fuori dalla previsione del comma quattro l’ipotesi di
sopravvenuti mutamenti organizzativi, che non ha alcuna attinenza con la
procedura di valutazione annuale né con la ratio, di partecipazione e di
garanzia del dipendente, sottesa all’obbligo del contraddittorio.
37. In conclusione, l’articolo 9, comma quattro, del CCNL 31.03.1999 REGIONI
ED AUTONOMIE LOCALI prevede l’obbligo del previo contraddittorio con
l’interessato per la sola ipotesi di revoca anticipata dell’incarico di
posizione organizzativa in conseguenza dello specifico accertamento di
risultati negativi e non anche in caso di revoca per intervenuti mutamenti
organizzativi, come correttamente affermato nella sentenza impugnata (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 11.07.2022 n. 21930). |
PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi
dirigenziali esterni, «sì» alla clausola risolutiva del contratto in caso di
soppressione della struttura.
In sede di incarico dirigenziale conferito dalla Pa a un soggetto esterno è
legittima la clausola che prevede una condizione risolutiva al contratto di
lavoro, con riferimento al caso di sopravvenuta soppressione della struttura
o di sostanziale modifica delle competenze alla stessa assegnate.
Tale
condizione risolutiva non incorre nella fattispecie di nullità sancita
dall'articolo 1418 del codice civile per le clausole negoziali di
risoluzione automatica del contratto di lavoro subordinato, né dà luogo a
un'ipotesi di licenziamento o di revoca dell'incarico dirigenziale in
violazione del sistema ordinamentale.
Al contrario, la clausola costituisce la previsione anticipata di un effetto
risolutivo che si produrrebbe comunque secondo l'articolo 1463 del codice
civile (impossibilità totale nel contratto con prestazioni corrispettive).
Con queste motivazioni la Corte di Cassazione (Sezione Lavoro,
sentenza 10.05.2022 n. 14758) ha accolto il ricorso
proposto dalla Regione Marche contro la decisione n. 286/2015 della Corte
d'Appello di Ancona, che:
• aveva dichiarato l'illegittimità della delibera regionale di risoluzione
del contratto di lavoro stipulato nel 2011, avente a oggetto l'affidamento
di un incarico per la dirigenza della struttura «Dipartimento per la salute
e per i servizi sociali»;
• aveva condannato la Regione Marche al ripristino del rapporto di lavoro con
il dirigente interessato e al risarcimento del danno.
La clausola risolutiva del contratto era stata applicata dopo il varo della
legge regionale 45/2012 che disponeva la soppressione del «Dipartimento per
la salute e per i servizi sociali» e la sostituzione di detta struttura con
due nuovi servizi, cioè il «Servizio sanità» e il «Servizio politiche
sociali», sempre incardinati nell'organizzazione regionale del settore. Di
qui la risoluzione del rapporto con il dirigente del disciolto Dipartimento
e l'avvio del contenzioso giunto poi all'esame della Suprema Corte.
La cassazione ha sostenuto che il divieto di clausole negoziali di
risoluzione automatica del contratto non può essere automaticamente
trasposto, nel pubblico impiego, al rapporto di lavoro subordinato a termine
per lo svolgimento di un incarico dirigenziale.
Questo perché secondo il testo unico in materia negli incarichi dirigenziali
si distinguono due momenti, ossia il conferimento dell'incarico, che ha
luogo per atto unilaterale della Pa, e la fissazione del trattamento
economico, che viene disciplinato con contratto (articolo 19 del Dlgs
165/2001).
In tale contesto, la revoca ante tempus è consentita dall'articolo 21 del
decreto nella sola ipotesi di responsabilità dirigenziale, mentre nel caso
di motivate esigenze organizzative il sistema ha codificato la facoltà della
Pa di disporre il passaggio dei dirigenti ante tempus ad altro incarico.
Nel caso di specie, la clausola apposta al contratto dirigenziale si
riferiva all'ipotesi di una soppressione della struttura o di una modifica
delle sue competenze «effettuate nelle stesse forme previste dalla vigente
normativa per la sua istituzione», facendo rinvio a un evento non solo
futuro e incerto, ma anche indipendente dalla volontà delle parti.
Tutto ciò ha indotto la Suprema Corte a concludere che la sentenza impugnata
ha operato un'indebita sovrapposizione della disciplina del licenziamento a
quella della risoluzione dell'incarico dirigenziale per la sopravvenuta
modifica della struttura organizzativa della Pa
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 23.05.2022). |
PUBBLICO IMPIEGO: In caso di soppressione della struttura
è legittima la clausola risolutiva
del contratto di lavoro del dirigente esterno.
In caso di sopravvenuta soppressione della struttura o di sostanziale
modifica delle competenze assegnate alla stessa è legittima la clausola che
preveda una condizione risolutiva del contratto di lavoro relativo ad un
incarico dirigenziale conferito dalla P.A. ad un soggetto esterno.
Tanto, ai sensi dell’art. 1463 c.c. per impossibilità sopravvenuta nel
contratto con prestazioni corrispettive, non ricorrendo né la fattispecie
della nullità ex art. 1418 c.c. per le clausole negoziali di risoluzione
automatica del contratto di lavoro subordinato, né un'ipotesi di
licenziamento o di revoca dell'incarico dirigenziale in violazione del
sistema ordinamentale.
---------------
7. Il ricorso, i cui motivi possono essere trattati congiuntamente per la
loro connessione, è fondato.
8. Giova premettere che il RU. venne incaricato dalla REGIONE MARCHE, con il
contratto del 14.01.2011, quale soggetto esterno, di dirigere il ««DIPARTIMENTO
PER LA SALUTE E PER I SERVIZI SOCIALI»; tale dipartimento era stato
istituito con la Legge Regionale Marche 22.11.2010 nr. 17, articolo 4,
nell'ambito delle strutture organizzative della Giunta Regionale.
9. Secondo l'articolo 9 del contratto di lavoro, il rapporto si sarebbe
risolto di diritto «in caso di soppressione della struttura o di
sostanziale modifica delle competenze alla stessa assegnate, effettuate
nelle stesse forme previste dalla vigente normativa per la sua istituzione».
La L.R. MARCHE 27.12.2012 nr. 45, articolo 19, sostituì al «DIPARTIMENTO
PER LA SALUTE E PER I SERVIZI SOCIALI» due servizi, il SERVIZIO SANITA'
ed il SERVIZIO POLITICHE SOCIALI, sempre incardinati nell'ambito delle
strutture organizzative della Giunta Regionale. Di qui il rilievo del
suddetto articolo 9 del contratto di lavoro.
10. La Corte di merito ha ritenuto nulla tale previsione contrattuale
applicando un principio— la nullità ex articolo 1418 cod. civ. delle
clausole negoziali di risoluzione automatica del contratto di lavoro
subordinato— enunciato da questa Corte (ex aliis, Cass. sez. un.
07.08.1998 n. 7755; Cassazione civile sez. lav., 04/06/1999, n. 5501) in
riferimento ai rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato di
diritto privato; si è, infatti, affermato che ammettere fattispecie di
estinzione del rapporto di lavoro non sottoposte ai limiti generali del
sistema dei licenziamenti significherebbe ridurre arbitrariamente l'ambito
di operatività del sistema stesso.
11. Tale principio, per quanto di seguito verrà illustrato, non può essere
automaticamente trasposto, nel pubblico impiego privatizzato, al rapporto di
lavoro subordinato a termine che si instaura per lo svolgimento di un
incarico dirigenziale.
12. Va, infatti, ricordato che —secondo la generale disciplina dell'articolo
19 D.Lgs. 165/2001—nel conferimento degli incarichi dirigenziali si
distinguono due momenti: il conferimento dell'incarico, per atto unilaterale
della amministrazione e la fissazione del trattamento economico, in via
contrattuale. Nel caso in cui l'incarico venga conferito ad un soggetto
esterno all'amministrazione, con il contratto si costituisce anche un
rapporto di lavoro, autonomo (si pensi alle cariche di vertice delle Aziende
Sanitarie Locali) o dipendente, comunque a termine, in quanto collegato alla
durata, ex lege temporanea, dell'incarico; nella specie, per quanto è
pacifico in causa, il rapporto di lavoro era di natura subordinata.
13. Alla unilateralità del conferimento dell'incarico dirigenziale non
corrisponde una generale discrezionalità di revoca da parte della pubblica
amministrazione: la revoca ante tempus è consentita dal D.Lgs. nr.
165/2001, articolo 21, nell'ipotesi di responsabilità dirigenziale. La
contrattazione collettiva— (per i dirigenti dell'Area II- Regioni ed
autonomie locali, articolo 22 CCNL 1994/1997 ed articolo 13 CCNL 1998/2001)—
ha disciplinato, invece, una revoca per ragioni organizzative di natura
oggettiva, che ha trovato poi riconoscimento a livello legislativo
nell'articolo 1, comma diciotto, D.L. nr. 138/2011, conv. in L. nr.
148/2011.
La norma ha codificato la facoltà delle amministrazioni pubbliche di
disporre il passaggio dei dirigenti ante tempus ad altro incarico per
motivate esigenze organizzative.
14. Del resto, la possibilità di revoca dell'incarico dirigenziale per
ragioni organizzative, prima ancora di essere prevista dalla contrattazione
collettiva e dal legislatore del 2011, derivava dal potere della pubblica
amministrazione di determinare le linee fondamentali di organizzazione dei
propri uffici (articolo 2, comma uno e articolo 5, comma uno, D.Lgs. nr.
165/2001) e, perciò, eventualmente di sopprimerli, con riflessi indiretti
sulle relative posizioni di responsabilità.
15. Nell'ipotesi ordinaria, in cui l'incarico dirigenziale è affidato ad un
dirigente di ruolo della amministrazione che lo conferisce, la cessazione
dell'incarico —e del contratto che ad esso accede— non incide sul rapporto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato del dirigente; quando l'incarico
è assegnato, invece, ad un soggetto esterno —come nella fattispecie di
causa— con la revoca dell'incarico si risolve anche il rapporto di lavoro.
16. Dalla esposizione sin qui svolta risulta che il rapporto di lavoro a
termine che si instaura in caso di incarico dirigenziale esterno cessa
anticipatamente, in caso di subordinazione, non solo per effetto di
licenziamento per giusta causa, ex articolo 2119 cod. civ. (nelle ipotesi di
responsabilità disciplinare) ma anche per revoca dell'incarico, all'esito
dell'accertamento della responsabilità dirigenziale (responsabilità, quest'ultima,
distinta da quella disciplinare) ovvero per ragioni organizzative.
17. Nelle ipotesi di revoca dell'incarico esterno, la cessazione del
rapporto di lavoro dirigenziale a termine è effetto della dipendenza di tale
rapporto dall'incarico conferito.
18. Un meccanismo analogo si verifica nelle ipotesi in cui la soppressione
di una struttura amministrativa si verifichi— invece che per atto di
riorganizzazione della stessa amministrazione— in forza di una disposizione
di legge.
19. In detta eventualità, come già chiarito da questa Corte nell'arresto del
07.09.2021 nr. 24079, la risoluzione del rapporto di lavoro si verifica
secondo lo schema civilistico della impossibilità sopravvenuta della
prestazione, ex articolo 1463 cod. civ. (il caso esaminato nella pronuncia
citata riguardava la risoluzione del rapporto di lavoro del direttore
generale di una ASL a seguito della riorganizzazione del servizio sanitario
per legge regionale, con soppressione della Azienda sanitaria). Si è, in
particolare, evidenziato che il conferimento dell'incarico dirigenziale dà
luogo ad un rapporto sinallagmatico in cui la prestazione di ciascuna celle
parti trova la sua causa nella prestazione dell'altra ed operano i principi
generali per cui la sopravvenuta impossibilità assoluta della prestazione
importa, con il venir meno della causa del contratto, la risoluzione dello
stesso e, di conseguenza, la risoluzione del rapporto.
20. Nella fattispecie di causa, l'ipotesi della soppressione dell'ufficio
dirigenziale è stata anticipatamente regolata dalle parti a livello
negoziale, con la previsione della automatica risoluzione del rapporto di
lavoro.
Trattandosi di ufficio istituito per legge regionale, l'ipotesi della sua
soppressione o della modifica delle sue competenze «effettuate nelle
stesse forme previste dalla vigente normativa per la sua istituzione»,
rinviava al verificarsi di un fatto sopravvenuto oggettivo ed indipendente
dalla volontà delle parti, incerto nell'an e nel quando. La clausola,
dunque, apponeva una condizione risolutiva al contratto di lavoro.
21. Detta condizione non è illecita, in quanto non prevede una ipotesi di
licenziamento o di revoca dell'incarico dirigenziale in deroga al sistema
ordinamentale, ma costituisce la anticipata previsione di un effetto che, in
assenza della clausola accessoria, si sarebbe comunque prodotto secondo la
previsione dell'articolo 1463 cod. civ.
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza
10.05.2022 n. 14758). |
PUBBLICO IMPIEGO: Cassazione,
il mancato rinnovo dell'incarico di posizione organizzativa non è demansionamento.
Il conferimento di una posizione organizzativa non assume rilievo in termini
di apicalità di mansioni in quanto determina un mutamento non del profilo
professionale ma delle sole funzioni -con l'attribuzione di una posizione
di responsabilità e correlato beneficio economico- le quali cessano alla
naturale scadenza dell'incarico senza che per questo di determini un demansionamento.
Lo afferma la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con l'ordinanza
08.04.2022 n. 11503.
Il demansionamento
La Corte di appello ha negato la configurabilità di una ipotesi di
demansionamento in danno di un lavoratore a cui non era stato rinnovato
l'incarico di posizione organizzativa e ha rigettato la richiesta
risarcitoria.
Questi ricorre in cassazione per violazione e falsa
applicazione dell'articolo 52 del Dlgs 165/2001, deducendo il
demansionamento che sarebbe stato operato nei suoi confronti, con
riconduzione delle attività attraverso la sottrazione del ruolo di
coordinamento fino ad allora gestite.
La suprema corte demolisce questa tesi, considerando che le categorie C e D
delineate nell'allegato A al Ccnl del 31.03.1999 sono distinte non per la
funzione di coordinamento -che sarebbe rinvenibile nella seconda e non
invece nella prima, sicché la sottrazione di detta funzione produrrebbe
ineluttabilmente in una ipotesi di demansionamento- quanto per il fatto che
la categoria C è connotata da competenze monospecialistiche mentre la D ne
ha di plurispecialistiche.
Inoltre la responsabilità dei risultati attiene a
diversi processi produttivi e non a uno solo di essi per la categoria D e
solo quest'ultima è deputata alla risoluzione di problemi di elevata
complessità.
L'equivalenza
A sostegno della propria tesi la Cassazione propone due considerazioni.
La
prima è che nel pubblico impiego privatizzato l'articolo 52 del Dlgs
165/2001 assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza delle mansioni,
con riferimento alla classificazione prevista dai contratti,
indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il
giudice possa sindacarne la natura equivalente, inapplicabile essendo nel
pubblico impiego l'articolo 2103 del codice civile.
La seconda è che il
conferimento della posizione organizzativa non assume rilievo in termini di apicalità
di mansioni -differenziandosi dalle altre posizioni della
categoria, nella specie, proprio la D, non caratterizzata dallo svolgimento
di compiti di responsabilità di un servizio, solo sotto il profilo economico- non determinandosi un mutamento di profilo professionale, bensì soltanto
di funzioni, comportanti unicamente l'attribuzione di una posizione di
responsabilità con correlato beneficio economico, le quali cessano alla
naturale scadenza dell'incarico, con la conseguenza che la privazione di
esse non costituisce una ipotesi di demansionamento
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.04.2022).
---------------
SENTENZA
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa
applicazione dell’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001 in relazione all’Allegato A
del c.c.n.l. del 31.03.1999.
In estrema sintesi, ci si duole che il lavoratore, ufficiale di Polizia
Municipale con il grado di tenente, inquadrato nella cat. D1, avrebbe invece
svolto mansioni e compiti propri del mero agente, appartenente alla
categoria C.
Si lamenta pertanto l’impossibilità di ricondurre detta ipotesi all’alveo
dell’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001 e comunque si contesta che di detta
disposizione possa darsi “una interpretazione del tutto formale slegata
da un concetto di reale difesa del patrimonio professionale del lavoratore”.
2. Con il secondo mezzo si censura il mancato esame di un fatto
decisivo ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
La questione centrale, riproposta sotto altro profilo, resta quella del
dedotto demansionamento che sarebbe stato operato, con riconduzione delle
attività del tenente La. a quelle del mero agente di polizia municipale e
quindi nell’alveo della categoria C e non D, attraverso la sottrazione del
ruolo di coordinamento della viabilità e del comando della Polizia
ambientale.
Viene sottolineato che il tratto differenziale tra le due categorie C e D è
rappresentato proprio dal coordinamento, venendo meno il quale non vi è
alcuna possibilità di distinguere tra le mansioni, le funzioni e i compiti
propri delle due sopraindicate categorie.
3. I due motivi possono essere trattati congiuntamente perché entrambi
riferiti alla questione del dedotto demansionamento.
Orbene, l’esame dei tratti descrittivi delle due categorie come delineati
nel c.c.n.l. del 31.03.1999, all. A -che questa Corte può conoscere
indipendentemente dalle allegazioni delle parti, atteso che costituisce
principio consolidato (fra le ultimissime si veda, Cass. n. 7641/2022)
quello secondo il quale il contratto collettivo nazionale di lavoro del
pubblico impiego è conoscibile d’ufficio dal giudice, il quale procede con
mezzi propri, secondo il principio “iura novit curia”, al suo
reperimento, a prescindere dall’iniziativa di parte- consente di evidenziare
l’infondatezza della deduzione secondo cui il segno distintivo tra le due
categorie consisterebbe nella funzione di coordinamento rinvenibile nella
categoria D e non invece nella C, sicché la sottrazione di detta funzione
ridonderebbe ineluttabilmente in una ipotesi di demansionamento.
L’assunto è infondato, perché il discrimine fra le due categorie risiede non
già nelle funzioni di coordinamento (potenzialmente attribuibili anche a
personale inquadrato in categoria C), ma nel rilievo che la categoria C è
connotata da competenze monospecialistiche, mentre plurispecialistiche sono
quelle della categoria D; inoltre la responsabilità dei risultati attiene a
diversi processi produttivi e non ad uno solo di essi per la categoria D e
solo quest’ultima è deputata alla risoluzione di problemi di elevata
complessità.
Per il resto, le ulteriori doglianze svolte nei due motivi di ricorso -con
le quali si chiede di fatto al giudice di legittimità di rivalutare gli
ordini di servizio dai quali la Corte territoriale ha desunto che il
lavoratore è sempre stato assegnato a compiti e mansioni conferenti il suo
grado e la categoria D di appartenenza- sono inammissibili perché si
traducono in una richiesta di rivalutazione del materiale probatorio che non
può essere compiuta in questa sede.
Corroborano e consolidano le ragioni del rigetto anche altre due
considerazioni.
In primo luogo va data continuità al principio, più volte affermato da
questa S.C. (v., ex aliis, Cass. n. 18817/2018), secondo cui in tema
di pubblico impiego privatizzato l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001
assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza delle mansioni, con
riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti
collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita,
senza che il giudice possa sindacarne la natura equivalente, inapplicabile
essendo nel pubblico impiego l'art. 2103 c.c.
In secondo luogo, in disparte quanto si è già innanzi detto in ordine alla
funzione di coordinamento ed al rilievo che essa non costituisce
connotazione distintiva della categoria D rispetto alla C, si deve
aggiungere in termini più generali (si veda, tra le altre, Cass. n.
22405/2020) che il conferimento della posizione organizzativa (ex c.c.n.l.
del 31.03.1999) non assume rilievo in termini di apicalità di mansioni,
differenziandosi dalle altre posizioni della categoria, nella specie,
proprio la D, non caratterizzata dallo svolgimento di compiti di
responsabilità di un servizio, solo sotto il profilo economico - non
determinandosi un mutamento di profilo professionale, bensì soltanto di
funzioni, comportanti unicamente l'attribuzione di una posizione di
responsabilità con correlato beneficio economico, le quali cessano alla
naturale scadenza dell'incarico, con la conseguenza che la privazione di
esse non costituisce una ipotesi di demansionamento.
Ne consegue l’infondatezza del ricorso. |
PUBBLICO IMPIEGO: P.A,
demansionamento a maglie strette.
CASSAZIONE SULLA MANCATA CONFERMA DELL'INCARICO NELL'AREA DELLE P.O.
La mancata conferma dell'incarico nell'area delle posizioni organizzative
non è demansionamento.
E' la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, a tornare a chiarirlo con
ordinanza 08.04.2022 n. 11503, relativa
proprio alla vicenda di un dipendente di ente locale vistosi privato
dell'incarico e, per questa ragione, indotto a rivolgersi all'autorità
giudiziaria.
Gli spunti che offre la sentenza sono diversi. La conclusione che propone
appare chiara ed inequivocabile: l'attribuzione ai dipendenti locali
dell'incarico nell'area delle posizioni organizzative non implica “un
mutamento di profilo professionale, bensì soltanto di funzioni”. Con la
conseguenza dell'attribuzione “di una posizione di responsabilità con
correlato beneficio economico, le quali cessano alla naturale scadenza
dell'incarico, con la conseguenza che la privazione di esse non costituisce
una ipotesi di demansionamento”.
La circostanza, cioè, che l'incarico nell'area delle posizioni organizzative
sia di per sé precario, a tempo determinato e, comunque, soggetto ad una
serie di condizioni (come la valutazione positiva o anche il mantenimento
nel dell'assetto organizzativo nel quale la PO è prevista) impedisce di
considerarlo come un'acquisizione di status giuridico ed economico
definitiva, alla stregua del passaggio ad un inquadramento contrattuale
superiore.
E' proprio questo il tratto distintivo tra la disciplina delle Posizioni
Organizzative nella pubblica amministrazione e l'area Quadri (alla quale
spesso le PO sono gergalmente assimilate) nel privato. L'accesso all'area
Quadri, infatti, comporta l'acquisizione definitiva di una qualifica, cosa
che non avviene con l'incarico nell'area delle PO. Infatti, proprio per
questo la tornata della contrattazione collettiva del triennio 2019-2021
intende istituire la cosiddetta nuova “quarta area”, cioè l'Area delle
elevate professionalità, che costituirà, al contrario delle PO, una nuova e
qualifica: i dipendenti che saranno inquadrati in tale area, l'acquisiranno
definitivamente.
Non convince, invece, la sentenza della Cassazione laddove poco prima
afferma che l'incarico come PO “non assume rilievo in termini di apicalità
di mansioni, differenziandosi dalle altre posizioni della categoria, nella
specie, proprio la D, non caratterizzata dallo svolgimento di compiti di
responsabilità di un servizio”.
E' esattamente il contrario. Negli enti locali privi di dirigenti, già
l'articolo 11 del Ccnl 31.03.1999 (vigente al momento dell'instaurazione
della vertenza) disponeva che gli incarichi in PO potessero essere assegnati
“esclusivamente a dipendenti cui sia attribuita la responsabilità degli
uffici e dei servizi formalmente individuati secondo il sistema
organizzativo autonomamente definito e adottato”, in applicazione della
previsione dell'articolo 109, comma 2, del d.lgs 267/2000. Tale previsione
nel Ccnl 21.05.2018 è stata confermata ed ulteriormente precisata con un
riferimento espresso all'apicalità, nell'articolo 17, comma 1: “Negli enti
privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili delle
strutture apicali, secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono
titolari delle posizioni organizzative disciplinate dall'art. 13”.
Negli enti in cui siano presenti qualifiche dirigenziali soltanto la
posizione organizzativa non è connessa ad incarichi apicali, riservati ai
dirigenti, ma va comunque riconnessa allo svolgimento di funzioni connesse
ad una responsabilità specifica di risultato alla guida di strutture a
rilevanza interna.
Le sentenza, infine, fornisce un canone per distinguere la categoria C dalla
D. La Cassazione ritiene che il discrimine fra le due categorie risiede non
consiste nell'esercizio di funzioni di coordinamento, perché esse sono
potenzialmente attribuibili anche a personale inquadrato in categoria C
(ovviamente, per coordinare altro personale di pari categoria o inferiore).
Il tratto distintivo, allora, consiste nella circostanza che “la categoria C
è connotata da competenze monospecialistiche” e le responsabilità da
risultato riguardano un solo specifico processo produttivo. Al contrario, ai
dipendenti in categoria D si richiedono competenze plurispecialistiche e “la
responsabilità dei risultati attiene a diversi processi produttivi”; per
altro, solo la categoria D “è deputata alla risoluzione di problemi di
elevata complessità”
(articolo ItaliaOggi del 16.04.2022). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Decadenza
da incarichi dirigenziali, per la PA si tratta di poteri datoriali di
gestione paritetica del rapporto di lavoro.
Il TAR Puglia-Bari, Sez. I, con la
sentenza
30.03.2022 n. 460,
ha chiarito che negli atti di decadenza degli incarichi dirigenziali,
l'amministrazione non esercita potestà pubblicistiche in posizione di
supremazia speciale, ma attua poteri datoriali di gestione paritetica del
rapporto di lavoro, che rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario,
in quanto non sussiste (articolo 63 del Dlgs 165/2001), la speciale (e
residuale) ipotesi di giurisdizione amministrativa.
Il fatto
Il Tar pugliese si è occupato dell'impugnazione di un provvedimento
amministrativo, adottato dal segretario comunale in qualità di responsabile
per la prevenzione della corruzione e della trasparenza, con cui, applicando
i precetti del Dlgs 39/2013, aveva dichiarato la nullità del conferimento
dell'incarico dirigenziale, poiché il dirigente era destinatario di una
sentenza penale per reati contro la Pa.
La sentenza in esame, pur
dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a favore
di quello ordinario, pone in evidenza la natura del potere datoriale
esercitato nel caso di specie.
La decisione
Il collegio giudicante ha osservato che le causali degli atti di decadenza
presuppongono non già l'esercizio di poteri autoritativi discrezionali da
parte dell'Amministrazione, ma l'esercizio di un potere basato
sull'accertamento di specifici inadempimenti o di fatti specifici, rispetto
ai quali la posizione dell'interessato non è certamente qualificabile come
interesse legittimo, quanto piuttosto come un vero e proprio diritto
soggettivo alla conservazione dell'incarico.
In altri termini, gli atti di
decadenza non possono considerarsi espressione di poteri pubblicistici
riguardanti la copertura di un ufficio pubblico, rispetto ai quali la
correlata posizione del privato è di interesse legittimo. Essi sono stati
emanati dall'Amministrazione, in applicazione di norme di legge, sulla
scorta della responsabilità fatta gravare sull'ente dal Dlgs 39/2013 sul
rispetto delle norme sull'incompatibilità (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 02.05.2022).
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SENTENZA
Come puntualmente premesso in fatto dal Tar Lazio-Roma, con ordinanza
declinatoria di competenza -OMISSIS-, con sentenza -OMISSIS- il Tribunale di
Frosinone ha condannato l’odierno ricorrente, dirigente presso il Comune di
Cerignola, per il reato di associazione per delinquere di cui all'art. 416
c.p. finalizzato alla commissione di più delitti contro la pubblica
amministrazione e, in particolare, delitti di cui agli artt. 353, 353-bis,
318, 319, 321 c.p., a tre anni di reclusione con interdizione temporanea dai
pubblici uffici per cinque anni, dichiarando contestualmente «il non
doversi procedere» nei confronti dello stesso imputato in relazione ad
alcuni reati scopo (tra cui quello di corruzione) per intervenuta
prescrizione degli stessi.
A seguito di tale pronuncia e dell’intervenuto parere dell’ANAC (per la
puntuale indicazione delle interlocuzioni con l’Autorità e delle
determinazioni dell’Ente nelle more intervenute si rinvia alla predetta
ordinanza che ripercorre puntualmente gli eventi in fatto), il Segretario
Generale del Comune di Cerignola, con atto del 09.12.2021, -OMISSIS-,
gravato in questa sede –adottato a seguito della necessaria istruttoria e
previo contraddittorio con l’interessato– ha, quindi, dichiarato la nullità,
ai sensi dell’art. 17, d.lgs. n. 39/2013, dell’atto di «Conferimento
incarico dirigenziale di responsabile settore Sicurezza» adottato dal
Comune con decreto 30.06.2021, n. -OMISSIS-.
Gravato tale atto e quelli connessi in epigrafe indicati, all’udienza
cautelare del 23.03.2022 la causa è stata trattenuta in decisione, previa
sottoposizione alle parti, ex art. 73 cpa, di possibili profili di difetto
di giurisdizione, per come evidenziati anche nell’ordinanza già citata
-OMISSIS-.
Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione.
Sul punto la Sezione condivide l’orientamento, puntualmente riportato dalla
predetta pronuncia, secondo cui “le causali degli atti di decadenza
presuppongono non già l’esercizio di poteri autoritativi discrezionali da
parte dell’Amministrazione, ma l’esercizio di un potere basato
sull'accertamento di specifici inadempimenti o di fatti specifici, rispetto
ai quali la posizione dell'interessato non è certamente qualificabile come
interesse legittimo, quanto piuttosto come un vero e proprio diritto
soggettivo alla conservazione dell'incarico. In altri termini, gli atti di
decadenza in questione non possono considerarsi espressione di poteri
pubblicistici riguardanti la copertura di un ufficio pubblico, rispetto ai
quali la correlata posizione del privato è di interesse legittimo, come ha
affermato il Consiglio di Stato. Essi sono stati emanati
dall'Amministrazione, in applicazione di norme di legge, il primo sulla
scorta della responsabilità fatta gravare sull’ente dal d.lgs. 08.04.2013,
n. 39 in merito al rispetto delle norme sull'incompatibilità etc. e il
secondo per il fatto estrinseco rappresentato dall'intervenuto termine di
scadenza dell'incarico; pertanto con essi non è stata esercitata alcuna
discrezionalità amministrativa” (Cass. Civ., SS.UU., n. 1869/2020).
Inoltre, condivisibile è anche l’assimilazione tra gli atti di decadenza
(quale quello in questa sede gravato) e quelli di revoca (od anche
conferimento) degli incarichi dirigenziali, per i quali l’amministrazione
non esercita potestà pubblicistiche in posizione di supremazia speciale, ma
attua poteri datoriali di gestione paritetica del rapporto di lavoro,
rientranti nella giurisdizione del G.O., in quanto per essi non sussiste, ai
sensi dell’art. 63 d.lgs. n. 165/2001, la speciale (e residuale) ipotesi di
giurisdizione amministrativa.
Sulla scorta di tali argomenti, va declinata la giurisdizione di questo
Giudice in favore di quello ordinario, dinanzi al quale il ricorso andrà
riassunto nei termini di legge. |
PUBBLICO IMPIEGO: P.
L. Portaluri,
Pensieri scomposti sugli incarichi
dirigenziali (24.02.2021 - tratto da www.federalismi.it).
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Abstract: Il tema degli incarichi dirigenziali si muove su un
crinale indeterminato tra pubblico e privato. Nonostante l’orientamento
ormai noto e granitico della Cassazione, resta invero irrisolto il problema
della loro esclusiva funzionalizzazione alla cura degli interessi pubblici,
che ne esclude la loro equiparazione a uffici di diritto comune.
Ciò rileva non solo nell’ambito della nomina e della revoca di questi
incarichi, ancora caparbiamente radicate nell’ambito giuslavoristico e
invece meglio confacenti al genus degli atti amministrativi, ma anche
nell’ambito della responsabilità e del danno erariale. Gli aspetti che
legano inestricabilmente la dirigenza agli interessi pubblici rendono
pertanto ancor oggi il giudice ordinario poco attrezzato nel tutelare le
posizioni giuridiche che si avvicendano nelle controversie concernenti gli
incarichi dirigenziali: lo scritto riflette –nel solco di attenta dottrina–
sulla opportunità di radicare la giurisdizione innanzi al Giudice
amministrativo.
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Sommario: 1. Revoca degli incarichi dirigenziali: i profili dubbi. 2.
Riflessi giurisdizionali della privatizzazione del pubblico impiego. 3.
L’incarico dirigenziale tra ius commune e ius publicum. 4. Sulla natura
pubblica della revoca (e del conferimento) degli incarichi dirigenziali. 5.
L’interesse pubblico quale elemento decisivo per la natura giuridica degli
incarichi e per le forme di tutela. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Non è demansionamento la mancata conferma di un incarico di P.O..
«In tema di lavoro pubblico negli enti locali, il
conferimento di una posizione organizzativa non comporta l'inquadramento in
una nuova categoria contrattuale ma unicamente l'attribuzione di una
posizione di responsabilità, con correlato beneficio economico. Ne consegue,
in termini generali, che la revoca di questa posizione non costituisce
demansionamento e non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 2103 del
codice civile e del l'art. 52 del Dlgs 165/2001, trovando
applicazione il principio di turnazione degli incarichi, in forza del quale
alla scadenza il dipendente resta inquadrato nella categoria di
appartenenza, con il relativo trattamento economico».
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza
15.10.2020 n. 22405.
Il conferimento di un incarico di posizione organizzativa è possibile
esclusivamente per situazioni tipizzate, descritte nel contratto, può essere
concesso solo a termine, è connotato da una specifica retribuzione
variabile, in quanto sottoposta alla logica del programma da attuare e del
risultato ed è, infine, revocabile.
Pertanto, il rinnovo delle posizioni organizzative costituisce una facoltà
del datore di lavoro pubblico, che, se ritiene di provvedere in tal senso,
deve parimenti disporlo con atto scritto e motivato; pertanto, mentre
l'eventuale revoca dell'incarico prima della scadenza richiede un atto
scritto e motivato e può essere disposta soltanto in relazione a intervenuti
mutamenti organizzativi o in conseguenza di uno specifico accertamento di
risultati negativi, la cessazione dell'incarico conferito alla sua naturale
scadenza non obbliga l'amministrazione ad una qualsivoglia motivata
determinazione
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.10.2020).
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SENTENZA
13. Il secondo ed il quarto motivo di ricorso, che possono
essere trattati congiuntamente per la loro connessione, sono fondati, con
conseguente assorbimento del terzo motivo, che sostanzialmente
prospetta le medesime questioni sotto il profilo del vizio di motivazione.
14. Per il comparto regioni ed autonomi e locali, il CCNL del 31.03.1999, di
revisione del sistema di classificazione professionale, introduceva (con
l'articolo 3) l'inquadramento del personale non dirigenziale in quattro
categorie, progressivamente dalla lettera A alla lettera D, prevedendo per
il personale della categoria D la istituzione di un'area delle posizioni
organizzative, secondo la disciplina degli articoli 8 e seguenti. Di qui il
superamento del sistema delle qualifiche funzionali ed il re-inquadramento
del personale in servizio secondo le previsioni di corrispondenza della
tabella C allegata al contratto (articolo 7).
15. Ai sensi del richiamato articolo 8, comma 1, le posizioni organizzative
costituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione diretta di
elevata responsabilità di prodotto e di risultato: lo svolgimento di
funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità
(lettera a); lo svolgimento di attività con contenuti di alta
professionalità e specializzazione (lettera b); lo svolgimento di attività
di staff e/o di studio, ricerca, ispettive, di vigilanza e controllo
caratterizzate da elevate autonomia ed esperienza (lettera c).
A tenore del successivo comma due, tali posizioni— che non coincidono
necessariamente con quelle già retribuite con l'indennità di cui all'art.
37, comma 4, del CCNL del 06.07.1995— possono essere assegnate
esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria D, sulla base e per
effetto di un incarico a termine conferito in conformità alle regole di cui
all'art. 9.
16. Secondo tali regole, gli incarichi relativi all'area delle posizioni
organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo non
superiore a 5 anni, con atto scritto e motivato e possono essere rinnovati
con le medesime formalità. Gli incarichi possono essere revocati prima della
scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti
organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati
negativi (articolo 9, commi 1 e 3).
17. Alla attribuzione dell'incarico è collegato un trattamento economico
accessorio, composto dalla retribuzione di posizione e dalla retribuzione di
risultato (articolo 10).
18.11 CCNL del Comparto delle regioni e delle autonomie locali del
successivo quadriennio normativo 2002-2005, prevede che: «Gli enti
valorizzano le alte professionalità del personale della categoria D mediante
il conferimento di incarichi a termine nell'ambito della disciplina
dell'art. 8, comma 1, lett., b) e c), CCNL 31.03.1999 e nel rispetto di
quanto previsto dagli artt. 9, 10 e 11 del medesimo CCNL» (art. 10,
comma 1).
19. Tale disciplina è rimasta in vigore ai sensi dell'articolo 1, comma 5,
del CCNL 2006/2009, dell'11.04.2008.
20. Questa Corte ha già precisato, in tema di lavoro pubblico negli enti
locali, che il conferimento di una posizione organizzativa non comporta
l'inquadramento in una nuova categoria contrattuale ma unicamente
l'attribuzione di una posizione di responsabilità, con correlato beneficio
economico.
Ne consegue, in termini generali, che la revoca di tale posizione non
costituisce demansionamento e non rientra nell'ambito di applicazione
dell'art. 2103 c.c. e del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 52, trovando
applicazione il principio di turnazione degli incarichi, in forza del quale
alla scadenza il dipendente resta inquadrato nella categoria di
appartenenza, con il relativo trattamento economico (Cass. 25.10.2019, n.
27384; Cass. 10.07.2019 nr. 18561; Cass. 30.03.2015, n. 6367).
21. Anche le Sezioni Unite, ai fini del riparto di giurisdizione, hanno
affermato che la posizione organizzativa non determina un mutamento di
profilo professionale, che rimane invariato né un mutamento di area, ma
comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare
dell'incarico; per quanto riguarda il comparto delle autonomie locali,
secondo la disciplina degli articoli 8 e 9 del CCNL stipulato il 31.03.1999,
il conferimento dell'incarico di posizione organizzativa è possibile
esclusivamente per situazioni tipizzate, descritte nel contratto; può essere
concesso solo a termine; è connotato da una specifica retribuzione
variabile, in quanto sottoposta alla logica del programma da attuare e del
risultato; è, infine, revocabile (Cassazione civile sez. un., 14/04/2010, n.
8836).
22. Parimenti è stato chiarito che il rinnovo delle posizioni organizzative
costituisce una facoltà del datore di lavoro pubblico, che, se ritiene di
provvedere in tal senso, deve parimenti disporlo con atto scritto e
motivato; pertanto mentre l'eventuale revoca dell'incarico prima della
scadenza richiede un atto scritto e motivato e può essere disposta soltanto
in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di uno
specifico accertamento di risultati negativi, la cessazione dell'incarico
conferito alla sua naturale scadenza non obbliga l'amministrazione ad una
qualsivoglia motivata determinazione (Cassazione civile sez. lav.,
10/07/2015, n. 14472).
23. Per quanto accertato nella sentenza impugnata, nella fattispecie di
causa si è verificato il mancato rinnovo alla CA. dell'incarico di posizione
organizzativa dopo la naturale scadenza, nell'aprile 2008, che dunque non
richiedeva alcuna determinazione né motivazione.
24. La Corte territoriale si è discostata dai principi sopra esposti, che in
questa sede vanno ribaditi, sul rilievo che la originaria ricorrente era
inquadrata nella posizione D3- ex ottava qualifica funzionale; ha infatti
ritenuto che a tale inquadramento debba corrispondere la responsabilità di
un servizio, responsabilità che nello specifico organigramma della Provincia
di Oristano corrispondeva alla titolarità di una posizione organizzativa.
25. Tale conclusione si pone in contrasto con il dettato degli articoli 8 e
9 del CCNL del 31.03.2009. Il disposto dei richiamati articoli esclude ogni
possibilità di conseguire— o comunque di mantenere— la posizione
organizzativa fuori dalle procedure in essi stabilite. In tal senso è chiaro
il tenore testuale del comma due dell'articolo 8.
26. La CA., in quanto dipendente inquadrata nella ex VIII qualifica
funzionale, ha avuto accesso alla posizione economica D3 secondo la tabella
di corrispondenza allegata al CCNL 31.03.1999.
27. Nel nuovo sistema di classificazione, ai sensi dell'articolo 3 del
predetto CCNL, ciascuna categoria individua mansioni professionalmente
equivalenti e nel suo ambito sono individuate posizioni differenziate
unicamente sotto il profilo economico sicché alla posizione D3 non può
attribuirsi alcun rilievo di apicalità in termini di mansioni.
28. La categoria D, secondo la declaratoria riportata nell'allegato A al
CCNL, non è caratterizzata, contrariamente a quanto assunto in sentenza,
dallo svolgimento di compiti di responsabilità di un servizio, potendo avere
un contenuto di tipo tecnico, gestionale o direttivo. Di qui l'infondatezza
dell'assunto secondo cui nelle ipotesi in cui nell'organigramma dell'ente
locale le posizioni organizzative coincidano con la responsabilità dei
servizi sussisterebbe un diritto dei funzionari D3 ad ottenerle. |
PUBBLICO IMPIEGO: L.
Oliveri,
La rotazione degli incarichi dirigenziali non giustifica la loro revoca
anticipata.
L’ordinanza 06.10.2020 n.
21482 della Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
conferma i formidabili pericoli di utilizzo distorto della rotazione degli
incarichi dirigenziali, sciaguratamente di fatto “imposta” dall’ANAC come
misura ordinaria, senza che l’Autorità si renda conto di quanto esponga la
dirigenza a scelte illecite e precarizzanti.
L’ordinanza considera illecita la “rotazione” imposta da un sindaco
ad un dirigente, qualificandola come revoca di fatto. La pronuncia è
estremamente interessante per le molteplici motivazioni che esprime.
In primo luogo, la Cassazione critica aspramente le decisioni, cassate,
della Corte d’Appello. Questa, come si evince dal testo dell’ordinanza, con
la propria sentenza aveva ritenuto di escludere la configurabilità di un
diritto soggettivo a conservare un determinato incarico, richiamando la
sentenza della Cassazione 15.02.2010, n. 3451. Il giudice di secondo grado
ha evidenziato che “il conferimento degli incarichi dirigenziali risponde
ad esigenze di natura fiduciaria, demandato ad un ampio potere discrezionale
dell'Amministrazione, temperato dalla previsione (non obbligatoria, ma
opportuna) del criterio di rotazione, dalla fissazione di un termine ai
contratti e dalla motivazione del provvedimento”.
Secondo tale giudice di secondo grado, visto che il dirigente ricorrente
aveva coperto l’incarico per 11 anni non sarebbe stato affatto, nell'ottica
di una riorganizzazione degli uffici, fosse trasferito ad altro settore;
pertanto, la sentenza di appello ha escluso che vi fosse stata una revoca in
senso tecnico dell'incarico in precedenza conferito, ritenendo invece
sussistente un lecito trasferimento ad altro incarico dirigenziale di altro
settore dell'organigramma comunale, con la conseguenza che l'Amministrazione
non era tenuta a rispettare quelle ipotesi previste solo per la revoca in
senso tecnico”.
Una ricostruzione totalmente sbagliata ed inaccettabile. Infatti, la
Cassazione senza alcun giro di parole afferma che ha “errato la Corte
territoriale a richiamare una giurisprudenza di legittimità riferita a
fattispecie di conferimento di incarico laddove nella specie è indubbio che
le determinazioni dell'Ente abbiano di fatto comportato una revoca
dell'incarico ancora in corso di svolgimento”.
Infatti, la sentenza 15.02.2010, n. 3451 col caso di specie non ha
nulla a che vedere. Essa ha trattato una questione connessa all’assegnazione
di mansioni diverse da quelle originariamente conferite in seguito a
modificazione della pianta organica, una volta scaduto l’incarico
dirigenziale precedentemente svolto.
È nella fase di rideterminazione degli incarichi, che dovrebbe essere retta
dalla proceduralizzazione disposta dall’articolo 19, commi 1, 1-bis e 2, del
d.lgs. 165/2001, che la PA dispone di una ampia capacità di valutazione
dell’opportunità di attribuire ai dirigenti qualsiasi degli incarichi
dirigenziali disponibili. Ma, questo presuppone che gli incarichi precedenti
siano scaduti, per conseguimento del termine e, quindi, sia dato modo di
rimetterli in causa.
Nel caso trattato dall’ordinanza in commento, non è avvenuto niente di tutto
questo. Semplicemente, il Comune, tre mesi solo dopo la conferma
dell’interessato nel suo incarico, lo ha preposto ad uno diverso,
coinvolgendo nel “giro” altri due dei molti altri dirigenti in
servizio.
In secondo luogo, l’ordinanza fa chiarezza sull’equivoco della “riorganizzazione”.
L’art. 109, comma 2, del d.lgs. 267/2000 stabilisce che la revoca
dell’incarico dirigenziale consegua ai casi di “inosservanza delle direttive
del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore
di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun
anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione
previsto dall'articolo 169 o per responsabilità particolarmente grave o
reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di
lavoro”. In particolare, l’articolo 13 del CCNL 23.12.1999 stabilisce
al comma 3 che “La revoca anticipata dell'incarico rispetto alla scadenza
può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e produttive o per
effetto dell'applicazione del procedimento di valutazione di cui
all'articolo 14, comma 2”.
Dal canto suo, l’articolo 21, comma 1, del d.lgs. 165/2001 dispone: “Il
mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze
del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di
attuazione della legge 04.03.2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della
produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle
pubbliche amministrazioni ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili
al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l'eventuale
responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto
collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale.
In relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può inoltre, previa
contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio, revocare
l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui
all'articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le
disposizioni del contratto collettivo”.
È, dunque, esclusivamente la disciplina contrattuale (a ciò abilitata
dall’articolo 109, comma 1, del d.lgs. 267/2000) che attualmente considera
la “riorganizzazione” come presupposto per la revoca dell’incarico.
Il fatto è che in moltissimi casi, la “riorganizzazione” dietro la quale si
trincerano le amministrazioni comunali è semplicemente fittizia: una
simulazione dialettica, posta esclusivamente a giustificare appunto la
revoca anticipata di precisi incarichi dirigenziali. Spessissimo, si tratta
di vere e proprie “riorganizzazioni ad personam”, attivate non certo
alla scopo di modificare l’assetto complessivo dell’ente a fini di
miglioramento ed aumento dell’efficienza, ma proprio per demansionare uno
specifico dirigente.
Nel caso trattato dall’ordinanza non si è determinata per nulla un’esigenza
connessa alla riorganizzazione. La Cassazione ricorda che in quanto alle
“ragioni riorganizzative, questa Corte ha affermato che la revoca anticipata
dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, prevista dalla contrattazione
collettiva, deve essere adottata con un atto formale e richiede una
motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è
preposto il dirigente (v. Cass. 03.02.2017, n. 2972)”.
Occorre, quindi, un provvedimento che formalmente detti la riorganizzazione
dell’intero ente (mancante nel caso di specie) e la motivazione chiara che
espliciti ragioni connesse non alla persona che ricopre il ruolo di
dirigente, ma ad esigenze organizzative della struttura diretta, tali da
rendere opportune ed indispensabili sue variazioni, alle quali conseguano
come corollario, e non come premessa, modifiche degli incarichi.
Nulla di tutto questo è stato riscontrato nella questione esaminata
dall’ordinanza. La presunta “riorganizzazione” era, come nella
stragrande maggioranza dei casi, una mera petizione di principio,
inesistente e immotivata.
In terzo luogo, la Cassazione evidenzia i problemi connessi all’altro
strumento che gli enti stanno utilizzando a mani basse in modo generalmente
travisato: la “rotazione” degli incarichi.
I giudici, subito dopo aver comprovato che nel caso di specie non c’è stata
alcuna riorganizzazione, sottolineano che “invece, come è pacifico tra le
parti, la revoca anticipata era scaturita da una mera rotazione di incarichi
(si rileva dallo stesso controricorso del Comune -pag. 8- che vi era stato
uno scambio di incarichi a seguito del nuovo mandato elettorale), per
effetto della quale al ricorrente era stato assegnato l'incarico di
dirigente del settore traffico, trasporti, mobilità urbana e grandi
infrastrutture (revocandosi di fatto quello di dirigente del settore
urbanistica)”.
L’ordinanza non si dilunga sulla finalizzazione della “rotazione”
alla sua correlazione al “nuovo mandato elettorale”, perché giunge
alla dichiarazione di illegittimità del provvedimento del sindaco per altra
strada, senza doversi soffermare sul punto.
In questa sede di commento, tuttavia, non ci si può esimere dal rilevare che
la rotazione, esattamente come la riorganizzazione, sia un cavallo di Troia,
affetta sovente da totale ed evidente sviamento della sua funzione.
Scrive l’ANAC nel Piano Nazionale Anticorruzione del 2016: “Per quanto
riguarda i dirigenti la rotazione ordinaria è opportuno venga programmata e
sia prevista nell’ambito dell’atto generale approvato dall’organo di
indirizzo politico, contenente i criteri di conferimento degli incarichi
dirigenziali che devono essere chiari e oggettivi. Il PTPC di ogni
amministrazione deve fare riferimento a tale atto generale (come, ad
esempio, la Direttiva ministeriale che disciplina gli incarichi
dirigenziali) ove vengono descritti i criteri e le modalità per la rotazione
dirigenziale. Ciò anche per evitare che la rotazione possa essere impiegata
in modo poco trasparente, limitando l’indipendenza della dirigenza. Per il
personale dirigenziale, la disciplina è applicabile ai dirigenti di prima e
di seconda fascia, o equiparati”.
La rotazione, nella visione dell’Autorità, dovrebbe essere uno strumento
ordinario di tutela dell’interesse generale ad evitare che la continuativa
preposizione di un dirigente al medesimo incarico comporti l’assunzione di
un eccessivo potere di influenza, anche all’esterno.
Ma, il PNA non nasconde il rischio serissimo che la rotazione venga
utilizzata allo scopo di precarizzare gli incarichi dirigenziali, finendo
per limitare l’autonomia dei dirigenti.
Ciò nonostante, le interpretazioni dell’ANAC hanno contribuito a
reintrodurre, per via interpretativa (ma non solo, come si vedrà
successivamente), la rotazione obbligatoria della dirigenza, un tempo
presente nel d.lgs. 29/1993, ma poi eliminata dal testo del d.lgs. 165/2001
(nel quale non se ne parla proprio), per la piena consapevolezza che un
tourbillon continuo di dirigenti:
1. in molti enti non è minimamente ipotizzabile (dato il numero
esiguo);
2. soprattutto, inficia in modo comprensibile il principio di
continuità dell’azione amministrativa ed esattamente le qualità in base alle
quali i dirigenti si pretende siano valutati ed incaricati: competenza,
esperienza, risultati raggiunti.
Secondo l’ANAC “Essendo la rotazione una misura che ha effetti su tutta
l’organizzazione di un’amministrazione, progressivamente la rotazione
dovrebbe essere applicata anche a quei dirigenti che non operano nelle aree
a rischio. Ciò tra l’altro sarebbe funzionale anche ad evitare che nelle
aree di rischio ruotino sempre gli stessi dirigenti. La mancata attuazione
della rotazione deve essere congruamente motivata da parte del soggetto
tenuto all’attuazione della misura”.
È una visione radicale della rotazione, che va molto oltre le disposizioni
della legge 190/2012, la quale prevede, invece, la rotazione solo
nell’ambito delle aree a rischio, come lascia comprendere la logica, prima
ancora che il diritto. Non ha evidentemente alcun senso coinvolgere nella
rotazione chi opera in aree non rischiose.
Le indicazioni dell’ANAC, quindi, se da considerare corrette nelle premesse,
portano ad una conseguenza della rotazione visibilmente disfunzionale. E
finiscono per ammettere in via di fatto proprio quell’abuso della rotazione
che la medesima ANAC considera pericoloso per l’autonomia della dirigenza.
I sindaci ci mettono pochissimo a cogliere da indicazioni così contorte e
poco meditate come quelle dell’ANAC quella parte a loro uso e consumo, volta
a poter giustificare un utilizzo della rotazione distorto e produttivo di
evidente sviamento dall’interesse pubblico. Sì, come nel caso di specie, da
connettere la rotazione al nuovo mandato elettorale, traducendo quindi un
istituto pensato a salvaguardia dalla corruzione, in uno strumento per
esercitare lo spoil system!
Si comprende bene, quindi, quanto provvida sia stata la sentenza della Corte
Costituzionale 251/2016, che ha fermato l’iter della sciagurata Riforma
Madia della dirigenza, largamente basata proprio sull’esasperazione del
potere di revoca ad libitum dei dirigenti, anche fondato su una
rotazione di fatto connessa a ragioni esclusivamente politiche: quella
riforma, infatti, avrebbe eliminato la necessità di motivare le ragioni non
solo della revoca, ma addirittura della privazione dell’incarico al
dirigente, confinandolo in una disponibilità di pochi mesi, alla quale
sarebbe conseguito il licenziamento.
La rotazione, certamente strumento fondamentale, dovrebbe essere, dunque,
un’extrema ratio, da adottare quando risultino evidenze di un’azione
dirigenziale non perfettamente trasparente o rispondente agli obiettivi di
lotta alla corruzione, non una modalità da attivare acriticamente, sempre e
comunque.
Torniamo alla sentenza. La Cassazione si è accorta, comunque, che anche la
rotazione invocata era fasulla: lo “scambio di incarichi (peraltro, come
si rileva sempre dal controricorso -pag. 2- limitata a tre soli settori
dell'organigramma comunale: tributi, traffico-trasporti e urbanistica e
senza che vi fosse una ragione diversa dall'esigenza di garantire la
rotazione degli incarichi e specificamente collegata al settore cui il
(OMISSIS) era stato assegnato) non integra, evidentemente, quella
riorganizzazione richiesta dalla disciplina pattizia per una revoca
anticipata di un incarico dirigenziale”.
Quindi, si è determinata null’altro se non una revoca anticipata, in
assoluta assenza della giusta causa che dovrebbe sorreggere, in assenza di
effettiva riorganizzazione, la decisione.
Per tornare come indicato prima al problema della rotazione, lo schema di
CCNL dell’area dirigenza del comparto Funzioni Locali, per quanto concerne
specificamente la dirigenza di Regioni ed Enti locali disapplica l’articolo
13 del CCNL 23.12.2020 e non regola la revoca. Il che significa che essa
resta attivabile solo al ricorrere dei casi normativamente previsti, che non
contemplano la “riorganizzazione”: un elemento importante, perché si
cancella uno strumento utilizzato, come di dimostra, in modo spesso
improprio e falsato.
Improvvidamente, tuttavia, il medesimo schema prevede che “Nel
conferimento degli incarichi dirigenziali, gli enti si attengono al
principio generale della rotazione degli stessi”, ingerendosi in materie
che non spettano alla contrattazione e, in ogni caso, esponendo il
conferimento degli incarichi all’altro pericolo di utilizzo distorto della
rotazione.
In ogni caso, la Cassazione aiuta a comprendere che la rotazione non può
essere considerata presupposto o causa della revoca anticipata, operando
solo nel momento in cui vengano a scadere gli incarichi e, dunque, nella
fase del loro conferimento (04.11.2020 - tratto da e link a
www.fedir.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
revoca anticipata dell'incarico dirigenziale deve essere adottata con un
atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni chiare
e attinenti alla specifica area in cui è investito il manager in questione.
Mentre
per il conferimento (id est la
conferma) di un incarico di funzione dirigenziale, rimesso alla
discrezionalità del datore di lavoro, si tiene conto, in relazione alla
natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e
delle capacità professionali del singolo dirigente nel rispetto dei criteri
generali eventualmente stabiliti dalla pubblica amministrazione (potendo il
giudice solo verificare se l'operato dell'amministrazione trovi o meno
fondamento nei predetti criteri generali), la revoca dell'incarico,
presupponendo l'instaurazione di un rapporto contrattuale, incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti;
La normativa prevede che la revoca di un incarico possa scaturire o da un
procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento degli obiettivi o da
esigenze riorganizzative adeguatamente
motivate;
Quanto, in particolare alle indicate ragioni riorganizzative, questa Corte
ha affermato che la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali
esigenze, prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata con
un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni
attinenti al settore cui è preposto il dirigente.
---------------
4. con il secondo motivo il ricorrente denuncia la
violazione dell'art. 2119 cod. civ. nonché degli artt. 109 e 110 del TUEL,
degli artt. 3 e 7 l. n. 241 del 1990 (difetto di motivazione del
provvedimento di trasferimento e mancata comunicazione dell'inizio del
procedimento), degli artt. 1175, 1373 (regole di correttezza e buona fede),
della l. n. 241 del 1990 e dell'art. 97 Cost. (principio di ragionevolezza);
critica la sentenza impugnata per non aver tenuto conto
dell'insegnamento della Suprema Corte (S.0 n. 3677/2009) secondo il quale il
conferimento dell'incarico dirigenziale determina (accanto al rapporto
fondamentale a tempo indeterminato, secondo il c.d. sistema 'binario')
l'instaurazione di contratto a tempo determinato, il quale, ai sensi
dell'art. 2119 cod. civ., è passibile di recesso prima della scadenza solo
per giusta causa;
rileva che l'incarico di dirigente del settore urbanistica gli era
stato confermato dall'01.07.2009 per l'esercizio 2009 e che, con
deliberazione G.M. 364/2009 18.09.2009, gli erano stati anche fissati gli
obiettivi, per cui tale
incarico scadeva alla fine dell'esercizio 2009 e poteva essere oggetto di
recesso solo per 'giusta causa' (art. 2119 cod. civ.);
sostiene che certamente non poteva essere ritenuta 'giusta causa',
tale da non consentire neppure la prosecuzione provvisoria del rapporto, la
rotazione tra i settori tecnici, che avrebbe potuto essere disposta solo
dopo la scadenza dell'incarico (se motivata adeguatamente);
...
7. è invece fondato il secondo motivo di ricorso (assorbito
il terzo);
7.1. è pacifico tra le parti che l'incarico del Ci. quale dirigente
del settore urbanistica e assetto del territorio dei Comune di Brindisi dal
1998 fosse stato, da ultimo, confermato in data 01/07/2009 fino alla fine
dell'esercizio 2009 (e cioè fino al 30.06.2010);
alla suddetta conferma aveva fatto seguito la fissazione degli
obiettivi da raggiungere (v. deliberazione di G.M. n. 364/2009 del
18.09.2009 richiamata e depositata dal ricorrente);
il decreto sindacale n. 43 del 03.11.2009, con il quale il Sindaco
del comune di Brindisi aveva disposto il trasferimento del Ci. alla
dirigenza del settore traffico, trasporti, mobilità urbana e grandi
infrastrutture era, dunque, intervenuto prima della scadenza dell'incarico
confermato in data 01/07/2009;
ha allora errato la Corte territoriale a richiamare una
giurisprudenza di legittimità riferita a fattispecie di conferimento di
incarico laddove nella specie è indubbio che le determinazioni dell'Ente
abbiano di fatto comportato una revoca dell'incarico ancora in corso di
svolgimento;
7.2. le doglianze del Ci. andavano allora vagliate in rapporto alle
ipotesi in cui la revoca dell'incarico dirigenziale è consentita;
7.3. del resto, mentre per il conferimento (id est la
conferma) di un incarico di funzione dirigenziale, rimesso alla
discrezionalità del datore di lavoro, si tiene conto, in relazione alla
natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e
delle capacità professionali del singolo dirigente nel rispetto dei criteri
generali eventualmente stabiliti dalla pubblica amministrazione (potendo il
giudice solo verificare se l'operato dell'amministrazione trovi o meno
fondamento nei predetti criteri generali), la revoca dell'incarico,
presupponendo l'instaurazione di un rapporto contrattuale, incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti;
7.4. muovendo dall'esame della normativa di riferimento, va
ricordato che l'art. 109 del d.lgs. n. 267 del 2000, rubricato "Conferimento
di incarichi dirigenziali" prevede, al primo comma: «Gli incarichi
dirigenziali sono conferiti a tempo determinato» (...) «con
provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza
professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma
amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati
in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della
provincia, della giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di
mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli
obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione» (...) «o per
responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi
disciplinati dai contratti collettivi di lavoro. L'attribuzione degli
incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di
direzione a seguito di concorsi»;
l'art. 13 del c.c.n.l. dirigenza enti locali 1998-2001 del 09.12.1999,
rubricato "Affidamento e revoca degli incarichi dirigenziali",
integrando la disciplina normativa stabilisce ai commi 1-3: «1. Gli enti
attribuiscono ad ogni dirigente uno degli incarichi istituiti secondo la
disciplina dell'ordinamento vigente. 2. Gli enti, con gli atti previsti dai
rispettivi ordinamenti, adeguano le regole sugli incarichi dirigenziali ai
principi stabiliti dall'art. 19, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 29/1993, con
particolare riferimento ai criteri per il conferimento e la revoca degli
incarichi e per il passaggio ad incarichi diversi nonché per relativa durata
che non può essere inferiore a due anni, fatte salve le specificità da
indicare nell'atto di affidamento e gli effetti derivanti dalla valutazione
annuale dei risultati. 3. La revoca anticipata dell'incarico rispetto alla
scadenza può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e produttive o
per effetto dell'applicazione del procedimento di valutazione di cui
all'art. 14, comma 2»;
7.5. la suddetta normativa prevede, dunque, che la revoca di un
incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato
raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente
motivate;
7.6. quanto, in particolare alle indicate ragioni riorganizzative,
questa Corte ha affermato che la revoca anticipata dell'incarico
dirigenziale per tali esigenze, prevista dalla contrattazione collettiva,
deve essere adottata con un atto formale e richiede una motivazione
esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il
dirigente (v. Cass. 03.02.2017, n. 2972);
7.7. nel caso di specie, invece, come è pacifico tra le parti, la
revoca anticipata era scaturita da una mera rotazione di incarichi (si
rileva dallo stesso controricorso del Comune -pag. 8- che vi era stato uno 'scambio'
di incarichi a seguito del nuovo mandato elettorale), per effetto della
quale al ricorrente era stato assegnato l'incarico di dirigente del settore
traffico, trasporti, mobilità urbana e grandi infrastrutture (revocandosi di
fatto quello di dirigente del settore urbanistica); ma tale 'scambio'
di incarichi (peraltro, come si rileva sempre dal controricorso -pag. 2-
limitata a tre soli settori dell'organigramma comunale: tributi,
traffico-trasporti e urbanistica e senza che vi fosse una ragione diversa
dall'esigenza di garantire la rotazione degli incarichi e specificamente
collegata al settore cui il Ci. era stato assegnato) non integra,
evidentemente, quella riorganizzazione richiesta dalla disciplina pattizia
per una revoca anticipata di un incarico dirigenziale;
7.8. i principi posti dalla Corte territoriale a sostegno della
legittimità del decreto del Sindaco di Brindisi n. 43/2009 (e cioè la
turnazione, rotazione degli incarichi) se sono fondatamente invocabili a
sostegno di una scelta di affidamento di un determinato incarico non possono
avallare -stanti le indicate specifiche disposizioni normativa e pattizia-
una revoca di un incarico prima della scadenza naturale dello stesso;
7.9. si è trattato, pertanto, di revoca anticipata avvenuta al di
fuori dei presupposti normativi (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 06.10.2020 n.
21482). |
PUBBLICO IMPIEGO: L.
Di Donna,
Conseguenze della mancata conferma dell’incarico dirigenziale (22.06.2020
- tratto da a e link a www.neopa.it).
Questa Corte ha più volte affermato che fanno capo al dirigente due distinte
situazioni giuridiche soggettive, perché rispetto alla cessazione anticipata
dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove
ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella
funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre a fronte del
mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto valere un
interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato,
non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione dell'incarico non
conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei
pregiudizi ingiustamente subiti (v. Cass. 13.11.2018, n. 29169; Cass.
10.12.2017, n. 28879; Cass. 03.02.2017, n. 2972; Cass. 18.06.2014, n. 13867).
Non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al conferimento
dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato correlato
all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel rispetto dei
canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi di
imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost.,
sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo
e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento
del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi
gravanti sull'amministrazione (v. Cass. 23.09.2013, n. 21700; Cass.
24.09.2015, n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495).
Quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio generale
secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (per i
dirigenti statali in virtù di espressa previsione dell'art. 19 d.lgs. n.
165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine
professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e
pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del
rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile
con lo statuto del dirigente pubblico (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760;
Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442).
Anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti
locali (trasfuso, come detto, nel d.lgs. n. 267 del 2000, art. 109) esclude
la configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in
ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché
corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente
indetto per determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta
'privatizzazione' (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.12.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n.
19442); lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che, nel
lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto
l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di
qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa
previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le
Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ. (e
l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), risultando la regola del rispetto di
determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo
statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza
tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai
principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere
mansioni tecniche (v. Cass. n. 23760/2004 cit.; Cass. n. 3451/2010 cit.;
Cass. n. 4621/2017 cit.; Cass. n. 19442/2018 cit.).
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (Sez. Lavoro) nella recente
ordinanza 18.06.2020 n. 11891. |
PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico
impiego – dirigenza – cessazione anticipata incarico – diritto soggettivo
alla conservazione di determinate tipologie di incarico dirigenziale -
demansionamento – rigetto ricorso.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto da un
dirigente che a seguito della mancata riconferma dell’incarico di funzione
lamenta di essere stato vittima di demansionamento all’atto di attribuzione
del nuovo incarico di dirigente in posizione di staff.
La Corte pronunciandosi riguardo alla cessazione anticipata dell'incarico,
ribadisce che fanno capo al dirigente due distinte situazioni giuridiche:
rispetto alla cessazione anticipata dell’incarico lo stesso è titolare di un
diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla
reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento
del danno, mentre rispetto al mancato conferimento di un nuovo incarico il
dirigente può far valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se
ingiustamente mortificato, non legittima lo stesso a richiedere
l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento
della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti.
La Suprema Corte conferma il principio generale per cui alla qualifica
dirigenziale corrisponde esclusivamente l’idoneità professionale
all’assunzione degli incarichi dirigenziali di qualunque tipo, senza che sia
configurabile un diritto soggettivo a mantenere o a conservare un
determinato incarico, la cessazione di un incarico di funzione e la
successiva attribuzione di un incarico di studio ai sensi dell'art. 19,
comma 10, Dlgs 165/2001 pertanto non determina un demansionamento
(commento tratto da www.aranagenzia.it).
---------------
4.4. del resto non pare dubitabile, sulla base della stessa
motivazione della sentenza impugnata (fondata sull'esame dei provvedimenti
del Comune resistente, esame non rivedibile in questa sede), che
l'assegnazione alla Ca., dopo la cessazione dell'incarico di direzione del
Servizio Supporto alle Scuole, del compito di svolgere funzioni dirigenziali
di studio e ricerca (v. pag. 5 della sentenza: "alla Ca., alla scadenza
dell'incarico di direzione ... non è stata affidata la titolarità di una
struttura ma ... il compito di svolgere funzioni dirigenziali di studio ..."),
fosse riconducibile alla previsione di cui all'art. 19, comma 10, d.lgs. n.
165 del 2001, norma di carattere generale che si riferisce anche alle
amministrazioni locali e si aggiunge alle previsioni specifiche contenute
nel d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico degli enti locali) e in particolare
negli artt. 109 e 110 (si consideri che la vicenda in esame si colloca prima
delle modifiche apportate all'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 dal d.lgs.
n. 150 del 2009);
del tutto impropria è, allora, una lettura della sentenza quale
quella offerta dalla ricorrente secondo cui la Corte territoriale avrebbe
considerato anche l'incarico in staff quale incarico dirigenziale di
struttura (nuova e tutta da creare);
4.5. questa Corte ha più volte affermato che fanno capo al
dirigente due distinte situazioni giuridiche soggettive, perché rispetto
alla cessazione anticipata dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto
soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se
possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre
a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto
valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente
mortificato, non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione
dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento della domanda
di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti (v. Cass. 13.11.2018, n.
29169; Cass. 10.12.2017, n. 28879; Cass. 03.02.2017, n. 2972; Cass.
18.06.2014, n. 13867);
4.6. non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al
conferimento dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato
correlato all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel
rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi
di imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost.,
sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo
e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento
del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi
gravanti sull'amministrazione (v. Cass. 23.09.2013, n. 21700; Cass.
24.09.2015, n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495);
4.7. quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio
generale secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni (per i dirigenti statali in virtù di espressa previsione
dell'art. 19 d.lgs. n. 165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde
soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali
di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ.,
risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità
acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico (v. Cass.
22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.02.2017, n. 4621;
Cass. 20.07.2018, n. 19442);
4.8. anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale
negli enti locali (trasfuso, come detto, nel d.lgs. n. 267 del 2000, art.
109) esclude la configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a
conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale,
ancorché corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso
specificatamente indetto per determinati posti di lavoro, pure anteriormente
alla cosiddetta 'privatizzazione' (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760;
Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.12.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n.
19442);
lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che,
nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto
l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di
qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa
previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le
Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ. (e
l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), risultando la regola del rispetto di
determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo
statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza
tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai
principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere
mansioni tecniche (v. Cass. n. 23760/2004 cit.; Cass. n. 3451/2010 cit.;
Cass. n. 4621/2017 cit.; Cass. n. 19442/2018 cit.);
4.9. tale essendo il sistema, gli incarichi di studio conferiti
alla Ca. dopo la cessazione di quello di direzione di struttura non potevano
essere letti in termini di dequalificazione;
ed infatti, come è stato da questa Corte già affermato, proprio
sulla base dell'assunto secondo cui, in tema di dirigenza pubblica, la
qualifica dirigenziale esprime esclusivamente l'idoneità professionale del
dipendente, senza che sia configurabile un diritto soggettivo a mantenere o
a conservare un determinato incarico, la cessazione di un incarico di
funzione e la successiva attribuzione di un incarico di studio ai sensi
dell'art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, non determina un
demansionamento (così Cass. 09.04.2018, n. 8674; si veda anche la già citata
Cass. n. 19442/2018 riguardante proprio l'assegnazione di un dirigente di
Ente locale ad una struttura di staff denominata Ufficio studi e ricerche);
ed allora non può essere addebitato alla Corte territoriale alcun
errore di diritto laddove ha escluso ogni demansionamento nell'attribuzione
alla Ca., dopo la cessazione di un incarico di funzione, di incarichi di
studio ai sensi dell'art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001,
attenendo la verifica dell'effettività e pienezza delle mansioni di cui ai
nuovi incarichi all'accertamento di merito della Corte territoriale non
suscettibile di revisione in questa sede;
4.10. né fondatamente la ricorrente lamenta, quale pregiudizio, la
perdita della retribuzione di posizione e di risultato atteso che, come non
integra un demansionamento l'attribuzione di un incarico di studio, non può
riconoscersi come danno la perdita (di quota) della retribuzione di
posizione e di risultato, non configurandosi, per quanto sopra detto, un
diritto del dirigente alla preposizione ad un ufficio di direzione di
struttura, alle quali le predette voci siano connesse;
4.11. quanto, poi, alla ritenuta omessa considerazione dei rilievi
concernenti le valutazioni negative della Ca. sotto il profilo dei risultati
raggiunti ed in particolare dell'omesso esame di quello che la stessa
sentenza impugnata indica come 'terzo motivo di ricorso', le
doglianze non meritano accoglimento;
la Corte territoriale, infatti, dopo aver ritenuto infondato il
primo motivo di ricorso ha esaminato congiuntamente, in quanto logicamente
connessi, il secondo ed il terzo motivo di ricorso ed ha ritenuto entrambi
infondati considerando che la versione dei fatti rappresentata dal Comune di
Parma, secondo cui la Ca. aveva dimostrato "scarsa attitudine alle scelte
autonome di sua competenza" oltre che manifestato "la propria
insoddisfazione per il ruolo assegnatole con frequenti assenze, rigidità di
orario e ridotta disponibilità", avesse trovato conferma
nell'istruttoria svolta (e ciò sia per quanto atteneva al progetto Europa
sia per quanto riguardava i periodi pregressi);
ciò costituisce un'adeguata risposta ai rilievi di parte appellante
secondo la quale, al contrario, per quanto si evince dalla stessa sentenza
impugnata, le valutazioni negative effettuate dal datore di lavoro, lungi
dall'essere ricollegabili alle attitudini professionali della Ca. erano
piuttosto da porsi in relazione alla stessa condotta del Comune di Parma che
la aveva posta in condizioni di totale inattività;
anche con riguardo a tale aspetto la ricorrente pretende, allora,
in modo inammissibile, una diversa e personale lettura delle risultanze di
causa;
4.12. quanto, infine alle censure relative all'asserito difetto di
motivazione dei provvedimenti attributivi degli incarichi di studio la
ricorrente non ha specificato se ed in quali termini la questione fosse
stata sottoposta già in sede di ricorso di primo grado, non potendo il
suddetto onere ritenersi soddisfatto mediante la trascrizione della sentenza
di appello riportante i motivi di gravame (v. pag. 24 del ricorso per
cassazione) ovvero mediante il richiamo al passaggio argomentativo di tale
sentenza (riportato alla medesima pag. 24 ed alla successiva pag. 25),
specie a fronte dell'eccezione di novità della questione formulata in sede
di controricorso dal Comune di Parma, per non essere stata la stessa
esplicitata nel ricorso di primo grado e per essere state le conclusioni
assunte, sul punto, assolutamente generiche;
peraltro la questione è stata dalla ricorrente posta esclusivamente
in relazione alla ritenuta (e qui esclusa) configurazione da parte della
Corte territoriale dell'incarico di staff quale incarico dirigenziale ai
sensi dell'art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 laddove, come sopra
evidenziato, si era trattato di un incarico di studio ex art. 19, comma 10,
del medesimo d.lgs.; (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 18.06.2020 n.
11891).
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MASSIMA
In tema di dirigenza pubblica, la cessazione di un
incarico di funzione, e la successiva attribuzione di un incarico di studio
ai sensi dell’art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, non determina
un demansionamento, in quanto la qualifica dirigenziale esprime
esclusivamente l’idoneità professionale del dipendente, senza che sia
configurabile un diritto soggettivo a mantenere o a conservare un
determinato incarico. |
PUBBLICO IMPIEGO: Conferimento
di incarichi dirigenziali nella PA: tra diritto soggettivo e interesse
legittimo.
Fanno capo al dirigente due distinte situazioni
giuridiche soggettive, perché rispetto alla cessazione anticipata
dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove
ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella
funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre a fronte del
mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto valere un
interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato,
non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione dell'incarico non
conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei
pregiudizi ingiustamente subiti.
Non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al conferimento
dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato correlato
all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel rispetto dei
canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi di
imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost.,
sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo
e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento
del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi
gravanti sull'amministrazione.
Quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio generale
secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (per i
dirigenti statali in virtù di espressa previsione dell'art. 19 d.lgs. n.
165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine
professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e
pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del
rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile
con lo statuto del dirigente pubblico.
Anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti
locali (trasfuso nel d.lgs. n. 267/2000, art. 109) esclude la
configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in ogni
caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché corrispondenti
all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per
determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta 'privatizzazione'.
Lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che, nel lavoro
pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine
professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e
non consente perciò -anche in difetto della espressa previsione di cui
all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le Amministrazioni statali-
di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del
rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile
con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della
dirigenza tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è
soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque
svolgere mansioni tecniche.
---------------
1. con il primo motivo il ricorrente denuncia error
in judicando, in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per
violazione dell'art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, dell'art. 13 del c.c.n.l.
enti locali, del c.c.d.i. Comune di Salerno, dell'art. 2103 cod. civ.;
rileva che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che
il comportamento del Comune non fosse violativo dei criteri di assegnazione
degli incarichi dirigenziali;
insiste nel ritenere che il suo passaggio da Dirigente del Settore
a Dirigente del Sevizio avesse integrato un demansionamento;
sostiene che l'amministrazione fosse tenuta a garantire il livello
di professionalità conseguito in virtù dell'incarico in precedenza
ricoperto;
2. il motivo è infondato;
2.1. questa Corte ha più volte affermato che fanno capo al
dirigente due distinte situazioni giuridiche soggettive, perché
rispetto alla cessazione anticipata dell'incarico lo stesso è titolare di un
diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla
reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento
del danno, mentre a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico può
essere fatto valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se
ingiustamente mortificato, non legittima il dirigente a richiedere
l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento
della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti (v. Cass.
13.11.2018, n. 29169; Cass. 10.12.2017, n. 28879; Cass. 03.02.2017, n. 2972;
Cass. 18.06.2014, n. 13867);
2.2. non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al
conferimento dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato
correlato all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel
rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi
di imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost.,
sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo
e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento
del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi
gravanti sull'amministrazione (Cass. 23.09.2013, n. 21700; Cass. 24.09.2015,
n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495);
2.3. quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio
generale secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni (per i dirigenti statali in virtù di espressa previsione
dell'art. 19 d.lgs. n. 165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde
soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali
di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ.,
risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità
acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico (v. Cass.
22.12.2004; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.02.2017, n. 4621; Cass.
20.07.2018, n. 19442);
2.4. anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale
negli enti locali (trasfuso nel d.lgs. n. 267/2000, art. 109) esclude la
configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in ogni
caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché corrispondenti
all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per
determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta 'privatizzazione'
(v. Cass 22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442);
lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che,
nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto
l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di
qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa
previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le
Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ.,
risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità
acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con
la sola eccezione della dirigenza tecnica, nel senso che il dirigente
tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della
rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche (v. Cass. 22.12.2004, n.
23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451 nonché Cass. n. 4621/2017 cit.; Cass. n.
19442/2018 cit.);
2.5. nella specie, per quello che si evince dalla sentenza
impugnata, non è in discussione la legittimità della disposta cessazione
ante tempus dell'incarico di direzione del Settore Trasporti e Viabilità
già conferito al Pa. (per effetto dello smembramento e trasformazione del
Settore in Servizi, Impianti, Viabilità e Manutenzione, costituito da due
distinti Servizi) ma il mancato conferimento allo stesso dell'incarico di
dirigente di Settore e l'assegnazione della sola dirigenza di uno di detti
Servizi;
non vigendo la regola dell'equivalenza delle mansioni e non essendo
in discussione che fosse stata, nello specifico, compromessa la
professionalità 'tecnica' (discutendosi solo dell'assegnazione ad un
incarico di direzione per il quale, in dipendenza dell'operato smembramento
dei servizi del precedente settore e della successiva graduazione delle
funzioni in sette distinti gruppi, era stata prevista una diversa, e
ridotta, retribuzione di risultato e conseguentemente di posizione) non può
sostenersi che la mancata assegnazione di un incarico equivalente a quello
in precedenza ricoperto costituisca automaticamente fonte di danno
risarcibile (si consideri che, in tema di dirigenza pubblica, è stato
ritenuto che non determina un demansionamento la cessazione di un incarico
di funzione e la successiva attribuzione di un incarico di studio: v. da
ultimo Cass. 09.04.2018, n. 8674);
2.6. discutendosi di danno da violazione di interesse legittimo di
diritto privato alla linearità e congruità delle determinazioni assunte
dall'Ente, lo stesso non poteva certo coincidere con quanto sarebbe stato
dovuto in forza del contratto non concluso, occorrendo la deduzione e prova
di una lesione dannosa di legittimo affidamento rispetto all'incarico al
quale il Pa. aspirava (si pensi, ad esempio, al pregiudizio derivato
dall'eventuale inadempimento di obblighi gravanti sul Comune in relazione
agli atti preliminari, all'assenza di adeguate forme di partecipazione
dell'interessato medesimo al processo decisionale, alla omessa esternazione
delle ragioni giustificatrici della scelta, alla perdita patrimoniale per le
spese inutilmente sostenute in relazione alle trattative, alla mancata
possibilità di cogliere altre occasioni professionali presentatesi nel corso
della fase preliminare, circostanze, tutte, non prospettate nel caso in
esame -v. anche infra-);
2.7. anche un autonomo danno all'immagine professionale non poteva
dirsi conseguenza automatica della supposta illegittimità del conferimento
ad altri dell'incarico preteso, ma doveva essere dedotto e provato;
ed infatti, se è possibile che l'assegnazione ad un nuovo incarico
dirigenziale sia realizzata con modalità tali da configurare un
inadempimento contrattuale per la compromissione della professionalità del
lavoratore, anche nella forma della perdita di chance, ovvero per la
lesione della sua dignità professionale (v. Cass. 08.11.2017, n. 26469, in
motivazione; più in generale v. Cass. 20.06.2016, n. 12678 del 2016), il
danno risarcibile deve essere allegato e provato dal danneggiato secondo i
noti principi che presiedono all'accertamento ed alla liquidazione dei danni
patrimoniali e non patrimoniali, senza alcun automatismo che faccia ritenere
lo stesso sussistente in re ipsa (v. Cass. 07.01.2019, n. 137) e
soprattutto senza che lo stesso possa coincidere (come pretenderebbe il
ricorrente) con quanto sarebbe stato dovuto in forza del contratto non
concluso;
peraltro, nello specifico, quanto alla professionalità, proprio il
ricorrente assume che in punto di fatto nulla o poco fosse cambiato visto
che il Comune aveva comunque assegnato al predetto i medesimi plurimi
incarichi di prima;
2.8. il Pa. sostiene, più precisamente, che fosse degradante essere
assegnato ad un Servizio di IV gruppo rispetto ad un Settore di I gruppo;
tale affermazione non risulta, però, supportata da una
corrispondente chiara differenziazione di livelli dirigenziali e correlativi
complessivi trattamenti retributivi né da circostanze quali ad esempio il
venir meno di funzioni apicali e la sottoposizione ad altrui direttive;
invero a pag. 32 del ricorso il Pa. assume che per effetto
dell'assegnazione al IV gruppo gli fosse stata riconosciuta una retribuzione
di posizione inferiore a quella prevista per I gruppo ('con conseguenti
riflessi sulla retribuzione di risultato');
tuttavia non integra un demansionamento né non può riconoscersi
come danno la perdita (di quota) della retribuzione di posizione e di
risultato, non configurandosi, per quanto sopra detto, un diritto del
dirigente alla preposizione ad un ufficio di direzione, alle quali le
predette voci siano connesse;
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 20.05.2020 n. 9294). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
revoca anticipata dell'incarico
dirigenziale deve essere adottata
con un atto formale e deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni
organizzative, per costituire legittimo fondamento, devono attenere al
settore cui è preposto il dirigente.
Nel lavoro pubblico privatizzato, alla qualifica
dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione
di incarichi dirigenziali di qualunque tipo, e non è pertanto applicabile
-come, peraltro, espressamente previsto dall'art. 19 del d.lgs. n. 165 del
2001- l'art. 2103 cc, risultando la regola del rispetto di determinate
specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del
dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, la
quale va tuttavia interpretata in senso stretto, ossia nel senso che il
dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità
e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche.
Tuttavia, con riguardo all'istituto della revoca anticipata (di cui all'art.
22 del CCNL dirigenza enti locali del 1996 e all'art. 13 del CCNL dirigenza
enti locali del 1999), ai fini della salvaguardia dei principi
costituzionali di buon andamento ed imparzialità dell'Amministrazione, la
revoca deve essere adottata con un atto formale e deve essere motivata in
modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo
fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono
attenere al settore cui è preposto il dirigente.
---------------
1. Con il primo motivo di impugnazione (indicato come n. 2 nel
ricorso), prospettandosi la mancanza di un motivato provvedimento espresso
di revoca, si deduce
- la violazione e falsa applicazione degli artt. 109 e 110 del
d.lgs. n. 267 del 2000, dell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 20001 e dell'art.
22 del CCNL del 10.04.1996, degli artt. 13 e 14 del CCNL per il personale
dirigenziale degli enti locali del 23.12.1999.
- Nullità della revoca ex artt. 1324 e 1418 cc per mancanza di
forma e contrasto con norme imperative, violazione dell'art. 2 del d.lgs. n.
29 del 1995 e n. 165 del 2001.
- Vizio di motivazione per omesso esame di documenti decisivi.
Violazione dell'art. 360, n. 3 e n. 5, cpc.
Assume il ricorrente che la Provincia illegittimamente aveva revocato
implicitamente l'incarico dirigenziale conferito il 10.05.1999, prima della
scadenza del mandato della Presidente della Provincia (maggio 2001) e prima
del biennio di durata minima degli incarichi (l'incarico sarebbe scaduto il
10.05.2001), senza esplicitare le ragioni della revoca.
La Corte d'Appello poneva a fondamento della revoca le motivazioni del
conferimento del diverso nuovo incarico, nelle quali non vi era riferimento
e non si accennava che il conferimento del nuovo incarico comportava la
cessazione anticipata dall'incarico di Capo settore edilizia.
La Corte d'Appello, pertanto, avrebbe dovuto rilevare la mancanza di
motivazione della revoca e dello stesso provvedimento espresso di revoca,
con conseguente nullità dei provvedimenti di conferimento dei nuovi
incarichi. Ciò anche considerato che il settore lavori pubblici presso cui
lavorava il ricorrente non era stato interessato da alcuna riorganizzazione.
2. Il motivo è fondato e deve essere accolto nei sensi di seguito indicati.
Occorre premettere, dovendosi disattendere la relativa eccezione della
Provincia, che il motivo è ammissibile, in quanto la questione della
illegittimità della revoca intervenuta prima della scadenza e senza le
richieste ragioni organizzative, non afferendo al settore cui era preposto
il ricorrente le problematiche della protezione civile, come si evince dalla
sentenza di appello (pag. 18 e 20) veniva introdotta dal Fa. nel corso del
giudizio di merito.
Peraltro, nel controricorso, la Provincia nel dedurre che non occorre che il
provvedimento di revoca sia formalmente autonomo da quello di conferimento
di un nuovo incarico, conviene della sussistenza di un unico provvedimento
(pag. 9 del controricorso).
3. La Corte d'Appello, come si è accennato ha posto a fondamento della
ritenuta legittimità della revoca le argomentazioni di seguito riportate in
sintesi:
la fungibilità degli incarichi dirigenziali;
la sussistenza di ragioni organizzative, al momento della revoca,
che determinavano la riorganizzazione dei servizi della Provincia istituendo
un nuovo settore protezione civile;
la legittimità della revoca anticipata dell'incarico per ragioni
organizzative che non riguardano il settore cui il dirigente era preposto,
non rinvenendosi tale previsione nell'art. 22 del CCNL.
4. La statuizione della Corte d'Appello non è corretta.
L'art. 109 del d.lgs. 267 del 2000 che reca "Conferimento di incarichi
dirigenziali" prevede al comma 1 «Gli incarichi dirigenziali sono
conferiti a tempo determinato» (...) «con provvedimento motivato e
con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei
servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli
obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente
della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del
sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore di
riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno
finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione»
(...) «o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli
altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro. L'attribuzione
degli incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di
direzione a seguito di concorsi».
L'art. 22 del CCNL dirigenza enti locali del 1996 stabilisce che «la
revoca anticipata rispetto alla scadenza dell'incarico può avvenire solo per
motivate ragioni organizzative e produttive o in seguito all'accertamento
dei risultati negativi di gestione o della inosservanza delle direttive
impartite ai sensi dell'art. 20 del decreto legislativo n. 29 del 1993».
L'art. 13 del successivo CCNL dirigenza enti locali 1998-2001 del 09.12.1999
(già citato art. 22 del CCNL del 1996), che reca "Affidamento e revoca
degli incarichi dirigenziali" stabilisce ai commi 1-3: «1. Gli enti
attribuiscono ad ogni dirigente uno degli incarichi istituiti secondo la
disciplina dell'ordinamento vigente. 2. Gli enti, con gli atti previsti dai
rispettivi ordinamenti, adeguano le regole sugli incarichi dirigenziali ai
principi stabiliti dall'art. 19, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 29/1993, con
particolare riferimento ai criteri per il conferimento e la revoca degli
incarichi e per il passaggio ad incarichi diversi nonché per relativa durata
che non può essere inferiore a due anni, fatte salve le specificità da
indicare nell'atto di affidamento e gli effetti derivanti dalla valutazione
annuale dei risultati. 3. La revoca anticipata dell'incarico rispetto alla
scadenza può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e produttive o
per effetto dell'applicazione del procedimento di valutazione di cui
all'art. 14, comma 2».
A sua volta l'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 -in cui è confluito l'art.
19 del d.lgs. n. 29 del 1993 come succ. modificato- come vigente ratione
temporis (testo precedente alle modifiche apportate dalla legge n. 145
del 2002) stabilisce al comma 1: «Per il conferimento di ciascun incarico
di funzione dirigenziale e per il passaggio ad incarichi di funzioni
dirigenziali diverse, si tiene conto della natura e delle caratteristiche
dei programmi da realizzare, delle attitudini e della capacità professionale
del singolo dirigente, anche in relazione ai risultati conseguiti in
precedenza, applicando di norma il criterio della rotazione degli incarichi.
Al conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si
applica l'articolo 2103 del codice civile», e al comma 2, per quanto qui
d'interesse: «Tutti gli incarichi di direzione degli uffici delle
amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, sono conferiti a
tempo determinato, secondo le disposizioni del presente articolo. Gli
incarichi hanno durata non inferiore a due anni e non superiore a sette
anni, con facoltà di rinnovo. Sono definiti contrattualmente, per ciascun
incarico, l'oggetto, gli obiettivi da conseguire, la durata dell'incarico,
salvi i casi di revoca di cui all'articolo 21» (ndr, a carattere
sanzionatorio), «nonché il corrispondente trattamento economico».
5. Il quadro normativo vigente ratione temporis (la revoca
interveniva nel 2001) pone in evidenza che:
- l'incarico doveva essere conferito con specifico contratto che
costituiva la fonte delle rispettive obbligazione, stabilendo anche la
durata del medesimo, che comunque non poteva essere nel minimo inferiore a
due anni;
- la revoca anticipata dell'incarico rispetto alla scadenza poteva
avvenire per motivate ragioni organizzative e produttive o per effetto
dell'applicazione del procedimento di valutazione.
6. Nella specie l'incarico di Capo servizio settore edilizia lavori pubblici
interveniva dal 01.05.1999 (come esposto dal ricorrente e non contestato
specificamente nel controricorso, ove a pag. 20 si afferma che con delibera
36/6851 del 04.02.1999 la Provincia aveva deliberato l'inserimento del Fa.
come dirigente tecnico nell'area 4, nella quale, assume la Provincia nel
1999 era inserita anche il settore servizio di prevenzione protezione), e
nel marzo del 2001 (decreto n. 6 prot. 13901, del 09.03.2001) veniva
conferito all'arch. Ra.Fa. "attualmente in servizio presso l'Area 4
Lavori pubblici il seguente incarico: Capo servizio protezione civile e
servizio sicurezza 626, con competenze generali in materia di protezione
civile, di protezione civile, di prevenzione e protezione dai rischi
professionali nei luoghi di lavoro dell'Ente, ai sensi della legge n.
626/1994 e succ. modifiche".
Nel suddetto provvedimento si fa riferimento alla delibera di ricognizione e
riorganizzazione delle posizioni dirigenziali a seguito del trasferimento di
funzioni e compiti alla Provincia nell'ambito del processo di decentramento
amministrativo attuato con il DPCM del 22.12.2000.
Si assume quindi che nella suddetta delibera si stabiliva di inserire il
settore servizio di prevenzione protezione già previsto nell'area 4 Lavori
pubblici, nell'ambito dell'Area 6 territorio e ambiente, così modificato "Protezione
civile e servizio sicurezza 626".
Si conferiva quindi l'incarico al Fa. tenendo conto della professionalità
del dirigente.
7. Il suddetto provvedimento pone in evidenza che la revoca del precedente
incarico interveniva in modo del tutto implicito, senza che fosse adottata
una specifica motivazione della revoca stessa con riguardo all'incarico di
dirigente del settore Area 4.
Né, come assume erroneamente, la Corte d'Appello le ragioni che
determinavano l'Amministrazione a rimodulare l'Area 6, in relazione a
sopravvenute competenze in materia di protezione civile, prevedendo in
relazione alla stessa il posto di dirigente tecnico, possono valere come
giustificazione della revoca implicita dall'incarico di dirigente dell'Area
4, atteso, tra l'altro, che come afferma la Corte d'Appello la revoca non
dipendeva da ragioni disciplinari o legate ad esiti negativi di valutazione.
Né l'assorbimento nell'Area 6 del settore servizio di prevenzione
protezione, già inserito nell'Area 4 lavori pubblici, può valere
implicitamente come riorganizzazione di quest'ultima, essendo connessa alle
esigenze di rimodulazione dell'Area 6 e all'ambito protezione civile.
8. Nel lavoro pubblico privatizzato, alla qualifica dirigenziale corrisponde
soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali
di qualunque tipo, e non è pertanto applicabile -come, peraltro,
espressamente previsto dall'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001- l'art. 2103
cc, risultando la regola del rispetto di determinate specifiche
professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente
pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, la quale va
tuttavia interpretata in senso stretto, ossia nel senso che il dirigente
tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della
rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche (Cass., n. 3451 del
2010).
9. Tuttavia, con riguardo all'istituto della revoca anticipata (di cui
all'art. 22 del CCNL dirigenza enti locali del 1996 e all'art. 13 del CCNL
dirigenza enti locali del 1999), ai fini della salvaguardia dei principi
costituzionali di buon andamento ed imparzialità dell'Amministrazione, la
revoca deve essere adottata con un atto formale e deve essere motivata in
modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo
fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono
attenere al settore cui è preposto il dirigente.
10. Pertanto il motivo di ricorso deve essere accolto nei suddetti termini,
dovendo la Corte d'Appello in sede di rinvio fare applicazione del principio
di diritto sopra enunciato (Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 03.02.2017 n. 2972). |
aggiornamento all'11.08.2022 |
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Gli
obblighi di cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero
dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili. |
URBANISTICA: Impegni
assunti in sede convenzionale e scadenza del
termine di validità del piano attuativo.
Il TAR Milano ricorda
che:
<<La giurisprudenza è costante nell’affermare
che gli impegni assunti in sede
convenzionale -al contrario di quanto si
verifica in caso rilascio del singolo titolo
edilizio, in cui gli oneri di urbanizzazione
e di costruzione a carico del destinatario
sono collegati alla specifica trasformazione
del territorio oggetto del titolo, con la
conseguenza che ove, in tutto o in parte,
l'edificazione non ha luogo, può venire in
essere un pagamento indebito fonte di un
obbligo restitutorio- non vanno riguardati
isolatamente, ma vanno rapportati alla
complessiva remuneratività dell'operazione,
che costituisce il reale parametro per
valutare l'equilibrio del sinallagma
contrattuale e, quindi, la sostanziale
liceità degli impegni assunti.
La causa della convenzione urbanistica, e
cioè l'interesse che l'operazione
contrattuale è diretta a soddisfare, quindi,
va valutata non con riferimento ai singoli
impegni assunti, ma con riguardo alla
oggettiva funzione economico-sociale del
negozio, in cui devono trovare equilibrata
soddisfazione sia gli interessi del privato
sia quelli della pubblica amministrazione.
Inoltre, occorre sottolineare che non è
affatto escluso dal sistema che un
operatore, nella convenzione urbanistica,
possa assumere oneri anche maggiori di
quelli astrattamente previsti dalla legge,
trattandosi di una libera scelta
imprenditoriale (o, anche, di una libera
scelta volta al benessere della collettività
locale), rientrante nella ordinaria
autonomia privata, non contrastante di per
sé con norme imperative.
È stato quindi affermato che il principio
generale, secondo cui l'obbligo di
contribuzione è indissolubilmente correlato
all'effettivo esercizio dello ius
aedificandi, non vale rispetto ai casi in
cui la partecipazione agli oneri di
urbanizzazione costituisce oggetto di
un'obbligazione non già imposta ex lege, ma
assunta contrattualmente nell'ambito di un
rapporto di natura pubblicistica correlato
alla pianificazione territoriale>>.
Nella fattispecie, a fronte di un impegno
dei proprietari a cedere gratuitamente
l’area in favore dell’amministrazione, a
titolo di urbanizzazione secondaria, e a
conferirne al Comune il possesso anticipato,
per consentire l’immediata utilizzazione
della stessa, il TAR osserva che:
<<poiché, per espressa volontà delle parti,
l’obbligo avente ad oggetto la cessione
gratuita dell’area in questione non è stato
condizionato alla futura attività
edificatoria, in applicazione dei principi
giurisprudenziali sopra richiamati, deve di
conseguenza ritenersi che esso non venga
meno in conseguenza dello scadere del
termine previsto dal piano particolareggiato
per la realizzazione dei lavori di
risanamento conservativo e di
ristrutturazione edilizia della villa>>
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 21.03.2022 n.
649 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
... per l'accertamento dell'illecita
occupazione del terreno di proprietà della
ricorrente e per la condanna del Comune
resistente alla restituzione del terreno
medesimo ed al risarcimento dei danni
patiti.
...
1. Con il ricorso in epigrafe, la Im.Sa.An.
s.r.l. ha domandato l’accertamento
dell’illecita occupazione, da parte del
Comune di Rivanazzano Terme di un terreno
-che afferma essere di sua proprietà-
situato all’incrocio tra via Bischizio e
Corso della Repubblica e la condanna
dell’amministrazione alla restituzione del
terreno stesso ed al risarcimento dei danni
patiti per il periodo in cui è stata privata
del possesso del bene, ovvero, dal momento
in cui la società ricorrente è divenuta
proprietaria dell’area, fino alla
restituzione del bene o all’adozione di un
provvedimento ai sensi dell’art. 42-bis,
d.lgs. n. d.P.R. n. 327/2001.
...
4. Questi i fatti che afferiscono alla
controversia:
- il 20.01.1988, con deliberazione n. 8, la Giunta Comunale di
Rivazzano Terme ha approvato un piano
particolareggiato -nel quale era incluso il
terreno in questione– che prevedeva il
risanamento conservativo e la
ristrutturazione edilizia di una villa di
proprietà dei signori Ro.Sa. e Gi.Sa.,
all’epoca proprietari del comparto; la
delibera è stata ratificata con
deliberazione del Consiglio Comunale n. 17
del 25.03.1988; il piano particolareggiato è
stato approvato, in via definitiva, con
deliberazione della Giunta municipale n. 117
del 30.06.1988;
- in data 07.03.1990, i sig.ri Sa. hanno stipulato con il Comune di
Rivanazzano Terme la convenzione urbanistica
rep. 47754, con la quale, all’art. 3, hanno
assunto l’impegno a cedere gratuitamente
all’amministrazione comunale il terreno
oggetto della presente controversia;
- in data 05.04.1990 la convenzione, unitamente al trasferimento di
proprietà del terreno in favore del Comune,
è stata trascritta nei registri immobiliari;
- nel 1990 il Comune ha realizzato sull’area un parcheggio;
- la destinazione ad area pubblica–verde attrezzato adibita a
parcheggio è stata recepita dallo strumento
urbanistico, approvato con delibera del
Consiglio Comunale n. 2/2012;
- gli interventi di risanamento conservativo e ristrutturazione
degli immobili di proprietà dei sig.ri Sa.
previsti dal piano non sono stati attuati
entro il termine del 06.03.2000 previsto
dalla convenzione;
- con scrittura privata del 26.07.2001 la Im.Sa.An. S.r.l. ha
acquistato l’intera area dai sig.ri Sa.;
- in data 05.02.2021, la società ha indirizzato al Comune una nota
con cui ha chiesto chiarimenti quanto al
titolo in forza del quale il Comune ha
occupato l’area interessata dal parcheggio.
5. A fondamento delle domande di
accertamento dell’illecita occupazione del
terreno da parte del Comune di Rivanazzano
Terme e di condanna alla restituzione
dell’area ed al risarcimento dei danni
subiti la ricorrente ha affermato che:
- la proprietà dell’area non sarebbe mai stata trasferita dai
sig.ri Sa. all’amministrazione Comunale;
- la scadenza del piano, per decorso del termine decennale, il
06.03.2000, avrebbe determinato il venir
meno della causa che giustificava l’obbligo
di trasferimento dell’area, da destinare
alla urbanizzazione secondaria, previsto
all’art. 3 della convenzione urbanistica e
avrebbe reso illegittima l’occupazione del
terreno da parte del Comune;
- non sarebbe stato adottato un decreto di occupazione d’urgenza o
un decreto d’esproprio.
6. Le domande non sono fondate.
7. La giurisprudenza, richiamata anche dalla
ricorrente, è costante nell’affermare che
gli impegni assunti in sede convenzionale
-al contrario di quanto si verifica in caso
rilascio del singolo titolo edilizio, in cui
gli oneri di urbanizzazione e di costruzione
a carico del destinatario sono collegati
alla specifica trasformazione del territorio
oggetto del titolo, con la conseguenza che
ove, in tutto o in parte, l'edificazione non
ha luogo, può venire in essere un pagamento
indebito fonte di un obbligo restitutorio-
non vanno riguardati isolatamente, ma vanno
rapportati alla complessiva remuneratività
dell'operazione, che costituisce il reale
parametro per valutare l'equilibrio del
sinallagma contrattuale e, quindi, la
sostanziale liceità degli impegni assunti (Cons.
Stato, IV, 15.02.2019, n. 1069).
La causa della convenzione urbanistica, e
cioè l'interesse che l'operazione
contrattuale è diretta a soddisfare, quindi,
va valutata non con riferimento ai singoli
impegni assunti, ma con riguardo alla
oggettiva funzione economico-sociale del
negozio, in cui devono trovare equilibrata
soddisfazione sia gli interessi del privato
sia quelli della pubblica amministrazione
(Con. Stato, Sez. V, 26.11.2013, n. 5603).
Inoltre, occorre sottolineare che non è
affatto escluso dal sistema che un
operatore, nella convenzione urbanistica,
possa assumere oneri anche maggiori di
quelli astrattamente previsti dalla legge,
trattandosi di una libera scelta
imprenditoriale (o, anche, di una libera
scelta volta al benessere della collettività
locale), rientrante nella ordinaria
autonomia privata, non contrastante di per
sé con norme imperative.
È stato quindi affermato che il principio
generale, secondo cui l'obbligo di
contribuzione è indissolubilmente correlato
all'effettivo esercizio dello ius
aedificandi, non vale rispetto ai casi
in cui la partecipazione agli oneri di
urbanizzazione costituisce oggetto di
un'obbligazione non già imposta ex lege,
ma assunta contrattualmente nell'ambito di
un rapporto di natura pubblicistica
correlato alla pianificazione territoriale (Cons.
Stato, sentenza n. 6339 del 12.11.2018).
8. Nel caso di specie, la convenzione
stipulata il 07.03.1990, all’art. 3, dispone
che: “i signori Sa. rag. Ro. e Sa. rag.
Gi., trattandosi nel caso in esame di
interventi previsti nel piano
particolareggiato, si impegnano a cedere
gratuitamente al Comune di Rivanazzano metri
quadrati 1643 di area, salvo più esatte
misure in luogo e conformemente al
frazionamento catastale a titolo di
urbanizzazione secondaria ed a conferire il
possesso anticipato per l’immediata
utilizzazione da parte del Comune per i fini
previsti dandosi atto dell’avvenuta
approvazione del Piano Particolareggiato”).
Essa prevede, dunque, l’impegno dei
proprietari a cedere gratuitamente l’area in
favore dell’amministrazione, a titolo di
urbanizzazione secondaria, e a conferirne al
Comune il possesso anticipato, per
consentire l’immediata utilizzazione della
stessa.
La disposizione finalizza gli obblighi di
cessione della proprietà e di conferimento
del possesso alla “immediata”
destinazione pubblica dell’area, svincolando
in tal modo il trasferimento del bene dalle
vicende inerenti la realizzazione degli
interventi previsti dal piano
particolareggiato.
Ciò diversamente da altre disposizioni della
convenzione: all’art. 1, ultimo comma, viene
previsto che “il piano potrà attuarsi
anche per singoli interventi purché i lavori
di recupero avvengano in modo coordinato con
la realizzazione delle opere ed
infrastrutture mancanti […]” e, all’art.
2, viene disposto che le somme dovute per
oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione saranno versate al momento del
rilascio della concessione edilizia.
Poiché, per espressa volontà delle parti,
l’obbligo avente ad oggetto la cessione
gratuita dell’area in questione non è stato
condizionato alla futura attività
edificatoria, in applicazione dei principi
giurisprudenziali sopra richiamati, deve di
conseguenza ritenersi che esso non venga
meno in conseguenza dello scadere del
termine previsto dal piano particolareggiato
per la realizzazione dei lavori di
risanamento conservativo e di
ristrutturazione edilizia della villa.
Pertanto, quand’anche per effetto della
sottoscrizione della convenzione non vi sia
stato il trasferimento della proprietà, non
può ritenersi che l’occupazione dell’area da
parte dell’amministrazione sia divenuta
illecita a seguito dello scadere del termine
del 06.03.2000, previsto per l’attuazione
degli interventi previsti dal piano, e che
sia insorto in capo ad essa di un obbligo
restitutorio.
I dubbi che la lettera dell’art. 3 della
convenzione pone –se cioè con essa le parti
abbiano inteso trasferire immediatamente la
proprietà dell’area o assumere solamente
l’obbligo di un futuro trasferimento- non
hanno, quindi, rilievo determinante.
9. In ogni caso, a questo riguardo, il
Collegio ritiene maggiormente rispettosa
della volontà delle parti, espressa nella
convenzione, la linea interpretativa
prospettata dalla difesa
dell’amministrazione resistente secondo cui
con la stipula della convenzione è stata
trasferita la proprietà dell’area.
10. A questa conclusione si giunge dando
applicazione ai principi espressi dalla
giurisprudenza in materia di interpretazione
del contratto, in forza dei quali il
carattere prioritario dell'elemento
letterale non va inteso in senso assoluto,
atteso che il richiamo nell'art. 1362 c.c.
alla comune intenzione delle parti impone di
estendere l'indagine ai criteri logici,
teleologici e sistematici anche laddove il
testo dell'accordo sia chiaro, ma incoerente
con indici esterni rivelatori di una diversa
volontà dei contraenti; pertanto, sebbene la
ricostruzione della comune intenzione delle
parti debba essere operata innanzitutto
sulla base del criterio dell'interpretazione
letterale delle clausole, assume valore
rilevante anche il criterio
logico-sistematico di cui all'art. 1363 c.c.,
che impone di desumere la volontà
manifestata dai contraenti da un esame
complessivo delle diverse clausole aventi
attinenza alla materia in contesa,
tenendosi, altresì, conto del comportamento,
anche successivo, delle parti (ex
plurimis,
Cass. 26/07/2019 n. 20294).
11. Nel caso di specie, portano a propendere
per un immediato trasferimento della
proprietà la mancata previsione nella
convenzione di disposizioni volte a regolare
tempi e modi della cessione gratuita e
financo del conferimento del possesso
anticipato dell’area, nonché il
comportamento complessivo delle parti
successivamente alla stipula della
convenzione.
In particolare assumono rilievo a quest’ultimo
riguardo:
- la trascrizione, nei registri immobiliari, della cessione della
proprietà dell’area, effettuata dai sig.ri
Sa., come previsto dall’art. 6 della
convenzione;
- la delibera del Consiglio Comunale n. 60 del 21.03.1990, in cui
viene dato atto che, con l’art. 3 della
convenzione, l’area, di cui era stato
precedentemente conferito il possesso
anticipato, è stata ceduta gratuitamente al
Comune e che sull’area “sussiste la
demanialità comunale”;
- le spese sostenute dall’amministrazione comunale per la
realizzazione del verde pubblico e la
manutenzione dell’area da un lato, il
mancato pagamento delle imposte relative
all’area in questione da parte dei sig.ri
Sa. e della Im.Sa.An. s.r.l. dall’altro.
12. Per le ragioni esposte le domande di
accertamento e di condanna sono infondate e
devono essere, pertanto, respinte. |
URBANISTICA:
Sulla non applicabilità della
prescrizione ex
art. 2934 c.c. alla situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il
Comune nei confronti del privato in forza di una convenzione di
lottizzazione o comunque in base ad una convenzione urbanistica.
Il Collegio, pur consapevole che la questione della
applicabilità della prescrizione ex
art. 2934 c.c. alla situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il
Comune nei confronti del privato in forza di una convenzione di
lottizzazione o comunque in base ad una convenzione urbanistica ex art. 28
della L. 17.08.1942, n. 1150 non ha trovato soluzione unanime in
giurisprudenza, ritiene di aderire all’orientamento secondo il quale dalla
natura "sostitutiva" del potere pianificatorio che si riconosce ex art. 11
della L. n. 241 del 1990 alla convenzione di lottizzazione, deriva la non
applicabilità dell’istituto della prescrizione a fronte della pretesa
dell’amministrazione all’esecuzione di impegni a carico del privato
derivanti dalla convenzione stessa.
Non essendo, infatti, tale pretesa riducibile ad una posizione di diritto
soggettivo "disponibile" di cui sarebbe titolare il Comune, essendo volta,
sia pure mediante l'adozione di una modalità di esercizio concordata del
"potere di pianificazione" ad essa attribuito dalla legge, a perseguire
l'interesse pubblico al razionale assetto urbanistico del territorio, la
stessa è di carattere non rinunciabile né estinguibile per effetto del mero
decorso del tempo (o, secondo una diversa ricostruzione della prescrizione
dalla quale deriverebbe solo un effetto preclusivo all'esercizio del
diritto, suscettibile di essere "indebolita" dall'eccezione sollevata dalla
controparte).
Ne consegue che “gli obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria
assunti con le convenzioni urbanistiche mantengono la loro piena validità a
tempo indeterminato, e che con riguardo al "vincolo di cessione" delle aree
del privato strumentale all'ottemperanza di tali obblighi, non possono
configurarsi né decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di
area che il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è
obbligato a cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di
lottizzazione”.
---------------
Preliminarmente va disattesa l’eccezione di prescrizione del vincolo
discendente dal piano di lottizzazione, sollevata sul rilievo dell’ampio
periodo di tempo trascorso tra la data di approvazione dello strumento
urbanistico da cui viene fatto derivare l’obbligo della cessione gratuita e
quella in cui è stata riscontrata la mancata cessione dell’area.
Il Collegio, pur consapevole che la questione della applicabilità della
prescrizione ex
art. 2934 c.c. alla situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il
Comune nei confronti del privato in forza di una convenzione di
lottizzazione o comunque in base ad una convenzione urbanistica ex art. 28
della L. 17.08.1942, n. 1150 non ha trovato soluzione unanime in
giurisprudenza, ritiene di aderire all’orientamento (cfr. Cons. Stato, Sez.
IV,
26.02.2019, n. 1341: "gli obblighi di cessione recati da una
convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono
imprescrittibili”; Idem
29.03.2019, n. 2084; Idem
n. 3672 del 14.06.2018;
n. 4278 del 26.08.2014, nonché
n. 5413 del 30.11.2015) secondo il quale dalla natura "sostitutiva"
del potere pianificatorio che si riconosce ex art. 11 della L. n. 241 del
1990 alla convenzione di lottizzazione, deriva la non applicabilità
dell’istituto della prescrizione a fronte della pretesa dell’amministrazione
all’esecuzione di impegni a carico del privato derivanti dalla convenzione
stessa.
Non essendo, infatti, tale pretesa riducibile ad una posizione di diritto
soggettivo "disponibile" di cui sarebbe titolare il Comune, essendo
volta, sia pure mediante l'adozione di una modalità di esercizio concordata
del "potere di pianificazione" ad essa attribuito dalla legge, a
perseguire l'interesse pubblico al razionale assetto urbanistico del
territorio, la stessa è di carattere non rinunciabile né estinguibile per
effetto del mero decorso del tempo (o, secondo una diversa ricostruzione
della prescrizione dalla quale deriverebbe solo un effetto preclusivo
all'esercizio del diritto, suscettibile di essere "indebolita"
dall'eccezione sollevata dalla controparte).
Ne consegue che “gli obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria
assunti con le convenzioni urbanistiche mantengono la loro piena validità a
tempo indeterminato, e che con riguardo al "vincolo di cessione" delle aree
del privato strumentale all'ottemperanza di tali obblighi, non possono
configurarsi né decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di
area che il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è
obbligato a cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di
lottizzazione” (TAR Napoli, Sez. II,
05/12/2019, n. 5705, TAR Cagliari, Sez. II,
10.01.2018, n. 8) (TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 14.03.2022 n. 742 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
opere di urbanizzazione e le relative aree su cui esse insistono non sono
usucapibili, stante la loro precisa destinazione funzionale, cioè quella di
garantire la dotazione legale di standards urbanistici previsti per la specifica zona di intervento edilizio
e la funzionalità o congruità delle opere di servizio, indispensabili per la
vivibilità di un contesto intensamente antropizzato; destinazione che le fa
rientrare nel patrimonio indisponibile del Comune.
Tanto, in virtù di quanto
previsto dall’art. 826, u.c., cod. civile, secondo cui “Fanno parte del
patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e
dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di
uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico
servizio”.
In altri termini, le opere di urbanizzazione primaria, proprio in quanto
tali, integrano il requisito, sia amministrativo che effettivo, di essere
preordinate alla soddisfazione di interessi generali, dunque destinate a un
pubblico servizio, ai sensi dell’art. 826 c.c.; in particolare, nel caso in
esame, è pacifico che le opere in questione siano state realizzate per
ottemperare ad obblighi di legge prodromici al rilascio dei permessi
edilizi, che presuppongono la cessione degli standards urbanistici di zona e
che le stesse siano state effettivamente utilizzate per assicurare
l’idoneità funzionale dell’intero insediamento, a servizio non solo dei
proprietari ma di tutti coloro che accedono alla Cittadella commerciale
(seppur nell’erronea convinzione della reclamante-ricorrente di aver
“riscattato” i suddetti beni e di averne per questo acquisito la proprietà).
Sul punto, consolidata giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che “Le
opere di urbanizzazione sono preordinate alla fruizione collettiva
indifferenziata e alla soddisfazione di interessi generali, tanto più
allorché siano realizzate a soddisfazione dei necessari standard
urbanistici: in tale prospettiva, gli spazi a parcheggio concretanti opere
di urbanizzazione vanno ritenuti per definizione pubblici, o comuni,
palesandosi abusiva ed illecita la pretesa di una fruizione riservata e
limitata” e che “Le opere di urbanizzazione primaria, o tecnologica,
comprendono tutte le attrezzature a rete, o infrastrutture, necessarie per
assicurare ad un'area edificabile l'idoneità insediativa in senso tecnico,
cioè tutte quelle attrezzature che rendono possibile l'uso degli edifici”.
---------------
Quanto all’eccepita prescrizione del diritto del Comune
a veder concretamente attuati gli obblighi convenzionali, si osserva che
correttamente il Commissario ad acta ha osservato che “Operando il
trasferimento automatico non può nemmeno porsi questione relativa alla
prescrizione”.
Ove pure si dovesse opinare, ma solo in astratto, che non vi fosse sui
beni de quibus un inscindibile legame con la cosa pubblica, collegato alla
natura di beni del patrimonio indisponibile del Comune, comunque le aree e
le opere di servizio, per come qualificate dalla stessa ricorrente,
resterebbero dedicate e destinate ab origine alla fruizione di una
collettività indeterminata di cittadini-utenti, così da vedersi comprese
nella c.d. dicatio ad patriam che, pur non escludendo gli esiti traslativi
invocati dalla società ricorrente, impedirebbe l’uso economico che la stessa
pretende di protrarre nel tempo.
Il Consiglio di Stato ha
precisato le caratteristiche della c.d. “dicatio ad patriam”, intesa come
modo di costituzione di un uso pubblico mediante la messa a disposizione
della collettività del bene, ancorché di proprietà privata.
Le argomentazioni addotte dal Commissario ad acta, nel provvedimento
qui impugnato dalla società ..., resistono alle critiche formulate
dalla medesima, essendosi chiarito in giurisprudenza che:
- “l'acquisizione
delle opere e delle relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo è
la cessione delle stesse per la società lottizzante; ciò in quanto, oltre ad
essere tassativamente previsto dalla legge nei termini sopra descritti
(ovvero secondo quanto prescritto all’art. 28 l. 1150/1942, comma 5), detto
trasferimento è condizione necessaria affinché possa concretamente
realizzarsi l'assetto del territorio cui sovrintende l'attività di
pianificazione ed è, altresì, presupposto necessario affinché possano poi
concretamente operare le norme nazionali e regionali vigenti in materia di
corretta gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di
urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore espressamente affida
all'autorità amministrativa”. Invero
- le opere di
urbanizzazione “unitamente alle aree su cui esse insistono, per principio
generale appartengono necessariamente alla mano pubblica, secondo il regime
del patrimonio indisponibile”, ex
art. 826, comma 3, c.c.;
ed ancora
- "sussiste,
sia pure dopo l’entrata in vigore del DPR 380/2001, una presunzione juris et
de jure di proprietà pubblica delle opere di urbanizzazione"; nonché
- “Il
trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione in capo al
comune costituisce un'obbligazione ex lege -inderogabile e indisponibile
per le parti della convenzione di lottizzazione in base alla quale le opere
stesse sono state realizzate-, ex art. 28 della L. n. 1150 del 17.08.1942, con la conseguenza che le parti non potrebbero legittimamente
accordarsi sul loro mantenimento in capo al lottizzante, essendo tali opere
strumentali allo svolgimento di pubblici servizi fisiologicamente rientranti
nelle competenze dell'autorità amministrativa”.
Tale è l’orientamento giurisprudenziale che ha trovato conferma prima in un
arresto del Tar Brescia (la sentenza n. 902/2018), quindi nella decisione
del Consiglio di Stato (Sez. IV, 26.02.2019, n. 1341) che ha ritenuto
le obbligazioni pubblicistiche derivanti da Convenzioni di lottizzazioni
come imprescrittibili.
Afferma il Tar Brescia, nella richiamata decisione, che
“l’obbligo di cessione gratuita ricavabile dalla normativa urbanistica, pur
non avendo carattere periodico, ha una consistenza analoga a quella
dell’onere reale, sia in relazione al presupposto (rapporto con la cosa),
sia relativamente alla funzione (utilità protratta nel tempo). In
particolare, sotto il primo profilo, perché si tratta del necessario
bilanciamento al peso insediativo apportato dalle nuove costruzioni private;
sotto il secondo profilo, perché soddisfa un interesse collettivo di natura
permanente, che consiste nell’integrare le infrastrutture al servizio di una
zona urbanistica. Pertanto, mentre per i crediti espressi in un importo
monetario (ad esempio, il contributo di costruzione) decorre il normale
termine di prescrizione decennale, la cessione gratuita di aree non è soggetta a
prescrizione, almeno finché l’Amministrazione non decida di liberare il
fondo dei privati disponendo la monetizzazione dello standard”.
L’opzione interpretativa ha trovato conferma in una decisione del Consiglio
di Stato, secondo cui “gli obblighi di cessione recati da una convenzione di
lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili … E ciò
anche perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile
ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione”.
---------------
V.1 - Come già anticipato, l’art. 5 rinvenibile
tra le pattuizioni di tutte le suddette Convenzioni stabiliva che “dopo il
collaudo definitivo favorevole, le opere saranno automaticamente prese in
carico dal comune e potranno essere rilasciati i certificati di abitabilità
sia delle opere che degli edifici”.
La parola “automaticamente” evidenzia la volontà delle parti di ritenere
verificata la cessione a scomputo delle opere di urbanizzazione -a seguito
della quale erano rilasciabili i certificati di agibilità- non appena le
stesse fossero venute a esistenza, senza necessità di ulteriori atti di
consenso.
È vero che la Convenzione del 1990, stipulata dopo il collaudo, precisava
che “resta fermo l’obbligo della Società il Ba. S.p.A., ai sensi
dell’articolo 7 delle Convenzioni 27/09/1983 numero 1584 di Repertorio,
01/06/1984 numero 1636 di Repertorio e 11/02/1985 numero 1684 di Repertorio di
cedere al Comune di Casamassima tutti gli impianti, manufatti ed opere
elencate nell’articolo 5 delle convenzioni innanzi citate” (così l’art. 3
della Convenzione del 1990), ma questa disposizione fa riferimento a
“impianti, manufatti ed opere”, quindi non smentisce che le aree siano già
di proprietà del Comune e, comunque, impone un “obbligo di cedere” che non è
necessariamente da intendersi come obbligo di trasferire in proprietà, ben
potendo intendersi genericamente come obbligo di consegnare.
L’esistenza delle opere di urbanizzazione come tali si è perfezionata con il
collaudo delle stesse che, come riferisce la stessa reclamante-ricorrente
Tr.Se., è avvenuto in data 28.11.1987. Il tutto –si potrebbe
ritenere- secondo lo schema contrattuale di vendita o cessione di cosa
futura, di cui all’art. 1472 cod. civile, secondo cui “Nella vendita che ha
per oggetto una cosa futura, l'acquisto della proprietà si verifica non
appena la cosa viene ad esistenza”. In effetti, “la vendita di cosa futura,
pur non comportando il passaggio della proprietà della cosa al compratore
simultaneamente per effetto della semplice manifestazione del consenso, non
costituisce un negozio a formazione progressiva suscettibile soltanto di
effetti meramente preliminari, aventi per contenuto quello di porre in
essere un successivo negozio, ma configura un'ipotesi di contratto
definitivo di vendita obbligatoria, di per sé idoneo e sufficiente a
produrre l'effetto traslativo della proprietà al momento in cui la cosa
verrà ad esistenza a norma dell'art. 1472 c.c.” (cfr.: Cass. civile, Sez. II,
n. 11840 del 06.11.1991).
L’effetto traslativo delle opere di urbanizzazione di che trattasi si è,
dunque, verificato in capo al Comune di Casamassima nel momento stesso in
cui è stato effettuato il collaudo; a conferma dell’automaticità
dell’effetto traslativo, giunge l’ulteriore previsione contrattuale del
medesimo art. 5 delle citate convenzioni, secondo cui “l’utilizzo di dette
opere da parte della ditta dovrà essere oggetto di particolare convenzionamento”.
Le parti, dunque, proprio in ragione del presupposto dell’automaticità
dell’effetto traslativo, avevano pure previsto la possibilità di utilizzo da
parte della ditta realizzatrice, seppur mediante apposito convenzionamento
atto a disciplinarne i soli risvolti gestionali.
Ulteriore conseguenza del perfezionamento dell’effetto traslativo delle
opere di urbanizzazione in capo al Comune nel momento stesso della loro
venuta a esistenza è che le stesse opere, sin da quel momento, sono
transitate nel patrimonio indisponibile del Comune, con tutte le correlate
tutele, in primis quella di cui all’art. 828 cod. civile.
Tanto ha correttamente rilevato una pertinente giurisprudenza, secondo cui
«A seguito dell'entrata in vigore d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (t.u.
Edilizia, ove all'art. 16, comma 2, si afferma che "2. La quota di contributo
relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del
rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può
essere rateizzata. A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il
titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione, nel rispetto dell'art. 2, comma 5, l. 11.02.1994 n.
109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal
comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio
indisponibile del comune"), una volta ricondotte al regime del patrimonio
indisponibile, le opere di urbanizzazione godono del sistema di protezione
di cui all'art. 828, comma 2, del codice civile, secondo cui "I beni che
fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla
loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano",
il che ne impedisce l'alienazione e l'usucapione da parte dei privati (cfr.
ex multis Cassazione civile, Sez. II, 15.02.2010, n. 3465)» (cfr.:
Tar Sardegna, Sez. II, 04/08/2011, n. 880).
Come già osservato, che le suddette opere di urbanizzazione siano
automaticamente transitate nel patrimonio comunale viene implicitamente
confermato dalla stessa reclamante società Tr.Se., la quale nella
consapevolezza della titolarità pubblica ha individuato il Comune quale
soggetto proprietario contro cui proporre azione di usucapione.
V.2 - Sotto altro profilo, va comunque rilevato che le opere di
urbanizzazione e le relative aree su cui esse insistono -al di là del già
verificato effetto traslativo per espresso disposto delle convenzioni di
urbanizzazione- non dovrebbero essere usucapibili, stante la loro precisa
destinazione funzionale, cioè quella di garantire la dotazione legale di standards urbanistici previsti per la specifica zona di intervento edilizio
e la funzionalità o congruità delle opere di servizio, indispensabili per la
vivibilità di un contesto intensamente antropizzato; destinazione che le fa
rientrare nel patrimonio indisponibile del Comune. Tanto, in virtù di quanto
previsto dall’art. 826, u.c., cod. civile, secondo cui “Fanno parte del
patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e
dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di
uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico
servizio”.
In altri termini, le opere di urbanizzazione primaria, proprio in quanto
tali, integrano il requisito, sia amministrativo che effettivo, di essere
preordinate alla soddisfazione di interessi generali, dunque destinate a un
pubblico servizio, ai sensi dell’art. 826 c.c.; in particolare, nel caso in
esame, è pacifico che le opere in questione siano state realizzate per
ottemperare ad obblighi di legge prodromici al rilascio dei permessi
edilizi, che presuppongono la cessione degli standards urbanistici di zona e
che le stesse siano state effettivamente utilizzate per assicurare
l’idoneità funzionale dell’intero insediamento, a servizio non solo dei
proprietari ma di tutti coloro che accedono alla Cittadella commerciale
(seppur nell’erronea convinzione della reclamante-ricorrente di aver
“riscattato” i suddetti beni e di averne per questo acquisito la proprietà).
Sul punto, consolidata giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che “Le
opere di urbanizzazione sono preordinate alla fruizione collettiva
indifferenziata e alla soddisfazione di interessi generali, tanto più
allorché siano realizzate a soddisfazione dei necessari standard
urbanistici: in tale prospettiva, gli spazi a parcheggio concretanti opere
di urbanizzazione vanno ritenuti per definizione pubblici, o comuni,
palesandosi abusiva ed illecita la pretesa di una fruizione riservata e
limitata” e che “Le opere di urbanizzazione primaria, o tecnologica,
comprendono tutte le attrezzature a rete, o infrastrutture, necessarie per
assicurare ad un'area edificabile l'idoneità insediativa in senso tecnico,
cioè tutte quelle attrezzature che rendono possibile l'uso degli edifici” (cfr.:
Cons. Stato, sez. V, 13/09/2018, n. 5372).
Ciò comporta che la pretesa del privato tesa ad appropriarsi delle suddette
opere per sottrarle alla mano pubblica e alla loro precipua destinazione,
non può essere ritenuta meritevole di accoglimento.
V.3 - Va pure rilevato che, in virtù dello specifico regime che caratterizza
questo tipo di opere, ogni atto dispositivo risulterebbe essere viziato da
nullità, in quanto contrario a norme imperative o, comunque, a disposizioni
non derogabili dai privati.
Nessuno degli atti dispositivi menzionati dalla reclamante-ricorrente,
dunque, costituirebbe titolo idoneo al trasferimento della proprietà, così
come precisato dalla Suprema Corte, secondo cui “Ai fini dell'usucapione
decennale l'atto nullo non costituisce titolo idoneo al trasferimento della
proprietà. (Nella specie, la Cassazione ha negato che colui che acquista un
bene demaniale da un altro privato possa invocare l'usucapione abbreviata
decennale, e ciò neppure dalla successiva data di sdemanializzazione del
bene che non comporta alcuna convalida dell'atto di trasferimento del bene)”
(cfr.: Cass. civile sez. II, 20/04/2001, n. 5894).
Alla luce di quanto sopra, risulta evidente come l’iniziativa processuale
promossa in questa sede dalla società Tr.Se. sconti diversi profili
di criticità, che conducono ognuno al suo integrale rigetto.
V.4 - Nessuna rilevanza preclusiva all’operato trasferimento automatico
della proprietà delle aree di che trattasi in capo al Comune può enuclearsi
dalla determina dirigenziale comunale n. 50 del 17.02.2003 del Comune di
Casamassima, in assenza di recepimento della stessa da parte del Consiglio
comunale, che è l’unico organo che, ai sensi di legge (art. 42, D.Lgs. n.
267/2000), può assumere statuizioni in merito all’acquisizione o alla
dismissione di beni e opere pubbliche. A tutto voler concedere, all’atto
dirigenziale in parola potrebbe attribuirsi valenza meramente interna, di
atto istruttorio o proposta da sottoporre al vaglio del Consiglio comunale,
quindi natura di atto endo-procedimentale, anche perché è mancato, in ogni
caso, l’atto convenzionale che avrebbe dovuto costituire il titolo per il
trasferimento e per la legittima fruizione delle aree di che trattasi.
V.5 - Quanto all’eccepita prescrizione del diritto del Comune di Casamassima
a veder concretamente attuati gli obblighi convenzionali, si osserva che
correttamente il Commissario ad acta ha osservato che “Operando il
trasferimento automatico non può nemmeno porsi questione relativa alla
prescrizione”.
V.6 – Ove pure si dovesse opinare, ma solo in astratto, che non vi fosse sui
beni de quibus un inscindibile legame con la cosa pubblica, collegato alla
natura di beni del patrimonio indisponibile del Comune, comunque le aree e
le opere di servizio, per come qualificate dalla stessa ricorrente,
resterebbero dedicate e destinate ab origine alla fruizione di una
collettività indeterminata di cittadini-utenti, così da vedersi comprese
nella c.d. dicatio ad patriam che, pur non escludendo gli esiti traslativi
invocati dalla società ricorrente, impedirebbe l’uso economico che la stessa
pretende di protrarre nel tempo.
Con la sentenza n. 5785 del 22.08.2019, il Consiglio di Stato ha
precisato le caratteristiche della c.d. “dicatio ad patriam”, intesa come
modo di costituzione di un uso pubblico mediante la messa a disposizione
della collettività del bene, ancorché di proprietà privata.
V.7 - Le argomentazioni addotte dal Commissario ad acta, nel provvedimento
qui impugnato dalla società Tr.Se., resistono alle critiche formulate
dalla medesima, essendosi chiarito in giurisprudenza che “l'acquisizione
delle opere e delle relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo è
la cessione delle stesse per la società lottizzante; ciò in quanto, oltre ad
essere tassativamente previsto dalla legge nei termini sopra descritti
(ovvero secondo quanto prescritto all’art. 28 l. 1150/1942, comma 5), detto
trasferimento è condizione necessaria affinché possa concretamente
realizzarsi l'assetto del territorio cui sovrintende l'attività di
pianificazione ed è, altresì, presupposto necessario affinché possano poi
concretamente operare le norme nazionali e regionali vigenti in materia di
corretta gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di
urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore espressamente affida
all'autorità amministrativa” (cfr.: Tar Lazio, Roma, Sez. II-ter n. 5787
del 16.05.2016; vedasi anche Tar Sardegna, Cagliari sez. II, 04.08.2011, n. 880, laddove si precisa, tra l’altro, che le opere di
urbanizzazione “unitamente alle aree su cui esse insistono, per principio
generale appartengono necessariamente alla mano pubblica, secondo il regime
del patrimonio indisponibile”, ex art. 826, comma 3, c.c.; vedasi anche
T.a.r. Calabria, Catanzaro, I, 03.05.2011, nr. 606, secondo cui sussiste,
sia pure dopo l’entrata in vigore del DPR 380/2001, una presunzione juris et
de jure di proprietà pubblica delle opere di urbanizzazione; vedasi, infine,
Tar Sardegna, Cagliari, 19.02.2010, n. 187, secondo cui “Il
trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione in capo al
comune costituisce un'obbligazione ex lege -inderogabile e indisponibile
per le parti della convenzione di lottizzazione in base alla quale le opere
stesse sono state realizzate-, ex art. 28 della L. n. 1150 del 17.08.1942, con la conseguenza che le parti non potrebbero legittimamente
accordarsi sul loro mantenimento in capo al lottizzante, essendo tali opere
strumentali allo svolgimento di pubblici servizi fisiologicamente rientranti
nelle competenze dell'autorità amministrativa”).
Tale è l’orientamento giurisprudenziale che ha trovato conferma prima in un
arresto del Tar Brescia (la sentenza n. 902/2018), quindi nella decisione
del Consiglio di Stato (Sez. IV, 26.02.2019, n. 1341) che ha ritenuto
le obbligazioni pubblicistiche derivanti da Convenzioni di lottizzazioni
come imprescrittibili.
Afferma il Tar Brescia, nella richiamata decisione n. 902/2018, che
“l’obbligo di cessione gratuita ricavabile dalla normativa urbanistica, pur
non avendo carattere periodico, ha una consistenza analoga a quella
dell’onere reale, sia in relazione al presupposto (rapporto con la cosa),
sia relativamente alla funzione (utilità protratta nel tempo). In
particolare, sotto il primo profilo, perché si tratta del necessario
bilanciamento al peso insediativo apportato dalle nuove costruzioni private;
sotto il secondo profilo, perché soddisfa un interesse collettivo di natura
permanente, che consiste nell’integrare le infrastrutture al servizio di una
zona urbanistica. Pertanto, mentre per i crediti espressi in un importo
monetario (ad esempio, il contributo di costruzione) decorre il normale
termine di prescrizione decennale (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 03.05.2014 n. 464), la cessione gratuita di aree non è soggetta a
prescrizione, almeno finché l’Amministrazione non decida di liberare il
fondo dei privati disponendo la monetizzazione dello standard (TAR
Lombardia, Brescia, sez. I, 15.09.2015 n. 991)”.
L’opzione interpretativa ha trovato conferma in una decisione del Consiglio
di Stato, secondo cui “gli obblighi di cessione recati da una convenzione di
lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 4278 del 26.08.2014) … E ciò
anche perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile
ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione” (cfr.: Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2019, n. 1341; in termini Cons. Stato, Sez. IV, 29.03.2019, n. 2084; idem Sez. IV, n. 5413 del 30.11.2015; idem, Sez. IV, n. 3672 del 14.06.2018) (TAR Puglia-Bari, Sez. III;
sentenza 04.10.2021 n. 1429 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Per pacifica
giurisprudenza, il piano di lottizzazione ha durata decennale, così che,
decorso infruttuosamente questo termine, lo strumento attuativo perde
efficacia (la durata in questione è desunta dall’art. 16, 5° co., l. 17.08.1942, n. 1150, sui piani particolareggiati, perché il successivo art.
28 prevede soltanto che la convenzione di lottizzazione fissi i termini, non
superiori a dieci anni, entro i quali deve essere ultimata l’esecuzione
delle opere convenzionate e che il piano di lottizzazione assuma nella
pianificazione urbanistica una natura normalmente alternativa rispetto al
piano particolareggiato).
Tale sopravvenuta inefficacia comunque “non comporta la decadenza di ogni
disciplina urbanistica dell’area, poiché restano espressamente ferme, a
tempo indeterminato, le prescrizioni di zona e quelle relative agli
allineamenti” ai sensi dell’art. 17 l. n. 1150/1942.
Muovendo da tale premessa, la giurisprudenza ha ribadito:
- che le “previsioni dello strumento attuativo”, comportanti “la
concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata” (venendo in
tal modo a specificare le “regole di conformazione” disposte dal p.r.g. ai
sensi dell’art. 869 cod. civ.: “I proprietari d’immobili nei comuni dove
sono formati piani regolatori devono osservare le prescrizioni dei piani
stessi nelle costruzioni e nelle riedificazioni o modificazioni delle
costruzioni esistenti”), in linea di principio “rimangono efficaci a tempo
indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del
contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo)”, mentre
diventano inefficaci per decorso del termine solo le previsioni “che non
abbiano avuto concreta attuazione, […] salva la possibilità di ulteriori
costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale
e con le prescrizioni del piano attuativo […], che per questa parte ha
efficacia ultrattiva” (a sostegno di questa conclusione si afferma che
l’art. 17 l. n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui, “mentre le
previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della
utilizzazione dei suoli, le previsioni dello strumento attuativo hanno
carattere di tendenziale stabilità, in quanto specificano in dettaglio le
consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l’attuazione
del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina
l’assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e
inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito e, quindi,
contiene prescrizioni urbanistiche che rilevano a tempo indeterminato, anche
dopo la sua scadenza”);
- che con la scadenza del termine di efficacia dello strumento
attuativo “l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un
nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con
una nuova convenzione di lottizzazione”, ma “fino a quando tale potere non
viene esercitato, l’assetto urbanistico dell’area rimane definito nei
termini disposti con la convenzione di lottizzazione”;
- che “le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono […]
nell’ambito della sola disciplina urbanistica non potendo invece incidere
sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti
attuatori degli interventi (cfr. Cons. Stato, Adunanza plenaria, 20.07.2012, n. 28)”, restando “quindi in vigore il complesso delle prescrizioni in
cui questo si articola, in particolare per quanto concerne gli obblighi
correlati alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E
ciò «anche perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che
sia necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile
ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione»”.
---------------
Nel caso in esame, la
destinazione a “verde pubblico” della particella
non comporta l’imposizione sulla stessa di un vincolo espropriativo
(come tale soggetto a decadenza), ma di un vincolo avente natura
conformativa.
Va in proposito condiviso l’orientamento secondo cui la destinazione a verde
pubblico prevista in un piano di lottizzazione (“ossia all’interno di uno
strumento consensuale e per definizione perequativo”) non comporta
l’imposizione di un vincolo espropriativo, trattandosi di un c.d. “vincolo di cessione”,
relativamente al quale non possono configurarsi né decadenze, né
prescrizione, né usucapione.
Esso grava, infatti, su un’area che “il privato, in forza della convenzione
di lottizzazione, si è obbligato a cedere all’interno del complesso delle
previsioni del piano di lottizzazione quale strumento consensuale e per
definizione perequativo, in stretta correlazione alla legittima possibilità
per i privati di realizzare le edificazioni previste dal piano di
lottizzazione”.
Invero,
- è stato
precisato come tale vincolo sia “ancor più incisivo di un vincolo conformativo”;
ed ancora
- “gli obblighi di cessione recati da una convenzione di
lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono
imprescrittibili”, nonché
- “dalla natura ‘sostitutiva’ del potere pianificatorio che si riconosce
ex art. 11 della L. 241/1990 alla convenzione di lottizzazione” deriva
“l’incompatibilità dell’istituto della prescrizione alla ‘pretesa’
dell’amministrazione all’esecuzione di tali impegni; pretesa, irriducibile
ad una posizione di diritto soggettivo ‘disponibile’ di cui sarebbe titolare
il Comune, essendo volta, sia pure mediante l’adozione di una modalità di
esercizio concordata del ‘potere di pianificazione’ ad essa attribuito dalla
legge, a perseguire l’interesse pubblico al razionale assetto urbanistico
del territorio; come tale di carattere non rinunciabile né estinguibile per
effetto del mero decorso del tempo […]”.
--------------
5.1.
Per pacifica giurisprudenza (v. ex multis Cons. Stato, sez. IV, 24.09.2020, n. 5581), il piano di lottizzazione ha durata decennale, così che,
decorso infruttuosamente questo termine, lo strumento attuativo perde
efficacia (la durata in questione è desunta dall’art. 16, 5° co., l. 17.08.1942, n. 1150, sui piani particolareggiati, perché il successivo art.
28 prevede soltanto che la convenzione di lottizzazione fissi i termini, non
superiori a dieci anni, entro i quali deve essere ultimata l’esecuzione
delle opere convenzionate e che il piano di lottizzazione assuma nella
pianificazione urbanistica una natura normalmente alternativa rispetto al
piano particolareggiato).
Tale sopravvenuta inefficacia comunque “non comporta la decadenza di ogni
disciplina urbanistica dell’area, poiché restano espressamente ferme, a
tempo indeterminato, le prescrizioni di zona e quelle relative agli
allineamenti” ai sensi dell’art. 17 l. n. 1150/1942.
Muovendo da tale premessa, la giurisprudenza ha ribadito (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 29.03.2019, n. 2084):
- che le “previsioni dello strumento attuativo”, comportanti “la
concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata” (venendo in
tal modo a specificare le “regole di conformazione” disposte dal p.r.g. ai
sensi dell’art. 869 cod. civ.: “I proprietari d’immobili nei comuni dove
sono formati piani regolatori devono osservare le prescrizioni dei piani
stessi nelle costruzioni e nelle riedificazioni o modificazioni delle
costruzioni esistenti”), in linea di principio “rimangono efficaci a tempo
indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del
contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo)”, mentre
diventano inefficaci per decorso del termine solo le previsioni “che non
abbiano avuto concreta attuazione, […] salva la possibilità di ulteriori
costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale
e con le prescrizioni del piano attuativo […], che per questa parte ha
efficacia ultrattiva” (a sostegno di questa conclusione si afferma che
l’art. 17 l. n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui, “mentre le
previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della
utilizzazione dei suoli, le previsioni dello strumento attuativo hanno
carattere di tendenziale stabilità, in quanto specificano in dettaglio le
consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l’attuazione
del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina
l’assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e
inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito e, quindi,
contiene prescrizioni urbanistiche che rilevano a tempo indeterminato, anche
dopo la sua scadenza”);
- che con la scadenza del termine di efficacia dello strumento
attuativo “l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un
nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con
una nuova convenzione di lottizzazione”, ma “fino a quando tale potere non
viene esercitato, l’assetto urbanistico dell’area rimane definito nei
termini disposti con la convenzione di lottizzazione”;
- che “le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono […]
nell’ambito della sola disciplina urbanistica non potendo invece incidere
sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti
attuatori degli interventi (cfr. Cons. Stato, Adunanza plenaria, 20.07.2012, n. 28)”, restando “quindi in vigore il complesso delle prescrizioni in
cui questo si articola, in particolare per quanto concerne gli obblighi
correlati alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E
ciò «anche perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che
sia necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile
ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione»” (in quest’ultimo senso è citata Cons.
Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4278).
5.2. Nel caso in esame, la destinazione a “verde pubblico” della particella
334 non comporta l’imposizione sulla stessa di un vincolo espropriativo
(come tale soggetto a decadenza), ma di un vincolo avente natura
conformativa.
Va in proposito condiviso l’orientamento secondo cui la destinazione a verde
pubblico prevista in un piano di lottizzazione (“ossia all’interno di uno
strumento consensuale e per definizione perequativo”) non comporta
l’imposizione di un vincolo espropriativo (Tar Lombardia, Brescia, 26.04.2017, n. 551), trattandosi di un c.d. “vincolo di cessione”,
relativamente al quale non possono configurarsi né decadenze, né
prescrizione, né usucapione.
Esso grava, infatti, su un’area che “il privato, in forza della convenzione
di lottizzazione, si è obbligato a cedere all’interno del complesso delle
previsioni del piano di lottizzazione quale strumento consensuale e per
definizione perequativo, in stretta correlazione alla legittima possibilità
per i privati di realizzare le edificazioni previste dal piano di
lottizzazione” (Tar Sardegna, sez. II, 17.08.2020, n. 456, che ha
precisato come tale vincolo sia “ancor più incisivo di un vincolo conformativo”; v. anche Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2019, n. 1341,
secondo cui “gli obblighi di cessione recati da una convenzione di
lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono
imprescrittibili”, e Tar Campania, Napoli, sez. II, 05.12.2019, n.
5705: “dalla natura ‘sostitutiva’ del potere pianificatorio che si riconosce
ex art. 11 della L. 241/1990 alla convenzione di lottizzazione” deriva
“l’incompatibilità dell’istituto della prescrizione alla ‘pretesa’
dell’amministrazione all’esecuzione di tali impegni; pretesa, irriducibile
ad una posizione di diritto soggettivo ‘disponibile’ di cui sarebbe titolare
il Comune, essendo volta, sia pure mediante l’adozione di una modalità di
esercizio concordata del ‘potere di pianificazione’ ad essa attribuito dalla
legge, a perseguire l’interesse pubblico al razionale assetto urbanistico
del territorio; come tale di carattere non rinunciabile né estinguibile per
effetto del mero decorso del tempo […]”) (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 04.06.2021 n. 6593 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: M.
Petrulli,
Imprescrittibili gli obblighi di cessione di aree a favore del comune
nell’ambito di un piano di lottizzazione (14.12.2019 - tratto da
e link a www.lapostadelsindaco.it).
---------------
La questione della applicabilità della prescrizione decennale alla
situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il Comune nei confronti
del privato in forza di una convenzione di lottizzazione, o comunque in base
ad una convenzione urbanistica ex
art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150, in passato non ha trovato
soluzione unanime in giurisprudenza, riflettendosi in essa le più ampie
problematiche concernenti la natura giuridica dell’atto bilaterale cui è
condizionata l’autorizzazione ad edificare dell’ente locale e la
perimetrazione della clausola di compatibilità dei principi del codice
civile in materia di obbligazioni e contratti prevista dall’art.
11 della Legge 241/1990, cui si riconducono le convenzioni di
lottizzazione.
Secondo un orientamento che fa leva sulla natura negoziale della
convenzione, la pretesa dell’amministrazione di ottenere la cessione
gratuita delle aree e la realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, oggetto della correlativa obbligazione assunta dal
privato, sarebbe assoggettata al termine di prescrizione ordinario
decennale, con ciò implicitamente riconoscendo alla posizione giuridica
soggettiva del Comune natura di “diritto soggettivo disponibile”.
Nell’ambito di tale opzione interpretativa, secondo una prima declinazione
della tesi, il dies a quo della decorrenza della prescrizione viene
individuato nella stipula della convenzione medesima [1];
secondo un’altra, nella scadenza del termine di efficacia decennale della
convenzione medesima, in forza dell’applicazione dell’art. 2935 c.c.
(secondo cui la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui può essere
fatta valere), non potendosi qualificare, prima di tale scadenza, come
esigibile l’obbligazione convenzionalmente assunta dal privato
[2].
Secondo un opposto orientamento [3],
invece, dalla natura “sostitutiva” del potere pianificatorio che si
riconosce ex
art. 11 della L. 241/1990 alla convenzione di lottizzazione deriva
l’incompatibilità dell’istituto della prescrizione alla “pretesa”
dell’amministrazione all’esecuzione di tali impegni; pretesa, irriducibile
ad una posizione di diritto soggettivo “disponibile” di cui sarebbe
titolare il Comune, essendo volta, sia pure mediante l’adozione di una
modalità di esercizio concordata del “potere di pianificazione” ad
essa attribuito dalla legge, a perseguire l'interesse pubblico al razionale
assetto urbanistico del territorio; come tale di carattere non rinunciabile
né estinguibile per effetto del mero decorso del tempo (o, secondo una
diversa ricostruzione della prescrizione -dalla quale deriverebbe solo un
effetto preclusivo all’esercizio del diritto– suscettibile di essere “indebolito”
dall’eccezione sollevata dalla controparte).
È stato sul punto osservato che gli artt.
16,
17 e
28 della legge 17.08.1942 n. 1150 -i quali prevedono il termine di
efficacia decennale dei piani particolareggiati, con disciplina
analogicamente applicabile anche alle convenzioni di lottizzazione– debbano
interpretarsi nel senso che “le attività dirette alla realizzazione dello
strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono
essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale
l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto
urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova
convenzione di lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere
non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei
termini disposti con la convenzione di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 19.02.2007, n. 851).
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei
piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della sola
disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed
efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi
(cfr. Cons. Stato, ad. plen., 20.07.2012, n. 28) (…)
Pertanto, tenendo conto dell’indiscussa ultrattività (nei termini di cui
prima si è detto) del piano di lottizzazione in oggetto, resta tuttora in
vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola e dunque,
nella specie, l’obbligazione della società appellata di dar corso alla
cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò anche
perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile
ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione" [4].
L'ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si giustifica "alla
luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente
sollecito dell'interesse pubblico", essendo inconcepibile "ammettere
che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a
danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi
all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l'urbanizzazione primaria e
secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non
rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale,
caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della
lottizzazione" [5].
Ne consegue che:
- gli obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria assunti con
le convenzioni urbanistiche mantengono la loro piena validità a tempo
indeterminato [6];
- con riguardo al "vincolo di cessione" delle aree del privato
strumentale all’ottemperanza di tali obblighi, non possono “configurarsi
né decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di area che il
privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a
cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione
quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in stretta
correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare le
edificazioni previste dal piano di lottizzazione” [7].
---------------
[1] TAR Campania, Napoli, sez. II, sent. 23.03.2007, n. 2773.
[2] Ex multis, TAR Lombardia, Brescia, sent. 03.02.2003, n. 65; Milano, sez.
III, sent. 06.11.2013, n. 2428; TAR Abruzzo, L'Aquila, sent. 12.09.2013, n.
747.
[3] Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 26.02.2019, n. 1341, secondo cui “gli
obblighi di cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero dagli
atti a questa assimilabili sono imprescrittibili (cfr. Cons. St., sez. IV,
sentenza n. 4278 del 26.08.2014, nonché n. 5413 del 30.11.2015; da ultimo,
sez. IV, n. 3672 del 14.06.2018”; cfr. anche Consiglio di Stato, sez. IV,
sent. 29.03.2019, n. 2084.
[4] Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 26.08.2014, n. 4278.
[5] Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 26.08.2014, n. 4278; TAR Campania,
Napoli, sez. II, sent. 05.12.2019, n. 5705.
[6] TAR Campania, Napoli, sez. II, sent. 05.12.2019, n. 5705.
[7] TAR Sardegna, sez. II, sent. 10.01.2018, n. 8. |
URBANISTICA: Deve
essere respinta la domanda di
accertamento dell’avvenuta estinzione degli impegni posti a carico dei
ricorrenti dalla convenzione di lottizzazione per prescrizione decennale.
Ritiene il Collegio che, in adesione ad un opposto orientamento
giurispudenziale (laddove “gli obblighi di cessione recati da una
convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono
imprescrittibili), dalla natura “sostitutiva” del potere pianificatorio
che si riconosce ex art. 11 della L. 241/1990 alla convenzione di
lottizzazione derivi l’incompatibilità dell’istituto della
prescrizione alla “pretesa” dell’amministrazione all’esecuzione di tali
impegni.
Pretesa, irriducibile ad una posizione di diritto soggettivo
“disponibile” di cui sarebbe titolare il Comune, essendo volta, sia pure
mediante l’adozione di una modalità di esercizio concordata del “potere di
pianificazione” ad essa attribuito dalla legge, a perseguire l'interesse
pubblico al razionale assetto urbanistico del territorio; come tale di
carattere non rinunciabile né estinguibile per effetto del mero decorso del
tempo (o, secondo una diversa ricostruzione della prescrizione -dalla quale
deriverebbe solo un effetto preclusivo all’esercizio del diritto–
suscettibile di essere “indebolito” dall’eccezione sollevata dalla
controparte).
E’ stato sul punto osservato che gli artt. 16, 17 e 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 -i quali prevedono il termine di efficacia decennale
dei piani particolareggiati, con disciplina analogicamente applicabile anche
alle convenzioni di lottizzazione– debbano interpretarsi nel senso che “le
attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia
convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge
oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il
potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non
realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato,
l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la
convenzione di lottizzazione.
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo
(ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito
della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla
validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori
degli interventi (…)
Pertanto, tenendo conto dell’indiscussa ultrattività (nei termini di cui
prima si è detto) del piano di lottizzazione in oggetto, resta tuttora in
vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola e dunque,
nella specie, l’obbligazione della società appellata di dar corso alla
cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò anche
perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile
ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione".
L'ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si giustifica
"alla luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell'interesse pubblico", essendo inconcepibile
"ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l'urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione".
Ne consegue che gli obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria
assunti con le convenzioni urbanistiche mantengono la loro piena validità a
tempo indeterminato, e che con riguardo al "vincolo di cessione" delle aree
del privato strumentale all’ottemperanza di tali obblighi, non possono
“configurarsi né decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di
area che il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è
obbligato a cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di
lottizzazione quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in
stretta correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare
le edificazioni previste dal piano di lottizzazione”.
---------------
7. La questione della applicabilità della prescrizione ex
art.
2934 c.c. alla situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il Comune
nei confronti del privato in forza di una convenzione di lottizzazione o
comunque in base ad una convenzione urbanistica ex art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 non ha trovato soluzione unanime in giurisprudenza,
riflettendosi in essa le più ampie problematiche concernenti la natura
giuridica dell’atto bilaterale cui è condizionata l’autorizzazione ad
edificare dell’ente locale e la perimetrazione della clausola di
compatibilità dei principi del codice civile in materia di obbligazioni e
contratti prevista dall’art. 11 della Legge 241/1990, cui si riconducono le
convenzioni di lottizzazione (quali accordi sostitutivi del piano
particolareggiato ex art. 13 e ss. della L. 1150/1942 che è invece connotato
dalla iniziativa esclusiva dell’amministrazione e dal “modulo autoritativo”).
8. Secondo un orientamento che fa leva sulla natura negoziale della
convenzione, la pretesa dell’amministrazione di ottenere la cessione
gratuita delle aree e la realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, oggetto della correlativa obbligazione assunta dal
privato, sarebbe assoggettata al termine di prescrizione ordinario
decennale, con ciò implicitamente riconoscendo alla posizione giuridica
soggettiva del Comune natura di “diritto soggettivo disponibile” (stante la
conseguente operatività della deroga di carattere generale di cui all’art.
2934, comma 2 c.c.).
Nell’ambito di tale opzione interpretativa, secondo una prima declinazione
della tesi, il dies a quo della decorrenza della prescrizione viene
individuato nella stipula della convenzione medesima (TAR Napoli, Sez. II,
23.03.2007 n. 2773); secondo un’altra, nella scadenza del termine di
efficacia decennale della convenzione medesima, in forza dell’applicazione
dell’art. 2935 c.c., non potendosi qualificare, prima di tale scadenza, come
esigibile l’obbligazione convenzionalmente assunta dal privato (ex multis
TAR Brescia, 03.02.2003, n. 65; TAR Milano, sez. III, 06.11.2013, n. 2428; TAR L'Aquila, 12.09.2013, n. 747).
9. Ritiene il Collegio che, in adesione ad un opposto orientamento (cfr. da
ultimo Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2019, n. 1341: “gli obblighi di
cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a
questa assimilabili sono imprescrittibili (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza
n. 4278 del 26.08.2014, nonché n. 5413 del 30.11.2015; da ultimo,
sez. IV, n. 3672 del 14.06.2018”; cfr. anche Cons. Stato, Sez. IV, 29.03.2019, n. 2084), dalla natura “sostitutiva” del potere pianificatorio
che si riconosce ex art. 11 della L. 241/1990 alla convenzione di
lottizzazione derivi invece l’incompatibilità dell’istituto della
prescrizione alla “pretesa” dell’amministrazione all’esecuzione di tali
impegni; pretesa, irriducibile ad una posizione di diritto soggettivo
“disponibile” di cui sarebbe titolare il Comune, essendo volta, sia pure
mediante l’adozione di una modalità di esercizio concordata del “potere di
pianificazione” ad essa attribuito dalla legge, a perseguire l'interesse
pubblico al razionale assetto urbanistico del territorio; come tale di
carattere non rinunciabile né estinguibile per effetto del mero decorso del
tempo (o, secondo una diversa ricostruzione della prescrizione -dalla quale
deriverebbe solo un effetto preclusivo all’esercizio del diritto–
suscettibile di essere “indebolito” dall’eccezione sollevata dalla
controparte).
10. E’ stato sul punto osservato che gli artt. 16, 17 e 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 -i quali prevedono il termine di efficacia decennale
dei piani particolareggiati, con disciplina analogicamente applicabile anche
alle convenzioni di lottizzazione– debbano interpretarsi nel senso che “le
attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia
convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge
oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il
potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non
realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato,
l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la
convenzione di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.02.2007,
n. 851).
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo
(ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito
della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla
validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori
degli interventi (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 20.07.2012, n. 28) (…)
Pertanto, tenendo conto dell’indiscussa ultrattività (nei termini di cui
prima si è detto) del piano di lottizzazione in oggetto, resta tuttora in
vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola e dunque,
nella specie, l’obbligazione della società appellata di dar corso alla
cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò anche
perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile
ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione" (sentenza n. 4278/2014, cit. che riforma il
precedente di questa Sezione n. 2773/2007 sopra citato al punto 8).
11. L'ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si giustifica
"alla luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell'interesse pubblico", essendo inconcepibile
"ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l'urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione" (Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n.
4278).
Ne consegue che gli obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria
assunti con le convenzioni urbanistiche mantengono la loro piena validità a
tempo indeterminato, e che con riguardo al "vincolo di cessione" delle aree
del privato strumentale all’ottemperanza di tali obblighi, non possono
“configurarsi né decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di
area che il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è
obbligato a cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di
lottizzazione quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in
stretta correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare
le edificazioni previste dal piano di lottizzazione” (TAR Cagliari, Sez.
II, 10.01.2018, n. 8).
12. Alla luce delle considerazioni riportate supra ai punti 9 e 10, la
domanda di accertamento dell’avvenuta estinzione degli impegni posti a
carico dei ricorrenti dalla convenzione di lottizzazione stipulata con il
Comune nel 1977 per prescrizione decennale deve pertanto essere respinta (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.12.2019 n. 5705 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
piano di lottizzazione ha natura di piano particolareggiato di attuazione,
sicché, ai sensi dell’art. 17, comma 1, della legge 17.08.1942 n. 1150,
decorso il termine stabilito per l’esecuzione esso «diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto
attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di
osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di
quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal
piano stesso».
Da tale disposizione «possono trarsi i seguenti corollari:
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e
dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle
regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi
dell'art. 869 del codice civile);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci
a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative
del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di
lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano
attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più
consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori
costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale
e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che
per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l'art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al
principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano
in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli, le previsioni
dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale stabilità, in
quanto specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in
una prospettiva in cui l'attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase
della pianificazione, determina l'assetto definitivo della parte del
territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto
compiutamente definito e, quindi, contiene prescrizioni urbanistiche che
rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza».
A tali argomentazioni deve solo aggiungersi che con la scadenza del termine
l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto
urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova
convenzione di lottizzazione.
Tuttavia, fino a quando tale potere non viene esercitato, l’assetto
urbanistico dell’area rimane definito nei termini disposti con la
convenzione di lottizzazione.
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei
piani a questo equiparati) si esauriscono, in sostanza, nell’ambito della
sola disciplina urbanistica non potendo invece incidere sulla validità ed
efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli
interventi.
Resta quindi in vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si
articola, in particolare per quanto concerne gli obblighi correlati alla
cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò «anche
perché, alla luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell'interesse pubblico, sarebbe inconcepibile
ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione».
---------------
Per quanto concerne l’istituto della monetizzazione, qui in rilievo, va poi
ricordata la consolidata giurisprudenza amministrativa, secondo cui la
scelta fra la cessione delle aree necessarie per la realizzazione delle
opere di urbanizzazione ovvero la loro monetizzazione, rientra nella sfera
di discrezionalità tecnico-amministrativa dell’ente locale, come tale non
censurabile in sede giurisdizionale se non per manifesta irragionevolezza.
Nel caso dell’urbanistica convenzionata, la cessione gratuita delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione costituisce la regola, in quanto
consente di reperire le aree a standard in loco e, quindi, di assicurare uno
sviluppo urbanistico equilibrato.
La c.d. monetizzazione di quota parte delle suddette aree costituisce, per
contro, un’eccezione e, comunque, non configura una vicenda di carattere
meramente patrimoniale «poiché non può ammettersi separazione tra i commoda,
sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune, dagli incommoda, cioè il
peggioramento della qualità di vita dei residenti della zona».
Spetta dunque al Comune di valutare la commutazione sulla base di un
apprezzamento complesso, che investe sia l’idoneità o meno delle aree
offerte in funzione dell'uso pubblico cui verrebbero destinate, sia la
possibilità di acquisire aree alternative, con monetizzazione a carico del
lottizzante, al fine di mantenere invariato il livello di dotazione di
standard fissato dal piano regolatore.
---------------
10. Ciò posto, con un primo ordine di rilievi, l’appellante imputa al
TAR di non essersi pronunciato sulla censura che contestava l’avvenuta
scadenza della convenzione di lottizzazione, stante il vincolo di
inedificabilità assoluta imposto dal PAI.
In ogni caso, il primo giudice non avrebbe correttamente interpretato la
nota del 21.12.2006 con cui la società non solo aveva chiesto di conoscere i
criteri che l’amministrazione avrebbe adottato ove si fosse avvalso della
facoltà di monetizzazione delle aree di urbanizzazione secondaria, ma aveva
anche sollecitato il rinnovo della convenzione del 2001, stante il vincolo
imposto dal PAI fino al 12.04.2006.
Il Comune medesimo avrebbe comunque omesso di valutare che l’impossibilità
di realizzare qualsiasi intervento era dovuto a “factum principis”, e che,
per tale ragione, i termini della convenzione stipulata dovevano intendersi
come automaticamente prorogati.
10.1. Premesso che, come si è appena visto, il Comune ha fatto applicazione
di una delle previsioni recate dalla convenzione stipulata nel 2001 (l’art. 5,
comma 3), ritenendola, in parte qua, ancora efficace, è agevole rilevare che
-al contrario di quanto assume la società appellante- il TAR ha operato
una analitica ricostruzione dell’istituto della lottizzazione convenzionata,
spiegando altresì le ragioni per cui non poteva essere accolta la tesi,
riproposta anche in appello, di una proroga implicita.
Sotto il primo profilo, ha ricordato che il piano di lottizzazione ha natura
di piano particolareggiato di attuazione, sicché, ai sensi dell’art. 17,
comma 1, della legge 17.08.1942 n. 1150, decorso il termine stabilito per
l’esecuzione esso «diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto
attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di
osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di
quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal
piano stesso».
Da tale disposizione, prosegue il TAR, «possono trarsi i seguenti corollari:
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e
dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle
regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi
dell'art. 869 del codice civile);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci
a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative
del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di
lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano
attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più
consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori
costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale
e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che
per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l'art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al
principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano
in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli, le previsioni
dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale stabilità, in
quanto specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in
una prospettiva in cui l'attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase
della pianificazione, determina l'assetto definitivo della parte del
territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto
compiutamente definito e, quindi, contiene prescrizioni urbanistiche che
rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza (ex plurimis:
Cons. Stato, Sez. IV 04.12.2007 n. 6170) […]».
A tali argomentazioni deve solo aggiungersi che con la scadenza del termine
l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto
urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova
convenzione di lottizzazione.
Tuttavia, fino a quando tale potere non viene esercitato, l’assetto
urbanistico dell’area rimane definito nei termini disposti con la
convenzione di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.02.2007,
n. 851).
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei
piani a questo equiparati) si esauriscono, in sostanza, nell’ambito della
sola disciplina urbanistica non potendo invece incidere sulla validità ed
efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi
(cfr. Cons. Stato, Adunanza plenaria, 20.07.2012, n. 28).
Resta quindi in vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si
articola, in particolare per quanto concerne gli obblighi correlati alla
cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò «anche
perché, alla luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell'interesse pubblico, sarebbe inconcepibile
ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione» (Consiglio di Stato sez. IV, 26/08/2014, (ud.
15/07/2014, dep. 26/08/2014), n. 4278).
Per quanto concerne l’istituto della monetizzazione, qui in rilievo, va poi
ricordata la consolidata giurisprudenza amministrativa, secondo cui la
scelta fra la cessione delle aree necessarie per la realizzazione delle
opere di urbanizzazione ovvero la loro monetizzazione, rientra nella sfera
di discrezionalità tecnico-amministrativa dell’ente locale, come tale non
censurabile in sede giurisdizionale se non per manifesta irragionevolezza (Cons.
St., Sez. IV, sentenza n. 824 del 07.02.2011).
Nel caso dell’urbanistica convenzionata, la cessione gratuita delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione costituisce la regola, in quanto
consente di reperire le aree a standard in loco e, quindi, di assicurare uno
sviluppo urbanistico equilibrato.
La c.d. monetizzazione di quota parte delle suddette aree costituisce, per
contro, un’eccezione e, comunque, non configura una vicenda di carattere
meramente patrimoniale «poiché non può ammettersi separazione tra i commoda,
sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune, dagli incommoda, cioè il
peggioramento della qualità di vita dei residenti della zona» (Cons. St.,
Sez. IV, sentenza n. 1820 del 14.04.2014).
Spetta dunque al Comune di valutare la commutazione sulla base di un
apprezzamento complesso, che investe sia l’idoneità o meno delle aree
offerte in funzione dell'uso pubblico cui verrebbero destinate, sia la
possibilità di acquisire aree alternative, con monetizzazione a carico del
lottizzante, al fine di mantenere invariato il livello di dotazione di
standard fissato dal piano regolatore (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.03.2019 n. 2084 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Gli
obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria assunti con le convenzioni
urbanistiche mantengono la loro piena validità a tempo indeterminato.
---------------
Le convenzioni urbanistiche sono accordi ad oggetto
pubblico con i quali l’amministrazione realizza esclusivamente finalità
istituzionali.
Poiché i diritti e gli obblighi ivi previsti sono strumentali a dette
finalità, la convenzione urbanistica non ha una «specifica autonomia e
natura di fonte negoziale del regolamento di contrapposti interessi delle
parti stipulanti» bensì si configura come «accordo endoprocedimentale dal
contenuto vincolante quale mezzo rivolto al fine di conseguire
l’autorizzazione edilizia».
In tale ottica, non è quindi nemmeno ravvisabile un rapporto strettamente
sinallagmatico tra i soggetti stipulanti. Invero, "anche le previsioni “aggiuntive” sono sorrette dalla
medesima causa meritevole di tutela secondo la previsione della legge
urbanistica fondamentale".
---------------
Nel caso di specie, alla qualificazione della
prescrizione recata dall’art. 15 della convenzione urbanistica quale obbligo
di cessione gratuita di un’opera necessaria all’infrastrutturazione del
territorio, consegue il rigetto dell’eccezione di prescrizione opposta dalla
società poiché gli obblighi di cessione recati da una convenzione di
lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili.
Questo Consiglio ha infatti già rilevato, quanto al significato da
attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della legge urbanistica -secondo cui
l’efficacia dei piani particolareggiati ha un termine entro il quale le
opere debbano essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-
che “l'imposizione del termine suddetto va intesa nel senso che le attività
dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale
che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un
certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il
potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non
realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato,
l'assetto urbanistico dell’area rimane definito nei termini disposti con la
convenzione di lottizzazione”.
In tal senso, la Sezione si è conformata alla statuizioni dell’Adunanza
plenaria, secondo cui le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano
attuativo “si esauriscono […] nell’ambito della sola disciplina urbanistica,
non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni
assunte dai soggetti attuatori degli interventi che solo mediatamente
trovano fonte nel piano urbanistico attuativo (nel caso di specie, piano di
zona), radicandosi piuttosto nelle convenzioni urbanistiche, disciplinate
dall'art. 11 della legge n. 167 del 1962, come modificato dalla legge n. 865
del 1971, ovvero negli atti d'obbligo accessivi al provvedimento di
assegnazione”.
L’ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si giustifica
“alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell’interesse pubblico”, essendo inconcepibile
“ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione”.
Anche nel caso di specie, la società appellante non può giovarsi
dell’eccezione di prescrizione, essendo il contestato obbligo di cessione
parte inscindibile ed integrante della lottizzazione che le ha consentito di
edificare il compendio immobiliare in esame.
---------------
La controversia riguarda l’esecuzione di una convenzione urbanistica, così
come affermato dal Tribunale di Orbetello con statuizione coperta dal
giudicato formatosi sulla pronuncia che ha declinato la giurisdizione
ordinaria e della quale costituisce il necessario presupposto.
Gli obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria assunti con le
convenzioni urbanistiche mantengono la loro piena validità a tempo
indeterminato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4278).
Nella fattispecie è avvenuto che, in attuazione della prescrizione contenuta
nell’art. 15 della convenzione del 1975, la società appellante abbia
ritualmente consegnato al Comune detta unità abitativa, al fine di
consentirne il concordato uso pubblico.
Né tale uso è stato mai contestato fino a che, nell’anno 2000, la società ne
ha chiesto la restituzione, rivendicando la proprietà dell’immobile sulla
base della supposta intervenuta prescrizione dell’obbligo a cederlo
gratuitamente.
Il Comune ha richiamato, al riguardo, la nota dell’amministratore unico
della società, risalente al 03.09.1992, con la quale questi si era
dichiarato disponibile a formalizzare le cessioni indicate nella convenzione
del 1975, non lasciando quindi adito a dubbi circa il riconoscimento,
quantomeno a tutto il 1992, degli obblighi assunti nei confronti del Comune.
A tale inequivoco riconoscimento, ha poi fatto seguito l’immediata
esecuzione delle opere di urbanizzazione, nonché l’immissione nel pieno
godimento e possesso dei beni immobili in questione.
Si tratta di atti e comportamenti che, secondo il Comune, possono essere
interpretati solo come tacita rinuncia della società ad ogni eccezione di
prescrizione e comunque quale forma di pieno riconoscimento del diritto
dell’Ente ad ottenere la formalizzazione degli atti traslativi della
proprietà.
7. In replica, la società appellante ha fatto rilevare che la procura
speciale è stata rilasciata anteriormente alla notifica dell’atto di appello
dal legale rappresentante della società ed è stata depositata dal difensore
telematicamente in data 17.04.2018.
Ha poi ribadito che, nel primo grado di giudizio, il Comune ha sostenuto la
tesi dell’interruzione della prescrizione dei diritti statuiti nella
convenzione, da rinvenirsi nella corrispondenza intercorsa con l’odierna
appellante, ma non già quella di rinuncia alla prescrizione medesima.
Infine, ha sostenuto che la giurisprudenza richiamata ex adverso sarebbe
inconferente poiché nel caso di specie non si controverte di un obbligo di
cessione avente natura pubblicistica.
8. L’appello, infine, è stato assunto in decisione alla pubblica udienza del
10.01.2018.
9. E’ possibile prescindere dall’esame delle eccezioni preliminari in quanto
il ricorso è infondato nel merito.
10. Ai fini di una migliore comprensione dei fatti di causa, giova riportare
i contenuti essenziali dell’atto stipulato tra il Comune e la società
appellante il 01.10.1975, nella parte di interesse, quale viene
riportato nella sentenza impugnata (non contestata in parte qua).
Esso accede al rilascio dei titoli edilizi per la realizzazione, su aree di
proprietà della società, del complesso turistico-alberghiero “Il Fa.”
di Isola del Giglio.
L’art. 2 della scrittura prevede l’obbligo della società proprietaria di
cedere al Comune a prezzo simbolico le aree destinate a essere occupate da
opere di urbanizzazione (strade, parcheggi, verde pubblico) per circa 5.500
mq complessivi.
Segue l’identificazione catastale dei beni oggetto di cessione.
L’art. 15 prevede a sua volta che la società “una volta ultimati i lavori
del complesso turistico-alberghiero, cederà gratuitamente al Comune che lo
[sic] utilizzerà per esigenze di natura sanitaria (infermeria, Pronto
soccorso ed ambulatorio) una unità immobiliare di circa 50 mq. utili di
superficie, rifinita e strutturata secondo le prescrizioni del Comune
stesso. Tale unità immobiliare è rappresentata nella planimetria allegata
sotto la lettera B con colorazione in giallo e potrà essere eventualmente
sostituita con un’altra unità di intesa con l’Amministrazione”.
Non è in contestazione il fatto che, sin dal 1976, l’appartamento,
contraddistinto dalla sigla BX09, sia stato consegnato al Comune che lo ha
adibito all’uso previsto.
11. La tesi principale svolta dall’odierna appellante è quella secondo cui,
all’interno di un accordo che, per ogni altro verso costituisce una
convenzione urbanistica, sarebbe stata inserita una previsione del tutto
eccentrica con la quale la società si sarebbe obbligata a “donare” al Comune
uno degli appartamenti del complesso turistico–alberghiero che era stata
contestualmente autorizzata a costruire.
La causa di tale disposizione sarebbe quindi avulsa dal resto della
convenzione e alla stessa non potrebbe essere data tutela giurisdizionale
trattandosi di un negozio (un “preliminare di donazione”), affetto da
nullità sia in ragione dell’inconfigurabilità, nel nostro ordinamento, di
una siffatta pattuizione sia per la mancanza dei requisiti di forma
prescritti dall’art. 782 c.c..
11.1. Il Collegio osserva, in primo luogo, che l’appellante non ha svolto
nessuna critica in ordine alle argomentazioni del TAR, nella parte in cui il
primo giudice ha condivisibilmente osservato che “le cessioni gratuite (a
prezzo simbolico) previste dall’art. 2 della scrittura del 01.10.1975
sono, evidentemente, quelle funzionali a soddisfare il fabbisogno
dell’urbanizzazione primaria, essendo destinate a strade, parcheggi, verde
pubblico.
La cessione dell’unità immobiliare prevista dal successivo art. 15 risponde,
invece, alle esigenze dell’urbanizzazione secondaria, come si ricava dalla
pattuita destinazione dell’immobile a infermeria e ambulatorio (le
attrezzature sanitarie appartengono alle opere di urbanizzazione secondaria
a norma dell’art. 4, co. 2, della legge 29.09.1964, n. 847).
L’assenza di corrispettivo, del resto, non è sufficiente per potersi parlare
di donazione, ancorché obbligatoria (ovvero, di preliminare di donazione),
atteso che la donazione, com’è noto, si caratterizza non per la gratuità, ma
per lo spirito di liberalità che deve muovere il donante; mentre, nella
specie, le cessioni immobiliari cui la società resistente si è obbligata, e
gli oneri da questa assunti verso il Comune, corrispondono all’osservanza di
obblighi legali condizionanti il rilascio del titolo abilitativo
dell’intervento edilizio. Né la resistente ha in alcun modo allegato, e
tanto meno dimostrato, che le cessioni previste dalla convenzione di
lottizzazione eccedano gli obblighi sanciti dal citato art. 28 della legge n.
1150/1942 (in altri termini, sarebbe stato onere della resistente allegare e
dimostrare di aver pattuito la cessione dell’appartamento per puro animus
donandi, e non, come invece risulta chiaramente dal tenore della
convenzione, a titolo compensativo e a scomputo di oneri nell’ambito della
definizione del corretto equilibrio di interessi pubblici e privati sotteso
per legge alla realizzazione dell’intervento lottizzatorio)”.
11.2. A tali, ineccepibili, rilievi è possibile aggiungere alcune
considerazioni di carattere sistematico relative, da un lato, agli ordinari
criteri di ermeneutica contrattuale, dall’altro, alla funzione delle
convenzioni di urbanizzazione.
Sotto il primo profilo, l’interpretazione dell’atto, cui si è attenuto il
Comune, risulta conforme ai canoni legali di interpretazione della volontà
negoziale, in particolare al principio secondo cui le clausole contrattuali
vanno interpretate nel senso in cui possano avere qualche effetto (art. 1367 c.c.) e comunque in quello più conveniente alla natura e all'oggetto del
contratto (art. 1369 c.c).
Al contrario, l’interpretazione offerta dall’appellante si basa sul
carattere eccentrico della clausola rispetto al complessivo impianto della
convenzione oltre ad implicarne l’ontologica inefficacia, per nullità.
Allo stesso modo, l’ascrivibilità dell’obbligo di cessione in esame a quelli
che normalmente accedono alle convenzioni urbanistiche risulta coerente con
il canone ermeneutico di interpretazione secondo cui le clausole di un
contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a
ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto (art. 1363 c.c.).
Al contrario, la tesi svolta dall’odierna appellante presuppone un contenuto
della clausola del tutto avulso dalla causa che sorregge il complesso
dell’atto stipulato nel 1975.
Sotto il secondo profilo, occorre ricordare che le convenzioni urbanistiche
sono accordi ad oggetto pubblico con i quali l’amministrazione realizza
esclusivamente finalità istituzionali.
Poiché i diritti e gli obblighi ivi previsti sono strumentali a dette
finalità, la convenzione urbanistica non ha una «specifica autonomia e
natura di fonte negoziale del regolamento di contrapposti interessi delle
parti stipulanti» bensì si configura come «accordo endoprocedimentale dal
contenuto vincolante quale mezzo rivolto al fine di conseguire
l’autorizzazione edilizia» (Cass. civ., Sez. I, 17.04.2013, n. 9314; cfr.,
anche, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 01.08.2018, n. 4743).
In tale ottica, non è quindi nemmeno ravvisabile un rapporto strettamente
sinallagmatico tra i soggetti stipulanti (cfr. Tar Lombardia, Brescia, 25.07.2005, n. 784 e, in precedenza, Cons. Stato, Sez. V, 10.01.2003,
n. 33, secondo cui anche le previsioni “aggiuntive” sono sorrette dalla
medesima causa meritevole di tutela secondo la previsione della legge
urbanistica fondamentale).
In definitiva, nel caso di specie, non vi è alcun elemento idoneo a
supportare la tesi che la clausola in contestazione non integri, al pari di
quanto previsto dall’art. 2 in ordine alle aree destinate all’urbanizzazione
primaria, un atto d’obbligo, sia pure relativo ad un’opera di urbanizzazione
secondaria, che la società ha assunto al fine di conseguire il permesso di
costruire e non già per erogare una liberalità.
11.3. Alla qualificazione della prescrizione recata dall’art. 15 quale
obbligo di cessione gratuita di un’opera necessaria all’infrastrutturazione
del territorio, consegue il rigetto dell’eccezione di prescrizione opposta
dalla società poiché gli obblighi di cessione recati da una convenzione di
lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili
(cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 4278 del 26.08.2014, nonché n.
5413 del 30.11.2015; da ultimo, sez. IV, n. 3672 del 14.06.2018).
Questo Consiglio ha infatti già rilevato, quanto al significato da
attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della legge urbanistica -secondo cui
l’efficacia dei piani particolareggiati ha un termine entro il quale le
opere debbano essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-
che “l'imposizione del termine suddetto va intesa nel senso che le attività
dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale
che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un
certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il
potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non
realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato,
l'assetto urbanistico dell’area rimane definito nei termini disposti con la
convenzione di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.02.2007,
n. 851)” (sentenza n. 4278/2014, cit.).
In tal senso, la Sezione si è conformata alla statuizioni dell’Adunanza
plenaria, secondo cui le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano
attuativo “si esauriscono […] nell’ambito della sola disciplina urbanistica,
non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni
assunte dai soggetti attuatori degli interventi che solo mediatamente
trovano fonte nel piano urbanistico attuativo (nel caso di specie, piano di
zona), radicandosi piuttosto nelle convenzioni urbanistiche, disciplinate
dall'art. 11 della legge n. 167 del 1962, come modificato dalla legge n. 865
del 1971, ovvero negli atti d'obbligo accessivi al provvedimento di
assegnazione” (Cons. Stato, Adunanza plenaria, 20.07.2012, n. 28).
L’ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si giustifica
“alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell’interesse pubblico”, essendo inconcepibile
“ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione” (sentenza n. 4278/2014, cit.).
Anche nel caso di specie, la società appellante non può giovarsi
dell’eccezione di prescrizione, essendo il contestato obbligo di cessione
parte inscindibile ed integrante della lottizzazione che le ha consentito di
edificare il compendio immobiliare in esame.
12. In definitiva, per quanto appena argomentato, l’appello deve essere
respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.02.2019 n. 1341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le conseguenze della scadenza
dell’efficacia del piano di zona si esauriscono nell’ambito della
sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed
efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori.
Tale indirizzo è coerente con quello che distingue -all’interno delle
previsioni urbanistiche e successivamente alla scadenza del piano di
lottizzazione o in generale attuativo– fra i diversi tipi di prescrizioni,
nel senso che <<…sopravvivono, esclusivamente, la destinazione di zona, la
destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le
prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto
del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino
all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa
condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra
natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto specifico e puntuale>>.
---------------
L’obbligo, assunto dal signor Ro. di cessione gratuita delle aree, a
semplice richiesta dell’autorità comunale, integra, giuridicamente,
un’obbligazione propter rem, caratterizzata da realità e ambulatorialità,
idonea ad imprimere al bene una qualità giuridica stabile.
Ciò a prescindere
dal termine di durata del Piano attuativo cui la convenzione accede e
dall’eventuale trasferimento del diritto sul bene a titolo particolare o
universale, inter vivos o mortis causa.
---------------
15.2. Pure il secondo ordine di censure (il quinto motivo
dell’appello del Consorzio e il quarto e il settimo dell’appello del
Condominio) non incontra migliore favore.
Il Collegio condivide l’impostazione esegetica che il primo giudice ha reso
sul fondamentale arresto cui è pervenuto il Consiglio di Stato (Ad. Plen. 20.07.2012, n. 28), a mente del quale “Le conseguenze della scadenza
dell’efficacia del piano di zona si esauriscono pertanto nell’ambito della
sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed
efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori …”.
Tale indirizzo è coerente con quello che distingue -all’interno delle
previsioni urbanistiche e successivamente alla scadenza del piano di
lottizzazione o in generale attuativo– fra i diversi tipi di prescrizioni,
nel senso che <<…sopravvivono, esclusivamente, la destinazione di zona, la
destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le
prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto
del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino
all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa
condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra
natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto specifico e puntuale>>
(da ultimo Cons. Stato, sez. IV, n. 3002 del 2018; n. 4036 del 2017; sez. V,
n. 6283 del 2013; sez. IV, n. 5199 del 2006).
Il caso all’esame, malgrado la diversità dal citato precedente (quello
scrutinato dalla Plenaria atteneva ad un intervento di edilizia economica e
popolare), si iscrive appieno nel richiamato principio di diritto, giacché
l’obbligo, assunto dal signor Ro. di cessione gratuita delle aree, a
semplice richiesta dell’autorità comunale, integra, giuridicamente,
un’obbligazione propter rem, caratterizzata da realità e ambulatorialità,
idonea ad imprimere al bene una qualità giuridica stabile.
Ciò a prescindere
dal termine di durata del Piano attuativo cui la convenzione accede e
dall’eventuale trasferimento del diritto sul bene a titolo particolare o
universale, inter vivos o mortis causa (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.06.2018 n. 3672 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Nel
caso di specie, trattasi di area oggetto di “vincolo di cessione”, relativamente al quale non può configurarsi né
decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di area che il
privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a
cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione
quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in stretta
correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare le
edificazioni previste dal piano di lottizzazione.
Trattasi quindi di un vincolo ben diverso dal mero vincolo ablativo
(ricadente su aree preordinate all’espropriazione) e ancor più incisivo di
un vincolo conformativo, trattandosi -si ribadisce- di uno specifico
vincolo di cessione di aree che il privato, in forza della convenzione di
lottizzazione, si è obbligato a cedere all'interno del complesso delle
previsioni del piano di lottizzazione quale strumento consensuale e per
definizione perequativo, in stretta correlazione alla legittima possibilità
per i privati di realizzare le edificazioni previste dal piano di
lottizzazione.
Poiché è pacifico che la ricorrente (o relativo dante causa), così come gli
altri soggetti attuatori del piano di lottizzazione in questione, hanno
realizzato le edificazioni che avevano titolo a realizzare in forza delle
previsioni del piano di lottizzazione e della relativa convenzione, deve
ritenersi altrettanto pacifico che i medesimi soggetti siano tenuti ad
adempiere ai correlati obblighi di cessione di aree ugualmente previsti dal
piano di lottizzazione e relativa convenzione, senza che possa configurarsi
al riguardo alcuna decadenza, prescrizione o usucapione da parte del
privato.
Devono ribadirsi, anche avuto riguardo al caso in esame, i principi
affermati nell’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato e nella sentenza di questo Tribunale secondo cui deve ritenersi che “la
cessione dell’area de qua … omissis… in forza della convenzione inter partes
stipulata il 31.07.1993 –la quale ne prevede la destinazione alla
viabilità e ai servizi pubblici secondo le indicazioni del piano
particolareggiato ...– si concreti, sostanzialmente, in una
condizione della concessione edilizia richiesta (ex art. 1 l. n. 10 del
1977) con istanza del 10.02.1993 e rilasciata il 02.08.1993, ormai
inoppugnabile e pacificamente attuata”, per cui deve conseguentemente
ritenersi che, “a fronte dell’intrinseca connessione della cessione
dell’area con la menzionata concessione edilizia ai sensi dell’articolo 4
delle n.t.a. (espressamente richiamato dalla convenzione), la correlativa
obbligazione, di natura pubblicistica, sia insuscettibile di estinzione per
prescrizione”.
Si richiamano altresì i principi secondo cui “La destinazione a verde
pubblico prevista in un piano di lottizzazione, ossia all'interno di uno
strumento consensuale e per definizione perequativo, equivale non
all'imposizione di un vincolo espropriativo (come avviene, invece, per le
aree che sono destinate a verde pubblico al di fuori di una convenzione
urbanistica), ma ad un vincolo conformativo”.
---------------
Il ricorso è infondato.
Deve infatti evidenziarsi che, nel caso di specie, trattasi di area oggetto
di “vincolo di cessione”, relativamente al quale non può configurarsi né
decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di area che il
privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a
cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione
quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in stretta
correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare le
edificazioni previste dal piano di lottizzazione.
Trattasi quindi di un vincolo ben diverso dal mero vincolo ablativo
(ricadente su aree preordinate all’espropriazione) e ancor più incisivo di
un vincolo conformativo, trattandosi -si ribadisce- di uno specifico
vincolo di cessione di aree che il privato, in forza della convenzione di
lottizzazione, si è obbligato a cedere all'interno del complesso delle
previsioni del piano di lottizzazione quale strumento consensuale e per
definizione perequativo, in stretta correlazione alla legittima possibilità
per i privati di realizzare le edificazioni previste dal piano di
lottizzazione.
Poiché è pacifico che la ricorrente (o relativo dante causa), così come gli
altri soggetti attuatori del piano di lottizzazione in questione, hanno
realizzato le edificazioni che avevano titolo a realizzare in forza delle
previsioni del piano di lottizzazione e della relativa convenzione, deve
ritenersi altrettanto pacifico che i medesimi soggetti siano tenuti ad
adempiere ai correlati obblighi di cessione di aree ugualmente previsti dal
piano di lottizzazione e relativa convenzione, senza che possa configurarsi
al riguardo alcuna decadenza, prescrizione o usucapione da parte del
privato.
Devono ribadirsi, anche avuto riguardo al caso in esame, i principi
affermati nell’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato, sesta sezione, n.
5361 del 02.12.2015 e nella sentenza di questo Tribunale, seconda
sezione, n 919 del 02.12.2016, secondo cui deve ritenersi che “la
cessione dell’area de qua … omissis… in forza della convenzione inter partes
stipulata il 31.07.1993 –la quale ne prevede la destinazione alla
viabilità e ai servizi pubblici secondo le indicazioni del piano
particolareggiato ‘Sa Molina-Terridi’– si concreti, sostanzialmente, in una
condizione della concessione edilizia richiesta (ex art. 1 l. n. 10 del
1977) con istanza del 10.02.1993 e rilasciata il 02.08.1993, ormai
inoppugnabile e pacificamente attuata”, per cui deve conseguentemente
ritenersi che, “a fronte dell’intrinseca connessione della cessione
dell’area con la menzionata concessione edilizia ai sensi dell’articolo 4
delle n.t.a. (espressamente richiamato dalla convenzione), la correlativa
obbligazione, di natura pubblicistica, sia insuscettibile di estinzione per
prescrizione”.
Si richiamano altresì i principi secondo cui “La destinazione a verde
pubblico prevista in un piano di lottizzazione, ossia all'interno di uno
strumento consensuale e per definizione perequativo, equivale non
all'imposizione di un vincolo espropriativo (come avviene, invece, per le
aree che sono destinate a verde pubblico al di fuori di una convenzione
urbanistica), ma ad un vincolo conformativo” (TAR Lombardia–Brescia,
sez. I, 26.04.2017 n. 551).
Risultano pertanto infondate tutte le censure avanzate col ricorso in esame.
In primo luogo, non può essere condiviso l’assunto della ricorrente secondo
cui il vincolo di cessione non sarebbe opponibile alla medesima perché
contenuto in una convenzione di lottizzazione che non è mai stata
trascritta, non potendosi ritenere che la trascrizione costituisca
condizione di efficacia, validità e opponibilità del vincolo in questione
alla parte privata, dovendosi invece ritenere sufficiente, a tal fine, la
circostanza che la ricorrente fosse a conoscenza dell’esistenza del vincolo
in questione al momento dell’acquisto dell’area in data 28.09.2012
(per come espressamente dichiarato dalla ricorrente medesima nell’atto
notarile di acquisto).
Infondata risulto altresì l’assunto della ricorrente secondo cui la
trascrizione sarebbe condizione di efficacia della convenzione medesima,
dovendosi ribadire, anche nel caso di specie, i principi in proposito
affermati da questo Tribunale, sezione seconda, con la sentenza n.
1807/2007, secondo cui la trascrizione non è condizione di efficacia della
convenzione.
Non può essere altresì condiviso l’assunto della ricorrente secondo cui, nel
caso di specie, opererebbe il termine decennale di decadenza delle
previsioni del piano particolareggiato per le parti non attuate e opererebbe
altresì il termine prescrizionale ordinario di 10 anni, nonché l’ulteriore
assunto secondo cui, in ogni caso, sarebbe comunque intervenuta la decadenza
del vincolo di destinazione a verde pubblico attrezzato, impresso dal piano
particolareggiato al fondo in questione.
A tale riguardo non può che ribadirsi quanto già sopra evidenziato secondo
cui trattasi, nel caso di specie, non di area soggetta a vincolo di natura
espropriativa, bensì di area soggetta a vincolo di cessione e quindi di
previsioni che rilevano a tempo indeterminato così come i vincoli
conformativi, senza che possa configurarsi al riguardo alcuna decadenza,
prescrizione o usucapione da parte del privato, con l’ulteriore conseguenza
(relativamente all’ultima censura avanzata dalla ricorrente) che nessuna
rilevanza giuridica può essere riconosciuta alla circostanza invocata dalla
ricorrente del disinteresse del Comune relativamente all’area in questione
per un trentennio.
Per le suesposte considerazioni, disattese le contrarie argomentazioni della
parte ricorrente, stante l'infondatezza delle censure avanzate, il ricorso
deve essere respinto (TAR
Cagliari, Sez. II,
sentenza 10.01.2018 n. 8 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Sulla
prescrizione, o meno, del diritto
in capo al comune alla cessione -da parte del lottizzante- delle aree
destinate alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
La questione circa la prescrittibilità del diritto alla cessione delle
aree per opere di urbanizzazione primaria e secondaria, nell’ambito di un
progetto di lottizzazione, è in larga misura nuova.
L'art. 31, quinto comma, l. n. 1150/1942 stabilisce che “la concessione della
licenza è comunque e in ogni caso subordinata alla esistenza delle opere di
urbanizzazione primaria o alla previsione da parte dei Comuni
dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio o all'impegno dei
privati di procedere all'attuazione delle medesime contemporaneamente alle
costruzioni oggetto della licenza”.
La distinzione è tutt’altro che irrilevante.
Secondo la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato, in materia di
efficacia del piano di attuazione (o di strumenti urbanistici analoghi,
quale un piano di lottizzazione o un piano di zona per l'edilizia economica
e popolare) dopo la scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, da
una corretta interpretazione dell’art. 17 della legge n. 1150 del 1942
debbono ritenersi discendere i seguenti principi:
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e
dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle
regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi
dell'art. 869 c.c.);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci
a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative
del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione,
cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri, preordinati alla
realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione
primaria, né si potrà procedere all'edificazione residenziale, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del
piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per
questa parte ha efficacia ultrattiva.
In particolare, quanto al significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28
della legge urbanistica -secondo cui l'efficacia dei piani
particolareggiati, ai quali si assimilano analogicamente le lottizzazioni
convenzionate, ha un termine entro il quale le opere debbano essere
eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-, la giurisprudenza ha
chiarito che l'imposizione del termine suddetto va inteso nel senso che le
attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia
convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge
oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il
potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non
realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato,
l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la
convenzione di lottizzazione.
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei
piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della sola
disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed
efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli
interventi.
Il Collegio non vede motivo per discostarsi dal quadro interpretativo
così delineato.
Pertanto che, tenendo conto dell’indiscussa ultrattività (nei termini di cui
prima si è detto) del piano di lottizzazione in oggetto, resta tuttora in
vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola e dunque,
nella specie, l’obbligazione della società appellata di dar corso alla
cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò anche
perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile
ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione.
---------------
1. Il Comune di Marigliano contesta la sentenza di primo grado
nella parte in cui -decidendo sui primi due ricorsi ricordati in narrativa-
ne ha dichiarato prescritto il diritto alla cessione delle aree destinate
alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, annullando le note
impugnate e respingendo la domanda di sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c.
Rimane invece fuori dal perimetro del presente giudizio la questione oggetto
dell’ulteriore ricorso introduttivo, proposto dalla società ora appellata e
concernente le annotazioni apposte sul certificato di destinazione
urbanistica.
2. In ordine al thema decidendum, viene in gioco l’art. 28 della
legge urbanistica del 1942, il quale -nel testo risultante dalle modifiche
introdotte dalla legge 06.08.1967, n. 765- recita:
“Prima dell'approvazione del piano regolatore generale o del programma di
fabbricazione di cui all'art. 34 della presente legge è vietato procedere
alla lottizzazione dei terreni a scopo edilizio.
Nei Comuni forniti di programma di fabbricazione ed in quelli dotati di
piano regolatore generale fino a quando non sia stato approvato il piano
particolareggiato di esecuzione, la lottizzazione di terreno a scopo
edilizio può essere autorizzata dal Comune previo nulla osta del
provveditore regionale alle opere pubbliche, sentita la Sezione urbanistica
regionale, nonché la competente Soprintendenza.
L'autorizzazione di cui al comma precedente può essere rilasciata anche dai
Comuni che hanno adottato il programma di fabbricazione o il piano
regolatore generale, se entro dodici mesi dalla presentazione al Ministero
dei lavori pubblici la competente autorità non ha adottato alcuna
determinazione, sempre che si tratti di piani di lottizzazione conformi al
piano regolatore generale ovvero al programma di fabbricazione adottato.
Con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con i Ministri
per l'interno e per la pubblica istruzione può disporsi che il nulla-osta
all'autorizzazione di cui ai precedenti commi venga rilasciato per
determinati Comuni con decreto del Ministro per i lavori pubblici di
concerto con il Ministro per la pubblica istruzione, sentito il Consiglio
superiore dei lavori pubblici.
L'autorizzazione comunale è subordinata alla stipula di una convenzione, da
trascriversi a cura del proprietario, che preveda:
1) la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo
4 della legge 29.09.1964, n. 847, nonché la cessione gratuita delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria nei limiti di cui al
successivo n. 2;
2) l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi
alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che
siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è
determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli
insediamenti delle lottizzazioni;
3) i termini non superiori ai dieci anni entro i quali deve essere
ultimata la esecuzione delle opere di cui al precedente paragrafo;
4) congrue garanzie finanziarie per l'adempimento degli obblighi
derivanti dalla convenzione.
La convenzione deve essere approvata con deliberazione consiliare nei modi e
forme di legge.
Il rilascio delle licenze edilizie nell'ambito dei singoli lotti è
subordinato all'impegno della contemporanea esecuzione delle opere di
urbanizzazione primaria relative ai lotti stessi.
Sono fatte salve soltanto ai fini del quinto comma le autorizzazioni
rilasciate sulla base di deliberazioni del Consiglio comunale, approvate nei
modi e forme di legge, aventi data anteriore al 02.12.1966.
Il termine per l'esecuzione di opere di urbanizzazione poste a carico del
proprietario è stabilito in dieci anni a decorrere dall'entrata in vigore
della presente legge, salvo che non sia stato previsto un termine diverso.
Le autorizzazioni rilasciate dopo il 02.12.1966 e prima dell'entrata in
vigore della presente legge e relative a lottizzazioni per le quali non
siano stati stipulati atti di convenzione contenenti gli oneri e i vincoli
precisati al quinto comma del presente articolo, restano sospese fino alla
stipula di dette convenzioni.
Nei Comuni forniti di programma di fabbricazione e in quelli dotati di piano
regolatore generale anche se non si è provveduto alla formazione del piano
particolareggiato di esecuzione, il sindaco ha facoltà di invitare i
proprietari delle aree fabbricabili esistenti nelle singole zone a
presentare entro congruo termine un progetto di lottizzazione delle aree
stesse. Se essi non aderiscono, provvede alla compilazione d'ufficio.
Il progetto di lottizzazione approvato con le modificazioni che l'autorità
comunale abbia ritenuto di apportare è notificato per mezzo del messo
comunale ai proprietari delle aree fabbricabili con invito a dichiarare,
entro trenta giorni dalla notifica, se l'accettino. Ove manchi tale
accettazione, il podestà ha facoltà di variare il progetto di lottizzazione
in conformità alle richieste degli interessati o di procedere alla
espropriazione delle aree”.
3. Come ricordato in narrativa, in data 17.09.1984 il Comune e la società Am.
s.p.a., dante causa dell’odierna resistente, hanno stipulato la convenzione
prevista dal quinto comma dell’art. 28 citato.
Al n. 3, la convenzione prevede l’obbligo del privato di cedere
gratuitamente al Comune, all’atto dell’ultimazione degli interventi edilizi,
le aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria (lett. a) nonché,
entro un mese dal rilascio della prima concessione edilizia, le aree
necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria (lett. b).
Sennonché, nulla di tutto ciò è avvenuto sino alle richieste formulate
dall’Amministrazione con le note del 2004, impugnate dalla controparte, la
quale ha opposto l’argomento dell’intervenuta prescrizione del diritto,
condiviso dal TAR.
4. La questione circa la prescrittibilità del diritto alla cessione delle
aree per opere di urbanizzazione primaria e secondaria, nell’ambito di un
progetto di lottizzazione, è in larga misura nuova.
Per la verità, il Tribunale territoriale fonda la sua decisione
sull’autorità di alcuni precedenti, che non appaiono però risolutivi.
Infatti:
- TAR Lombardia–Brescia, 03.02.2003, n. 65, risolve il quesito del
termine a quo del decorso della prescrizione del diritto, ma -nessuna
delle parti avendolo evidentemente sollevato- non esamina il punto (che qui
invece interessa) del se tale diritto sia o no effettivamente prescrivibile;
- a Cons. Stato, sez. IV, 03.11.1998, n. 1412, viene attribuita
un’affermazione (circa l’esecuzione coattiva degli obblighi assunti con le
convenzioni accessorie ai piani di lottizzazione) che sembra piuttosto il
frutto di una massimazione non attenta; mentre poi la tesi di fondo della
sentenza (quanto agli effetti della scadenza del termine decennale di
efficacia della lottizzazione convenzionata) è ampiamente superata dalla
giurisprudenza successiva, di cui si dirà nel prosieguo dell’esame.
5. Ancora in tema di precedenti giurisprudenziali, la Gi.Fi., nella sua
ultima memoria, riporta sentenze della Corte di Cassazione, che dovrebbero
offrire sostegno alle sue difese.
Neppure questi richiami, tuttavia, colgono nel segno.
Infatti:
- Cass. civ., sez. I, 21.10.2011, n. 21885, afferma bensì la
prescrittibilità del diritto, ma sul presupposto che, esclusa la
riconducibilità della fattispecie concreta a uno degli schemi previsti dalla
legge n. 1150 del 1942, quello dedotto in giudizio sarebbe un contratto di
diritto privato, avente a oggetto l’acquisto delle aree controverse;
- Cass. civ., sez. II, 06.02.2013, n. 2835, discute dell’assoggettabilità
a prescrizione dell’impegno unilaterale di cessione di due fondi di
proprietà, assunto da un privato a titolo gratuito, in funzione del rilascio
di licenze edilizie. Benché sullo sfondo compaia (anche se in termini non
particolarmente nitidi) l’esigenza di consentire l’esecuzione di un
intervento lottizzatorio su altri fondi, appartenenti al medesimo
proprietario, è palese come in fatto venga in questione la vicenda regolata
non dall’art. 28, ma dall’art. 31, quinto comma, della legge urbanistica,
come modificato dall’art. 10 della legge n. 765 del 1967 (che recherebbe
–secondo la sentenza di secondo grado impugnata– “la disciplina …
specificamente rilevante nella fattispecie”).
Il citato art. 31, quinto comma, stabilisce che “la concessione della
licenza è comunque e in ogni caso subordinata alla esistenza delle opere di
urbanizzazione primaria o alla previsione da parte dei Comuni
dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio o all'impegno dei
privati di procedere all'attuazione delle medesime contemporaneamente alle
costruzioni oggetto della licenza”.
6. La distinzione è tutt’altro che irrilevante.
Secondo la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato (cfr. sez. V,
30.04.2009, n. 2768; Id., sez. IV, 27.10.2009, n. 6572), in materia di
efficacia del piano di attuazione (o di strumenti urbanistici analoghi,
quale un piano di lottizzazione o un piano di zona per l'edilizia economica
e popolare) dopo la scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, da
una corretta interpretazione dell’art. 17 della legge n. 1150 del 1942
debbono ritenersi discendere i seguenti principi:
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e
dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle
regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi
dell'art. 869 c.c.);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci
a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative
del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione,
cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri, preordinati alla
realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione
primaria, né si potrà procedere all'edificazione residenziale, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del
piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per
questa parte ha efficacia ultrattiva.
In particolare, quanto al significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28
della legge urbanistica -secondo cui l'efficacia dei piani
particolareggiati, ai quali si assimilano analogicamente le lottizzazioni
convenzionate, ha un termine entro il quale le opere debbano essere
eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-, la giurisprudenza ha
chiarito che l'imposizione del termine suddetto va inteso nel senso che le
attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia
convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge
oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il
potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non
realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato,
l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la
convenzione di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.02.2007, n.
851).
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei
piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della sola
disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed
efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi
(cfr. Cons. Stato, ad. plen., 20.07.2012, n. 28).
7. Il Collegio non vede motivo per discostarsi dal quadro interpretativo
così delineato.
Pertanto che, tenendo conto dell’indiscussa ultrattività (nei termini di cui
prima si è detto) del piano di lottizzazione in oggetto, resta tuttora in
vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola e dunque,
nella specie, l’obbligazione della società appellata di dar corso alla
cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò anche
perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia
necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile
ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una
lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse
sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione
primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge
urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un
elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di
legittimità della lottizzazione.
8. Quanto al contenuto della decisione, che segue all’accoglimento
dell’appello, il ricorso dell’Amministrazione conclude “per la condanna,
ex
art. 2932 cod. civ., della società appellata alla cessione in favore del
Comune delle aree indicate nella convenzione di lottizzazione del 17.09.1984”.
Si tratta di una richiesta non del tutto perspicua, posto che l’azione per
l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto (a norma
dell’art. 2932 c.c.) è, per incontestata convinzione, azione costitutiva e
non di condanna (cfr. in termini Cass. civ., sez. I, 20.02.2013, n. 4184).
Dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio della conversione
dell’azione ex art. 32, comma 2, c.p.a., sembra peraltro evidente che
l’Amministrazione richieda una pronuncia costitutiva, che consenta
l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere la cessione.
9. Qualche dubbio potrebbe sorgere circa l’ammissibilità di un’azione di
tale natura nell’ambito del processo amministrativo, alla luce del principio
-spesso affermato- della tipicità delle azioni.
A tale riguardo, premesso che la questione non appare comunque
specificamente sollevata dalla controparte, il Collegio osserva in primo
luogo che l’azione ex
art. 2932 c.c., in vicende quale quella presente, è da
tempo ammessa dai Tribunali regionali (a partire, forse, da TAR per la
Lombardia–Brescia, 28.11.2001, n. 1126, sino, da ultimo, a TAR per la
Puglia–Lecce, sez. III, 08.08.2013, n. 1776).
Peraltro, la questione deve intendersi ormai definitivamente risolta per
effetto della ricordata sentenza dell’Adunanza plenaria n. 28 del 2012.
Sul presupposto della consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione
-secondo la quale "il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c., al fine di
ottenere l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto,
deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare
non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla
quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la
costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia
in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege" (cfr., da ultimo, Cass. civ., sez. II, 30.03.2012, n. 5160)-
l’Adunanza plenaria ha ritenuto che non vi sia motivo per escludere che
possa essere oggetto dell'azione ex
art. 2932 c.c. il mancato adempimento da
parte del privato di un obbligo di cessione assunto con specifici atti
d'obbligo (o, come nel caso di specie, con una convenzione urbanistica).
Né potrebbe addursi, a fondamento della pretesa inammissibilità dell'azione
in oggetto, la sua asserita natura speciale ed eccezionale, in quanto mista,
cognitiva ed esecutiva insieme, derogatoria pertanto della normale
separazione tra azione cognitoria e azione esecutiva. Invero tale natura non
la rende incompatibile con la struttura del processo amministrativo come
delineato dal relativo codice, tanto più che, da un lato, non solo è
espressamente prevista un'azione (di ottemperanza), anch'essa caratterizzata
dalla coesistenza in capo al giudice di poteri di cognizione ed esecuzione
insieme e, d'altro lato, è la stessa tesi della tipicità delle azioni
proponibili nel processo amministrativo a suscitare fondate perplessità,
nella misura in cui appare in stridente ed inammissibile contrasto, oltre
che con i fondamentali principi di pienezza ed effettività della tutela
dettati dall’art. 1 c.p.a., con la stessa previsione dell'art. 24 della
Costituzione.
D’altronde, nella vicenda si verte in un’ipotesi di giurisdizione esclusiva.
E questa, là dove vengano in causa controversie su diritti, come è per
l'appunto nel caso in esame, non può che garantire agli interessati la
medesima tutela e, dunque, le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi
al giudice ordinario.
10. Dalle considerazioni che precedono, discende che l’appello del Comune è
fondato e va pertanto accolto, con la pronunzia del trasferimento gratuito,
in favore del Comune medesimo, delle aree identificate nella convenzione di
lottizzazione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.08.2014 n. 4278 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aggiornamento all'08.07.2022 |
|
Ancóra in materia di casella
piena della P.E.C. ed alcuni princìpi generali da memorizzare: |
1)
sul piano legislativo non sussiste un
obbligo generalizzato per tutti i cittadini di dotarsi di una
casella di posta certificata. Tale obbligo,
invero, sussiste,
ai sensi dell’art. 3-bis del D.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice
dell'amministrazione digitale) soltanto
per i professionisti tenuti all'iscrizione in albi ed elenchi e
per i soggetti tenuti all'iscrizione nel registro delle imprese
i quali devono dotarsi di un domicilio digitale iscritto
nell'elenco di cui ai successivi articoli 6-bis o 6-ter;
2) la comunicazione telematica
tramite Posta elettronica certificata (PEC) è divenuto mezzo
formale ed esclusivo per le comunicazioni tra pubbliche
amministrazioni e imprese, societarie ed attualmente anche
individuali, come sancito
espressamente dall’art. 5 del d.l. 18.10.2012, n. 179,
convertito con modificazioni dalla legge 17.12.2012, n. 221;
3) le comunicazioni a mezzo
PEC devono essere effettuate al recapito digitale risultante dal
Registro delle imprese (C.C.I.A.A.)
o da altro pubblico registro
(www.inipec.gov.it/cerca-pec);
4) è onere
dell’impresa/professionista mantenere tale recapito in
condizione di efficienza, adottando ogni misura idonea ad
assicurarne l’ordinaria operatività
(ad es., con spostamento o eliminazione dei messaggi per
prevenire l’esaurimento della capacità di ricezione; col
regolare adempimento delle eventuali obbligazioni assunte nei
confronti del gestore del servizio; etc.);
5) in caso
di contestazioni in merito alla mancata ricezione, la pubblica amministrazione,
per dimostrare la regolarità del procedimento di notifica, deve
limitarsi a provare di avere spedito la comunicazione
all’indirizzo PEC risultante dai pubblici registri; questa
circostanza è da sola sufficiente e necessaria per realizzare la
presunzione di notifica. Ne consegue
l’irrilevanza del mancato perfezionamento del recapito,
spettando all’impresa, titolare dell’indirizzo PEC, l’onere di
dimostrare, al contrario, la piena funzionalità dell’account
indicato nei medesimi pubblici registri;
6) la notificazione di un atto
eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un
indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per
perfezionata con la ricevuta con cui l'operatore attesta di
avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario "piena",
da considerarsi equiparata alla "ricevuta di avvenuta
consegna", in quanto il mancato
inserimento nella casella di posta per saturazione della
capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per
l'inadeguata gestione dello spazio per l'archiviazione e la
ricezione di nuovi messaggi;
7) l'art. 3 del d.P.C.M. 22.07.2011 -contenente le “Comunicazioni
con strumenti informatici tra
imprese e amministrazioni pubbliche”
ed adottato in attuazione del menzionato art. 5-bis, comma 2,
CAD),- stabilisce che, a decorrere
dal 01.07.2013:
a) “le pubbliche amministrazioni non
possono accettare o effettuare in forma cartacea le
comunicazioni” (comma 1);
b) “in tutti i casi in cui non è
prevista una diversa modalità di comunicazione telematica, le
comunicazioni avvengono mediante l’utilizzo della posta
elettronica certificata”, ai sensi
degli artt. 48 e 65, comma 1, lett. c-bis), CAD (comma 2). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Valido l’invio se la Pec risulta dagli elenchi pubblici.
Inesistente la notifica da un indirizzo fuori dall’indice nazionale.
La notifica di una cartella di pagamento deve considerarsi giuridicamente
inesistente qualora venga eseguita da un indirizzo di posta elettronica
certificata che non risulti dai pubblici elenchi.
È questo, in sintesi, quanto hanno stabilito i giudici della Ctp di Napoli
con la recente sentenza 10.03.2022 n. 3120 (presidente Genovese,
relatore Di Pastena).
Il caso in esame traeva origine dall’’impugnazione di una cartella di
pagamento notificata dall’agenzia Entrate Riscossione a seguito di controllo
automatizzato della dichiarazione dei redditi, in base all’articolo 36-bis
del Dpr 600/1973. In particolare, il ricorrente, tra gli altri motivi, aveva
eccepito l’inesistenza giuridica del suddetto atto in quanto notificato da
un indirizzo di posta elettronica certificata non ricompreso negli elenchi
ufficiali.
I giudici campani hanno accolto il ricorso ed hanno annullato la cartella.
Il collegio ha evidenziato in primis che, secondo quanto disposto
dall’articolo 3-bis della legge 53 del 1994 «la notificazione con
modalità telematica si esegue a mezzo di posta elettronica certificata
all’indirizzo risultante da pubblici elenchi... La notificazione può essere
eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica
certificata del notificante risultante da pubblici elenchi».
Al riguardo, è stato anche ricordato che il Dlgs 82 del 2005 (il Codice
dell’amministrazione digitale) ha previsto l’istituzione del pubblico elenco
dell’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (Ini-Pec).
Inoltre, è stato osservato che, in base all’articolo 26 del Dpr 602 del
1973, la notifica della cartella deve essere eseguita a mezzo di Pec
all’indirizzo del destinatario risultante dall’indice nazionale degli
indirizzi di posta elettronica certificata (Ini-Pec), ovvero all’indirizzo
dichiarato all’atto della richiesta.
In definitiva, dall’analisi delle suddette norme, emerge che è stato
ritenuto necessario che l’attività di notifica avvenga attraverso l’utilizzo
di indirizzi di posta elettronica risultanti dai pubblici elenchi al fine di
assicurare la certezza della provenienza nonché della destinazione degli
atti.
Peraltro, non va sottaciuto che tale principio è stato confermato dalla
Corte di Cassazione con le sentenze n. 3709/2019
e n. 9893/2019 e le ordinanze n. 9562/2019 e n.
17346/2019.
In particolare, la Suprema corte, con l’ordinanza n.
17346/2019, ha osservato che la notifica effettuata con modalità
telematiche è da considerarsi viziata se il notificante utilizza il proprio
indirizzo di posta elettronica certificata che non risulta da pubblici
elenchi, in base all’articolo 3-bis.
Ciò premesso, i giudici hanno concluso che, sulla base della documentazione
prodotta, l’agenzia delle Entrate Riscossione aveva trasmesso la cartella di
pagamento, per la notifica, da un indirizzo Pec diverso da quello presente
nel pubblico registro e che, per tali ragioni, la stessa notifica doveva
considerarsi inesistente.
Merita infine segnalare che si registrano alcune sentenze di merito dello
stesso segno (Ctp Roma n. 2799, Ctp Perugia n. 379 del 2019 e Ctp Reggio
Calabria n. 3369 del 2021)
(articolo Il Sole 24 Ore del 08.06.2022). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Pec
piena? E' colpa dell'utente. Il Tar Sardegna ha rigettato il ricorso contro
un comune compensando però le spese di lite.
Osservazioni non pervenute alla p.a.: in difetto è il cittadino.
Ogni volta in cui la casella pec della p.a. risulti
piena, con conseguente impossibilità di recapitarvi messaggi o documenti,
anche importanti, è il cittadino a doversi attivare, allertando il suo
interlocutore in merito all'esigenza di provvedere allo svuotamento della
casella.
È quanto emerge dalla
sentenza 14.02.2022 n. 99, emessa dal TAR Sardegna, sede di
Cagliari.
Nel caso di specie, un cittadino ha ricevuto un preavviso di rigetto da
parte del Comune in relazione a una pratica edilizia.
Sperando di far cambiare idea all'Amministrazione, ha trasmesso talune
osservazioni a sostegno delle sue ragioni, come espressamente consentito
dalla normativa sul procedimento amministrativo.
Le osservazioni sono state inoltrate alla casella di posta certificata
istituzionale del Comune. Tuttavia, come attestato dalla ricevuta di "mancata
consegna", la pec non è mai giunta a destinazione poiché la casella
postale dell' amministrazione risultava, in quel momento, piena.
Così, il Comune -dando atto della mancanza di osservazioni da parte del
cittadino (che pure si era attivato)- ha infine adottato il provvedimento
negativo, ribadendo plasticamente le motivazioni anticipate nel preavviso.
Incredulo, il cittadino ha tempestivamente impugnato il provvedimento
negativo dinanzi al tribunale amministrativo regionale. Ai giudici è stato
chiesto di demolire la decisione gravata siccome il Comune avrebbe del tutto
mancato di considerare le osservazioni del ricorrente per problemi tecnici e
organizzativi dei quali non poteva essere chiamato a rispondere. In tal
senso -ha insistito il cittadino- era preciso onere del titolare della
casella pec (il Comune) provvedere alla sua periodica manutenzione (in
particolare, allo svuotamento), di modo da garantire la corretta ricezione
degli atti.
In proposito, merita ricordare come l'articolo 3 del codice
dell'amministrazione digitale (c.d. "cad") preveda il diritto dei
cittadini di utilizzare le tecnologie telematiche per le comunicazioni con
le pp.aa., le quale, coerentemente, sono chiamate a garantire tale utilizzo.
Ebbene, le doglianze del ricorrente non sono state condivise dal collegio
che, anzi, analizzando il funzionamento del sistema pec, ha mandato indenne
da critica l'operato del Comune.
I giudici sardi partono da assunto di base: la trasmissione a mezzo pec è
caratterizzata dal fatto che solo il mittente riceve l' eventuale
comunicazione della mancata consegna; il destinatario, tutto all'opposto, ne
ignora l'esistenza e, dunque, non potrebbe procedere -anche volendo- con
l'eventuale recupero.
Perciò, diligenza e buona fede vogliono che sia il mittente (cittadino) a
dover avvisare e, comunque, a provvedere con un nuovo invio.
La decisione affronta un altro importante aspetto: la mancata consegna per
causa imputabile al destinatario può avere rilievo ai fini della prova del
rispetto dei termini procedimentali, ma non anche sulla valutazione della
legittimità della successiva azione dell'amministrazione.
In definitiva, secondo il Tar, l'istante con la sola ordinaria diligenza "ben
avrebbe potuto rendersi conto che la pec da lui inviata, in risposta al
preavviso di provvedimento negativo, non era stata ricevuta (che aveva la
casella di posta piena) e ben avrebbe potuto provvedere ad un nuovo
successivo invio delle sue osservazioni sempre a mezzo pec o avrebbe potuto
pure consegnare le stesse a mano agli uffici".
Ricorso rigettato e spese di lite compensate
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2022). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Casella Pec piena, l'Ente non può «presumere» l'esistenza del
documento rifiutato dal sistema.
La violazione dei doveri di adottare i comportamenti necessari per
consentire al cittadino le comunicazioni tramite posta elettronica
certificata, onde evitare che risulti piena, non può comportare una
presunzione di conoscenza del contenuto di documenti che non erano pervenuti
all'amministrazione.
Lo ha affermato il TAR Sardegna, Sez. I, con la
sentenza 14.02.2022 n. 99 (si veda NT+ Enti locali & edilizia del
17 febbraio) .
Il fatto
È stato impugnato il provvedimento con il quale un Comune ha disposto la
decadenza dall'autocertificazione presentata per la realizzazione della
recinzione di un'area, intimato il divieto di prosecuzione delle opere e
l'immediata demolizione di quelle già eseguite. Il ricorrente contesta di
aver presentato le proprie osservazioni in riscontro alla comunicazione dei
motivi ostativi all'indirizzo Pec del Comune, che però non sono mai
pervenute in quanto la casella risultava piena. Il Comune ha quindi adottato
il provvedimento con il quale, dando anche atto della mancanza di
osservazioni da parte dell'interessato, ha confermato il rigetto, dichiarato
la decadenza dalla dichiarazione, vietato la prosecuzione delle opere e
intimato la demolizione di quelle già abusivamente realizzate.
Il ricorrente ha sostenuto l'illegittimità dell'ordinanza in quanto non ha
tenuto conto delle osservazioni presentate, non essendo a lui imputabile la
mancata consegna per la saturazione della capienza massima della casella Pec
del Comune, il quale avrebbe dovuto usare la normale diligenza per
provvedere alla sua periodica manutenzione e svuotamento in modo da
consentire la costante ricezione degli atti.
La consegna via Pec
All'esito dell'esame, il Tar Sardegna ha dichiarato il ricorso infondato. I
giudici hanno ricordato che la trasmissione di un documento mediante Pec si
realizza in due fasi: la spedizione, con riferimento alla quale assume
rilevanza la ricevuta di accettazione da parte del gestore del mittente; e
la consegna al destinatario, attestata dalla successiva ricevuta. Il
documento si intende dunque consegnato quando la Pec del destinatario ha
generato la ricevuta di consegna anche nel caso in cui la consegna non sia
potuta avvenire per causa imputabile al destinatario, in quanto la consegna
presuppone che il destinatario sia stato messo nella condizione di
conoscerne effettivamente il contenuto, ossia che la comunicazione gli sia
stata resa disponibile. Nel caso in cui la spedizione non va a buon fine e
il mittente riceve un messaggio di mancata consegna, è quindi escluso a
priori che la comunicazione sia pervenuta nella sfera di conoscibilità del
destinatario.
Sussiste pertanto una netta distinzione tra il sistema delle comunicazioni
tramite Pec e il sistema postale cartaceo, poiché diversamente da quanto
avviene con le comunicazioni a mezzo raccomandata, dove l'operatore rilascia
al destinatario una ricevuta con la quale si rende possibile il ritiro della
posta in un momento successivo e si pone il destinatario nella condizione di
sapere che vi è una comunicazione a lui rivolta e che è suo onere attivarsi
per ritirarla, nelle trasmissioni mediante Pec è onere esclusivo del
mittente che riceve la comunicazione della mancata consegna mettere il
destinatario nelle condizioni di riceverla.
La diligenza
Il ricorrente, pur avendo ricevuto il messaggio di mancata consegna
all'amministrazione, non si è attivato per rendere disponibili le
osservazioni da lui inviate. Il Cad, ha osservato il Tar, garantisce il
diritto dei cittadini all'uso delle tecnologie telematiche nelle
comunicazioni con le Pa a fronte del quale vi è un dovere di queste ultime
di consentire che questo uso sia effettivamente garantito, ma la violazione
di questi doveri non può comportare, almeno in assenza di una espressa
previsione di legge, una presunzione di conoscenza del contenuto di
documenti che non erano pervenuti all'amministrazione. Ne consegue che, a
prescindere dai motivi per i quali l'invio a mezzo Pec non si era
perfezionato con la consegna delle osservazioni trasmesse, comunque il
ricorrente è incorso in una violazione della correttezza e della buona fede,
limitandosi a ricevere la comunicazione di mancata consegna senza poi
provvedere a re-inoltrare le osservazioni al Comune (articolo NT+Enti
Locali & Edilizia del 02.03.2022). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La
Pec spedita al Comune è valida solo se è arrivata la ricevuta di consegna.
Il cittadino che ha spedito un'istanza al Comune a mezzo Pec deve sempre
accertarsi che una volta inviata al giusto indirizzo sia poi effettivamente
pervenuta agli uffici dell'ente.
Rischia brutte sorprese se -come nella vicenda trattata del TAR
Sardegna-Sez. I (nella
sentenza 14.02.2022 n. 99)- ritiene che l'onere di diligenza del
cittadino finisca col solo invio della Pec pensando che sia esclusivo onere
del titolare della casella di posta elettronica provvedere alla periodica
manutenzione e svuotamento in modo che sia costantemente idonea alla
ricezione di atti e istanze.
Sussiste infatti una netta distinzione tra il sistema delle comunicazioni
tramite pec e il sistema cartaceo "tradizionale" con raccomandata
postale. Diversamente da quanto avviene per quest'ultimo dove l'operatore
rilascia al destinatario una ricevuta con la quale non solo si rende
possibile il ritiro della posta in un momento successivo ma soprattutto si
pone il destinatario nella condizione di "sapere" che vi è una
comunicazione per lui; nelle trasmissioni con Pec esclusivamente il mittente
riceve la comunicazione della mancata consegna mentre il destinatario può
restarne all'oscuro e soprattutto senza alcun modo di recupero della
comunicazione se il mittente non provvede a inviargliela di nuovo.
La trasmissione di un documento via posta elettronica certificata si
realizza in due fasi: la spedizione con riferimento alla quale assume
rilevanza la ricevuta di accettazione da parte del gestore del mittente
(ricevuta di invio) e la consegna al destinatario che è attestata dalla
successiva ricevuta di consegna. La normativa si preoccupa da un lato
di tutelare il mittente considerando adempiuto da parte di costui l'onere di
trasmissione con decorrenza dalla data e dall'ora dell'avvenuta accettazione
del messaggio di posta da parte del proprio gestore (ricevuta di invio);
dall'altro tutela il destinatario della comunicazione perché la
consegna presuppone che il messaggio sia reso disponibile nella casella di
posta elettronica del destinatario (ricevuta di consegna). Il documento
informatico spedito a mezzo Pec si considera recapitato se la comunicazione
è resa effettivamente disponibile al domicilio digitale del destinatario
salva la prova che la mancata consegna sia dovuta a fatto non attribuibile
al destinatario.
Questa procedura è di particolare importanza per il caso in cui la
comunicazione debba essere trasmessa all'amministrazione entro un
determinato termine. Infatti in relazione alle conseguenze che possono
prodursi se la comunicazione non sia stata effettivamente recapitata, la
mancata consegna può in alcuni casi avere comunque rilievo ai fini della
prova del rispetto dei termini. Quando la spedizione a mezzo Pec non va a
buon fine e il mittente riceve un messaggio di mancata consegna generato dal
sistema è invece escluso a priori che la comunicazione sia pervenuta nella
sfera di "reale conoscibilità" del destinatario che può rimanere
totalmente ignaro della impossibilità di ricezione di messaggi Pec (articolo
NT+Enti Locali & Edilizia del 17.02.2022). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Comunicazioni
del cittadino alla Pubblica amministrazione tramite posta elettronica
certificata.
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Pubblica amministrazione – Comunicazioni – Pec inviate da cittadino –
Obblighi della Pubblica amministrazione – Omissioni Conseguenza.
La violazione dei doveri che incombono sulla
Pubblica amministrazione di adottare i comportamenti necessari per
consentire al cittadino le comunicazioni tramite posta elettronica
certificata, onde evitare che risulti piena, non può comportare, almeno in
assenza di una espressa previsione di legge, una presunzione di conoscenza
del contenuto di documenti che non erano pervenuti all’Amministrazione (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che la trasmissione di un documento
mediante posta elettronica certificata si realizza in più fasi: la
spedizione, con riferimento alla quale assume rilevanza la ricevuta di
accettazione da parte del gestore del mittente (ricevuta di invio) e la
consegna al destinatario che è attestata dalla successiva ricevuta di
consegna.
La normativa di cui al dal d.lgs. 07.03.2005 recante il “Codice
dell’amministrazione digitale” (in particolare articoli 6, 45 e 48) si
preoccupa da un lato di tutelare il mittente considerando adempiuto da parte
di costui l’onere di trasmissione con decorrenza dalla data e dall’ora
dell’avvenuta accettazione del messaggio di posta da parte del proprio
gestore (ricevuta di invio), dall’altro tutela il destinatario della
comunicazione perché la consegna presuppone che il messaggio sia "reso
disponibile" nella casella di posta elettronica del destinatario
(ricevuta di consegna), “salva la prova che la mancata consegna sia
dovuta a fatto non imputabile al destinatario medesimo” (art. 6).
La consegna di cui al richiamato art. 6 presuppone, soprattutto
nell’attività procedimentale, che il soggetto destinatario della
comunicazione sia stato messo nella condizione di conoscerne effettivamente
il contenuto, ossia che la stessa gli sia stata resa disponibile.
Mentre, quando la spedizione con pec non va a buon fine e il mittente riceve
un messaggio di mancata consegna generata dal sistema, è escluso a priori
che la comunicazione sia pervenuta nella sfera di conoscibilità del
destinatario, il quale può restare peraltro completamente ignaro anche
dell’impossibilità di recapitargli la pec, sussistendo al riguardo una netta
distinzione da questo punto di vista tra il sistema delle comunicazioni
elettroniche tramite pec e il sistema postale cartaceo.
Ha aggiunto il Tar che in relazione alle conseguenze che possono prodursi
nei casi in cui la comunicazione non sia stata effettivamente recapitata
all’amministrazione e debba invece, per produrre i suoi effetti, giungere
effettivamente nella disponibilità dell’amministrazione, come nel caso in
esame nel quale l’interessato ha presentato le sue osservazioni al preavviso
di provvedimento negativo dell’amministrazione (ai sensi dell’art. 10-bis
della legge n. 241 del 1990), la disposizione di cui all'art. 6 del Codice
dell'amministrazione digitale sulla (mancata) avvenuta consegna per causa
imputabile al destinatario può avere rilievo ai soli fini della prova del
rispetto dei termini, ma non anche sulla valutazione della legittimità della
successiva azione dell’amministrazione.
Ha quindi concluso la sentenza che se è vero che a norma dell’art. 3 del
richiamato Codice dell’Amministrazione digitale sussiste un diritto dei
cittadini all’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le
pubbliche Amministrazioni, a fronte del quale vi è dunque un dovere di
queste ultime di consentire che tale uso sia effettivamente garantito
adottando tutti i comportamenti necessari, tra cui la cura della casella di
posta elettronica onde evitare che risulti piena, è altresì vero che la
violazione di tali doveri, come è nel caso di specie, non può comportare,
almeno in assenza di una espressa previsione di legge, una presunzione di
conoscenza del contenuto di documenti che non erano pervenuti
all’Amministrazione.
Il destinatario della comunicazione dei motivi ostativi che, a fronte della
ricevuta di mancata consegna delle osservazioni trasmesse
all'Amministrazione via pec, non provvede a re-inoltrarle incorre in una
violazione dei canoni comportamentali della correttezza e della buona fede
che permeano tutti i rapporti, anche quelli tra Amministrazione e cittadini,
e dimostra di non coltivare con la diligenza dovuta l’interesse, pure
ribadito in sede giudiziaria, di poter superare i motivi ostativi
comunicatigli mediante la produzione di integrazioni e chiarimenti (TAR
Sardegna, Sez. I,
sentenza 14.02.2022 n. 99 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
1. Con l’atto introduttivo del giudizio il ricorrente impugna il
provvedimento con il quale il Comune ha disposto la decadenza dalla
dichiarazione autocertificativa unica (DUA) da lui presentata per la
realizzazione della recinzione di un’area di sua proprietà e gli ha intimato
al contempo il divieto di prosecuzione delle opere e l’immediata demolizione
di quelle già eseguite.
1.1. Il ricorrente premette di aver presentato, in data 28.10.2020, una DUA,
ai sensi dell’art. 31, comma 4, della L.R. n. 24 del 2016, allo Sportello
unico per le attività produttive e per l’attività edilizia (SUAPE) per
l’esecuzione, su un’area di proprietà, degli interventi edilizi in questione
e di aver iniziato i lavori una volta decorso il termine di trenta giorni
previsto dalla normativa richiamata.
Tuttavia il Responsabile dell’Ufficio tecnico comunale in data 16.12.2020
con preavviso di rigetto gli ha comunicato, ai sensi del punto 10.2.3 delle
Direttive in materia di SUAPE, i motivi ostativi all’accoglimento della
pratica.
Il ricorrente ha inviato, in riscontro alla comunicazione dei motivi
ostativi, le proprie osservazioni in data 28.12.2020 all’indirizzo di posta
elettronica certificata del Comune.
Ciò nonostante la pec non è pervenuta al Comune, come attestato dalla
ricevuta di mancata consegna, in quanto la casella postale
dell’Amministrazione risultava piena.
Il Comune ha quindi adottato il provvedimento, oggetto di gravame, con il
quale, dando anche atto della mancanza di osservazioni da parte
dell’interessato, ha confermato le motivazioni anticipate con il preavviso
di rigetto e, dichiarata la decadenza dalla DUA, ha vietato la prosecuzione
delle opere e intimato la demolizione di quelle già abusivamente realizzate.
1.2. Avverso il provvedimento impugnato il signor Pu. ha proposto diversi
motivi di ricorso che saranno esaminati nella parte in diritto e ne ha
chiesto quindi l’annullamento, con vittoria di spese.
...
6. Il ricorso è infondato e non merita accoglimento.
7. Dopo una ricostruzione della disciplina che regolamenta il procedimento
presso lo Sportello unico (SUAPE) in base alla Legge regionale n. 26 del
2014 ed alle Linee guida di cui alla D.G.R. n. 49 del 2019, con il primo
motivo di ricorso parte ricorrente sostiene che l’ordinanza gravata
sarebbe illegittima per violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del
1990, nella parte in cui dispone che: “(…) Qualora gli istanti abbiano
presentato osservazioni, del loro eventuale mancato accoglimento il
responsabile del procedimento o l’autorità competente sono tenuti a dare
ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego indicando, se
ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle
osservazioni”.
Nel provvedimento impugnato difatti non si tiene conto delle osservazioni
presentate dal ricorrente in riscontro alla comunicazione dei motivi
ostativi ed anzi è detto erroneamente che nel termine stabilito l’istante
non ha presentato alcun riscontro.
7.1. Sostiene, sempre il ricorrente, che avendo inviato tali osservazioni
all’indirizzo pec del Comune a nulla rileverebbe la mancata consegna delle
stesse per l’impossibilità derivante dalla saturazione della capienza
massima della casella di posta elettronica, dovendosi arrestare l'onere di
diligenza del privato cittadino all’invio della pec e dovendo al contrario
essere esclusivo onere del titolare della casella di posta provvedere alla
sua periodica manutenzione e svuotamento in modo che sia costantemente
idonea alla ricezione di atti.
8. La tesi non può essere condivisa.
8.1. Si deve ricordare che la disciplina sull’utilizzo del domicilio
digitale nelle comunicazioni con la pubblica Amministrazione è dettata dal
D.Lgs. 07.03.2005 recante il “Codice dell’amministrazione digitale”.
In particolare vengono in rilievo, ai fini del presente giudizio, le
disposizioni contenute negli articoli 6, 45 e 48 del richiamato Codice, le
quali così prevedono:
- art. 6, comma 1: “Le comunicazioni tramite i domicili digitali
sono effettuate agli indirizzi inseriti negli elenchi di cui agli articoli
6-bis, 6-ter e 6-quater, o a quello eletto come domicilio speciale per
determinati atti o affari ai sensi dell'articolo 3-bis, comma 4-quinquies.
Le comunicazioni elettroniche trasmesse ad uno dei domicili digitali di cui
all'articolo 3-bis producono, quanto al momento della spedizione e del
ricevimento, gli stessi effetti giuridici delle comunicazioni a mezzo
raccomandata con ricevuta di ritorno ed equivalgono alla notificazione per
mezzo della posta salvo che la legge disponga diversamente. Le suddette
comunicazioni si intendono spedite dal mittente se inviate al proprio
gestore e si intendono consegnate se rese disponibili al domicilio digitale
del destinatario, salva la prova che la mancata consegna sia dovuta a fatto
non imputabile al destinatario medesimo. La data e l'ora di trasmissione e
ricezione del documento informatico sono opponibili ai terzi se apposte in
conformità alle Linee guida.”
- art. 45, comma 2: “Il documento informatico trasmesso per via
telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e
si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all'indirizzo
elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del
destinatario messa a disposizione dal gestore.”
- art. 48: “1. La trasmissione telematica di comunicazioni che
necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene
mediante la posta elettronica certificata ai sensi del decreto del
Presidente della Repubblica 11.02.2005, n. 68, o mediante altre soluzioni
tecnologiche individuate con le Linee guida. 2. La trasmissione del
documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi del comma 1,
equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per
mezzo della posta. 3. La data e l'ora di trasmissione e di ricezione di un
documento informatico trasmesso ai sensi del comma 1 sono opponibili ai
terzi se conformi alle disposizioni di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 11.02.2005, n. 68, ed alle relative regole tecniche, ovvero
conformi alle Linee guida.”
8.2. Dunque, la trasmissione di un documento mediante posta elettronica
certificata si realizza in più fasi: la spedizione, con riferimento
alla quale assume rilevanza la ricevuta di accettazione da parte del gestore
del mittente (ricevuta di invio) e la consegna al destinatario che è
attestata dalla successiva ricevuta di consegna.
La normativa, come sopra richiamata, si preoccupa da un lato di
tutelare il mittente considerando adempiuto da parte di costui l’onere di
trasmissione con decorrenza dalla data e dall’ora dell’avvenuta accettazione
del messaggio di posta da parte del proprio gestore (ricevuta di invio),
dall’altro tutela il destinatario della comunicazione perché la consegna
presuppone che il messaggio sia reso disponibile nella casella di posta
elettronica del destinatario (ricevuta di consegna).
8.3. La comunicazione spedita con pec si intende quindi consegnata se è resa
disponibile al domicilio digitale del destinatario, “salva la prova che
la mancata consegna sia dovuta a fatto non imputabile al destinatario
medesimo”.
Il documento informatico si intende pertanto consegnato al destinatario
quando la pec del destinatario ha generato la ricevuta di consegna ed anche
nel caso in cui la consegna non sia potuta avvenire per causa imputabile al
destinatario. Tale previsione è di particolare importanza per il caso in cui
la comunicazione debba essere trasmessa all’amministrazione entro un
determinato termine.
8.4. La consegna di cui al richiamato art. 6 presuppone peraltro,
soprattutto nell’attività procedimentale, che il soggetto destinatario della
comunicazione sia stato messo nella condizione di conoscerne effettivamente
il contenuto, ossia che la stessa gli sia stata resa disponibile.
Mentre, quando la spedizione con pec non va a buon fine e il mittente riceve
un messaggio di mancata consegna generata dal sistema, è escluso a priori
che la comunicazione sia pervenuta nella sfera di conoscibilità del
destinatario, il quale può restare peraltro completamente ignaro anche
dell’impossibilità di recapitargli la pec.
8.5. Sussiste pertanto una netta distinzione da questo punto di vista tra il
sistema delle comunicazioni elettroniche tramite pec e il sistema postale
cartaceo, poiché diversamente da quanto avviene con le comunicazioni a mezzo
raccomandata dove l’operatore rilascia al destinatario una ricevuta con la
quale non solo si rende possibile il ritiro della posta in un momento
successivo, ma soprattutto si pone il destinatario nella condizione di
sapere che vi è una comunicazione a lui rivolta e che è suo onere attivarsi
per ritirarla, nelle trasmissioni mediante pec è esclusivamente il mittente
che riceve la comunicazione della mancata consegna, mentre il destinatario
ne resta all’oscuro e soprattutto non ha alcun modo per recuperare la
comunicazione non recapitatagli dal sistema se il mittente non provvede ad
inviargliela di nuovo.
8.6. In relazione alle conseguenze che possono prodursi nei casi in cui la
comunicazione non sia stata effettivamente recapitata all’amministrazione e
debba invece, per produrre i suoi effetti, giungere effettivamente nella
disponibilità dell’amministrazione, come nel caso in esame nel quale
l’interessato ha presentato le sue osservazioni al preavviso di
provvedimento negativo dell’amministrazione (ai sensi dell’art. 10-bis della
legge n. 241 del 1990), la citata disposizione sulla (mancata) avvenuta
consegna per causa imputabile al destinatario può avere quindi rilievo ai
soli fini della prova del rispetto dei termini, ma non anche sulla
valutazione della legittimità della successiva azione dell’amministrazione.
9. Ciò premesso, nel caso di specie, il ricorrente, pur avendo ricevuto il
messaggio del gestore della posta elettronica che gli comunicava la mancata
consegna all’Amministrazione delle osservazioni da lui inviate e dunque pur
avendo avuto piena contezza dell’impossibilità per l’Amministrazione di
conoscerne il contenuto, non si è ulteriormente attivato per mettere nella
effettiva disponibilità dell’Amministrazione le sue osservazioni, salvo
successivamente dolersi, in questa sede, della negata possibilità di
integrare e chiarire le mancanze progettuali contestate
dall’Amministrazione.
Ma la parte ricorrente, usando l’ordinaria diligenza, ben avrebbe potuto
rendersi conto che la PEC da lui inviata al Comune, in risposta al preavviso
di provvedimento negativo, non era stata ricevuta dallo stesso Comune (che
aveva la casella di posta piena) e ben avrebbe potuto provvedere ad un nuovo
successivo invio delle sue osservazioni sempre a mezzo PEC o avrebbe potuto
pure consegnare le stesse a mano agli uffici, viste le piccole dimensioni
del Comune di Villa Sant'Antonio, avendo interesse che l’amministrazione le
potesse valutare.
Peraltro il Comune ha emesso il provvedimento interdittivo impugnato il
27.01.2021, circa un mese dopo l’invio delle contestate osservazioni in data
28.12.2020.
9.1. Se è vero, quindi, che a norma dell’art. 3 del richiamato Codice
dell’Amministrazione digitale sussiste un diritto dei cittadini all’uso
delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche
Amministrazioni, a fronte del quale vi è dunque un dovere di queste ultime
di consentire che tale uso sia effettivamente garantito adottando tutti i
comportamenti necessari, tra cui la cura della casella di posta elettronica
onde evitare che risulti piena, è altresì vero che la violazione di tali
doveri, come è nel caso di specie, non può comportare, almeno in assenza di
una espressa previsione di legge, una presunzione di conoscenza del
contenuto di documenti che non erano pervenuti all’Amministrazione.
9.2. Ne consegue che, nel caso di specie, a prescindere dai motivi per i
quali l’invio a mezzo pec non si era perfezionato con la consegna delle
osservazioni trasmesse, comunque il ricorrente è incorso in una violazione
dei canoni comportamentali della correttezza e della buona fede che permeano
tutti i rapporti, anche quelli tra Amministrazione e cittadini, non essendo
tra l’altro il re-invio delle osservazioni (sempre con Pec o con altra
modalità sicura) un adempimento particolarmente gravoso. Infatti, così
facendo (limitandosi cioè a ricevere la comunicazione di mancata consegna
della pec senza tuttavia poi provvedere a re-inoltrare le osservazioni al
Comune) ha dimostrato di non coltivare con la diligenza dovuta l’interesse,
pure ribadito in questa sede, di poter superare i motivi ostativi
comunicatigli mediante la produzione di integrazioni e chiarimenti.
9.3. Il motivo di doglianza non risulta pertanto fondato, non avendo
l’Amministrazione mai ricevuto le osservazioni dell’odierno ricorrente sui
motivi ostativi.
10. Peraltro la censura, nel giudizio in esame, non può ritenersi nemmeno
rilevante.
Infatti, a prescindere dalla questione riguardante la mancata ricezione
della pec recante le osservazioni sui motivi ostativi all’esecuzione dei
lavori oggetto della DUA, comunque, per quanto sarà chiarito con riferimento
all’esame degli altri motivi di ricorso, il Comune non avrebbe potuto
consentire l’esecuzione dei lavori che erano stati oggetto della DUA (o
almeno di una buona parte degli stessi) che necessitavano di altro titolo
edilizio, nonché dell’autorizzazione paesaggistica (o comunque di
autorizzazione paesaggistica semplificata).
Con la conseguenza che nella fattispecie deve ritenersi applicabile l’art.
21-octies della legge n. 241 del 1990 secondo il quale “non è annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia
palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”.
10.1. Infatti, come questa Sezione ha già più volte affermato, anche dopo le
modifiche che sono state apportate all’art. 21-octies della legge n. 241 del
1990 [da ultimo con l'art. 12, comma 1, lett. i), D.L. 16.07.2020, n. 76,
convertito, con modificazioni, dalla L. 11.09.2020, n. 120], si deve
ritenere che tra i vizi formali che non comportano l’annullabilità dell’atto
impugnato rientri anche l’omissione del preavviso di rigetto quando, per la
natura vincolata del provvedimento, il giudice rilevi che il provvedimento
adottato non avrebbe potuto comunque essere diverso.
Può infatti ritenersi, operando una interpretazione della disposizione in
questione coerente con il principio di economicità, di celerità e di
efficienza dell’azione amministrativa, che l’omissione del preavviso di
diniego non sia sempre viziante, e che in particolare tale omissione non è
viziante in casi di determinazioni vincolate (TAR Sardegna, Sezione I, n.
620 del 24.08.2021, n. 578 del 05.08.2021) (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 14.02.2022 n. 99 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Notifica
a casella Pec piena.
Processo civile telematico: la ricevuta è equiparabile
all’avvenuta consegna se il destinatario ha occupato tutta la memoria del
proprio account di Posta elettronica certificata?
Che fine fa la notifica a casella pec piena?
La risposta è stata fornita da una recente sentenza della Cassazione sezione
lavoro [1].
La Corte si è trovata a giudicare sulla legittimità di un atto di
impugnazione allo stato passivo depositato fuori termine dal legale del
ricorrente. In questo contesto, i giudici hanno ritenuto rituale la notifica
dell’atto giudiziario effettuata via Pec, anche se risultava piena la
casella di Posta elettronica certificata del destinatario.
Casella Pec piena: conseguenze
Secondo la pronuncia in commento, la ricevuta dell’operatore che attesta
come nell’account non ci sia più spazio per l’archiviazione dei messaggi
equivale a quella di avvenuta consegna: spetta al titolare della Pec non
solo dotarsi di un valido indirizzo di Posta elettronica certificata, ma
anche gestirne la memoria in modo da consentire la ricezione di nuovi
messaggi.
Questo significa che è ugualmente valida la notifica a casella Pec piena.
Ricordiamo infatti che ai sensi del sesto comma dell’art. 16 del D.L. n.
179/2012, «Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti per i quali la
legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica
certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto
indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le
stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio
Pec per cause imputabili al destinatario». E la giurisprudenza della
Cassazione è costante nell’annoverare tra le «cause imputabili al
destinatario» la mancata comunicazione per saturazione della casella di
posta elettronica.
La Cassazione ha esplicitamente affermato che «il mancato buon esito
della comunicazione telematica di un provvedimento giurisdizionale, dovuto
alla saturazione della capienza della casella della Posta elettronica
certificata del destinatario legittima l’effettuazione della comunicazione
mediante deposito in cancelleria (ai sensi dell’art. 16, comma 6, del D.L.
n. 179/2021 come modificato dall’art. 47 del D.L. n. 90/2014»
[2].
Se la casella Pec del destinatario è piena, la comunicazione può essere
eseguita con il deposito in cancelleria. La mancata ricezione risulta
imputabile allo stesso destinatario, il quale è comunque in grado di
conoscerne gli estremi, in quanto il sistema invia un avviso al portale dei
servizi telematici in modo da renderne edotto il difensore interessato che
vi accede [3];
l’informativa contiene gli elementi che identificano il procedimento, le
parti e i loro patrocinatori.
In caso di mancata consegna la comunicazione è generata in automatico
secondo le previsioni della Dgsia, la Direzione generale dei servizi
informativi automatizzati del ministero della Giustizia: altrimenti,
l’avviso pubblicato nel Pst non potrebbe dare per “avvenuta” detta
comunicazione o notificazione.
Casella Pec piena e rimessione in termini
La casella di Posta elettronica certificata piena non è un valido motivo per
ottenere la richiesta di rimessione in termini per la notifica di un atto
[4].
La notifica a mezzo Pec ex art. 3-bis l. n. 53 del 1994 di un atto del
processo–formato fin dall’inizio in forma di documento informatico ad un
legale, implica, purché soddisfi e rispetti i requisiti tecnici previsti
dalla normativa vigente, l’onere per il suo destinatario di dotarsi degli
strumenti per decodificarla o leggerla, non potendo la funzionalità
dell’attività del notificante essere rimessa alla mera discrezionalità del
destinatario, salva l’allegazione e la prova del caso fortuito, come in
ipotesi di malfunzionamenti del tutto incolpevoli, imprevedibili e comunque
non imputabili al professionista coinvolto.
Peraltro, costituendo la normativa sulle notifiche telematiche la mera
evoluzione della disciplina delle notificazioni tradizionali ed il suo
adeguamento al mutato contesto tecnologico, l’onere in questione non può
dirsi eccezionale od eccessivamente gravoso, in quanto la dotazione degli
strumenti informatici integra un necessario complemento dello strumentario
corrente per l’esercizio della professione.
In particolare, con specifico riferimento alla ipotesi di saturazione della
casella Pec, è stato escluso che tale saturazione configuri un impedimento
non imputabile al difensore al fine di legittimare la richiesta di
rimessione in termini per la notifica di un atto.
Mancato buon esito della notifica Pec
dovuto a casella piena: conseguenze
Come chiarito dalla Cassazione
[4], «Il mancato buon
esito della comunicazione telematica di un provvedimento giurisdizionale
dovuto alla saturazione della capienza della casella PEC del destinatario è
evento imputabile a quest’ultimo; di conseguenza, é legittima
l’effettuazione della comunicazione mediante deposito dell’atto in
cancelleria, ai sensi dell’art. 16, comma 6, del d.l. n. 179 del 2012, conv.
in l. n. 221 del 2012, come modificato dall’art. 47 del d.l. n. 90 del 2014,
conv. in l. n. 114 del 2014, senza che, nell’ipotesi in cui il destinatario
della comunicazione sia costituito nel giudizio con due procuratori, la
cancelleria abbia l’onere, una volta non andato a buon fine il primo
tentativo di comunicazione, di tentare l’invio del provvedimento all’altro
procuratore. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di
merito che aveva dichiarato tardiva l’opposizione proposta dal lavoratore
avverso l’ordinanza ex art. 1, comma 49, della l. n. 92 del 2012, comunicata
all’indirizzo PEC di uno dei suoi procuratori e non consegnata per “casella
piena”, reputando irrilevante che la cancelleria non avesse tentato la
comunicazione al secondo procuratore ed avesse invece eseguito la
comunicazione telematica ad entrambi i difensori costituiti del datore di
lavoro)».
Mancata visione degli allegati alla Pec
Nella notifica all’avvocato difensore mediante Posta elettronica certificata
opera una presunzione di conoscenza dell’atto, analoga a quella prevista,
per le dichiarazioni negoziali, dall’art. 1335 del Codice civile, nel
momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione e di consegna
del messaggio nella casella del destinatario, spetta quindi al destinatario,
in un’ottica collaborativa, rendere edotto tempestivamente il mittente
incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione
o di presa visione degli allegati trasmessi via Pec, legate all’utilizzo
dello strumento telematico, onde fornirgli la possibilità di rimediare
all’inconveniente, sicché all’inerzia consegue il perfezionamento della
notifica (Cass.
ordinanza 21.02.2020, n. 4624).
In pratica
La notificazione di un atto
eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di
posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con
cui l’operatore attesta di avere rinvenuto la c.d. casella PEC del
destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di
avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta
per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al
destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e
la ricezione di nuovi messaggi (Cass. Civ, Sez. lavoro,
sentenza 02.03.2021 n. 5646; Cass. Civ., Sez. VI,
ordinanza 11.02.2020 n. 3164).
---------------
Note
[1] Cass.
sentenza
03.05.2021 n. 11559
[2] Cass.
sentenza 21.03.2018 n. 7029,
ordinanza 15.12.2016 n. 25968,
sentenza 20.05.2019 n. 13532, sentenza n. 3163/2020
[3] Cass.
ordinanza 18.02.2020 n. 3965,
ordinanza 09.08.2018 n. 20698
[4] Cass.
sentenza 20.05.2019 n. 13532 (09.05.2021
- tratto da www.laleggepertutti.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ok
alla notifica dell’atto giudiziario via Pec anche se la casella del
destinatario, obbligato per legge a munirsi di posta elettronica
certificata, risulta piena. La ricevuta dell’operatore che attesta come
nell’account del soggetto non ci sia più spazio equivale infatti
all’avvenuta consegna, in quanto si tratta di evento imputabile al
destinatario negligente nella gestione della propria Pec.
---------------
La giurisprudenza di questa Corte è costante nell'annoverare tra le "cause
imputabili al destinatario" la "mancata comunicazione per saturazione
della casella di posta elettronica", avendo esplicitamente affermato "che
il mancato buon esito della comunicazione telematica di un provvedimento
giurisdizionale, dovuto alla saturazione della capienza della casella di
posta elettronica del destinatario, legittima l'effettuazione della
comunicazione mediante deposito dell'atto in cancelleria, ai sensi dell'art.
16, comma 6, del d.l. n. 179/2012 cit., conv. in legge. n. 221/2012 cit.,
come modificato dall'art. 47 del d.l. 24/06/2014 n. 90, conv. in legge
11/08/2014 n. 114" (Cass. n. 7029 del 2018; ma già in precedenza v.
Cass. n. 25968 del 2016; conf. Cass. n. 13532 del 2019 e, più di recente,
Cass. n. 3163 del 2020) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza
03.05.2021 n. 11559). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Notifica
Pec su casella piena: è valida?
La procedura si perfeziona in favore del mittente anche
quando il messaggio non è stato recapitato al destinatario per esaurimento
dello spazio disponibile.
Quando una casella di posta
elettronica esaurisce lo spazio di memoria disponibile per l’archiviazione
non può più ricevere nuovi messaggi. Ma intanto i mittenti continuano ad
inviarli e, spesso, non sanno che i recapiti non giungono a destinazione, a
meno che il sistema non li avvisi dell’accaduto. Finché si tratta di un
normale indirizzo e-mail, il problema non è grave, anche se rimane il
rischio di perdere qualcosa di importante; ma quando il fenomeno avviene
sulla posta elettronica certificata è possibile che sfuggano le notifiche di
atti legali, giudiziali o tributari.
Per il mittente però questi messaggi risultano regolarmente inviati, tant’è
che dispone anche della ricevuta di consegna, ma in concreto il destinatario
non li ha visualizzati e non potrà farlo fino a quando non provvederà a
svuotare la propria casella di posta. Quando ciò si verifica la notifica Pec
su casella piena è valida o può essere contestata?
La legge stabilisce i rispettivi oneri posti a carico del mittente e del
destinatario e la giurisprudenza si è espressa più volte al riguardo: la
notifica si intende perfezionata anche quando la casella è satura e non può
ricevere l’atto notificato, che però era stato validamente spedito: perciò,
gli effetti della notifica si realizzano comunque nei confronti di chi non
ha provveduto a gestire in modo adeguato il proprio spazio di archiviazione.
La notifica mediante Pec
La notifica a mezzo Pec (acronimo di “posta elettronica certificata”)
è equiparata a quella tradizionale in formato cartaceo, che avviene
attraverso la consegna mediante ufficiale giudiziario o con spedizione
postale di una lettera raccomandata con avviso di ricevimento.
La prova del recapito è rappresentata dalla ricevuta di consegna in formato
digitale (un file con estensione xml).
Il valore legale della notifica a mezzo Pec
La notifica effettuata a mezzo Pec ha pieno valore legale, a condizione che
la comunicazione avvenga da un indirizzo di posta elettronica certificata
verso un’altra Pec, e non invece quando lo scambio si realizza attraverso le
normali caselle e-mail: l’invio di una Pec a un indirizzo e-mail semplice
non vale affatto come notifica ai fini legali.
La prova dell’invio della Pec, e dunque dell’avvenuta notificazione in via
telematica, valida agli effetti di legge, è contenuta nella ricevuta
digitale che il sistema restituisce al mittente con un apposito messaggio
inoltrato sulla sua Pec: sarà questo documento –chiamato ricevuta di
avvenuta consegna– a valere quanto la tradizionale “cartolina” delle
raccomandate A/R. Nel caso di casella del destinatario satura, e perciò
impossibilitata ad accogliere il contenuto ad essa trasmesso, il sistema
emette un apposito messaggio di avvertenza che, come tra poco vedremo, è
considerato di valore equipollente.
Pec non ricevuta per spazio di destinazione pieno
La casella Pec di ricezione
deve essere sempre mantenuta attiva e funzionante dal destinatario: se egli
non provvede a farlo, il messaggio che è stato correttamente indirizzato ed
inoltrato alla sua Pec avrà valore di avvenuta notifica anche se non è stato
concretamente aperto oppure non è arrivato perché lo spazio disponibile a
riceverlo si era esaurito.
Questo principio è stabilito dalla legge [1]
secondo cui la notifica si perfeziona, in favore del notificante, nel
momento in cui viene generata dal sistema la ricevuta di accettazione (che
equivale alla spedizione postale della lettera raccomandata) e, verso il
destinatario, nel momento in cui il sistema crea la ricevuta di avvenuta
consegna.
Il raggiungimento dello spazio massimo di capacità della casella Pec –che
varia da gestore a gestore ed in base al tipo di contratto stipulato–
preclude in concreto la possibilità di ricevere nuovi messaggi Pec se non
viene periodicamente svuotato dai messaggi precedenti, ma non elimina gli
effetti di validità della notifica, che nonostante ciò si producono in
favore del mittente: egli non può essere ritenuto responsabile dell’incuria
del destinatario nella gestione della sua casella.
Le notifiche giudiziarie su casella Pec piena
In particolare, per le
notificazioni fatte dalle cancellerie agli avvocati, la legge
[2] prevede espressamente
che esse sono valide in quanto rivolte a soggetti che hanno l’obbligo di
munirsi di un indirizzo Pec anche quando la mancata consegna avviene «per
cause imputabili al destinatario» che evidentemente è incaricato della
diligente gestione del proprio spazio di archiviazione dei messaggi
digitali.
Anche quando la notifica avviene tra privati, però (o da un privato verso
una pubblica amministrazione), come in uno scambio di missive legali tra
avvocati o tra società, la Corte di Cassazione afferma [3]
che la notifica telematica è perfetta pur se la ricevuta di consegna non è
stata generata per incapienza della casella Pec del destinatario ed ha
ribadito che in tali casi egli ha un «onere di controllo» volto ad
evitare che essa diventi satura.
Del resto, anche le norme in tema di notificazioni a mezzo Pec eseguite
dall’Ufficiale giudiziario [4]
stabiliscono che «la notifica si intende perfezionata nel momento in cui
il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta
elettronica certificata del destinatario».
Notifica Pec valida anche quando lo spazio è saturo
Tale documento informatico che dimostra l’avvenuta notifica deve consistere
per forza nella ricevuta di consegna oppure può essere anche un documento
alternativo che prova la “tentata” consegna da parte del sistema, che
non si è potuta realizzare a causa del riempimento della casella Pec?
Ora, in una recentissima sentenza, la Corte di Cassazione
[5] rileva che nei confronti di
tutti i soggetti obbligati per legge a munirsi di un indirizzo Pec –dunque
imprenditori, professionisti iscritti a Ordini o Collegi, società, titolari
di ditte individuali e di partita Iva– la notifica si intende perfezionata
proprio nel momento in cui il sistema attesta di aver trovato piena la
casella del destinatario: questo messaggio è equiparato, ai fini della
validità della notifica, alla ricevuta di avvenuta consegna, poiché la
saturazione della capienza è imputabile al destinatario che non ha saputo (o
voluto) gestire in modo appropriato il suo spazio destinato alla ricezione
di nuovi messaggi.
Perciò, in definitiva, la mancata ricezione del messaggio a causa dello
spazio pieno sulla casella Pec alla quale è stato indirizzato non potrà
essere addotta dal destinatario come motivo valido per contestare la
notifica effettuata nei suoi confronti.
---------------
Note
[1] Art. 3-bis, comma 3, Legge n. 54/1994
[2] Art. 16, comma 6, D.L. n. 179/2012
[3] Cass.
ordinanza 11.02.2020 n. 3164
[4] Art. 149-bis, comma 3, Cod. proc. civ.
[5] Cass. sez. Lavoro,
sentenza 02.03.2021 n. 5646
(04.03.2021 - tratto da www.laleggepertutti.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Notificazione
– Notificazione attraverso posta elettronica certificata (P.E.C.) – Casella
postale piena – Perfezionamento della notificazione – Configurabilità –
Fattispecie.
La notificazione dell’atto da eseguirsi ad un soggetto
che per legge è obbligato a munirsi di un indirizzo di posta elettronica
certificata (P.E.C.) si considera regolarmente perfezionata con la ricevuta
telematica che attesta l’aver trovato piena la casella di posta elettronica
certificata, equiparabile alla ricevuta di avvenuta consegna, poiché il
mancato inserimento nella predetta casella si configura come un evento
imputabile esclusivamente alla condotta del destinatario individuabile nella
inadeguata gestione dello spazio telematico destinato alla ricezione e
all’archiviazione dei documenti.
La giurisprudenza è costante nell’annoverare tra le cause imputabili al
destinatario la mancata comunicazione per saturazione della casella di posta
elettronica, avendo esplicitamente affermato che il mancato buon esito della
comunicazione telematica di un provvedimento giurisdizionale, dovuto alla
saturazione della capienza della casella di posta elettronica del
destinatario, legittima l’effettuazione della comunicazione mediante
deposito dell’atto in cancelleria, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012 , art.
16, comma 6, convertito in L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L.
24.06.2014, n. 90, art. 47, convertito in L. 11.08.2014, n. 114.
Nella fattispecie, si trattava del giudizio con oggetto l’opposizione allo
stato passivo del fallimento di un’azienda proposto da due lavoratori
dipendenti che richiedevano l’accertamento della illegittimità del
licenziamento collettivo
(massima tratta da https://arsg.it).
---------------
4. Altrettanto opportuna appare una ricognizione del quadro normativo e
giurisprudenziale in ordine alle comunicazioni o notificazioni effettuate
dalla cancelleria tramite posta elettronica certificata.
Va premesso che, ai sensi dell'art. 99, u.c., L.fall. nel testo vigente
all'epoca dei fatti di causa, come novellato prima dal d.lgs. 09.01.2006, n.
5, e poi dal d.lgs. 12.09.2007, n. 169, il decreto che decide
sull'opposizione allo stato passivo "è comunicato dalla cancelleria alle
parti che, nei successivi trenta giorni, possono proporre ricorso per
cassazione".
Tale comunicazione effettuata dal cancelliere mediante posta elettronica
certificata, ai sensi dell'art. 16, comma 4, del di. n. 179 del 2012, conv.,
con modif. dalla l. n. 221 del 2012, è idonea a far decorrere il termine
breve per l'impugnazione in cassazione, non ostandovi il nuovo testo
dell'art. 133, comma 2, c.p.c., come novellato dal d.l. n. 90 del 2014, conv.,
con modif., dalla l. n. 114 del 2014, secondo il quale la comunicazione del
testo integrale della sentenza da parte del cancelliere non è idonea a far
decorrere i termini per le impugnazioni di cui all'art. 325 c.p.c., perché
la norma del codice di rito trova applicazione solo nel caso di atto di
impulso di controparte, ma non incide sulle norme derogatorie e speciali che
ancorano la decorrenza del termine breve di impugnazione alla mera
comunicazione di un provvedimento da parte della cancelleria (cfr. Cass. n.
23443 del 2019 e Cass. n. 10525 del 2016).
Tuttavia, ai sensi del comma sesto dell'art. 16 richiamato, "Le
notificazioni e comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede
l'obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, che
non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono
eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità
si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta
elettronica certificata per cause imputabili al destinatario".
La giurisprudenza di questa Corte è costante nell'annoverare tra le "cause
imputabili al destinatario" la "mancata comunicazione per saturazione
della casella di posta elettronica", avendo esplicitamente affermato "che
il mancato buon esito della comunicazione telematica di un provvedimento
giurisdizionale, dovuto alla saturazione della capienza della casella di
posta elettronica del destinatario, legittima l'effettuazione della
comunicazione mediante deposito dell'atto in cancelleria, ai sensi dell'art.
16, comma 6, del d.l. n. 179/2012 cit., conv. in legge n. 221/2012 cit.,
come modificato dall'art. 47 del d.l. 24/06/2014 n. 90, conv. in legge
11/08/2014 n. 114" (Cass. n. 7029 del 2018; ma già in precedenza v.
Cass. n. 25968 del 2016; conf. Cass. n. 13532 del 2019 e, più di recente,
Cass. n. 3163 del 2020).
Nonostante la mancata ricezione della comunicazione per causa a lui
imputabile, il destinatario è comunque nella condizione di prendere
cognizione degli estremi della comunicazione medesima, in quanto il sistema
invia un avviso al portale dei servizi telematici, di modo che il difensore
destinatario, accedendovi, viene informato dell'avvenuto deposito (v. Cass.
n. 3965 del 2020; Cass. n. 20698 del 2018; Cass. pen. n. 54141 del 2017).
Infatti, ai sensi dell'art. 16, comma 4, del D.M. n. 44 del 2011, "nel
caso in cui viene generato un avviso di mancata consegna previsto dalle
regole tecniche della posta elettronica certificata (...) viene pubblicato
nel portale dei servizi telematici, secondo le specifiche tecniche stabilite
ai sensi dell'articolo 34, un apposito avviso di avvenuta comunicazione o
notificazione dell'atto nella cancelleria o segreteria dell'ufficio
giudiziario contenente i soli elementi identificativi del procedimento e
delle parti e loro patrocinatori".
Da tale disposizione si evince pure che, in caso "di mancata consegna",
la "comunicazione o notificazione dell'atto nella cancelleria o
segreteria dell'ufficio giudiziario" è generata automaticamente,
conformemente alle previsioni del D.G.S.I.A., altrimenti l'"avviso"
pubblicato "nel portale dei servizi telematici" non potrebbe dare per
"avvenuta" detta comunicazione o notificazione (Corte di Cassazione,
Sez. lavoro,
sentenza 02.03.2021 n. 5646).
---------------
Al riguardo si legga anche:
● N. De Rossi,
Casella Pec
piena? Colpa tua. La notifica è valida (15.03.2021 - link a
www.bloggiuridico.it).
...
Meglio “svuotare” regolarmente la Pec. Non è infatti una “scusante”
sostenere che non si è potuto adempiere in tempo ad un atto o ad una
determinata incombenza perché la propria casella di posta elettronica
certificata era piena e non si è dunque riusciti a visualizzare prima un
dato messaggio. La notifica, che per il mittente risulta regolarmente
avvenuta, è valida. (...continua). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
comunicazione telematica tramite Posta elettronica certificata (PEC) è
divenuto mezzo formale ed esclusivo per le comunicazioni tra pubbliche
amministrazioni e imprese, societarie ed attualmente anche individuali, come
sancito espressamente dall’art. 5 del d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17.12.2012, n. 221.
Le comunicazioni a mezzo PEC devono essere
effettuate al recapito digitale risultante dal Registro delle imprese o da
altro pubblico registro. E' onere dell’impresa mantenere tale recapito
in condizione di efficienza, adottando ogni misura idonea ad assicurarne
l’ordinaria operatività.
In caso di contestazioni in merito alla mancata ricezione, la
pubblica amministrazione, per dimostrare la regolarità del procedimento di
notifica, deve limitarsi a provare di avere spedito la comunicazione
all’indirizzo PEC risultante dai pubblici registri; questa circostanza è da
sola sufficiente e necessaria per realizzare la presunzione di notifica.
Ne consegue l’irrilevanza del mancato perfezionamento del recapito,
spettando all’impresa, titolare dell’indirizzo PEC, l’onere di dimostrare,
al contrario, la piena funzionalità dell’account indicato nei medesimi
pubblici registri.
---------------
La disciplina in materia ha conosciuto una svolta significativa nel 2010,
allorquando il legislatore ha sancito l’obbligo da parte della
pubblica amministrazione dell’utilizzo degli strumenti digitali per
comunicare con le imprese, sino a quel momento facoltativo.
L’art. 4 del dlgs 30.12.2010, n. 235 ha infatti inserito
modifiche ed integrazioni al d.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice
dell’amministrazione digitale, c.d. CAD).
Tra queste ha inserito nel CAD, l’art. 5-bis -rubricato “Comunicazioni tra
imprese e amministrazioni pubbliche”- il cui comma 1 prescrive che: “La
presentazione di istanze, dichiarazioni, dati e lo scambio di informazioni e
documenti, anche a fini statistici, tra le imprese e le amministrazioni
pubbliche avviene esclusivamente utilizzando le tecnologie dell’informazione
e della comunicazione. Con le medesime modalità le amministrazioni pubbliche
adottano e comunicano atti e provvedimenti amministrativi nei confronti
delle imprese”.
L’avverbio “esclusivamente” ha sancito quindi il superamento del carattere
facoltativo del ricorso agli strumenti digitali per le comunicazioni.
Ha fatto seguito il d.P.C.M. 22.07.2011 -contenente le “Comunicazioni
con strumenti informatici tra imprese e amministrazioni pubbliche” ed
adottato in attuazione del menzionato art. 5-bis, comma 2, CAD),- il cui
art. 3 stabilisce che, a decorrere dal 01.07.2013:
1) “le pubbliche amministrazioni non possono accettare o effettuare in forma
cartacea le comunicazioni” (comma 1);
2) “in tutti i casi in cui non è prevista una diversa modalità di
comunicazione telematica, le comunicazioni avvengono mediante l’utilizzo
della posta elettronica certificata”, ai sensi degli artt. 48 e 65, comma 1,
lett. c-bis, CAD (comma 2).
---------------
Dall’illustrata configurazione delle modalità d’interlocuzione formale tra
pubbliche amministrazioni ed imprese e, in particolare, dall’individuazione
del canale mediante il quale le comunicazioni devono ormai svolgersi,
discende che l’impresa titolare della PEC ha l’onere di mantenerla in
condizioni di efficienza, anche adottando ogni accorgimento idoneo a
garantirne l’ordinaria operatività (ad es., con spostamento o eliminazione
dei messaggi per prevenire l’esaurimento della capacità di ricezione; col
regolare adempimento delle eventuali obbligazioni assunte nei confronti del
gestore del servizio; etc.).
Sicché, ove non ricorra una “causa non oggettivamente imputabile al
destinatario”, opera la presunzione di ricezione della PEC, per tutti gli
aspetti rientranti nella propria sfera di controllo.
Questa conclusione rappresenta quindi la trasposizione in ambito informatico
della presunzione di conoscenza disciplinata in via generale dall’art. 1335
cod. civ., posto che l’indirizzo PEC assume tutti i requisiti per rientrare
nella più ampia nozione di “indirizzo del destinatario”, accolta dalla norma
del codice (sul punto, si confronti anche l’art. 3-bis CAD).
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3.- Non fondato è anche il secondo motivo di ricorso.
3.1.- Circa la violazione dell’art. 7 L. n. 241/1990, vi è da osservare che
il MISE ha correttamente inviato la comunicazione di avvio del procedimento
all’indirizzo PEC della società ricorrente, come riportato nella visura
storica camerale.
3.1.1.- Sul punto, si rammenta che la comunicazione telematica tramite Posta
elettronica certificata (PEC) è divenuto mezzo formale ed esclusivo per le
comunicazioni tra pubbliche amministrazioni e imprese, societarie ed
attualmente anche individuali, come sancito espressamente dall’art. 5 del
d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17.12.2012, n. 221.
Giova altresì ricordare che le comunicazioni a mezzo PEC devono essere
effettuate al recapito digitale risultante dal Registro delle imprese o da
altro pubblico registro e che è onere dell’impresa mantenere tale recapito
in condizione di efficienza, adottando ogni misura idonea ad assicurarne
l’ordinaria operatività.
Pertanto, in caso di contestazioni in merito alla mancata ricezione, la
pubblica amministrazione, per dimostrare la regolarità del procedimento di
notifica, deve limitarsi a provare di avere spedito la comunicazione
all’indirizzo PEC risultante dai pubblici registri; questa circostanza è da
sola sufficiente e necessaria per realizzare la presunzione di notifica.
Ne consegue l’irrilevanza del mancato perfezionamento del recapito,
spettando all’impresa, titolare dell’indirizzo PEC, l’onere di dimostrare,
al contrario, la piena funzionalità dell’account indicato nei medesimi
pubblici registri (cfr., sul punto, la sentenza del TAR Lazio, Roma, Sez.
III-ter 21.11.2016, n. 11614).
3.1.2.- Quanto sopra si ricava dal complesso delle disposizioni normative di
settore che appare utile passare in sintetica rassegna.
L’art. 16, commi 6 e 9, d.l. 29.11.2008, n. 185, convertito con
modificazioni dalla Legge 28.01.2009, n. 2 chiarisce che:
- “Le imprese costituite in forma societaria sono tenute a indicare il
proprio indirizzo di posta elettronica certificata nella domanda di
iscrizione al registro delle imprese o analogo indirizzo di posta
elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell’invio e
della ricezione delle comunicazioni e l’integrità del contenuto delle
stesse, garantendo l’interoperabilità con analoghi sistemi internazionali.
Entro tre anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto tutte le
imprese, già costituite in forma societaria alla medesima data di entrata in
vigore, comunicano al registro delle imprese l’indirizzo di posta
elettronica certificata. […]” (comma 6);
- “[…] le comunicazioni tra i soggetti di cui ai commi 6, 7 e 8 del presente
articolo, che abbiano provveduto agli adempimenti ivi previsti, possono
essere inviate attraverso la posta elettronica certificata o analogo
indirizzo di posta elettronica di cui al comma 6, senza che il destinatario
debba dichiarare la propria disponibilità ad accettarne l’utilizzo” (comma
9; il comma 8 si riferisce alle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1,
comma 2, d.lgs. n. 165/2001).
Queste disposizioni, nella parte in cui introducono il duplice obbligo della
società iscritta nel registro delle imprese di indicare l’indirizzo PEC (o
“analogo indirizzo di posta elettronica” avente le caratteristiche di cui al
comma 6) e di consentirne l’utilizzo indipendentemente da una corrispondente
manifestazione di volontà dell’impresa interessata, assumevano portata
derogatoria della regola generale, all’epoca vigente, secondo cui l’utilizzo
della PEC da parte dei soggetti privati è facoltativo.
Al riguardo, è utile rinviare al D.P.R. 11.02.2005, n. 68 –contenente
il regolamento per l’utilizzo della PEC- che all’art. 4, comma 5, affida
alle “regole tecniche” la definizione delle “modalità attraverso le quali il
privato comunica la disponibilità all’utilizzo della posta elettronica
certificata […] o l’eventuale cessazione della disponibilità […]”.
Le suddette regole sono state in seguito definite col decreto ministeriale 02.11.2005, recante per l’appunto le “regole tecniche per la formazione,
la trasmissione e la validazione, anche temporale, della posta elettronica
certificata”.
3.1.3.- La disciplina in materia ha conosciuto una svolta significativa nel
2010, allorquando il legislatore ha sancito l’obbligo da parte della
pubblica amministrazione dell’utilizzo degli strumenti digitali per
comunicare con le imprese, sino a quel momento facoltativo, come sino allora
desumibile dal tenore testuale dell’art. 16, comma 9, del menzionato d.l.
185/2008, secondo cui, si rammenta, “le comunicazioni […] possono essere
inviate”.
L’art. 4 del decreto legislativo 30.12.2010, n. 235 –su delega
dell’art. 33 della legge 18.06.2009, n. 69- ha infatti inserito
modifiche ed integrazioni al d.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice
dell’amministrazione digitale, c.d. CAD).
Tra queste ha inserito nel CAD, l’art. 5-bis -rubricato “Comunicazioni tra
imprese e amministrazioni pubbliche”- il cui comma 1 prescrive che: “La
presentazione di istanze, dichiarazioni, dati e lo scambio di informazioni e
documenti, anche a fini statistici, tra le imprese e le amministrazioni
pubbliche avviene esclusivamente utilizzando le tecnologie dell’informazione
e della comunicazione. Con le medesime modalità le amministrazioni pubbliche
adottano e comunicano atti e provvedimenti amministrativi nei confronti
delle imprese”.
L’avverbio “esclusivamente” ha sancito quindi il superamento del carattere
facoltativo del ricorso agli strumenti digitali per le comunicazioni.
Ha fatto seguito il d.P.C.M. 22.07.2011 -contenente le “Comunicazioni
con strumenti informatici tra imprese e amministrazioni pubbliche” ed
adottato in attuazione del menzionato art. 5-bis, comma 2, CAD),- il cui
art. 3 stabilisce che, a decorrere dal 01.07.2013:
1) “le pubbliche amministrazioni non possono accettare o effettuare in forma
cartacea le comunicazioni” (comma 1);
2) “in tutti i casi in cui non è prevista una diversa modalità di
comunicazione telematica, le comunicazioni avvengono mediante l’utilizzo
della posta elettronica certificata”, ai sensi degli artt. 48 e 65, comma 1,
lett. c-bis, CAD (comma 2).
L’art. 48 CAD appena menzionato –in seguito abrogato dall'articolo 65,
comma 7, del D.Lgs. 13.12.2017, n. 217, ai fini del passaggio entro
il 2019 dalla PEC al domicilio digitale, ma in vigore ratione temporis-
recava per l’appunto la disciplina di principio sulla PEC, chiarendone
ambito applicativo ed efficacia.
Per quanto in questa sede rileva, il comma 1 disponeva che: “La trasmissione
telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di
una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica certificata”,
ai sensi del citato D.P.R. n. 68/2005.
Il comma 2 aggiungeva che: “La trasmissione del documento informatico per
via telematica, effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la
legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta”.
Il comma 3 precisava, infine, che: “La data e l’ora di trasmissione e di
ricezione di un documento informatico trasmesso ai sensi del comma 1 sono
opponibili ai terzi se conformi alle disposizioni” di cui al D.P.R. n.
68/2005 e alle relative regole tecniche.
Circa il “valore giuridico della trasmissione”, è utile richiamare l’art. 45
CAD, il cui comma 2 precisa che: “Il documento informatico trasmesso per via
telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e
si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all’indirizzo
elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del
destinatario messa a disposizione dal gestore”.
Per di più, il comma 3 del menzionato art. 5 del D.L. 179 del 2019 –con
l’inserimento nel CAD dell’art. 6-bis- ha istituito l’indice nazionale dei
domicili digitali delle imprese e dei professionisti, chiamato anche “INI-PEC”.
Il comma 2 del predetto art. 6-bis CAD è stato da ultimo modificato
dall’art. 7 d.lgs. 26.08.2016, n. 179, nel senso che gli indirizzi
riportati nell’INI-PEC “costituiscono mezzo esclusivo di comunicazione e
notifica con i soggetti di cui all’articolo 2, comma 2” (tra cui le
pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001.
Al riguardo, la Commissione speciale del Consiglio di Stato, col parere n.
785/2016, reso nell’adunanza del 17.03.2016 sullo schema del d.lgs. n.
179/2016, ha sottolineato il significato del “nuovo corso” del “processo di digitalizzazione e di utilizzo delle nuove tecnologie da parte sia della
pubblica amministrazione sia dei cittadini e delle imprese che interagiscono
con essa”, processo che persegue una maggiore efficienza ed economicità
dell’apparato pubblico con miglioramento del livello di soddisfazione dei
cittadini relativamente ai servizi resi dall’amministrazione e risparmi in
termini di risorse pubbliche e private.
3.2.- Dal descritto quadro normativo, si ha inequivocabile conferma che -in
assenza di “diversa modalità di comunicazione telematica”- la PEC
costituisce mezzo non solo idoneo ma ormai esclusivo per le comunicazioni
tra pubblica amministrazione e imprese societarie e, attualmente, anche
individuali, come precisato dal menzionato art. 5, comma 1, d.l. 179 del
2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 221 del 2012.
Dall’illustrata configurazione delle modalità d’interlocuzione formale tra
pubbliche amministrazioni ed imprese e, in particolare, dall’individuazione
del canale mediante il quale le comunicazioni devono ormai svolgersi,
discende che l’impresa titolare della PEC ha l’onere di mantenerla in
condizioni di efficienza, anche adottando ogni accorgimento idoneo a
garantirne l’ordinaria operatività (ad es., con spostamento o eliminazione
dei messaggi per prevenire l’esaurimento della capacità di ricezione; col
regolare adempimento delle eventuali obbligazioni assunte nei confronti del
gestore del servizio; etc.).
Sicché, ove non ricorra una “causa non oggettivamente imputabile al
destinatario”, opera la presunzione di ricezione della PEC, per tutti gli
aspetti rientranti nella propria sfera di controllo.
Questa conclusione rappresenta quindi la trasposizione in ambito informatico
della presunzione di conoscenza disciplinata in via generale dall’art. 1335
cod. civ., posto che l’indirizzo PEC assume tutti i requisiti per rientrare
nella più ampia nozione di “indirizzo del destinatario”, accolta dalla norma
del codice (sul punto, si confronti anche l’art. 3-bis CAD).
3.3.- Alla luce del ricostruito quadro normativo in materia, nella
fattispecie in esame la società ricorrente, titolare dell’indirizzo PEC
indicato nella visura camerale, era responsabile della sua piena
funzionalità, con conseguente irrilevanza del mancato perfezionamento
materiale del procedimento di notifica (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 16.06.2020 n. 2416 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Casella
piena PEC? Ecco quando la notificazione di un atto è perfezionata.
Con la
sentenza 11.05.2020 n. 14216 la
Corte di Cassazione, III Sez. penale, chiarisce che la notificazione di
un atto via posta elettronica certificata può ritenersi perfezionata anche
quando la casella mail di destinazione risultasse piena.
Più volte in passato le sezioni civili della Cassazione hanno affermato il
principio secondo cui il perfezionamento della notificazione di un atto a un
soggetto obbligato per legge ad avere un proprio indirizzo PEC la cui
casella però risulti piena si ha con la ricevuta che attesta tale stato
della casella.
Il messaggio in cui si comunica che la casella PEC del destinatario è piena
è equiparabile alla ricevuta di avvenuta consegna poiché il mancato
download
nella casella PEC piena è causato dalla mancata manutenzione della stessa da
parte del destinatario/proprietario. (Cass. civ., Sez. 6-3,
ordinanza 11.02.2020 n. 3164; Cass. civ., Sez. 5,
sent. n. 7029 del 21/03/2018; Cass. civ., Sez. L,
sent. n. 13532 del 20/05/2019).
Nel caso oggetto della sentenza, la cancelleria della Corte aveva trasmesso
l’avviso di fissazione dell’udienza via PEC al difensore di ufficio di uno
degli imputati, vedendosi poi restituire il messaggio con l’avviso che la
casella del destinatario risultava piena.
Il ricorso da parte dell’imputato è stato dichiarato inammissibile anche in
considerazione di quanto detto poco sopra a proposito dell’equipollenza tra
il messaggio di avvenuta consegna e quello di ‘casella piena’.
Nella sentenza, la Cassazione fa presente che l’art. 16, comma 4, del D.L.
n. 179 del 18.10.2012 (convertito con modificazioni dalla L. n. 221 del
17.12.2012) permette che la notificazione a persone diverse dall’imputato
sia effettuata per mezzo di posta PEC (art. 148 c.p.p., comma 2-bis) e che
l’art. 20, comma 5, del D.M. n. 44 del 2011 stabilisce che «il soggetto
abilitato esterno è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso
dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica
certificata e a verificare la effettiva disponibilità dello spazio disco a
disposizione».
L’insegnamento da trarre da questa sentenza è di prestare massima attenzione
alla propria casella PEC al fine di evitare che risulti piena e non possa
ricevere messaggi importanti le cui conseguenze potrebbero davvero essere
rilevanti (commento tratto da https://servicematica.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a
munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per
perfezionata con la ricevuta con cui l'operatore attesta di avere rinvenuto
la cd. casella PEC del destinatario "piena", da considerarsi equiparata alla
ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella
casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento
imputabile al destinatario, per l'inadeguata gestione dello spazio per
l'archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi.
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5. E' necessario precisare, preliminarmente, che l'avviso di fissazione
dell'udienza odierna, trasmesso via p.e.c. dalla cancelleria della Corte
all'avv. Ri.Pi., difensore di ufficio di Ro.Lo., oggi assente, è stato
restituito al mittente con l'indicazione "casella piena".
5.1. L'art. 16, comma 4, d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito con
modificazioni dalla legge 17.12.2012, n. 221, consente che la notificazione
a persone diverse dall'imputato venga effettuata, ai sensi dell'art. 148,
comma 2-bis, cod. proc. pen., a mezzo posta elettronica certificata.
L'art. 20, comma 5, d.m. n. 44 del 2011 (recante, "Regolamento
concernente le regole tecniche per l'adozione nel processo civile e nel
processo penale, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione,
in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 07.03.2005, n.
82, e successive modificazioni, ai sensi dell'articolo 4, commi 1 e 2, del
decreto-legge 29.12.2009, n. 193, convertito nella legge 22.02.2010, n. 24"),
stabilisce che «il soggetto abilitato esterno è tenuto a dotarsi di
servizio automatico di avviso dell'imminente saturazione della propria
casella di posta elettronica certificata e a verificare la effettiva
disponibilità dello spazio disco a disposizione».
5.2. Trova dunque applicazione, anche in sede penale, il principio più volte
affermato dalle sezioni civili della Corte di cassazione secondo il quale la
notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a
munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per
perfezionata con la ricevuta con cui l'operatore attesta di avere rinvenuto
la cd. casella PEC del destinatario "piena", da considerarsi
equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato
inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza
rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l'inadeguata gestione
dello spazio per l'archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi (Cass. civ.,
Sez. 6-3, n. 3164 dell'11/02/2020, Rv. 657013; Cass. civ., Sez. 5, sent. n.
7029 del 21/03/2018, Rv. 647554; Cass. civ., Sez. L, sent. n. 13532 del
20/05/2019, Rv. 653961) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.05.2020 n. 14216). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
destinatario di una PEC che non ha riguardo a mantenere libera la propria
casella di posta ne risponde se, nella fattispecie, non si genera al
mittente la mail quale "ricevuta di avvenuta consegna".
La mancata generazione della ricevuta di avvenuta consegna, relativa alla
comunicazione via pec, deve imputarsi ad una negligenza dell’Amministrazione
ricevente -che non ha predisposto le misure organizzative adeguate a
garantire la ricezione di tutte le istanze inviate, mediante lo svuotamento
della casella di posta elettronica, soprattutto in prossimità della scadenza
del termine finale- sicché non può ritenersi che il non corretto
funzionamento della procedura telematica possa costituire una valida ragione
ostativa alla partecipazione dell’instante alla selezione.
In definitiva, il
fatto che il plico non sia mai pervenuto alla amministrazione, non può
ridondare in danno della ricorrente, non emergendo dalla documentazione in
atti elementi che denotino una sua negligenza nella spedizione della domanda
di partecipazione alla selezione de qua.
In proposito, può essere richiamato
anche il condivisibile orientamento, formatosi con riguardo alla diversa
fattispecie del disguido del servizio postale, secondo il quale è contrario
ai principi di giustizia e di ragionevolezza imputare al candidato il
disservizio nel quale è incorso l'amministrazione postale,
conclusione che vale a maggior ragione allorquando la mancata consegna del
plico è attribuibile ad una disfunzione della stessa Amministrazione
ricevente.
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Considerato che il ricorrente agisce per l’annullamento:
a) del diniego prot n. 201900278-12 del 01/04/2019, di ammissione al
Concorso Pubblico per n. 15 posti di Dirigente Psicologo, pubblicato in
B.U.R.C. n. 77 del 22.10.2018 e G.U. n. 94 del 27/11/2018, ammissione di cui
alla richiesta inoltrata con nota dell’08.03.2019 acquisita al prot. n.
20587;
b) della tacita reiezione della istanza finalizzata a partecipare alla
procedura concorsuale inoltrata a mezzo pec il 26.12.2018 e respinta dal
sistema telematico per circostanze non ascrivibili a responsabilità del
ricorrente;
c) di ogni altro atto agli stessi preordinato, presupposto, connesso,
collegato e conseguente, ivi compreso, se ed in quanto esistente, il
provvedimento di approvazione dell’elenco dei soggetti ammessi alla
procedura concorsuale, provvedimento ignoto, nella parte in cui non
contempla il ricorrente;
Considerato che il ricorrente espone in fatto:
- di aver ‹‹chiesto
di essere ammesso a partecipare … inoltrando la … domanda, in conformità
alle previsioni del bando, a mezzo pec alle ore 23,12 di sabato 26.12.2018. … (quindi che) … l’inoltro, ancorché accettato dal sistema
informatico, non veniva consegnato all’amm.ne destinataria per essere
risultata la casella di quest’ultima piena.››;
- di aver chiesto
successivamente di accertare la tempestività della predetta istanza o di
concedere nuovi termini;
- che detta domanda è stata respinta con il
provvedimento impugnato;
Considerato che, nel lamentare la violazione di legge [artt. 42,
comma 2, d.lgs. 07.03.2005, n. 82, 20 D.M. 21.02.2011 n. 44, 3 l. 241/1990 e
97 Cost.] e l’eccesso di potere sotto svariati profili, il ricorrente ha
argomentato:
(1) di aver optato per una delle possibilità riconosciute dal bando per la
trasmissione della istanza di partecipazione, dal che la rilevanza del
secondo comma dell’art. 42 del d.lgs. 82/2005 per il quale ‹‹“il documento
informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se
inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso
disponibile all'indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di
posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore” …
dettato normativo [questo] … di immediata intelligibilità [e per il quale]:
il recapito si intende legalmente avvenuto allorquando il documento
informatico viene reso disponibile nella casella di posta elettronica del
destinatario, il quale, tuttavia, è gravato, ai sensi del pure richiamato
art. 20, co. 5, del D.M. n. 44 del 2011, dell’onere di dotarsi di servizio
automatico di avviso dell'imminente saturazione della propria casella di
posta elettronica certificata e di verificare la effettiva disponibilità
dello spazio disco a disposizione.››;
(2) il difetto di motivazione perché l’Asl ‹‹in luogo di giustificare la
condotta tenuta …, a fronte del chiaro obbligo di garantire l’efficienza
della casella di posta elettronica, si limita a sollevare contestazioni in
ordine a ciò che il ricorrente non avrebbe fatto -nella specie “optare sia
di inoltrare nuovamente la PEC, in quanto la stessa è stata prontamente
liberata il primo giorno utile, sia di effettuare l’invio tramite il
servizio sempre entro e non oltre il 27/12/2018”- omettendo tuttavia di
considerare che il 27.12.2018 è caduto di domenica, con l’ovvio
corollario per cui il “primo giorno utile”, cui fa generico ma capzioso
riferimento l’estensore della nota in argomento, è ovviamente coinciso con
lunedì 28 dicembre, ovvero oltre il termine “perentorio” entro il quale, a
termini di bando, avrebbe potuto inoltrarsi la domanda a mezzo pec››;
(3) quindi che, se l’amministrazione non è stata diligente, la notificazione
si ha per avvenuta, secondo anche quando rilevabile da specifico precedente
della Sezione (Tar Campania, Napoli, V, 03.07.2017 n. 3534);
Visto l’atto di costituzione in giudizio con il quale l’Asl ha
opposto l’infondatezza rilevando che ‹‹il termine per la presentazione della
domanda di partecipazione … era … dal 28/11/2018 al 27/12/2018, sia tramite
PEC che a mezzo Racc.ta A/R. Il giorno 27.12.2018 (poi) è caduto di
giovedì e non di domenica, come erroneamente indicato da controparte.
Pertanto, nel momento in cui il ricorrente ha avuto certezza che la Pec
inviata non era andata a buon fine perché la casella ricevente risultava
piena , avrebbe dovuto e ben potuto ripetere l’invio il giorno giovedì 27.12.2018 allorquando la Asl, rientrato dalle festività natalizie (25 e
26 dicembre) il personale amministrativo preposto, ha provveduto prontamente
a liberare la casella piena, permettendo, a tutta la platea di aspiranti, il
regolare inoltro delle istanze di partecipazione al Concorso. Nella
mattinata del 27 dicembre la casella è stata prontamente resa fruibile.››;
Considerato che nel corso dell’odierna camera di consiglio
ricorrente e resistente hanno ribadito le iniziali posizioni e in
particolare il primo, in relazione a specifica obiezione sull’impiegabilità
del servizio postale ha, sul punto, richiamato la previsione del bando
secondo la quale ‹‹Si considerano, comunque, prevenute fuori termine,
qualunque ne sia la causa, le domande presentate al servizio postale ma
recapitate a questa Azienda oltre 10 giorni dal termine di scadenza.››;
Considerato che ad esito della detta discussione è stata
rappresentata alle parti la possibile definizione del giudizio in forma
semplificata;
Considerato che non emergono elementi per non ritenere applicabile
alla fattispecie quanto già statuito nel detto precedente per il quale: ‹‹…
la mancata generazione della ricevuta di avvenuta consegna, relativa alla
comunicazione via pec, deve imputarsi ad una negligenza dell’Amministrazione
ricevente -che non ha predisposto le misure organizzative adeguate a
garantire la ricezione di tutte le istanze inviate, mediante lo svuotamento
della casella di posta elettronica, soprattutto in prossimità della scadenza
del termine finale- sicché non può ritenersi che il non corretto
funzionamento della procedura telematica possa costituire una valida ragione
ostativa alla partecipazione dell’instante alla selezione. In definitiva, il
fatto che il plico non sia mai pervenuto alla amministrazione, non può
ridondare in danno della ricorrente, non emergendo dalla documentazione in
atti elementi che denotino una sua negligenza nella spedizione della domanda
di partecipazione alla selezione de qua. In proposito, può essere richiamato
anche il condivisibile orientamento, formatosi con riguardo alla diversa
fattispecie del disguido del servizio postale, secondo il quale è contrario
ai principi di giustizia e di ragionevolezza imputare al candidato il
disservizio nel quale è incorso l'amministrazione postale (TAR Campania,
Napoli, sez. V, 09.09.2016 n. 4226; sez. III, 11.06.2007 n. 6069),
conclusione che vale a maggior ragione allorquando la mancata consegna del
plico è attribuibile ad una disfunzione della stessa Amministrazione
ricevente›› (Tar Campania, Napoli, V, 03.07.2017 n. 3534);
Considerato che la condivisibilità del corrispondente profilo, qui
sintetizzato sub (1), esaurisce la controversia deponendo per la fondatezza
della proposta domanda che va, pertanto, accolta con conseguente
annullamento degli atti impugnati in parte qua e nei limiti dell’interesse
del ricorrente (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 04.07.2019 n. 3725 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La giurisprudenza ha avuto modo più volte di chiarire che le comunicazioni e
notificazioni effettuate per via telematica “all'indirizzo di posta
elettronica certificata (PEC) del destinatario e la trasmissione del
documento informatico, equivalente alla notificazione a mezzo posta, si
intendono perfezionate, con riferimento alla data ed all'ora della loro
ricezione, quando la stesse siano avvenute in conformità alle disposizioni
di cui al d.P.R. n. 68 del 2005, il cui art. 6 stabilisce che il gestore
della PEC utilizzata dal destinatario deve fornire al mittente, presso il
suo indirizzo elettronico, la cd. ricevuta di avvenuta consegna (RAC) che
costituisce, quindi, il documento idoneo a dimostrare, fino a prova
contraria, che il messaggio informatico è pervenuto nella casella di posta
elettronica del destinatario".
Analogamente, la giurisprudenza amministrativa, per quanto riguarda il
versante processuale, ma con considerazioni estensibili per ogni
comunicazione via PEC, ha chiarito che l'inoltro da
una PEC assicura "l'assoluta affidabilità, in ordine all'indirizzo del
mittente, a quello del destinatario, al contenuto della comunicazione e
all'avvenuto recapito del messaggio" con l’ulteriore precisazione che
“l'appartenenza del dominio non incide sull'assegnazione e sulla
disponibilità della casella di posta elettronica, come è noto, in base ai
principi generali di funzionamento tecnologico delle mail elettroniche”.
L'invio può avvenire da qualsiasi indirizzo PEC (anche non di "proprietà"
del mittente) purché lo stesso consenta la certa identificazione del
mittente e, a tal fine:
- alleghi documenti sottoscritti digitalmente;
- alleghi copia di documento di identità;
- trasmetta tramite sistema che prevede un previo riconoscimento
tramite SPID;
- trasmetta tramite sistema che provenga dal proprio domicilio
digitale.
In sostanza, rileva la prova dell'avvenuta spedizione di un messaggio di
posta elettronica certificata, e, dal lato del destinatario, la ricevuta di
avvenuta consegna, la quale dimostra che il messaggio di posta elettronica
certificata è pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato dal
destinatario e certifica il momento dell'avvenuta consegna tramite un testo
leggibile dal mittente.
D’altra parte, sul piano legislativo non sussiste un obbligo generalizzato
per tutti i cittadini di dotarsi di una casella di posta certificata.
Tale obbligo, invero, sussiste, ai sensi dell’art. 3-bis del D.lgs.
07.03.2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale) soltanto per i
professionisti tenuti all'iscrizione in albi ed elenchi e per i soggetti
tenuti all'iscrizione nel registro delle imprese i quali devo dotarsi di un
domicilio digitale iscritto nell'elenco di cui ai successivi articoli 6-bis
o 6-ter.
Ne consegue che l’aver ancorato la “validità” della domanda di
partecipazione al bando esclusivamente ad una casella di posta elettronica
certificata personale oltre a non trovare una sua legittimazione in una
norma primaria, al pari di quella innanzi richiamata, risulta eccessivamente
gravosa e preclusiva dell’esercizio di determinati diritti del cittadino.
---------------
L’art. 3 del d.P.R. 11.02.2005, n. 68 (Regolamento
recante disposizioni per l'utilizzo della posta elettronica certificata, a
norma dell'articolo 27 della L. 16.01.2003, n. 3) dispone che “Il
documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal
mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al
destinatario se reso disponibile all'indirizzo elettronico da questi
dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a
disposizione dal gestore".
L’art. 4, comma 1, a sua volta, prevede che “la posta elettronica
certificata consente l'invio di messaggi la cui trasmissione è valida agli
effetti di legge” e, a mente del successivo art. 6, comma 3, "la ricevuta di
avvenuta consegna fornisce al mittente prova che il suo messaggio di posta
elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico
dichiarato dal destinatario e certifica il momento della consegna tramite un
testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione".
Ai sensi dell’art. 48, commi 1 e 2, D.lgs. 07.03.2005, n. 82, "la
trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di
invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica
certificata ai sensi del D.P.R. 11.02.2005, n. 68, o mediante altre
soluzioni tecnologiche individuate con le regole tecniche adottate ai sensi
all'art. 7" e "la trasmissione del documento informatico per via telematica,
effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga
diversamente, alla notificazione per mezzo della posta”.
La giurisprudenza ha avuto modo più volte di chiarire che le comunicazioni e
notificazioni effettuate per via telematica “all'indirizzo di posta
elettronica certificata (PEC) del destinatario e la trasmissione del
documento informatico, equivalente alla notificazione a mezzo posta, si
intendono perfezionate, con riferimento alla data ed all'ora della loro
ricezione, quando la stesse siano avvenute in conformità alle disposizioni
di cui al d.P.R. n. 68 del 2005, il cui art. 6 stabilisce che il gestore
della PEC utilizzata dal destinatario deve fornire al mittente, presso il
suo indirizzo elettronico, la cd. ricevuta di avvenuta consegna (RAC) che
costituisce, quindi, il documento idoneo a dimostrare, fino a prova
contraria, che il messaggio informatico è pervenuto nella casella di posta
elettronica del destinatario" (Cass. civ. Sez. I, Ord., 26.11.2018, n.
30532; Sez. VI-3, Ord., 15.09.2017, n. 21375).
Analogamente, la giurisprudenza amministrativa, per quanto riguarda il
versante processuale, ma con considerazioni estensibili per ogni
comunicazione via PEC (Consiglio di Stato, Ad. plen., 10.12.2014, n.
33; Sez. V, Sent., 24.10.2018, n. 6042), ha chiarito che l'inoltro da
una PEC assicura "l'assoluta affidabilità, in ordine all'indirizzo del
mittente, a quello del destinatario, al contenuto della comunicazione e
all'avvenuto recapito del messaggio" con l’ulteriore precisazione che
“l'appartenenza del dominio non incide sull'assegnazione e sulla
disponibilità della casella di posta elettronica, come è noto, in base ai
principi generali di funzionamento tecnologico delle mail elettroniche”.
L'invio può avvenire da qualsiasi indirizzo PEC (anche non di "proprietà"
del mittente) purché lo stesso consenta la certa identificazione del
mittente e, a tal fine:
- alleghi documenti sottoscritti digitalmente;
- alleghi copia di documento di identità;
- trasmetta tramite sistema che prevede un previo riconoscimento
tramite SPID;
- trasmetta tramite sistema che provenga dal proprio domicilio
digitale.
In sostanza, rileva la prova dell'avvenuta spedizione di un messaggio di
posta elettronica certificata, e, dal lato del destinatario, la ricevuta di
avvenuta consegna, la quale dimostra che il messaggio di posta elettronica
certificata è pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato dal
destinatario e certifica il momento dell'avvenuta consegna tramite un testo
leggibile dal mittente (Cass. civ. Sez. VI-01, 07.07.2016, n. 13917).
D’altra parte, sul piano legislativo non sussiste un obbligo generalizzato
per tutti i cittadini di dotarsi di una casella di posta certificata.
Tale obbligo, invero, sussiste, ai sensi dell’art. 3-bis del D.lgs.
07.03.2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale) soltanto per i
professionisti tenuti all'iscrizione in albi ed elenchi e per i soggetti
tenuti all'iscrizione nel registro delle imprese i quali devo dotarsi di un
domicilio digitale iscritto nell'elenco di cui ai successivi articoli 6-bis
o 6-ter.
Ne consegue che l’aver ancorato la “validità” della domanda di
partecipazione al bando esclusivamente ad una casella di posta elettronica
certificata personale oltre a non trovare una sua legittimazione in una
norma primaria, al pari di quella innanzi richiamata, risulta eccessivamente
gravosa e preclusiva dell’esercizio di determinati diritti del cittadino.
Come emerge dalla giurisprudenza richiamata, ai fini in esame, rileva la
certa identificazione dei partecipanti e l’utilizzo dello strumento
informatico indicato, presupposti che, nel caso in esame, sussistono
entrambi (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 12.04.2019 n. 1113 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In tema
di notificazioni alle persone giuridiche, se la notificazione non può
essere eseguita con le modalità di cui all'art. 145, comma 1, c.p.c. -ossia
mediante consegna di copia dell'atto al rappresentante o alla persona
incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona
addetta alla sede stessa- e nell'atto è indicata la persona fisica che
rappresenta l'ente, si osservano, in applicazione del comma 3 del medesimo
art. 145, le disposizioni degli art.
138,
139 e
141 c.p.c..
Se neppure
l'adozione di tali modalità consente di pervenire alla notificazione, si
procede con le formalità dell'art. 140 c.p.c.
(nei confronti del legale rappresentante, se indicato nell'atto e purché
abbia un indirizzo diverso da quello della sede dell'ente; oppure, nel caso
in cui la persona fisica non sia indicata nell'atto da notificare,
direttamente nei confronti della società).
Ove neppure ricorrano i presupposti per l'applicazione di tale
norma e nell'atto sia indicata la persona fisica che rappresenta l'ente (la
quale tuttavia risulti di residenza, dimora e domicilio sconosciuti), la
notificazione è eseguibile, nei confronti di detto legale rappresentante,
ricorrendo alle formalità dettate dall'art. 143 c.p.c..
---------------
La Giurisprudenza penale ha avuto occasione di occuparsi delle notificazioni
a mezzo PEC non andate a buon fine affermando che, se la mancata consegna è
dovuta alla "casella piena" del destinatario, si tratta di una causa a lui
imputabile (nella specie, la mancata ricezione del messaggio era da imputare
alla saturazione della casella PEC in violazione dell'obbligo di verificare
l'effettiva disponibilità dello spazio disco).
Ma ciò in quanto il D.M. 21.02.2011, n. 44, art. 20 (recante
"Regolamento concernente le regole tecniche per l'adozione nel processo
civile e nel processo penale, delle tecnologie dell'informazione e della
comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 07.03.2005,
n. 82, e successive modificazioni, ai sensi del D.L. 29.12.2009, n.
193, art. 4, commi 1 e 2, convertito nella L. 22.02.2010, n. 24"),
disciplina i "requisiti della casella di PEC del soggetto abilitato
esterno", imponendo a costui una serie di obblighi finalizzati a "garantire
il corretto funzionamento della casella di PEC e, quindi, la regolare
ricezione dei messaggi di posta elettronica, tra cui un sistema di alert che
avvisi dell'imminente saturazione della propria casella di posta elettronica
certificata e a verificare l'effettiva disponibilità dello spazio disco a
disposizione" (comma 5).
Di conseguenza, la mancata consegna è imputabile al
destinatario nel caso in cui costui, venendo meno agli obblighi previsti dal
D.M. n. 44 del 2011, art. 20, non si doti dei necessari strumenti
informatici ovvero non ne verifichi l'efficienza.
---------------
Si deve quindi accertare, ai fini della verifica del rispetto dell’ordine
istruttorio, se, mediante le notifiche tentate (sia attraverso il servizio
postale che a mezzo Pec), parte ricorrente abbia assolto all’obbligo di
integrare il contraddittorio contenuto nell’ordinanza n. 1567/2017.
Per quanto attiene la notifica a mezzo posta, sicuramente no.
All’indirizzo della ditta tratto dal certificato camerale la stessa è
risultata irreperibile.
Allora il ricorrente, correttamente, ha tentato di eseguire la notifica
presso il legale rappresentante, nell’indirizzo indicato nel certificato
della Camera di Commercio.
Tale opzione risulta correttamente individuata, atteso che l'irreperibilità
della società presso la sede risultante dai pubblici registri commerciali,
con conseguente impossibilità di eseguire la notificazione alla persona
giuridica secondo la previsione del primo e del comma 2 dell'art. 145 c.p.c.,
giustifica -ai sensi del successivo comma 3- l’adozione delle modalità di
cui all'art. 145, u.c., c.p.c. (effettuazione della notificazione alla
persona fisica del legale rappresentante).
Ma presso tale indirizzo il destinatario è risultato irreperibile.
A questo punto, tralasciando per un attimo la circostanza che non risulta se
il ricorrente abbia accertato, mediante indagini anagrafiche, se la
residenza del destinatario fosse nel frattempo cambiata, in ogni caso la
notifica avrebbe dovuto essere ripetuta ai sensi dell’articolo 140 cpc
ovvero dell’art. 143 cpc.
Occorre ricordare il principio giurisprudenziale secondo il quale "in tema
di notificazioni alle persone giuridiche, se la notificazione non può
essere eseguita con le modalità di cui all'art. 145, comma 1, c.p.c. -ossia
mediante consegna di copia dell'atto al rappresentante o alla persona
incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona
addetta alla sede stessa- e nell'atto è indicata la persona fisica che
rappresenta l'ente, si osservano, in applicazione del comma 3 del medesimo
art. 145, le disposizioni degli art. 138, 139 e 141 c.p.c.; se neppure
l'adozione di tali modalità consente di pervenire alla notificazione, si
procede con le formalità dell'art. 140 c.p.c. (nei confronti del legale
rappresentante, se indicato nell'atto e purché abbia un indirizzo diverso da
quello della sede dell'ente; oppure, nel caso in cui la persona fisica non
sia indicata nell'atto da notificare, direttamente nei confronti della
società); ove neppure ricorrano i presupposti per l'applicazione di tale
norma e nell'atto sia indicata la persona fisica che rappresenta l'ente (la
quale tuttavia risulti di residenza, dimora e domicilio sconosciuti), la
notificazione è eseguibile, nei confronti di detto legale rappresentante,
ricorrendo alle formalità dettate dall'art. 143 c.p.c. (TAR Lazio-Latina,
28.05.2004, n. 394; Cassazione civile, sez. III, 05.03.2003, n.
3269)".
Cosa che il ricorrente non ha fatto.
D’altra parte, dall’esame della documentazione prodotta in giudizio non si
evince se e che tipo di ricerche anagrafiche siano state eseguite al fine di
verificare la persistenza della residenza del destinatario della
notificazione nel luogo indicato nel certificato della Camera di Commercio,
circostanza decisiva ai fini dell’individuazione della norma del codice di
rito applicabile, considerato che, come chiarito da questo Tribunale (sez.
I, 13/11/2008, n. 2094), la notificazione può essere effettuata nelle forme
prescritte dall'art. 140 c.p.c. per l'ipotesi d'irreperibilità solo quando
nella residenza del destinatario non si sia potuta eseguire la consegna
perché questi (o altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in
detto indirizzo da dove, tuttavia, non risulti trasferito, mentre, qualora
egli risulti trasferito, la notifica deve essere effettuata applicando la
disciplina di cui all'art. 143 cod. proc. civ., quando il notificatore non
reperisca il destinatario che, dalle notizie acquisite all'atto della
notifica, risulti trasferito in luogo sconosciuto, e cioè qualora si ignori
il nuovo luogo di residenza, dimora o domicilio del destinatario, e tale
ignoranza non sia superata con le ricerche e richieste di informazioni
suggerite nel caso concreto dall'ordinaria diligenza; ciò perché, in caso
contrario, la notificazione va eseguita nell'individuato nuovo luogo di
effettiva residenza, dimora o domicilio, ai sensi dell'art. 139 c.p.c. e,
ove ne ricorrano i presupposti, del successivo art. 140 cpc (giurisprudenza
assolutamente costante, richiamata nella citata sentenza).
In ogni caso, che si dovesse applicare l’articolo 140 ovvero l’articolo 143
cpc, parte ricorrente non è ricorsa a nessuna di tali disposizioni,
essendosi arrestata alla constatazione della mancata presenza del
destinatario nell’indirizzo desunto dal certificato della Camera di
Commercio.
In altri termini, ammesso che la residenza fosse ancora presso tale
indirizzo, il ricorrente avrebbe dovuto richiedere la notificazione nelle
forme prescritte dall'art. 140 c.p.c. per l'ipotesi d'irreperibilità.
Occorre a questo punto verificare la regolarità della notifica tentata a
mezzo Pec, ma non andata a buon fine in quanto rifiutata dal gestore essendo
la casella del destinatario piena.
Si deve osservare che le notificazioni a mezzo Pec (disciplinate dal
d.p.c.m. numero 40/2016) costituiscono, tutt’oggi, solo una delle modalità
ammesse per l’espletamento dell’attività notificatoria disciplinata dalla
legge 21.01.1994 n. 53, pacificamente applicabile al processo
amministrativo in virtù di quanto previsto all’articolo 1 della medesima
legge e dall’articolo 39, comma 2, c.p.a.
Continuano pertanto a trovare applicazione le norme riguardanti la
notificazione a mezzo ufficiale giudiziario ovvero a mezzo del servizio
postale, il cui utilizzo risulta indispensabile nei casi in cui la
notificazione a mezzo Pec risulti impossibile.
Ora, la Giurisprudenza penale ha avuto occasione di occuparsi delle
notificazioni a mezzo PEC non andate a buon fine affermando che, se la
mancata consegna è dovuta alla "casella piena" del destinatario, si tratta
di una causa a lui imputabile (nella specie, la mancata ricezione del
messaggio era da imputare alla saturazione della casella PEC in violazione
dell'obbligo di verificare l'effettiva disponibilità dello spazio disco:
Cassazione penale, sez. III, 24/11/2017, n. 54141).
Ma ciò in quanto il D.M. 21.02.2011, n. 44, art. 20 (recante
"Regolamento concernente le regole tecniche per l'adozione nel processo
civile e nel processo penale, delle tecnologie dell'informazione e della
comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 07.03.2005,
n. 82, e successive modificazioni, ai sensi del D.L. 29.12.2009, n.
193, art. 4, commi 1 e 2, convertito nella L. 22.02.2010, n. 24"),
disciplina i "requisiti della casella di PEC del soggetto abilitato
esterno", imponendo a costui una serie di obblighi finalizzati a "garantire
il corretto funzionamento della casella di PEC e, quindi, la regolare
ricezione dei messaggi di posta elettronica, tra cui un sistema di alert che
avvisi dell'imminente saturazione della propria casella di posta elettronica
certificata e a verificare l'effettiva disponibilità dello spazio disco a
disposizione" (comma 5). Di conseguenza, la mancata consegna è imputabile al
destinatario nel caso in cui costui, venendo meno agli obblighi previsti dal
D.M. n. 44 del 2011, art. 20, non si doti dei necessari strumenti
informatici ovvero non ne verifichi l'efficienza.
Tale principio, affermato, peraltro, solo in ambito processuale, comporta,
secondo la richiamata sentenza, l’applicazione del D.L. n. 179 del 2012,
art. 16, comma 6, secondo cui le notificazioni e le comunicazioni "sono
eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria". Per cui,
nonostante la mancata ricezione della comunicazione per causa a lui
imputabile, il destinatario è comunque nella condizione di prendere
cognizione degli estremi della comunicazione medesima, in quanto il sistema
invia un avviso al portale dei servizi telematici, di modo che il difensore
destinatario, accedendovi, viene informato dell'avvenuto deposito.
In altri termini, nonostante la mancata ricezione della comunicazione per
causa a lui imputabile, il destinatario dev’essere comunque nella condizione
di prendere cognizione degli estremi della comunicazione medesima.
Analogamente, la Cassaz. Civ. civile, sez. VI, con dec. 20579 del 30/08/2017
che, in un caso in cui la notifica telematica non è stata consegnata perché
presso il gestore ricevente si è verificato un errore tecnico che ha
impedito la consegna, e di conseguenza il messaggio è stato rifiutato, ha
ritenuto valida la notificazione in cancelleria a norma del D.L. n. 179 del
2012, art. 16, comma 6 che recita "Le notificazioni e comunicazioni ai
soggetti per i quali la legge prevede l'obbligo di un indirizzo di posta
elettronica, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto
indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria”.
La decisione, sostanzialmente, assimila alle ipotesi di mancata consegna,
per le quali sovviene l’obbligo del deposito in cancelleria, anche il
rifiuto del destinatario per errore del suo stesso server, circostanza, che,
conseguentemente, non libera il mittente.
Ciò posto, deve evidenziarsi la peculiarità del caso in esame: anzitutto,
trattandosi di vicenda estranea all’ambito processuale, manca la base
normativa che consenta di ritenere sussistenti, nei rapporti tra una persona
giuridica e la generalità degli altri soggetti privati, quelle stringenti
conseguenze in caso di inosservanza degli obblighi di cura del proprio
account.
Tra l’altro, come visto, tali conseguenze risultano attenuate dall’obbligo
di eseguire, comunque, la notificazione in cancelleria, proprio allo scopo
di porre il destinatario nella condizione di prendere cognizione degli
estremi della comunicazione medesima.
Non essendo, però, tale modalità utilizzabile in una vicenda, quale quella
in esame, relativa alla notifica di un atto introduttivo del giudizio, il
mancato perfezionamento della notifica telematica (per causa imputabile al
destinatario) comporterebbe -ove non seguito da una notifica a mezzo posta
ovvero mediante ufficiale giudiziario- in concreto la mancata conoscenza in
capo al destinatario dell’avvenuta notifica di un atto giudiziario.
Ma tale conclusione risulta in evidente contrasto con il principio di
effettività del diritto alla difesa.
Viene, allora, in esame l’interessante ricostruzione della decisione del TAR
Lazio, sez. III di Roma, 21/11/2016, n. 11614, secondo la quale:
<A tenore dell'art. 16, commi 6 e 9, d.l. 29.11.2008, n. 185 (conv. con
modif. dalla l. 28.01.2009, n. 2):
- "Le imprese costituite in forma societaria sono tenute a indicare
il proprio indirizzo di posta elettronica certificata nella domanda di
iscrizione al registro delle imprese o analogo indirizzo di posta
elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell'invio e
della ricezione delle comunicazioni e l'integrità del contenuto delle
stesse, garantendo l'interoperabilità con analoghi sistemi internazionali.
Entro tre anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto tutte le
imprese, già costituite in forma societaria alla medesima data di entrata in
vigore, comunicano al registro delle imprese l'indirizzo di posta
elettronica certificata. [...]" (co. 6);
- "[...] le comunicazioni tra i soggetti di cui ai commi 6, 7 e 8
del presente articolo, che abbiano provveduto agli adempimenti ivi previsti,
possono essere inviate attraverso la posta elettronica certificata o analogo
indirizzo di posta elettronica di cui al comma 6, senza che il destinatario
debba dichiarare la propria disponibilità ad accettarne l'utilizzo" (co. 9;
il co. 8 si riferisce alle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, co.
2, d.lgs. n. 165/2001).
Queste disposizioni, nella parte in cui introducono il duplice obbligo della
società iscritta nel registro delle imprese di indicare l'indirizzo pec
(…….) e di consentirne l'utilizzo indipendentemente da una corrispondente
manifestazione di volontà dell'interessata, hanno portata derogatoria della
regola generale secondo cui l'utilizzo della pec da parte dei soggetti
privati è facoltativo (v. il d.P.R. 11.02.2005, n. 68, regolamento per
l'utilizzo della posta elettronica certificata, [...]"; v. anche il d.m.
02.11.2005, recante per l'appunto le "regole tecniche per la formazione, la
trasmissione e la validazione, anche temporale, della posta elettronica
certificata").
Tale disciplina è stata significativamente innovata nel 2010, nel senso del
superamento della facoltatività dell'utilizzo della pec da parte della
pubblica amministrazione [...].
L'art. 4 d.lgs. 30.12.2010, n. 235, ha infatti inserito nel d.lgs.
07.03.2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale, c.d. Cad), l'art.
5-bis, "Comunicazioni tra imprese e amministrazioni pubbliche (omissis) ".
Il d.P.C.M. 22.07.2011, "Comunicazioni con strumenti informatici tra imprese
e amministrazioni pubbliche" (adottato in attuazione dell'art. 5-bis, co. 2,
Cad), all'art. 3 stabilisce che a decorrere dal 01.07.2013:
i) "le pubbliche
amministrazioni non possono accettare o effettuare in forma cartacea le
comunicazioni" ex art. 5-bis, co. 1, cit. (co. 1);
ii) "in tutti i casi in
cui non è prevista una diversa modalità di comunicazione telematica, le
comunicazioni avvengono mediante l'utilizzo della posta elettronica
certificata" ai sensi degli artt. 48 e 65, co. 1, lett. c-bis), Cad (co. 2).
L'art. 48 appena menzionato reca la disciplina di principio sulla "posta
elettronica certificata", chiarendone ambito applicativo ed efficacia.
Per quanto oggi rileva (e con riferimento alla sola pec), il co. 1 prevede
che "La trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una
ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta
elettronica certificata" ai sensi del d.P.R. n. 68/2005 cit. e il co. 2 che
"La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai
sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla
notificazione per mezzo della posta" (omissis).
Giova infine richiamare l'art. 45 Cad, sul "Valore giuridico della
trasmissione", secondo cui "Il documento informatico trasmesso per via
telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e
si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all'indirizzo
elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del
destinatario messa a disposizione dal gestore" (co. 2).
Da queste disposizioni si evince dunque che la pec (in assenza di "diversa
modalità di comunicazione telematica") è mezzo non solo idoneo, ma ormai
esclusivo per le comunicazioni tra pubblica amministrazione e imprese,
societarie e, oggi, anche individuali, giusta l'art. 5, co. 1, d.l.
18.10.2012, n. 179 (conv. con modif. dalla l. 17.12.2012, n. 221).
È altresì opportuno ricordare che il co. 3 di detto art. 5 ha istituito
l'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata, c.d.
INI-PEC, inserendo nel Cad l'art. 6-bis, e che il co. 2 di quest'ultimo
articolo è stato da ultimo modificato dall'art. 7 d.lgs. 26.08.2016, n. 179,
nel senso che gli indirizzi pec riportati nell'INI-PEC "costituiscono mezzo
esclusivo di comunicazione e notifica con i soggetti di cui all'articolo 2,
comma 2" (tra cui le pubbliche amministrazioni ex art. 1, co. 2, d.lgs. n.
165/2001).
Ciò in vista del perseguimento di scopi di semplificazione ed economicità
delle comunicazioni tra pubblica amministrazione e imprese (omissis).
…….. Dall'illustrata configurazione delle modalità di interlocuzione formale
tra p.a. e imprese e, in particolare, dall'individuazione del canale
attraverso cui le inerenti comunicazioni devono ormai avere luogo, discende
che sull'impresa titolare della casella di posta elettronica certificata
grava un onere di mantenerla in condizioni di efficienza, attraverso
l'adozione di ogni accorgimento idoneo a garantirne l'ordinaria operatività
(a es. spostamento o eliminazione dei messaggi al fine di impedire
l'esaurimento della capacità di ricezione; regolare adempimento delle
eventuali obbligazioni assunte nei confronti del gestore del servizio;
ecc.).
(omissis)
Sicché, se non ricorre una "causa non imputabile al destinatario", opera la
presunzione di ricezione della pec.
Questa conclusione, che costituisce la trasposizione al settore in esame
della presunzione di conoscenza disciplinata in via generale dall'art. 1335
cod. civ. (l'indirizzo pec pare infatti rientrare nella più ampia nozione di
"indirizzo del destinatario" accolta dalla norma codicistica; v. anche art.
3-bis Cad), (omissis) implica il correlato dovere dell'impresa di vigilare
sull'efficienza della casella "ufficiale" di posta elettronica (vale a dire
quella inserita nel registro delle imprese e nell'INI-PEC), per tutti gli
aspetti rientranti nella propria sfera di controllo.
Si può dunque ritenere che anche per questo tipo di comunicazioni operi la
menzionata presunzione di ricezione, superabile solo se il destinatario
deduca, dandone prova, che la mancata consegna del messaggio sia dipesa da
causa a lui oggettivamente non imputabile.
…………, da quanto sin qui osservato discende ……..che l'impresa titolare
dell'indirizzo pec è responsabile della piena funzionalità dell'account
indicato nei pubblici registri, con conseguente irrilevanza del mancato
perfezionamento del recapito (fin qui TAR Lazio, sez. III di Roma,
21/11/2016, n. 11614)>.
Osserva il Collegio che, ferma restando l’approfondita ricostruzione di tale
decisione, la conclusione cui il Tribunale perviene (non del tutto
condivisibile, come si dirà), sarebbe anzitutto riferibile solo ai rapporti
con la PA, “essendo precluso all'amministrazione, per le sue comunicazioni
formali, il ricorso ai tradizionali sistemi di inoltro della corrispondenza
(decisione cit.)”, e non ai rapporti tra privati.
Inoltre, appare discutibile la stessa conclusione circa la presunzione di
ricezione, come dimostra anche la disciplina in tema di notifica a mezzo pec
degli atti tributari destinati alle imprese individuali o costituite in
forma societaria e ai professionisti iscritti in albi o elenchi (art. 60
D.P.R. 29/09/1973, n. 600 come modif. dall'art. 7-quater D.L. 22.10.2016, n. 193)
Il Legislatore, infatti, si è preoccupato di disporre che, se la casella di
posta elettronica risulta satura, l'ufficio effettui un secondo tentativo di
consegna decorsi almeno sette giorni dal primo invio. Se anche a seguito di
tale tentativo la casella di posta elettronica risulta satura oppure se
l'indirizzo di posta elettronica del destinatario non risulta valido o
attivo, la notificazione deve essere eseguita mediante deposito telematico
dell'atto nell'area riservata del sito internet della società InfoCamere
Scpa e pubblicazione, entro il secondo giorno successivo a quello di
deposito, del relativo avviso nello stesso sito, per la durata di quindici
giorni; l'ufficio inoltre dà notizia al destinatario dell'avvenuta
notificazione dell'atto a mezzo di lettera raccomandata, senza ulteriori
adempimenti a proprio carico.
Tale disciplina evidenzia la preoccupazione del Legislatore di evitare che
il vantaggio derivante dalla semplificazione che indubbiamente comporta
l’utilizzo delle notificazioni mediante modalità telematica non si traduca
in un irrimediabile vulnus di primari diritti dei cittadini, consentendo a
vantaggio del mittente una conoscenza meramente fittizia di atti anche
enormemente pregiudizievoli per il destinatario.
Pertanto, il punto di equilibrio tra le due esigenze può essere individuato
riconducendo le ipotesi di impossibilità di notificazione telematica per
fatto imputabile al destinatario (tra le quali la casella piena) alle
fattispecie di irreperibilità, per le quali il codice di rito, come noto,
non prevede affatto l’esonero del richiedente la notificazione da ogni
attività, ma richiede l’utilizzo di specifiche forme di notificazione.
Poiché l’utilizzo di una modalità telematica non può comportare un
arretramento in termini di garanzie per il destinatario, ancorché lo stesso
si sia reso volontariamente irreperibile, in analogia con le previsioni del
codice di rito deve ritenersi che, ove la notificazione telematica non sia
andata a buon fine presso l’indirizzo di PEC (del quale -nel caso specifico- l’imprenditore è obbligato a dotarsi, ex D.L. 29.11.2008, n. 185, ex
art. 16, convertito, con modificazioni, dalla L. 28.01.2009, n. 2, e
che è tenuto a mantenere attivo durante la vita dell'impresa), ai fini di
una conoscibilità effettiva dell'atto da notificare, in modo sostanzialmente
equipollente a quella conseguibile con i meccanismi ordinari (ufficiale
giudiziario e agente postale), sarà necessario eseguire la notificazione (a
mezzo sistemi tradizionali: postale o ufficiale giudiziario) presso la sede
legale dell'impresa: ossia, presso quell'indirizzo da indicare
obbligatoriamente nell'apposito registro ex L. 29.12.1993, n. 580
(Riordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e
agricoltura) e successive modifiche, la cui funzione è proprio quella di
assicurare un sistema di pubblicità legale volto a rendere conoscibili i
dati concernenti l'impresa.
Ovviamente, in caso di esito negativo di tale secondo meccanismo di
notifica, deve farsi ricorso alle modalità previste dal codice di rito
nell’ipotesi di irreperibilità.
A conferma, deve ricordarsi che la Corte Costituzionale (decisione del 16.06.2016 n. 146) ha ritenuto non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 15, comma 3, r.d. 16.03.1942, n. 267, come
sostituito dall'art. 17, comma 1, lett. a), d.l. 18.10.2012, n. 179, conv., con modif., in l. 17.12.2012, n. 221, censurato, per violazione
degli artt. 3 e 24 Cost., ove stabilisce che alla notifica del ricorso per
la dichiarazione di fallimento e del decreto di fissazione dell'udienza
debba procedere la cancelleria all'indirizzo di posta elettronica
certificata (PEC) del destinatario risultante dal registro delle imprese
ovvero dall'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica
certificata e che, solo nel caso in cui ciò risulti impossibile, o se la
notifica abbia avuto esito negativo, della stessa venga onerato il creditore
istante che dovrà procedervi a mezzo di ufficiale giudiziario, il quale, a
tal fine, dovrà accedere di persona presso la sede legale del debitore con
successivo deposito nella casa comunale, ove il destinatario non sia lì
reperito.
La Corte ha ritenuto che non sussista la prospettata violazione dell'art. 3
Cost. rispetto alla notifica ordinaria a persona giuridica, attesa la
diversità delle fattispecie poste a confronto, che ne giustifica, in termini
di ragionevolezza, la diversa disciplina delle notificazioni, in quanto, a
differenza della notifica “ordinaria” di cui all'art. 145 c.p.c.
(esclusivamente finalizzata all'esigenza di assicurare alla persona
giuridica l'effettivo esercizio del diritto di difesa in relazione agli atti
ad essa indirizzati ad alle connesse procedure), la norma censurata si
propone di coniugare quella stessa finalità di tutela del diritto di difesa
dell'imprenditore collettivo con le esigenze di celerità e speditezza cui
deve essere improntato il procedimento concorsuale e, a tal fine appunto,
prevede che il tribunale è esonerato dall'adempimento di ulteriori formalità
quando la situazione di irreperibilità deve imputarsi all'imprenditore
medesimo. La Corte ha anche escluso la violazione dell'art. 24 Cost., atteso
che il diritto di difesa, nella sua declinazione di conoscibilità, da parte
del debitore, dell'attivazione del procedimento fallimentare a suo carico, è
adeguatamente garantito dalla norma denunciata, proprio in ragione del
predisposto duplice meccanismo di ricerca della società e, in caso di esito
negativo di tale duplice meccanismo di notifica, il deposito dell'atto
introduttivo della procedura fallimentare presso la casa comunale
ragionevolmente si pone come conseguenza immediata e diretta della
violazione, da parte dell'imprenditore collettivo, dei descritti obblighi
impostigli dalla legge.
Deve quindi concludersi, a contrario, che all’infuori dell’ipotesi (ad es.
procedure concorsuali) in cui la legge riconosca prevalenti le esigenze di
celerità e speditezza (nel qual caso è comunque previsto che in caso di
insuccesso della notifica telematica deve essere eseguita la notifica a
mezzo di ufficiale giudiziario), riprende quota il principio di effettività
del diritto di difesa tutelato dall’articolo 24 della Costituzione, che
induce ad escludere qualsiasi meccanismo fittizio in relazione alla notifica
di atti pregiudizievoli.
Diversamente interpretando il complesso di norme che hanno introdotto nel
nostro ordinamento le modalità di notifica telematica, ne deriverebbe una
inammissibile violazione (a seconda della scelta operata dal notificante)
del principio di eguaglianza tra tale modalità (viziata da un vulnus in
termini di garanzie per il diritto alla difesa) e le ordinarie notificazioni
previste dal codice di rito a mezzo ufficiale giudiziario ovvero a mezzo
posta (che impongono un insieme di attività finalizzate a rendere
conoscibile in capo al destinatario l’esistenza di una notificazione);
opzione che va esclusa dovendo l’interprete orientarsi nel senso di una
interpretazione costituzionalmente orientata.
In conclusione, il ricorso principale dev’essere dichiarato improcedibile
stante la consumazione dei termini assegnati con l’ordine di integrazione
del contraddittorio senza che il ricorrente abbia provveduto alla
notificazione nei confronti di uno dei cd. controinteressati successivi (TAR
Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 27.02.2018 n. 478 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
pec (in assenza di “diversa
modalità di comunicazione telematica”) è mezzo non solo idoneo, ma ormai
esclusivo per le comunicazioni tra pubblica amministrazione e imprese,
societarie e, oggi, anche individuali, giusta l’art. 5, co. 1, d.l. 18.10.2012, n. 179 (conv. con modif. dalla l. 17.12.2012, n. 221).
È altresì opportuno ricordare che il co. 3 di detto art. 5 ha istituito
l’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata, c.d.
INI-PEC, inserendo nel Cad l’art. 6-bis, e che il co. 2 di quest’ultimo
articolo è stato da ultimo modificato dall’art. 7 d.lgs. 26.08.2016, n.
179, nel senso che gli indirizzi pec riportati nell’INI-PEC “costituiscono
mezzo esclusivo di comunicazione e notifica con i soggetti di cui
all’articolo 2, comma 2” (tra cui le pubbliche amministrazioni ex art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001).
Ciò in vista del perseguimento di scopi di semplificazione ed economicità
delle comunicazioni tra pubblica amministrazione e imprese.
Dall’illustrata configurazione delle modalità di interlocuzione
formale tra p.a. e imprese e, in particolare, dall’individuazione del canale
attraverso cui le inerenti comunicazioni devono ormai avere luogo, discende
che sull’impresa titolare della casella di posta elettronica certificata
grava un onere di mantenerla in condizioni di efficienza, attraverso
l’adozione di ogni accorgimento idoneo a garantirne l’ordinaria operatività
(a es. spostamento o eliminazione dei messaggi al fine di impedire
l’esaurimento della capacità di ricezione; regolare adempimento delle
eventuali obbligazioni assunte nei confronti del gestore del servizio;
ecc.).
Nella disciplina del processo telematico –avente carattere di specialità
rispetto al quadro generale delineato dal Cad (v. art. 2, co. 6, ult. per.,
Cad, introdotto dal d.lgs. n. 179/2016 cit., secondo cui le disposizioni del
Cad “si applicano altresì al processo civile, penale, amministrativo,
contabile e tributario, in quanto compatibili e salvo che non sia
diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo telematico”)– gli effetti della negligenza del destinatario nella tenuta della casella
di posta sono desumibili dall’art. 16, co. 8, d.l. n. 179/2012 cit., che
prevede l’applicazione degli artt. 136, 3° co., e 137 ss. c.p.c., in materia
di notificazioni, quando non è possibile procedere alla comunicazione di
cancelleria a mezzo pec “per causa non imputabile al destinatario” (ciò con
riferimento al processo civile nonché, in forza dell’art. 16, co. 17-bis,
d.l. cit., al processo amministrativo telematico; v. anche art. 15, 3° co.,
r.d. 16.03.1942, n. 267, come sostituito dall’art. 17 d.l. cit.).
Sicché, se non ricorre una “causa non imputabile al destinatario”, opera la
presunzione di ricezione della pec.
Questa conclusione, che costituisce la trasposizione al settore in esame
della presunzione di conoscenza disciplinata in via generale dall’art. 1335
cod. civ. (l’indirizzo pec pare infatti rientrare nella più ampia nozione di
“indirizzo del destinatario” accolta dalla norma codicistica; v. anche art.
3-bis Cad), sembra applicabile anche all’ipotesi per cui è controversia, in
cui, come si è detto, non rileva più la volontà dell’impresa in ordine
all’utilizzo della pec (ex art. 16, co. 9, d.l. n. 185/2008) ed è ormai
precluso all’amministrazione, per le sue comunicazioni formali, il ricorso
ai tradizionali sistemi di inoltro della corrispondenza.
Ciò implica il correlato dovere dell’impresa di vigilare sull’efficienza
della casella “ufficiale” di posta elettronica (vale a dire quella inserita
nel registro delle imprese e nell’INI-PEC), per tutti gli aspetti rientranti
nella propria sfera di controllo.
Si può dunque ritenere che anche per questo tipo di comunicazioni operi la
menzionata presunzione di ricezione, superabile solo se il destinatario
deduca, dandone prova, che la mancata consegna del messaggio sia dipesa da
causa a lui oggettivamente non imputabile.
---------------
2.1. Con il primo mezzo egli lamenta l’omissione della
comunicazione di avvio del procedimento.
L’amministrazione deduce di avere effettuato regolarmente l’adempimento
attraverso l’invio della comunicazione (risalente al 09.07.2014) a mezzo pec,
all’indirizzo risultante dalla visura camerale (all. 6 amm.: “...@pec.it"),
invio che però ha avuto esito negativo (v. all. 7 amm.: “user unknomn” “il
messaggio è stato rifiutato dal sistema”).
L’esame della doglianza richiede una breve illustrazione della disciplina
d’interesse.
2.1.1. A tenore dell’art. 16, commi 6 e 9, d.l. 29.11.2008, n. 185 (conv.
con modif. dalla l. 28.01.2009, n. 2):
- “Le imprese costituite in forma societaria sono tenute a indicare il
proprio indirizzo di posta elettronica certificata nella domanda di
iscrizione al registro delle imprese o analogo indirizzo di posta
elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell’invio e
della ricezione delle comunicazioni e l’integrità del contenuto delle
stesse, garantendo l’interoperabilità con analoghi sistemi internazionali.
Entro tre anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto tutte le
imprese, già costituite in forma societaria alla medesima data di entrata in
vigore, comunicano al registro delle imprese l’indirizzo di posta
elettronica certificata. […]” (co. 6);
- “[…] le comunicazioni tra i soggetti di cui ai commi 6, 7 e 8 del presente
articolo, che abbiano provveduto agli adempimenti ivi previsti, possono
essere inviate attraverso la posta elettronica certificata o analogo
indirizzo di posta elettronica di cui al comma 6, senza che il destinatario
debba dichiarare la propria disponibilità ad accettarne l’utilizzo” (co. 9;
il co. 8 si riferisce alle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co.
2, d.lgs. n. 165/2001).
Queste disposizioni, nella parte in cui introducono il duplice obbligo della
società iscritta nel registro delle imprese di indicare l’indirizzo pec (o
“analogo indirizzo di posta elettronica” avente le caratteristiche di cui al co. 6; per comodità espositiva si continuerà a fare riferimento alla pec) e
di consentirne l’utilizzo indipendentemente da una corrispondente
manifestazione di volontà dell’interessata, hanno portata derogatoria della
regola generale secondo cui l’utilizzo della pec da parte dei soggetti
privati è facoltativo (v. il d.P.R. 11.02.2005, n. 68, regolamento per
l’utilizzo della posta elettronica certificata, che all’art. 4, co. 5,
demanda alle “regole tecniche” la definizione delle “modalità attraverso le
quali il privato comunica la disponibilità all’utilizzo della posta
elettronica certificata […] o l’eventuale cessazione della disponibilità
[…]”; v. anche il d.m. 02.11.2005, recante per l’appunto le “regole
tecniche per la formazione, la trasmissione e la validazione, anche
temporale, della posta elettronica certificata”).
Tale disciplina è stata significativamente innovata nel 2010, nel senso del
superamento della facoltatività dell’utilizzo della pec da parte della
pubblica amministrazione (caratteristica desumibile dal tenore testuale
dell’art. 16, co. 9, cit., secondo cui “le comunicazioni […] possono essere
inviate”).
L’art. 4 d.lgs. 30.12.2010, n. 235, ha infatti inserito nel d.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale, c.d. Cad), l’art.
5-bis, “Comunicazioni tra imprese e amministrazioni pubbliche”, di cui giova
riportare il comma 1: “La presentazione di istanze, dichiarazioni, dati e lo
scambio di informazioni e documenti, anche a fini statistici, tra le imprese
e le amministrazioni pubbliche avviene esclusivamente utilizzando le
tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Con le medesime modalità
le amministrazioni pubbliche adottano e comunicano atti e provvedimenti
amministrativi nei confronti delle imprese” (enf. agg.).
Il d.P.C.M. 22.07.2011, “Comunicazioni con strumenti informatici tra
imprese e amministrazioni pubbliche” (adottato in attuazione dell’art.
5-bis, co. 2, Cad), all’art. 3 stabilisce che a decorrere dal 01.07.2013:
i) “le pubbliche amministrazioni non possono accettare o effettuare in
forma cartacea le comunicazioni” ex art. 5-bis, co. 1, cit. (co. 1);
ii) “in
tutti i casi in cui non è prevista una diversa modalità di comunicazione
telematica, le comunicazioni avvengono mediante l’utilizzo della posta
elettronica certificata” ai sensi degli artt. 48 e 65, co. 1, lett. c-bis), Cad (co. 2).
L’art. 48 appena menzionato reca la disciplina di principio sulla “posta
elettronica certificata”, chiarendone ambito applicativo ed efficacia.
Per quanto oggi rileva (e con riferimento alla sola pec), il co. 1 prevede
che “La trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una
ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta
elettronica certificata” ai sensi del d.P.R. n. 68/2005 cit. e il co. 2 che
“La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai
sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla
notificazione per mezzo della posta” (con la finale puntualizzazione che “La
data e l’ora di trasmissione e di ricezione di un documento informatico
trasmesso ai sensi del comma 1 sono opponibili ai terzi se conformi alle
disposizioni” di cui al d.P.R. n. 68/2005 e alle relative regole tecniche;
co. 3).
Giova infine richiamare l’art. 45 Cad, sul “Valore giuridico della
trasmissione”, secondo cui “Il documento informatico trasmesso per via
telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e
si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all’indirizzo
elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del
destinatario messa a disposizione dal gestore” (co. 2).
Da queste disposizioni si evince dunque che la pec (in assenza di “diversa
modalità di comunicazione telematica”) è mezzo non solo idoneo, ma ormai
esclusivo per le comunicazioni tra pubblica amministrazione e imprese,
societarie e, oggi, anche individuali, giusta l’art. 5, co. 1, d.l. 18.10.2012, n. 179 (conv. con modif. dalla l. 17.12.2012, n. 221).
È altresì opportuno ricordare che il co. 3 di detto art. 5 ha istituito
l’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata, c.d.
INI-PEC, inserendo nel Cad l’art. 6-bis, e che il co. 2 di quest’ultimo
articolo è stato da ultimo modificato dall’art. 7 d.lgs. 26.08.2016, n.
179, nel senso che gli indirizzi pec riportati nell’INI-PEC “costituiscono
mezzo esclusivo di comunicazione e notifica con i soggetti di cui
all’articolo 2, comma 2” (tra cui le pubbliche amministrazioni ex art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001).
Ciò in vista del perseguimento di scopi di semplificazione ed economicità
delle comunicazioni tra pubblica amministrazione e imprese (v., da ultimo,
il parere Cons. Stato, comm. spec., n. 785/2016, reso nell’adunanza 17.03.2016 sullo schema del d.lgs. n. 179/2016, che fa riferimento al “nuovo corso”
del “processo di digitalizzazione e di utilizzo delle nuove tecnologie sia
da parte della PA sia da parte dei cittadini e delle imprese che
interagiscono con essa, nuovo corso che determinerà maggiore efficienza
dell’apparato pubblico, incremento del grado di soddisfazione dei cittadini
relativamente ai servizi resi dall’Amministrazione nonché risparmi in
termini di risorse pubbliche e private […]”).
2.2.2. Dall’illustrata configurazione delle modalità di interlocuzione
formale tra p.a. e imprese e, in particolare, dall’individuazione del canale
attraverso cui le inerenti comunicazioni devono ormai avere luogo, discende
che sull’impresa titolare della casella di posta elettronica certificata
grava un onere di mantenerla in condizioni di efficienza, attraverso
l’adozione di ogni accorgimento idoneo a garantirne l’ordinaria operatività
(a es. spostamento o eliminazione dei messaggi al fine di impedire
l’esaurimento della capacità di ricezione; regolare adempimento delle
eventuali obbligazioni assunte nei confronti del gestore del servizio;
ecc.).
Nella disciplina del processo telematico –avente carattere di specialità
rispetto al quadro generale delineato dal Cad (v. art. 2, co. 6, ult. per.,
Cad, introdotto dal d.lgs. n. 179/2016 cit., secondo cui le disposizioni del
Cad “si applicano altresì al processo civile, penale, amministrativo,
contabile e tributario, in quanto compatibili e salvo che non sia
diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo telematico”)– gli effetti della negligenza del destinatario nella tenuta della casella
di posta sono desumibili dall’art. 16, co. 8, d.l. n. 179/2012 cit., che
prevede l’applicazione degli artt. 136, 3° co., e 137 ss. c.p.c., in materia
di notificazioni, quando non è possibile procedere alla comunicazione di
cancelleria a mezzo pec “per causa non imputabile al destinatario” (ciò con
riferimento al processo civile nonché, in forza dell’art. 16, co. 17-bis,
d.l. cit., al processo amministrativo telematico; v. anche art. 15, 3° co.,
r.d. 16.03.1942, n. 267, come sostituito dall’art. 17 d.l. cit.).
Sicché, se non ricorre una “causa non imputabile al destinatario”, opera la
presunzione di ricezione della pec.
Questa conclusione, che costituisce la trasposizione al settore in esame
della presunzione di conoscenza disciplinata in via generale dall’art. 1335
cod. civ. (l’indirizzo pec pare infatti rientrare nella più ampia nozione di
“indirizzo del destinatario” accolta dalla norma codicistica; v. anche art.
3-bis Cad), sembra applicabile anche all’ipotesi per cui è controversia, in
cui, come si è detto, non rileva più la volontà dell’impresa in ordine
all’utilizzo della pec (ex art. 16, co. 9, d.l. n. 185/2008) ed è ormai
precluso all’amministrazione, per le sue comunicazioni formali, il ricorso
ai tradizionali sistemi di inoltro della corrispondenza.
Ciò implica il correlato dovere dell’impresa di vigilare sull’efficienza
della casella “ufficiale” di posta elettronica (vale a dire quella inserita
nel registro delle imprese e nell’INI-PEC), per tutti gli aspetti rientranti
nella propria sfera di controllo.
Si può dunque ritenere che anche per questo tipo di comunicazioni operi la
menzionata presunzione di ricezione, superabile solo se il destinatario
deduca, dandone prova, che la mancata consegna del messaggio sia dipesa da
causa a lui oggettivamente non imputabile (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter,
sentenza 21.11.2016 n. 11614 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La giurisprudenza amministrativa si è già pronunciata
sull’argomento affermando che “La notifica telematica si perfeziona con
l'accettazione del messaggio da parte del sistema di posta elettronica
certificata del destinatario”.
Più in dettaglio, in materia di comunicazione dell’aggiudicazione, si è
precisato che “La comunicazione dell'aggiudicazione, ai sensi dell'art. 79, d.lgs. n. 163 del 2006, che sia effettuata a mezzo di posta elettronica
certificata, si intende avvenuta nella data indicata nella ricevuta di
avvenuta consegna fornita al mittente dal gestore di posta elettronica
certificata utilizzato dal destinatario” e ciò sulla scorta del rilievo, più
sopra enucleato dall’art. 45, comma 2, del Codice, che “la disciplina
richiamata prevede espressamente che la ricevuta di avvenuta consegna
fornisce al mittente la prova che il suo messaggio di posta elettronica
certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato
dal destinatario e certifica il momento della consegna mediante un testo,
leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione”.
---------------
Del pari ininfluente è la circostanza che il destinatario abbia o meno
acceduto alla posta certificata ed abbia effettivamente letto il messaggio.
L’art. 45, comma 2 cit., scolpisce infatti un meccanismo di legale
conoscenza del tutto analogo a quello definito per la posta tradizionale
dall’art. 8, comma 4, della L. n. 890/1982, secondo il quale la notifica
mediante raccomandata postale si considera perfezionata decorsi dieci giorni
dall’invio al destinatario dell’atto notificando, mediante raccomandata con
avviso di ricevimento, dell’avviso di avvenuto deposito (c.d. C.A.D.)
all’ufficio postale della prima raccomandata inesitata per temporanea
assenza del destinatario.
Sul punto la richiamata sentenza ha condivisibilmente precisato infatti che
“Il momento in cui il destinatario legge il messaggio è del tutto
irrilevante ai fini della conoscenza legale del documento trasmesso;
conoscenza che si correla al fatto che il documento sia stato trasmesso
secondo le modalità tecniche previste per l'uso della PEC, attestata dalla
ricevuta di avvenuta consegna, atteso che la trasmissione così effettuata "è
valida agli effetti di legge".
---------------
Il legislatore ha concepito l’impiego della posta elettronica certificata
come un favor sia per il
privato che per la pubblica amministrazione, istituendo conseguentemente una facultas agendi il cui esercizio non è sottoposto a termini di decadenza o a
previe assunzioni di impegno al relativo esercizio, nel senso che sia la
pubblica amministrazione che il privato, quand’anche abbiano fino ad un
certo momento fatto uso di mezzi tradizionali di comunicazione, possono in
qualsiasi momento avvalersi dello strumento semplificato e snello della
comunicazione mediante posta elettronica certificata.
La
creazione dello strumento della posta certificata risponde ad istanze di
ammodernamento, snellimento e accelerazione delle comunicazioni tra privato
e pubblica amministrazione, permeate da una finalità agevolativa delle
trasmissioni del pensiero che muove sia nell’interesse dei cittadini che in
quello della pubblica amministrazione.
Così come, infatti, per i privati i documenti trasmessi ad una pubblica
amministrazione in formato digitale sono validi ed efficaci e soddisfano il
requisito della forma scritta e “la loro trasmissione non deve essere
seguita da quella del documento originale” (art. 45, comma 1, d.lgs. n.
82/2005), altrettanto deve ritenersi per i documenti inviati da una pubblica
amministrazione ad un privato, discendendone che l’avvenuta trasmissione di
un atto amministrativo per via digitale ed informatica esime la P.A.
dall’effettuare la trasmissione del documento in originale.
Corollario della ricostruita valenza forale della trasmissione documentale
effettuata mediante posta certificata è la sussistenza di un onere di tutti
i soggetti dell’ordinamento, sia pubblici che privati, i quali si avvalgano
e si dotino dello strumento della posta certificata, di vigilare
quotidianamente sulla loro casella di posta elettronica, onde verificare lo
stato delle comunicazioni ricevute e prendere effettivamente conoscenza dei
messaggi e dei relativi allegati ricevuti.
Ad un’istanza agevolativa, perseguita mediante l’istituzionalizzazione dei
sistemi di comunicazione elettronica certificata deve fare da contraltare un
canone di autoresponsabilizzazione che impone a chiunque si doti di un
indirizzo di p.e.c., di attivarsi a verificare e leggere la posta ricevuta,
in ossequio al broccardo cuius commoda eius et incommoda.
---------------
2.2. Deve ora il Collegio interrogarsi sul valore giuridico
agli effetti processuali delle trasmissioni di atti amministrativi
effettuate mediante l’impiego della posta certificata.
Osserva al riguardo che l’impiego di tale mezzo elettronico di comunicazione
è contemplato dal d.lgs. 07.03.2005, n. 82, recante il codice
dell’amministrazione digitale.
A norma del’art. 20 del Codice, dunque, “Il documento informatico da chiunque
formato, la memorizzazione su supporto informatico e la trasmissione con
strumenti telematici conformi alle regole tecniche di cui all'articolo 71
sono validi e rilevanti agli effetti di legge, ai sensi delle disposizioni
del presente codice”.
A sua volta l’art. 45, comma 2, del d.lgs. n. 82/2005, in vigore dal 20.01.2011 e quindi da una data precedente all’adozione e alla
trasmissione dell’impugnato decreto di revoca, stabilisce a chiare note che
“Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito
dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al
destinatario se reso disponibile all'indirizzo elettronico da questi
dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a
disposizione dal gestore”.
Orbene, nel caso all’esame del Collegio è documentata, come sopra
illustrato, l’avvenuta spedizione e la relativa consegna, concretata dalla
disponibilità del documento all’indirizzo elettronico della A.S., del
messaggio originale con allegato sia il decreto di revoca, che il file
contenente l’allegato “daticert.xml”, recante informazioni di dettaglio e di
servizio sulla trasmissione.
Il messaggio e l’allegato decreto sono stati dunque resi disponibili
all’indirizzo di posta elettronica della A.S. destinataria, messo a
disposizione dal gestore della posta certificata, conseguendone che a norma
dell’art. 45, comma 2, sopra riportato del codice dell’amministrazione
digitale, deve ritenersi perfezionata la consegna al destinatario del
decreto di revoca impugnato.
2.3. A nulla rileva la modalità con la quale il mittente sia venuto in
possesso dell’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario,
poiché a siffatta modalità il legislatore non annette alcun valore dirimente
e qualificante nel paradigma normativo che definisce il perfezionarsi della
conoscenza legale della comunicazione.
Non assume pertanto, contrariamente alla linea difensiva propugnata dal
ricorrente, circostanza escludente la delineata acquisita conoscenza legale
della comunicazione del provvedimento, il dato che è solo con l’art. 5,
comma 3, del d.l. 18.10.2012 n. 179, successivo dunque all’adozione del
decreto impugnato, che, mediante l’inserimento dell’art. 6-bis al d.lgs. n.
82/2005, è stato istituito l’Indice Nazionale degli indirizzi p.e.c. ai
quali la P.A. può direttamente attingere prescindendo dalla dichiarazione
del privato.
Ciò che infatti rileva nella parabola normativa che delinea il
perfezionamento della comunicazione, è l’invio in sé del documento
all’indirizzo di posta certificata del destinatario messa a disposizione dal
gestore, irrilevante essendo la modalità con la quale il mittente sia venuto
a conoscenza dell’indirizzo medesimo.
La giurisprudenza amministrativa si è già del resto pronunciata
sull’argomento, sia pur su casi settoriali e non nei termini generali qui
affrontati, affermando che “La notifica telematica si perfeziona con
l'accettazione del messaggio da parte del sistema di posta elettronica
certificata del destinatario.” (TAR Toscana, Sez. I, 09/05/2013 n. 745).
Più in dettaglio, in materia di comunicazione dell’aggiudicazione, si è
precisato che “La comunicazione dell'aggiudicazione, ai sensi dell'art. 79, d.lgs. n. 163 del 2006, che sia effettuata a mezzo di posta elettronica
certificata, si intende avvenuta nella data indicata nella ricevuta di
avvenuta consegna fornita al mittente dal gestore di posta elettronica
certificata utilizzato dal destinatario” e ciò sulla scorta del rilievo, più
sopra enucleato dall’art. 45, comma 2, del Codice, che “la disciplina
richiamata prevede espressamente che la ricevuta di avvenuta consegna
fornisce al mittente la prova che il suo messaggio di posta elettronica
certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato
dal destinatario e certifica il momento della consegna mediante un testo,
leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione” (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III, 03/12/2013, n. 2677).
Del pari ininfluente è la circostanza che il destinatario abbia o meno
acceduto alla posta certificata ed abbia effettivamente letto il messaggio e
il decreto ad esso allegato.
L’art. 45, comma 2 cit., scolpisce infatti un meccanismo di legale
conoscenza del tutto analogo a quello definito per la posta tradizionale
dall’art. 8, comma 4, della L. n. 890/1982, secondo il quale la notifica
mediante raccomandata postale si considera perfezionata decorsi dieci giorni
dall’invio al destinatario dell’atto notificando, mediante raccomandata con
avviso di ricevimento, dell’avviso di avvenuto deposito (c.d. C.A.D.)
all’ufficio postale della prima raccomandata inesitata per temporanea
assenza del destinatario.
Sul punto la richiamata sentenza ha condivisibilmente precisato infatti che
“Il momento in cui il destinatario legge il messaggio è del tutto
irrilevante ai fini della conoscenza legale del documento trasmesso;
conoscenza che si correla al fatto che il documento sia stato trasmesso
secondo le modalità tecniche previste per l'uso della PEC, attestata dalla
ricevuta di avvenuta consegna, atteso che la trasmissione così effettuata "è
valida agli effetti di legge" (TAR Lombardia Milano, Sez. II, n.
2677/2013 cit.).
2.4. Né, per le medesime ragioni, può assumere rilievo la circostanza che
le parti abbiano utilizzato nel procedimento amministrativo culminato con
l’adozione dell’impugnato provvedimento di revoca, gli strumenti
tradizionali di comunicazione.
Si oppone, infatti, a siffatta pretesa natura escludente sostenuta dalla
difesa della ricorrente, la considerazione che il legislatore ha concepito
l’impiego della posta elettronica certificata come un favor sia per il
privato che per la pubblica amministrazione, istituendo conseguentemente una
facultas agendi il cui esercizio non è sottoposto a termini di decadenza o a
previe assunzioni di impegno al relativo esercizio, nel senso che sia la
pubblica amministrazione che il privato, quand’anche abbiano fino ad un
certo momento fatto uso di mezzi tradizionali di comunicazione, possono in
qualsiasi momento avvalersi dello strumento semplificato e snello della
comunicazione mediante posta elettronica certificata.
Rimarca in chiave di interpretazione storico-evolutiva il Collegio che la
creazione dello strumento della posta certificata risponde ad istanze di
ammodernamento, snellimento e accelerazione delle comunicazioni tra privato
e pubblica amministrazione, permeate da una finalità agevolativa delle
trasmissioni del pensiero che muove sia nell’interesse dei cittadini che in
quello della pubblica amministrazione.
Così come, infatti, per i privati i documenti trasmessi ad una pubblica
amministrazione in formato digitale sono validi ed efficaci e soddisfano il
requisito della forma scritta e “la loro trasmissione non deve essere
seguita da quella del documento originale” (art. 45, comma 1, d.lgs. n.
82/2005), altrettanto deve ritenersi per i documenti inviati da una pubblica
amministrazione ad un privato, discendendone che l’avvenuta trasmissione di
un atto amministrativo per via digitale ed informatica esime la P.A.
dall’effettuare la trasmissione del documento in originale.
2.5. Osterebbe, invero, il principio di uguaglianza tra cittadino e
amministrazione radicato nell’art. 3 Cost., alla tesi che vorrebbe vigente
un differenziato regime formale tra gli atti trasmessi da privati e quelli
formati e/o trasmessi dalla P.A., regime, deteriore per quest’ultima,
predicante l’esonero a favore del solo privato ex art. 45, comma 1, d.lgs.
cit. appena riportato, dell’onere della trasmissione del documento originale
già inviato in formato elettronico.
Corollario della ricostruita valenza forale della trasmissione documentale
effettuata mediante posta certificata è la sussistenza di un onere di tutti
i soggetti dell’ordinamento, sia pubblici che privati, i quali si avvalgano
e si dotino dello strumento della posta certificata, di vigilare
quotidianamente sulla loro casella di posta elettronica, onde verificare lo
stato delle comunicazioni ricevute e prendere effettivamente conoscenza dei
messaggi e dei relativi allegati ricevuti.
Ad un’istanza agevolativa, perseguita mediante l’istituzionalizzazione dei
sistemi di comunicazione elettronica certificata deve fare da contraltare un
canone di autoresponsabilizzazione che impone a chiunque si doti di un
indirizzo di p.e.c., di attivarsi a verificare e leggere la posta ricevuta,
in ossequio al broccardo cuius commoda eius et incommoda.
2.6. Del resto l’esattezza e il realismo della linea ermeneutica che la
Sezione ritiene di dover enunciare con la presente sentenza, rinviene una
plausibile cartina di tornasole nella considerazione che è la ricorrente
stessa ad affermare in ricorso di non aver mai ricevuto notifica o
comunicazione tradizionale del decreto gravato, ragion per cui deve
inferirsi che l’unica modalità attraverso la quale essa ha acquisito la
conoscenza del provvedimento è data dalla avvenuta sua comunicazione
mediante p.e.c.
E la conoscenza legale del documento sottesa all’utilizzo della posta
certificata è da individuare nell’avvenuta consegna del messaggio da parte
del gestore utilizzato dalla destinataria odierna ricorrente, situandosi
nell’area dell’indifferente giuridico l’eventuale diverso e postumo momento
in cui la destinataria abbia aperto l’e-mail certificata e letto il relativo
contenuto, essendo suo preciso onere, lo si ribadisce, controllare, aprire e
leggere tutti i messaggi informatici ricevuti.
Non può, altrimenti detto, la ricorrente, procrastinare a suo uso e consumo
il dies perfezionativo della conoscenza onde posporre il termine
decadenziale per ricorrere, non avendo oltretutto a tal fine, allegato né
documentato cause di forza maggiore che le avrebbero in ipotesi impedito di
prendere effettiva conoscenza del messaggio elettronico recante in allegato
il decreto gravato in una data successiva alla sua messa a disposizione da
parte del gestore di posta certificata (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.03.2014 n. 1875 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Va
ribadita l’assenza
di qualsivoglia presunzione di conoscenza del messaggio di posta elettronica
derivante dalla sua semplice trasmissione all'indirizzo PEC indicato dal
destinatario.
Al contrario, la legge si premura di sancire
espressamente che è solo mediante la "ricevuta di avvenuta consegna" che il
mittente acquisisce la prova che il suo messaggio di posta elettronica
certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo di posta elettronico
del destinatario.
Quindi, una presunzione di conoscenza può eventualmente
ricorrere solo una volta intervenuta la ricevuta di avvenuta consegna.
---------------
6.1 L'uso della posta elettronica certificata nell'ambito dei rapporti tra
pubblica amministrazione e privato è disciplinato dal D.P.R. 11.02.2005 n.
68. L’esistenza di una puntuale e specifica fonte normativa esclude la
possibilità di richiami analogici a discipline collaterali, non direttamente
pertinenti, quale quella invocata dalla parte resistente con riferimento
all’art. 136 del D.lgs. 104/2010.
6.2 Dunque, l’art. 3 del D.P.R. 11.02.2005 n. 68 statuisce che «il documento
informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se
inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso
disponibile all'indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di
posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore».
Ai sensi del successivo art. 4, "la posta elettronica certificata consente
l'invio di messaggi la cui trasmissione è valida agli effetti di legge. La
validità della trasmissione e ricezione del messaggio di posta elettronica
certificata è attestata rispettivamente dalla ricevuta di accettazione e
dalla ricevuta di avvenuta consegna, di cui all'art. 6”.
Quest’ultimo articolo, infine, chiarisce che "il gestore di posta
elettronica certificata utilizzata dal mittente fornisce al mittente stesso
la ricevuta di accettazione nella quale sono contenuti i dati di
certificazione che costituiscono prova dell'avvenuta spedizione di un
messaggio di posta elettronica certificata. Il gestore di posta elettronica
certificata utilizzato dal destinatario fornisce al mittente, all'indirizzo
elettronico del mittente, la ricevuta di avvenuta consegna. La ricevuta di
avvenuta consegna fornisce al mittente prova che il suo messaggio di posta
elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo di posta
elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento della
consegna tramite un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di
certificazione".
6.3 Dal quadro normativo sin qui richiamato è immediato desumere l’assenza
di qualsivoglia presunzione di conoscenza del messaggio di posta elettronica
derivante dalla sua semplice trasmissione all'indirizzo PEC indicato dal
destinatario. Al contrario, la legge in esame si premura di sancire
espressamente che è solo mediante la ricevuta di avvenuta consegna che il
mittente acquisisce la prova che il suo messaggio di posta elettronica
certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo di posta elettronico
del destinatario. Quindi, una presunzione di conoscenza può eventualmente
ricorrere solo una volta intervenuta la ricevuta di avvenuta consegna.
6.4 Nel caso di specie detta ricevuta non è mai stata vantata o esibita a
riprova dell’avvenuta consegna del messaggio.
Si deve quindi concludere che l’amministrazione non ha regolarmente
ottemperato alle modalità di inoltro e di ricezione dei messaggi telematici,
secondo i criteri che essa stessa si era imposta, nell’avviso pubblico di
avvio della procedura negoziata, a massima garanzia del buon fine delle
comunicazioni (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 06.02.2014 n. 222 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aggiornamento al
18.05.2022 |
|
Abusi edilizi (ed altro):
accedere coattivamente nel
domicilio per svolgervi un'attività di
accertamento di illeciti amministrativi
presuppone la necessità del preventivo nulla-osta dell'autorità
giudiziaria. |
EDILIZIA PRIVATA:
Poteri di vigilanza urbanistico-edilizia – Facoltà di accedere coattivamente
nel domicilio al fine di accertare illeciti amministrativi – Insussistenza –
Art. 14 Cost. – Art. 27 d.P.R. n. 380/2001 – Art. 13, c. 4, L. n. 689/1981.
Il comune, a fronte degli esposti presentati dai ricorrenti, ha
chiesto e sollecitato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale l’autorizzazione ad effettuare l’accesso presso l’immobile del controinteressato, in quanto luogo di
privata dimora, per potervi svolgere i
necessari accertamenti e verificarne la regolarità urbanistico-edilizia.
Circa la necessità del nulla osta dell'autorità giudiziaria, come chiarito
in una recente sentenza di questa stessa sezione, “basti rammentare che
l'art. 14 Cost. sancisce l'inviolabilità del domicilio, presso il quale
l'esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie
prescritte dalla legge per la tutela della libertà personale, ovvero alle
previsioni di leggi speciali nell'ipotesi di ispezioni da eseguirsi per
motivi di sanità e incolumità pubblica.
L'art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri di vigilanza
urbanistico-edilizia dell'amministrazione, non contiene alcuna previsione
dalla quale possa ricavarsi che detti poteri includano la facoltà di
accedere coattivamente nel domicilio per svolgervi un'attività di
accertamento di illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà -che la
garanzia costituzionale del domicilio non consente di desumere in via
interpretativa quale potere implicito- non è prevista neppure ai fini
dell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria al di fuori
dell'ipotesi, che qui certo non ricorre, degli accertamenti urgenti
disciplinati dall'art. 354 c.p.p..
L'assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo al domicilio,
ma) a luoghi di proprietà privata per l'accertamento di eventuali abusi
edilizi è confermata dalla legge n. 689/1981, recante la disciplina
fondamentale in materia di sanzioni amministrative, che, all'art. 13, co. 4,
esige l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria per l'accesso ispettivo "ai
luoghi diversi dalla privata dimora", volendo significare, a
contrario, che nei luoghi di privata dimora il potere di ispezione
finalizzato all'accertamento di illeciti amministrativi non può essere
esercitato affatto”.
---------------
1. Il sig. Ve.Ra. è proprietario di terreni e fabbricati posti in Poggibonsi,
località ..., censiti al foglio di mappa n. 66, particelle nn. 93, 116, 135,
256, 257, 258, 259, 260, 261.
A confine con detti beni si trova l’immobile di proprietà del fratello, sig.
Ve.Ni., censito con la particella n. 119, del medesimo foglio di mappa n.
66.
Con note del 09.04.2021 e del 16.08.2021, il sig. Ve.Ra., per il tramite del
tecnico incaricato, ha denunciato ex art. 27 d.P.R. 380/2001 l’abusiva
trasformazione di locali di sgombero, termo e lavanderia posti al piano
terreno del confinante edificio di proprietà del controinteressato in locali
di abitazione principale (cucina, camera e bagno), lamentando che la stessa
provocherebbe un incremento del carico urbanistico sull’area e, in
particolare, un maggior transito sulla strada che consente l’accesso ai due
edifici, in comproprietà con il fratello.
2. Con l’odierno gravame i ricorrenti lamentano che il Comune sarebbe
rimasto inerte a fronte di tali denunce, nonostante lo stesso possieda già
una serie di elementi dai quali poter desumere la fondatezza delle
segnalazioni formulate, violando così l’obbligo di attivare i poteri di
vigilanza attribuiti dall’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001 e di concludere il
relativo procedimento con un provvedimento espresso entro il termine
generale di 30 giorni.
Essi chiedono che, accertata l’illegittimità del silenzio serbato
dall’amministrazione, la stessa sia condannata ad attivare il procedimento
di vigilanza e a concluderlo entro un termine stabilito dal giudice, con
condanna al pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo
nell’adempimento e nomina di un commissario ad acta in caso di
perdurante inerzia.
3. Il Comune di Poggibonsi si è costituito, eccependo preliminarmente
l’inammissibilità del ricorso per mancanza di un concreto pregiudizio a
danno dei ricorrenti, riconducibile ai presunti abusi realizzati sul fondo
del sig. Ve.Ni. e chiedendo la reiezione del gravame nel merito, posto che a
carico del Comune non sarebbe comunque configurabile un’inerzia colpevole.
L’amministrazione, invero, si sarebbe diligentemente attivata per ottenere
dalla Procura della Repubblica l’autorizzazione ad accedere presso la dimora
del controinteressato per ispezionare i locali oggetto delle suddette
segnalazioni, senza tuttavia ricevere alcun riscontro; né, d’altra parte,
sarebbe in condizione di adottare un provvedimento senza il preventivo
sopralluogo e l’accertamento in ordine al reale stato dei beni.
4. Il ricorrente ha altresì formulato istanza istruttoria chiedendo al
Tribunale di ordinare all’Agenzia delle Entrate di Siena di trasmettere la
planimetria dell’abitazione del controinteressato censita al Catasto
Fabbricati del Comune di Poggibonsi al foglio di mappa n. 66 con la
particella n. 119 e subalterno n. 3, quale prova della perdurante esistenza
dell’abusiva trasformazione di locali deposito in abitazione; nella pendenza
del giudizio tale documento è stato fornito spontaneamente ai ricorrenti
dalla stessa Agenzia delle Entrate.
...
7. Fermo quanto appena rilevato in ordine all’inammissibilità del gravame,
lo stesso si rivela comunque palesemente infondato, posto che nella
fattispecie non è configurabile l’inerzia colpevole del Comune.
Quest’ultimo, infatti, a fronte degli esposti presentati dai ricorrenti, ha
chiesto e sollecitato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di
Siena l’autorizzazione ad effettuare l’accesso presso l’immobile del
controinteressato, in quanto luogo di privata dimora, per potervi svolgere i
necessari accertamenti e verificarne la regolarità urbanistico-edilizia (cfr.
docc. 6 e 7 del Comune).
Circa la necessità del nulla osta dell'autorità giudiziaria, come chiarito
in una recente sentenza di questa stessa sezione, “basti rammentare che
l'art. 14 Cost. sancisce l'inviolabilità del domicilio, presso il quale
l'esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie
prescritte dalla legge per la tutela della libertà personale, ovvero alle
previsioni di leggi speciali nell'ipotesi di ispezioni da eseguirsi per
motivi di sanità e incolumità pubblica.
L'art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri di vigilanza
urbanistico-edilizia dell'amministrazione, non contiene alcuna previsione
dalla quale possa ricavarsi che detti poteri includano la facoltà di
accedere coattivamente nel domicilio per svolgervi un'attività di
accertamento di illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà -che la
garanzia costituzionale del domicilio non consente di desumere in via
interpretativa quale potere implicito- non è prevista neppure ai fini
dell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria al di fuori
dell'ipotesi, che qui certo non ricorre, degli accertamenti urgenti
disciplinati dall'art. 354 c.p.p..
L'assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo al domicilio,
ma) a luoghi di proprietà privata per l'accertamento di eventuali abusi
edilizi è confermata dalla legge n. 689/1981, recante la disciplina
fondamentale in materia di sanzioni amministrative, che, all'art. 13, co. 4,
esige l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria per l'accesso ispettivo "ai
luoghi diversi dalla privata dimora", volendo significare, a contrario, che
nei luoghi di privata dimora il potere di ispezione finalizzato
all'accertamento di illeciti amministrativi non può essere esercitato
affatto (per tutte, cfr. Cass. civ., sez. I, 24.03.2005, n. 6361)” (cfr.
TAR Toscana, sez. III, 14.05.2021, n. 717).
Né, d’altra parte, il Comune avrebbe potuto provvedere sulla base della
documentazione in suo possesso, che non fornisce la prova dell’esistenza,
della natura e della effettiva consistenza delle eventuali violazioni
urbanistiche e edilizie presenti nell’immobile.
8. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile (TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza 11.02.2022 n. 167 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per verificare eventuali abusi edilizi,
il comune non ha la possibilità di
eseguire coattivamente gli accessi agli edifici interessati in assenza di
autorizzazione dell’A.G..
Circa la necessità del nulla osta
dell’autorità giudiziaria, basti rammentare che l’art. 14
Cost. sancisce l’inviolabilità del domicilio, presso il
quale l’esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto
delle garanzie prescritte dalla legge per la tutela della
libertà personale, ovvero alle previsioni di leggi speciali
nell’ipotesi di ispezioni da eseguirsi per motivi di sanità
e incolumità pubblica.
L’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri
di vigilanza urbanistico-edilizia dell’amministrazione, non
contiene alcuna previsione dalla quale possa ricavarsi che
detti poteri includano la facoltà di accedere coattivamente
nel domicilio per svolgervi un’attività di accertamento di
illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà –che la
garanzia costituzionale del domicilio non consente di
desumere in via interpretativa quale potere implicito– non è
prevista neppure ai fini dell’esercizio delle funzioni di
polizia giudiziaria al di fuori dell’ipotesi, che qui certo
non ricorre, degli accertamenti urgenti disciplinati
dall’art. 354 c.p.p..
L’assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo
al domicilio, ma) a luoghi di proprietà privata per
l’accertamento di eventuali abusi edilizi è confermata dalla
legge n. 689/1981, recante la disciplina fondamentale in
materia di sanzioni amministrative, che, all’art. 13, co. 4,
esige l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per
l’accesso ispettivo “ai luoghi diversi dalla privata
dimora”, volendo significare, a contrario, che nei luoghi di
privata dimora il potere di ispezione finalizzato
all’accertamento di illeciti amministrativi non può essere
esercitato affatto.
---------------
1. La signora Su.Ve. agisce in veste di procuratrice
generale dei propri genitori, signori Ra.Ve. e Pi.Mi., i
quali sono proprietari e condomini di alcuni fabbricati
ubicati in Poggibonsi, alla via ....
Ella espone di aver presentato al Comune di Poggibonsi,
nella medesima veste, un’istanza di accesso contenente
altresì la denuncia di una cospicua serie di abusi edilizi
che sarebbero stati commessi in danno dei predetti
fabbricati da altri condomini, ovvero dai proprietari di
immobili confinanti.
L’istanza-denuncia è stata protocollata dal Comune il
19.10.2020. Non avendo ottenuto riscontro, il 10.12.2020 la
signora Ve. si è rivolta al segretario comunale per
sollecitare l’attivazione dei poteri sostitutivi
disciplinati dall’art. 2, co. 9-bis e 9-ter, della legge n.
241/1990.
Con la nota del 21.12.2020, in epigrafe, il segretario
comunale ha tuttavia rifiutato di intervenire, sul
presupposto che la mancata definizione dei procedimenti
sanzionatori degli abusi in questione, avviati sin da epoca
precedente alla presentazione dell’istanza-denuncia, sarebbe
dipesa dalla necessità di fare accesso ai luoghi interessati
dalle opere asseritamente illegittime, attività necessitante
dell’assenso dell’autorità giudiziaria, chiesto dal Comune e
non ancora pervenuto.
Tanto premesso in fatto, la ricorrente affida a un unico
motivo in diritto le proprie doglianze avverso la condotta
serbata nell’occasione dal Comune di Poggibonsi e dai suoi
funzionari, e conclude per l’accertamento dell’illegittimità
della ricordata nota del 21.12.2020, nonché dell’obbligo del
Comune di concludere con provvedimento espresso il
procedimento avviato a seguito dell’istanza-denuncia del
18.10.2020.
La signora Ve. chiede altresì accertarsi se effettivamente
sussistesse la necessità per il Comune di rivolgersi
all’autorità giudiziaria per accedere ai luoghi oggetto
dell’istruttoria e, comunque, condannarsi l’amministrazione
procedente a concludere il procedimento di vigilanza
edilizia entro un preciso termine.
...
2.2. Residua, nondimeno, l’interesse della signora Ve. a
sentire accertata, se non altro ai fini della pronuncia
sulle spese processuali, l’ammissibilità e la fondatezza
della domanda.
Quanto al primo aspetto, le conclusioni spiegate in ricorso
ai punti da 1 a 5 afferiscono tutte all’accertamento della
presunta, ingiustificata, violazione del termine massimo di
durata del procedimento e non eccedono, pertanto, i confini
dell’azione contro il silenzio.
Nondimeno, il ricorso non può essere favorevolmente delibato
nel merito.
L’art. 3 del regolamento comunale sul procedimento
amministrativo del 1997 stabilisce in sessanta giorni il
termine massimo di durata del procedimento. La chiara
espressione utilizzata dalla norma (secondo la quale il
termine stesso, ove non risultante dalla tabella allegata al
regolamento, “deve intendersi non superiore a sessanta
giorni”) non lascia spazio ad alcuna incertezza.
Ne consegue che la sollecitazione ad attivare i poteri
sostitutivi, rivolta dalla ricorrente al segretario comunale
prima che il termine suddetto fosse trascorso, è da
considerarsi prematura.
In disparte gli aspetti formali, nessun ritardo può peraltro
essere imputato al Comune di Poggibonsi nella complessiva
gestione del procedimento.
Come risulta dalla documentazione di causa, è del 17.11.2020
la PEC trasmessa dalla Polizia Municipale di Poggibonsi alla
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Siena per
chiedere l’autorizzazione ad effettuare l’accesso agli
edifici interessati dagli abusi edilizi segnalati dalla
ricorrente sin dal luglio del 2020 e, di nuovo, con
l’istanza-denuncia del 19.10.2020 in esame.
La richiesta dell’autorizzazione si era resa necessaria a
fronte dell’opposizione manifestata dai proprietari degli
edifici da ispezionare onde verificarne la regolarità
urbanistico-edilizia, trattandosi di luoghi di privata
dimora.
Il nulla osta all’accesso è stato infine rilasciato dalla
Procura della Repubblica il 07.03.2021, a seguito di
ulteriore istanza del Comune, che, una volta eseguiti gli
accessi e completate le proprie verifiche, ha celermente
definito i procedimenti sanzionatori con le ordinanze del
09.04.2021, di cui si è detto.
Circa la necessità del nulla osta dell’autorità giudiziaria,
basti rammentare che l’art. 14 Cost. sancisce
l’inviolabilità del domicilio, presso il quale l’esecuzione
di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie
prescritte dalla legge per la tutela della libertà
personale, ovvero alle previsioni di leggi speciali
nell’ipotesi di ispezioni da eseguirsi per motivi di sanità
e incolumità pubblica.
L’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri
di vigilanza urbanistico-edilizia dell’amministrazione, non
contiene alcuna previsione dalla quale possa ricavarsi che
detti poteri includano la facoltà di accedere coattivamente
nel domicilio per svolgervi un’attività di accertamento di
illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà –che la
garanzia costituzionale del domicilio non consente di
desumere in via interpretativa quale potere implicito– non è
prevista neppure ai fini dell’esercizio delle funzioni di
polizia giudiziaria al di fuori dell’ipotesi, che qui certo
non ricorre, degli accertamenti urgenti disciplinati
dall’art. 354 c.p.p..
L’assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo
al domicilio, ma) a luoghi di proprietà privata per
l’accertamento di eventuali abusi edilizi è confermata dalla
legge n. 689/1981, recante la disciplina fondamentale in
materia di sanzioni amministrative, che, all’art. 13, co. 4,
esige l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per
l’accesso ispettivo “ai luoghi diversi dalla privata
dimora”, volendo significare, a contrario, che nei
luoghi di privata dimora il potere di ispezione finalizzato
all’accertamento di illeciti amministrativi non può essere
esercitato affatto (per tutte, cfr. Cass. civ., sez. I,
24.03.2005, n. 6361).
Non importa poi stabilire se il nulla osta rilasciato dalla
Procura della Repubblica di Siena nel marzo 2021 integri
l’autorizzazione richiesta dalla legge (la questione
potrebbe, semmai, rilevare nei rapporti tra il Comune e i
proprietari degli immobili oggetto di ispezione, ovvero nel
procedimento penale a carico di costoro). Quel che conta è
che il Comune di Poggibonsi non aveva la possibilità di
eseguire coattivamente gli accessi in assenza di
autorizzazione dell’A.G. e che, una volta ottenuta
l’autorizzazione nelle forme descritte, l’accesso è stato
consentito dai proprietari interessati e il procedimento
sanzionatorio, inevitabilmente rimasto sospeso sino a quel
momento, è stato portato a conclusione (TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza 14.05.2021 n. 717 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Stante
il disposto di cui all’art.
13 della legge n. 689 del 1981, gli organi preposti all’accertamento di
illeciti amministrativi possono procedere a ispezioni solo in luoghi diversi
dalla «privata dimora».
Tale nozione coincide con quella rilevante per la commissione del reato di
violazione di domicilio di cui all’art.
614 cod. pen., la quale prescinde dall’accertamento della proprietà e
degli eventuali diritti reali che interessano un determinato luogo, ma
dipende dal fatto che in esso si svolgano non occasionalmente atti della
vita privata e che si tratti di uno spazio inaccessibile ai terzi senza il
consenso del titolare: su questa base, per esempio, si ritiene che gli spazi
comuni di un condominio, come l’ingresso, le scale o i pianerottoli, siano
luoghi aperti al pubblico, perché di fatto accessibili a un’indistinta
categoria di persone, e non soltanto ai condomini.
---------------
1. La ricorrente impugna l’ordinanza con cui il Comune di Gignod le ha
ordinato di rimuovere -OMISSIS- collocata nel terreno di sua proprietà, sul
presupposto che si tratti di un rifiuto abbandonato.
...
6. Con il primo motivo, si denuncia: violazione dell’art. 13 della
legge n. 689 del 1981; violazione dell’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006;
sviamento di potere; violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990;
difetto d’istruttoria e motivazione; contraddittorietà.
In particolare, la ricorrente lamenta che l’ispezione, sulla quale
l’ordinanza si fonda, sia stata svolta sul suo terreno senza il suo consenso
e in assenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria, come invece
richiesto per gli accessi a una proprietà privata; a tal fine, contesta che
il fondo sia gravato da una servitù di uso pubblico e sostiene che
l’eventuale circostanza che sia gravato da una servitù a vantaggio di altri
privati non lo renderebbe comunque aperto a un ingresso da parte di una
collettività indeterminata.
La difesa dell’Ente sostiene invece che la strada che attraversa il terreno,
ancorché di proprietà privata, sia asservita all’uso pubblico (e sia dunque
una “strada vicinale”), come dimostrerebbero il fatto che vi passano
una serie di condutture pubbliche, che sia stata asfaltata a cura e spese
del Comune e che a essa accedano indiscriminatamente tutti gli abitanti
della frazione.
Sebbene le parti abbiano dibattuto soprattutto sulla natura privata o
pubblica della strada che attraversa il terreno e sul novero dei soggetti
che possano legittimamente percorrerla, tale questione non appare dirimente,
con la conseguenza che questo Tribunale può esimersi dall’affrontarla (anche
perché si tratta di un problema di natura squisitamente civilistica che, di
per sé, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario).
A ben vedere, infatti, la ricorrente la solleva solo al fine d’invocare
l’applicabilità dell’art.
13 della legge n. 689 del 1981, secondo cui gli organi preposti
all’accertamento di illeciti amministrativi possono procedere a ispezioni
solo in luoghi diversi dalla «privata dimora».
Tale nozione coincide con quella rilevante per la commissione del reato di
violazione di domicilio di cui all’art.
614 cod. pen. (in questi termini, si v. Cass. civ., sez, I, sent. n.
6361 del 2005), la quale prescinde dall’accertamento della proprietà e degli
eventuali diritti reali che interessano un determinato luogo, ma dipende dal
fatto che in esso si svolgano non occasionalmente atti della vita privata e
che si tratti di uno spazio inaccessibile ai terzi senza il consenso del
titolare: su questa base, per esempio, si ritiene che gli spazi comuni di un
condominio, come l’ingresso, le scale o i pianerottoli, siano luoghi aperti
al pubblico, perché di fatto accessibili a un’indistinta categoria di
persone, e non soltanto ai condomini (si v., tra le tante, Cass. pen., sez.
V, sentt. n. 24755 del 01.06.2018 e n. 53438 del 24.11.2017).
Pertanto, nel caso di specie non è necessario verificare se, sul piano del
diritto privato, la strada che attraversa il terreno della ricorrente sia
gravata da una servitù privata o asservita all’uso pubblico, quanto
piuttosto se, in punto di fatto, risulti o meno accessibile ai terzi.
La risposta non può che essere positiva, perché si tratta di un’area aperta
e potenzialmente accessibile da un’indistinta categoria di persone, ovvero
dagli abitanti delle case vicine e da coloro che vi si dirigono (occorre
infatti rammentare che la stessa servitù di passaggio “civilistica”
può essere esercitata dal proprietario del fondo dominante anche in via
indiretta, attraverso le visite di terzi riferibili alle normali esigenze
della vita di relazione: sul punto si v., tra le più recenti, Cass. civ.,
sez. II, sent. n. 4821 del 2019).
Pertanto, per quanto è d’interesse in questo giudizio, il terreno della
ricorrente non può essere considerato una «privata dimora», ai sensi
dell’art. 13 della legge n. 689 del 1981, con la conseguenza che, sotto
questo profilo, l’accertamento è legittimo e il primo motivo di ricorso è
meritevole di rigetto (TAR Valle d'Aosta,
sentenza 16.09.2020 n. 41 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla riconducibilità, o meno, del pianerottolo, sito sulle scale
condominiali, ad una pertinenza dell'abitazione.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, rientrano
nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si
svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti
al pubblico né accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, compresi
i luoghi destinati all'esercizio di attività lavorativo o professionale; ed
infatti, per "luogo aperto al pubblico", deve intendersi quello al quale
chiunque può accedere a determinate condizioni, ovvero quello frequentabile
da un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di
soggetti, che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi, senza
la legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di
diritto.
Acclarate tali nozioni, di "luogo aperto al pubblico" e, a contrario, di
"privata dimora", è conseguenziale ritenere il pianerottolo, antistante
l'abitazione, come riconducibile alla prima categoria, e non ad un luogo,
rientrante nel concetto di abitazione ovverosia luogo di privata dimora.
Conferma specifica si ricava da altre pronunce, secondo le quali, ai fini
dell'integrazione del reato di interferenze illecite nella vita privata
(art. 615-bis cod. pen.), deve escludersi che le scale condominiali ed i
relativi pianerottoli siano "luoghi di privata dimora" cui estendere la
tutela penalistica alle immagini ivi riprese, trattandosi di zone che non
assolvono alla funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al
riparo di sguardi indiscreti, essendo destinate all'uso di un numero
indeterminato di soggetti.
Ed ancora, il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio
costituisce luogo aperto al pubblico in quanto consente l'accesso ad
un'indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini.
Il discrimine fra le due figure è rappresentato, pertanto, dalla possibilità
di accesso da parte di un'intera categoria di persone o comunque da un
numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità giuridica e
pratica di accedere senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un
potere di fatto o di diritto.
---------------
1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
La problematica centrale riguarda la nozione di luogo pubblico o
aperto al pubblico, posto che il reato contravvenzionale, ex art. 4
legge n. 110/1975, implica il porto in luogo pubblico o aperto al pubblico.
Ed invero, nell'ambito del presente procedimento, il contrasto è insorto,
proprio a seguito dell'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata,
circa la riconducibilità del pianerottolo, sito sulle scale condominiali, ad
una pertinenza dell'abitazione dell'imputato.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, rientrano nella nozione di
privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non
occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico
né accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, compresi i luoghi
destinati all'esercizio di attività lavorativo o professionale (Sez. U, n.
31345 del 23/03/2017 - dep. 22/06/2017, D'Amico, Rv. 270076); ed infatti,
per "luogo aperto al pubblico", deve intendersi quello al quale
chiunque può accedere a determinate condizioni, ovvero quello frequentabile
da un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di
soggetti, che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi, senza
la legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di
diritto (Sez. 3, n. 29586 del 17/02/2017 - dep. 14/06/2017, C., Rv. 270251).
Acclarate tali nozioni, di "luogo aperto al pubblico" e, a contrario,
di "privata dimora", è conseguenziale ritenere il pianerottolo,
antistante l'abitazione, come riconducibile alla prima categoria, e non ad
un luogo, rientrante nel concetto di abitazione ovverosia luogo di
privata dimora.
Conferma specifica si ricava da altre pronunce, secondo le quali, ai fini
dell'integrazione del reato di interferenze illecite nella vita privata
(art. 615-bis cod. pen.), deve escludersi che le scale condominiali ed i
relativi pianerottoli siano "luoghi di privata dimora" cui estendere
la tutela penalistica alle immagini ivi riprese, trattandosi di zone che non
assolvono alla funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al
riparo di sguardi indiscreti, essendo destinate all'uso di un numero
indeterminato di soggetti (Sez. 5, n. 34151 del 30/05/2017 - dep.
12/07/2017, P.C. in proc. Tinervia, Rv. 270679).
Ed ancora, il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio
costituisce luogo aperto al pubblico in quanto consente l'accesso ad
un'indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini.
(applicazione in tema di porto abusivo di armi) (Sez. 1, n. 934 del
28/09/1982 - dep. 03/02/1983, CHIAPPERO, Rv. 157237).
Il discrimine fra le due figure è rappresentato, pertanto, dalla possibilità
di accesso da parte di un'intera categoria di persone o comunque da un
numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità giuridica e
pratica di accedere senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un
potere di fatto o di diritto (Sez. 5, n. 22890 del 10/04/2013 - dep.
27/05/2013, Ambrosio, Rv. 256949) (Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 01.06.2018 n. 24755). |
EDILIZIA PRIVATA: Privata
dimora e proprietà privata sono concetti non sovrapponibili, in
quanto il primo è molto più circoscritto del secondo, basti
pensare ai beni privati destinati ad uso pubblico o aperti al pubblico.
Sotto il secondo profilo deve richiamarsi la recente decisione, con cui le
Sezioni Unite hanno fornito la definizione di luogo di privata dimora e
relative pertinenze nei termini che seguono: «rientrano nella nozione di
privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non
occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico
né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli
destinati ad attività lavorativa o professionale».
La pronuncia è intervenuta specificamente sull'art. 624-bis cod. pen., ma ha
espressamente coinvolto tutte le norme a carattere sostanziale e processuale
che a tale nozione fanno riferimento, tra cui l'art.
614 cod. pen..
Ne consegue che anche nello scrutinare gli elementi costitutivi del reato di
violazione di domicilio occorre fare riferimento ai principi dettati con la
sentenza appena citata.
Pertanto, al fine di assegnare ad un luogo la qualifica di privata dimora
o relative pertinenze, occorre verificare la sussistenza dei
seguenti, indefettibili elementi:
«a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni
della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività
professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da
intrusioni esterne;
b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in
modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da
mera occasionalità;
c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il
consenso del titolare».
---------------
1. Il primo motivo merita accoglimento nella parte relativa al vizio
di motivazione.
L'ordinanza impugnata premette che l'aggressione è avvenuta in un tratto di
strada, che conduce all'abitazione della persona offesa, avente le
caratteristiche di spazio aperto al pubblico non delimitato da alcuna
recinzione. Riconduce, tuttavia, tale luogo al perimetro di tutela delineato
dall'art. 614 cod. pen., qualificandolo come pertinenza dell'abitazione di
proprietà del D'Am..
Specifica, poi, che l'area è destinata a sosta e parcheggio delle auto
riservata ai soli proprietari degli immobili, come si evince dalla
documentazione fotografica, prodotta dall'indagato, che indica la natura di
"proprietà privata" della zona in questione.
Tali argomentazioni sono, per un verso, giuridicamente erronee e,
per altro verso, sganciate dalla nozione di privata di dimora come
delineata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
Sotto il primo profilo va osservato che privata dimora e proprietà
privata sono concetti non sovrapponibili, in quanto il primo è
molto più circoscritto del secondo, basti pensare ai beni privati
destinati ad uso pubblico o aperti al pubblico.
Sotto il secondo profilo deve richiamarsi la recente decisione, con cui le
Sezioni Unite hanno fornito la definizione di luogo di privata dimora e
relative pertinenze nei termini che seguono: «rientrano nella nozione di
privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non
occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico
né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli
destinati ad attività lavorativa o professionale» (Sez. U, n. 31345 del
23/03/2017, D'Amico, Rv. 270076).
La pronuncia è intervenuta specificamente sull'art. 624-bis cod. pen., ma ha
espressamente coinvolto tutte le norme a carattere sostanziale e processuale
che a tale nozione fanno riferimento, tra cui l'art.
614 cod. pen. (cfr. Sez. U, n.
31345 del 23/03/2017, D'Amico, cit., in motivazione).
Ne consegue che anche nello scrutinare gli elementi costitutivi del reato di
violazione di domicilio occorre fare riferimento ai principi dettati con la
sentenza appena citata.
Pertanto, al fine di assegnare ad un luogo la qualifica di privata dimora
o relative pertinenze, occorre verificare la sussistenza dei
seguenti, indefettibili elementi:
«a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni
della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività
professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da
intrusioni esterne;
b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in
modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da
mera occasionalità;
c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il
consenso del titolare» (cfr. Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D'Amico,
cit., in motivazione) (Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza
24.11.2017 n. 53438). |
EDILIZIA PRIVATA: Non c'è dubbio che la nozione di
privata dimora sia più ampia di quella di
abitazione. E' arbitrario, tuttavia, far discendere da tale constatazione un
significato che prescinde, innanzitutto, dalla lettera della norma.
L'aver il legislatore adoperato l'espressione "privata dimora" ha una
indubbia valenza sul piano interpretativo.
"Dimora", secondo i dizionari della lingua italiana, è, invero, il
luogo in cui una persona, che non vi risiede in modo stabile, attualmente
abita e permane. La parola, derivata dal latino morari, implica il
fermarsi, trattenersi, soggiornare.
Basterebbe già questo per escludere dalla nozione di dimora tutti i casi in
cui ci si trovi in un luogo in modo del tutto occasionale (anche se per
svolgere atti della vita privata) e senza avere alcun rapporto (tranne la
presenza fisica) con il luogo medesimo.
Per di più occorre considerare che, nella descrizione della fattispecie di
cui all'art. 624-bis cod. pen., l'espressione "privata dimora" è
preceduta dalle parole "in un edificio o in altro luogo destinato in
tutto o in parte [...]". Deve trattarsi, quindi, di un luogo "destinato"
a privata dimora: il che rafforza il significato dell'espressione.
Il riferimento della norma è, allora, ad un luogo che sia stato adibito (in
modo apprezzabile sotto il profilo cronologico) allo svolgimento di atti
della vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita
familiare e intima (propri dell'abitazione).
Va aggiunto ancora che, significativamente, la rubrica dell'art. 624-bis è
intitolata «Furto in abitazione» e il riferimento è in linea con il
significato restrittivo della nozione di privata dimora in precedenza
evidenziato. In essa vanno, conseguentemente, ricompresi i luoghi che,
ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica,
abbiano, comunque, le "caratteristiche" dell'abitazione.
---------------
1. La soluzione della questione controversa sottoposta alle Sezioni Unite ("Se,
ed eventualmente a quali condizioni, ai fini della configurabilità del
delitto previsto dall'art. 624-bis cod. pen., i luoghi di lavoro possano
rientrare nella nozione di privata dimora") comporta che venga
correttamente definita la nozione di "privata dimora".
A tale nozione si fa riferimento non solo nell'art. 624-bis, ma anche in
altre norme, sia di carattere sostanziale (artt. 614, 615, 615-bis, 624-bis,
628, terzo comma, n. 3-bis, 52, secondo comma, cod. pen.), sia di carattere
processuale (art. 266, comma 2, cod. proc. pen.).
L'orientamento maggioritario, richiamato nell'ordinanza di rimessione,
partendo dalla considerazione che il concetto di privata dimora sia più
ampio di quello di abitazione, ne dà una interpretazione estensiva, tanto da
ricomprendervi tutti i luoghi, non pubblici, nei quali le persone si
trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti
della vita privata.
Si è ritenuto, pertanto, configurabile il delitto previsto dall'art. 624-bis
cod. pen. in ordine al furto commesso:
- all'interno di un ristorante in
orario di chiusura (Sez. 2, n. 24763 del 26/05/2015, Mori, Rv. 264283);
- in
un bar-tabacchi in orario di chiusura (Sez. 5, n. 6210 del 24/11/2015, Tedde,
Rv. 265875);
- all'interno di un cantiere edile allestito nel cortile di un
immobile in cui erano in corso lavori di ristrutturazione (Sez. 5, n. 2768
del 01/10/2014, Baldassin, Rv. 262677);
- all'interno di un'edicola (Sez. 5,
n. 7293 del 17/12/2014, Lattanzio, Rv. 262659);
- in uno studio odontoiatrico
(Sez. 5, n. 10187 del 15/02/2011, Gelasio, Rv. 249850);
- in una farmacia
durante l'orario di apertura (Sez. 4, n. 37908 del 25/06/2009, Apprezzo, Rv.
244980);
- all'interno di un ripostiglio di un esercizio commerciale (Sez. 5,
n. 22725 del 05/05/2010, Dunca, Rv. 247969);
- in una baracca di un cantiere
edile adibito a spogliatoio (Sez. 5, n. 32093 del 25/06/2010, Truzzi, Rv.
248356).
Della nozione di "privata dimora" si è data una interpretazione
ancora più ampia in tema di rapina, ritenendo sussistente la circostanza
aggravante prevista dall'art. 628, terzo comma, n. 3-bis, cod. pen.,
nell'ipotesi in cui la condotta delittuosa venga commessa, nell'area aperta
al pubblico, nei confronti dei clienti di un istituto di credito (Sez. 2, n.
28405 del 05/04/2012, Foglia, Rv. 253413), o all'interno di un supermercato
durante l'orario di apertura (Sez. 2, n. 24761 del 12/052015, Porcu, Rv.
264383).
2. Secondo tale indirizzo, cui si richiama anche la sentenza impugnata, gli
elementi identificativi del luogo di privata dimora sarebbero uno di
carattere strutturale (vale a dire l'astratta possibilità di inibire
l'accesso al pubblico attraverso dispositivi di sbarramento, quali portoni,
saracinesche o altri meccanismi; senza escludere che, in determinate ore del
giorno, sia liberamente consentito detto accesso) e l'altro di carattere
funzionale (la natura privata, cioè, dell'attività che vi si svolge;
specificandosi che atti della vita privata non sono soltanto quelli della
vita intima o familiare, ma anche quelli dell'attività professionale o
lavorativa, o quelli posti in essere a contatto con altri soggetti, quali
l'acquisto di merce in un supermercato, la fruizione di una prestazione
professionale, il compimento di operazioni bancarie).
2.1. Ritiene il Collegio che l'ampliamento della nozione, propugnato
dall'indicato orientamento, contrasti sia con il dato letterale sia con la
ratio e la interpretazione sistematica della norma.
Non c'è dubbio che la nozione di privata dimora sia più ampia di quella di
abitazione. E' arbitrario, tuttavia, far discendere da tale constatazione un
significato che prescinde, innanzitutto, dalla lettera della norma.
L'aver il legislatore adoperato l'espressione "privata dimora" ha una
indubbia valenza sul piano interpretativo.
"Dimora", secondo i dizionari della lingua italiana, è, invero, il
luogo in cui una persona, che non vi risiede in modo stabile, attualmente
abita e permane. La parola, derivata dal latino morari, implica il
fermarsi, trattenersi, soggiornare.
Basterebbe già questo per escludere dalla nozione di dimora tutti i casi in
cui ci si trovi in un luogo in modo del tutto occasionale (anche se per
svolgere atti della vita privata) e senza avere alcun rapporto (tranne la
presenza fisica) con il luogo medesimo.
Per di più occorre considerare che, nella descrizione della fattispecie di
cui all'art. 624-bis cod. pen., l'espressione "privata dimora" è
preceduta dalle parole "in un edificio o in altro luogo destinato in
tutto o in parte [...]". Deve trattarsi, quindi, di un luogo "destinato"
a privata dimora: il che rafforza il significato dell'espressione.
Il riferimento della norma è, allora, ad un luogo che sia stato adibito (in
modo apprezzabile sotto il profilo cronologico) allo svolgimento di atti
della vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita
familiare e intima (propri dell'abitazione).
Va aggiunto ancora che, significativamente, la rubrica dell'art. 624-bis è
intitolata «Furto in abitazione» e il riferimento è in linea con il
significato restrittivo della nozione di privata dimora in precedenza
evidenziato. In essa vanno, conseguentemente, ricompresi i luoghi che,
ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica,
abbiano, comunque, le "caratteristiche" dell'abitazione.
2.2. L'indirizzo interpretativo sopra richiamato, inoltre, nel dare rilievo
al "luogo in sé", si limita a far riferimento allo svolgimento in
esso di atti della vita privata, siano essi lavorativi, professionali o di
altro genere, senza ulteriori approfondimenti.
Si ritiene, cioè, configurabile il reato di furto in abitazione,
disciplinato dall'art. 624-bis cod. pen., tutte le volte in cui l'azione
delittuosa venga commessa in un luogo nel quale si svolgano atti della vita
privata, a prescindere dall'orario e dalla presenza di persone (tra le
altre, Sez. 2, n. 24763 del 26/05/2015, Mori, Rv. 264283; Sez. 5, n. 6210
del 24/11/2015, Tedde, Rv. 265875; Sez. 5, n. 428 del 30/06/2015, Feroleto,
Rv. 265694).
In altre decisioni, invece, rendendosi evidentemente conto della portata
troppo estensiva, nella interpretazione della norma, del generico
riferimento ai luoghi in cui si svolgano atti della vita privata, si cerca
di delimitarne l'applicazione.
Si afferma, invero, che non commette il reato di furto in abitazione il
soggetto che si introduca all'interno di un esercizio commerciale in orario
notturno, trattandosi di un locale non adibito a privata dimora in ragione
del mancato svolgimento di attività commerciali che caratterizza le ore di
chiusura (Sez. 4, n. 11490 del 24/01/2013, Pignalosa, Rv. 254854).
Secondo altre pronunce il criterio discretivo da applicare è rappresentato
dall'accertamento della prevedibile presenza di persone nel luogo di
svolgimento di atti della vita privata, a prescindere dall'orario (notte o
giorno) e dalla chiusura o meno dell'esercizio (Sez. 5, n. 10747 del
17/11/2015, Casalanguida, Rv. 267560; Sez. 5, n. 18211 del 10/03/2015,
Hadovic, Rv. 263458; Sez. 5, n. 55040 del 20/10/2016, Rover, Rv. 268409;
Sez. 4, n. 12256 del 26/01/2016, Cisulli, Rv. 266701; Sez. 5, n. 10440 del
21/12/2015, Fernandez, Rv. 266807).
Tali soluzioni risultano non condivisibili, in quanto si fa dipendere
l'applicazione di un trattamento sanzionatorio più grave (previsto dal
legislatore per il reato di furto in abitazione, al fine di apprestare una
più intensa tutela al luogo in cui l'azione delittuosa viene commessa) da
elementi estranei alla fattispecie e, per di più, vaghi, incerti ed
accidentali (di carattere temporale o di effettivo esercizio dell'attività
ivi svolta).
L'esigenza di maggior tutela dei luoghi destinati a privata dimora non viene
meno solo perché il furto è commesso in orario notturno o diurno, in orario
di apertura o di chiusura, oppure in presenza o in assenza di persone.
E' stato, in proposito, incisivamente osservato che lo "spostamento del
baricentro della previsione normativa dal luogo del commesso reato al
momento della consumazione" determinerebbe una inaccettabile "tutela
ad intermittenza" (Sez. 5, n. 428 del 2015, cit.).
2.3. Che il luogo destinato a privata dimora debba avere determinate "caratteristiche",
che non possono essere certamente quelle del mero svolgimento in esso di
atti della vita privata, è confermato dal dato sistematico nella sua
evoluzione.
Il Codice Zanardelli faceva riferimento, in ordine al reato di violazione di
domicilio (art. 157), «all'abitazione altrui o alle appartenenze di essa».
Dopo però che la dottrina maggioritaria, sotto la vigenza di quel codice,
aveva già ritenuto che il termine abitazione andasse interpretato
estensivamente come ogni luogo adibito ad uso domestico, nel quale si
fossero compiuti atti caratteristici della vita privata, il codice Rocco,
nell'art. 614, introduceva la nozione di "altro luogo di privata dimora",
affiancandola a quella di abitazione, e nella Relazione si precisava che la
tutela apprestata dalla norma riguardava «tutti i luoghi che servano, in
modo permanente o transitorio, alla esplicazione della vita privata».
Per il reato di furto la tutela (più intensa in termini di trattamento
sanzionatorio) rimaneva, però, limitata alla sola abitazione: l'art. 625,
primo comma, n. 1, cod. pen., prevedeva, infatti, come circostanza
aggravante, «se il colpevole, per commettere il furto, si introduce o si
trattiene in un edificio o in altro luogo destinato ad abitazione».
Con la legge 26.03.2001, n. 128, venne inserito nel codice penale l'art.
624-bis.
Previa abrogazione dell'art. 625, primo comma, n. 1, cod. pen., è stata
introdotta una ipotesi autonoma di reato definita in rubrica come "Furto
in abitazione e furto con strappo", con l'evidente scopo di ampliare la
tutela penale non solo sotto il profilo patrimoniale, ma anche personale.
E ciò è tanto vero che l'approvazione della legge n. 128 del 2001 era stata
preceduta dalla presentazione al Parlamento, da parte del Governo, del
disegno di legge n. 5925, nel quale il reato di furto in abitazione,
attraverso la previsione nel codice penale di un art. 614-bis, era stato
inserito nel Libro II, Titolo XII ("Delitti contro la persona"), al
fine di rafforzare «la tutela del domicilio non tanto nella sua
consistenza oggettiva, quanto nel suo essere proiezione spaziale della
persona, cioè ambito primario ed imprescindibile alla libera estrinsecazione
della personalità individuale».
Tale originaria impostazione non poteva non riflettersi nella formulazione
del "nuovo" art. 624-bis, pur mantenendosi la collocazione dello
stesso nei reati contro il patrimonio.
Si è visto già come, a fronte della rubrica che fa riferimento al furto in
abitazione, il testo normativo ricomprende qualsiasi luogo destinato in
tutto in parte a privata dimora o nelle pertinenze di esso.
L'ampliamento dell'ambito di applicabilità della "nuova" fattispecie
anche a luoghi che non possano considerasi abitazione in senso stretto
risulta dettato, da un lato, dalla necessità di superare le incertezze
manifestatesi in giurisprudenza in ordine alla definizione della nozione di
abitazione e, dall'altro, di tutelare l'individuo anche nel caso in cui
compia atti della sua vita privata al di fuori dell'abitazione.
Deve, però, trattarsi, come si evince dalla ratio della norma, di luoghi che
abbiano le stesse caratteristiche dell'abitazione, in termini di
riservatezza e, conseguentemente, di non accessibilità, da parte di terzi,
senza il consenso dell'avente diritto.
2.4. Tale interpretazione della norma è conforme ai principi enucleabili
dalla giurisprudenza costituzionale in tema di privata dimora.
La Corte costituzionale è stata chiamata a decidere le questioni di
costituzionalità sollevate in relazione all'art. 266, comma 2, cod. proc.
pen. con riferimento alle intercettazioni eseguite «nei luoghi indicati
dall'art. 614 del codice penale», vale a dire nell'abitazione o in altro
luogo di privata dimora o nelle appartenenze di essi.
E, per stabilire se detti luoghi avessero la copertura dell'art. 14 Cost.,
il Giudice delle leggi ne ha individuato ambito, limiti e caratteristiche.
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 135 del 2002, evidenziava che il
domicilio, cui fa riferimento l'art. 14 Cost., viene in rilievo «nel
panorama dei diritti fondamentali di libertà come proiezione spaziale della
persona, nella prospettiva di preservare da interferenze esterne
comportamenti tenuti in un determinato ambiente: prospettiva che vale, per
altro verso, ad accomunare la libertà in parola a quella di comunicazione
(art. 15 Cost.), quali espressioni salienti di un più ampio diritto alla
riservatezza della persona».
Nel dichiarare non fondata la questione di costituzionalità sollevata, la
Corte costituzionale, con la sentenza sopra indicata, dopo aver inquadrato la
libertà domiciliare nel sistema delle libertà fondamentali, sottolineava che
il problema di costituzionalità si poneva con riferimento a forme di «intrusione
nel domicilio in quanto tale», avendo la libertà di domicilio «una
valenza essenzialmente negativa, concretandosi nel diritto di preservare da
interferenze esterne, pubbliche o private, determinati luoghi in cui si
svolge la vita intima di ciascun individuo».
Tali principi venivano ancor di più rimarcati nella sentenza n. 149 del
2008.
Il Giudice delle Leggi osservava, infatti, che la tutela del domicilio
prevista dall'art. 14 Cost. viene in rilievo sotto due aspetti: «come
diritto di ammettere o escludere altre persone da determinati luoghi, in cui
si svolge la vita intima di ciascun individuo; e come diritto alla
riservatezza su quanto si compie nei medesimi luoghi».
Perché sia operativa la tutela costituzionale del domicilio è necessario,
quindi, che si tratti di un luogo in cui sia inibito l'accesso ad estranei e
sia tale da garantire la riservatezza ovvero la impossibilità di essere "percepito"
dall'esterno anche senza necessità di una intrusione fisica. Laddove,
invece, il luogo sia accessibile visivamente da chiunque, venendo meno la
caratteristica della riservatezza, si rimane fuori «dall'area di tutela
prefigurata dalla norma costituzionale de qua».
2.5. Gli elementi, delineati dalla giurisprudenza costituzionale come
caratterizzanti il "domicilio" e ritenuti indefettibili per garantire
la copertura costituzionale dell'art. 14 Cost., si rinvengono anche nella
sentenza delle Sezioni Unite n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, Rv. 234269.
Dopo aver premesso che la nozione di domicilio di cui all'art. 14 Cost. è
più estesa di quella ricavabile dall'art. 614 cod. pen., le Sezioni Unite
sottolineano che, quale che sia il rapporto tra le due disposizioni, «il
concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un
qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza».
Non c'è dubbio che «il concetto di domicilio individui un rapporto tra la
persona ed un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata,
in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da
garantirgli quindi la riservatezza. Ma il rapporto tra la persona ed il
luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la
persona è assente. In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche
se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo
che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza
della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato
dalla personalità del titolare, sia questo o meno presente».
Sulla base di tali considerazioni le Sezioni Unite introducono, come
elemento caratterizzante la nozione di privata dimora, il requisito della
stabilità, «perché è solo questa, anche se intesa in senso relativo, che
può trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che può fargli
acquistare un'autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità».
2.6. La interpretazione letterale e sistematica della norma, confortata dai
principi enucleabili dalle sentenze della Corte costituzionale sopra
richiamate e dalla sentenza Prisco delle Sezioni Unite, consente di
delineare la nozione di privata dimora sulla base dei seguenti,
indefettibili elementi:
a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni
della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività
professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da
intrusioni esterne;
b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in
modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da
mera occasionalità;
c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il
consenso del titolare.
3. Non resta che applicare le linee tracciate in precedenza in relazione
alla nozione di privata dimora, contenuta nell'art. 624-bis cod. pen., ai
luoghi di lavoro.
E' indiscutibile che nei luoghi di lavoro il soggetto compia atti della vita
privata.
Ma ciò non è sufficiente, come invece ritiene l'indirizzo interpretativo
maggioritario, per affermare che tali luoghi rientrino nella nozione di
privata dimora e che, per i reati di furto in essi commessi, trovi
applicazione la norma rubricata come furto in abitazione (con conseguente
tutela rafforzata in termini di trattamento sanzionatorio).
I luoghi di lavoro, generalmente, sono accessibili ad una pluralità di
soggetti anche senza il preventivo consenso dell'avente diritto: ad essi è
quindi estraneo ogni carattere di riservatezza, essendo esposti, per
definizione, alla "intrusione" altrui. Si pensi agli esercizi
commerciali o agli studi professionali o agli stabilimenti industriali
accessibili a un numero indeterminato di persone, che possono pertanto
prendere contatto (e non solo visivo) con il luogo senza alcun filtro o
controllo.
L'attività privata svolta in detti luoghi avviene a contatto con un numero
indeterminato di altri soggetti e, talvolta, in rapporto con gli stessi.
Con riferimento ad essi è, pertanto, fuor di luogo parlare di riservatezza o
di necessità di tutela della sfera privata dell'individuo.
L'orientamento che interpreta estensivamente la nozione di privata dimora si
pone, quindi, in contrasto con la lettera e la ratio della norma.
Ritengono le Sezioni Unite che vada confermato l'orientamento che interpreta
la disciplina dettata dall'art. 624-bis cod. pen. come estensibile ai luoghi
di lavoro soltanto se essi abbiano le caratteristiche proprie
dell'abitazione (accertamento questo riservato ai giudici di merito).
Potrà, quindi, essere riconosciuto il carattere di privata dimora ai luoghi
di lavoro se in essi, o in parte di essi, il soggetto compia atti della vita
privata in modo riservato e precludendo l'accesso a terzi (ad esempio,
retrobottega, bagni privati o spogliatoi, area riservata di uno studio
professionale o di uno stabilimento).
La conferma che i luoghi di lavoro, di per sé, non costituiscano privata
dimora si ricava, infine, dal terzo comma dell'art. 52 cod. pen. (aggiunto
dall'art. 1 della legge 13.02.2006, n. 59), nel quale si afferma che la
disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il
fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata
un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Nel richiamato secondo comma si fa riferimento, ai fini della presunzione di
proporzionalità tra offesa e difesa, ai luoghi previsti dall'art. 614 cod.
pen. (vale a dire a quelli di privata dimora).
Se, dunque, la nozione di privata dimora comprendesse, indistintamente,
tutti i luoghi in cui il soggetto svolge atti della vita privata, non vi
sarebbe stata alcuna necessità di aggiungere il terzo comma nell'art. 52 per
estendere l'applicazione della norma anche ai luoghi di svolgimento di
attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Evidentemente tale precisazione è stata ritenuta necessaria perché, secondo
il legislatore, la nozione di privata dimora non è, in generale, comprensiva
dei luoghi di lavoro.
4. Va, quindi, affermato il seguente
principio di diritto:
"Ai fini della configurabilità del delitto previsto dall'art. 624-bis
cod. pen., i luoghi di lavoro non rientrano nella nozione di privata dimora,
salvo che il fatto sia avvenuto all'interno di un'area riservata alla sfera
privata della persona offesa. Rientrano nella nozione di privata dimora di
cui all'art. 624-bis cod. pen. esclusivamente i luoghi, anche destinati ad
attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non
occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico
né accessibili a terzi senza il consenso del titolare"
(Corte di cassazione, Sezz. unite penali,
sentenza
22.06.2017 n. 31345). |
EDILIZIA PRIVATA: A.
Manzione,
POTERI E LIMITI NELL’ACCESSO A PROPRIETA’ PRIVATA PER L’ACCERTAMENTO DI
REATI ED ILLECITI AMMINISTRATIVI (20.09.2008 - link a https://lexambiente.it).
---------------
Premessa.
Il problema dell’accesso ad aree o immobili privati costituisce da sempre
uno dei “nodi gordiani” nell’attività di controllo della Polizia Locale e
non solo. In pratica, è questione pregiudiziale ad ogni accertamento in
quanto ne rappresenta il limite negativo di partenza. Le norme di
riferimento tutto sommato sono poche, ma le problematiche decisamente
molteplici.
Senza alcuna pretesa di esaustività cercheremo di tracciare la cornice
normativa di riferimento per poi individuare, attraverso casisistica di
sicuro interesse per la P.M., soluzioni operative che tutelino da possibili
responsabilità e nel contempo contengano suggerimenti “spiccioli” tratti
dalla propria esperienza di settore, oltre che dalle massime
giurisprudenziali più recenti.
L’accesso ad un’area privata, dunque, se finalizzato alla necessarietà di
accertare un presunto illecito amministrativo e/o penale deve rispondere
alle modalità di cui ad apposita norma a carattere generale che lo
legittimi, consentendo all’operatore di polizia di violare il diritto di
proprietà costituzionalmente garantito. Non a caso, il risvolto negativo di
un’attività’ siffatta non rispondente ai criteri di legge è rappresentato
dal reato di cui all’art. 615 del C.P., rubricato, appunto, “Violazione di
domicilio commessa da un pubblico ufficiale”.
Non a caso, dunque, il punto di partenza di una corretta disamina della
materia deve essere l’analisi di tale ipotesi di reato, in quanto la sua
conoscenza rappresenta la cartina di tornasole della esatta conoscenza della
liceità del proprio operato. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione di "privata dimora" rilevante, agli effetti dell'art.
13 della legge n. 689 del 1981, per delimitare il potere di ispezione degli organi addetti
all'accertamento di illeciti amministrativi (potere che può, appunto,
esercitarsi esclusivamente in luoghi diversi dalla privata dimora) coincide
con quella rilevante agli effetti del reato di violazione di domicilio (art.
614 c.p.), e dunque comprende non soltanto la casa di abitazione, ma anche
qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente
all'esplicazione della vita privata o di attività lavorativa, e, quindi,
qualunque luogo, anche se -appunto- diverso dalla casa di abitazione, in cui
la persona si soffermi per compiere, pur se in modo contingente e
provvisorio, atti della sua vita privata riconducibili al lavoro, al
commercio, allo studio, allo svago (nella fattispecie, la Corte di
Cassazione ha ritenuto che costituisse privata dimora la sede di
un'associazione privata, e ha quindi considerato illegittima l'ispezione ivi
eseguita degli accertatori).
---------------
2.1 Con il primo motivo (con cui deduce: "Violazione e falsa
applicazione degli artt. 466, 615 e 323 c.p., 13 LS 689/1981, 43 c.c., 57
c.p.p."), il ricorrente critica la sentenza impugnata, sostenendo,
innanzitutto, che "il luogo dove i VV.UU. sono acceduti e un luogo di
privata dimora" e riproponendo, poi, tutti i motivi di opposizione,
relativi alla illegittimità dell'accertamento, sia per (pianto attiene alle
modalità con cui era stato carpito il consenso all'accesso, sia per quanto
attiene alle dedotte violazioni, da parte degli agenti accertatori, di
specifiche disposizioni di disposizioni penalmente sanzionate, nonché di
disposizioni del codice di rito penale.
...
2.2 Il primo motivo del ricorso merita accoglimento, con conseguente
assorbimento degli altri.
L'art. 13, comma 1, della legge n. 689 del 1981 prevede, infatti, tra
l'altro, che "gli organi addetti al controllo sull'osservanza delle
disposizioni per la cui violazione prevista la sanzione amministrativa del
pagamento di una somma di denaro possono, per l'accertamento delle
violazioni di loro competenza, assumere informazioni e procedere a ispezioni
di cose e di luoghi diversi dalla privata dimora, a rilievi segnaletici
descrittivi e fotografici ed a ogni altra operazione tecnica".
Posto, dunque, che per i "luoghi di privata dimora" la legge esclude il
potere di ispezione dei predetti organi, il controllo sulla legittimità
dell'operato degli agenti della Polizia Municipale nel caso di specie (e del
verbale da essi conseguentemente compilato) presuppone la corretta
individuazione della relativa nozione.
A tal fine, occorre fare riferimento alla disciplina dettata dall'art. 14,
comma 1, Cost. ("Il domicilio è inviolabile") e dall'art. 614, comma
1, cod. pen., che, nel delineare il delitto di "violazione di domicilio",
punisce con la reclusione fino a tre anni "chiunque s'introduce
nell'abitazione altrui o in altro luogo di privata dimora, o nelle
appartenenze di essa, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il
diritto di escluderlo, ovvero vi s'introduce clandestinamente o con
inganno".
In mancanza di specifici precedenti sull'art. 13, comma 1, della legge n.
689 del 1981, deve sottolinearsi che la giurisprudenza di questa Corte, in
sede penale, ha affermato che deve intendersi per "privata dimora"
non soltanto la casa di abitazione, bensì anche qualsiasi luogo destinato
permanentemente o transitoriamente all'esplicazione della vita privata o di
attività lavorative, e, quindi, qualunque luogo, anche se -appunto- diverso
dalla casa di abitazione, in cui la persona si soffermi per compiere, pur se
in modo contingente e provvisorio, atti della sua vita privata riconducibili
al lavoro, al commercio, allo studio, allo svago (cfr., ex pluribus,
sentt. nn. 9992 e 10531 del 1983, 10745 del 1985, 6844 e 11277 del 1994, 879
del 1997).
Alla luce della nozione di privata dimora quale risultante da tale
orientamento giurisprudenziale, integralmente condiviso dal Collegio, si
deve dunque ritenere che, nella specie, l'ispezione dei vigili urbani -in
quanto eseguita nella sede di un'associazione privata (Nu.Mi.)- lo
è stata in un luogo di privata dimora e, pertanto, illegittimamente.
Da ciò discenda l'illegittimità dell'accertamento posto a fondamento
dell'ordinanza ingiunzione opposta, la nullità degli atti relativi ad esso
(processo verbale di accertamento ed ordinanza ingiunzione) e,
conseguentemente, la cassazione della sentenza impugnata, che, fondandosi su
principi opposti, ha rigettato l'opposizione.
Peraltro, la relativa causa, non essendo all'evidenza necessari ulteriori
accertamenti di fatto, può essere decisa nel merito, secondo quanto disposto
dall'art. 384, comma 1, secondo periodo, cod. proc. civ., nel senso
dell'accoglimento dell'opposizione, proposta con il ricorso introduttivo del
presente giudizio, e dell'annullamento dell'ordinanza-ingiunzione opposta:
infatti -posto che l'accertamento su cui si basa il provvedimento di
irrogazione della sanzione deve considerarsi nullo e privo di effetti- ne
consegue che l'odierno ricorrente, sulla base delle considerazioni dianzi
svolte, non può essere chiamato a rispondere della violazione allo stesso
addebitata (Corte di cassazione, Sez. I civile,
sentenza 24.03.2005 n. 6361). |
aggiornamento al
30.04.2022 (ore 23,59) |
|
Procedimenti amministrativi:
sull'incompatibilità del funzionario istruttore e sul dovere, o
meno, di astensione. |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
Consiglio di Stato disegna il profilo del funzionario in «conflitto
d'interessi».
Nel quadro normativo del nostro Paese non esiste una definizione univoca di
conflitto d'interessi del pubblico funzionario. I profili di tale condizione
si trovano per così dire allo "stato diffuso" in varie leggi e disposizioni
di settore; e ciò determina non di rado l'insorgenza di zone d'ombra,
incertezze operative, e persino irrazionali rallentamenti dei procedimenti
amministrativi.
Con la
sentenza 22.03.2022 n. 2069, il Consiglio di Stato -Sez. VI- ha
declinato questa definizione generale. E lo ha fatto rievocando le norme
operative di riferimento più calzanti. Per il massimo giudice amministrativo
tale anomalia si verifica quando lo svolgimento di una attività sia
assegnata a chi affidatario della cura dell'interesse generale sia titolare
nella vicenda anche di interessi personali, con conseguente "riduzione"
del soddisfacimento dell'interesse pubblico. In tale evenienza il
funzionario deve astenersi da pratiche e incartamenti, e informare al più
presto della situazione i propri superiori gerarchici.
La legge sul procedimento amministrativo del '90 prevede che il responsabile
del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri,
le valutazioni tecniche, gli atti e il provvedimento finale devono astenersi
in caso di conflitto di interessi anche se solo potenziale. Questa regola è
espressione del principio costituzionale di imparzialità della Pa il quale
impone che le scelte adottate dall'organo vanno compiute nel rispetto della
regola della "equidistanza" da tutti coloro che vengano a contatto
con il potere pubblico.
Ulteriori lineamenti del divieto in parola sono contenuti nel Codice di
comportamento dei dipendenti pubblici del 2013 secondo il quale il
dipendente deve astenersi dal partecipare alla adozione di decisioni o
attività che possano coinvolgere interessi propri, di suoi parenti, del
coniuge ovvero di soggetti con cui sia in una situazione di «grave
inimicizia».
Alla medesima esigenza di equidistanza si ispira la disciplina relativa alle
incompatibilità presente nel Testo unico del 2001 sull'ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche; nonché quella del
2013 in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le
pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico.
Altra importante disciplina di settore è contenuta nel Codice del 2016 in
materia di procedure di affidamento dei contratti pubblici.
Secondo il massimo giudice amministrativo, dalla lettura d'insieme della
richiamata normativa va dedotto univocamente che la mancata astensione del
funzionario pubblico in condizioni di conflitto d'interessi comporta una
illegittimità procedimentale che ricade sulla stessa validità dell'atto
finale della pubblica amministrazione. Ciò a meno che non venga
scrupolosamente dimostrato che la situazione d'incompatibilità del
funzionario non ha in alcun modo influenzato il contenuto del provvedimento
deviandolo dalla sua meta: l'interesse pubblico
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.04.2022).
---------------
SENTENZA
5.‒ Il motivo di appello incentrato sulla situazione di asserita
incompatibilità, nella quale avrebbe operato la dottoressa Ma.Gi., è
destituito di fondamento.
5.1.‒ L’art. 6-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «il
responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad
adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il
provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi,
segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale».
Tale regola è espressione del principio generale di imparzialità di cui
all’art. 97 Cost., il quale impone che «le scelte adottate dall’organo
devono essere compiute nel rispetto della regola dell’equidistanza da tutti
coloro che vengano a contatto con il potere pubblico» (cfr. Consiglio di
Stato, comm. spec., n. 667 del 2019, sullo schema di Linee guida ANAC in
materia di conflitti di interesse nell'affidamento dei contratti pubblici).
Una declinazione del principio è contenuta anche nell’art. 7 del decreto del
Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62 (Regolamento recante codice di
comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165), il quale prevede che: «il dipendente si
astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano
coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il
secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali
abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od
organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave
inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti
od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero
di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o
stabilimenti di cui sia amministratore o gerente».
Alla medesima esigenza si ispira la disciplina relativa alle incompatibilità
nell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche
(art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché il
d.lgs. n. 39 del 2013, in
materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le
pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico).
Una specifica disciplina è prevista, in materia di procedure di affidamento
dei contratti pubblici, dall’art. 42 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Per quanto non esista, all’interno del quadro normativo appena richiamato,
una definizione univoca che preveda analiticamente tutte le ipotesi e gli
elementi costitutivi di tale fattispecie, il conflitto di interessi può
definirsi quella condizione giuridica che si verifica quando, all’interno di
una pubblica amministrazione, lo svolgimento di una determinata attività sia
affidato ad un funzionario che ha contestualmente titolare di interessi
personali o di terzi, la cui eventuale soddisfazione implichi
necessariamente una riduzione del soddisfacimento dell’interesse
funzionalizzato. Operare in conflitto di interessi significa agire
nonostante sussista una situazione del genere e, quindi, sorge l’obbligo del
dipendente di informare l'Amministrazione e di astenersi.
La mancata astensione del funzionario comporta una illegittimità
procedimentale che refluisce sulla validità dell’atto finale, a meno che non
venga rigorosamente dimostrato (dall’Amministrazione procedente) che la
situazione d’incompatibilità del funzionario non ha in alcun modo
influenzato il contenuto del provvedimento facendolo divergere con il fine
di interesse pubblico.
5.2.‒ Nel caso in esame, non è emerso che la dottoressa Gi. fosse portatrice
di un interesse personale confliggente con quello all’imparziale
finanziamento delle iniziative culturali sul territorio.
In primo luogo, dalla carica di membro del Comitato culturale
dell’Associazione Te.Cr., la dottoressa si è dimessa in data 13.06.2019,
prima quindi della presentazione in data 27.09.2019 delle due domande di
contributo straordinario oggetto del presente ricorso.
Il Comitato culturale di cui si parla, peraltro, è un organo meramente
consultivo del Consiglio Direttivo dell’Associazione Te.Cr. che fornisce
pareri in merito alla qualità della proposta artistica e dove i componenti
non percepiscono nessuna indennità o emolumento di altro genere.
Sotto altro profilo, dalla documentazione prodotta in giudizio si ricava che
la dottoressa Gi. non era il titolare dell’organo competente a decidere
sull’ammissione dei contributi, spettando tale attribuzione al Direttore di
Ripartizione provinciale Cultura italiana (la dottoressa Ma.Gi. rilasciava
invece il visto, ai sensi dell’art. 13 della legge della Provincia di
Bolzano n. 17 del 1993, sulla responsabilità tecnica, amministrativa e
contabile).
Va pure rimarcato che, in ordine ad analoghe accuse sollevate in sede
penale, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bolzano, con
provvedimento del 15.03.2021, ha accolto la richiesta di archiviazione
avanzata dal pubblico ministero.
L’ulteriore affermazione, secondo cui la dottoressa Gi. avrebbe ricevuto
negli anni abbonamenti gratuiti a tutta la programmazione del Te.Cr., è
rimasta poi sfornita di qualsivoglia riscontro. |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: L’art.
6-bis l. 241/1990 (peraltro ratione temporis
inapplicabile alla fattispecie, perché in vigore dal 28.12.2012) impone al
responsabile del procedimento ed ai titolari degli uffici competenti ad
adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il
provvedimento finale, il dovere di astensione nel caso di conflitto di
interessi.
La predetta situazione di conflitto di interessi viene intesa dalla
giurisprudenza come coincidente con le ipotesi di incompatibilità di cui
all’art.
51 c.p.c. (disposizione questa, considerata da sempre applicabile alla
Pubblica Amministrazione: cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, 11.01.1999, n.
8).
Orbene, tra le ipotesi tassative di incompatibilità in cui sorge in capo al
preposto all’organo il dovere di astensione, l’art.
51, primo comma, n. 3, c.p.c. elenca la “grave inimicizia”: sennonché,
per giurisprudenza consolidata, la situazione di “grave inimicizia”,
rilevante ai sensi dell’art.
51 c.p.c., presuppone la reciprocità, inoltre deve trovare fondamento
solo in rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili
circostanze di conflittualità.
La giurisprudenza ha quindi escluso che la presentazione di una denuncia o
di un atto di impulso idoneo a dare inizio a un procedimento giudiziale
possa bastare alla configurazione di una situazione di “grave inimicizia”,
dovendo questa riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali; né la
presentazione di una denuncia è idonea a creare una situazione di causa
pendente, attesa la natura oggettiva della giurisdizione penale.
---------------
8.4. In merito, poi, alla pretesa che il menzionato Comandante
interregionale si astenesse, in quanto in situazione di conflitto di
interessi e difetto di terzietà, perché sottoposto a due procedimenti penali
avviati su impulso dell’odierno appellato, osserva il Collegio che la
censura non trova conforto negli atti di causa.
8.4.1. L’art.
6-bis l. 241/1990 (peraltro
ratione temporis inapplicabile alla fattispecie, perché in vigore dal
28.12.2012) impone al responsabile del procedimento ed ai titolari degli
uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti
endoprocedimentali e il provvedimento finale, il dovere di astensione nel
caso di conflitto di interessi. La predetta situazione di conflitto di
interessi viene intesa dalla giurisprudenza (cfr. TAR Calabria, Catanzaro,
Sez. II, 09.06.2021, n. 1152) come coincidente con le ipotesi di
incompatibilità di cui all’art.
51 c.p.c. (disposizione questa, considerata da sempre applicabile alla
Pubblica Amministrazione: cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI,
11.01.1999, n. 8).
8.4.2. Orbene, tra le ipotesi tassative di incompatibilità in cui sorge in
capo al preposto all’organo il dovere di astensione, l’art.
51, primo comma, n. 3, c.p.c. elenca la “grave inimicizia”:
sennonché, per giurisprudenza consolidata, la situazione di “grave
inimicizia”, rilevante ai sensi dell’art.
51 c.p.c., presuppone la reciprocità (cfr., ex multis, Cass. civ.,
Sez. II, 31.10.2018, n. 27923; C.d.S., Sez. V, 20.12.2018, n. 7170; Sez. III,
02.04.2014, n. 1577), inoltre deve trovare fondamento solo in rapporti
personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili circostanze di
conflittualità (v. C.d.S., Sez. V, n. 7170/2018, cit., e Sez. III, n.
1577/2014, cit.).
La giurisprudenza ha quindi escluso che la presentazione di una denuncia o
di un atto di impulso idoneo a dare inizio a un procedimento giudiziale
possa bastare alla configurazione di una situazione di “grave inimicizia”,
dovendo questa riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cass. civ., Sez.
III, 13.04.2005, n. 7683); né la presentazione di una denuncia è idonea a
creare una situazione di causa pendente, attesa la natura oggettiva della
giurisdizione penale (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, n. 1152/2021, cit.) (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 31.01.2022 n. 667 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Osserva
il Collegio come le cause di incompatibilità abbiano specifica natura
tassativa; pertanto, gli obblighi di astensione non operano laddove non
ricorrano gli specifici presupposti indicati dal legislatore.
Nel caso di specie, non costituisce ex se causa di incompatibilità l’eventuale
difforme avviso espresso dai funzionari comunali rispetto a precedenti
pareri. Inoltre, la presunta incompatibilità non è, certamente, dimostrata
dalla sola diversità dell’avviso in difetto di indici inferenziali che
consentano di ritenere la causa pendente ragione effettiva del mutamento di
avviso dedotto.
---------------
Nel caso di specie, non può ritenersi sussistente la condizione di “grave
inimicizia” tra l’operatore ed i funzionari pubblici.
Pur prescindendo
dal tema della legittimazione a proporre una simile ragione di
incompatibilità, il Collegio osserva come la grave inimicizia attenga a “ragioni
private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai
compiti istituzionali”
e non ricorra qualora il funzionario abbia posto in essere condotte
istituzionali che abbiano dato vita a “molteplici provvedimenti
pregiudizievoli tali da determinare l'insorgere di diverse controversie
giurisdizionali”.
---------------
H. Sull’incompatibilità dei funzionari (primo motivo del
ricorso introduttivo).
15. Prendendo l’abbrivo dal primo motivo si rammenta che, con esso, i
ricorrenti deducono l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in ragione
della pendenza di un giudizio avanti il Tribunale civile di Pavia tra la
società Es. e taluni amministratori e funzionari comunali, tra cui anche il
responsabile del procedimento e il dirigente dell’ufficio tecnico comunale.
Tale giudizio ha ad oggetto una domanda di risarcimento del danno
personalmente diretta ai funzionari e agli amministratori per il diniego di
approvazione di una precedente istanza di piano attuativo proposta dalla
società Es. sulle medesime aree oggetto del presente giudizio. Gli atti
impugnati sarebbero, quindi, emessi in violazione degli obblighi di
astensione gravanti sui funzionari pubblici.
15.1. Osserva il Collegio che il giudizio al quale fanno riferimento i
ricorrenti termina in data anteriore alla presentazione dell’istanza. La
sentenza del Tribunale ordinario di Pavia n. 860/2019 è pubblicata in data
16.05.2019 e notificata nella stessa data (doc. n. 24 dell’Amministrazione
comunale). La sentenza transita in rem iudicatam in data 15.06.2019,
e, quindi, prima della presentazione dell’istanza di piano attuativo di
Es., depositata in data 08.07.2019. Pertanto, al momento di approvazione
del Piano la causa di incompatibilità consistente nella pendenza di una lite
non sussiste.
15.2. I ricorrenti evidenziano, tuttavia, come i due funzionari comunali
coinvolti nel giudizio civile redigano un parere preliminare in data
21.12.2018 e che tale parere abbia contenuto difforme dalla posizione
assunta nel 2013 e nel 2014 (f. 24 della memoria di merito dei ricorrenti).
15.3. Osserva il Collegio come le cause di incompatibilità abbiano specifica
natura tassativa; pertanto, gli obblighi di astensione non operano laddove
non ricorrano gli specifici presupposti indicati dal legislatore. Nel caso
di specie, non costituisce ex se causa di incompatibilità l’eventuale
difforme avviso espresso dai funzionari comunali rispetto a precedenti
pareri. Inoltre, la presunta incompatibilità non è, certamente, dimostrata
dalla sola diversità dell’avviso in difetto di indici inferenziali che
consentano di ritenere la causa pendente ragione effettiva del mutamento di
avviso dedotto.
15.4. Inoltre, il parere del 21.12.2018 ha effettivamente carattere
preliminare e, come tale, non solo non impegna l’Ente ma neppure costituisce
il punto di riferimento istruttorio dei provvedimenti adottati. Infatti, il
parere è reso in relazione alla “documentazione presentata in data
24.09.2018, prot. 44078”, e, quindi, su una rappresentazione ancora
astratta dell’ipotesi progettuale che si sostanzia nella successiva istanza.
15.4.1. Lo confermano le risposte ai vari quesiti all’attenzione
dell’Ufficio.
15.4.2. In relazione al tema della realizzazione delle strutture di vendita
il parere conclude: “la proposta di realizzare 13 medie strutture di
vendita è ammissibile, sempre che la stessa trovi fondamento, circostanza da
dimostrare nel corso del procedimento di approvazione del piano sia con
elaborati grafici che descrittivi, nell’attuazione dell’obiettivo affidato
all’ambito di trasformazione, quello cioè di realizzare una città mista,
attraverso uno sviluppo rispettoso dei principi di tutela e di
valorizzazione della salute e dell’ambiente”. Il parere ha, quindi, un
esito istruttorio rinviando alle evidenze da acquisire nel procedimento di
approvazione del Piano.
15.4.3. In relazione al tema della “autonomia realizzativa e gestionale
delle medesime medie strutture di vendita” il parere conclude: “il
progetto di piano attuativo che sarà sviluppato dovrà dare piena e concreta
dimostrazione di quanto rappresentato nella documentazione in esame, anche
per la dimostrazione degli indici e grandezze urbanistiche, nonché
dell’indipendenza delle superfici fondiarie e permeabili”. Anche in tal
caso vi è, quindi, un rinvio alla necessità di una piena e concreta
dimostrazione di quanto rappresentato nell’ambito dello specifico
procedimento di approvazione del Piano.
15.4.4. In relazione al tema del “rispetto del principio di contestualità
dei procedimenti urbanistico, edilizi e commerciali” il parere chiarisce che
“l’istruttoria della richiesta di autorizzazione commerciale verrà sospesa
sino alla conclusione del procedimento di adozione/approvazione del piano attuativo, il rilascio dell’autorizzazione potrà avvenire successivamente
all’approvazione e/o stipula della convenzione urbanistica”. Il parere ha,
quindi, contenuto meramente esplicativo della normativa di riferimento.
15.4.5. In relazione al tema del “rilascio di autorizzazioni commerciali
intestate a Es. srl in qualità di proprietario degli immobili o suo
eventuale avente titolo” il parere, dopo aver chiarito la normativa di
riferimento, espone alcuni aspetti di carattere propriamente urbanistico da
approfondire nell’apposito procedimento.
15.5. E’, inoltre, indimostrata la tesi secondo la quale il parere
definirebbe la fase istruttoria atteso che il provvedimento impugnato fa
espresso riferimento non a tale parere ma alla diversa “relazione”
redatta dall’Ufficio e, quindi, ad un atto istruttorio formatosi nel
procedimento e in relazione allo specifico progetto concretamente presentato
dopo il parere preliminare. Né tale conclusione è suscettibile di smentita
in quanto “il parere 21.12.2018 del resto già indica il contenuto del Pa
quanto a dimostrazione delle superfici, dell’autonomia e via dicendo”
(f. 25 della memoria difensiva dei ricorrenti). Infatti, il parere non è,
comunque, sostitutivo dell’istruttoria ed è espresso su uno scenario
progettuale la cui conferma nell’apposita istanza non è circostanza che muta
la natura preliminare del parere.
15.6. In ultimo, non può ritenersi sussistente la condizione di “grave
inimicizia” tra l’operatore ed i funzionari pubblici. Pur prescindendo
dal tema della legittimazione a proporre una simile ragione di
incompatibilità, il Collegio osserva come la grave inimicizia attenga a “ragioni
private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai
compiti istituzionali” (Cassazione civile, Sez. II, 31.10.2018 n. 27923)
e non ricorra qualora il funzionario abbia posto in essere condotte
istituzionali che abbiano dato vita a “molteplici provvedimenti
pregiudizievoli tali da determinare l'insorgere di diverse controversie
giurisdizionali” (Consiglio di Stato, Sez. V, 20.12.2018, n. 7170).
15.7. In definitiva il primo motivo di ricorso è infondato e deve,
pertanto, respingersi (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 19.11.2021 n. 2570 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La
giurisprudenza anche della Cassazione ai fini della configurabilità
dell'obbligo di astensione (art.
51, n. 3, c.p.c.) in sede disciplinare per "grave inimicizia” richiede,
oltre la reciprocità, la riferibilità a ragioni private di rancore o di
avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali.
---------------
6.- Non miglior sorte merita il terzo motivo di gravame.
A prescindere da ogni altra considerazione il semplice alterco intervenuto
tra il ricorrente ed il Comandante di Stazione non appare sufficiente a
giustificare la sussistenza a carico di quest’ultimo di un obbligo di
astensione, essendo pressoché fisiologica all’interno di ogni ambiente
lavorativo l’insorgenza di contrasti verbali tra il personale in merito
all’organizzazione ed all’adempimento degli obblighi lavorativi, senza che
ciò comporti una “grave inimicizia” tale ai sensi dell’art.
51, n. 3, c.p.c. da imporre
l’astensione del superiore gerarchico.
Infatti la giurisprudenza anche della Cassazione ai fini della
configurabilità del predetto obbligo di astensione (art.
51, n. 3, c.p.c.) in sede
disciplinare per "grave inimicizia” richiede, oltre la reciprocità,
la riferibilità a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cassazione civile
sez. II, 31.10.2018, n. 27923; id. n. 7683/2005) circostanza non rinvenibile
nel caso di specie (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 19.11.2021 n. 948 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La
presentazione di denunce, come anche le pubbliche accuse di scorretta
amministrazione dell’urbanistica comunale, non possono essere considerate
motivo di astensione obbligatoria del funzionario.
Per opinione consolidata, infatti, il conflitto d’interessi, rilevante ai
sensi dell’art.
6-bis l. 241/1990, coincide con le ipotesi d’incompatibilità di cui all’art.
51 cod. proc. civ., che rivestono carattere tassativo e sfuggono, di
conseguenza, a ogni tentativo di manipolazione analogica.
Pertanto, la presentazione di denuncia in sede penale non costituisce causa
di legittima ricusazione perché inidonea a creare una situazione di causa
pendente –per la natura oggettiva della giurisdizione penale– o di grave
inimicizia –che deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in
rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili
circostanze di conflittualità.
---------------
(III) Con il terzo motivo, i ricorrenti hanno dedotto che il
responsabile del procedimento avrebbe dovuto astenersi per incompatibilità
(art. 6-bis l. 241/1990), in quanto destinatario –assieme ad altri
funzionari del Comune– di una serie di denunce penali presentate da Il.Ma.
nel 2020 nonché di pubbliche lamentele effettuate da quest’ultimo in ordine
all’illegittimità di alcune lottizzazioni.
...
6. Nel merito, deve essere dapprima analizzato il terzo motivo di
ricorso, stante la riconducibilità dell’incompatibilità del funzionario al
vizio d’incompetenza. La fondatezza di tale motivo inibirebbe la valutazione
delle restanti censure sostanziali, essendo impedito al giudice di
pronunciarsi su poteri non ancora esercitati (art. 34, comma 2, cod. proc.
amm.), tali dovendosi considerare le valutazioni di spettanza dell’organo
competente cui il procedimento dovrebbe essere assegnato in caso di
annullamento dell’atto per incompetenza (per tutte, Cons. Stato, Ad. Plen.,
27.04.2015, n. 5).
La relativa doglianza è infondata, giacché la presentazione di denunce, come
anche le pubbliche accuse di scorretta amministrazione dell’urbanistica
comunale, non possono essere considerate motivo di astensione obbligatoria
del funzionario.
Per opinione consolidata, infatti, il conflitto d’interessi, rilevante ai
sensi dell’art.
6-bis l. 241/1990, coincide con le ipotesi d’incompatibilità di cui all’art.
51 cod. proc. civ., che rivestono carattere tassativo e sfuggono, di
conseguenza, a ogni tentativo di manipolazione analogica.
Pertanto, la presentazione di denuncia in sede penale non costituisce causa
di legittima ricusazione perché inidonea a creare una situazione di causa
pendente –per la natura oggettiva della giurisdizione penale– o di grave
inimicizia –che deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in
rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili
circostanze di conflittualità (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 02.04.2014, n.
1577; TAR Ancona, Sez. I, 26.03.2019, n. 175) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 09.06.2021 n. 1152 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Nella
specie non è configurabile l’ipotesi della «grave inimicizia» dei due
componenti del collegio giudicante nei confronti del menzionato difensore,
dovendo questa essere reciproca sicché non è sufficiente ad integrarla la
mera presentazione di una denuncia o, comunque, di un atto di impulso idoneo
a dare inizio ad un procedimento giudiziale o disciplinare, ma la grave
inimicizia deve ricondursi a ragioni private di rancore o di avversione
sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali e alla
realtà processuale, con l’indicazione di correlativi fatti circostanziati,
concreti e specifici.
---------------
Ebbene, premesso che s’intendono qui richiamate, per ragioni di sinteticità
imposte dall’art. 3 cod. proc. amm., le esposizioni in fatto contenute a pp.
3-9 nella menzionata ordinanza n. 245/2019 del TRGA, reiettiva dell’istanza
di ricusazione, si rileva che il TRGA, nel respingere l’istanza –fondata
sulle ipotesi di «causa pendente» e di «grave inimicizia» tra
due dei magistrati componenti il collegio e uno dei difensori dei
ricorrenti, ai sensi degli artt. 18, comma 1, cod. proc., amm. e 51, comma
1, numero 3), cod. proc. civ.–, ha fatto corretta applicazione dei principi
giurisprudenziali elaborati da questo Consiglio di Stato in tema di
ricusazione, in quanto:
- l’ipotesi della «causa pendente», con riferimento al
processo penale, in applicazione del criterio interpretativo restrittivo e
tassativo sopra enunciato, deve ritenersi integrata soltanto con l’esercizio
dell’azione penale ai sensi degli artt. 60 e 405 cod. proc. pen.;
- infatti, la pendenza del giudizio penale presuppone la richiesta
del pubblico ministero di rinvio a giudizio a norma dell’art. 416 cod. proc.
pen. e con gli altri atti con i quali si chiede al giudice di decidere sulla
pretesa punitiva (v., ex plurimis –seppur con riferimento ed
fattispecie diverse dalla ricusazione–, Cons. Stato, Sez. VI, 13.03.2019, n.
1666; Cons. Stato, Sez. III, 22.01.2016, n. 206);
- nel caso di specie il procedimento penale iscritto sub R.G.N.R.
n. 813/2018 dinanzi al Tribunale di Bolzano, Sezione penale, a carico del
difensore degli originari ricorrenti su denuncia dei giudici ricusati
–peraltro, per ragioni che trovano la loro origine in un precedente processo
svoltosi dinanzi allo stesso TRGA, e quindi attinenti all’esercizio di
attività istituzionali–, non può essere considerato alla stregua di «causa
pendente» ai fini di cui al citato art. 51, comma 1, numero 3), cod. proc.
civ., poiché tale procedimento all’epoca della decisione di primo grado si
trovava nella fase di opposizione alla richiesta di archiviazione ai sensi
dell’art. 409 e ss. cod. proc. pen., formulata dai due magistrati ricusati,
e l’azione penale non risultava ancora esercitata dal pubblico ministero ai
sensi degli artt. 50 e 60 cod. proc. pen. (v., sul punto, Cons. Stato, Sez.
IV, 19.06.2003, n. 3658, secondo cui l’opposizione al decreto che abbia
disposto l’archiviazione dell’esposto penale, ai sensi del combinato
disposto degli artt. 50, comma 1, 405, comma 1, e 409, comma 5, cod. proc.
pen., non integra l’avvenuto esercizio dell’azione penale ed inibisce, di
conseguenza, che si configuri il presupposto della «causa pendente»
ex art. 51 cod. proc. civ., da intendere in senso tecnico-giuridico);
- anticipare la ‘soglia’ dei procedimenti penali, ai fini di
cui all’art. 51, comma 1, numero 3), cod. proc. civ., alla fase anteriore
all’esercizio dell’azione penale, comporterebbe, per un verso, il
pericolo di impedire e/o aggravare l’esercizio, da parte dell’organo
giudicante e/o dei suoi componenti, dei doveri istituzionali di presentare
rapporti o esposti ai competenti organi sia giurisdizionali (quali le
Procure presso i Tribunali o la Corte dei conti) sia disciplinari (quali i
Consigli degli ordini professionali), e, per altro verso, il rischio
di una possibile strumentalizzazione delle denunzie o degli esposti ad opera
delle parti private in funzione della creazione di situazioni di
incompatibilità per eludere il principio della precostituzione del giudice
naturale sancito dall’art. 25 Cost.;
- né nella specie è configurabile l’ipotesi della «grave
inimicizia» dei due componenti del collegio giudicante nei confronti del
menzionato difensore, dovendo questa essere reciproca sicché non è
sufficiente ad integrarla la mera presentazione di una denuncia o, comunque,
di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale o
disciplinare, ma la grave inimicizia deve ricondursi a ragioni private di
rancore o di avversione sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti
istituzionali e alla realtà processuale, con l’indicazione di correlativi
fatti circostanziati, concreti e specifici (v. in tal senso, ex plurimis,
Cass. civ., 31.10.2018, n. 27923; Cass. civ., ord. 24.09.2015, n. 18976; id.,
ord. 24.11.2014), nella specie né allegati né tanto meno provati.
Conclusivamente, il motivo all’esame deve essere disatteso (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 06.05.2021 n. 3556 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: L’obbligo
di astensione sancito dall’art.
51 c.p.c. sussiste solo allorché la grave inimicizia sia reciproca,
trovi fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivi da vicende
estranee allo svolgimento delle funzioni e si estrinsechi in dati di fatto
concreti, precisi e documentati; la grave inimicizia non equivale alla mera
presentazione di una denuncia o comunque di un atto di impulso idoneo a dare
inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in linea di principio,
originare dall'attività consiliare del componente il collegio per questioni
comunque inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a ragioni
private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai
compiti istituzionali.
Sul carattere tassativo delle cause di incompatibilità di cui al richiamato
articolo 51 c.p.c. si è ripetutamente espressa la giurisprudenza che ha
chiarito come esse sfuggano “ad ogni tentativo di manipolazione analogica
all'evidente scopo di tutelare l'esigenza di certezza dell'azione
amministrativa e la stabilità della composizione delle commissioni
giudicatrici. Tanto soprattutto per evitare interferenze o interventi
esterni, preordinati, con effetto parimenti abusivo a quello dell'omessa
astensione di chi versi in patente conflitto d'interessi, a determinare,
mediante usi forzati o infondati di detti obblighi, una composizione gradita
o intimorita dell'organo giudicante”.
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che tali precisazioni sono
ancora più necessarie “sol che si pensi alla regola evincibile dall'art.
51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il
commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi "...se egli stesso... ha
causa pendente... con una delle parti...". In altre parole, la norma, come
s'è visto applicabile per analogia nell'esercizio del pubblico potere,
individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di
ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il
Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza
necessità di verifica di elementi ulteriori. Ebbene, nella specie si trattò
d'un esposto che l'appellato indirizzò a vari soggetti tra cui la predetta
Procura in relazione a certi fatti anteriori, ma il TAR non s'avvede
anzitutto che già l'asserita (o attuata) presentazione di denuncia in sede
penale da parte del ricusante nei confronti del Giudice (o, per analogia,
del commissario di concorso) non costituisce causa di legittima ricusazione
perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente
(per la natura oggettiva della giurisdizione penale) o di grave inimicizia”.
---------------
7. Parimenti infondato è il motivo di ricorso con cui il ricorrente deduce
la illegittimità della delibera impugnata per violazione del principio di
imparzialità, in ragione del fatto che il Commissario Straordinario che ha
adottato il provvedimento impugnato (dott. In.) versava in una situazione di
incompatibilità nei confronti del Me., che aveva proposto contro di lui più
esposti e denunce “nell’adempimento di preciso obbligo di rapporto”
(pag. 5 del ricorso).
Anche tale rilievo è del tutto destituito di fondamento alla luce del
consolidato orientamento secondo il quale l’obbligo di astensione sancito
dall’art.
51 c.p.c. sussiste solo allorché la grave inimicizia sia reciproca,
trovi fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivi da vicende
estranee allo svolgimento delle funzioni e si estrinsechi in dati di fatto
concreti, precisi e documentati (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n.
7170/2018); la grave inimicizia non equivale alla mera presentazione di una
denuncia o comunque di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un
procedimento giudiziale, né può, in linea di principio, originare
dall'attività consiliare del componente il collegio per questioni comunque
inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a ragioni private di
rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti
istituzionali (Cassazione, sez. II, sentenza n. 27923/2018).
Sul carattere tassativo delle cause di incompatibilità di cui al richiamato
articolo 51 c.p.c. si è ripetutamente espressa la giurisprudenza che ha
chiarito come esse sfuggano “ad ogni tentativo di manipolazione analogica
(arg. ex Cons. St., VI, 03.03.2007 n. 1011; id., 26.01.2009 n. 354; id.,
19.03.2013 n. 1606) all'evidente scopo di tutelare l'esigenza di certezza
dell'azione amministrativa e la stabilità della composizione delle
commissioni giudicatrici. Tanto soprattutto per evitare interferenze o
interventi esterni, preordinati, con effetto parimenti abusivo a quello
dell'omessa astensione di chi versi in patente conflitto d'interessi, a
determinare, mediante usi forzati o infondati di detti obblighi, una
composizione gradita o intimorita dell'organo giudicante” (Consiglio di
Stato, sez. III, sentenza n. 1577/2014).
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che tali precisazioni sono
ancora più necessarie “sol che si pensi alla regola evincibile dall'art.
51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il
commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi "...se egli stesso... ha
causa pendente... con una delle parti...". In altre parole, la norma, come
s'è visto applicabile per analogia nell'esercizio del pubblico potere,
individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di
ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il
Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza
necessità di verifica di elementi ulteriori. Ebbene, nella specie si trattò
d'un esposto che l'appellato indirizzò a vari soggetti tra cui la predetta
Procura in relazione a certi fatti anteriori, ma il TAR non s'avvede
anzitutto che già l'asserita (o attuata) presentazione di denuncia in sede
penale da parte del ricusante nei confronti del Giudice (o, per analogia,
del commissario di concorso) non costituisce causa di legittima ricusazione
perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente
(per la natura oggettiva della giurisdizione penale) o di grave inimicizia (cfr.
Cons. St., IV, 02.04.2012 n. 1958)” (Consiglio di Stato, sez. III,
sentenza n. 1577/2014).
Il Collegio non ravvisa, nel caso di specie, la sussistenza dei presupposti,
così come individuati dalla giurisprudenza sopra richiamata, necessari per
poter configurare la contestata causa di incompatibilità. Il ricorrente,
invero, fa riferimento ad esposti e denunce che, oltre ad attenere al
rapporto lavorativo tra i due soggetti e non a rapporti personali, non sono
idonei a dimostrare la reciprocità dell’assunta inimicizia. Si osserva,
peraltro, che non risulta neanche dimostrato che dalle suddette denunce
siano derivati condanne o procedimenti penali a carico del dott. In. (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 04.03.2019 n. 416 - link a
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APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Non
ricorre, nella fattispecie in esame, alcuna delle condizioni tassativamente
previste dall’art.
51 c.p.c. e dall’articolo
42 del dlgs n. 50/2016 in presenza delle quali sussiste l’obbligo di
astensione dalle funzioni di commissario né un potenziale conflitto di
interessi per l’esistenza di grave ragioni di convenienza, di una causa
pendente tra le parti o di una grave inimicizia tra le medesime (che,
peraltro, per essere rilevante ai fini che qui interessano deve essere
reciproca, trovare fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivare
da vicende estranee allo svolgimento delle funzioni ed estrinsecarsi in dati
di fatto concreti, precisi e documentati).
Né è idonea ad invalidare la determinazione di nomina della Commissione
ovvero l’intera procedura di gara (con conseguente necessità di una sua
riedizione) la circostanza che il soggetto, designato Presidente della
Commissione, non abbia compiutamente e preventivamente rappresentato alla
Stazione appaltante l’esistenza di una situazione di potenziale conflitto di
interessi: quel che rileva è, infatti, che le Amministrazioni appellate
abbiano, nel corso del procedimento, correttamente valutato l’inesistenza di
ipotesi tali da determinare la ricorrenza effettiva e concreta di una
situazione di incompatibilità del componente la Commissione, tale da
renderne doverosa l’astensione, senza che possa perciò assumere alcuna
valenza dirimente, ai fini dell’illegittimità dell’esclusione, il fatto che
l’Amministrazione non ne sia stata previamente informata dal commissario
versante, secondo le altre imprese partecipanti alla gara, in potenziale
conflitto, bensì dalla concorrente che di quel conflitto assume l’esistenza.
Ed infatti, una volta accertata –per le ragioni dinanzi esaminate– l’assenza
in capo all’avv. Cu. di una situazione di conflitto (anche solo potenziale)
di interesse con l’odierna appellante, è evidente che nessun obbligo di
preventiva dichiarazione sussistesse in capo a lui e che, conseguentemente,
nessuna conseguenza possa essere connessa alla mancata dichiarazione.
---------------
4.1. In primo luogo, la Sezione qui rileva come devono essere respinte le
censure con cui l’appellante ha dedotto l’esistenza, nel caso di specie, di
una situazione di conflitto di interessi, quanto meno potenziale, in cui
verserebbe l’avv. Cu., membro esterno e Dirigente del Comune di Ardea,
designato quale Presidente della Commissione di gara.
Tale situazione, che conseguirebbe all’adozione nel corso degli anni, da
parte del predetto dirigente, di molteplici provvedimenti pregiudizievoli
nei confronti della sua socia di maggioranza, tali da determinare
l’insorgere di diverse controversie giurisdizionali tra l’appellante e il
Comune di Ardea (di cui una tuttora pendente dinanzi alla Corte di Appello
di Roma e non definita bonariamente proprio per l’assenza della
sottoscrizione dell’avv. Cu. sull’accordo transattivo intervenuto tra le
parti) e comportanti, perfino, una segnalazione (pur senza irrogazione di
sanzioni) all’ANAC per l’asserita falsa dichiarazione da parte degli organi
societari in ordine ai requisiti generali, avrebbe dunque, ad avviso
dell’appellante, imposto l’astensione del predetto dalla funzione di
Presidente della Commissione esaminatrice o, perlomeno, richiesto una
segnalazione dell’incompatibilità alla Stazione appaltante mediante apposita
dichiarazione, sì da consentire alla CUC l’opportuna valutazione circa il
ricorrere delle ipotesi di astensione obbligatoria da parte dei commissari.
4.2. La Sezione qui rileva come le vicende e gli elementi addotti
dall’appellante a sostegno della sua tesi non siano in alcun modo idonei a
ledere o ad esporre a pericolo i principi di imparzialità e buon andamento
dell’azione amministrativa, non consentendo di ravvisare un’effettiva
situazione di conflitto di interesse o di incompatibilità, nemmeno
potenziale, nella posizione dell’avv. Cu.: ciò non tanto a ragione della
risalenza nel tempo dei provvedimenti controversi adottati nei confronti
dell’appellante (la quale ha evidenziato come di questi taluni sono stati,
invece, adottati in epoca piuttosto recente) ovvero della loro assunzione
nei confronti di società diversa da quella appellante (posto che la prima è,
in effetti, socia di maggioranza della seconda al 99 per cento), quanto
piuttosto in considerazione del fatto che detti provvedimenti, benché
abbiano inciso negativamente sulla sfera giuridica della destinataria
(comportando l’esclusione da una procedura gara o la decadenza
dall’affidamento del servizi), sono stati assunti dall’avv. Cu. unicamente
nell’esplicazione delle funzioni dirigenziali, in qualità di RUP o di
dirigente del Servizio competente, presso altro Comune, e sono stati anche
dichiarati legittimi all’esito dei contenziosi instaurati dall’odierna
appellante (si vedano sentenze del Tar per il Lazio n. 11876/2010 e
4719/2015 di reiezione dei ricorsi introduttivi proposti dall’Al.Fo.).
Del resto, quest’ultima non ha dimostrato l’esistenza di una condotta
addebitabile al detto dirigente circa la mancata sottoscrizione dell’accordo
transattivo del 2014 (che avrebbe impedito il componimento bonario della
lite, tuttora pendente, tra il Comune e la Al.Fo.) e anche la mancata
aggiudicazione da parte dell’appellante rispetto a gare in cui il Cu. era
nella Commissione (come pure il diverso esito ottenuto in competizioni in
cui ciò non si è verificato) non costituisce di per sé elemento idoneo a far
insorgere un sospetto consistente di violazione dei principi di
imparzialità, di trasparenza e di parità di trattamento: non è dato,
infatti, comprendere in cosa consisterebbe il presunto interesse
finanziario, economico o personale costituente una possibile minaccia
all’imparzialità o indipendenza nel contesto della procedura de qua sì da
far ritenere fondato e ragionevole il dubbio circa l’esistenza di una
situazione di parziarietà, ostilità o pregiudizio tale da inficiare la
valutazione espressa dall’avv. Cu. nei confronti dell’offerta della società
appellante o, addirittura, da condizionare, visto il ruolo in concreto
rivestito, anche il giudizio formulato dagli altri commissari (sì da
determinare, di fatto, l’ingiustizia del punteggio attribuito e del mancato
superamento della soglia stabilita dal disciplinare ai fini dell’ammissione
della concorrente alle successive fasi di gara).
In tutti i casi evidenziati, invero, l’avv. Cu. si è limitato allo
svolgimento dei propri compiti istituzionali mediante l’adozione di
provvedimenti che, nei casi di esiti contenziosi, sono stati riconosciuti
legittimi in giudizio e riferibili solo all’Ente di appartenenza (come pure
le controversie giurisdizionali che ne sono poi conseguite), senza che in
ciò possano ravvisarsi gli estremi di “oggettivi e innegabili trascorsi
conflittuali” cui fa riferimento l’appellante.
Non ricorre, dunque, nella fattispecie in esame alcuna delle condizioni
tassativamente previste dall’art.
51 c.p.c. e dall’articolo
42 del decreto legislativo n. 50 del 2016 in presenza delle quali
sussiste l’obbligo di astensione dalle funzioni di commissario né un
potenziale conflitto di interessi per l’esistenza di grave ragioni di
convenienza, di una causa pendente tra le parti o di una grave inimicizia
tra le medesime (che, peraltro, per essere rilevante ai fini che qui
interessano deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in
rapporti personali, derivare da vicende estranee allo svolgimento delle
funzioni ed estrinsecarsi in dati di fatto concreti, precisi e documentati).
4.3. Né è idonea ad invalidare la determinazione di nomina della Commissione
ovvero l’intera procedura di gara (con conseguente necessità di una sua
riedizione) la circostanza che il soggetto, designato Presidente della
Commissione, non abbia compiutamente e preventivamente rappresentato alla
Stazione appaltante l’esistenza di una situazione di potenziale conflitto di
interessi: quel che rileva è, infatti, che le Amministrazioni appellate
abbiano, nel corso del procedimento, correttamente valutato l’inesistenza di
ipotesi tali da determinare la ricorrenza effettiva e concreta di una
situazione di incompatibilità del componente la Commissione, tale da
renderne doverosa l’astensione, senza che possa perciò assumere alcuna
valenza dirimente, ai fini dell’illegittimità dell’esclusione, il fatto che
l’Amministrazione non ne sia stata previamente informata dal commissario
versante, secondo le altre imprese partecipanti alla gara, in potenziale
conflitto, bensì dalla concorrente che di quel conflitto assume l’esistenza.
Ed infatti, una volta accertata –per le ragioni dinanzi esaminate– l’assenza
in capo all’avv. Cu. di una situazione di conflitto (anche solo potenziale)
di interesse con l’odierna appellante, è evidente che nessun obbligo di
preventiva dichiarazione sussistesse in capo a lui e che, conseguentemente,
nessuna conseguenza possa essere connessa alla mancata dichiarazione (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 20.12.2018 n. 7170 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Ai
sensi dell'art.
51, numero 3, c.p.c. la "grave inimicizia" del componente del consiglio
dell'ordine nei confronti dell'incolpato deve essere reciproca, non equivale
alla mera presentazione di una denuncia o comunque di un atto di impulso
idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in linea di
principio, originare dall'attività consiliare del componente il collegio per
questioni comunque inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a
ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti
estranei ai compiti istituzionali.
---------------
II.1. II secondo motivo di ricorso del dottor Ma.Po.Ma.Mi. è
infondato.
Ai sensi dell'art. 64 del d.P.R. 05.04.1950, n. 221 (contenente il
regolamento di esecuzione del d.lgs. 13.09.1946, n. 233 sull'esercizio delle
professioni sanitarie), i componenti del consiglio dell'ordine professionale
dei medici, collegio disciplinare, possono essere ricusati per i motivi
stabiliti dal codice di procedura civile e, quindi, anche allorché esistano
rapporti di grave inimicizia con l'incolpato.
Ora, l'oggettiva mancanza di motivazione, da parte della Commissione
centrale, con riferimento al secondo motivo di ricorso per cui
dall'incolpato era stato domandato l'annullamento della sanzione
disciplinare (valendo come motivazione apparente l'argomento che "dalle
evidenze documentali non emergono evidenze probatorie idonee ad attestare
una situazione di conflittualità o di pregiudizio da parte dei componenti
dell'Ordine..."), non si traduce, automaticamente, in un vizio di
omissione di pronuncia, con conseguente annullamento con rinvio della
decisione, quando, come appare nel caso in esame, il motivo di annullamento
avrebbe dovuto essere rigettato, non essendo i fatti allegati dal deducente
di per sé idonei in diritto a sorreggere l'accoglimento dell'impugnazione, e
perciò potendo all'uopo provvedere questa Corte attraverso l'impiego del
potere di correzione della motivazione ai sensi dell'art. 384, comma 4,
c.p.c. (così Cass. Sez. 3, 23/01/2002, n. 743; più in generale, Cass. Sez.
U, 02/02/2017, n. 2731).
Ed allora, per quanto il ricorrente riporta del contenuto della ricusazione
presentata nella memoria depositata per l'udienza disciplinare del
29.09.2014, l'infondatezza della stessa deriva dalla considerazione
dell'interpretazione, offerta da questa Corte, secondo cui la ricusazione
dei componenti del consiglio dell'ordine professionale, ai sensi dell'art.
64 del d.P.R. 05.04.1950, n. 221, non può essere rivolta, come invece
pretende il Mi., nei confronti dell'organo collegiale nel suo complesso, in
quanto il richiamato art. 51 c.p.c. prevede l'astensione e la ricusazione
solo per cause riferibili direttamente o indirettamente al giudice come
persona fisica (Cass. Sez. 3, 02/03/2006, n. 4657).
D'altro canto, ai sensi dell'art.
51, numero 3, c.p.c. la "grave inimicizia" del componente del
consiglio dell'ordine nei confronti dell'incolpato deve essere reciproca,
non equivale alla mera presentazione di una denuncia o comunque di un atto
di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in
linea di principio, originare dall'attività consiliare del componente il
collegio per questioni comunque inerenti all'esercizio professionale, ma
deve riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (cfr. Cass. Sez.
3, 13/04/2005, n. 7683) (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 31.10.2018 n. 27923). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Non
è qui in discussione il principio secondo cui l’obbligo di astensione, per
incompatibilità, dei componenti un organo collegiale si verifica per il sol
fatto che questi siano portatori di interessi personali atti ad inverare una
posizione di conflittualità o anche di divergenza rispetto a quello,
generale, affidato alle cure della P.A., indipendentemente dalla circostanza
che, nel corso del procedimento, che l’organo abbia proceduto in modo
imparziale, o che non via sia prova di condizionamento per effetto del
potenziale conflitto d’interessi.
Non è allora chi non veda, proprio per evitare l’uso strumentale
dell’obbligo d’astensione e della correlata ricusazione, la necessità d’una
lettura assai stringente delle norme ex
art. 51 c.p.c., sia in generale, sia con riguardo alla specifica
fattispecie di conflitto d’interessi, nel caso in esame individuata nella
pendenza di lite.
In termini generali, occorre rammentare che le cause di incompatibilità di
cui al ripetuto
art. 51, com’è noto estensibili a tutti i campi dell'azione
amministrativa quale applicazione dell’obbligo costituzionale d’imparzialità
—maxime alla materia concorsuale—, rivestono un carattere tassativo. Esse
sfuggono quindi ad ogni tentativo di manipolazione analogica all’evidente
scopo di tutelare l’esigenza di certezza dell'azione amministrativa e la
stabilità della composizione delle commissioni giudicatrici. Tanto
soprattutto per evitare interferenze o interventi esterni, preordinati, con
effetto parimenti abusivo a quello dell’omessa astensione di chi versi in
patente conflitto d’interessi, a determinare, mediante usi forzati o
infondati di detti obblighi, una composizione gradita o intimorita
dell’organo giudicante.
Queste precisazioni s’appalesano, agli occhi del Collegio, tanto più
necessarie, sol che si pensi alla regola evincibile dall’art.
51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il
commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi «…se egli stesso... ha
causa pendente... con una delle parti...». In altre parole, la norma, come
s’è visto applicabile per analogia nell’esercizio del pubblico potere,
individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di
ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il
Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza
necessità di verifica di elementi ulteriori.
Ebbene, nella specie si trattò d’un esposto che l’appellato indirizzò a vari
soggetti tra cui la predetta Procura in relazione a certi fatti anteriori,
ma il TAR non s’avvede anzitutto che già l'asserita (o attuata)
presentazione di denuncia in sede penale da parte del ricusante nei
confronti del Giudice (o, per analogia, del commissario di concorso) non
costituisce causa di legittima ricusazione perché essa non è di per sé
idonea a creare una situazione di causa pendente (per la natura oggettiva
della giurisdizione penale) o di grave inimicizia. Tanto non volendo
considerare quanto già detto prima, cioè che l’abuso della denuncia sarebbe
uno strumento per evitare una composizione della Commissione non gradita al
candidato.
Né basta: rettamente l’appellante rende noto il fatto che del predetto
esposto l’ufficio giudiziario adito non poté fornire riscontro, donde
l’assenza d’ogni seria prova, a tutto concedere, sia della “pendenza” della
lite, sia della conoscenza di questa da parte del dott. Pu.. Del pari,
siffatta pendenza non si verifica nella controversia instaurata
dall’appellato innanzi al TAR Milano, giacché di essa o dei suoi estremi non
v’è traccia, né riscontro nell’impugnazione di primo grado. Pare solo che su
di essa penda tuttora un ricorso in appello, proposto dallo stesso dott. La.
innanzi a questo Consiglio, ma non ancora esitato.
È solo da precisare, ai fini dell’esatto inquadramento del concetto di
«grave inimicizia», che esso descrive non già un sentimento di mera
antipatia o di acrimonia, bensì una situazione oggettiva ed articolata
(originata da fatti e circostanze complete, significative ed estranee al
processo) di ostilità talmente radicata e tenace, da far presumere che il
Giudice (o, per analogia, il commissario di concorso) decida,
aprioristicamente, in senso contrario al suo avversario.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Lombardia–Milano, sez. IV, n.
1230/2011, resa tra le parti e concernente gli atti della selezione interna
per la progressione verticale nel profilo collaboratore amministrativo;
...
L’ASL della Provincia di Varese, che aveva indetto una procedura selettiva
per la progressione verticale nel profilo professionale Collaboratore
amministrativo —cui, senza esito, partecipò l’appellato (dott. Ma.La.)—,
impugna la sentenza con cui il TAR accolse il ricorso di questi sotto il
solo profilo della mancata astensione del presidente della relativa
Commissione giudicatrice (dott. Lu.Pu.), che versava in pretesa situazione
d’inimicizia nei suoi riguardi.
Si può prescindere da ogni considerazione sull’ammissibilità del ricorso di
primo grado, in quanto l’appello è meritevole d’accoglimento nel merito, per
le ragioni di cui appresso.
Al riguardo, il TAR ha accolto, di tutti i svariati motivi del gravame
dell’odierno appellato, soltanto quello dell’inimicizia con il dott. Pu., in
base ai documenti allegati dal n. 8) al n. 11) della produzione di primo
grado.
In particolare, il TAR rende nota anzitutto la segnalazione, da parte
dell’appellato stesso ed in più occasioni precedenti allo svolgimento di tal
procedura, di «… presunte e gravi anomalie legate alla posizione
lavorativa, nell’ambito dell’Azienda sanitaria..., di una stretta congiunta
del predetto dott. Pu.…». Inoltre, l’appellato aveva a suo tempo
prodotto un esposto, nei confronti del medesimo dott. Pu., alla Procura
della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio, pur dando lealmente
atto che, alla data di decisione del ricorso di primo grado, il relativo
procedimento penale fosse stato già archiviato.
Ebbene, lo deduce espressamente l’ASL appellante, i documenti, su cui il TAR
ha formato il suo convincimento circa l’illegittima omessa astensione del
dott. Pu., riguardano:
A) – il n. 8) la missiva rivolta, tra gli altri, a detta Procura
della Repubblica, relativamente ad irregolarità accadute in un pregresso
concorso cui partecipò l’appellato;
B) – i nn. 9) e 10) le corrispondenti istanze di accesso a
documenti amministrativi, rivolte non all’ASL, ma al Commissario
straordinario della soppressa USSL n. 2 di Gallarate;
C) – il n. 11), la risposta fornita da quest’ultimo all’appellato,
in una con il disposto accesso agli atti.
Reputa sul punto il Collegio, in disparte ogni questione sulla risalenza
delle vicende descritte in tali documenti, nonché sulla circostanza che l’ASL
o il dott. Pu. ne avessero, o no, avuto contezza anteriore, che il loro
contenuto non integri i rigorosi presupposti affinché si determini
l’astensione ex
art. 51 c.p.c., neppure con lo specifico riguardo alla pendenza di lite
tra i soggetti coinvolti.
Non è qui in discussione il principio, pur rammentato dal TAR e da cui il
Collegio non ha motivo di discostarsi, secondo cui l’obbligo di astensione,
per incompatibilità, dei componenti un organo collegiale si verifica per il
sol fatto che questi siano portatori di interessi personali atti ad inverare
una posizione di conflittualità o anche di divergenza rispetto a quello,
generale, affidato alle cure della P.A., indipendentemente dalla circostanza
che, nel corso del procedimento, che l’organo abbia proceduto in modo
imparziale, o che non via sia prova di condizionamento per effetto del
potenziale conflitto d’interessi.
Non è allora chi non veda, proprio per evitare l’uso strumentale
dell’obbligo d’astensione e della correlata ricusazione, la necessità d’una
lettura assai stringente delle norme ex
art. 51 c.p.c., sia in generale, sia con riguardo alla specifica
fattispecie di conflitto d’interessi, nel caso in esame individuata nella
pendenza di lite.
In termini generali, occorre rammentare che le cause di incompatibilità di
cui al ripetuto
art. 51, com’è noto (cfr., per tutti, Cons. St., III, 24.01.2013 n. 477)
estensibili a tutti i campi dell'azione amministrativa quale applicazione
dell’obbligo costituzionale d’imparzialità —maxime alla materia
concorsuale—, rivestono un carattere tassativo. Esse sfuggono quindi ad ogni
tentativo di manipolazione analogica (arg. ex Cons. St., VI, 03.03.2007 n.
1011; id., 26.01.2009 n. 354; id., 19.03.2013 n. 1606) all’evidente scopo di
tutelare l’esigenza di certezza dell'azione amministrativa e la stabilità
della composizione delle commissioni giudicatrici. Tanto soprattutto per
evitare interferenze o interventi esterni, preordinati, con effetto
parimenti abusivo a quello dell’omessa astensione di chi versi in patente
conflitto d’interessi, a determinare, mediante usi forzati o infondati di
detti obblighi, una composizione gradita o intimorita dell’organo
giudicante.
Queste precisazioni s’appalesano, agli occhi del Collegio, tanto più
necessarie, sol che si pensi alla regola evincibile dall’art.
51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il
commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi «…se egli stesso... ha
causa pendente... con una delle parti...». In altre parole, la norma,
come s’è visto applicabile per analogia nell’esercizio del pubblico potere,
individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di
ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il
Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza
necessità di verifica di elementi ulteriori.
Ebbene, nella specie si trattò d’un esposto che l’appellato indirizzò a vari
soggetti tra cui la predetta Procura in relazione a certi fatti anteriori,
ma il TAR non s’avvede anzitutto che già l'asserita (o attuata)
presentazione di denuncia in sede penale da parte del ricusante nei
confronti del Giudice (o, per analogia, del commissario di concorso) non
costituisce causa di legittima ricusazione perché essa non è di per sé
idonea a creare una situazione di causa pendente (per la natura oggettiva
della giurisdizione penale) o di grave inimicizia (cfr. Cons. St., IV,
02.04.2012 n. 1958). Tanto non volendo considerare quanto già detto prima,
cioè che l’abuso della denuncia sarebbe uno strumento per evitare una
composizione della Commissione non gradita al candidato.
Né basta: rettamente l’appellante rende noto, lo si legge bene in sentenza,
il fatto che del predetto esposto l’ufficio giudiziario adito non poté
fornire riscontro, donde l’assenza d’ogni seria prova, a tutto concedere,
sia della “pendenza” della lite, sia della conoscenza di questa da
parte del dott. Pu.. Del pari, siffatta pendenza, come giustamente precisa
l’appellante, non si verifica nella controversia instaurata dall’appellato
innanzi al TAR Milano, giacché di essa o dei suoi estremi non v’è traccia,
né riscontro nell’impugnazione di primo grado (cfr. pag. 18 del relativo
ricorso). Pare solo che su di essa penda tuttora un ricorso in appello,
proposto dallo stesso dott. La. innanzi a questo Consiglio, ma non ancora
esitato.
È solo da precisare, ai fini dell’esatto inquadramento del concetto di «grave
inimicizia», che esso descrive non già un sentimento di mera antipatia o
di acrimonia, bensì una situazione oggettiva ed articolata (originata da
fatti e circostanze complete, significative ed estranee al processo) di
ostilità talmente radicata e tenace, da far presumere che il Giudice (o, per
analogia, il commissario di concorso) decida, aprioristicamente, in senso
contrario al suo avversario.
In questi termini, l’appello va accolto, ma giusti motivi suggeriscono la
non ripetibilità delle spese del presente giudizio nei confronti
dell’appellato (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 02.04.2014 n. 1577 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aggiornamento al
31.03.2022 (ore 23,59) |
|
Dopo l'AGGIORNAMENTO
AL 31.08.2020, ecco altri pronunciamenti in
materia:
le misure di salvaguardia si applicano anche ai
piani attuativi e non solo al rilascio dei titoli
edilizi. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: V.
De Napoli,
Le misure di salvaguardia: alcuni spunti di riflessione
(06.05.2019 - link a https://blogs.dlapiper.com).
---------------
L’adozione del Piano di Governo del Territorio di Milano,
con la Delibera di Consiglio Comunale del 05.03.2019, che ha
fatto scattare l’operatività delle cd. Misure di
Salvaguardia, è l’occasione per ricordare cosa sono queste
misure e a quali strumenti urbanistici si collegano.
Lo spunto è anche offerto dalla recente
sentenza 08.03.2019 n. 1599 del Consiglio di Stato che
ha chiarito che l’istituto in questione si applica “a
tutti i piani comunali, generali o particolareggiati,
indipendentemente dal loro nomen iuris e dalla loro
configurazione procedimentale, sempre che sussistano gli
stessi presupposti della disposizione statale“.
Lo scopo delle Misure di salvaguardia.
Le misure di salvaguardia, in una prospettiva esclusivamente
cautelare, hanno lo scopo di evitare che, nel periodo
intercorrente tra l’adozione e l’approvazione definitiva di
un piano urbanistico, il rilascio di provvedimenti che
consentono attività edificatorie (o comunque trasformative)
del territorio –alla stregua di norme più permissive– possa
compromettere l’assetto urbanistico previsto dagli strumenti
adottati, ma non ancora approvati.
Per queste ragioni, fino all’approvazione di un nuovo
strumento urbanistico pianificatorio, ogni determinazione
sulle domande che involgano attività trasformative del
territorio dovrà essere sospesa in attesa dell’entrata in
vigore del nuovo piano, alla stregua del quale dovrà
assumersi la determinazione definitiva. Da qui la natura
obbligatoria, vincolata e temporanea di dette misure.
Gli strumenti a cui si applica.
Introdotto dall’art. 4 del D.L. n. 740/1948 sui piani di
ricostruzione, disciplinato dall’articolo unico della L. n.
1902/1952 e riferito esclusivamente ai piani regolatori
generali e ai piani particolareggiati, l’istituto delle
misure di salvaguardia è stato esteso, nel corso degli anni
dapprima dal legislatore e poi a livello giurisprudenziale,
a molti strumenti urbanistici (piani di lottizzazione, piani
di zona PEEP, piani per insediamenti produttivi, piani di
recupero).
Attualmente è disciplinato dall’art. 12, commi 3 e 4, del
D.P.R. n. 380/2001 che ne ha cristallizzato la forza
espansiva laddove, nel confermarne l’obbligatorietà, ne ha
riconosciuto l’applicabilità agli “strumenti urbanistici
adottati” in tal modo estendendolo a qualunque piano
urbanistico.
La giurisprudenza amministrativa ha attribuito una valenza
generale a detto istituto riconoscendone l’applicabilità a
qualsivoglia atto dell’amministrazione (autoritativo o
convenzionale) che possa comportare la modificazione dello
stato di fatto o di diritto dei suoli, difformemente dalle
previsioni del piano in corso di approvazione (cfr. ex
pluribus, Cons. Stato, Sez. IV, 08.06.2000, n. 3243).
Presupposto necessario è che gli strumenti urbanistici siano
stati formalmente adottati, a prescindere dalla
pubblicazione della delibera di adozione. Si precisa,
inoltre, che l’istituto in esame può trovare applicazione
non soltanto in relazione al permesso di costruire (che
richiede, quindi, l’adozione di un provvedimento espresso da
parte dell’amministrazione), ma anche con riferimento alle
DIA perfezionatesi nel lasso di tempo intercorrente tra la
approvazione del piano e la sua entrata in vigore.
Le istanze presentate durante la vigenza della
salvaguardia.
Nell’ipotesi in cui, quindi, sia in corso di approvazione la
nuova strumentazione urbanistica, dinanzi alla presentazione
di un’istanza diretta ad ottenere un titolo edilizio gli
scenari potranno essere i seguenti:
- in primo luogo, se il progetto sia in contrasto con la
normativa urbanistica vigente l’intervento non potrà essere
autorizzato, anche se eventualmente conforme con il nuovo
piano adottato e in corso di approvazione, con la
conseguenza che non vengono neppure in rilievo le misure di
salvaguardia. Se manca la conformità agli strumenti
urbanistici vigenti, infatti, la domanda va rigettata anche
in presenza di una istanza conforme alla previsione
urbanistica adottata;
- diversamente, se il progetto, autorizzabile in base alla
normativa vigente, non sia aderente a quella del piano in
itinere, l’intervento non potrà essere negato, ma dovrà
essere sospesa qualsiasi determinazione al riguardo, sino
alla definitiva determinazione del nuovo strumento
urbanistico, con la conseguenza che l’amministrazione
comunale dovrà adottare la misura di salvaguardia ai sensi
dell’art. 12 del D.P.R. n. 380/2001.
Detta misura, pertanto, pur non consentendo immediatamente
l’attività edificatoria attribuisce all’interessato una
significativa utilità sostanziale –se pure non attuale– non
ravvisabile nel provvedimento negativo, poiché
definitivamente preclusivo della realizzazione della
costruzione.
L’esigenza sottesa alle misure di salvaguardia è di
carattere conservativo e deve essere individuata nella
necessità che le richieste dei privati –fondate su una
pianificazione ritenuta non più attuale– finiscano per
alterare profondamente la situazione di fatto e, di
conseguenza, per pregiudicare definitivamente proprio gli
obiettivi generali cui invece è finalizzata la
programmazione urbanistica generale, rendendo estremamente
difficile, se non addirittura impossibile, l’attuazione del
piano urbanistico in itinere (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
20.01.2014, n. 257).
Il carattere obbligatorio e vincolato.
Nell’istituto di salvaguardia delineato dall’art. 12
convergono due interessi: quello del privato
all’edificazione, secondo gli strumenti urbanistici vigenti,
e quello pubblico, teso a realizzare l’effettività
delle previsioni urbanistiche fin dal momento della loro
adozione.
Di qui il carattere obbligatorio e vincolato della misura,
sia nella emanazione sia nel contenuto, una volta che venga
accertata l’incompatibilità del progetto presentato con le
norme dello strumento in itinere, ivi inclusa l’adozione di
varianti.
Sicché, in costanza di un procedimento di approvazione di un
piano urbanistico o sue varianti, grava sull’amministrazione
comunale l’onere di sospendere ogni determinazione sulla
domanda di rilascio del permesso di costruire in attesa
della definitiva approvazione del piano (cfr.
ex pluribus, Cons. Stato, Sez. IV,
23.07.2009, n. 4660; Cons. Stato, Sez. IV,
28.02.2005, n. 764; Cons. Stato, Sez. IV,
06.03.1998, n. 382).
La temporaneità.
Proprio perché si traducono in un divieto della facoltà di
edificare –giustificato dall’interesse pubblico che
accompagna la pianificazione delle trasformazioni
territoriali– le misure di salvaguardia non possono che
avere natura eccezionale e temporanea, commisurabile al
tempo ragionevolmente occorrente per il perfezionamento
della nuova strumentazione urbanistica, vincolando così le
amministrazioni al fine di evitare un incontrollato
trascinamento in avanti della durata di tali misure
impeditive (cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. V,
25.05.2002, n. 1682; Cons. Stato, Sez. V, 06.12.1999, n.
2496).
Il termine di durata delle misure di salvaguardia è stato
fissato dal legislatore in 3 anni dalla data della delibera
di adozione del piano –e protratto sino a 5 anni per quei
Comuni che abbiano presentato il piano alla Regione per
l’approvazione-.
Detti termini hanno carattere perentorio, come ribadito pure
dalla Corte Costituzionale con la decisione n. 109/2013 che,
nel dichiarare l’incostituzionalità della legislazione
regionale della Lombardia laddove aveva previsto una durata
temporale delle misure di salvaguardai eccedente rispetto a
quella fissata dalla norma statale, ha ribadito la natura
temporanea e cautelativa di detto istituto, nonché la sua
valenza mista: edilizia perché volta ad incidere sui tempi
dell’attività edificatoria, ed urbanistica, perché
finalizzata alla salvaguardia degli assetti urbanistici in
itinere (Corte Cost. 29.05.2013, n. 109; cfr. pure Cons.
Stato, Ad.Plen.,
07.04.2008, n. 2). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: E’
noto che in presenza di uno strumento urbanistico adottato (cioè deliberato
per la prima volta dal Consiglio comunale) scattano le misure di
salvaguardia di cui all’articolo unico della legge 03.11.1952, n. 1902 (oggi
articolo 12, comma 3, del Testo Unico per l’edilizia approvato con d.P.R. n.
380 del 2001), in forza delle quali il Comune deve sospendere ogni
determinazione sulle domande di permesso di costruire che siano in contrasto
con lo strumento urbanistico adottato.
Ancorché l’articolo unico della legge n. 1902 del 1952, parli di sospensione
della “licenza di costruzione” (poi “concessione edilizia” e ora “permesso
di costruire”), e l’articolo 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, a sua
volta, parli di sospensione del “permesso di costruire”, le misure di
salvaguardia si applicano anche alla denuncia di inizio attività. Qualora
l’intervento denunciato sia in contrasto con le previsioni di uno strumento
urbanistico adottato prima che siano trascorsi i trenta giorni dalla
presentazione della D.I.A., è obbligatoria l’applicazione delle misure di
salvaguardia (con la conseguente necessità di emettere un provvedimento che
inibisca l’esecuzione dei lavori previsti dalla stessa D.I.A.).
Ad avviso del Collegio le misure di salvaguardia trovano applicazione fin
dalla data della deliberazione comunale di adozione dello strumento
urbanistico generale, e quindi prima che la delibera divenga esecutiva per
effetto della pubblicazione.
La funzione delle misure di salvaguardia è, infatti, quella di impedire che,
nelle more del complesso procedimento di approvazione definitiva dello
strumento urbanistico, siano posti in essere interventi edilizi che
comportino una modificazione del territorio tale da rendere estremamente
difficile se non addirittura impossibile l’attuazione del piano urbanistico
in itinere.
Proprio per tale finalità di carattere conservativo, le misure devono
ritenersi operative sin dal momento in cui l’organo deliberativo dell’ente
locale ha manifestato la propria volontà sull’adozione del piano,
quand’anche la relativa deliberazione non sia ancora esecutiva.
La mera adozione della delibera, infatti, al di là della sua esecutività,
configura inequivocabilmente l’assetto che l’Amministrazione intende
imprimere al territorio e tale assetto non può –nelle more del procedimento
che dovrebbe portare alla definitiva approvazione del piano– essere messo in
discussione o addirittura vanificato per effetto di interventi edilizi con
esso contrastanti.
---------------
L’appello è fondato e merita di essere accolto per il seguente ordine di
considerazioni.
E’ noto che in presenza di uno strumento urbanistico adottato (cioè
deliberato per la prima volta dal Consiglio comunale) scattano le misure di
salvaguardia di cui all’articolo unico della legge 03.11.1952, n. 1902 (oggi
articolo 12, comma 3, del Testo Unico per l’edilizia approvato con d.P.R. n.
380 del 2001), in forza delle quali il Comune deve sospendere ogni
determinazione sulle domande di permesso di costruire che siano in contrasto
con lo strumento urbanistico adottato.
Ancorché l’articolo unico della legge n. 1902 del 1952, parli di sospensione
della “licenza di costruzione” (poi “concessione edilizia” e
ora “permesso di costruire”), e l’articolo 12, comma 3, del d.P.R. n.
380 del 2001, a sua volta, parli di sospensione del “permesso di
costruire”, le misure di salvaguardia si applicano anche alla denuncia
di inizio attività. Qualora l’intervento denunciato sia in contrasto con le
previsioni di uno strumento urbanistico adottato prima che siano trascorsi i
trenta giorni dalla presentazione della D.I.A., è obbligatoria
l’applicazione delle misure di salvaguardia (con la conseguente necessità di
emettere un provvedimento che inibisca l’esecuzione dei lavori previsti
dalla stessa D.I.A.).
Ad avviso del Collegio le misure di salvaguardia trovano applicazione fin
dalla data della deliberazione comunale di adozione dello strumento
urbanistico generale, e quindi prima che la delibera divenga esecutiva per
effetto della pubblicazione.
La funzione delle misure di salvaguardia è, infatti, quella di impedire che,
nelle more del complesso procedimento di approvazione definitiva dello
strumento urbanistico, siano posti in essere interventi edilizi che
comportino una modificazione del territorio tale da rendere estremamente
difficile se non addirittura impossibile l’attuazione del piano urbanistico
in itinere.
Proprio per tale finalità di carattere conservativo, le misure devono
ritenersi operative sin dal momento in cui l’organo deliberativo dell’ente
locale ha manifestato la propria volontà sull’adozione del piano,
quand’anche la relativa deliberazione non sia ancora esecutiva.
La mera adozione della delibera, infatti, al di là della sua esecutività,
configura inequivocabilmente l’assetto che l’Amministrazione intende
imprimere al territorio e tale assetto non può –nelle more del procedimento
che dovrebbe portare alla definitiva approvazione del piano– essere messo in
discussione o addirittura vanificato per effetto di interventi edilizi con
esso contrastanti.
A tale conclusione si perviene anche dall’esegesi della specifica disciplina
sulle misure di salvaguardia.
In primo luogo, deve rilevarsi che l’abrogato articolo unico della legge n.
1902/1952 stabiliva espressamente che le misure fossero disposte <<A
decorrere dalla data della deliberazione comunale di adozione dei piani (…)>>;
mentre l’attuale art. 12, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 fissa la durata
massima delle misure con decorrenza <<(…) dalla data di adozione dello
strumento urbanistico>>, prescindendo quindi dall’esecutività della
suddetta delibera di adozione.
Se, dunque, la normativa relativa alle misure di salvaguardia ha lo scopo di
evitare la realizzazione di interventi che nelle more dell’approvazione
degli strumenti urbanistici adottati possono compromettere l’assetto del
territorio programmato dal Comune, vanificandone la sua concreta attuazione
e se, proprio per ovviare a tali inconvenienti, la legge ha stabilito che a
decorrere dalla data della deliberazione di adozione dei piani regolatori
generali e fino all’emanazione del decreto di approvazione il dirigente
dell’ufficio comunale sia obbligato a sospendere ogni determinazione in
ordine ai progetti che risultino in contrasto con le relative previsioni, ne
consegue che, attesa l’immediata operatività delle misure di salvaguardia e
verificata l’assenza della c.d. "doppia conformità", ovvero la
conformità dell’intervento proposto agli strumenti urbanistici vigenti e a
quelli medio tempore adottati, l’Amministrazione nella specie, come
fondatamente dedotto nel primo motivo di appello, non poteva che procedere
all’annullamento del silenzio-assenso formatosi nel frattempo in relazione
alla D.I.A. presentata dalla signora Ma., odierna appellata, in data
22.07.2009.
In accoglimento dell’appello, e rimanendo assorbito ogni altro motivo od
eccezione, la sentenza impugnata, in quanto in contrasto con la normativa in
materia di misure di salvaguardia e con la ratio che la sottende, deve,
dunque, essere riformata (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.01.2014 n. 257 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L’entrata
in vigore delle misure di salvaguardia è sempre collegata all’adozione della
delibera del consiglio comunale del progetto di variante al PRG ovvero alla
modifica sostanziale dello stesso.
L’esigenza sottesa all'applicazione della misura di salvaguardia di cui
all'art. 12, comma 3, D.P.R. 06.06.2001 n. 380 -fin dal momento
dell'adozione di una variante al piano regolatore generale o della sua
modifica sostanziale contenente una differente disciplina urbanistica del
progetto di variante- deve infatti essere individuata con la necessità che,
nelle more del relativo procedimento di approvazione, le richieste dei
privati fondate su una pianificazione ritenuta non più attuale, finiscano
per alterare profondamente la situazione di fatto e, di conseguenza, per
pregiudicare definitivamente proprio gli obiettivi generali cui invece è
finalizzata la programmazione urbanistica generale.
Tali finalità naturalmente sussistono identicamente anche in caso di
richieste di interventi realizzabili senza alcun titolo abilitativo come nel
caso della d.i.a. di cui all’art. 22 per gli interventi non riconducibili
all'elenco di cui all'articolo 10 e all'articolo 6, in quanto gli stessi
comunque devono essere “… conformi alle previsioni degli strumenti
urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia
vigente”.
---------------
2.§. Le doglianze del Comune avverso la decisione impugnata meritano di
essere condivise nei sensi e nei termini che seguono.
In primo luogo si deve rilevare che l’entrata in vigore delle misure di
salvaguardia è sempre collegata all’adozione della delibera del consiglio
comunale del progetto di variante al PRG ovvero alla modifica sostanziale
dello stesso (e quindi, nel caso, della deliberazione n. 46 del 29.05.2000).
L’esigenza sottesa all'applicazione della misura di salvaguardia di cui
all'art. 12, comma 3, D.P.R. 06.06.2001 n. 380 -fin dal momento
dell'adozione di una variante al piano regolatore generale o della sua
modifica sostanziale contenente una differente disciplina urbanistica del
progetto di variante- deve infatti essere individuata con la necessità che,
nelle more del relativo procedimento di approvazione, le richieste dei
privati fondate su una pianificazione ritenuta non più attuale, finiscano
per alterare profondamente la situazione di fatto e, di conseguenza, per
pregiudicare definitivamente proprio gli obiettivi generali cui invece è
finalizzata la programmazione urbanistica generale (cfr. Consiglio Stato
sez. IV 17.12.2008 n. 6242; Sez. V, Ord.za Cautelare n. 303 del 27.01.2004).
Tali finalità naturalmente sussistono identicamente anche in caso di
richieste di interventi realizzabili senza alcun titolo abilitativo come nel
caso della d.i.a. di cui all’art. 22 per gli interventi non riconducibili
all'elenco di cui all'articolo 10 e all'articolo 6, in quanto gli stessi
comunque devono essere “… conformi alle previsioni degli strumenti
urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia
vigente” (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 26.07.2012 n. 4254 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: In
costanza di procedimento di approvazione del piano regolatore generale e sue
varianti, nel corso della durata della normativa di salvaguardia di cui
all'articolo unico della legge n. 1902 del 1952 ed all'art. 3, ultimo comma,
della legge n. 765 del 1967, è consentito il rilascio del permesso di
costruire solo qualora il progetto si presenti conforme sia allo strumento
urbanistico vigente sia a quello in corso di approvazione.
In caso contrario, grava sul Comune l'onere di sospendere ogni
determinazione in attesa della definitiva approvazione del piano in itinere,
la normativa relativa alle misure di salvaguardia non determinando
l'anticipata vigenza degli strumenti urbanistici adottati in sede comunale.
---------------
L’appello è infondato.
Come noto, in costanza di procedimento di approvazione del piano regolatore
generale e sue varianti, nel corso della durata della normativa di
salvaguardia di cui all'articolo unico della legge n. 1902 del 1952 ed
all'art. 3, ultimo comma, della legge n. 765 del 1967, è consentito il
rilascio del permesso di costruire solo qualora il progetto si presenti
conforme sia allo strumento urbanistico vigente sia a quello in corso di
approvazione.
In caso contrario, grava sul Comune l'onere di sospendere ogni
determinazione in attesa della definitiva approvazione del piano in itinere,
la normativa relativa alle misure di salvaguardia non determinando
l'anticipata vigenza degli strumenti urbanistici adottati in sede comunale.
Nel caso in esame, correttamente il Comune di Casagiove ha ritenuto in
sostanza che sussistessero i presupposti per l’applicabilità delle misure di
salvaguardia, rifiutando il rilascio di permesso di costruire in contrasto
con il piano regolatore vigente, la cui indicata variante (rispetto alla
quale la pretesa attività edificatoria si sarebbe potuta considerare
assentibile) doveva considerarsi ancora in itinere, sia alla data di
adozione del diniego comunale impugnato, che alla data di contestata
interruzione, ad opera della Regione, dell’iter procedurale della variante
medesima (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.07.2009 n. 4660 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La
misura di salvaguardia comunale di cui all'art. 12, comma 3, dpr 380/2001
consiste nella sospensione di ogni determinazione in ordine alla domanda di
permesso di costruire, in caso di contrasto dell’intervento da realizzare
con le previsioni degli strumenti urbanistici adottati.
Tale misura presuppone che la domanda sia conforme alla strumentazione
vigente ma non anche a quella adottata.
Se manca la conformità agli strumenti urbanistici vigenti, la domanda di
permesso di costruire và rigettata, senza applicazione della misura
soprassessoria, anche in presenza di un’istanza conforme alla previsione
urbanistica adottata.
Il provvedimento soprassessorio ha natura cautelare e temporanea, in quanto
impone al privato, che abbia presentato un progetto conforme alla
pianificazione vigente, di attendere –per un periodo di tempo da tre a
cinque anni– il perfezionamento delle previsioni adottate, mediante
l’approvazione: pertanto, l’attività edificatoria rimane sì regolata dallo
strumento urbanistico vigente, salvo il limite legale, per cui possono
essere rilasciati solo permessi di costruire che non contrastino con le
previsioni del piano adottato ed in attesa di approvazione.
Ne consegue che:
-
da un lato, è illegittimo il diniego di permesso, in luogo della
sospensione delle determinazioni sull’istanza di permesso,
- dall’altro, non può essere rilasciato un permesso che sia
conforme alle previsioni adottate ma in contrasto con quelle vigenti.
In via sostanziale, non è sospesa ogni determinazione –come si esprime la
disposizione in esame– bensì solo l’accoglimento dell’istanza che è conforme
agli strumenti urbanistici vigenti, ma in contrasto con le previsioni
adottate.
---------------
Anche nell’istituto della salvaguardia, delineato dall’art. 12 cit.,
convergono due interessi, quello del privato all’edificazione,
secondo gli strumenti urbanistici vigenti, e quello pubblico, teso a
realizzare l’effettività delle previsioni urbanistiche fin dal momento della
loro adozione.
Da qui
- il carattere vincolato della misura, sia nell’emanazione sia nel
contenuto, una volta che venga accertata l’incompatibilità del progetto
presentato con le norme dello strumento in itinere;
- la necessità di una congrua motivazione che specifichi in cosa
consista il contrasto, in relazione alla complessità del singolo caso;
- la responsabilità dell’amministrazione sub specie di colpa grave
del dirigente del competente ufficio comunale, in caso di illegittima omessa
applicazione della misura.
---------------
18. Scendendo all’esame del prospettato vizio proprio della misura di
salvaguardia (motivo n. 6 dell’atto di gravame che reitera la censura di
violazione dell’art. 12, T.U. edilizia), la sezione osserva che la doglianza
è infondata.
18.1. La misura di salvaguardia comunale di cui al menzionato art. 12, comma
3, consiste nella sospensione di ogni determinazione in ordine alla domanda
di permesso di costruire, in caso di contrasto dell’intervento da realizzare
con le previsioni degli strumenti urbanistici adottati.
Tale misura presuppone che la domanda sia conforme alla strumentazione
vigente ma non anche a quella adottata.
Se manca la conformità agli strumenti urbanistici vigenti, la domanda di
permesso di costruire và rigettata, senza applicazione della misura
soprassessoria, anche in presenza di un’istanza conforme alla previsione
urbanistica adottata.
Il provvedimento soprassessorio ha natura cautelare e temporanea, in quanto
impone al privato, che abbia presentato un progetto conforme alla
pianificazione vigente, di attendere –per un periodo di tempo da tre a
cinque anni– il perfezionamento delle previsioni adottate, mediante
l’approvazione: pertanto, l’attività edificatoria rimane sì regolata dallo
strumento urbanistico vigente, salvo il limite legale, per cui possono
essere rilasciati solo permessi di costruire che non contrastino con le
previsioni del piano adottato ed in attesa di approvazione.
Ne consegue che,
da un lato, è illegittimo il diniego di permesso, in luogo della
sospensione delle determinazioni sull’istanza di permesso, dall’altro,
non può essere rilasciato un permesso che sia conforme alle previsioni
adottate ma in contrasto con quelle vigenti: in via sostanziale, non è
sospesa ogni determinazione –come si esprime la disposizione in esame– bensì
solo l’accoglimento dell’istanza che è conforme agli strumenti urbanistici
vigenti, ma in contrasto con le previsioni adottate (cfr. sez. V,
22.02.2002, n. 1079; sez. II, 15.01.1997, n. 817; sez. V, 10.12.1990, n.
856).
Anche nell’istituto della salvaguardia delineato dall’art. 12 cit.,
convergono due interessi, quello del privato all’edificazione,
secondo gli strumenti urbanistici vigenti, e quello pubblico, teso a
realizzare l’effettività delle previsioni urbanistiche fin dal momento della
loro adozione.
Da qui
- il carattere vincolato della misura, sia nell’emanazione sia nel
contenuto, una volta che venga accertata l’incompatibilità del progetto
presentato con le norme dello strumento in itinere (cfr. sez. V,
30.04.1997, n. 421);
- la necessità di una congrua motivazione che specifichi
in cosa consista il contrasto, in relazione alla complessità del singolo
caso (cfr. sez. IV, 06.03.1998, n. 282);
- la responsabilità
dell’amministrazione sub specie di colpa grave del dirigente del competente
ufficio comunale, in caso di illegittima omessa applicazione della misura (cfr.
sez. V, 15.02.2002, n. 924; Cass. Sez. un., 23.07.1993, n. 8239) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.02.2005 n. 764 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La circostanza che la variante vigente è solo adottata, e non anche
approvata dalla Regione, impedisce al Comune di pronunciare un diniego della
concessione edilizia e gli impone di adottare le misure di salvaguardia di
cui al combinato disposto dell’articolo unico della L. n. 1902/1952 e
dell’art. 3, ult. c., L. n. 765/1967.
Né, ancora, può fondatamente reputarsi l’atto soprassessorio equivalente ad
un diniego, ai fini della soddisfazione degli interessi sostanziali dei
richiedenti, atteso che la misura di salvaguardia non può essere
legittimamente protratta per un periodo complessivo superiore a cinque anni
dalla data della delibera di adozione della variante e che, quindi, qualora
nel predetto termine non intervenga l’approvazione dello strumento
urbanistico adottato, viene meno qualsiasi effetto impeditivo del rilascio
del titolo edilizio.
Ne discende che l’adozione della misura di salvaguardia, pur non consentendo
immediatamente l’attività edificatoria, attribuisce all’interessato una
significativa utilità sostanziale, per quanto non attuale, non ravvisabile
nel provvedimento negativo (in quanto definitivamente preclusivo della
realizzazione della costruzione).
---------------
Come, infatti, correttamente
rilevato dal TAR, con la sentenza della quale si chiedeva l’ottemperanza con
il ricorso disatteso con la decisione impugnata, la circostanza che la
variante vigente era stata solo adottata, e non anche approvata dalla
Regione, impediva al Comune di pronunciare un diniego della concessione
edilizia e gli imponeva di adottare le misure di salvaguardia di cui al
combinato disposto dell’articolo unico della L. n. 1902/1952 e dell’art. 3,
ult. c., L. n. 765/1967 (cfr. in tal senso Cons. Stato, Sez. IV,
06.03.1998 n. 382, Cons. Stato, Sez. V, 30.04.1997 n. 421).
Né, ancora, può fondatamente reputarsi l’atto soprassessorio equivalente ad
un diniego, ai fini della soddisfazione degli interessi sostanziali dei
richiedenti, atteso che la misura di salvaguardia non può essere
legittimamente protratta per un periodo complessivo superiore a cinque anni
dalla data della delibera di adozione della variante (Cons. Stato, Sez. V,
20.04.1999, n. 462) e che, quindi, qualora nel predetto termine non
intervenga l’approvazione dello strumento urbanistico adottato, viene meno
qualsiasi effetto impeditivo del rilascio del titolo edilizio.
Ne discende che l’adozione della misura di salvaguardia, pur non consentendo
immediatamente l’attività edificatoria, attribuisce all’interessato una
significativa utilità sostanziale, per quanto non attuale, non ravvisabile
nel provvedimento negativo (in quanto definitivamente preclusivo della
realizzazione della costruzione) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 22.02.2002 n. 1079 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Misure
di salvaguardia.
E' legittimo il provvedimento col quale il sindaco di un
comune, in pendenza dell'approvazione del programma di fabbricazione,
applica la misura di salvaguardia alla coltivazione di una cava, in quanto
in contrasto col programma stesso.
---------------
Tenuto conto dell'evoluzione della legislazione relativa al contenuto degli
strumenti urbanistici comunali e della dilatazione della pianificazione
urbanistica, che ha finito con l'identificarsi con la pianificazione di
tutto il territorio del comune, in relazione non soltanto all'interesse
connesso all'attività edificatoria propriamente detta, bensì anche ad altri,
diversi e molteplici interessi che sono comunque correlati alla salvaguardia
del territorio, la misura di salvaguardia di cui alla l. 03.11.1952, n.
1902, sono applicabili non alla sola attività edilizia, in senso stretto,
bensì a tutte le forme di utilizzazione del territorio che sono anch'esse
specifico oggetto di pianificazione territoriale, compresa quindi l'attività
estrattiva di materiale lapideo da cave.
---------------
L'attività di cava, in considerazione della sua peculiare incidenza sul
suolo, è da ricomprendere tra le attività idonee ad incidere negativamente
sull'ambiente e sul paesaggio.
Pertanto, è legittima la disciplina urbanistica dell'attività estrattiva
contenuta nel piano regolatore generale di un comune, o in altro strumento
di programmazione urbanistica, sia in quanto espressamente disponga il
divieto di attività dirette alla trasformazione ambientale dei luoghi, quale
è sicuramente la coltivazione di cave, sia in quanto preveda destinazione
urbanistiche, e pertanto utilizzazioni del territorio, rispondenti al
preminente interesse della collettività ed incompatibili con le mutazioni
territoriali conseguenti all'attività in questione, che risultano
conseguentemente illegittime.
---------------
Posta la legittimità della disciplina urbanistica dell'attività estrattiva
da cava, contenuta nel piano regolatore generale di un comune per fini di
tutela paesistica ed ambientale, deve ritenersi ugualmente legittima
l'inclusione di tale disciplina nel programma di fabbricazione, attesa la
equiparazione di quest'ultimo al piano regolatore generale.
---------------
E' legittima la norma del programma di fabbricazione di un comune che, con
adeguata motivazione, vieta la coltivazione di cave in determinate zone del
territorio comunale, al fine di evitarne la deturpazione
(Consiglio di Stato, Sez.
VI, sentenza 20.11.1986 n. 865). |
aggiornamento al
30.01.2022 |
|
Il "permesso di costruire" rilasciato in
assenza della preliminare "autorizzazione
paesaggistica" deve ritenersi
inefficace
nell’ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato
emanato nella consapevolezza della necessità
dell’autorizzazione medesima.
Diverso è il caso in cui il "permesso di costruire"
sia
stato rilasciato sull’erroneo convincimento della
non necessità dell’"autorizzazione paesaggistica". In
tal caso il titolo edilizio abilitativo non è inefficace
ma
illegittimo
perché rilasciato sul falso presupposto dell’assenza
di un vincolo paesaggistico. |
Ma in questi casi cosa succede? |
EDILIZIA PRIVATA: Va
ricordato come l'assenso edilizio, rilasciato in carenza dell'autorizzazione
paesaggistica, sia inefficace (cfr. art. 146, commi 2, e 4, d.lgs. 42 cit.);
analogamente, ove l’assenso edilizio sia rilasciato sulla base di un
presupposto (id est, l'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica)
in realtà non sussistente se non nominatim (come nel caso di specie, in cui
erano stati adottati pareri settoriali, non integranti la forma e la
sostanza dell’autorizzazione ex art. 146 cit. per il diverso quadro
pianificatorio non correttamente prospettato), si è in presenza di una
doppia situazione patologica.
---------------
6.1 In linea generale, va ricordato altresì come lo stesso assenso edilizio,
rilasciato in carenza dell'autorizzazione paesaggistica, sia inefficace (cfr.
art. 146, commi 2, e 4, d.lgs. 42 cit.); analogamente, ove l’assenso
edilizio sia rilasciato sulla base di un presupposto (id est,
l'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non
sussistente se non nominatim (come nel caso di specie, in cui erano
stati adottati pareri settoriali, non integranti la forma e la sostanza
dell’autorizzazione ex art. 146 cit. per il diverso quadro pianificatorio
non correttamente prospettato), si è in presenza di una doppia situazione
patologica (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14/12/2015, n. 5663)
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.12.2021 n. 8641 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Conformemente alla ormai univoca
giurisprudenza amministrativa, va esclusa ogni rilevanza alla cosiddetta
sanatoria giurisprudenziale, atteso che il requisito della doppia conformità
deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del
territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l’assoluto
rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco
temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione
dell’istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità.
---------------
Non vi è coincidenza tra precarietà e utilizzo stagionale delle opere
qualora le cicliche esigenze stagionali vadano a trasformare in modo
durevole l’area scoperta preesistente con conseguente impatto sul
territorio.
Ed invero, «i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze
permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi,
con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la
precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e
l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo
o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato
ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto
stagionale».
Ne discende che la realizzazione di interventi non meramente manutentivi, ma
determinanti la creazione di superfici utili o volumi, con conseguente
aumento di carico urbanistico, richiede la previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, che è un titolo autonomo non conseguibile
a sanatoria ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 146 e 167,
commi 4 e 5, del decreto legislativo n. 42/2004.
---------------
Nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (specie dopo
l’entrata in vigore, a regime, dell’art. 146 del D.lgs. 42/2004), il previo
parere della Soprintendenza ha natura vincolante».
In ogni caso, la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare
che, anche in presenza di un permesso di costruire, l’inizio dei lavori in
zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio anche
dell’autorizzazione paesaggistica, trattandosi di titoli che hanno contenuti
differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e di ambedue i
titoli, sicché il permesso di costruire, in assenza del nulla osta
paesaggistico, è inefficace.
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1. L’odierno appellante ha proposto il ricorso di primo grado n. -OMISSIS-,
dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la -OMISSIS-, sede
-OMISSIS-, avverso: il provvedimento del Comune di Polignano a Mare prot. n.
-OMISSIS-, avente ad oggetto «diffida all’esercizio dell'attività di
somministrazione di alimenti e bevande in località -OMISSIS-. Diffida al
conferimento di rifiuti ai contenitori ubicati sul territorio comunale»;
dell’ivi richiamato verbale di atti di accertamento del 18.05.2009, prot. n.
-OMISSIS-.; la nota del Comune di Polignano a Mare prot. n. -OMISSIS-,
avente ad oggetto «divieto di prosecuzione dell’esercizio di attività
abusiva di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande» e del
richiamato verbale del 18.05.2009; all’occorrenza, l’ordinanza di
sospensione lavori del Comune di Polignano a Mare n. -OMISSIS-.
...
Il diniego di istanza di permesso di costruire in sanatoria è basato su
plurimi motivi ostativi alla doppia conformità, trattandosi di opere
realizzate su un’area in concessione demaniale e con vincolo paesaggistico
ai sensi del decreto legislativo 42/2004.
Al riguardo, conformemente alla ormai univoca giurisprudenza amministrativa,
va esclusa ogni rilevanza alla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale,
atteso che il requisito della doppia conformità deve considerarsi principio
fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento
finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed
edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione
dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l'accertamento
di conformità (ex aliis, Consiglio di Stato, sezione VI, sentenze
17.02.2021, n. 1457, 04.01.2021, n. 43, e 18.07.2016, n. 3194).
Ciò posto, è assorbente quanto precisato nel parere contrario della
Soprintendenza del 13.10.2010 sul riscontrato aumento di volume e superficie
utile del chiosco, trattandosi di struttura chiusa su tre lati, con una
conseguente variazione essenziale rispetto al progetto assentito nel 2003, a
cui non è applicabile “mini-sanatoria” paesaggistica di cui
all’articolo 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42/2004.
In proposito va evidenziato che non vi è coincidenza tra precarietà e
utilizzo stagionale delle opere qualora le cicliche esigenze stagionali
vadano a trasformare in modo durevole l’area scoperta preesistente con
conseguente impatto sul territorio. Ed invero, «i manufatti non precari,
ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come
idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico
urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la
rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il
manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso
per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere
reiterato nel tempo in quanto stagionale» (Consiglio di Stato, sezione
VI, sentenza 03.06.2014, n. 2842; nello stesso senso cfr., ex aliis,
Consiglio di Stato, sezione IV, decisione 22.12.2007, n. 6615; Consiglio
Stato, sezione V, decisione 12.12.2009, n. 7789; Consiglio di Stato, sezione
VI, sentenza 01.12.2014, n. 5934).
Ne discende che la realizzazione di interventi non meramente manutentivi, ma
determinanti la creazione di superfici utili o volumi, con conseguente
aumento di carico urbanistico, richiede la previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, che è un titolo autonomo non conseguibile
a sanatoria ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 146 e 167,
commi 4 e 5, del decreto legislativo n. 42/2004.
Nel caso di specie è stata cagionata inoltre un’alterazione dello stato dei
luoghi determinata dallo scavo del banco di roccia per la realizzazione
della fossa di tipo Imhoff, non prevista dalle concessioni demaniali e dal
permesso di costruire, che non autorizzavano alcun tipo di scavo della
roccia, ma soltanto l’installazione di bagni chimici e facendo comunque
salva la necessità di realizzarle nell’ambito dell’area oggetto della
concessione, e non fuori da essa, come, invece, in concreto verificatosi.
Sul punto è inconferente il richiamo all’art. 11 della legge regionale della
-OMISSIS- n. 17/2006 recante l’obbligo in capo al concessionario di
stabilimento demaniale marittimo di garantire i servizi minimi (igienico-sanitari,
docce e chiosco-bar), poiché tale obbligo va ottemperato nel rispetto della
normativa e non autorizza ovviamente la realizzazione di opere abusive.
Con riferimento all’occupazione abusiva del demanio marittimo per la
realizzazione di tali opere, la normativa di settore non prevede la
possibilità di una specifica sanatoria, non avendo peraltro il pagamento
dell’indennità per l’occupazione abusiva alcun effetto sanante; diversamente
opinando, infatti, si darebbe ingresso ad un’illegale sanatoria atipica
demaniale e si aggirerebbe l’obbligo di una procedura di evidenza pubblica
aperta a tutti gli operatori economici interessati propedeutica
all’affidamento della concessione.
Ne deriva che l’amministrazione comunale non avrebbe potuto in alcun modo
accoglier l’istanza di sanatoria edilizia, stante la natura vincolata del
predetto parere negativo di compatibilità paesaggistica poiché, «nel
procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (specie dopo
l’entrata in vigore, a regime, dell’art. 146 del D.lgs. 42/2004), il previo
parere della Soprintendenza ha natura vincolante» (Consiglio di Stato,
sezione VI, 08.08.2018, n. 5770); in ogni caso, la giurisprudenza
amministrativa è costante nell’affermare che, anche in presenza di un
permesso di costruire, l’inizio dei lavori in zona paesaggisticamente
vincolata richiede il rilascio anche dell’autorizzazione paesaggistica,
trattandosi di titoli che hanno contenuti differenti, seppure ambedue
relazionati al territorio, e di ambedue i titoli, sicché il permesso di
costruire, in assenza del nulla osta paesaggistico, è inefficace (cfr.,
ex aliis, Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 14.12.2015, n. 5663,
13.04.2016, n. 1436, e 21.05.2021, n. 3952).
Ne consegue peraltro che ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge
n. 241/1990 qualsivoglia vizio formale e procedimentale verrebbe
sterilizzato dalla natura vincolata e necessitata del diniego di sanatoria
edilizia adottato dal Comune
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 14.10.2021 n. 6912 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
l’art. 146, comma 4, del D.lgs. 22.01.2004, n. 42, «l’autorizzazione
paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso
di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento
urbanistico-edilizio».
Per consolidata giurisprudenza, ciò si sostanzia in un rapporto di
presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche e
valutazioni urbanistiche.
I due atti di assenso si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma l’uno
in termini di compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto,
l’altro in termini di sua conformità urbanistico-edilizia: essi, dunque,
operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici che
sono solo parzialmente coincidenti.
Pertanto, il rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il
necessario rilascio anche dell’altro e, di conseguenza, la mancanza del
necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un’opera anche
se per la stessa è stato rilasciato l’atto di assenso a fini paesaggistici.
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9. – Il motivo è fondato.
E’ incontestato che il progetto per la realizzazione dell’area di servizio
attrezzata in fregio alla S.S. 38 non sia stato mai approvato, pur avendo
ricevuto l’autorizzazione paesaggistica.
Per l’art. 146, comma 4, del D.lgs. 22.01.2004, n. 42, «l’autorizzazione
paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso
di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento
urbanistico-edilizio».
Per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, ciò si sostanzia in un
rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni
paesistiche e valutazioni urbanistiche (ex aliis, C.d.S., sez. I,
18.01.2019, n. 232; C.d.S., sez. VI, 16.06.2016, n. 2568; C.d.S., sez. IV,
09.02.2016, n. 521).
I due atti di assenso si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma l’uno
in termini di compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto,
l’altro in termini di sua conformità urbanistico-edilizia (C.d.S., sez. IV,
27.11.2010, n. 8260): essi, dunque, operano su piani diversi, essendo posti
a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti (C.d.S.,
sez. VI, n. 2568/2016).
Pertanto, il rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il
necessario rilascio anche dell’altro e, di conseguenza, la mancanza del
necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un’opera anche
se per la stessa è stato rilasciato l’atto di assenso a fini paesaggistici (C.d.S.,
sez. VI, n. 2568/2016).
Nel caso in esame, il progetto di realizzazione dell’area di servizio
comprensiva di impianti tecnologici e di pubblica utilità (servizio di
autolavaggio; officina, elettrauto, gommista; servizi igienici di uso
pubblico; area attrezzata per camper; impianto di distribuzione di
carburante; edificio per la somministrazione di alimenti e bevande e
ristorazione; aree a parcheggio pubblico; area destinata a parco
giochi–giardino di sosta; opere varie di sistemazione e compensazione
ambientale), di cui alle tavole progettuali prodotte agli atti del giudizio
(doc. 14 della produzione di primo grado di parte ricorrente), pur assentito
per il profilo paesaggistico, non era stato approvato sotto quello
urbanistico-edilizio.
Pertanto, alla base della richiesta di permesso di costruire per la «realizzazione
del rilevato al fine di adeguare le quote dell’area di intervento al piano
stradale esistente», mediante l’innalzamento del terreno per un’altezza
media di ml. 4,00 su una superficie di mq 11.750 e la costruzione di un muro
di contenimento delle terre all’interno della fascia di rispetto stradale,
difettava, sotto il profilo urbanistico-edilizio, l’approvazione del
progetto finale, senza il quale la trasformazione dello stato dei luoghi,
con la mera creazione di un terrapieno privo di uno scopo autonomo, non
rispondeva ad alcuna funzione, se non futura e sperata, e non poteva
certamente giovarsi delle previsioni specifiche dettate per la costruzione
di impianti di distribuzione di carburante, ragion per cui, già solo per
questo motivo, si palesava illegittimo.
Si tratta di un motivo di censura su cui, in effetti, il giudice di primo
grado ha omesso di pronunciarsi e che possiede portata assorbente di tutte
le altre censure relative alla impugnazione del titolo edilizio per vizi
propri: dunque, anche degli ulteriori profili fatti valere in questa sede
sia col primo motivo di appello (supra, § 8) che col secondo motivo
di appello (nel quale, come poc’anzi detto al § 5, parte appellante critica
la decisione di primo grado per non aver accolto le censure di inosservanza
delle norme e delle regole generali dell’azione amministrativa in materia
idrogeologica)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 26.03.2021 n. 2553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
fatto di aver ottenuto un permesso a costruire in assenza di autorizzazione
paesaggistica (non richiesta né in via diretta né in base ad una valutazione
di conformità) non è di per sé sufficiente ad abilitare nessuna forma di
affidamento.
La giurisprudenza ha infatti da tempo stabilito l’autonomia strutturale dei
due titoli.
Nelle ipotesi in cui il titolo
edilizio sia stato rilasciato sulla base del presupposto della non necessità
di una autorizzazione paesaggistica, lo stesso non risulta invalido ma
inefficace, anche in considerazione del fatto che l’autorizzazione potrebbe
sempre intervenire.
Invero, “Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato
che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori”.
---------------
Stante il rapporto di autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo
edilizio e titolo paesaggistico, in virtù di tale rapporto, la mancanza
dell’autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato,
non è -di per sé, ossia se e
in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di
costruire- suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è, d’altro
lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum infectum fieri nequit’),
ove non rientranti nelle categorie degli
‘abusi minori’, i lavori eseguiti a dispetto di essa.
Tale considerazione
trova appiglio per quanto statuito dal Consiglio di Stato. Invero:
«È ben nota al Collegio la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa
secondo la quale “i due titoli, permesso di costruire e nulla-osta
paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al
territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata
richiede il rilascio di ambedue i titoli”.
La mancanza di un'autorizzazione
paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica,
in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione
edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono
essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da
interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla-osta
paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori
prima dell'acquisizione del necessario nulla-osta paesaggistico.
L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della
presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di
specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di
censura." Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui:
"l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare
la procedura per il rilascio del nulla-osta quale "presupposto necessario"
del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di
insieme".
Sennonché, occorre osservare che:
a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente
interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per
la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia
interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra
questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via
generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma
richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende
dall'accertamento di non incompatibilità della prospettata attività di
trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole
argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale,
l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione
edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle
costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso, nel corso del
tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e
ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in
via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di
funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale
per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta
alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto
del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione
paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività
costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia
dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare
che il mancato rilascio del nulla-osta non legittima il Sindaco al ritiro
della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente
orientata nel ritenere che per
costruire in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione
paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che, laddove
l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e
sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985;
b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente
tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione
secondo la quale "è
legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a
costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività
edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento
dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone
soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di
invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente.
Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza
dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto
la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un
presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in
realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione
paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di
una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione
paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato
presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove
l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto
della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga
prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori
illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla-osta
ambientale:
«la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma
anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata
sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione
paesaggistica».
---------------
4. Con il primo motivo di ricorso si lamenta la
insufficiente, contraddittoria e carente motivazione dell’ordinanza
impugnata, nonché la violazione di una aspettativa giuridicamente
qualificata in capo alla ricorrente ritenuta, nel caso di specie, prevalente
rispetto all’interesse pubblico da tutelare.
In particolare si censura l’ordinanza con riferimento alla tardiva
contestazione dell’assenza di autorizzazione paesaggistica che, a fronte di
un permesso a costruire favorevole (il n. 5/2008) che avrebbe ingenerato una
aspettativa giuridicamente qualificata, condurrebbe l’amministrazione a
ledere il legittimo affidamento della ricorrente (del resto, sottolinea
sempre la ricorrente, il PDC non è mai stato annullato proprio in ragione
del tempo trascorso).
Il titolo abilitativo alla costruzione dell’immobile
sarebbe stato regolarmente emesso e l’attività di costruzione posta in
essere sarebbe stata svolta dalla ricorrente nel legittimo affidamento di
essere pienamente autorizzata ad operare in un’area priva di vincolo.
Anche
alla luce del tempo trascorso, la ricorrente sostiene infine che la
motivazione dell’ordinanza di demolizione avrebbe dovuto essere completa ed
esaustiva, oltre che in punto di affidamento, anche sull’interesse pubblico
alla demolizione.
Le doglianze non colgono nel segno.
In primo luogo il fatto di aver ottenuto un permesso a costruire in assenza
di autorizzazione paesaggistica (non richiesta né in via diretta né in base
ad una valutazione di conformità) non è di per sé sufficiente ad abilitare
nessuna forma di affidamento.
La giurisprudenza ha infatti da tempo stabilito l’autonomia strutturale dei
due titoli. Nelle ipotesi, come nel caso di specie, in cui il titolo
edilizio sia stato rilasciato sulla base del presupposto della non necessità
di una autorizzazione paesaggistica, lo stesso non risulta invalido ma
inefficace, anche in considerazione del fatto che l’autorizzazione potrebbe
sempre intervenire. “Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato
che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori”
(TAR Piemonte, 07/11/2012, sent. n. 1166; conformi Cons. Stato, sez. IV
14/12/2015, sent. n. 5663; TAR Campania, Salerno, 01/08/2020, sent. n. 973).
Su tale filone si è espressa recentissima giurisprudenza sostenendo che “7.
Innanzitutto, non coglie nel segno la R., allorquando predica la sussistenza
della fonte abilitativa dell’edificio controverso, costituita dai PdC n.
40/2007 e n. 3/2012 e vi ricollega l’affidamento ingeneratole circa la
legittimazione anche paesaggistica dell’edificio medesimo (cfr. retro, sub
n. 3.a).
7.1. A ripudio della censura in esame, milita, precipuamente, il
rapporto di autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e
titolo paesaggistico ed alla cui stregua gli stessi vanno reciprocamente
riguardati. In virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex
art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è -di per sé, ossia se e
in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di
costruire- suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è, d’altro
lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum infectum fieri nequit’),
ove non rientranti –come, appunto, nella specie– nelle categorie degli
‘abusi minori’, i lavori eseguiti a dispetto di essa.
Tale considerazione
trova appiglio nella seguente disamina, svolta da Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2015, n. 5663.
«È ben nota al Collegio –recita la pronuncia
richiamata– la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa
secondo la quale (ex aliis, ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII,
05.06.2012, n. 2652) “i due titoli, permesso di costruire e nulla-osta
paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al
territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata
richiede il rilascio di ambedue i titoli”.
La mancanza di un'autorizzazione
paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica,
in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione
edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono
essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta paesaggistico.
La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons.
Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995,
n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II,
10.09.1997, n. 468; Cons. Stato, sez. VI, n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da
interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla-osta
paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori
prima dell'acquisizione del necessario nulla-osta paesaggistico.
L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della
presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di
specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di
censura." Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui:
"l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare
la procedura per il rilascio del nulla-osta quale "presupposto necessario"
del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di
insieme" (Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. VI,
19.06.2001, n. 3242).
Sennonché, occorre osservare che:
a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente
interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile, sez.
I, 07.04.2006, n. 8244) ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per
la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia
interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra
questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via
generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma
richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende
dall'accertamento di non incompatibilità della prospettata attività di
trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole
argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale,
l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione
edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle
costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso, nel corso del
tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e
ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in
via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di
funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale
per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta
alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto
del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione
paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività
costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia
dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare
che il mancato rilascio del nulla-osta non legittima il Sindaco al ritiro
della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente
orientata nel ritenere che (Cass. pen., sez. III, 23.11.1999) per
costruire in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione
paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che, laddove
l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e
sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 (Cass. pen., n. 10502/1999, n. 1093/1998, n.
6681/1998; di recente: Cassazione penale, sez. III, 07.10.2014, n. 952
…);
b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente
tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione
secondo la quale (TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.12.2014, n. 12140) "è
legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a
costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività
edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento
dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone
soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di
invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente.
Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza
dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto
la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un
presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in
realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione
paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di
una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione
paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato
presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove
l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto
della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga
prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori
illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta
ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166,
«la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma
anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata
sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione
paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR
Campania, Napoli, sez. VI, 26.03.2015 n. 1815)» (TAR Campania, Salerno,
29/01/2021, sent. n. 266)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 26.03.2021 n. 342 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: A
ripudio della censura in esame, milita, precipuamente, il rapporto di
autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e
titolo paesaggistico ed alla cui stregua gli stessi vanno reciprocamente
riguardati.
In virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex art. 146 del
d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è, di per sé, ossia se e in
quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di
costruire, suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è,
d’altro lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di
rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum
infectum fieri nequit’), ove non rientranti nelle categorie degli ‘abusi minori’, i lavori eseguiti a
dispetto di essa.
---------------
1. Col ricorso in epigrafe, la Ru. s.a.s. (in appresso, R.) impugnava,
chiedendone l’annullamento, la nota del 06.06.2019, prot. n. 13186, con la
quale la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province
di Salerno e Avellino (in appresso, Soprintendenza di Salerno e Avellino)
aveva espresso il proprio parere sfavorevole in merito all’istanza di
accertamento di compatibilità paesaggistica prot. n. 897 del 07.02.2019,
avente per oggetto il fabbricato ad uso abitativo-rurale, assentito giusta
permessi di costruire (PdC) n. 40 del 14.09.2007 e n. 3 dell’08.02.2012,
ubicato in Mugnano del Cardinale, via ..., censito in
catasto al foglio 8, particella 174, e ricadente in fascia di rispetto
fluviale ex art. 142, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 42/2004 dall’alveo
del Lagno di Sciminaro e Acqualonga.
2. L’impugnato diniego di accertamento di compatibilità paesaggistica
risultava motivato in base al rilievo che il fabbricato anzidetto risultava
ab origine sprovvisto della propedeutica e necessaria autorizzazione
paesaggistica ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, cosicché esso non avrebbe
potuto essere legittimato ex post a norma del successivo art. 167, commi 4 e
5, non rientrando in alcuna delle fattispecie contemplate da quest’ultima
disposizione.
3. Nell’avversare siffatta determinazione declinatoria, la R. lamentava, in
estrema sintesi, che:
a) la costruzione controversa rinverrebbe comunque la propria fonte
abilitativa nei PdC n. 40/2007 e n. 3/2012, la quale avrebbe ingenerato il
legittimo affidamento dell’interessata nella conformità dell’intervento non
solo sotto il profilo urbanistico-edilizio, ma anche sotto il profilo
paesaggistico;
b) tale legittimo affidamento sarebbe stato precipuamente
salvaguardabile attraverso lo strumento apprestato dall’art. 167, commi 4 e
5, del d.lgs. n. 42/2004, a fronte dell’incertezza circa la perdurante
sussistenza di un vincolo paesaggistico connesso ad un alveo ormai
abbandonato;
c) il parere del 06.06.2019, prot. n. 13186, difetterebbe di
adeguata motivazione, non avendo tenuto, segnatamente, conto delle concrete
caratteristiche del contesto territoriale tutelato.
...
7. Innanzitutto, non coglie nel segno la R., allorquando predica la
sussistenza della fonte abilitativa dell’edificio controverso, costituita
dai PdC n. 40/2007 e n. 3/2012 e vi ricollega l’affidamento ingeneratole
circa la legittimazione anche paesaggistica dell’edificio medesimo (cfr.
retro, sub n. 3.a).
7.1. A ripudio della censura in esame, milita, precipuamente, il rapporto di
autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e
titolo paesaggistico ed alla cui stregua gli stessi vanno reciprocamente
riguardati.
In virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex art. 146 del
d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è, di per sé, ossia se e in
quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di
costruire, suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è,
d’altro lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di
rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum
infectum fieri nequit’), ove non rientranti –come, appunto, nella
specie– nelle categorie degli ‘abusi minori’, i lavori eseguiti a
dispetto di essa.
Tale considerazione trova appiglio nella seguente disamina, svolta da Cons.
Stato, sez. IV, 14.12.2015, n. 5663.
«È ben nota al Collegio –recita la pronuncia richiamata– la costante
affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex aliis,
ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.06.2012, n. 2652) “i
due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno
contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio
dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di
ambedue i titoli”.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere
in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti
inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione
in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione
edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono
essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons.
Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n.
376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II,
10.09.1997, n. 468; Cons. Stato, sez. VI n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi
assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è
data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima
dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L'assoggettamento
a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di
un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno
da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura.".
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui:
"l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare
la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario"
del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di
insieme" (Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. VI,
19.06.2001, n. 3242).
Sennonché, occorre osservare che:
a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente
interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile, sez.
I, 07.04.2006, n. 8244) ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per la
quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia
interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra
questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via
generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma
richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende
dall'accertamento di non-incompatibilità della prospettata attività di
trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole
argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale,
l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione
edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle
costruzioni, ma anche il nulla osta paesaggistico, rimesso, nel corso del
tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e
ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in
via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di
funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale
per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta
alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto
del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione
paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività
costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia
dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare
che il mancato rilascio del nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro
della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona
paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente
orientata nel ritenere che (Cass. pen., sez. III, 23.11.1999) per costruire
in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione paesaggistica, ma
occorre anche la concessione edilizia e che, laddove l'autorizzazione
manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia integrato il
reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n.
431/1985 (Cass. pen., n. 10502/1999, n. 1093/1998, n. 6681/1998; di recente:
Cassazione penale, sez. III, 07.10.2014, n. 952 …);
b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente
tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione
secondo la quale (TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.12.2014, n. 12140) "è
legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a
costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività
edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento
dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone
soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di
invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la
concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica
non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta
autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un
presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in
realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione
paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di
una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione
paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato
presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove
l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto
della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga
prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori
illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta
ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166, "la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma
anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata
sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione
paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR
Campania, Napoli, sez. VI, 26.03.2015 n. 1815)».
7.2. Ora, la Soprintendenza di Salerno e Avellino risulta aver fatto, nel
caso in esame, buon governo delle direttive ermeneutico-applicative dianzi
declinate.
Ed invero, se l’intervento progettato dalla R., pur essendo assistito dai
PdC n. 40/2007 e n. 3/2012, difettava ab origine della necessaria
autorizzazione paesaggistica, siccome giammai richiesta dall’interessata, e
se, ciononostante, lo stesso è stato comunque portato ad esecuzione, sulla
base di un titolo edilizio rimasto inefficace (per mancanza di quello
paesaggistico), la costruzione realizzata, per le relative caratteristiche
tipologiche e dimensionali, non avrebbe potuto, ictu oculi, fruire
della minisanatoria ambientale ex art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n.
42/2004.
7.3. Non vale a menomare il superiore approdo l’arresto sancito da Cons.
Stato, sez. VI, 14.10.2015, n. 4759 e invocato da parte ricorrente a
suffragio della propria tesi.
La pronuncia in parola radica, infatti, in capo al soggetto beneficiario di
permesso di costruire non accompagnato da autorizzazione ex art. 146 del
d.lgs. n. 42/2004, il legittimo affidamento nella conformità anche
paesaggistica dell’edificazione posta in essere, con riferimento ad una
ipotesi in cui il titolo paesaggistico risultava prescritto non già –come,
appunto, nella specie– all’epoca della presentazione dell’istanza, bensì,
soltanto successivamente, all’epoca del rilascio di quello edilizio
(TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 29.01.2021 n. 266 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il parere
favorevole espresso dal Sindaco in relazione alla richiesta di permesso di
demolire e ricostruire con ampliamento in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico, non può qualificarsi come licenza edilizia … perché il parere
di per sé non rappresenta in modo definitivo la volontà del Comune in punto
di assentimento del titolo edilizio.
Pertanto, “Sebbene per realizzare un'opera edilizia nelle aree sottoposte a
vincolo paesaggistico occorra sia l'assenso a fini edilizi sia l'assenso a
fini paesaggistici, con la conseguenza che in tali aree non si può
realizzare un'opera edilizia se non sono presenti entrambi i titoli
abilitativi, tuttavia i due atti di assenso operano su piani diversi,
essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente
coincidenti.
Pertanto, il possibile rilascio di uno dei due atti di assenso
non comporta il necessario rilascio anche dell'altro e la mancanza del
necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un'opera anche
se per la stessa è stato rilasciato l'assenso a fini paesaggistici”.
Ciò è tanto vero che, di norma, “E' inammissibile il ricorso proposto
avverso l'autorizzazione paesaggistica comunale, non costituendo essa un
atto conclusivo del procedimento edilizio di autorizzazione alla richiesta
trasformazione edilizia, ma -ai sensi dell'art. 146, d.lgs. n. 42/2004-
atto presupposto del titolo edilizio”.
---------------
V.3.
Con il secondo motivo di ricorso, la società ricorrente si duole
dell’eccesso di potere per contrasto con i precedenti atti amministrativi
adottati.
Evidenzia, in particolare, che già nel 2011 e, poi, nel 2013 aveva
presentato progetti identici a quello attuale per la realizzazione del
distributore di carburanti in questione, per i quali aveva ottenuto il
parere favorevole della Soprintendenza “considerato che l’intervento in
oggetto è da considerarsi ammissibile perché compatibile con i valori
paesaggistici riconosciuti dal vincolo e che opere non apportano modifiche
significative al contesto, si esprime parere favorevole al rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica per le opere in oggetto” (provvedimento prot. n. 5019 del 03.03.2014).
A tale parere era seguita l’autorizzazione paesaggistica n. 2901 del
18.03.2014, rilasciata dal medesimo Comune di Sant’Anastasia, nell’ambito
della quale dovrebbe ritenersi accertata anche la regolarità urbanistica
dell’intervento.
V.3.1. Il motivo è infondato.
V.3.2. Come correttamente controdedotto dall’Amministrazione comunale,
l’avere acquisito il parere favorevole dal punto di vista ambientale non
equivale all’accertamento della corrispondenza anche alla conformità
urbanistica del progetto presentato, nel caso, dalla Soc. La Pr. S.r.l.,
attuale ricorrente.
Secondo principi applicabili anche al caso di specie, infatti, “il parere
favorevole espresso dal Sindaco in relazione alla richiesta di permesso di
demolire e ricostruire con ampliamento in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico, non può qualificarsi come licenza edilizia … perché il parere
di per sé non rappresenta in modo definitivo la volontà del Comune in punto
di assentimento del titolo edilizio” (TAR Toscana, Firenze, sez. III,
08/03/2013, n. 396).
Pertanto, “Sebbene per realizzare un'opera edilizia nelle aree sottoposte a
vincolo paesaggistico occorra sia l'assenso a fini edilizi sia l'assenso a
fini paesaggistici, con la conseguenza che in tali aree non si può
realizzare un'opera edilizia se non sono presenti entrambi i titoli
abilitativi, tuttavia i due atti di assenso operano su piani diversi,
essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente
coincidenti. Pertanto, il possibile rilascio di uno dei due atti di assenso
non comporta il necessario rilascio anche dell'altro e la mancanza del
necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un'opera anche
se per la stessa è stato rilasciato l'assenso a fini paesaggistici”
(Consiglio di Stato, sez. VI, 16/06/2016, n. 2658).
Ciò è tanto vero che, di norma, “E' inammissibile il ricorso proposto
avverso l'autorizzazione paesaggistica comunale, non costituendo essa un
atto conclusivo del procedimento edilizio di autorizzazione alla richiesta
trasformazione edilizia, ma -ai sensi dell'art. 146, d.lgs. n. 42/2004-
atto presupposto del titolo edilizio” (TAR Campania, Napoli, sez. III,
04/07/2018, n. 4422; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 12/09/2018, n.
2058).
Non vi è allora alcuna irragionevolezza nel comportamento dell’Ente che, in
presenza di un'autorizzazione paesaggistica riferita, peraltro, ad altra
pratica urbanistica, abbia respinto dal punto di vista urbanistico l’istanza
in esame, in quanto il predetto nulla osta paesaggistico non si estende
anche all’asserito rilascio di un titolo abilitativo edilizio, per il quale
valgono, invece, le regole sancite dal D.P.R. n 380 del 2001 e dalla
strumentazione urbanistica (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 14.10.2020 n. 4524 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In questo senso, milita, precipuamente, il rapporto di
autonomia-presupposizione intercorrente tra i due titoli abilitativi, in
virtù del quale la mancanza del titolo paesaggistico non è, di per sé, ossia
se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del titolo
edilizio, suscettibile di infirmare, ma è soltanto suscettibile di rendere
inefficace quest’ultimo e di rendere, comunque, abusivi i lavori a dispetto
di essa.
Invero,
«È ben nota al Collegio la costante
affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale “i
due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno
contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio
dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di
ambedue i titoli”».
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere
in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti
inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione
in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione
edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono
essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi
assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è
data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima
dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L'assoggettamento
a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di
un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno
da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura.".
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia
strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura
per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del
procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di
insieme".
---------------
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la
concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica
non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione
potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un
presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto
l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è
in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione
paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato
presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove
l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto
della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga
prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori
illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta
ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166, "la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma
anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata
sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione
paesaggistica.
---------------
Osserva, al riguardo, il Collegio che la contestazione formulata con
l’ordinanza di demolizione n. 4 dell’08.07.2019 ha espressamente per oggetto
l’esecuzione di una nuova costruzione, all’indomani dell’introduzione del
vincolo paesaggistico ex art. 82, comma 5, lett. c), del d.p.r. n. 616/1977,
in assenza dell’autorizzazione all’uopo prevista.
E’ evidente, dunque, che l’adottata misura repressivo-ripristinatoria non è
venuta ad incidere sul perimetro abilitativo della rilasciata concessione
edilizia n. 17 del 07.08.1990, ma concerne il distinto profilo dell’illecito
paesaggistico, autonomamente sanzionabile ai sensi e per gli effetti
dell’art. 167, commi 1-3, del d.lgs. n. 42/2004 («1. In caso di
violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte
terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie
spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4. 2. Con l'ordine di rimessione
in pristino è assegnato al trasgressore un termine per provvedere. 3. In
caso di inottemperanza, l'autorità amministrativa preposta alla tutela
paesaggistica provvede d'ufficio per mezzo del prefetto e rende esecutoria
la nota delle spese. Laddove l'autorità amministrativa preposta alla tutela
paesaggistica non provveda d'ufficio, il direttore regionale competente, su
richiesta della medesima autorità amministrativa ovvero, decorsi centottanta
giorni dall'accertamento dell'illecito, previa diffida alla suddetta
autorità competente a provvedervi nei successivi trenta giorni, procede alla
demolizione avvalendosi dell'apposito servizio tecnico-operativo del
Ministero, ovvero delle modalità previste dall' articolo 41 del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, a seguito di apposita
convenzione che può essere stipulata d'intesa tra il Ministero e il
Ministero della difesa»).
In questo senso, milita, precipuamente, il rapporto di
autonomia-presupposizione intercorrente tra i due titoli abilitativi, in
virtù del quale la mancanza del titolo paesaggistico non è, di per sé, ossia
se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del titolo
edilizio, suscettibile di infirmare, ma è soltanto suscettibile di rendere
inefficace quest’ultimo e di rendere, comunque, abusivi i lavori a dispetto
di essa.
Tale considerazione trova appiglio nella seguente disamina, svolta da Cons.
Stato, sez. IV, 14.12.2015, n. 5663.
«È ben nota al Collegio –recita la pronuncia richiamata– la costante
affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex aliis,
ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.06.2012, n. 2652) “i
due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno
contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio
dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di
ambedue i titoli”».
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere
in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti
inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione
in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione
edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono
essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons.
Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n.
376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II,
10.09.1997, n. 468; Cons. Stato, sez. VI n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi
assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è
data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima
dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L'assoggettamento
a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di
un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno
da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura.".
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia
strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura
per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del
procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di
insieme" (Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. VI,
19.06.2001, n. 3242).
Sennonché, occorre osservare che:
a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente
interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile, sez.
I, 07.04.2006, n. 8244) ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per
la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia
interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra
questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via
generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma
richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende
dall'accertamento di non-incompatibilità della prospettata attività di
trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole
argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale,
l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione
edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle
costruzioni, ma anche il nulla osta paesaggistico, rimesso, nel corso del
tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e
ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in
via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di
funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale
per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta
alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto
del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione
paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività
costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia
dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare
che il mancato rilascio del nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro
della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona
paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da
tempo stabilmente orientata nel ritenere che (Cass. pen., sez. III,
23.11.1999) per costruire in area vincolata non è sufficiente
l'autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e
che, laddove l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto
inefficace, e sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n.
47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 (Cass. pen., n. 10502/1999, n.
1093/1998, n. 6681/1998; di recente: Cassazione penale, sez. III,
07.10.2014, n. 952 …);
b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente
tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo
all'affermazione secondo la quale (TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.12.2014, n.
12140) "è legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del
titolo a costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio
attività edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento
dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone
soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di
invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la
concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica
non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione
potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un
presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto
l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è
in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione
paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato
presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove
l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto
della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga
prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori
illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta
ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166, "la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i
lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta
paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro
realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori",
ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto
fondata sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione
paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR
Campania, Napoli, sez. VI, 26.03.2015 n. 1815).
I superiori approdi non restano, infine, menomati dalla circostanza che
l’ordinanza di demolizione n. 4 dell’08.07.2019 menzioni l’art. 27, comma 2,
del d.p.r. n. 380/2001, anziché l’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
Ciò, in quanto gli atti amministrativi vanno interpretati risalendo al
relativo contenuto e al potere in concreto esercitato dall’autorità
promanante, dovendosi prescindere dall’appropriato utilizzo o meno del
nomen iuris o dei formali richiami normativi (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
27.07.2010, n. 4902; TAR Lazio, Roma, sez. III, 17.06.2008, n. 5916; TAR
Campania, Napoli, sez. VIII, 17.09.2009, n. 4977). E in quanto, appunto,
nella specie, la gravata misura repressivo-ripristinatoria figura
incontrovertibilmente motivata in base all’esclusivo ed assorbente rilievo
dell’esecuzione di opere «in assenza del prescritto nulla osta
paesaggistico» in area vincolata ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett.
c), della l. n. 431/1985 (ora art. 142, comma 1, lett. c), del d.lgs. n.
42/2004), senza alcun riferimento ad ipotetici profili di illiceità
edilizia, ossia, all’evidenza, irrogata nell’esercizio del potere
sanzionatorio di cui all’art. 167, commi 1-3, del d.lgs. n. 42/2004
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 01.08.2020 n. 973 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Inefficace la DIA (ora SCIA) in assenza dell'autorizzazione
paesaggistica.
Come evidenziato da un condivisibile orientamento
giurisprudenziale, le esigenze di protezione
dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i
principi garantistici dell’autotutela, richiedono la
sussistenza di alcuni requisiti minimi in assenza dei quali
la d.i.a. deve ritenersi inefficace, con conseguente
sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di
titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi
dell’Amministrazione.
Detti requisiti sono precisati
nell’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001 (vigente ratione
temporis), che al comma 5 prevede, al fine di comprovare il
carattere non abusivo delle opere realizzate, che gli
interessati debbano esibire non solo la domanda, ma anche
“gli atti di assenso eventualmente necessari”.
La stessa
previsione contenuta nel comma 4 –in cui si prevede la
convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di
servizi, quando non risulti allegato alla d.i.a., sebbene
richiesto e non ancora ottenuto, il “parere favorevole del
soggetto preposto alla tutela” del bene (con inefficacia
della stessa d.i.a. in caso di esito non favorevole della
conferenza)– «non può non ritenersi ostativa dell’efficacia
della medesima DIA alla scadenza del termine, in astratto
previsto per l’esecuzione delle opere oggetto della domanda:
non a caso, il comma 6 dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001 subordina la realizzazione degli
interventi edilizi, per gli immobili vincolati, al
“preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione
richiesti dalle relative previsioni normative” (con evidente
riferimento alla non decorrenza del termine, previsto per
l’inizio dei lavori, in assenza di detti pareri o
autorizzazioni)».
Sicché, l’inefficacia della d.i.a. rende privi di un idoneo titolo
abilitativo i lavori realizzati e, quindi,
legittima l’attività sanzionatoria posta in essere dal
Comune.
---------------
La qualificazione del provvedimento amministrativo deve
essere operata sulla base del suo effettivo contenuto e
degli effetti concretamente prodotti, e non anche del nomen iuris
assegnatogli dall’Autorità emanante.
---------------
Non assume rilievo determinante, in senso opposto,
l’orientamento giurisprudenziale segnalato dalle parti
ricorrenti, secondo il quale il titolo edilizio privo
dell’autorizzazione paesaggistica è illegittimo e non
inefficace –laddove “il permesso di costruire è stato
rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non
necessità dell’autorizzazione paesaggistica [lo stesso] non
è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso
presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e
riguarda pertanto una fattispecie in cui l’attività edilizia
posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo
edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare
l’intervento” (TAR Veneto, II, 07.11.2018, n. 1033)– giacché tale pronuncia ha ad oggetto un
permesso di
costruire che è un atto amministrativo a tutti gli effetti
ed è quindi assoggettato a tutte le prescrizioni regolanti
la validità e l’efficacia degli atti amministrativi in
generale: è evidente che nell’adozione di un provvedimento
amministrativo il contenuto e gli effetti dello stesso sono
totalmente riferibili all’Amministrazione procedente anche
laddove il procedimento sia avviato o mediato da un’istanza
del privato.
Diversamente, la d.i.a. (oggi s.c.i.a.) è un
atto soggettivamente e oggettivamente privato (cfr. art. 19,
comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990) che abilita
all’esecuzione di determinate categorie di interventi
edilizi, ferma restando però la necessaria sussistenza di
tutti gli altri presupposti richiesti dalla normativa,
soprattutto quelli posti a presidio di interessi
particolarmente sensibili e rilevanti, in carenza dei quali
la denuncia non può esplicare alcun effetto.
La natura
privata della d.i.a. genera una differenziazione del
trattamento giuridico della stessa rispetto ad un atto
amministrativo, qual è il permesso di costruire –si veda la
posizione deteriore dei terzi lesi dall’intervento
effettuato con d.i.a. o s.c.i.a. rispetto a quelli
effettuati con il permesso di costruire (cfr. Corte
costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019)– da cui
necessariamente discende una parziale divergenza di regime;
in tal senso, vanno richiamate le previsioni del Testo unico
dell’edilizia che hanno previsto per l’interessato la
facoltà di chiedere il rilascio di permesso di costruire per
la realizzazione degli interventi effettuabili con s.c.i.a.
(art. 22, comma 7) o viceversa di avvalersi della s.c.i.a.
in alternativa al permesso di costruire (art. 23), in modo
da consentire al privato, a prescindere dalla tipologia di
intervento programmato, di scegliersi un regime giuridico
più formalistico ma più garantito, oppure più snello ma con
maggiori oneri e responsabilità a proprio carico.
Pertanto, avendo realizzato il box (abusivo) in un ambito sottoposto a
vincolo, in assenza della previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, i ricorrenti lo hanno
fatto sulla base di un titolo non efficace, dando in tal
modo vita ad un intervento totalmente abusivo, cui consegue
la necessaria rimozione del manufatto, come desumibile
dall’art. 146, comma 4, del D.Lgs. n. 42 del 2004, secondo
il quale “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto
autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o
agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio”.
---------------
2. Con le prime tre doglianze proposte dalle parti ricorrenti, da trattare
contestualmente in quanto strettamente e logicamente
connesse, si assume l’illegittimità dei provvedimenti
comunali impugnati, poiché la d.i.a. in base alla quale è
stato realizzato, in maniera del tutto conforme al titolo,
il box sarebbe assolutamente legittima, come sarebbe
dimostrato anche dalle plurime verifiche effettuate
dall’Ufficio tecnico comunale nel corso del tempo e dalla
circostanza che nel termine previsto dalla normativa non
sarebbe stata effettuata alcuna attività di autotutela nel
rispetto dei presupposti individuati dall’art. 21-nonies
della legge n. 241 del 1990, non potendo assumere rilevanza,
in senso contrario, il tardivo sollecito dei poteri di
controllo del Comune da parte dei vicini controinteressati;
infine, non sarebbe giustificata la circostanza assunta a
fondamento degli atti impugnati, in origine nemmeno presa in
considerazione dallo stesso tecnico comunale, ovvero che
l’autorimessa dei ricorrenti rientri tra i beni di cui agli
art. 10-13 del D.Lgs. n. 42 del 2004 o tra quelli di cui
all’art. 134 del medesimo Decreto (rientrando nel perimetro
del Parco Agricolo Sud Milano).
2.1. Le doglianze sono infondate.
Va premesso che, in data 06.05.2019, in esecuzione
dell’ordinanza n. 428/2019, il Comune di Lacchiarella ha
depositato in giudizio una Relazione attraverso la quale ha
segnalato la sussistenza di un vincolo indiretto gravante
sugli immobili limitrofi alla Chiesa di San Martino ed
imposto dal P.G.T. entrato in vigore il 01.01.2013.
Nello specifico, nel paragrafo “3.4 Vincoli gravanti sul
territorio comunale” dell’elaborato “Piano delle regole- RP.03-
Relazione”, si è evidenziato che, “per effetto del DLgs
42/2004 (codice Urbani), oltre al territorio compreso nel
Parco regionale: - uno specifico vincolo di rispetto della
chiesa di San Martino è in vigore per effetto dell’art. 10 e
riguarda le modalità di intervento negli isolati al contorno
della chiesa”.
L’art. 28.1 (“Immobili assoggettati a
tutela”) delle Norme Tecniche di Attuazione del Piano delle
Regole prescrive che “sono assoggettati alla tutela prevista
dal decreto legislativo 22.01.2004, n. 42: - ai sensi
degli artt. 10-13, gli immobili identificati nella tav. DA.
02, nonché gli immobili di proprietà pubblica nonché di ogni
altro ente ed istituto pubblico e di persone giuridiche
private senza fine di lucro, anche in assenza della
dichiarazione di sussistenza di specifico interesse”.
La
Tavola “DA. 02- Vincoli gravanti sul territorio comunale”
inserisce i fondi di proprietà dei ricorrenti Tr./Ta.
(e delle controinteressate Bo. e Ri.) tra gli “Isolati
interessati dal vincolo ex art. 136 del d.lgs. 42/2004”.
Anche la tavola “RP 01-bis Carta di sintesi dei contenuti
del PGT” inserisce le residenze dei ricorrenti e delle
controinteressate all’interno degli isolati soggetti al
vincolo ex art. 136 del D.Lgs. n. 42 del 2004 (“Vincoli
ambientali e monumentali”).
Pertanto, si è al cospetto di un
vicolo diretto (assoluto) sulla Chiesa di San Martino e
indiretto (relativo) sugli isolati posti nell’intorno, in
cui è collocata anche l’area di proprietà dei ricorrenti su
cui è stato realizzato il box oggetto del presente
contenzioso. Ne discende che, ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004, in presenza di un intervento che altera
lo stato dei luoghi dei fondi interessati dal vincolo, si
impone il previo ottenimento dell’autorizzazione
paesaggistica.
2.2. Trattandosi di intervento effettuato con d.i.a. n.
26/2013 del 15.04.2013, lo stesso è assoggettato alla
disciplina urbanistica vigente a quella data e quindi al
richiamato P.G.T., entrato in vigore il 01.01.2013. È
altrettanto pacifico tra le parti di causa che nessuna
autorizzazione paesaggistica è stata richiesta e ottenuta
per la realizzazione del box.
Tuttavia, le parti ricorrenti ritengono che la mancanza
della predetta autorizzazione non abbia alcuna conseguenza
sulla validità ed efficacia della d.i.a. n. 26/2013 (e sulla
successiva variante, n. 50/2013), poiché lo stesso Tecnico
comunale, all’atto della presentazione del titolo edilizio,
ne aveva escluso la indispensabilità, e in ogni caso sarebbe
maturato un affidamento legittimo in capo ai ricorrenti in
ordine alla regolarità dell’intervento edilizio posto in
essere, anche in relazione al lungo lasso di tempo trascorso
tra la sua realizzazione e la conclusione dell’attività
sanzionatoria comunale, avvenuta nel mese di febbraio 2019.
I predetti rilievi non appaiono persuasivi, atteso che, come
evidenziato da un condivisibile orientamento
giurisprudenziale, le esigenze di protezione
dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i
principi garantistici dell’autotutela richiedono la
sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei quali
la d.i.a. deve ritenersi inefficace, con conseguente
sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di
titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi
dell’Amministrazione. Detti requisiti sono precisati
nell’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001 (vigente ratione
temporis), che al comma 5 prevede, al fine di comprovare il
carattere non abusivo delle opere realizzate, che gli
interessati debbano esibire non solo la domanda, ma anche
“gli atti di assenso eventualmente necessari”.
La stessa
previsione contenuta nel comma 4 –in cui si prevede la
convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di
servizi, quando non risulti allegato alla d.i.a., sebbene
richiesto e non ancora ottenuto, il “parere favorevole del
soggetto preposto alla tutela” del bene (con inefficacia
della stessa d.i.a. in caso di esito non favorevole della
conferenza)– «non può non ritenersi ostativa dell’efficacia
della medesima DIA alla scadenza del termine, in astratto
previsto per l’esecuzione delle opere oggetto della domanda:
non a caso, il comma 6 dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001 subordina la realizzazione degli
interventi edilizi, per gli immobili vincolati, al
“preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione
richiesti dalle relative previsioni normative” (con evidente
riferimento alla non decorrenza del termine, previsto per
l’inizio dei lavori, in assenza di detti pareri o
autorizzazioni)» (Consiglio di Stato, VI, 20.11.2013,
n. 5513; altresì, IV, 11.10.2018, n. 5841; VI, 24.03.2014, n. 1413).
L’inefficacia della d.i.a. rende privi di un idoneo titolo
abilitativo i lavori di realizzazione del box e quindi
legittima l’attività sanzionatoria posta in essere dal
Comune. La circostanza che nel provvedimento di chiusura del
procedimento impugnato sia stata eccepita la “carenza di un
requisito di legittimità” e non sia invece stata prospettata
l’inefficacia della d.i.a. non appare invalidante, atteso
che comunque era evidente e nettamente percepibile il
riferimento alla carenza dell’autorizzazione paesaggistica
(punto 1 del provvedimento); del resto, la qualificazione
del provvedimento amministrativo deve essere operata sulla
base del suo effettivo contenuto e degli effetti
concretamente prodotti, e non anche del nomen iuris
assegnatogli dall’Autorità emanante (Consiglio di Stato, IV,
13.04.2017, n. 1718; TAR Lombardia, Milano, IV, 18.03.2019, n. 567).
Infine, non assume rilievo determinante, in senso opposto,
l’orientamento giurisprudenziale segnalato dalle parti
ricorrenti, secondo il quale il titolo edilizio privo
dell’autorizzazione paesaggistica è illegittimo e non
inefficace –laddove “il permesso di costruire è stato
rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non
necessità dell’autorizzazione paesaggistica [lo stesso] non
è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso
presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e
riguarda pertanto una fattispecie in cui l’attività edilizia
posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo
edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare
l’intervento” (TAR Veneto, II, 07.11.2018, n. 1033)– giacché tale pronuncia ha ad oggetto un
permesso di
costruire che è un atto amministrativo a tutti gli effetti
ed è quindi assoggettato a tutte le prescrizioni regolanti
la validità e l’efficacia degli atti amministrativi in
generale: è evidente che nell’adozione di un provvedimento
amministrativo il contenuto e gli effetti dello stesso sono
totalmente riferibili all’Amministrazione procedente anche
laddove il procedimento sia avviato o mediato da un’istanza
del privato.
Diversamente, la d.i.a. (oggi s.c.i.a.) è un
atto soggettivamente e oggettivamente privato (cfr. art. 19,
comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990; Corte
costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019; Consiglio
di Stato, II, 12.03.2020, n. 1795; TAR Lombardia,
Milano, II, 26.06.2020, n. 1205) che abilita
all’esecuzione di determinate categorie di interventi
edilizi, ferma restando però la necessaria sussistenza di
tutti gli altri presupposti richiesti dalla normativa,
soprattutto quelli posti a presidio di interessi
particolarmente sensibili e rilevanti, in carenza dei quali
la denuncia non può esplicare alcun effetto.
La natura
privata della d.i.a. genera una differenziazione del
trattamento giuridico della stessa rispetto ad un atto
amministrativo, qual è il permesso di costruire –si veda la
posizione deteriore dei terzi lesi dall’intervento
effettuato con d.i.a. o s.c.i.a. rispetto a quelli
effettuati con il permesso di costruire (cfr. Corte
costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019)– da cui
necessariamente discende una parziale divergenza di regime;
in tal senso, vanno richiamate le previsioni del Testo unico
dell’edilizia che hanno previsto per l’interessato la
facoltà di chiedere il rilascio di permesso di costruire per
la realizzazione degli interventi effettuabili con s.c.i.a.
(art. 22, comma 7) o viceversa di avvalersi della s.c.i.a.
in alternativa al permesso di costruire (art. 23), in modo
da consentire al privato, a prescindere dalla tipologia di
intervento programmato, di scegliersi un regime giuridico
più formalistico ma più garantito, oppure più snello ma con
maggiori oneri e responsabilità a proprio carico.
Pertanto, avendo realizzato il box (abusivo, come
evidenziato in precedenza) in un ambito sottoposto a
vincolo, in assenza della previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica, i ricorrenti lo hanno
fatto sulla base di un titolo non efficace, dando in tal
modo vita ad un intervento totalmente abusivo, cui consegue
la necessaria rimozione del manufatto, come desumibile
dall’art. 146, comma 4, del D.Lgs. n. 42 del 2004, secondo
il quale “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto
autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o
agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio” (sulla prevalenza della disciplina
paesaggistica su quella edilizia, cfr. Consiglio di Stato,
IV, 08.07.2019, n. 4778; anche, TAR Lombardia, Milano, II, 11.03.2020, n. 471; 21.01.2019, n. 118).
2.3. Ciò determina il rigetto delle scrutinate censure (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.07.2020 n. 1303 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
di costruire e vincolo paesaggistico.
L'autorizzazione
paesaggistica è un titolo che mantiene la sua autonomia ad ogni effetto, ivi
compreso quello sanzionatorio, rispetto al permesso di costruire: trattasi
invero di due procedimenti distinti in ragione della diversità degli
interessi presidiati dalle rispettive norme penali, finalizzati l'uno
alla compatibilità dell'intervento edilizio volto ad incidere sul patrimonio
paesaggistico e l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico in
conformità agli strumenti di pianificazione del territorio.
La giurisprudenza tanto ordinaria quanto amministrativa ha avuto modo di
sottolineare, con consolidato orientamento, che il procedimento di rilascio
del permesso di costruire ha un rapporto di autonomia e non di
interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, secondo quanto
risulta dalla stessa lettera della legge (articolo 159, per la disciplina
transitoria e articolo 146, Dlgs 22.01.2004, n. 42), che prevede, per un
verso, che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti intervento urbanistico-edilizio e, per un altro, che i
lavori non possono essere iniziati in difetto di essa.
Muovendo dalla disposizione dell’art. 146 d.lgs. 42/2004, secondo la quale
“i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati
al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alle amministrazioni competenti i
progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione
prevista, preordinata alla verifica della compatibilità fra interesse
paesaggistico tutelato ed intervento progettato, al fine di ottenere la
preventiva autorizzazione”, ne deriva che costituisce onere dell’interessato
rappresentare, nel richiedere il permesso di costruire, che l’intervento
progettato insiste su una zona vincolata sul piano paesaggistico, così come
verificare, una volta conseguito il titolo abilitativo ai fini urbanistici,
se lo stesso sia congruo in relazione alla situazione di fatto, riferita
cioè alla specifica zona in cui l’intervento deve essere realizzato.
---------------
L'autorizzazione
paesaggistica si configura quale presupposto di efficacia del permesso di
costruire.
---------------
Il ricorso non può essere ritenuto ammissibile.
L'assunto della difesa, secondo il quale la delega da parte della Regione
della funzione autorizzatoria di cui agli articoli 146, 153 e 154 del Codice
dei beni culturali e del paesaggio ai comuni imporrebbe di individuare
nell'ente locale, proprio in quanto preposto al rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica, il soggetto chiamato a valutare in primis la necessità
o meno del suddetto titolo abilitativo e in caso affermativo ad attivarsi
motu proprio per acquisire il parere della competente Soprintendenza,
risulta manifestamente infondato.
Quand'anche all'epoca del commesso reato competesse al Comune, e non già
alla Regione, il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica secondo la legge
regionale toscana n. 1 del 2005, ciò non toglie che trattasi di un titolo
che mantiene la sua autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello
sanzionatorio, rispetto al permesso di costruire: trattasi invero di due
procedimenti distinti in ragione della diversità degli interessi presidiati
dalle rispettive norme penali, finalizzati l'uno alla compatibilità
dell'intervento edilizio volto ad incidere sul patrimonio paesaggistico e
l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico in conformità agli
strumenti di pianificazione del territorio.
La giurisprudenza tanto ordinaria quanto amministrativa ha avuto modo di
sottolineare, con consolidato orientamento, che il procedimento di rilascio
del permesso di costruire ha un rapporto di autonomia e non di
interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, secondo quanto
risulta dalla stessa lettera della legge (articolo 159, per la disciplina
transitoria e articolo 146, Dlgs 22.01.2004, n. 42), che prevede, per un
verso, che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti intervento urbanistico-edilizio e, per un altro, che i
lavori non possono essere iniziati in difetto di essa (cfr. in termini la
pronuncia del Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 5016/2017, nonché Consiglio
di Stato, Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4234 del 21.08.2013).
Del resto che la procedura per il rilascio del permesso di costruire sia
ontologicamente diversa e comunque autonoma rispetto a quella per
l'autorizzazione paesaggistica, del resto trova conferma nella stessa legge
regionale della Toscana 1/2015 che all'art. 88, terzo comma prevede
espressamente che "il responsabile del procedimento amministrativo in
materia urbanistico-edilizia non può essere responsabile del procedimento
amministrativo in materia di autorizzazione paesaggistica".
Muovendo infatti dalla disposizione dell'art. 146 d.lgs. 42/2004, secondo la
quale "i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni
indicati al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alle amministrazioni
competenti i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della
documentazione prevista, preordinata alla verifica della compatibilità fra
interesse paesaggistico tutelato ed intervento progettato, al fine di
ottenere la preventiva autorizzazione", ne deriva che costituisce onere
dell'interessato rappresentare, nel richiedere il permesso di costruire, che
l'intervento progettato insiste su una zona vincolata sul piano
paesaggistico, così come verificare, una volta conseguito il titolo
abilitativo ai fini urbanistici, se lo stesso sia congruo in relazione alla
situazione di fatto, riferita cioè alla specifica zona in cui l'intervento
deve essere realizzato.
Il ricorrente non può perciò sottrarsi agli obblighi su lui stesso
incombenti per la realizzazione dei capannoni in un'area boscata
trincerandosi dietro un'insussistente autonoma iniziativa del Comune sol
perché si tratta dello stesso ente deputato al rilascio sia
dell'autorizzazione paesaggistica che del permesso di costruire, quando è
lui stesso ad aver taciuto quale fosse l'effettivo stato dei luoghi al
momento della domanda. Né di alcun supporto alla tesi difensiva propugnata
può ritenersi la costituzione da parte dell'Amministrazione comunale dello
Sportello Unico per l'Edilizia in conformità a quanto previsto dall'art. 5
d.P.R. 380/2001 al quale lo stesso imputato si è rivolto: tale ufficio, il
quale assolve alla funzione di curare tutti i rapporti fra il privato,
l'amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a
pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio oggetto della richiesta di
permesso o di denuncia di inizio attività, ha unicamente finalità di
semplificazione procedimentale ed organizzativa, fungendo da tramite tra il
privato e l'amministrazione per il rilascio dei titoli abilitativi (Sez. 3,
n. 19315 del 27/04/2011 - dep. 17/05/2011, Manera, Rv. 250017), ma
certamente non può sostituirsi alla carente rappresentazione dello stato dei
luoghi da parte dell'interessato che, invece, era ben consapevole
dell'esistenza di un bosco sull'area in questione essendo stato lui stesso
ad averne eseguito preventivamente il taglio senza averne richiesto neppure
in tale occasione l'autorizzazione.
Del resto, l'assunto secondo il quale competeva al Comune attivarsi per il
conseguimento dell'autorizzazione paesaggistica secondo le proprie autonome
determinazioni è contraddetta dalle successive allegazioni della stessa
difesa che sostiene che, non sussistendo alcun bosco sull'area al momento
dell'edificazione, non doveva essere rilasciata alcuna autorizzazione
paesaggistica, così negando nel medesimo ricorso l'autonomia decisionale
dell'ente locale fermamente sostenuta poche pagine prima.
La tesi, anche a prescindere dalla sua intrinseca incoerenza con il
precedente assunto difensivo, mostra tutta la sua fragilità sol che si
consideri che così opinando verrebbe con un sol colpo annullato lo stesso
vincolo paesaggistico, contemplante per sua natura la valutazione
dell'impatto sul contesto ambientale circostante dell'opera realizzanda,
rimettendo allo stesso interessato la possibilità, con una condotta,
necessariamente arbitraria proprio in quanto non preventivamente
autorizzata, mediante la preventiva modifica dello stato dei luoghi, di
aggirare il vincolo stesso: conseguenza questa all'evidenza paradossale,
tenuto conto che nello specifico l'imputato non aveva mai chiesto, neppure
in relazione al disboscamento, che entrambi i giudici di merito ritengono
logicamente preordinato alla successiva edificazione, alcuna autorizzazione
sul piano paesaggistico essendosi munito soltanto del parere favorevole ai
fini del diverso vincolo idrogeologico, che attesta in via ineludibile la
preesistente sussistenza di un'area boschiva, così come la consapevolezza in
capo al medesimo di operare in area vincolata.
E poiché il vincolo paesaggistico sussiste per il solo fatto della presenza
di un bosco, inteso secondo il previgente art. 2 d.lgs. 227/2001, come un "terreno
coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella
arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di
sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri,
larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale
maggiore del 20 per cento", definizione questa non modificata dalla
vigente normativa, costituita dal T.U. in materia forestale del 03.04.2018
n. 34 null'altro evincendosi dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 che rimanda alla
nozione recepita dal legislatore nazionale in materia forestale, ne consegue
che nessuna rilevanza possa attribuirsi alle determinazioni assunte dal
Comune al riguardo.
Va infatti considerato che sono solo le Regioni che possono nell'ambito
della potestà legislativa concorrente in subiecta materia a poter
integrare, per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva
assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate
aree, e che in ogni caso la nozione di bosco assunta dalla legge regionale
toscana n. 1/2005, all'epoca vigente, non si discosta da quella nazionale
testé riportata: conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di
un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dall'art. 142
d.lgs. 42/2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse
definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali. Deve perciò
ritenersi priva di rilievo l'affermazione resa dal Comune di Trequanda, in
risposta ai rilievi della Provincia di Siena, secondo cui l'area in esame
non era qualificabile come boscata, sussistendo l'imprescindibile obbligo in
capo all'imputato di rappresentare all'amministrazione competente la
sussistenza dello specifico vincolo paesaggistico dovuto alla presenza del
bosco.
D'altra parte è stata proprio la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica,
configurante presupposto di efficacia del permesso di costruire, ad aver
determinato la contestazione di illegittimità del titolo urbanistico in
quanto mancante dell'atto presupposto ex lege e comunque in
violazione delle norme previste per il suo rilascio, ancorché il relativo
reato sia stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione sin dalla
sentenza di primo grado: epilogo questo sufficiente ad escludere la
rilevanza delle disquisizioni difensive volte a contrastare il potere di
disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo da parte del giudice
penale, trattandosi di questioni estranee al delitto paesaggistico,
consumatosi per l'omesso conseguimento della relativa autorizzazione, ma
semmai attinenti al permesso di costruire, non più oggetto di disamina da
parte dei giudici del gravame (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.03.2020 n. 9402). |
EDILIZIA PRIVATA: L’autorizzazione
paesaggistica costituisce un atto autonomo rispetto al permesso di
costruire: si tratta, infatti, di due procedimenti distinti in ragione della
diversità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali,
finalizzati l'uno alla compatibilità dell'intervento edilizio volto ad
incidere sul patrimonio paesaggistico e l'altro alla tutela dell'assetto
urbanistico in conformità agli strumenti di pianificazione del territorio.
---------------
Il ricorrente non può perciò sottrarsi agli obblighi su lui stesso
incombenti per la realizzazione dei capannoni in un'area boscata
trincerandosi dietro un'insussistente autonoma iniziativa del Comune sol
perché si tratta dello stesso ente deputato al rilascio sia
dell'autorizzazione paesaggistica che del permesso di costruire, quando è
lui stesso ad aver taciuto quale fosse l'effettivo stato dei luoghi al
momento della domanda. Né di alcun supporto alla tesi difensiva propugnata
può ritenersi la costituzione da parte dell'Amministrazione comunale dello
Sportello Unico per l'Edilizia in conformità a quanto previsto dall'art. 5
d.P.R. 380/2001 al quale lo stesso imputato si è rivolto: tale ufficio, il
quale assolve alla funzione di curare tutti i rapporti fra il privato,
l'amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a
pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio oggetto della richiesta di
permesso o di denuncia di inizio attività, ha unicamente finalità di
semplificazione procedimentale ed organizzativa, fungendo da tramite tra il
privato e l'amministrazione per il rilascio dei titoli abilitativi (Sez. 3,
n. 19315 del 27/04/2011 - dep. 17/05/2011, Manera, Rv. 250017), ma
certamente non può sostituirsi alla carente rappresentazione dello stato dei
luoghi da parte dell'interessato che, invece, era ben consapevole
dell'esistenza di un bosco sull'area in questione essendo stato lui stesso
ad averne eseguito preventivamente il taglio senza averne richiesto neppure
in tale occasione l'autorizzazione.
Del resto, l'assunto secondo il quale competeva al Comune attivarsi per il
conseguimento dell'autorizzazione paesaggistica secondo le proprie autonome
determinazioni è contraddetta dalle successive allegazioni della stessa
difesa che sostiene che, non sussistendo alcun bosco sull'area al momento
dell'edificazione, non doveva essere rilasciata alcuna autorizzazione
paesaggistica, così negando nel medesimo ricorso l'autonomia decisionale
dell'ente locale fermamente sostenuta poche pagine prima.
La tesi, anche a prescindere dalla sua intrinseca incoerenza con il
precedente assunto difensivo, mostra tutta la sua fragilità sol che si
consideri che così opinando verrebbe con un sol colpo annullato lo stesso
vincolo paesaggistico, contemplante per sua natura la valutazione
dell'impatto sul contesto ambientale circostante dell'opera realizzanda,
rimettendo allo stesso interessato la possibilità, con una condotta,
necessariamente arbitraria proprio in quanto non preventivamente
autorizzata, mediante la preventiva modifica dello stato dei luoghi, di
aggirare il vincolo stesso: conseguenza questa all'evidenza paradossale,
tenuto conto che nello specifico l'imputato non aveva mai chiesto, neppure
in relazione al disboscamento, che entrambi i giudici di merito ritengono
logicamente preordinato alla successiva edificazione, alcuna autorizzazione
sul piano paesaggistico essendosi munito soltanto del parere favorevole ai
fini del diverso vincolo idrogeologico, che attesta in via ineludibile la
preesistente sussistenza di un'area boschiva, così come la consapevolezza in
capo al medesimo di operare in area vincolata.
E poiché il vincolo paesaggistico sussiste per il solo fatto della presenza
di un bosco, inteso secondo il previgente art. 2 d.lgs. 227/2001, come un "terreno
coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella
arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di
sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri,
larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale
maggiore del 20 per cento", definizione questa non modificata dalla
vigente normativa, costituita dal T.U. in materia forestale del 03.04.2018
n. 34 null'altro evincendosi dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 che rimanda alla
nozione recepita dal legislatore nazionale in materia forestale, ne consegue
che nessuna rilevanza possa attribuirsi alle determinazioni assunte dal
Comune al riguardo.
Va infatti considerato che sono solo le Regioni che possono nell'ambito
della potestà legislativa concorrente in subiecta materia a poter
integrare, per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva
assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate
aree, e che in ogni caso la nozione di bosco assunta dalla legge regionale
toscana n. 1/2005, all'epoca vigente, non si discosta da quella nazionale
testé riportata: conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di
un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dall'art. 142
d.lgs. 42/2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse
definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali.
Deve perciò
ritenersi priva di rilievo l'affermazione resa dal Comune di Trequanda, in
risposta ai rilievi della Provincia di Siena, secondo cui l'area in esame
non era qualificabile come boscata, sussistendo l'imprescindibile obbligo in
capo all'imputato di rappresentare all'amministrazione competente la
sussistenza dello specifico vincolo paesaggistico dovuto alla presenza del
bosco.
D'altra parte è stata proprio la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica,
configurante presupposto di efficacia del permesso di costruire, ad aver
determinato la contestazione di illegittimità del titolo urbanistico in
quanto mancante dell'atto presupposto ex lege e comunque in
violazione delle norme previste per il suo rilascio, ancorché il relativo
reato sia stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione sin dalla
sentenza di primo grado: epilogo questo sufficiente ad escludere la
rilevanza delle disquisizioni difensive volte a contrastare il potere di
disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo da parte del giudice
penale, trattandosi di questioni estranee al delitto paesaggistico,
consumatosi per l'omesso conseguimento della relativa autorizzazione, ma
semmai attinenti al permesso di costruire, non più oggetto di disamina da
parte dei giudici del gravame (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.03.2020 n. 9402). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ principio giurisprudenziale unanimemente affermato quello per
cui l’assenza dell’autorizzazione paesaggistica implica l’applicazione
della sanzione demolitorio/ripristinatoria indipendentemente dal titolo
edilizio che –in zona non sottoposta a vincolo paesaggistico– sarebbe
necessario per la realizzazione delle stesse.
Ciò in quanto le opere realizzate in aree
vincolate sono considerate, ai sensi dell’art. 32, c. 3, DPR 380/2001, in
totale difformità dal permesso di costruire o variazioni essenziali.
---------------
6.
Per ragioni di ordine logico il Collegio ritiene di dover procedere
preliminarmente all’esame del terzo motivo del ricorso n. 363/2017, con cui
la ricorrente impugna il diniego di autorizzazione paesaggistica. Tale
censura ha carattere assorbente rispetto a quelle formulate nel primo e nel
secondo motivo di ricorso, entrambe rivolte a contestare l’applicabilità
della sanzione demolitoria di cui all’art. 31 DPR 380/2001, in ragione della
natura della opere realizzate.
E’, infatti, principio giurisprudenziale unanimemente affermato quello per
cui l’assenza dell’autorizzazione paesaggistica implica l’applicazione
della sanzione demolitorio/ripristinatoria indipendentemente dal titolo
edilizio che –in zona non sottoposta a vincolo paesaggistico– sarebbe
necessario per la realizzazione delle stesse (ex multis Cons. Stato
Sez. IV, 21/03/2019, n. 1874). Ciò in quanto le opere realizzate in aree
vincolate sono considerate, ai sensi dell’art. 32, c. 3, DPR 380/2001, in
totale difformità dal permesso di costruire o variazioni essenziali
(TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 28.06.2019 n. 781 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
sistema normativo, articolato su più livelli di governo del territorio,
prevede che per poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due
titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica,
i quali hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al
territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata
richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere
in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti
inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione
in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione
edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono
essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
---------------
Il ricorso è infondato e va respinto per le ragioni che seguono.
Come esposto in fatto l’oggetto del presente giudizio verte sulla
legittimità, contestata sotto più profili dal ricorrente, del provvedimento
di diniego ad istanza di condono assunto dal Comune di Colognola ai Colli, a
fronte della realizzazione, in assenza di alcun titolo, dell’intervento
edilizio sopra meglio descritto.
Con le prime censure, il ricorrente deduce il vizio di violazione dell’art.
32, co. 27, lett. d), legge 326/2003 e della legge regionale Veneto 21/2004,
contestando la circostanza che il diniego non ha tenuto in debito conto il
nulla osta paesaggistico previsto dall’art. 7 della L. n. 1497/1939,
rilasciato dalla Provincia di Verona.
Il Collegio ritiene priva di fondamento tale asserzione, in quanto tale atto
di per sé non è sufficiente ad abilitare alla realizzazione di opere,
essendo contestualmente necessario un titolo edilizio.
Il sistema normativo, articolato su più livelli di governo del territorio,
prevede che per poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due
titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica,
i quali hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al
territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata
richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere
in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti
inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione
in pristino. Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori
non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta
paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è
subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons.
Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n.
376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II,
10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato sez. VI n. 547 del 10.02.2006)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 24.06.2019 n. 754 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di interventi edificatori in aree assoggettate a vincolo
paesaggistico non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una
DIA che, in mancanza di previa acquisizione dell’autorizzazione
paesaggistica, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma
3, del d.P.R. n. 380/2001.
---------------
5) Con il terzo motivo e il quarto motivo, il ricorrente sostiene che la DIA
03/09/2012 si sarebbe consolidata per effetto del mancato esercizio del potere
inibitorio comunale.
In ogni caso, la mancanza del titolo paesaggistico non avrebbe comportato
l’inefficacia della DIA, ma soltanto la sua “annullabilità” e non risulta
che sia stato adottato alcun provvedimento in autotutela da parte del Comune
di Loano.
L’esponente dubita anche dell’effettiva esistenza di un vincolo gravante
sull’area di intervento, la cui natura non è stata individuata nel contesto
dell’impugnata ordinanza di demolizione.
Tali rilievi non colgono nel segno.
Nel caso di interventi edificatori in aree assoggettate a vincolo
paesaggistico, infatti, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una
DIA che, in mancanza di previa acquisizione dell’autorizzazione
paesaggistica, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma
3, del d.P.R. n. 380/2001 (cfr., fra le ultime, TAR Campania, Napoli,
sez. III, 28.11.2018, n. 6897).
L’intervento indicato nella DIA inefficace, pertanto, è stato correttamente
sanzionato con la demolizione in quanto realizzato in mancanza del titolo
abilitativo obbligatorio.
Gli ulteriori rilievi inerenti all’effettiva sussistenza del vincolo hanno
carattere congetturale e perseguono finalità essenzialmente esplorative: in
quanto tali, essi non possono trovare ingresso nel presente giudizio.
Ha chiarito la difesa comunale, comunque, che l’area oggetto di intervento è
assoggettata a vincolo paesaggistico ex art. 142, comma 1, lett. c), del
d.lgs. n. 42 del 2004, poiché compresa nella fascia di 150 metri dall’alveo
del torrente Nimbalto, iscritto nell’elenco delle acque pubbliche della
Provincia di Savona
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 22.05.2019 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso in cui il permesso di costruire è
rilasciato dal Comune sull'erroneo convincimento della non
necessità dell'autorizzazione paesaggistica ma invece la
stessa è necessaria, il permesso di costruire non è
inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso
presupposto dell'assenza di un vincolo paesaggistico, e
riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia
posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo
edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare
l'intervento.
In un tale contesto l'Amministrazione non può pertanto
adottare direttamente un'ordinanza di demolizione senza aver
prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al
titolo edilizio che, rispetto all'illiceità paesaggistica,
si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante
relativamente all'attività edilizia posta in essere in senso
conforme al titolo.
---------------
Nulla di tutto ciò, evidentemente, è dato ravvisare
nell'ordinanza di demolizione gravata nel presente processo,
sicché si ritiene fondata la censura articolata da parte
ricorrente.
A conferma di quanto appena affermato può riportarsi un
precedente del TAR Veneto, Sez. II, 07/11/2018, n. 1033,
che, in un caso simile, ha disposto che “Nel caso in cui
il permesso di costruire è rilasciato dal Comune
sull'erroneo convincimento della non necessità
dell'autorizzazione paesaggistica ma invece la stessa è
necessaria, il permesso di costruire non è inefficace ma
illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto
dell'assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda
pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia posta in
essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio
che appariva oggettivamente idoneo a legittimare
l'intervento. In un tale contesto l'Amministrazione non può
pertanto adottare direttamente un'ordinanza di demolizione
senza aver prima esercitato i propri poteri di autotutela in
ordine al titolo edilizio che, rispetto all'illiceità
paesaggistica, si è ormai cristallizzato nella sua portata
scriminante relativamente all'attività edilizia posta in
essere in senso conforme al titolo” (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 12.12.2018 n. 1799 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per ragioni di carattere
testuale e sistematico, tenuto conto che nel caso in esame è
stato rilasciato un titolo edilizio nella convinzione
dell’assenza di un vincolo paesaggistico, l’autorizzazione
paesaggistica costituisce -ferma restando la sua autonomia–
condizione di validità del permesso di costruire.
La giurisprudenza richiamata dal Comune nelle proprie
difese, laddove afferma che in mancanza dell’autorizzazione
paesaggistica il permesso di costruire rilasciato
antecedentemente alla stessa deve ritenersi inefficace, si
riferisce all’ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato
rilasciato nella consapevolezza della necessità
dell’autorizzazione paesaggistica, ed ha il significato di
affermare che i lavori non possono essere iniziati fino a
che non sia intervenuto l’atto di assenso sotto il profilo
paesaggistico, come risulta dall’art. 146, comma 2, del Dlgs.
22.01.2004, n. 42, il quale prevede che gli interessati
debbano “astenersi dall'avviare i lavori fino a quando
non ne abbiano ottenuta l'autorizzazione” e dall’art.
159, comma 2, quinto periodo, del medesimo decreto
legislativo per il quale, “i lavori non possono essere
iniziati in difetto di essa”.
Diverso è il caso in esame in cui il permesso di costruire è
stato rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della
non necessità dell’autorizzazione paesaggistica.
In un caso come questo, il permesso di costruire non è
inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso
presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e
riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia
posta in essere è stata ab origine supportata da un
titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a
legittimare l’intervento.
In un tale contesto l’Amministrazione non può pertanto
adottare direttamente un’ordinanza di demolizione senza aver
prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al
titolo edilizio che, rispetto all’illiceità paesaggistica,
si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante
relativamente all’attività edilizia posta in essere in senso
conforme al titolo. Altrimenti si dovrebbe giungere ad
affermare che il titolo edilizio rilasciato in assenza
dell’autorizzazione paesaggistica dovrebbe essere dichiarato
radicalmente nullo nonostante la mancanza di un’espressa
previsione di legge in tale senso (che invece è necessaria
per poter affermare la nullità degli atti amministrativi), ma ciò, come osservato dalla giurisprudenza, non è
accettabile perché “l'estensione della sanzione della
nullità a fattispecie non riconducibili alle tassative
ipotesi previste dall'art. 21-septies l. n. 241/1990
equivarrebbe ad un inammissibile vulnus al principio di
certezza del diritto pubblico.
Tranne queste ipotesi
tassative, ogni violazione di legge, più o meno grave,
determina la annullabilità del provvedimento, con la
conseguenza che -nel caso di mancata emanazione di un atto
amministrativo o di una pronuncia del g.a. che ne disponga
l'annullamento o la sospensione degli effetti- il medesimo
atto deve essere ritenuto efficace da ogni autorità tenuta
alla sua esecuzione”.
---------------
Con permesso di costruire n. 56 del 17.10.2009, la
ricorrente è stata autorizzata a realizzare un fabbricato
residenziale con annesso deposito agricolo nel territorio
del comune di Gazzo Veronese.
Il comune con ordinanza n. 4 del 16.03.2017, ha ingiunto la
demolizione e la riduzione in pristino dello stato dei
luoghi perché l’immobile è stato realizzato in area soggetta
a vincolo paesaggistico in assenza della necessaria
autorizzazione paesaggistica.
La sussistenza del vincolo paesaggistico è ricondotta
all’esistenza in prossimità dell’immobile di un corso
d’acqua denominato “Dugal Zimel” che ricade negli
appositi elenchi dei corsi d’acqua tutelati ai sensi
dell’art. 142, comma 1, lett. c), del Dlgs. 22.01.2004, n.
42, originariamente non rilevato dal Comune.
Tale provvedimento è impugnato per le seguenti censure:
...
III) violazione degli artt. 5, 20, 27 e 31 del DPR
06.06.2001, n. 380, e dell’art. 146 del Dlgs. 22.01.2004, n.
42, sotto altro profilo, perché non è corretta
l’affermazione contenuta nel ricorso secondo cui la mancanza
dell’autorizzazione paesaggistica rende ex se da
sempre irreversibilmente inefficace il permesso di
costruire; il Comune pertanto avrebbe dovuto agire in
autotutela per rimuovere la validità del permesso di
costruire in base al quale è stato realizzato l’immobile;
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto per le censure,
che hanno carattere assorbente, di cui al terzo motivo.
Infatti la tesi del Comune secondo la quale il permesso di
costruire rilasciato senza autorizzazione paesaggistica
sarebbe nullo o inefficace non è condivisibile.
La giurisprudenza richiamata dal Comune nelle proprie
difese, laddove afferma che in mancanza dell’autorizzazione
paesaggistica il permesso di costruire rilasciato
antecedentemente alla stessa deve ritenersi inefficace, si
riferisce all’ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato
rilasciato nella consapevolezza della necessità
dell’autorizzazione paesaggistica, ed ha il significato di
affermare che i lavori non possono essere iniziati fino a
che non sia intervenuto l’atto di assenso sotto il profilo
paesaggistico, come risulta dall’art. 146, comma 2, del Dlgs.
22.01.2004, n. 42, il quale prevede che gli interessati
debbano “astenersi dall'avviare i lavori fino a quando
non ne abbiano ottenuta l'autorizzazione” e dall’art.
159, comma 2, quinto periodo, del medesimo decreto
legislativo per il quale, “i lavori non possono essere
iniziati in difetto di essa”.
Diverso è il caso in esame in cui il permesso di costruire è
stato rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della
non necessità dell’autorizzazione paesaggistica.
In un caso come questo, il permesso di costruire non è
inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso
presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e
riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia
posta in essere è stata ab origine supportata da un
titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a
legittimare l’intervento.
In un tale contesto l’Amministrazione non può pertanto
adottare direttamente un’ordinanza di demolizione senza aver
prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al
titolo edilizio che, rispetto all’illiceità paesaggistica,
si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante
relativamente all’attività edilizia posta in essere in senso
conforme al titolo.
Altrimenti si dovrebbe giungere ad affermare che il titolo
edilizio rilasciato in assenza dell’autorizzazione
paesaggistica dovrebbe essere dichiarato radicalmente nullo
nonostante la mancanza di un’espressa previsione di legge in
tale senso (che invece è necessaria per poter affermare la
nullità degli atti amministrativi; cfr. ad esempio quanto
previsto dall’art. 5, comma 4, del testo originario del Dlgs.
03.04.2006, n. 152, il quale, relativamente alla valutazione
di impatto ambientale, disponeva che “i provvedimenti di
autorizzazione o approvazione adottati senza la previa
valutazione di impatto ambientale, ove prescritta, sono
nulli”), ma ciò, come osservato dalla giurisprudenza (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.08.2013, n. 4167), non è
accettabile perché “l'estensione della sanzione della
nullità a fattispecie non riconducibili alle tassative
ipotesi previste dall'art. 21-septies l. n. 241/1990
equivarrebbe ad un inammissibile vulnus al principio di
certezza del diritto pubblico. Tranne queste ipotesi
tassative, ogni violazione di legge, più o meno grave,
determina la annullabilità del provvedimento, con la
conseguenza che -nel caso di mancata emanazione di un atto
amministrativo o di una pronuncia del g.a. che ne disponga
l'annullamento o la sospensione degli effetti- il medesimo
atto deve essere ritenuto efficace da ogni autorità tenuta
alla sua esecuzione”.
Sotto tale profilo il Collegio, per ragioni di carattere
testuale e sistematico, tenuto conto che nel caso in esame è
stato rilasciato un titolo edilizio nella convinzione
dell’assenza di un vincolo paesaggistico, aderisce pertanto
all’orientamento giurisprudenziale per il quale,
l’autorizzazione paesaggistica costituisce -ferma restando
la sua autonomia– condizione di validità del permesso di
costruire (sul punto cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II,
17.12.2014, n. 3062 e i numerosi riferimenti
giurisprudenziali ivi richiamati).
Ne consegue che l’ordinanza di demolizione adottata senza il
previo esercizio dei poteri di autotutela, nei confronti del
titolo edilizio in base al quale è stato realizzato
l’immobile rilasciato sul presupposto che quella determinata
porzione di territorio non fosse sottoposta ad alcun
vincolo, deve essere annullata per le assorbenti censure di
cui al terzo motivo (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 07.11.2018 n. 1033 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ormai pacifica ha ritenuto che in presenza di aree assoggettate a
vincolo paesistico non può attribuirsi alcun rilievo
all’inoltro di una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza
del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art.
23, comma 3, d.p.r. n. 380/2003 per cui “… correttamente
l’amministrazione comunale intimata ha posto a base del
provvedimento gli artt. 27 e 31 del testo unico
sull’edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, avendo fatto
riferimento, nel preambolo dell’atto, alla sussistenza, in
loco, di vincolo paesaggistico, ciò che, come è pacifico,
preclude la maturazione degli effetti abilitativi della
d.i.a. edilizia in mancanza della specifica, previa
autorizzazione paesaggistica …”.
Ed ancora “Gli interventi edilizi, come quello in esame,
eseguiti in zona vincolata, compresi quelli in parziale
difformità dal titolo abilitativo, sono considerati, in base
a quanto dispone l’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del
2001, variazioni essenziali, alle quali consegue sempre
l’applicazione della sanzione demolitoria di cui all’art. 31
del d.P.R. n. 380 del 2001”.
Invero,
“… In ogni caso dirimente è la considerazione che in
presenza di zona vincolata si impone
la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica,
con la conseguenza che l’applicazione della sanzione demolitoria è in ogni caso doverosa ove non sia stata
ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesistica.
Difatti, in presenza di aree assoggettate a vincolo
paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di
una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza del prescritto
parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da
ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3,
T.U. Edilizia. A prescindere dal titolo edilizio ritenuto
più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio
in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che
rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in
assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi
dell’art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (ovvero ai
sensi dell’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001) deve essere
sanzionato”.
---------------
È evidente che rispetto alla recinzione in cemento
armato di cui alla citata DIA non vi era mai stata alcuna
autorizzazione paesaggistica e, quindi, la DIA
va considerata tam quam non esset.
Pertanto, a fronte di una DIA inefficace ai sensi dell’art.
23, comma 3, d.p.r. n. 380/2001, correttamente
l’Amministrazione comunale ha applicato con la gravata
ordinanza di demolizione il disposto dell’art. 31 d.p.r. n.
380/2001 con riferimento ad un’opera totalmente abusiva in
quanto priva di titolo abilitativo valido ed efficace.
---------------
Altresì,
«… Va sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a
vincolo, la denuncia di inizio attività in assenza
dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto effetti e le
opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al
pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo.
…”.
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA
non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del
d.p.r. n. 380/2001, con conseguente obbligo di ripristino
delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004,
non surrogabile con la pena pecuniaria. …
… Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri
poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che,
difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi
perfezionate.
L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto
avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato
perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci,
come correttamente accertato dal Comune.
Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione
rende, evidentemente, inconferenti tutte le restanti
argomentazioni dei ricorrenti che espressamente fanno
riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
Per costante giurisprudenza, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale
esito doveroso del procedimento di controllo attivato
(revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come
osservato da condivisa giurisprudenza, “non sono evocabili i
principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione
dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in
cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine
dei presupposti per concludere favorevolmente il
procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio,
dovuto a fatto dell’interessato,
non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell’interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica e in considerazione che le
affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso
del tempo sono tutte imperniate sulla tutela
dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non
sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti
proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato”.
In simili casi, del resto, anche l’attuale
formulazione dell’art. 19 legge n. 241/1990, frutto di
recenti interventi nel senso della liberalizzazione, al
comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano
altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza
sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e
alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali». ...».
Pertanto, in mancanza di autorizzazione paesaggistica la
stessa DIA non produce alcun effetto con conseguente obbligo
di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 dlgs
n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Come correttamente evidenziato dal Comune si tratta di opere
abusive in quanto realizzate in difformità rispetto alla
autorizzazione rilasciata dalla Soprintendenza.
Pertanto, ciò che è stato in concreto realizzato (muro in
c.a.) è privo della autorizzazione paesaggistica necessaria
ai sensi dell’art. 146 dlgs n. 42/2004, in mancanza della
quale la stessa DIA non produce alcun effetto,
ai sensi degli artt. 22 e 23 d.p.r. n. 380/2001, con
conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di
cui all’art. 167 dlgs n. 42/2004, non surrogabile con la
sanzione pecuniaria.
---------------
4.2.1. - Relativamente al primo motivo del ricorso introduttivo, va
evidenziato quanto segue.
Tutte le aree, oggetto della D.I.A del 17.07.2009, sono parte
di un percorso antico utilizzato per la transumanza.
Tali percorsi sono tutelati, oltre che con decreti
ministeriali del 15.06.1976, del 20.03.1980 e del 22.12.1983,
anche dalla più recente normativa di cui al dlgs n. 42/2004
e da varie norme regionali.
Per quel che qui rileva la Regione Puglia, con DGR n.
1748/2000 ha approvato il P.U.U.T, che ha inserito i
percorsi armentizi, appartenenti al demanio, tra i beni
culturali vincolati ai sensi della legge n. 1089/1939.
Tra l’altro la recinzione, oggetto dell’ordinanza di
demolizione impugnata, è tutta collocata in zona vincolata
in quanto ricade interamente nel tracciato del Regio
Tratturo Foggia-Ofanto, così come si evince dal
provvedimento della Regione Puglia di riorganizzazione
dell’assetto dei Tratturi e dalla planimetria allegata (cfr.
documenti nn. 6 e 7 depositati dal controinteressato Novelli
Antonio in data 30.04.2018, peraltro non specificamente
contestati da alcuna delle parti costituite).
Per cui la situazione sopra descritta (i.e. realizzazione di
opera permanente in cemento armato in zona vincolata) ha
determinato la legittima adozione dell’ordinanza di
demolizione e dei successivi provvedimenti comunali.
Alla luce di quanto sin qui esposto e dell’iter
procedimentale non è, pertanto, condivisibile l’affermazione
della società ricorrente secondo cui l’intervento de quo
sarebbe stato realizzato su un suolo di proprietà privata
non assoggettato ad alcun vincolo.
E’, infatti, certo che vi sia stata la realizzazione in area
vincolata di un intervento idoneo ad alterare l’aspetto del
territorio in contrasto con il parere espresso dall’Autorità
preposta alla tutela del vincolo e ciò di per sé legittima
l’emissione dell’ordinanza di demolizione oggetto di
impugnativa, non risultando fondata alcuna delle censure
formulate da parte ricorrente.
Sul punto la giurisprudenza ormai pacifica ha -come sopra
visto- ritenuto che in presenza di aree, assoggettate a
vincolo paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo
all’inoltro di una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza
del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art.
23, comma 3, d.p.r. n. 380/2003 per cui “… correttamente
l’amministrazione comunale intimata ha posto a base del
provvedimento gli artt. 27 e 31 del testo unico
sull’edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, avendo fatto
riferimento, nel preambolo dell’atto, alla sussistenza, in
loco, di vincolo paesaggistico, ciò che, come è pacifico,
preclude la maturazione degli effetti abilitativi della
d.i.a. edilizia in mancanza della specifica, previa
autorizzazione paesaggistica …” (cfr. TAR Campania,
Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295).
Ed ancora “Gli interventi edilizi, come quello in esame,
eseguiti in zona vincolata, compresi quelli in parziale
difformità dal titolo abilitativo, sono considerati, in base
a quanto dispone l’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del
2001, variazioni essenziali, alle quali consegue sempre
l’applicazione della sanzione demolitoria di cui all’art. 31
del d.P.R. n. 380 del 2001” (Cons. Stato, Sez. VI,
27.12.2016, n. -OMISSIS-59).
Si richiama altresì TAR Campania, Napoli, Sez. III,
02.03.2018, n. 1352:
“… In ogni caso dirimente è la considerazione che in
presenza di zona vincolata -come nella specie- si impone
la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica,
con la conseguenza che l’applicazione della sanzione demolitoria è in ogni caso doverosa ove non sia stata
ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesistica.
Difatti, in presenza di aree assoggettate a vincolo
paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di
una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza del prescritto
parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da
ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3,
T.U. Edilizia. A prescindere dal titolo edilizio ritenuto
più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio
in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che
rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in
assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi
dell’art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (ovvero ai
sensi dell’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001) deve essere
sanzionato. (cfr. TAR Napoli, (Campania), sez. VI,
15/09/2016, n. 4319). …”.
Ne consegue che in applicazione del principio di diritto
affermato dalla costante giurisprudenza amministrativa, il
motivo di gravame sub 1) va disatteso, a fronte di una DIA
(quella del 17.07.2009) avente espressamente ad oggetto la
realizzazione di una recinzione in cemento armato.
Per quanto detto si tratta di una DIA certamente inefficace
ai sensi dell’art. 23, comma 3, d.p.r. n. 380/2001 (“Nel caso
dei vincoli e delle materie oggetto dell’esclusione di cui
al comma 1-bis, qualora l’immobile oggetto dell’intervento
sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in
via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il
termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal
rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia
favorevole, la denuncia è priva di effetti”) poiché in
difformità rispetto alla autorizzazione paesaggistica
rilasciata dalla Soprintendenza avente ad oggetto una
recinzione provvisoria con materiali facilmente asportabili
(rete metallica), come espressamente evidenziato nella nota
del 02.02.2016.
È quindi evidente che rispetto alla recinzione in cemento
armato di cui alla citata DIA non vi era mai stata alcuna
autorizzazione paesaggistica e quindi la DIA del 17.07.2009
va considerata tam quam non esset.
Va, inoltre, evidenziato che, diversamente da quanto
sostenuto da parte ricorrente, la DIA del 2009 non è stata
confermata nel 2011.
Infatti, la determina dirigenziale dell’11.01.2011 revoca la
precedente diffida del 02.09.2009 e l’ordinanza dirigenziale
di sospensione dei lavori del 09.09.2009, comunque precisando
che la recinzione sarebbe potuta essere realizzata con le
caratteristiche costruttive indicate nelle premesse, vale a
dire nei termini autorizzati dalla Soprintendenza con nota prot. n. -OMISSIS- del 29.07.2010 (recinzione provvisoria con
materiali facilmente asportabili).
Pertanto, a fronte di una DIA inefficace ai sensi dell’art.
23, comma 3, d.p.r. n. 380/2001, correttamente
l’Amministrazione comunale ha applicato con la gravata
ordinanza di demolizione il disposto dell’art. 31 d.p.r. n.
380/2001 con riferimento ad un’opera totalmente abusiva in
quanto priva di titolo abilitativo valido ed efficace.
...
Inoltre, come evidenziato da TAR Puglia, Bari, Sez. III,
09.03.2017, n. 223:
«… Va, infatti, sottolineato che “… Trattandosi di beni
soggetti a vincolo, la denuncia di inizio attività in
assenza dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto
effetti (cfr. TAR Venezia, Veneto, Sez. II, 24.07.2015,
n. 873; TAR Emilia Romagna, Bologna, 30.07.2014, n. 803;
TAR Lazio, Roma, Sez. I, 23.01.2013, n. 76; TAR
Campania, Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295) e le
opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al
pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo.
…” (TAR Marche, Sez. I, sent. n. 413 del 18.06.2016; cfr.
altresì TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. n. 1350 del
02.12.2016).
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA
non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del
d.p.r. n. 380/2001 (TAR Campania, Napoli, Sez. VI,
05.03.2012, n. 1111), con conseguente obbligo di ripristino
delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004,
non surrogabile con la pena pecuniaria (TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. 1350 del
02.12.2016). …
… Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri
poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che,
difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi
perfezionate (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 14.11.2016, n. 5248; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 10.01.2011, n. 35; Cassazione penale, Sez. III,
08.04.2010, n. 17973).
15. - L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto
avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato
perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci,
come correttamente accertato dal Comune.
Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione
rende, evidentemente, inconferenti tutte le restanti
argomentazioni dei ricorrenti che espressamente fanno
riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
15.1.- Per costante giurisprudenza a cui il Collegio presta
adesione, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale
esito doveroso del procedimento di controllo attivato
(revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come
osservato da condivisa giurisprudenza, “non sono evocabili i
principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di
autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione
dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in
cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine
dei presupposti per concludere favorevolmente il
procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio,
dovuto a fatto dell’interessato (come nel caso in esame),
non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell’interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, Sez.
V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le affermazioni
miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono
tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato
(si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, Sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente,
stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al
Comune, dovuto proprio a fatto del privato” (ex multis, da
ultimo, TAR Puglia, Bari, Sez. III, 06.02.2017, n.
96 e TAR Campania, Sez. IV, sent. n. 5726 del 13.12.2016 e sent. n. 5248 del 14.11.2016).
16. - In simili casi, del resto, anche l’attuale
formulazione dell’art. 19 legge n. 241/1990, frutto di
recenti interventi nel senso della liberalizzazione, al
comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano
altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza
sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e
alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali».
...».
Pertanto, in mancanza di autorizzazione paesaggistica la
stessa DIA non produce alcun effetto con conseguente obbligo
di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 dlgs
n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Come correttamente evidenziato dal Comune di Cerignola si
tratta di opere abusive in quanto realizzate in difformità
rispetto alla autorizzazione rilasciata dalla Soprintendenza
(con note del 29.07.2010 e del 02.02.2016).
Pertanto, ciò che è stato in concreto realizzato (muro in
c.a.) è privo della autorizzazione paesaggistica necessaria
ai sensi dell’art. 146 dlgs n. 42/2004, in mancanza della
quale la stessa DIA del 17.07.2009 non produce alcun effetto,
ai sensi degli artt. 22 e 23 d.p.r. n. 380/2001, con
conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di
cui all’art. 167 dlgs n. 42/2004, non surrogabile con la
sanzione pecuniaria (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. II,
02.12.2016, n. 1350; cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VI,
05.03.2012, n. 1111).
Stante la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica
relativamente alle opere realizzate, deve quindi ritenersi
immune da censure il provvedimento di demolizione emesso
dall’Amministrazione comunale (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 19.07.2018 n. 1094 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In assenza di rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, la DIA non ha effetto e
l'intervento deve considerarsi eseguito in assenza di titolo
e l'Amministrazione -una volta constatato che l'intervento
realizzato riguarda un edificio sottoposto a vincolo
paesaggistico e che per lo stesso intervento non è stato
previamente rilasciato un provvedimento di autorizzazione
paesaggistica- non può fare altro che ordinare la rimessione in pristino.
Invero, l’art. 22, comma 6, del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, dispone che l'esecuzione di
lavori che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è comunque
subordinata, nonostante l'avvenuta presentazione di una
d.i.a., al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative.
In presenza di zona vincolata si impone la
previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con
la conseguenza che l'applicazione della sanzione demolitoria
è, in ogni caso, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna
preventiva autorizzazione paesistica. Difatti, in presenza
di aree assoggettate a vincolo paesistico, non può
attribuirsi alcun rilievo all'inoltro di una previa D.I.A.
poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di
effetti ai sensi dell'art. 23, comma 3, T.U. Edilizia.
---------------
La censura è infondata.
La DIA presentata il 03.02.2007 pacificamente mancava
dell’autorizzazione necessaria per tutti gli interventi da
realizzarsi su immobili sottoposti a vincolo.
Infatti, in base alla espressa previsione dell’allora
vigente art. 22, comma 6, del d.p.r. 380 del 2001, “la
realizzazione degli interventi di cui ai commi 1, 2 e 3 che
riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o
paesaggistica-ambientale, è subordinata al preventivo
rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle
relative previsioni normative. Nell'ambito delle norme di
tutela rientrano, in particolare, le disposizioni di cui al
decreto legislativo 29.10.1999, n. 490”.
Per tutti gli interventi realizzabili mediante DIA in base
all’art. 22 era quindi necessaria la previa autorizzazione
paesaggistica.
Ne deriva che in assenza di rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica, la DIA non ha effetto e l'intervento deve
considerarsi eseguito in assenza di titolo e
l'Amministrazione -una volta constatato che l'intervento
realizzato riguarda un edificio sottoposto a vincolo
paesaggistico e che per lo stesso intervento non è stato
previamente rilasciato un provvedimento di autorizzazione
paesaggistica- non può fare altro che ordinare la rimessione in pristino (cfr. TAR Lombardia Milano Sez.
II, 29.07.2014, n. 2148, per cui l’art. 22, comma 6, del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, dispone che l'esecuzione di
lavori che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è comunque
subordinata, nonostante l'avvenuta presentazione di una
d.i.a., al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative).
In presenza di zona vincolata si impone la
previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con
la conseguenza che l'applicazione della sanzione demolitoria
è, in ogni caso, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna
preventiva autorizzazione paesistica. Difatti, in presenza
di aree assoggettate a vincolo paesistico, non può
attribuirsi alcun rilievo all'inoltro di una previa D.I.A.
poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di
effetti ai sensi dell'art. 23, comma 3, T.U. Edilizia (TAR
Campania, Napoli, 02.03.2018, n. 1352).
L’art. 23 del d.p.r. 380 del 2001, inoltre, nel testo allora
vigente, ai commi 3 e 4 conteneva le seguenti disposizioni:
“Qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto
ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega,
alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta
giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo
atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la
denuncia è priva di effetti.
Qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad
un vincolo la cui tutela non compete all'amministrazione
comunale, ove il parere favorevole del soggetto preposto
alla tutela non sia allegato alla denuncia, il competente
ufficio comunale convoca una conferenza di servizi ai sensi
degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater, della legge 07.08.1990, n. 241. Il termine di trenta giorni di cui al
comma 1 decorre dall'esito della conferenza. In caso di
esito non favorevole, la denuncia è priva di effetti”.
Nel caso di specie, è circostanza altrettanto pacifica che
l’immobile di via ... 19 sia sottoposto a vincolo
paesaggistico in base al D.M. del 26.04.1973; né può
rilevare la circostanza dedotta dalla difesa ricorrente, per
cui il vincolo richiedeva l’autorizzazione solo per “opere
che possano modificare l’aspetto esteriore della località”,
dovendo comunque essere applicata la disciplina dell’art.
146 del d.lgs. n. 42 del 2004, per cui “i proprietari,
possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree
oggetto degli atti e dei provvedimenti elencati all'articolo
157, oggetto di proposta formulata ai sensi degli articoli
138 e 141, tutelati ai sensi dell'articolo 142, ovvero
sottoposti a tutela dalle disposizioni del piano
paesaggistico, non possono distruggerli, né introdurvi
modificazioni che rechino pregiudizio ai valori
paesaggistici oggetto di protezione. I proprietari,
possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati
al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alla regione o
all'ente locale al quale la regione ha delegato le funzioni
i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati
della documentazione prevista, affinché ne sia accertata la
compatibilità paesaggistica e sia rilasciata
l'autorizzazione a realizzarli”.
Nel caso di specie, la ampiezza degli interventi, risultanti
dalla relazione tecnica allegata alla DIA presentata il 03.02.2007 (consistenti tra gli altri in mutamenti di
destinazione d’uso, frazionamento dell’immobile in 12 unità
immobiliari, nonché nuova intonacatura e nuovi infissi di
tutto l’edificio) comportavano necessariamente
l’autorizzazione paesaggistica. Infatti, pur prescindendo
dalla qualificazione dell’intervento edilizio, l’art. 149
del d.lgs. n. 42 del 2004, richiede, comunque,
l’autorizzazione paesaggistica anche nel caso di interventi
minori (di manutenzione ordinaria, straordinaria, di
consolidamento statico e di restauro conservativo) che
alterino “lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore
dell’edificio”.
La DIA presentata al Comune il 03.02.2007 non ha quindi
mai avuto alcun effetto in relazione alle allora vigenti
disposizioni degli articoli 22 e 23 del d.p.r. n. 380 del
2001 e dell’art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004..
La mancanza della autorizzazione paesaggistica non può
essere neppure stata sanata dalla successiva autorizzazione
paesaggistica in sanatoria del 07.04.2011, che riguarda
solo l’abbaino e i comignoli della copertura del tetto, che
erano estranei alla DIA del 2007, essendo compresi nella DIA
in variante presentata il 09.07.2008 (oggetto del
provvedimento di demolizione del 12.09.2008).
Il titolo edilizio del 2007 non si è dunque mai formato (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 12.06.2018 n. 6567 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 prevede che
«l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire». Ne consegue
che, qualora si accerti l’esistenza del vincolo, l’assenza
di detta autorizzazione determina illegittimità del titolo
edilizio adottato.
---------------
4.3.− Con il secondo motivo l’appellante ha dedotto che
la mancanza di autorizzazione paesaggistica costituirebbe un
requisito di efficacia e non di validità del permesso di
costruire, con la conseguenza che non ne poteva essere
disposto l’annullamento d’ufficio. Aggiunge, inoltre, che
non sussisterebbe neanche il vincolo, perché non
risulterebbe neanche dal certificato di destinazione
urbanistica.
Il motivo è infondato.
Anche in questo caso la fondatezza della prima censura per
mancanza del titolo edilizio rende priva di rilevanza
l’analisi di tale motivo, in quanto le opere sono abusive.
In ogni caso, e parimenti ad abundantiam, si osserva che
l’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 prevede che
«l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire». Ne consegue
che, qualora si accerti l’esistenza del vincolo, l’assenza
di detta autorizzazione determina illegittimità del titolo
edilizio adottato (Cons. Stato, IV, 19.08.2016, n. 3660; id., V,
08.11.2012, n. 5691) (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 07.03.2018 n. 1465 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha chiarito che il difetto
dell’autorizzazione paesaggistica non incide sulla
legittimità del titolo edilizio, ma ne determina
l’inefficacia.
---------------
1. Il Responsabile del Servizio Urbanistica del Comune di
Joppolo con ordinanza n. 5 del 18.04.2013, richiamato il
verbale di accertamento del 12.11.2011, ha ingiunto al sig.
Gi.Ci. la demolizione delle opere abusivamente realizzate,
con ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
Tali opere sono:
- veranda in legno di circa m. 13,00 x 7,00;
- piscina con relativo solarium delle dimensioni di circa m. 9,15 x
5.
Sulla base di altro accertamento d’ufficio ha ingiunto,
altresì, la demolizione di una lavanderia e un locale
deposito mancanti del prescritto nulla osta ambientale, il
cui cambiamento di destinazione d’uso non è stato
autorizzato.
...
4.3 Gli ultimi due motivi dedotti dal ricorrente si
riferiscono ai locali adibiti a lavanderia e deposito.
Il ricorrente ha evidenziato che con provvedimento del 03.07.1989 il Comune di Joppolo ha autorizzato la
costruzione di una tettoia per frescura in legno e una
baracca in legno e lamiera per deposito attrezzi e WC.
Lo stesso ricorrente ha, quindi, precisato che con permesso
di costruire n. 8 del 2009 l’immobile del ricorrente, con le
relative pertinenze, ha ottenuto il cambio di destinazione
d’uso da civile abitazione a ristorante.
Le difese del ricorrente si incentrano sostanzialmente su
tali argomenti, rilevando profili quali il lungo tempo
trascorso, il consolidarsi di una situazione di affidamento,
l’intervenuta autorizzazione alla modificazione della
destinazione d’uso.
Osserva il Collegio che il provvedimento repressivo nel caso
dei locali in questione non si basa sull’assenza di titolo
edilizio, ma sulla mancanza del nulla osta ambientale, in
relazione all’operato mutamento di destinazione d’uso.
È pacifico fra le parti che i manufatti in questione siano
sottoposti a vincolo ambientale, ai sensi della legge 08.08.1985 n. 431.
Orbene, è innegabile che l’azione dell’amministrazione si
sia svolta in modo non aderente ai canoni di buona
amministrazione, se è vero che essa si è resa conto
dell’esistenza del vincolo dopo circa vent’anni dal rilascio
del primo titolo edilizio e dopo avere rilasciato nel 2009
un permesso di costruire per cambio di destinazione d’uso.
Gli stessi atti di accertamento e il provvedimento impugnato
non brillano per chiarezza e completezza espositiva. Anzi
risultano, per certi versi, lacunosi e scarsamente
comprensibili.
Ciò premesso, vi è un dato che risulta, tuttavia,
insuperabile: manca l’autorizzazione paesaggistica.
Occorre tenere conto, in proposito, che la giurisprudenza ha
chiarito che il difetto dell’autorizzazione paesaggistica
non incide sulla legittimità del titolo edilizio, ma ne
determina l’inefficacia (Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2015 n. 5663).
Ne consegue che, pur in presenza del titolo edilizio,
l’intervento assentito non è eseguibile fino a quando non
intervenga detta autorizzazione.
L’intervento repressivo da parte dell’autorità comunale non
rende, quindi, necessario l’esercizio di poteri di
autotutela, con la conseguenza che non risultano applicabili
i principi in materia di tutela di affidamento vigenti in
relazione a tale potere.
I motivi dedotti risultano, pertanto, infondati.
5. In conclusione il ricorso deve essere rigettato (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 13.12.2017 n. 1991 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo, la
denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non
ha prodotto effetti e le opere costruite in relazione ad essa possono
ritenersi al pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo. …”.
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce
alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001, con
conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167
d.lgs. n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Ne consegue che il Comune ben
poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare
le DIA che, difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi
perfezionate.
---------------
L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto
avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle
DIA che restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal
Comune.
Per costante giurisprudenza, “l’atto di rimozione delle DIA si configura
quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso
stretto), con la conseguenza che, come osservato da condivisa
giurisprudenza, non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio
dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una
riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in
cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti
per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo
edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto
dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di
un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo
questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina
urbanistica e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il
rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela
dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente,
stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto
proprio a fatto del privato”.
---------------
In presenza di opere realizzate senza titolo in zona
vincolata, l’ordinanza di demolizione, ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n.
380/2001 è da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato.
L’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, infatti, “in re
ipsa” anche per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni
paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza
circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, anche in
considerazione della non scorporabilità di quanto abusivamente realizzato da
ciò che era stato originariamente assentito.
---------------
1.1.- In data 28.10.2015 la
Polizia Municipale ed il dirigente dell’U.T.C. di Mattinata effettuavano un
sopralluogo nell’area in questione, predisponendo il relativo verbale.
1.2.- Successivamente il dirigente, con la censurata ordinanza n. 21 del
07.12.2015, riportando il contenuto del suddetto verbale di sopralluogo,
accertava l’inefficacia delle D.I.A. presentate “… in quanto gli
interventi previsti e realizzati incidono sui parametri urbanistici e sulle
volumetrie, modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia ed
alterano la sagoma delle opere precedentemente approvate …” e, dunque,
rilevava che detti interventi erano stati eseguiti “… in totale
difformità da quanto autorizzato con il permesso di costruire n. 58/2006 …”,
anche perché compiuti in difetto “… delle autorizzazioni previste in
relazione ai vincoli esistenti sulla zona …”.
...
Sulla base di quanto esposto, va affermato che alcuna fattispecie tacita di
autorizzazione può ritenersi formata correttamente poiché l’intervento non
poteva essere assentito con DIA, tanto che la denunziata violazione delle
regole e dei principi che governano l’esercizio del potere di autotutela ed
il connesso principio dell’affidamento del privato, non è meritevole di
positiva delibazione.
Va, infatti, sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo,
la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica
non ha prodotto effetti (cfr. TAR Venezia, Veneto, Sez. II, 24.07.2015, n.
873; TAR Emilia Romagna, Bologna, 30.07.2014, n. 803; TAR Lazio, Roma, Sez.
I, 23.01.2013, n. 76; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295) e
le opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al pari di opere
realizzate in assenza di titolo abilitativo. …” (TAR Marche, Sez. I,
sent. n. 413 del 18.06.2016; cfr. altresì TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent.
n. 1350 del 02.12.2016).
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce
alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001 (TAR
Campania, Napoli, Sez. VI, 05.03.2012, n. 1111), con conseguente obbligo di
ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, non
surrogabile con la pena pecuniaria (TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. 1350
del 02.12.2016).
13. - Né va tralasciato di considerare che l’intervento riferito
all’interrato del lotto 3, quand’anche singolarmente valutato, per come
realizzato, necessitasse, altresì, di nulla osta previsto dal R.D. n.
3267/1923 e dal R.D. n. 1126/1926, sussistendo sull’area anche il vincolo
idrogeologico.
14. – Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri
sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che, difettandone i
relativi presupposti, non potevano ritenersi perfezionate (cfr. TAR
Campania, Napoli, Sez. IV, 14.11.2016, n. 5248; TAR Campania, Napoli, Sez.
VI, 10.01.2011, n. 35; Cassazione penale, Sez. III, 08.04.2010, n. 17973).
15. - L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto avente un
sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle DIA che
restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal Comune.
Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione rende,
evidentemente, inconferenti tutte le restanti argomentazioni dei ricorrenti
che espressamente fanno riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
15.1.- Per costante giurisprudenza a cui il Collegio presta adesione, “l’atto
di rimozione delle DIA si configura quale esito doveroso del procedimento di
controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come
osservato da condivisa giurisprudenza, non sono evocabili i principi a
presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i
quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente
nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab
origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di
formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto
dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di
un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo
questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina
urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5691;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le
affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono
tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato (si veda, ad
esempio, Consiglio di Stato, Sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una
situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti
proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato” (ex multis,
da ultimo, TAR Puglia, Bari, Sez. III, 06.02.2017, n. 96 e TAR Campania,
Sez. IV, sent. n. 5726 del 13.12.2016 e sent. n. 5248 del 14.11.2016).
16. - In simili casi, del resto, anche l’attuale formulazione dell’art. 19
legge n. 241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della
liberalizzazione, al comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri
poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano altresì
ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi
regionali».
17. – Alla luce delle suesposte considerazioni diventa superfluo -in quanto
irrilevante ai fini della decisione e comunque inidoneo a supportare una
conclusione di tipo diverso- soffermarsi ulteriormente sulla questione della
destinazione d’uso degli immobili realizzati (con particolare riferimento
alla eliminazione della ricezione e della camera per il personale, con
consequenziale cambio di destinazione d’uso del lotto n. 3 di cui si fa
menzione a pag. 5 -lett. e), in relazione agli interventi contemplati dalla
DIA del 31.05.2007, ed a pag. 6 -punto 3 della censurata ordinanza), in
quanto per consolidata giurisprudenza (ex pluribus, Cons. Stato, Sez.
V, 06.06.2011, n. 3382; Cons. Stato, Sez. IV, 06.07.2012, n. 3970; Cons.
Stato, Ad. Plen., 27.04.2015, n. 5), quando un provvedimento amministrativo
negativo è sorretto da una pluralità di motivi è sufficiente che resti
dimostrata, all’esito del giudizio, la fondatezza di uno solo di questi
perché ne derivi la consolidazione dell’atto, stante l’impossibilità di
disporne l’annullamento giurisdizionale.
18. – La natura e la corretta qualificazione degli interventi eseguiti
(sottoposti al regime del permesso di costruire), consentono di concludere
per la legittimità del provvedimento impugnato.
In presenza di opere realizzate senza titolo in zona vincolata, l’ordinanza
di demolizione, ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 è da ritenersi
provvedimento rigidamente vincolato. L’interesse pubblico al ripristino
dello stato dei luoghi è, infatti, “in re ipsa” anche per la
straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed
ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non
proporzionalità della sanzione ablativa, anche in considerazione della non
scorporabilità di quanto abusivamente realizzato da ciò che era stato
originariamente assentito (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 23.06.2015, n. 3179) (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 09.03.2017 n. 223 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Rapporto
intercorrente tra autorizzazione paesaggistica e permesso di
costruire.
L’autorizzazione paesaggistica ha il carattere di atto
autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire.
Infatti il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e
permesso di costruire è un rapporto di presupposizione,
necessitato e strumentale tra le valutazioni paesistiche e
quelle urbanistiche.
E tale principio resta fermo anche quando le disposizioni
urbanistiche sono dettate tenendo conto pure dei valori
paesaggistici di un’area
(massima tratta da https://lexambiente.it).
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9.- Al riguardo, si deve preliminarmente chiarire che non
possono avere decisiva rilevanza in questo giudizio
amministrativo, concernente la legittimità di un ordine di
demolizione determinato dalla realizzazione di opere
edilizie in assenza del (necessario) titolo abilitativo
edilizio, le autorizzazioni paesaggistiche rilasciate per le
stesse opere dalla Regione Lazio.
9.1.- Sebbene infatti per realizzare un’opera edilizia nelle
aree sottoposte a vincolo paesaggistico occorra sia
l’assenso a fini edilizi e sia l’assenso a fini
paesaggistici, con la conseguenza che in tali aree non si
può realizzare un’opera edilizia se non sono presenti
entrambi i titoli abilitativi, tuttavia i due atti di
assenso operano su piani diversi essendo posti a tutela di
interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti.
Pertanto il possibile rilascio di uno dei due atti di
assenso non comporta il necessario rilascio anche dell’altro
e la mancanza del necessario titolo edilizio non consente,
come nella fattispecie, la realizzazione di un’opera anche
se per la stessa è stato rilasciato l’assenso a fini
paesaggistici.
9.2.- In proposito, si è anche di recente ricordato che, per
principio consolidato, l’autorizzazione paesaggistica ha il
carattere di atto autonomo e presupposto rispetto al
permesso di costruire. Infatti il rapporto tra
autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire è un
rapporto di presupposizione, necessitato e strumentale tra
le valutazioni paesistiche e quelle urbanistiche (Consiglio
di Stato, Sezione IV, n. 521 del 09.02.2016).
E tale principio resta fermo anche quando le disposizioni
urbanistiche sono dettate tenendo conto pure dei valori
paesaggistici di un’area
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.06.2016 n. 2658 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Costituisce
principio pacifico quello per cui laddove si voglia
edificare in zona vincolata, occorre ottenere due titoli
abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione
paesaggistica.
E perché il principio sia rispettato è necessario che
entrambi si formino sul medesimo elaborato progettuale, che
altrimenti di tale “doppia” abilitazione non rimarrebbe che
la forma, perché nel merito si sarebbe al cospetto di due
distinti atti ampliativi, formatisi su istanze non aventi
analogo contenuto e tenore.
E ciò quale che sia l’ampiezza delle modifiche e delle
differenze tra essi intercorrenti: il progetto su cui si
pronuncia il Comune e la Soprintendenza deve di necessità
essere il medesimo essendo i rispettivi atti di assenso
diretti a tutelare interessi diversi (paesaggistico, la
seconda, edilizio ed urbanistico, il primo).
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E’ ben nota al Collegio la costante affermazione della
giurisprudenza amministrativa secondo la quale “i due
titoli, permesso di costruire e nulla-osta paesaggistico,
hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al
territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente
vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un’autorizzazione paesaggistica rende non
eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso
di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e
sanzionatorio–ripristinatori, quale un’ordinanza di
riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che
la concessione edilizia può essere rilasciata anche in
mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che
è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché
non interviene il nulla osta paesaggistico. La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio
dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i
provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso
da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi
di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità
giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione
del necessario nulla osta paesaggistico. L’assoggettamento a
vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della
presenza di un’autorizzazione non è stata messa in dubbio,
nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li
ha sollevati come motivi di censura”.
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per
cui: “l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non
consente di considerare la procedura per il rilascio del
nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento
per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come
bellezze di insieme“.
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L’autonomia dei due procedimenti (titolo edilizio
abilitativo ed autorizzazione paesaggistica) sussiste
certamente.
Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in
carenza dell’autorizzazione paesaggistica non sia invalida,
ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe
sopravvenire.
Ove però la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla
base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente
se non nominatim (in quanto l’autorizzazione paesaggistica
venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di
una doppia situazione patologica. La concessione edilizia è
inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è
carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato
presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili,
ove l’autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo
progetto posto a supporto della domanda di rilascio del
permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima
dell’inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada –e ciò non è accaduto nella vicenda in
esame, al momento della presentazione del mezzo e durante il
giudizio di primo grado, quantomeno- ci si trova al cospetto
(non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non
assistiti, a monte, dal nulla-osta ambientale: - TAR
Torino–Piemonte - sez. I 07/11/2012 n. 1166 “la concessione
edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di
autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è
inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché
non interviene il nulla osta paesaggistico. La mancanza di
un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non
eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso
di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e
sanzionatorio-ripristinatori” ma anche) di una concessione
edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso
presupposto dell’avvenuto rilascio –su progetto conforme- di
una autorizzazione paesaggistica.
---------------
4.4.1. Sennonché, risulta dagli atti di causa che la
concessione del 2008 si fonda su un progetto, oggetto di
variante progettuale presentata dalla ditta appellata nel
2007, che non risulta essere stato previamente presentato
alla Soprintendenza (vedasi verbale di sopralluogo del 2008
a più riprese citato dove espressamente ciò si attesta) e
che il progetto ivi contenuto risulta difforme da quello
oggetto di esame -e di parere favorevole- nel 2005.
E parte appellante, ad abundantiam, ha rimarcato
(senza che sul punto siano state avanzate contestazioni, il
che rileva ex art. 64, comma 2, del codice del processo
amministrativo) la differenza tra le tavole progettuali, e
la presenza nel progetto assentito dal comune, -tra l’altro-
di numerose cabine.
Elemento, questo, di rilievo, laddove si consideri che:
a) il progetto per lo stabilimento balneare era complessivo ed
unitario (corpo principale, e corpi accessori);
b) la stessa Soprintendenza, in passato, (nel 2003) allorché
era intervenuta in funzione repressiva dell’assenso
paesaggistico rilasciato dal comune, ivi aveva evidenziato
il pregio dell’area, la necessità che la battigia rimanesse
libera, etc., ed esprimendosi negativamente sui materiali di
cui il progetto prospettava la futura utilizzazione, linee
estetiche, etc.: non potrebbe certo dirsi che la divergenza
tra progetti sul numero e sul posizionamento delle cabine,
fosse indifferente o neutra.
Di tanto peraltro, ha dato atto anche il Tar nella sentenza
n. 183/2011 resa nell’ambito del ricorso di primo grado
proposto dal Condominio n. 1112/2009 e gravata dalla Società
Ac. mercé l’appello n. 7618/2011, del pari chiamato in
decisione in data odierna (ivi così si espresse il Tar: “i
ricorrenti osservano che la tavola progettuale n. 3, sulla
quale la Soprintendenza ha espresso parere favorevole con
prescrizioni, non riporta le cabine, indica il piano di
calpestio dello stabilimento al pari della quota zero posta
sulla via Tirreno e pone il piano di campagna dell’arenile a
– 2,40 metri.”).
4.4.2. A questo punto occorre interrogarsi sulle conseguenze
di tale discrasia.
Ciò in quanto, costituisce principio pacifico quello per cui
laddove si voglia edificare in zona vincolata, occorre
ottenere due titoli abilitativi:
quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica.
E perché il principio sia rispettato è necessario che
entrambi si formino sul medesimo elaborato progettuale, che
altrimenti di tale “doppia” abilitazione non
rimarrebbe che la forma, perché nel merito si sarebbe al
cospetto di due distinti atti ampliativi, formatisi su
istanze non aventi analogo contenuto e tenore.
E ciò quale che sia l’ampiezza delle modifiche e delle
differenze tra essi intercorrenti: il progetto su cui si
pronuncia il Comune e la Soprintendenza deve di necessità
essere il medesimo essendo i rispettivi atti di assenso
diretti a tutelare interessi diversi (paesaggistico, la
seconda, edilizio ed urbanistico, il primo).
4.4.3. Accertato che ciò non è avvenuto nel caso di specie,
ed accertato peraltro che non trattavasi di modifiche
marginalissime, per quanto prima chiarito, ma incidenti
sull’impatto visivo dell’opera, sulla occupazione da parte
della stessa della battigia, etc. (elementi questi, tutti,
dei quali si lamentava l’appellante condominio, in quanto
lesivi dei propri interessi) occorre interrogarsi sulle
conseguenze di tale accadimento.
Ciò, tenendo peraltro conto della circostanza che –come
colto dallo stesso Tar nella sentenza gravata- l’odierna
appellante nell’ambito del mezzo di primo grado aveva
comunque chiesto “l'accertamento dell'illegittimità dei
lavori in corso d'opera in pretesa esecuzione dell'impugnato
permesso a costruire denominato "concessione edilizia" n.
C/08/10 del 18.01.2008.”
4.4.4. E’ ben nota al Collegio la costante affermazione
della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex
aliis, ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII,
05.06.2012 sent. 2652) “i due titoli, permesso di
costruire e nulla-osta paesaggistico, hanno contenuti
differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e
l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata
richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un’autorizzazione paesaggistica rende non
eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso
di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e
sanzionatorio–ripristinatori, quale un’ordinanza di
riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che
la concessione edilizia può essere rilasciata anche in
mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che
è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché
non interviene il nulla osta paesaggistico. La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio
dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i
provvedimenti. (in termini v. Cons. Stato, sez. VI,
02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n.
376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato,
sez. II, 10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato sez. VI n.
547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso
da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi
di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità
giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione
del necessario nulla osta paesaggistico. L’assoggettamento a
vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della
presenza di un’autorizzazione non è stata messa in dubbio,
nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li
ha sollevati come motivi di censura.”.
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per
cui: “l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non
consente di considerare la procedura per il rilascio del
nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento
per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come
bellezze di insieme“ (C.d.S., sez. V, 11.03.1995, n.
376; C.d.S. Sez. VI, 19.06.2001, n. 3242).
4.4.5. Sennonché, occorre osservare che:
a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente
interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che
(Cassazione civile sez. I 07/04/2006 n. 8244) ha avuto modo
di precisare che “ove l'area per la quale si è conseguito
il titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da
altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra
questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico,
che, in via generale, non conferisce al bene una condizione
di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento
abilitativo che dipende dall'accertamento di non
incompatibilità della prospettata attività di
trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato.
Si suole argomentare, correttamente, che in presenza del
vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività
costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di
competenza dell'autorità preposta al controllo delle
costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso,
nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela
dei valori culturali e ambientali, alla valutazione
dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega
o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di
funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa
autorità comunale per delega della regione.
La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla
qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita
per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove
difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si
sia conseguito il nullaosta da parte dell'autorità preposta
alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva
non può dirsi consolidato a favore del proprietario.
L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il Giudice
amministrativo può affermare che il mancato rilascio del
nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro della
concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in
zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di
ambedue i titoli.”;
a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente
orientata nel ritenere che (Cass. Pen. Sez. III 23.11.1999)
per costruire in area vincolata non è sufficiente
l’autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la
concessione edilizia e che laddove l’autorizzazione manchi
la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia
integrato il reato di cui all’art. 20, lett. c), legge n.
47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 (Cass. Pen. n.
10502/1999, 1093/1998, 6681/1998; di recente: Cassazione
penale sez. III 07/10/2014 n. 952: “i
climatizzatori/condizionatori d'aria costituiscono impianti
tecnologici e, pertanto, se collocati all'esterno dei
fabbricati, rientrano nel novero degli interventi edilizi
definiti dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001, sicché la loro
realizzazione o installazione, seppure non necessitante del
permesso di costruire, è tuttavia soggetta a segnalazione
certificata di inizio di attività (s.c.i.a.) ai sensi
dell'art. 22 d.P.R. cit., non rientrando tra gli interventi
eseguibili senza alcun titolo abilitativo".
In ogni caso, poiché anche l'attività edilizia c.d. libera
deve essere attuata nel rispetto delle altre normative di
settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività
edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di
sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle
relative all'efficienza energetica nonché delle disposizioni
contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di
cui al d.lgs. n. 42 del 2004, ne consegue che ove
l'installazione di condizionatore (già soggetta a s.c.i.a.)
abbia luogo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, essa
è da ritenersi condizionata anche a nulla-osta da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, derivando
dal mancato rilascio dell'autorizzazione paesaggistica
l'integrazione della fattispecie di reato prevista dall'art.
181 d.lgs. n. 42 del 2004);
b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più
recente tende ad attenuare il regime di “separatezza”
pervenendo all’affermazione secondo la quale (TAR Roma
(Lazio) sez. II 02/12/2014 n. 12140 “è legittimo il
provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a
costruire un locale servizio conseguito su denunzia di
inizio attività edificatoria, in ragione del mancato
preventivo intervento dell'autorizzazione paesaggistica
necessaria per le costruzioni in zone soggette a vincoli
ambientali.” (così configurando, quindi un vizio di
invalidità del titolo concessorio).
4.4.6. In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più
apparente che reale.
L’autonomia dei due procedimenti sussiste certamente.
Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in
carenza dell’autorizzazione paesaggistica non sia invalida,
ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe
sopravvenire.
Ove però –per venire alla fattispecie verificatasi nella
presente causa- la concessione edilizia sia stata rilasciata
sulla base di un presupposto (id est: avvenuto
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica) in realtà non
sussistente se non nominatim (in quanto
l’autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un
progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione
patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la
autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida,
in quanto fondata su un errato presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili,
ove l’autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo
progetto posto a supporto della domanda di rilascio del
permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima
dell’inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada –e ciò non è accaduto nella vicenda in
esame, al momento della presentazione del mezzo e durante il
giudizio di primo grado, quantomeno- ci si trova al cospetto
(non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non
assistiti, a monte, dal nulla-osta ambientale: - TAR
Torino–Piemonte - sez. I 07/11/2012 n. 1166 “la
concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza
di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la
stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati,
finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La
mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende
non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in
caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e
sanzionatorio-ripristinatori” ma anche) di una
concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto
fondata sul falso presupposto dell’avvenuto rilascio –su
progetto conforme- di una autorizzazione paesaggistica (si
vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR
Napoli–Campania- sez. VI 26.03.2015 n. 1815).
4.7. Dalla ricostruzione sinora rappresentata consegue:
a) la declaratoria di illegittimità dei lavori eseguiti, e
constatati dalla Soprintendenza mercé il sopralluogo del
2008 a più riprese citato;
b) la illegittimità del gravato permesso di costruire del 2008 in
quanto fondato sul “falso” (rectius: errato)
presupposto dell’avvenuto rilascio di una autorizzazione
paesaggistica intervenuta (nel 2005) sul medesimo progetto
delibato in sede di rilascio del permesso di costruire
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.12.2015 n. 5663 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L’autorizzazione paesaggistica -ferma restando la sua
autonomia- è condizione di validità e non soltanto di
efficacia del permesso di costruire.
Sulla questione degli effetti della
mancanza dell’autorizzazione paesaggistica sul permesso di
costruire, se cioè tale atto sia condizione di validità
o
condizione di efficacia del titolo edilizio, la
giurisprudenza ha assunto, nel corso del tempo, posizioni
non univoche.
L’orientamento giurisprudenziale formatosi sotto il vigore
del previgente art. 7 della legge 29.06.1939, n. 1497,
riteneva che, in ragione del carattere autonomo
dell’accertamento di compatibilità paesaggistica rispetto
alla concessione edilizia, il permesso di costruire
rilasciato in carenza dell’autorizzazione paesaggistica, ove
prescritta, non fosse illegittimo ma soltanto inefficace,
essendo detta carenza unicamente preclusiva dell’avvio dei
lavori.
Secondo questa tesi, il titolo abilitativo poteva, dunque,
essere rilasciato anche in mancanza dell’autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che lo stesso era ritenuto
inefficace, e i lavori non potevano essere iniziati, finché
non fosse intervenuto il nulla osta paesaggistico.
Questo orientamento è stato ribadito dalla quarta sezione
del Consiglio di Stato anche successivamente all’entrata in
vigore del d.lgs. n. 42/2004, con una pronuncia, la n.
413/2012: i giudici di Palazzo Spada hanno affermato che
tale linea interpretativa è confermata dal tenore
dell’attuale secondo comma dell’art. 146 del d.lgs. nr. 42
del 2004 il quale, nell’imporre la previa acquisizione del
parere di compatibilità paesaggistica presso le autorità
competenti, espressamente prescrive ai richiedenti il
permesso di costruire di “astenersi dall’avviare i lavori
fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione”.
Vi sono poi pronunce di segno opposto, che
considerano l’autorizzazione paesaggistica condizione di
validità del permesso di costruire.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 5371/2013 afferma
espressamente il principio. Con essa la IV sezione del
Consiglio di Stato ha, invero, sostenuto che deve
“escludersi, per ragioni sistematiche e normative, che, in
assenza di un’espressa qualificazione legislativa, il nulla
osta paesaggistico possa essere considerato una semplice
condizione integrativa dell’efficacia del provvedimento
edilizio” ed ha quindi ritenuto illegittimo un titolo
edilizio rilasciato in assenza di autorizzazione
paesaggistica.
Vi sono poi decisioni che, pur non pronunciandosi
espressamente sulla questione, sono prese sul presupposto
che l’autorizzazione paesaggistica non sia una mera
condizione di efficacia dei titoli edilizi, bensì una
condizione di legittimità degli stessi: con sentenza n. 5025
del 09.10.2014, la VI sezione del Consiglio di Stato ha
ritenuto legittimo l’annullamento in autotutela di un
permesso di costruire in conseguenza dell’annullamento
statale dell’autorizzazione paesaggistica; con la sentenza
n. 788/2014, la IV sezione ha invece ritenuto illegittimo
l’annullamento in autotutela di una s.c.i.a. affermando la
non necessità dell’autorizzazione paesaggistica; con la
sentenza n. 7570/2009, la VI sezione del Consiglio di Stato,
richiamando il rapporto di presupposizione esistente tra
titolo paesaggistico e titolo edilizio, ha ritenuto
legittimo un provvedimento con cui un Comune, dopo avere
negato il rilascio di un nulla osta paesaggistico, ha
conseguentemente ritenuto di non potere vagliare l’istanza
volta ad ottenere il permesso di costruire.
Il Collegio aderisce a questo secondo orientamento.
Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo,
oltre che riconducibili ad ovvie ragioni di economia del
procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui
l’autorizzazione paesaggistica è una condizione di
validità del permesso di costruire e non di mera
efficacia:
- in primo luogo, l’art. 146, d.lgs. n. 42/2004 qualifica
l’autorizzazione paesaggistica atto “autonomo e presupposto
rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti l'intervento urbanistico”.
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo
edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un
“rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra
valutazioni paesistiche ed urbanistiche”, nel senso che
questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso
oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno
nei termini della compatibilità paesaggistica
dell'intervento edilizio proposto e l'altro nei
termini della sua conformità urbanistico-edilizia.
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi
provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio
del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del
titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l’illegittimità,
e non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio
rilasciato in mancanza dell’autorizzazione paesaggistica,
atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso
legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Tale conclusione non va in alcun modo ad intaccare
l’autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo
oltretutto, nell’ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato
rilasciato in mancanza della previa autorizzazione
paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine
decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che
sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di
impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti
valere i vizi di un’autorizzazione paesaggistica che non sia
stata tempestivamente gravata).
L’autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si
ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se
non previa adozione dell’atto presupposto. D’altro canto, è
il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto
all’autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di
presupposizione tra di essi;
- l’art. 5 d.p.r. n. 380/2001 afferma espressamente che gli atti di
assenso delle amministrazioni preposte alla tutela
paesaggistica sono condizione per “il rilascio del permesso
di costruire” (il comma 1-bis fa carico lo sportello unico
per l'edilizia di acquisire presso le amministrazioni
competenti -anche mediante conferenza di servizi ai sensi
degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies
della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti di assenso,
comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla
tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del
patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e
della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale, ai
fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello
unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite
conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis,
14-ter, 14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n.
241, e successive modificazioni, gli atti di assenso,
comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione
dell'intervento edilizio tra i quali “gli atti di assenso,
comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su
immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e
del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n.
42, fermo restando che, in caso di dissenso manifestato
dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni
culturali, si procede ai sensi del medesimo codice”);
- l’art. 20, c. 9, d.P.R. n. 380/2001 condiziona il rilascio del
permesso di costruire al previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, disponendo che, per gli immobili sottoposti a
vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, nel caso in
cui l’autorità preposta al vincolo neghi il proprio assenso,
“decorso il termine per l'adozione del provvedimento finale,
la domanda di rilascio del permesso di costruire si intende
respinta”. La norma prevede il perfezionarsi di un
provvedimento tacito di diniego: non vi è, dunque, alcuno
spazio per il rilascio di un titolo abilitativo, sia pur
inefficace;
- e poi, ancora, l’articolo 22, c. 6, d.P.R. n. 380/2001 consente
la realizzazione di interventi soggetti a denuncia di inizio
attività che riguardino immobili sottoposti a tutela
storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo
subordinatamente “al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative”. La disposizione va coordinata con l’art. 23, c.
3 e 4, d.p.r. n. 380/2001, ai sensi del quale “nel caso dei
vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al
comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia
sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via
di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine
di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del
relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole,
la denuncia è priva di effetti. Nel caso dei vincoli e delle
materie oggetto dell'esclusione di cui al comma 1-bis,
qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad
un vincolo la cui tutela non compete all'amministrazione
comunale, ove il parere favorevole del soggetto preposto
alla tutela non sia allegato alla denuncia, il competente
ufficio comunale convoca una conferenza di servizi ai sensi
degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater, della legge
07.08.1990, n. 241. Il termine di trenta giorni di cui al
comma 1 decorre dall'esito della conferenza. In caso di
esito non favorevole, la denuncia è priva di effetti”. La
norma prevede che il termine di trenta giorni, trascorso il
quale il titolo abilitativo si perfeziona, decorra solo dal
momento in cui viene rilasciata l’autorizzazione
paesaggistica: in mancanza di tale autorizzazione, perciò,
la denuncia di inizio attività non si perfeziona neppure.
Per queste ragioni, quindi, ad avviso del Collegio,
l’autorizzazione paesaggistica -ferma restando la sua
autonomia- è condizione di validità e non soltanto di
efficacia del permesso di costruire.
---------------
10. Parimenti
fondata è la censura con cui viene contestata
l’illegittimità del permesso di costruire impugnato per
carenza dell’autorizzazione paesaggistica.
10.1 Sulla questione degli effetti della mancanza
dell’autorizzazione paesaggistica sul permesso di costruire,
se cioè tale atto sia condizione di validità o
condizione di efficacia del titolo edilizio, la
giurisprudenza ha assunto, nel corso del tempo, posizioni
non univoche.
L’orientamento giurisprudenziale formatosi sotto il vigore
del previgente art. 7 della legge 29.06.1939, n. 1497,
riteneva che, in ragione del carattere autonomo
dell’accertamento di compatibilità paesaggistica rispetto
alla concessione edilizia, il permesso di costruire
rilasciato in carenza dell’autorizzazione paesaggistica, ove
prescritta, non fosse illegittimo ma soltanto inefficace,
essendo detta carenza unicamente preclusiva dell’avvio dei
lavori (cfr. Cass. pen., sez. III, 26.02.2003, nr. 22824; id.,
26.03.2001, nr. 11716; id., 09.02.1998, nr. 1492; Cons.
Stato, sez. V, 14.01.2003, nr. 88; id., 02.05.2001, nr.
2471; sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V,
11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61;
Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468, in Cons. Stato,
1999, I, 746; sez. VI, n. 547/2006).
Secondo questa tesi, il titolo abilitativo poteva, dunque,
essere rilasciato anche in mancanza dell’autorizzazione
paesaggistica, fermo restando che lo stesso era ritenuto
inefficace, e i lavori non potevano essere iniziati, finché
non fosse intervenuto il nulla osta paesaggistico.
Questo orientamento è stato ribadito dalla quarta sezione
del Consiglio di Stato anche successivamente all’entrata in
vigore del d.lgs. n. 42/2004, con una pronuncia, la n.
413/2012: i giudici di Palazzo Spada hanno affermato che
tale linea interpretativa è confermata dal tenore
dell’attuale secondo comma dell’art. 146 del d.lgs. nr. 42
del 2004 il quale, nell’imporre la previa acquisizione del
parere di compatibilità paesaggistica presso le autorità
competenti, espressamente prescrive ai richiedenti il
permesso di costruire di “astenersi dall’avviare i lavori
fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione”.
Vi sono poi pronunce di segno opposto, che
considerano l’autorizzazione paesaggistica condizione di
validità del permesso di costruire.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 5371/2013 afferma
espressamente il principio. Con essa la quarta sezione del
Consiglio di Stato ha, invero, sostenuto che deve “escludersi,
per ragioni sistematiche e normative, che, in assenza di
un’espressa qualificazione legislativa, il nulla osta
paesaggistico possa essere considerato una semplice
condizione integrativa dell’efficacia del provvedimento
edilizio” ed ha quindi ritenuto illegittimo un titolo
edilizio rilasciato in assenza di autorizzazione
paesaggistica.
Vi sono poi decisioni che, pur non pronunciandosi
espressamente sulla questione, sono prese sul presupposto
che l’autorizzazione paesaggistica non sia una mera
condizione di efficacia dei titoli edilizi, bensì una
condizione di legittimità degli stessi: con sentenza n. 5025
del 09.10.2014, la sesta sezione del Consiglio di Stato ha
ritenuto legittimo l’annullamento in autotutela di un
permesso di costruire in conseguenza dell’annullamento
statale dell’autorizzazione paesaggistica (v. anche Cons.
Stato, sez. IV, sentenza n. 7491/2010); con la sentenza n.
788/2014, la quarta sezione ha invece ritenuto illegittimo
l’annullamento in autotutela di una s.c.i.a. affermando la
non necessità dell’autorizzazione paesaggistica; con la
sentenza n. 7570/2009, la sesta sezione del Consiglio di
Stato, richiamando il rapporto di presupposizione esistente
tra titolo paesaggistico e titolo edilizio, ha ritenuto
legittimo un provvedimento con cui un Comune, dopo avere
negato il rilascio di un nulla osta paesaggistico, ha
conseguentemente ritenuto di non potere vagliare l’istanza
volta ad ottenere il permesso di costruire.
11.2 Il Collegio aderisce a questo secondo orientamento.
Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo,
oltre che riconducibili ad ovvie ragioni di economia del
procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui
l’autorizzazione paesaggistica è una condizione di
validità del permesso di costruire e non di mera
efficacia:
- in primo luogo, l’art. 146, d.lgs. n. 42/2004 qualifica
l’autorizzazione paesaggistica atto “autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento urbanistico”.
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo
edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un “rapporto
di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni
paesistiche ed urbanistiche”, nel senso che questi due
apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma
con diversi e separati procedimenti, l'uno nei
termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento
edilizio proposto e l'altro nei termini della sua
conformità urbanistico-edilizia (cfr. sul punto, Cons.
Stato, Sez. IV, 27.11.2010 n. 8260; 21/08/2013, n. 4234).
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi
provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio
del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del
titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l’illegittimità,
e non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio
rilasciato in mancanza dell’autorizzazione paesaggistica,
atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso
legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare
l’autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo
oltretutto, nell’ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato
rilasciato in mancanza della previa autorizzazione
paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine
decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che
sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di
impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti
valere i vizi di un’autorizzazione paesaggistica che non sia
stata tempestivamente gravata).
L’autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si
ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se
non previa adozione dell’atto presupposto. D’altro canto, è
il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto
all’autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di
presupposizione tra di essi;
- l’art. 5 d.p.r. n. 380/2001 afferma espressamente che gli atti di
assenso delle amministrazioni preposte alla tutela
paesaggistica sono condizione per “il rilascio del
permesso di costruire” (il comma 1-bis fa carico lo
sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le
amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di
servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter,
14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli
atti di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni
preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute
e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale,
ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello
unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite
conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis,
14-ter, 14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n.
241, e successive modificazioni, gli atti di assenso,
comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione
dell'intervento edilizio tra i quali “gli atti di
assenso, comunque denominati, previsti per gli interventi
edilizi su immobili vincolati ai sensi del codice dei beni
culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo
22.01.2004, n. 42, fermo restando che, in caso di dissenso
manifestato dall'amministrazione preposta alla tutela dei
beni culturali, si procede ai sensi del medesimo codice”);
- l’art. 20, c. 9, d.P.R. n. 380/2001 condiziona il rilascio del
permesso di costruire al previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, disponendo che, per gli immobili sottoposti a
vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, nel caso in
cui l’autorità preposta al vincolo neghi il proprio assenso,
“decorso il termine per l'adozione del provvedimento
finale, la domanda di rilascio del permesso di costruire si
intende respinta”. La norma prevede il perfezionarsi di
un provvedimento tacito di diniego: non vi è, dunque, alcuno
spazio per il rilascio di un titolo abilitativo, sia pur
inefficace;
- e poi, ancora, l’articolo 22, c. 6, d.P.R. n. 380/2001 consente
la realizzazione di interventi soggetti a denuncia di inizio
attività che riguardino immobili sottoposti a tutela
storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo
subordinatamente “al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative”. La disposizione va coordinata con l’art. 23,
c. 3 e 4, d.p.r. n. 380/2001, ai sensi del quale “nel
caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di
cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto
dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela
compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione
comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1
decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale
atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti. Nel
caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di
cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto
dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela
non compete all'amministrazione comunale, ove il parere
favorevole del soggetto preposto alla tutela non sia
allegato alla denuncia, il competente ufficio comunale
convoca una conferenza di servizi ai sensi degli articoli
14, 14-bis, 14-ter, 14-quater, della legge 07.08.1990, n.
241. Il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre
dall'esito della conferenza. In caso di esito non
favorevole, la denuncia è priva di effetti”. La norma
prevede che il termine di trenta giorni, trascorso il quale
il titolo abilitativo si perfeziona, decorra solo dal
momento in cui viene rilasciata l’autorizzazione
paesaggistica: in mancanza di tale autorizzazione, perciò,
la denuncia di inizio attività non si perfeziona neppure (cfr.
Tar Campania, Napoli, 20/03/2014, n. 1616).
Per queste ragioni, quindi, ad avviso del Collegio,
l’autorizzazione paesaggistica -ferma restando la sua
autonomia- è condizione di validità e non soltanto di
efficacia del permesso di costruire.
11.3 Venendo al caso di specie, il titolo edilizio impugnato
è stato rilasciato in assenza di autorizzazione
paesaggistica.
Il Comune di Milano ha ritenuto sufficiente il parere della
commissione paesaggistica rilasciato nel 2012 sul più ampio
progetto di realizzazione dell’intervento di recupero del
sottotetto.
Ad avviso della difesa dell’amministrazione, una volta che
un intervento edilizio è stato autorizzato sotto il profilo
paesaggistico, lo stesso ben può essere realizzato solo
parzialmente, senza che ciò porti ad alcuna elusione della
normativa vigente.
Il Collegio non condivide queste argomentazioni e ritiene
illegittimo l’operato del Comune.
La commissione paesaggistica ha invero assentito un
intervento edilizio differente, in quanto più ampio,
rispetto a quello di cui al titolo edilizio impugnato.
Un progetto che prevede la realizzazione solo parziale delle
opere assentite richiede un nuovo intervento dell’autorità
preposta alla tutela del vincolo affinché venga valutata
l’incidenza sul paesaggio della diversa soluzione edilizia:
ben potrebbe, invero, una realizzazione parziale delle opere
avere un differente impatto sul contesto paesaggistico e
portare ad esiti che, a differenza del complessivo
intervento edilizio, non sono rispettosi del paesaggio.
Alla sola autorità preposta alla tutela del vincolo, invero,
compete decidere se la realizzazione di una parte soltanto
di un intervento edilizio in precedenza autorizzato sia o
meno indifferente dal punto di vista paesaggistico, se
quindi il precedente giudizio positivo, espresso con
riferimento all’intervento più ampio, debba essere
confermato anche per l’intervento più contenuto.
La decisione del privato di non realizzare integralmente ciò
che era stato valutato favorevolmente ai fini paesaggistici
comportava, pertanto, la necessità per lo stesso di
ottenere, se non una nuova autorizzazione, quantomeno una
conferma del precedente titolo autorizzatorio da parte della
commissione per il paesaggio.
Il titolo edilizio impugnato è quindi illegittimo anche per
essere stato rilasciato in mancanza della necessaria
autorizzazione paesaggistica.
12. Per le ragioni esposte il ricorso è fondato e va,
pertanto accolto. Le ulteriori censure proposte, anche con
il ricorso per motivi aggiunti, possono essere assorbite, al
pari dell’eccezione di rito formulata dai controinteressati,
in quanto ininfluente ai fini della presente sentenza (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.12.2014 n. 3062 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Concessione edilizia valida ma inefficace senza
l'autorizzazione paesaggistica.
La struttura del procedimento di
rilascio del permesso di costruire, sia nella legislazione
statale sia nella disciplina regionale, è costruita in
termini di autonomia e non di interdipendenza rispetto al
rilascio del parere ambientale, anche nei casi in cui il
detto parere sia rimesso alla competente commissione
comunale quale autorità subdelegata.
Ed infatti l’art. 159 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 421, in via
transitoria sino al 31.12.2009 e, da quella data in via
definitiva, l’art. 146 del medesimo decreto legislativo,
prevedono che “l'autorizzazione paesaggistica costituisce
atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di
costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento
urbanistico-edilizio” e l’art. 159 specifica espressamente
che “i lavori non possono essere iniziati in difetto di
essa”.
Di qui consegue che l’autorizzazione paesaggistica non può
essere intesa quale mero presupposto di legittimità del
titolo legittimamente l’edificazione, connotandosi piuttosto
per una sua autonomia strutturale e funzionale rispetto al
permesso di costruire.
Al riguardo il Consiglio di Stato ha più volte affermato
che: “l'autonomia strutturale dei due procedimenti non
consente di considerare la procedura per il rilascio del
nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento
per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come
bellezze di insieme“.
---------------
A ben vedere i due titoli, permesso di costruire e nulla
osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure
ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in
zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di
ambedue i titoli.
La mancanza di un’autorizzazione paesaggistica rende non
eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso
di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e
sanzionatorio–ripristinatori, quale un’ordinanza di
riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che
la concessione edilizia può essere rilasciata anche in
mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che
è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché
non interviene il nulla osta paesaggistico. La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio
dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i
provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso
da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi
di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità
giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione
del necessario nulla osta paesaggistico.
---------------
2. Il ricorso è
infondato e va respinto come di seguito argomentato.
Nel giudizio in esame si controverte in ordine alla
legittimità dell’ordine di demolizione n. 1709 del 2.01.2007
di una scaffalatura metallica autoportante da destinare a
deposito, realizzata dalla società ricorrente La. s.p.a. in
virtù di p.c. n. 7485/2005 rilasciato in assenza del
necessario nulla osta in materia paesaggistica per un
intervento realizzato in area vincolata ricadente su una
fascia di rispetto dei “Regi Lagni”.
Parte ricorrente sostiene l’illegittimità della sanzione
ripristinatoria gravata poiché l’intervento è stato
realizzato sulla base di un valido permesso di costruire
rilasciato dallo stesso Comune di Marcianise e mai
preventivamente annullato, nonché per la omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento sanzionatorio e
per la lesione del legittimo affidamento ingenerato dalla
ultimazione dei lavori regolarmente comunicata
all’amministrazione.
La ricostruzione proposta in ricorso non convince.
2.1 L’assunto difensivo trae spunto dal presupposto secondo
cui il Comune, prima di intervenire con il provvedimento
demolitorio impugnato, avrebbe dovuto procedere
all’annullamento in via di autotutela del permesso di
costruire rilasciato in assenza del parere della competente
commissione paesaggistica ambientale. Ciò in quanto, a dire
del ricorrente, la omessa acquisizione del prescritto parere
ambientale sarebbe imputabile all’amministrazione comunale
medesima quale autorità sub-delegata per legge al rilascio
del parere medesimo.
Tale ricostruzione, a ben vedere, si fonda su un presupposto
erroneo sostenendosi, infondatamente, l’illegittimità di un
permesso di costruire rilasciato in assenza di parere
ambientale.
Ciò non corrisponde al vero dal momento che una siffatta
conclusione contrasta apertamente con la struttura del
procedimento di rilascio del permesso di costruire che, sia
nella legislazione statale, sia nella disciplina regionale,
come si vedrà più innanzi, è costruita in termini di
autonomia e non di interdipendenza rispetto al rilascio del
parere ambientale, anche nei casi, come nella specie, in cui
il detto parere sia rimesso alla competente commissione
comunale quale autorità subdelegata.
Ed infatti l’art. 159 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 421, in via
transitoria sino al 31.12.2009 e, da quella data in via
definitiva, l’art. 146 del medesimo decreto legislativo,
prevedono che “l'autorizzazione paesaggistica costituisce
atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di
costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento
urbanistico-edilizio” e l’art. 159 specifica
espressamente che “i lavori non possono essere iniziati
in difetto di essa”. Di qui consegue che
l’autorizzazione paesaggistica non può essere intesa quale
mero presupposto di legittimità del titolo legittimamente
l’edificazione, connotandosi piuttosto per una sua autonomia
strutturale e funzionale rispetto al permesso di costruire.
Al riguardo il Consiglio di Stato ha più volte affermato
che: “l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non
consente di considerare la procedura per il rilascio del
nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento
per il rilascio della concessione edilizia, neppure
nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come
bellezze di insieme“ (C.d.S., sez. V, 11.03.1995, n.
376; C.d.S. Sez. VI, 19.06.2001, n. 3242).
2.2 Inoltre, la circostanza che lo stesso Comune abbia la
competenza su aspetti diversi della medesima vicenda
abilitativa, urbanistica ed ambientale, non può assecondare
l’enucleazione di un principio secondo cui, in assenza di
una specifica disposizione normativa, il Comune sarebbe
tenuto ad esprimersi con un unico provvedimento finale
riassuntivo e contenente un’autorizzazione unica comprensiva
di tutti i diversi aspetti.
Tale conclusione è smentita peraltro anche dalla normativa
della Regione Campania che, nel disciplinare il procedimento
per il rilascio del permesso di costruire, all’art. 1, comma
3, della legge reg. n. 19/2001, stabilisce espressamente,
per i casi in cui sia necessario acquisire il parere della
commissione edilizia e della commissione edilizia integrata,
ove prescritto, che qualora esse non si esprimano entro il
termine perentorio stabilito dal comma 2, il responsabile
del procedimento è comunque tenuto a formulare la proposta
motivata all’organo comunale competente all’emanazione del
provvedimento finale. Ai sensi del successivo comma 4, il
permesso di costruire è rilasciato entro il termine
perentorio di quindici giorni dalla scadenza del termine
fissato per l’istruttoria dal precedente comma 2. E, per
quanto concerne i casi di cui al comma 3 in cui sia
prescritta l’acquisizione del previo parere della
commissione edilizia anche integrata, il comma 5 consente
che il permesso di costruire sia rilasciato anche per il
caso di inutile decorso del termine assegnato per
l’acquisizione del prescritto parere.
Alla luce di quanto sopra, sarebbe quindi illogico e privo
di giustificazione razionale stabilire un nesso di
antecedenza necessaria tra il rilascio del nulla osta
ambientale e la conclusione del procedimento di rilascio del
permesso di costruire, ove si consideri che si tratta di due
procedimenti distinti, ed entrambi necessari per l’avvio dei
lavori edilizi.
3. A ben vedere i due titoli, permesso di costruire e nulla
osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure
ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in
zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di
ambedue i titoli.
La mancanza di un’autorizzazione paesaggistica rende non
eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso
di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e
sanzionatorio–ripristinatori, quale un’ordinanza di
riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che
la concessione edilizia può essere rilasciata anche in
mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che
è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché
non interviene il nulla osta paesaggistico. La
giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio
dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i
provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI,
02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n.
376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato,
sez. II, 10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato sez. VI n.
547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso
da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi
di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità
giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione
del necessario nulla osta paesaggistico.
L’assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la
necessità della presenza di un’autorizzazione non è stata
messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte
ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.06.2012 n. 2652 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati edilizi l'interesse protetto è
non soltanto quello formale della realizzazione della
costruzione nel rispetto della concessione, ma anche quello
della tutela sostanziale del territorio, il cui sviluppo
deve avvenire in conformità alle previsioni urbanistiche.
La concessione, costituendo un elemento normativo delle
fattispecie tipiche di cui all'art. 20 l. 28.02.1985 n. 47,
va sottoposta a verifica di legalità da parte dell'autorità
giudiziaria, la quale deve accertare che il provvedimento
sia conforme al modello legale previsto, anche con
riferimento all'osservanza della normativa vigente in
materia.
---------------
In tema di reati edilizi, qualora la zona sia sottoposta a
vincolo paesaggistico la relativa autorizzazione si
inserisce nel procedimento di rilascio della concessione e
ne condiziona l'emanazione, assumendo il ruolo di
presupposto. Ne consegue che la concessione è priva di
efficacia qualora il Sindaco l'abbia rilasciata in assenza
del c.d. nulla-osta.
---------------
Il ricorso è fondato.
La Corte territoriale non ha esaminato alcuno dei profili
prospettati, dal pubblico ministero ricorrente, aderendo ad
un orientamento di questa corte, attualmente superato dal
più recente indirizzo della giurisprudenza.
Il dibattito culturale sulla cosiddetta disapplicazione
dell'atto amministrativo ha conosciuto il suo massimo
approfondimento nella materia edilizia, poiché, intorno agli
anni settanta e cioè poco dopo le modifiche apportate alla
legge 17.05.1942, n. 1150, dalla legge 06.08.1967, n. 765,
per accentuare la tutela dei centri urbani dallo sviluppo di
un incontrollato abusivismo, taluni pretori iniziarono
un'attività di penetrante controllo anche su quella parte di
edilizia, realizzata in base a licenze, che, come si desume
dalla lettura delle sentenze del tempo, erano rilasciate in
violazione della disciplina urbanistica generale e locale.
Passaggio indispensabile, per giungere, in questi casi,
all'incriminazione di coloro che costruivano sulla base di
atti abilitativi illegali, fu quello di esaminarne il
contenuto, allo scopo di verificare la legittimità.
A tale risultato si pervenne in base all'interpretazione
della legge 20.03.1865, n. 2248, all. E, che all'art. 2
stabilisce: "Sono devolute alla giurisdizione ordinaria
tutte le cause per contravvenzioni"; all'art. 4 dispone:
"Quando la contestazione cade sopra un diritto che si
pretende leso da un atto dell'autorità amministrativa, i
Tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti
dell'atto... L'atto amministrativo non potrà essere revocato
o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità
amministrative..."; ed infine all'art. 5 recita: "In
questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie
applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti
generali e locali in quanto siano conformi alle leggi".
Fondandosi proprio sull'espressione "in questo come in
ogni altro caso" si individuarono gli "altri casi"
in tutte le vicende penali, nelle quali si fosse in presenza
di atti amministrativi illegittimi.
Ovviamente, poi, pur disapplicando la licenza edilizia e
considerando il privato come costruttore abusivo in quanto
privo di titolo giustificativo, molto spesso si perveniva al
proscioglimento sotto il profilo dell'assenza dell'elemento
soggettivo (cosiddetta buona fede).
Alla metà degli anni ottanta, in contrasto con la
consolidata giurisprudenza, vi fu una pronuncia, con la
quale si affermò che (Cass., Sez. III, sent. n. 576, cc.
13.03.1985, ric. Meraviglia, mass. 168422): "Il controllo
di legittimità dell'atto amministrativo da parte del giudice
penale deve essere rigorosamente limitato agli atti che
incidono negativamente sui diritti soggettivi ed a
condizione che si tratti di accertamento incidentale, che
lasci persistere gli effetti di cui l'atto è capace
all'esterno del giudizio. L'istituto della disapplicazione
degli atti amministrativi da parte del giudice ordinario non
riguarda quegli atti che rimuovono un ostacolo al libero
esercizio dei diritti (nullaosta, autorizzazione) ovvero
costituiscono diritti soggettivi (concessioni). In
particolare il giudice penale non ha cognizione della
legittimità della concessione edilizia neppure sotto il
diverso profilo che la questione costituisca l'oggetto
diretto del giudizio, perché tra i presupposti della
disposizione incriminatrice non è previsto che la
concessione edilizia debba essere stata "legalmente" data.
La cognizione del giudice penale è limitata, nel caso
considerato, al controllo dell'esistenza della concessione
sulla base della esteriorità formale dell'atto e della sua
provenienza dall'organo investito della correlativa potestà".
Nella pronunzia n. 3, cc. 31.01.1987, ric. Giordano, le
Sezioni Unite, pur inserendosi in questo filone volto a
contenere la possibilità di controllo del contenuto del
provvedimento, affermarono il principio, secondo cui il
giudice penale non ha il potere di disapplicare un atto
amministrativo, quando quest'ultimo ampli il diritto
soggettivo dell'interessato ovvero lo costituisca ex novo,
tranne che tale possibilità sia disciplinata in modo
espresso dall'ordinamento giuridico ovvero la valutazione
della legittimità dell'atto rappresenti l'oggetto del reato
od ancora se il rilascio del medesimo sia frutto di attività
illecita del soggetto pubblico (funzionario o
amministratore) o privato.
La massima è così formulata: “Il reato di costruzione in
assenza della concessione di cui all'art. 17, lett. b),
della legge 28.01.1977, n. 10, non è configurabile nel caso
che la concessione rilasciata prima dello inizio dei lavori
sia illegittima; si verte invece in ipotesi di assenza
dell'atto non solo quando l'atto in questione sia stato
emesso da organo assolutamente privo del potere di
provvedere, ma anche qualora il provvedimento sia frutto di
attività criminosa del soggetto pubblico che lo rilascia o
del soggetto privato che lo consegue e, quindi non sia
riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico,
oltre la quale non è dato operare ai pubblici poteri.”.
La questione però non è stata definitivamente risolta,
poiché si è nuovamente affermato (Cass., Sez. III, n. 2766,
ud. 09.01.1989, ric. Bisceglia, mass. 182411) che "in
virtù dell'art. 5 della legge 20.03.1865, n. 2248, all. E,
al giudice penale è affidato un generale controllo di
legalità su tutti gli atti amministrativi limitatamente al
processo in corso: egli ha quindi il potere-dovere di non
applicare gli atti illegittimi per violazione di legge e non
soltanto quelli illeciti, frutto cioè di collusione tra
pubblico amministratore e privato. Ne deriva che al reato di
costruzione senza concessione deve essere parificato quello
di costruzione con provvedimento illegittimo e quindi da
disapplicare. Il principio di tassatività in tal caso non
viene violato, poiché esso trova fondamento in quello di
legalità".
Sul tema, successivamente, non si rinvengono molte altre
decisioni, poiché i giudici di merito si sono, in
maggioranza, attenuti al principio fissato dalle Sezioni
Unite e la Corte non si è più interessata del problema.
Vi sono, invece, numerose pronunzie sulla concessione in
sanatoria, che, però, non interessano per la specificità
della questione, attinente alle ipotesi estintive del reato,
che -come tali- non possono essere sottratte alla "conoscenza"
del giudice ordinario.
Sul quesito principale si deve osservare che l'illegittimità
dell'atto può venire in rilievo -oltre che nell'ipotesi di
collusione tra soggetto pubblico ed interessato- anche
quando ad essa espressamente si riferisca il legislatore,
come per esempio nel caso dell'art. 650 cod. pen..
In quest'ultima ipotesi è la stessa disposizione
incriminatrice ad indicare tale requisito, tra i presupposti
del reato.
Sostengono i fautori dell'opposto orientamento che, quando,
invece, la struttura della fattispecie tipica non prevede un
espresso controllo sulla legalità dell'atto, quest'ultimo
non sarebbe consentito al giudice.
La Corte condivide l'opinione, secondo cui la tesi,
precedentemente affermata in ordine alla "disapplicazione
dell'atto amministrativo" in base all'art. 5 della legge
di abolizione del contenzioso amministrativo risulta
superata nel più recente sviluppo della scienza del diritto
penale.
Quest'ultima utilizza propri strumenti ermeneutici, adeguati
alla specificità della materia.
È improprio, quindi, il richiamo alla legge n. 2248 del
1865, che mira a regolare rapporti nel campo del diritto
civile.
In materia penale, come è noto, vige in virtù dell'art. 25
della Costituzione, il principio di legalità, dal quale
deriva quello di tassatività della fattispecie.
L'indagine sulla legittimità dell'atto amministrativo, però,
può venire in rilievo, non soltanto qualora sia formalmente
statuita, ma anche quando dalla ricostruzione dell'ipotesi
tipica in relazione alle finalità legislative, si desume che
tale verifica è un passaggio indispensabile, per la stessa
configurabilità del reato.
La "concessione edilizia" fa parte della fattispecie
tipica ed è un elemento normativo, in quanto la sua nozione
è stabilita dall'ordinamento giuridico, non, corrispondendo
ad un concetto naturalistico (es. animale).
È, quindi, necessario che vi sia perfetta coincidenza tra
l'atto e la fattispecie tipica del diritto amministrativo,
per ritenere che il soggetto agisca lecitamente nel porre in
essere l'opera.
Se manca tale coincidenza l'atto soltanto formalmente è
catalogabile tra i provvedimenti amministrativi, essendo nel
suo contenuto contra ius.
Tale contrarietà rende l'atto invalido sotto il profilo
penale, atteso che nel settore edilizio la violazione delle
norme vigenti integra gli estremi del reato di cui all'art.
20, lett. a), della legge n. 47 del 1985 ed appartiene al
campo dell'illecito, sanzionato come contravvenzione.
V'è, inoltre, da rilevare che la legge edilizia non riserva
all'amministrazione il compito esclusivo ed assoluto di
controllo del territorio, sottraendo al magistrato qualsiasi
possibilità di accertamento.
Le sezioni unite nella ricordata sentenza n. 4 del 1987
evidenziavano che la ratio della disciplina sarebbe volta ad
assegnare soltanto all'Amministrazione l'esercizio del
potere di verifica e concludevano che, in caso diverso,
diversa doveva essere la soluzione del quesito.
Due sono le affermazioni di quella pronuncia da sottoporre
ad una nuova valutazione.
La prima è la seguente "l'equiparazione tra mancanza di
concessone e concessione illegittimamente rilasciata
potrebbe ritenersi valida in quanto fosse possibile ritenere
che la disposizione dell'art. 17, lett. b), della legge
28.01.1977, n. 10 (ora art. 20, lett. b), della legge
28.02.1985, n. 47), sia funzionale alla tutela
dell'interesse all'osservanza delle norme di diritto
sostanziale che disciplinano l'attività edilizia".
La seconda consiste nell'individuazione dell'interesse
tutelato soltanto in quello pubblico di assoggettare
l'attività edilizia al controllo preventivo della pubblica
amministrazione, per cui il reato sussiste anche se si è
costruito nel rispetto della normativa sostanziale che la
disciplina.
Al riguardo va osservato che la sentenza delle sezioni unite
concerneva una vicenda realizzata prima dell'entrata in
vigore della legge n. 47 del 1985 e le osservazioni su
quest'ultima normativa era un obiter dictum.
Sotto il profilo dell'approfondimento critico, già con la
decisione n. 614 del 1987 (Sez. III, cc. 13.03.1987, rv.
175671, ric. Ginevoli) si osservò che il rilascio di
qualsiasi concessione -sia ordinaria che in sanatoria- è
attualmente -in virtù delle modifiche apportate alla
normativa urbanistica dagli artt. 6, 13, 15 e 26 della legge
28.02.1985, n. 47 ("Norme in materia di controllo
dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e
sanatoria delle opere abusive")- subordinato
all'indagine di conformità agli elementi normativi che
consentono l'edificabilità del suolo: l'interesse protetto
non è più soltanto quello di assicurare che la modifica del
territorio avvenga sotto il controllo dell'autorità
amministrativa, ma che tale sviluppo si verifichi in piena
aderenza al programmato assetto urbanistico.
Tale tesi nel 1993 è stata ripresa con riferimento alla
contravvenzione di cui all'art. 20, lett. a), della legge n.
47 del 1985 (inosservanza dei regolamenti edilizi e degli
strumenti urbanistici) ed ha trovato l'autorevole avallo
delle Sezioni Unite con la decisione n. 11635 del 1993 (ud.
12.11.1993, rv. 195358, ric. P.M. in proc. Borgia), nella
quale è stato "rilevato che l'accertamento che il giudice
penale è chiamato a compiere con riferimento alla suddetta
fattispecie contravvenzionale consiste nel verificare la
conformità tra l'ipotesi di fatto, ossia l'opera eseguenda
od eseguita, e la fattispecie legale."
Ha, poi, "escluso che, sussistendo difformità dell'opera
edilizia rispetto agli strumenti normativi urbanistici
ovvero alle norme tecniche di attuazione del piano
regolatore generale, il giudice penale dovrebbe comunque
concludere per la mancanza di illiceità penale nel caso in
cui sia stata rilasciata la concessione edilizia," in
quanto "la
concessione non è idonea a definire esaurientemente lo
statuto urbanistico ed edilizio dell'opera realizzanda senza
rinviare al quadro delle prescrizioni degli strumenti
urbanistici ed alle rappresentazioni grafiche del progetto
approvato, di tal che nella specie non si configura una non
consentita disapplicazione"
da parte del giudice penale dell'atto amministrativo
concessorio.
Questo profilo deve essere attualmente vieppiù valorizzato.
Nella decisione n. 4 del 1987 le Sezioni Unite non poterono
condurre un esame meditato sulla legge n. 47 del 1985 per i
limiti imposti dalla fattispecie concreta; omisero, quindi,
di porre in modo adeguato l'accento sugli articoli 4, 6, 7,
13, 14 e 22.
Vanno, in senso contrario, svolte le seguenti
considerazioni.
Se, in virtù dell'art. 6 della legge n. 47 del 1985,
l'accertamento sulla conformità dell'opera alla normativa
urbanistica ed alle previsioni di piano rientra tra i doveri
di committente, titolare della concessione e costruttore, la
medesima verifica non può essere sottratta all'autorità
giudiziaria.
Gli artt. 13 e 22, poi, prevedono che un'opera sorta in
assenza di concessione, ma conforme a quella disciplina
sostanziale, di cui parlavano le sezioni unite, può ed anzi,
sussistendone i presupposti, deve essere sanata.
Ciò dimostra che non è il solo dato formale dell'atto
abilitativo ad avere rilevanza, ma la concreta rispondenza
alle previsioni edilizie.
Né va trascurato di rilevare che l'aspetto sostanziale è
considerato tanto prevalente dal legislatore del 1985, che è
frequentissimo l'uso delle espressioni "abuso", "abusivo",
"abusivamente" (artt. 7, 12, 13, 14, 19).
Infine l'art. 7 ha assegnato anche al giudice penale il
potere-dovere di disporre ed eseguire la demolizione.
L'interesse protetto ha, dunque, natura sostanziale e non
meramente formale; si è, quindi, verificato proprio
l'estremo indicato dalle sezioni unite (già innanzi
riportato): "L'equiparazione tra mancanza di concessione
e concessione illegittimamente rilasciata potrebbe ritenersi
valida in quanto fosse possibile ritenere che la
disposizione dell'art. 17, lett. b), della legge 28.01.1977,
n. 10 -ora art. 20, lett. b), della legge 28.02.1985, n. 47-
sia funzionale alla tutela dell'interesse all'osservanza
delle norme di diritto sostanziale che disciplinano
l'attività edilizia".
Ne deriva, in conclusione, che la concessione integra un
elemento normativo e deve essere sottoposta ad accertamento
di legalità sostanziale.
Nella vicenda in esame v'è, poi, un altro aspetto da
considerare: lo stretto collegamento, che la legge n. 47 del
1985 ha creato tra edilizia da un lato e vincoli
storici, archeologici e paesaggistici dall'altro.
Già l'art. 25 del R.D. 03.06.1940, n. 1357 (menzionato nel
capo d'imputazione) stabilisce che "...i sindaci non
possono concedere licenza di costruzione se non previo
favorevole avviso della competente soprintendenza".
In base a questa disposizione, l'autorizzazione
paesaggistica s'inserisce come elemento indispensabile nel
procedimento di rilascio della concessione in modo da
incidere sulla sua efficacia: soltanto con il provvedimento
abilitativo dell'autorità preposta alla tutela del vincolo
la concessione medesima spiega interamente tutti i suoi
effetti.
Tale intima connessione, già statuita dal R.D. n. 1357 del
1940, è stata ulteriormente rafforzata nella legge n. 47 del
1985, che all'art. 4 ha assegnato al sindaco il dovere di "provvedere
alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi,
previa comunicazione alle amministrazioni competenti, le
quali possono eventualmente intervenire, ai fini della
demolizione, anche di propria iniziativa" "qualora si tratti
... delle aree di cui alle leggi ... 29.06.1939, n. 1497 ...".
Quest'ultima statuizione attribuisce all'amministrazione
comunale ampio potere d'intervento anche in materia di
vincoli.
È evidente che il sindaco (o il soggetto da lui delegato)
non può e non deve ignorare tale aspetto anche quando
rilascia la concessione.
Quest'ultima s'inserisce come atto conclusivo di un
procedimento articolato, nel quale l'autorizzazione
paesaggistica, pur avendo natura diversa, assume un ruolo
fondamentale.
Essa si pone come presupposto, che garantisce
l'indispensabile coordinamento tra le autorità preposte al
controllo del territorio.
A volte queste sono rappresentate dallo stesso sindaco, al
quale per delega o subdelega è attribuita la competenza con
riferimento alla tutela dei vincoli.
Le osservazioni svolte inducono a considerare il
provvedimento dell'autorità preposta al controllo dei
vincoli medesimi, quanto meno, requisito d'efficacia della
concessione, la cui operatività è sempre subordinata alla
sussistenza dell'autorizzazione predetta.
In tal senso si è più volte espresso anche il Consiglio di
Stato, secondo cui (Sez. VI, sent. n. 51 del 13.02.1987, pd.
870118) "a norma dell'art. 25 del R.D. 03.06.1940, n.
1357, l'esecuzione di una costruzione in una zona vincolata
ai piani territoriali paesaggistici non può essere
autorizzata dal sindaco se non previo favorevole avviso
della competente soprintendenza la quale, in quanto preposta
alla tutela dei valori ambientali, svolge una funzione
condizionante nei confronti della concessione comunale ad
edificare" (conf.: Sez. V, sent. n. 100 del 20.02.1985,
pd. 850208, Sez. VI, sent. n. 394 del 07.07.1981 pd. 811004;
Sez. V, sent. n. 376 del 28.08.1981, pd. 810981; Sez. V, dec.
n. 969 del 04.11.1977, pd. 772967; Sez. V, dec. n. 92 del
08.02.1972, pd. 720234).
In conclusione, va fissato il seguente principio di diritto:
“in tema di reati edilizi l'interesse protetto è non
soltanto quello formale della realizzazione della
costruzione nel rispetto della concessione, rilasciata
dall'amministrazione comunale, ma anche quello della tutela
sostanziale del territorio, il cui sviluppo deve avvenire in
conformità alle previsioni urbanistiche”.
La concessione costituisce un elemento normativo delle
fattispecie tipiche di cui all'art. 20, lett. b) e c).
Essa va sottoposta a verifica di legalità da parte
dell'autorità giudiziaria, la quale deve accertare che il
provvedimento sia conforme al modello legale previsto anche
con riferimento all'osservanza della normativa vigente in
materia.
Nell'ipotesi in cui la zona sia soggetta a vincolo
paesaggistico, l'autorizzazione relativa s'inserisce nel
procedimento di rilascio della concessione e ne condiziona
l'emanazione, assumendo il ruolo di presupposto.
Consegue che la concessione è priva d'efficacia qualora il
sindaco l'abbia rilasciata in assenza del cosiddetto
nullaosta (v. Sez. III, sent. n. 1053 del 20.11.1993, cc.
04.05.1993, rv. 195559; conf. Sez. III, sent. n. 113, cc.
13.01.1995, rv. 201960, imp. Cutonilli; Sez. III, sent. n.
1756, ud. 12.05.1995, rv. 202077 imp. Di Pasquale; Sez. III,
sent. n. 11988, ud. 28.10.1997, rv. 209194, imp. Controzzi).
È superfluo aggiungere -perché rientra nelle regole generali
fissate in tema di elemento soggettivo- che tale verifica è
limitata al solo caso in cui l'illegittimità sia
macroscopica od eclatante e sia tale da non sfuggire a un
soggetto normalmente informato a livelli minimi di
conoscenza normativa.
Nella specie, dunque, la Corte d'Appello ha fondato la sua
pronunzia su un'affermazione superata, che questa Corte
ritiene di non dovere condividere.
Ne è conseguito il mancato esame dell'intera vicenda
processuale.
In questa sede, dunque, non devono essere prese in
considerazioni le osservazioni prospettate dalla difesa, in
quanto alla loro valutazione provvederà il giudice di
rinvio, che dovrà decidere sulla base del principio innanzi
formulato (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.06.1998 n. 6671). |
aggiornamento al
25.01.2022 |
|
RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA:
oramai, è chiaro che se non c'è un "aggravio del
carico urbanistico"
gli
oneri di urbanizzazione non sono più dovuti!!
E le casse comunali "piangono"... |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini dell’insorgenza dell’obbligo “di corresponsione degli
oneri concessori è rilevante il realizzarsi di un maggiore carico
urbanistico quale effetto dell’intervento edilizio assentito, di modo che
non occorre che la trasformazione interessi l’intero immobile ma è
sufficiente che ne risultino, anche solo in parte, variate la realtà
strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri di conseguenza riferiti
all’oggettiva rivalutazione del bene e funzionali ad affrontare l’aggiuntivo
peso socio-economico che ne deriva, anche quando l’incremento dell’impatto
sul territorio consegua solo a marginali lavori dovuti ad una diversa
distribuzione dell’immobile fra più proprietari o fruitori”.
---------------
Come già rilevato dal Consiglio di Stato:
- “mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di
costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità
(superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione
di permettere all’amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute
dalla collettività di riferimento per la trasformazione del territorio
consentita al privato istante, la quota del contributo di costruzione
commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve alla prioritaria funzione
di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che
si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico
urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove
opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente
quelle già esistenti”;
- “in base al generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al
carico urbanistico, tale carico sussiste anche in caso di divisione e
frazionamento di immobile che da uno si trasforma in due unità. Pertanto è
rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto
dell’intervento edilizio, sicché è sufficiente che risulti comunque mutata
la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri riferiti
all’oggettiva rivalutazione dell’immobile e funzionali a sopportare
l’aggiuntivo carico socio-economico che l’attività edilizia comporta, anche
quando l’incremento dell’impatto sul territorio consegua solo a lavori
dovuti a una divisione dell’immobile in due unità o fra due o più
proprietari”;
- “sulla base del generale principio di correlare gli oneri di
urbanizzazione al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta
il pagamento di detti oneri allorché l’intervento abbia determinato un
aumento del carico urbanistico –e considerato che il carico urbanistico
sussiste anche allorquando l’intervento di ristrutturazione comporti la
divisione ed il frazionamento di un immobile, … per essere l’edificio
adibito ad attività di impresa di due distinti soggetti, con l’apertura di
due nuovi ingressi, per due distinte unità abitative– deve ritenersi che
anche in tal caso si realizza un aumento dell’impatto sul territorio e sono
pertanto dovuti i predetti oneri”.
---------------
1. Giova, preliminarmente alla disamina dei proposti motivi di
appello, procedere ad una ricognizione degli essenziali tratti motivazionali
della gravata sentenza del TAR dell’Emilia Romagna.
Premesso che, ai fini dell’insorgenza dell’obbligo “di corresponsione degli
oneri concessori è rilevante il realizzarsi di un maggiore carico
urbanistico quale effetto dell’intervento edilizio assentito, di modo che
non occorre che la trasformazione interessi l’intero immobile ma è
sufficiente che ne risultino anche solo in parte variate la realtà
strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri di conseguenza riferiti
all’oggettiva rivalutazione del bene e funzionali ad affrontare l’aggiuntivo
peso socio-economico che ne deriva, anche quando l’incremento dell’impatto
sul territorio consegua solo a marginali lavori dovuti ad una diversa
distribuzione dell’immobile fra più proprietari o fruitori”, il giudice di
prime cure ha ritenuto che:
- “la chiusura degli accessi interni fra le due unità immobiliari, lungi dal
risolversi nel mero esercizio del diritto di proprietà della società
ricorrente –che ha in tal modo impedito il libero ingresso da proprietà
altrui–, integri in realtà un’oggettiva variazione delle modalità d’uso
dell’immobile, d’ora in poi suscettibile di impiego da parte di un ulteriore
operatore commerciale, in aggiunta a quello dell’altra unità immobiliare, e
per questo fonte di maggiore carico urbanistico”;
- e che, anche in assenza di “una vera e propria creazione di più unità
immobiliari … si è comunque realizzato un frazionamento di fruibilità
urbanistica per effetto della moltiplicazione di soggetti che possono
servirsi di locali in precedenza riservati, in ragione dell’uso comune
(adesso precluso dalla soppressione degli accessi interni), ad un unico
operatore commerciale”;
-
da ultimo, escludendo che possa “essere rimproverato all’Amministrazione
comunale di avere fatto indebitamente gravare sulla società ricorrente oneri
concessori dovuti in realtà dall’altro proprietario, in quanto il contributo
edilizio è legalmente a carico di chi ottiene il titolo abilitativo, mentre
eventuali vantaggi indiretti da parte di terzi devono essere regolati inter
partes nelle forme e nei limiti ammessi dall’ordinamento”.
2. Il percorso argomentativo che ha condotto alla reiezione del ricorso di
primo grado, merita in questa sede integrale conferma.
Come da questa Sezione rilevato con recente sentenza 12.04.2021, n.
2956:
- “mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di
costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità
(superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione
di permettere all’amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute
dalla collettività di riferimento per la trasformazione del territorio
consentita al privato istante, la quota del contributo di costruzione
commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve alla prioritaria funzione
di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che
si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico
urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove
opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente
quelle già esistenti” (Cons. Stato, Sez. VI, 02.07.2015, n. 3298);
- “in base al generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al
carico urbanistico, tale carico sussiste anche in caso di divisione e
frazionamento di immobile che da uno si trasforma in due unità. Pertanto è
rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto
dell’intervento edilizio, sicché è sufficiente che risulti comunque mutata
la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri riferiti
all’oggettiva rivalutazione dell’immobile e funzionali a sopportare
l’aggiuntivo carico socio-economico che l’attività edilizia comporta, anche
quando l’incremento dell’impatto sul territorio consegua solo a lavori
dovuti a una divisione dell’immobile in due unità o fra due o più
proprietari” (Cons. Stato, Sez. IV, 17.05.2012, n. 2838);
- “sulla base del generale principio di correlare gli oneri di
urbanizzazione al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta
il pagamento di detti oneri allorché l’intervento abbia determinato un
aumento del carico urbanistico –e considerato che il carico urbanistico
sussiste anche allorquando l’intervento di ristrutturazione comporti la
divisione ed il frazionamento di un immobile, … per essere l’edificio
adibito ad attività di impresa di due distinti soggetti, con l’apertura di
due nuovi ingressi, per due distinte unità abitative– deve ritenersi che
anche in tal caso si realizza un aumento dell’impatto sul territorio e sono
pertanto dovuti i predetti oneri” (Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n.
2611).
3. Se, per effetto degli illustrati principi, l’immanenza dell’obbligo di
corresponsione degli oneri di urbanizzazione accede alla realizzazione di un
maggiore carico urbanistico, quale effetto di un assentito intervento
edilizio, anche nell’ipotesi in cui (come nella fattispecie all’esame) venga
in considerazione un intervento di divisione e frazionamento di immobile
(con riveniente creazione di due distinte unità), deve darsi atto della
piena condivisibilità della pretesa nei confronti dell’odierna appellante
fatta valere dal Comune di Bologna, attesa la rilevanza –ai fini di che
trattasi– del verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto
dell’intervento edilizio, con conseguente immutazione della realtà
strutturale e della fruibilità urbanistica ed aggiuntivo carico
socio-economico indotto dall’attività edilizia (quand’anche sostanziatasi
esclusivamente in lavori dovuti a una divisione dell’immobile in due unità o
fra due o più proprietari).
Né, in contrario avviso, rileva la preesistente alienità, sotto il profilo
della titolarità dominicale, delle due unità componenti l’immobile
(precedentemente destinato, unitariamente, ad attività commerciale), atteso
che tale dato si dimostra appieno irrilevante, con riferimento alla
separazione degli ambienti (alla quale ha fatto seguito la pretesa di
corresponsione degli oneri di urbanizzazione da parte dell’appellata
Amministrazione) e alla elettiva potenzialità di ciascuna delle stesse ad
una difforme adibizione, con riveniente incremento del carico urbanistico in
esse riconoscibile.
La chiusura degli accessi interni fra le due unità immobiliari
(precedentemente funzionale ad un’unica conduzione, a fini commerciali, dei
locali) ha determinato una obiettiva immutazione delle modalità d’uso
dell’immobile, con duplicazione delle modalità di impiego e corrispondente
accrescimento del carico urbanistico.
Il frazionamento del compendio immobiliare, precedentemente oggetto di
unitaria conduzione commerciale, ha quindi determinato un corrispondente
frazionamento di fruibilità urbanistica, con riveniente duplicazione dei
soggetti abilitati a servirsi di locali già riservati, in conseguenza di un
uso unitario (ora, inibito dalla eliminazione degli accessi interni), ad un
unico operatore commerciale.
Se tale presupposto appieno integra idoneo fondamento ai fini della
corresponsione degli oneri concessori di urbanizzazione, va da ultimo
escluso che (come correttamente osservato dal giudice di primo grado) abbia
errato l’appellata Amministrazione nel porre il relativo carico
esclusivamente sull’odierna appellante, atteso che –impregiudicata,
ovviamente, l’esercitabilità, da parte di Ca’ To., di eventuali azioni
volte alla regolamentazione dei rapporti inter partes– il contributo
edilizio grava sul soggetto che abbia richiesto (ed ottenuto) il titolo
abilitativo.
4. La riscontrata infondatezza delle censure esposte con il presente
appello, ne impone la reiezione, con conseguente conferma della sentenza di
primo grado (Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 21.07.2021 n. 5494 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esistenza di una costruzione abusiva può aggravare il c.d.
carico urbanistico e, quindi, protrarre le conseguenze del reato.
---------------
L'aumento del carico urbanistico non costituisce una conseguenza
ontologicamente connaturata alla mera esistenza dell'immobile abusivo, ma
può determinarsi per effetto dell'utilizzazione di esso, secondo le finalità
(nella specie abitative) cui è destinato, dal che discende l'aggravio delle
preesistenti infrastrutture e delle opere collettive correlate sotto il
profilo di una maggiore esigenza di esse.
L'aggravio del carico urbanistico deve dunque essere valutato in concreto,
avuto riguardo alla portata delle opere abusivamente realizzate e
all'incidenza del loro utilizzo sul contesto delle infrastrutture esistenti
e dunque sull'equilibrio urbanistico.
Nel caso di specie si tratta di una villa di rilevanti dimensioni, con
destinazione in parte alberghiera, in relazione alla quale è stato, inoltre,
accertato un mutamento della destinazione d'uso (abitativo) di parte dei
locali; l'utilizzo dell'immobile, pertanto, senza dubbio determinerebbe una
significativa incidenza sul carico urbanistico di zona, oltre al pericolo di
un ulteriore deterioramento dell'ecosistema protetto dal vincolo
paesaggistico.
---------------
2. Avverso tale ordinanza propone ricorso per cassazione Ni.Se., a mezzo del
proprio difensore, lamentando (in sintesi giusta il disposto di cui all'art.
173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.):
...
III) violazione di legge in relazione alle esigenze cautelari.
Deduce che la motivazione sul punto è viziata da un error in procedendo che
si manifesta sotto due differenti profili: in primo luogo, l'apparato argomentativo, posto a sostegno del provvedimento, appare privo dei
requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza in tema dei
requisiti cautelari idonei alla conferma della misura cautelare; manca ogni
motivazione; in secondo luogo, la decisione del Collegio del Riesame è
censurabile nella parte concernente la sussistenza delle esigenze cautelari.
...
V) violazione di legge per erronea applicazione della normativa
urbanistica in ordine ai capi e ai punti dell'ordinanza concernenti il
concetto di carico urbanistico posto a fondamento della sussistenza del
periculum in mora.
Deduce che la nozione di carico urbanistico deriva dall'osservazione per cui
ogni insediamento umano risulta costituito da un elemento c.d. primario
(abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere
pubbliche in genere, strade,fognature, elettrificazione, servizio idrico,
etc.) che deve essere proporzionato all'insediamento primario.
Ciò che deve connotare l'immobile abusivo è lo sperequato incremento del
carico urbanistico ossia il carico urbanistico realizzato in assenza di
valido permesso o in difformità della normativa urbanistica o ambientale.
Nella specie, l'incremento non aggrava né protrae le conseguenze del fatto
di reato contestato ovvero il periculum in mora.
Il Ni., infatti, aveva ottenuto un nuovo permesso di costruire in variante a
tutti gli effetti valido ed astrattamente idoneo a legittimare l'attuale
costruzione.
...
8. Le censure sub III) e V) -da trattarsi congiuntamente poiché
logicamente avvinte- al di là della qualificazione assegnata dal ricorrente,
attengono, sostanzialmente, a presunti vizi della motivazione.
Nondimeno, è opportuno evidenziare la presenza di una sufficiente
motivazione -per altro priva di aporie manifeste- resa dal Tribunale,
secondo cui la sussistenza delle esigenze cautelari deriva da fatto che «l'esistenza
di una costruzione abusiva può aggravare il c.d. carico urbanistico e quindi
protrarre le conseguenze del reato [...] l'aumento del carico urbanistico
non costituisce una conseguenza ontologicamente connaturata alla mera
esistenza dell'immobile abusivo, ma può determinarsi per effetto
dell'utilizzazione di esso, secondo le finalità (nella specie abitative) cui
è destinato, dal che discende l'aggravio delle preesistenti infrastrutture e
delle opere collettive correlate sotto il profilo di una maggiore esigenza
di esse. L'aggravio del carico urbanistico deve dunque essere valutato in
concreto, avuto riguardo alla portata delle opere abusivamente realizzate e
all'incidenza del loro utilizzo sul contesto delle infrastrutture esistenti
e dunque sull'equilibrio urbanistico. Nel caso di specie si tratta di una
villa di rilevanti dimensioni, con destinazione in parte alberghiera, in
relazione alla quale è stato, inoltre, accertato un mutamento della
destinazione d'uso (abitativo) di parte dei locali; l'utilizzo
dell'immobile, pertanto, senza dubbio determinerebbe una significativa
incidenza sul carico urbanistico di zona, oltre al pericolo di un ulteriore
deterioramento dell'ecosistema protetto dal vincolo paesaggistico»,
facendo, così, anche buon uso del principio fissato da Sez. 3, Sentenza n.
11146/2002 (Corte di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 20.05.2021 n. 20109). |
EDILIZIA PRIVATA: L’edificio
di nuova costruzione, derivante dalla demolizione di quello preesistente,
pur presentando nove piani fuori terra (in luogo dei precedenti quattro), è
tuttavia caratterizzato dalla medesima volumetria e dalla stessa superficie
lorda di pavimento (occupa infatti un’area ridotta rispetto a prima), mentre
la destinazione d’uso abitativa è aumentata a discapito di quella
commerciale. Sicché, non sussiste l'aggravio del carico urbanistico e,
conseguente, l'obbligo di versare gli oneri di urbanizzazione.
Quanto agli oneri di urbanizzazione, il Collegio ricorda che,
per orientamento giurisprudenziale costante e consolidato, il contributo di
costruzione è configurabile come un corrispettivo di diritto pubblico di
natura non tributaria, posto in connessione ad un intervento edilizio. Si
tratta di una prestazione patrimoniale imposta che prescinde dalle singole
opere di urbanizzazione e dalle concrete utilità che il concessionario trae
dal titolo rilasciato, sia dalle spese effettivamente occorrenti per
realizzare le opere.
Tali posizioni sono state fatte proprie anche dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, che ha precisato altresì che “le prestazioni da
adempiere da parte dell'amministrazione comunale e del privato intestatario
del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica. Come si è
detto, infatti, l'amministrazione è tenuta ad eseguire le opere di
urbanizzazione ed a dotare degli indispensabili standard il comparto ove
viene allocato il nuovo insediamento edilizio a prescindere dal puntuale
pagamento del contributo di costruzione da parte del soggetto che abbia
ottenuto il titolo edilizio; per parte sua, questi è tenuto al pagamento del
contributo senza poter pretendere la previa realizzazione delle opere di
urbanizzazione”.
La giurisprudenza, pertanto, ha colto e fissato l’autonomia della debenza
del contributo rispetto ai singoli parametri che caratterizzano le opere
autorizzate, dovendosi avere riguardo al complessivo valore dello stesso in
termini di fruibilità urbanistica e realtà strutturale edificata.
---------------
Per gli interventi di demolizione e ricostruzione la valutazione della incidenza del carico
urbanistico sia determinante per valutare an e quantum del
contributo.
Questo Tribunale ha avuto modo di evidenziare che nel caso di interventi di
sostituzione edilizia
- da un lato comportino il mantenimento delle
superfici e
- dall’altro non comportino né mutamento di destinazione d’uso né
aumenti di volume il contributo,
- per la parte degli oneri di urbanizzazione,
non è dovuto in quanto non vi è induzione di maggior carico urbanistico.
“In senso analogo si è espresso il giudice d’appello, proprio in una
fattispecie di sostituzione edilizia, nella cui
sentenza si legge: “il contributo per oneri di urbanizzazione è un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae.
In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto
l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella
zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in
primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie,
rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli
abitanti di un territorio.
Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le
spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un
intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella
medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per
fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si
giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei
servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un
incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di
urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione
degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze
urbanistiche.
In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere
natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa
carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o
rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può
essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di
sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale
secondo cui “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli
oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento
abbia determinato un aumento del carico urbanistico”.
“È illegittimo il provvedimento che impone il pagamento degli oneri di
urbanizzazione e di costruzione nel caso in cui il permesso di costruire ha
ad oggetto una ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e
ricostruzione di un preesistente edificio, che non ha comportato un aumento
del carico urbanistico, a nulla rilevando, a tal fine, la modifica di sagoma
e prospetti dell'immobile stesso".
---------------
L’incremento dei più comuni indici edilizi (volumetria, superficie, ecc.)
così come il prospettato concreto riutilizzo di immobili disabitati da
tempo, possono lasciar presumere la variazione del carico urbanistico ma ciò
deve formare oggetto di precipua istruttoria; ciò è poi maggiormente
necessario quando l’intervento porti ad un decremento dei citati indici e ad
una sostanziale continuatività del carico insediativo.
“Il presupposto imponibile per il pagamento del contributo va dunque
ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria,
fognature, ecc.) nell'area di riferimento, che sia indotta dalla
destinazione d'uso concretamente impressa all'immobile; ma poiché l'entità
degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione
del carico urbanistico, è ben possibile che un intervento di
ristrutturazione e mutamento di destinazione d'uso possa non comportare
l’obbligo della corresponsione del contributo nella misura in cui non
risulti aggravato il carico urbanistico. Correlativamente, è altrettanto
possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell'ambito della
stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico
indotto dalla realizzazione di quanto assentito e siano quindi dovuti i
relativi oneri concessori.
Ne segue che, in presenza di un insediamento già in possesso di analoghe
caratteristiche funzionali, ed a fronte di un intervento edilizio che
l’abbia strutturalmente modificato (come nell’ipotesi della demolizione e
contestuale ricostruzione), l'amministrazione, per poter legittimamente
esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione, deve dare
contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evince il
maggior carico urbanistico rispetto alla preesistente situazione.
È pertanto da considerare illegittimo il provvedimento che impone il
pagamento degli oneri di urbanizzazione nel caso in cui il permesso
di costruire ha ad oggetto una ristrutturazione edilizia consistente
nella demolizione e ricostruzione di un preesistente edificio, che non ha
comportato un aumento del carico urbanistico, a nulla rilevando, a tal fine,
la modifica di sagoma e prospetti dell'immobile stesso.
---------------
Richiamando la giurisprudenza già citata e che evidenzia come anche per
interventi di sostituzione edilizia l’analisi dell’induzione di domanda di
carico urbanistico debba comunque essere svolta, si evidenzia che per
giurisprudenza costante tale automatismo non vale per gli interventi di demolizione e ricostruzione.
“Non vi è contestazione tra le parti sulle circostanze di fatto; è dunque
pacifico che l’edificio oggetto di ricostruzione è crollato accidentalmente
e che la ricostruzione non ha modificato né la volumetria né la destinazione
d’uso. Parte resistente propone una lettura letterale della normativa
applicabile, senza tuttavia valorizzare quella che in giurisprudenza viene
pacificamente individuata quale ratio fondamentale e giustificatrice della
corresponsione degli oneri di urbanizzazione, ossia il carico
urbanistico, con connessa esigenza di realizzazione di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria. Se pure suddetta ratio giustificatrice
non trasforma l’onere in una imposta di scopo (non vi è la necessità che gli
oneri di urbanizzazione incassati in una determinata area siano
devoluti alle opere di urbanizzazione ivi realizzate e/o necessarie) né il
rapporto tra carico urbanistico ed oneri di urbanizzazione è rigoroso
al punto da non ammettere la modulazione degli oneri stessi anche in
funzione di diverse finalità (ad esempio scoraggiare l’espansione in
determinate aree ovvero incentivarla in altre), la giustificazione
sostanziale di tale forma di imposizione resta il carico urbanistico
ingenerato da un nuovo insediamento o da un mutamento di destinazione
d’uso)”.
---------------
“Ai fini
dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri concessori, è
rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto
dell'intervento edilizio, sicché non è neanche necessario che la
ristrutturazione interessi globalmente l'edificio, ma basta che ne risulti
comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri
conseguentemente riferiti all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e
funzionali a sopportare l'aggiuntivo carico socio-economico che l'attività
edilizia comporta, anche quando l'incremento dell'impatto sul territorio
consegua solo a marginali lavori”.
---------------
A diverse conclusioni,
invece, si giunge con riferimento alla componente relativa al costo di costruzione.
Nel caso di specie, non vi è dubbio che
dall'intervento realizzato derivi un concreto e significativo aumento di
valore della proprietà immobiliare la quale, da edificio sostanzialmente
inabitabile, è diventa una palazzina bifamiliare di pregio, come emerge
dalla relazione tecnica depositata.
Questo Tribunale ha già avuto modo di precisare che:
- “riguardo alla
differenza tra oneri di urbanizzazione e costi di costruzione si ritiene che
i primi espletino la funzione di compensare la collettività per il nuovo
ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della
consentita attività edificatoria, mentre i secondi si configurino quale
compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà
immobiliare del costruttore”;
- “Riguardo alla differenza tra oneri di
urbanizzazione e costi di costruzione, la giurisprudenza concordemente
ritiene che i primi espletino la funzione di compensare la collettività per
il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa
della consentita attività edificatoria, mentre i secondi si configurino
quale compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà
immobiliare del costruttore”.
Questa componente del contributo, pertanto, essendo non direttamente
connessa con il presupposto della modifica del carico urbanistico o con la
domanda di servizi, ma afferendo direttamente all’incremento del pregio e
del valore della proprietà e quindi con la pura manifestazione dello ius
aedificandi, viene correttamente ancorata dall’amministrazione comunale
alla qualificazione formale dell’intervento di sostituzione edilizia
mediante permesso a costruire, in grado di apportare una trasformazione
urbana significativa ed evidente.
Risultano pertanto neutri, a tali scopi, i
parametri evidenziati da parte ricorrente circa il decremento dei volumi,
delle superfici e delle unità immobiliari, essendo pacifico che trattasi
comunque di ricostruzione di corpi di fabbrica con diversa sagoma e che solo
in minima parte mantengono le componenti preesistenti.
Per tali ragioni il contributo risulta legittimamente richiesto ed applicato
per la parte relativa ai costi di costruzione.
---------------
5.
Passando al merito, con l’unico motivo di ricorso si lamenta
violazione e falsa applicazione di legge [art. 3, comma 1, lett. d); art.
10, comma 1, lett. c); artt. 16 e 17 del DPR n. 380/2001] nonché eccesso di
potere per travisamento di fatto e di diritto, carenza istruttoria,
erroneità, illogicità manifesta, irragionevolezza e arbitrarietà.
In particolare i ricorrenti sostengono che l’intervento di ristrutturazione
assentito sarebbe “neutro” dal punto di vista urbanistico, non
determinerebbe un maggior carico urbanistico dell’area né un più intenso
utilizzo delle urbanizzazioni esistenti, con conseguente venir meno di ogni
pretesa di versamento di un corrispettivo (trattandosi nello specifico di
una riduzione del volume complessivo del fabbricato, previamente demolito,
nonché dell’abbassamento di un piano dello stesso, con mantenimento della
medesima destinazione d’uso e riduzione, da otto a due, delle unità
abitative).
Nell’articolare le proprie memorie i ricorrenti evidenziano che la pretesa
del Comune viene considerata illegittima sotto due profili: con riferimento
alla richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione in ragione della
diminuzione del carico urbanistico; con riferimento al costo di costruzione,
per la mancata motivata emersione d’una asserita maggior capacità
contributiva.
L’amministrazione, nelle proprie memorie, sostiene che l’intervento debba
essere qualificato non come ristrutturazione semplice, ma come intervento di
sostituzione edilizia, assimilabile ad una nuova costruzione, di per sé
sottoposto al versamento degli oneri di cui all’art. 16 del DPR n. 380/2001.
Il nuovo manufatto, avendo caratteristiche del tutto distinte da quelle del
complesso originario (da due edifici preesistenti ne viene realizzato uno
solo), sarebbe solo parzialmente sovrapponibile ad uno degli immobili
preesistenti e costituirebbe un corpo di fabbrica inedito sia per sagoma sia
per collocazione spaziale.
La difesa di parte resistente fa altresì leva sulla diversa situazione di
fatto che la nuova edificazione verrebbe a determinare nell’area. Se pure il
nuovo edificio risulta avere una volumetria inferiore rispetto a quella dei
due edifici preesistenti ed un minor numero di unità abitative, l'intervento
muterebbe radicalmente la consistenza della struttura realizzando un
edificio, oltre che completamente nuovo, anche concretamente utilizzato. I
due immobili, nella ricostruzione di parte, erano disabitati da tempo: uno
dei due era un rudere abbandonato da decenni, mentre gli appartamenti
dell'altro sono stati gradualmente abbandonati negli anni in quanto inidonei
a costituire un'abitazione dignitosa fino a che, nel 2016, nessuno degli
alloggi risultava occupato. Sempre secondo la ricostruzione di parte
resistente, la realizzazione di un nuovo immobile, con caratteristiche di
pregio e destinato ad effettiva abitazione, determinerebbe una nuova domanda
di servizi per il Comune il quale si trova a fare fronte alle esigenze di
due nuovi nuclei familiari, mentre prima gli immobili versavano in stato di
sostanziale abbandono.
Ciò premesso ritiene il Collegio che le posizioni dei ricorrenti risultino
parzialmente fondate. La pretesa dei ricorrenti infatti, risulta
condivisibile quanto alla quota parte degli oneri di urbanizzazione, mentre
non è fondata quanto a quella del costo di costruzione.
6. Quanto agli oneri di urbanizzazione, infatti, il Collegio ricorda che,
per orientamento giurisprudenziale costante e consolidato, il contributo di
costruzione è configurabile come un corrispettivo di diritto pubblico di
natura non tributaria, posto in connessione ad un intervento edilizio. Si
tratta di una prestazione patrimoniale imposta che prescinde dalle singole
opere di urbanizzazione e dalle concrete utilità che il concessionario trae
dal titolo rilasciato, sia dalle spese effettivamente occorrenti per
realizzare le opere.
Tali posizioni sono state fatte proprie anche dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, che ha precisato altresì che “le prestazioni da
adempiere da parte dell'amministrazione comunale e del privato intestatario
del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica. Come si è
detto, infatti, l'amministrazione è tenuta ad eseguire le opere di
urbanizzazione ed a dotare degli indispensabili standard il comparto ove
viene allocato il nuovo insediamento edilizio a prescindere dal puntuale
pagamento del contributo di costruzione da parte del soggetto che abbia
ottenuto il titolo edilizio; per parte sua, questi è tenuto al pagamento del
contributo senza poter pretendere la previa realizzazione delle opere di
urbanizzazione” (Cons Stato Ad. Plen. 07.12.2016, sent. n. 24).
La giurisprudenza, pertanto, ha colto e fissato l’autonomia della debenza
del contributo rispetto ai singoli parametri che caratterizzano le opere
autorizzate, dovendosi avere riguardo al complessivo valore dello stesso in
termini di fruibilità urbanistica e realtà strutturale edificata.
Nella istanza di permesso a costruire e nel provvedimento rilasciato dal
Comune l’intervento viene qualificato come ristrutturazione edilizia
mediante demolizione e ricostruzione di edificio esistente.
L’art. 3, comma 1,
lett. d), del DPR n. 380/2001 definisce "interventi di ristrutturazione
edilizia", gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi
comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi
ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono
ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici
esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche
planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica, per l'applicazione della normativa
sull'accessibilità, per l'istallazione di impianti tecnologici e per l'efficientamento
energetico. Solo con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi
del codice dei beni culturali e del paesaggio (di cui al decreto legislativo
22.01.2004, n. 42), nonché, fatte salve le previsioni legislative e degli
strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle zone omogenee A di cui al
decreto del Ministro per i lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444 (o in zone a
queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici
comunali), nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti
di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di
demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici
crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche
planivolumetriche e tipologiche dell'edificio preesistente e non siano
previsti incrementi di volumetria.
L’amministrazione resistente evidenzia che l’intervento effettuato nel caso
di specie si configura come sostituzione edilizia, così come definita
dall’art. 13, comma 3, della LRP n. 56/1977 che così definisce le seguenti
tipologie di intervento: “d) ristrutturazione edilizia: gli interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico
di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti e quanto
ulteriormente previsto all'articolo 3, comma 1, lettera d), del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380; d-bis) sostituzione
edilizia: gli interventi di integrale sostituzione edilizia dell'immobile
esistente, ricadenti tra quelli di cui all'articolo 3, comma 1, lettera e)
del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, da attuarsi
mediante demolizione e ricostruzione anche con diversa localizzazione nel
lotto e con diversa sagoma”. La normativa regionale, pertanto, associa
la sostituzione edilizia alle “nuove costruzioni” di cui all’art. 3,
comma 1, lett. e), del DPR 380/2001.
I ricorrenti, nelle proprie memorie, non offrono argomentazioni a
confutazione della riconduzione dell’intervento a tale fattispecie.
Occorre premettere altresì che, nel caso di specie, è pacifico tra le parti
che l’intervento non rientri tra le esenzioni di cui all’art. 17 del DPR n.
380/2001, ed in particolare tra quelle previste al comma 2, lett. b), “per
gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20%, di edifici unifamiliari”, poiché nel caso di specie trattasi di
demolizione e ricostruzione di una villa bifamiliare (come emerge dalla
relazione tecnica allegata al permesso di costruire, cfr. doc. 3 allegato al
ricorso).
Nel quadro delle facoltà degli enti locali di graduare l’ammontare del
contributo, l’art. 16 del DPR n. 380/2001 ha riconosciuto ai comuni la
possibilità di determinare l'incidenza degli oneri di urbanizzazione
primaria e secondaria anche in base “alla differenziazione tra gli
interventi al fine di incentivare, in modo particolare nelle aree a maggiore
densità del costruito, quelli di ristrutturazione edilizia di cui
all'articolo 3, comma 1, lettera d), anziché quelli di nuova costruzione”
(comma 4, lett. d-bis e comma 5). Il medesimo articolo, al comma 10,
riconosce ai comuni “nel caso di interventi su edifici esistenti il costo
di costruzione è determinato in relazione al costo degli interventi stessi,
così come individuati dal comune in base ai progetti presentati per ottenere
il permesso di costruire. Al fine di incentivare il recupero del patrimonio
edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui
all'articolo 3, comma 1, lettera d), i comuni hanno comunque la facoltà di
deliberare che i costi di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai
valori determinati per le nuove costruzioni”.
Il Comune di Momo evidenzia che, con Delibera del Consiglio Comunale n.
1/2017 (cfr. doc. 5 allegato di parte resistente) ha approvato tali
riduzioni per gli interventi su patrimonio esistente (pari al 50% rispetto
alle nuove costruzioni), con esclusione di quelli di sostituzione edilizia.
Ciò premesso la difesa comunale insiste, da un lato, a giustificare
l’imposizione del contributo in ragione della tipologia di intervento
sostanzialmente assentita (sostituzione edilizia) e dall’altra ad
evidenziare l’aumento del carico urbanistico che l’intervento comporta.
6.1 Partendo da quest’ultimo profilo il Collegio ritiene innegabile che, per
gli interventi di demolizione e ricostruzione (genus all’interno del
quale rientra quello in esame), la valutazione della incidenza del carico
urbanistico sia determinante per valutare an e quantum del
contributo.
Questo Tribunale ha avuto modo di evidenziare che nel caso di interventi di
sostituzione edilizia da un lato comportino il mantenimento delle
superfici e dall’altro non comportino né mutamento di destinazione d’uso né
aumenti di volume il contributo, per la parte degli oneri di urbanizzazione,
non è dovuto in quanto non vi è induzione di maggior carico urbanistico.
“In senso analogo si è espresso il giudice d’appello, proprio in una
fattispecie di sostituzione edilizia realizzata nel comune di Torino, con la
sentenza Cons. St. sez. IV, n. 4950/2015, nella quale si legge: “il
contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo
di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae. In effetti, gli
oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio
comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla
costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie,
si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli
edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio. Ciò posto,
se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese
necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un
intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella
medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per
fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si
giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei
servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un
incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di
urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione
degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze
urbanistiche. In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per
avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa
carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o
rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può
essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di
sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico. Sul punto, il Collegio
condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “in caso di
ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è
dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del
carico urbanistico” (Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611)” (Tar
Piemonte 07/01/2020 n. 20).
“È illegittimo il provvedimento che impone il pagamento degli oneri di
urbanizzazione e di costruzione nel caso in cui il permesso di costruire ha
ad oggetto una ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e
ricostruzione di un preesistente edificio, che non ha comportato un aumento
del carico urbanistico, a nulla rilevando, a tal fine, la modifica di sagoma
e prospetti dell'immobile stesso” (TAR Piemonte, sez. I, 13/12/2013, n.
1346).
L’incremento dei più comuni indici edilizi (volumetria, superficie, ecc.)
così come il prospettato concreto riutilizzo di immobili disabitati da
tempo, possono lasciar presumere la variazione del carico urbanistico ma ciò
deve formare oggetto di precipua istruttoria; ciò è poi maggiormente
necessario quando l’intervento porti ad un decremento dei citati indici e ad
una sostanziale continuatività del carico insediativo.
“Il presupposto imponibile per il pagamento del contributo va dunque
ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria,
fognature, ecc.) nell'area di riferimento, che sia indotta dalla
destinazione d'uso concretamente impressa all'immobile; ma poiché l'entità
degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione
del carico urbanistico, è ben possibile che un intervento di
ristrutturazione e mutamento di destinazione d'uso possa non comportare
l’obbligo della corresponsione del contributo nella misura in cui non
risulti aggravato il carico urbanistico. Correlativamente, è altrettanto
possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell'ambito della
stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico
indotto dalla realizzazione di quanto assentito e siano quindi dovuti i
relativi oneri concessori (così, ancora, TAR Piemonte, questa II sez., n.
1009 del 2013, cit.; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 11213 del 2007).
Ne segue che, in presenza di un insediamento già in possesso di analoghe
caratteristiche funzionali, ed a fronte di un intervento edilizio che
l’abbia strutturalmente modificato (come nell’ipotesi della demolizione e
contestuale ricostruzione), l'amministrazione, per poter legittimamente
esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione, deve dare contezza
degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evince il maggior
carico urbanistico rispetto alla preesistente situazione (cfr.,
analogamente, TAR Sicilia, Catania, sez. I, n. 2249 del 2013; TAR Marche, n.
699 del 2013).
È pertanto da considerare illegittimo il provvedimento che impone il
pagamento degli oneri di urbanizzazione nel caso in cui il permesso di
costruire ha ad oggetto una ristrutturazione edilizia consistente nella
demolizione e ricostruzione di un preesistente edificio, che non ha
comportato un aumento del carico urbanistico, a nulla rilevando, a tal fine,
la modifica di sagoma e prospetti dell'immobile stesso (così questo TAR,
sez. I, sent. n. 1346 del 2013).
Proprio questa è la situazione che caratterizza la fattispecie oggetto
dell’odierno giudizio: l’edificio di nuova costruzione, derivante dalla
demolizione di quello preesistente, pur presentando nove piani fuori terra
(in luogo dei precedenti quattro), è tuttavia caratterizzato dalla medesima
volumetria e dalla stessa superficie lorda di pavimento (occupa infatti
un’area ridotta rispetto a prima), mentre –come da ultimo confermato dalla
relazione tecnica comunale– la destinazione d’uso abitativa è aumentata a
discapito di quella commerciale (e salva la necessità, in futuro, di dover
riconsiderare la fattispecie qualora dovesse essere assentita la richiesta
di variante che innalzerebbe l’edificio di un ulteriore piano)” (TAR
Piemonte, 19/12/2014, sent. n. 2033).
Nessuna delle parti ha fornito prova dello stato di conservazione degli
immobili in demolizione. Parte resistente deduce che una porzione era
disabitata da decenni, ma entrambe riconoscono in maniera pacifica che una
porzione fosse abitata sino al 2016. Dal corredo fotografico prodotto
dall’amministrazione (cfr. doc. n. 6) risulta che una consistente porzione
di fabbricato non appare collabente o priva dei connotati minimi per
individuare una civile abitazione e che, pertanto, corrisponda a quello
abitato sino al 2016. I ricorrenti, dal canto loro, evidenziano che la nuova
volumetria corrisponda a circa la metà di quella preesistente ed è pertanto
ragionevole dedurre che le valutazioni sulla variazione di carico
urbanistico non possano non tenere in considerazione tale realtà di fatto.
Lo stesso regolamento comunale definisce, all’art. 2.1, il carico
urbanistico “l'effetto prodotto dall'insediamento primario (abitazioni,
uffici, opifici, negozi) che determina domanda di strutture ed opere
collettive (opere pubbliche in genere, strade, fognature, condutture e
reti), in dipendenza del numero di persone insediate su di un determinato
territorio; le strutture e le opere collettive devono essere proporzionate
all'insediamento primario, ossia al numero degli abitanti insediati ed alle
caratteristiche dell'attività da costoro svolte, con riferimento a standard
di legge” (cfr. doc. 4 allegato si parte resistente).
L’amministrazione per giustificare l’incremento del carico urbanistico fa
leva sul fatto che il nuovo intervento, che prevede la creazione di due
nuove villette, benché di volumetria e superficie inferiore, riporterebbe la
zona ad essere concretamente abitata, a differenza di quanto avvenuto negli
ultimi anni. Orbene tale deduzione, sul piano probatorio, non è corroborata
da riscontri significativi. Ciò che è pacifico tra le parti è che almeno una
parte del complesso immobiliare sia stato abitato sino al 2016 (circa due
anni prima della presentazione della istanza di permesso), mentre per la
restante parte non sono forniti riferimenti temporali precisi. Dal tenore
degli atti istruttori, dalla relazione tecnica allegata al permesso a
costruire (doc. 6 allegato al ricorso) e dagli elementi dedotti dalle parti,
pertanto, si desume che il carico urbanistico generato dal nuovo edificio,
va a sostituire quello del vecchio immobile, senza apprezzabile soluzione di
continuità, e che nessun nuovo carico, tale da giustificare l’imposizione
degli oneri di urbanizzazione, si deve nella specie considerare prodotto.
In un caso analogo questo Tribunale ha precisato che “l’amministrazione,
nelle proprie difese, ha invece valorizzato la circostanza (indicata nella
relazione tecnica asseverata, allegata all’istanza di permesso di costruire)
che il vecchio edificio fosse da tempo disabitato ed in pessimo stato di
conservazione con conseguente “irrilevanza del precedente carico urbanistico”:
ma tale asserzione –che aveva peraltro indotto questo TAR a respingere la
domanda cautelare– risulta destituita di fondamento, posto che la ricorrente
ha successivamente allegato di aver concesso in locazione gli appartamenti
del vecchio edificio fino a pochi anni prima rispetto alla richiesta di
realizzazione dell’intervento di sostituzione edilizia e che “i contratti
di affitto [...] sono andati ad esaurimento in ragione di tale programmata
attività” (TAR Piemonte, 19/12/2014, sent. n. 2033).
6.2 Anche il primo ordine di argomentazioni utilizzato dall’amministrazione
per giustificare l’addebito degli oneri di urbanizzazione, che fa leva sulla
tipologia di intervento (sostituzione edilizia), non persuade.
Richiamando la giurisprudenza già citata e che evidenzia come anche per
interventi di sostituzione edilizia l’analisi dell’induzione di domanda di
carico urbanistico debba comunque essere svolta, si evidenzia che per
giurisprudenza costante tale automatismo non vale per gli interventi di demolizione e ricostruzione. “Non vi è contestazione tra le parti sulle
circostanze di fatto; è dunque pacifico che l’edificio oggetto di
ricostruzione è crollato accidentalmente e che la ricostruzione non ha
modificato né la volumetria né la destinazione d’uso. Parte resistente
propone una lettura letterale della normativa applicabile, senza tuttavia
valorizzare quella che in giurisprudenza viene pacificamente individuata
quale ratio fondamentale e giustificatrice della corresponsione degli oneri
di urbanizzazione, ossia il carico urbanistico, con connessa esigenza di
realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Se pure
suddetta ratio giustificatrice non trasforma l’onere in una imposta di scopo
(non vi è la necessità che gli oneri di urbanizzazione incassati in una
determinata area siano devoluti alle opere di urbanizzazione ivi realizzate
e/o necessarie) né il rapporto tra carico urbanistico ed oneri di
urbanizzazione è rigoroso al punto da non ammettere la modulazione degli
oneri stessi anche in funzione di diverse finalità (ad esempio scoraggiare
l’espansione in determinate aree ovvero incentivarla in altre), la
giustificazione sostanziale di tale forma di imposizione resta il carico
urbanistico ingenerato da un nuovo insediamento o da un mutamento di
destinazione d’uso. Per la fisiologica connessione tra aumento del carico
urbanistico e oneri di urbanizzazione, ex pluribus, si veda Cons. St., sez.
IV, n. 1187/2018)” (TAR Piemonte, sez. II, 21/05/2018 n. 630).
6.3 Così stando le cose è ragionevole dedurre che, nel particolarissimo caso
di specie, non vi sia aumento del carico urbanistico. Ciò, come si è detto,
è desumibile dal combinato di più elementi: il decremento di tutti gli
parametri edilizi (volumetria, superficie, mantenimento della destinazione
residenziale); il ragionevole minor potenziale carico antropico rispetto al
recente passato (riduzione del numero di unità residenziali da otto a due);
l’assenza di alcuna motivazione o argomentazione che lasci anche solo
presumere che l’intervento esprima, anche a livello potenziale, un
incremento della domanda di servizi che vada a gravare sul complesso
infrastrutturale su cui l’area ricade.
È indicativo, peraltro, che la stessa amministrazione resistente, nelle
proprie memorie, giunga e riconoscere, benché in via subordinata, la
possibilità che per la parte degli oneri di urbanizzazione, possa
effettivamente giungersi a conclusioni differenti, in ragione di una lettura
più sostanzialista dell’incidenza sul carico urbanistico, circa la relativa
debenza.
La stessa giurisprudenza citata nelle memorie dell’amministrazione
resistente, peraltro, ha avuto modo di precisare che “ai fini
dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri concessori, è
rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto
dell'intervento edilizio, sicché non è neanche necessario che la
ristrutturazione interessi globalmente l'edificio, ma basta che ne risulti
comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri
conseguentemente riferiti all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e
funzionali a sopportare l'aggiuntivo carico socio-economico che l'attività
edilizia comporta, anche quando l'incremento dell'impatto sul territorio
consegua solo a marginali lavori.” (Cons. Stato, II, 19.04.2019, n.
2561).
Si aggiunga, infine, che non costituisce ostacolo alla conferma di tale
linea interpretativa quanto previsto nella citata Deliberazione n. 1/2017
che disciplina una serie di incentivi per gli interventi sul patrimonio
edilizio esistente (con riduzioni sui contributi, inclusi gli oneri di
urbanizzazione, ad eccezione degli interventi di sostituzione edilizia,
quale quello in commento), poiché ciò che si discute non è l’assoggettamento
dell’intervento alla scontistica sperimentalmente approvata, quanto il
ricorrere del presupposto stesso dell’applicazione della quota degli oneri
di urbanizzazione (al di là della formale qualificazione dell’intervento).
Da quanto precede, pertanto, occorre concludere che la richiesta del
contributo di costruzione, per la quota parte relativa agli oneri di
urbanizzazione, è stata illegittimamente computata in capo ai ricorrenti e dev’essere, pertanto, restituita.
7. A diverse conclusioni, invece, si giunge con riferimento alla componente
relativa al costo di costruzione.
Nel caso di specie, non vi è dubbio che
dall'intervento realizzato derivi un concreto e significativo aumento di
valore della proprietà immobiliare la quale, da edificio sostanzialmente
inabitabile, è diventa una palazzina bifamiliare di pregio, come emerge
dalla relazione tecnica depositata.
Questo Tribunale ha già avuto modo di precisare che “riguardo alla
differenza tra oneri di urbanizzazione e costi di costruzione si ritiene che
i primi espletino la funzione di compensare la collettività per il nuovo
ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della
consentita attività edificatoria, mentre i secondi si configurino quale
compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà
immobiliare del costruttore (TAR Piemonte, n. 630/2018)” (TAR Piemonte,
25/11/2020, n. 769). “Riguardo alla differenza tra oneri di
urbanizzazione e costi di costruzione, la giurisprudenza concordemente
ritiene che i primi espletino la funzione di compensare la collettività per
il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa
della consentita attività edificatoria, mentre i secondi si configurino
quale compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà
immobiliare del costruttore” (TAR Piemonte sez. II, 21/05/2018 n. 630,
conforme Cons. St., sez. IV, n. 2915/2016).
Questa componente del contributo, pertanto, essendo non direttamente
connessa con il presupposto della modifica del carico urbanistico o con la
domanda di servizi, ma afferendo direttamente all’incremento del pregio e
del valore della proprietà e quindi con la pura manifestazione dello ius
aedificandi, viene correttamente ancorata dall’amministrazione comunale
alla qualificazione formale dell’intervento di sostituzione edilizia
mediante permesso a costruire, in grado di apportare una trasformazione
urbana significativa ed evidente. Risultano pertanto neutri, a tali scopi, i
parametri evidenziati da parte ricorrente circa il decremento dei volumi,
delle superfici e delle unità immobiliari, essendo pacifico che trattasi
comunque di ricostruzione di corpi di fabbrica con diversa sagoma e che solo
in minima parte mantengono le componenti preesistenti.
Per tali ragioni il contributo risulta legittimamente richiesto ed applicato
per la parte relativa ai costi di costruzione.
8. Il ricorso, nel suo complesso, risulta parzialmente fondato limitatamente
all’accertamento della non debenza della quota degli oneri di urbanizzazione
nella qualificazione e quantificazione del contributo di costruzione,
richiesto e versato dalla ricorrente e, per l’effetto: la nota impugnata è
illegittima e viene annullata nella parte in cui prevede l’inclusione di
tale voce nel contributo di costruzione; il Comune di Momo è condannato a
restituire la somma di euro 10.804,00.
Quanto agli interessi la relativa decorrenza deve essere individuata nel
giorno della domanda e non in quello del pagamento (trattandosi di
percezione di indebito intervenuta in buona fede, che si presume). Non può
essere riconosciuta la rivalutazione monetaria, non avendo parte ricorrente
dimostrato un maggior danno che resterebbe non compensato dalla
corresponsione degli interessi (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 04.05.2021 n. 457 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il TAR ha ritenuto che l’operazione effettuata dal ricorrente
rappresenta un intervento di restauro risanamento conservativo e non
una ristrutturazione edilizia; tuttavia siffatta qualificazione non è
sufficiente per qualificare l’intervento sotto il profilo oneroso o
gratuito, poiché è necessario considerare anche l’aspetto funzionale dello
stesso.
In particolare, nel caso di specie
l’intervento di restauro ha comportato una profonda modificazione
dell’immobile, cambiandone la destinazione da esclusivamente terziaria e unifunzionale (ufficio bancario) a mista e polifunzionale (banca, uffici e
appartamenti); ne è seguito altresì un frazionamento dell’edificio con un
notevole aumento di unità immobiliari [da quattro (di cui n. 1 D/5 e n. 3 A/10 e
n. 1
A/2) a venti (di cui n. 1 D/5, n. 9 A/10, n. 6 A/2 e quattro beni comuni non
censibili)].
La tesi ermeneutica del Tar è in linea con la prevalente giurisprudenza del
Consiglio di Stato, atteso
peraltro che nel caso di specie vi è stato un cambio di destinazione e un
notevole aumento dei locali. In particolare è stato precisato che:
- “In caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli
oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia
determinato un aumento del carico urbanistico, nella misura in cui
unicamente in tale ipotesi deriva un incremento della domanda di servizi
nella zona”;
- “Mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al
costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e
all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla
funzione di permettere all’amministrazione comunale il recupero delle spese
sostenute dalla collettività di riferimento per la trasformazione del
territorio consentita al privato istante, la quota del contributo di
costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve alla
prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore
carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per
aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare
l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più
intensamente quelle già esistenti”;
- “Il mutamento di destinazione d’uso di un immobile da
produttiva a ricreativa (nella specie da officina a sala giochi), deve
considerarsi attuato tra distinte categorie funzionali e comporta variazione
del carico urbanistico, con conseguente mutamento degli standard che è
sufficiente a giustificare la richiesta di contributo per oneri di
urbanizzazione”;
- “In base al generale principio di correlare gli oneri di
urbanizzazione al carico urbanistico, tale carico sussiste anche in caso di
divisione e frazionamento di immobile che da uno si trasforma in due unità.
Pertanto è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale
effetto dell’intervento edilizio, sicché è sufficiente che risulti comunque
mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri riferiti
all’oggettiva rivalutazione dell’immobile e funzionali a sopportare
l’aggiuntivo carico socio-economico che l’attività edilizia comporta, anche
quando l’incremento dell’impatto sul territorio consegua solo a lavori
dovuti a una divisione dell’immobile in due unità o fra due o più
proprietari”;
- “Sulla base del generale principio di correlare gli oneri di
urbanizzazione al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta
il pagamento di detti oneri allorché l’intervento abbia determinato un
aumento del carico urbanistico -e considerato che il carico urbanistico
sussiste anche allorquando l’intervento di ristrutturazione comporti la
divisione ed il frazionamento di un immobile, conseguenti ad una scissione
societaria per essere l’edificio adibito ad attività di impresa di due
distinti soggetti, con l’apertura di due nuovi ingressi, per due distinte
unità abitative- deve ritenersi che anche in tal caso si realizza un aumento
dell’impatto sul territorio e sono pertanto dovuti i predetti oneri”.
---------------
10. Tramite il secondo motivo l’appellante ha sostenuto che le opere
di restauro e risanamento non possono essere sottoposte a contributi
concessori.
Questa censura è infondata.
In proposito si evidenzia che il Tar ha ritenuto che l’operazione effettuata
dall’interessato rappresenti un intervento di restauro risanamento
conservativo e non una ristrutturazione edilizia, tuttavia ha affermato che
siffatta qualificazione non è sufficiente per qualificare l’intervento sotto
il profilo oneroso o gratuito, poiché è necessario considerare anche
l’aspetto funzionale dello stesso.
In particolare, nel caso di specie
l’intervento di restauro ha comportato una profonda modificazione
dell’immobile, cambiandone la destinazione da esclusivamente terziaria e unifunzionale (ufficio bancario) a mista e polifunzionale (banca, uffici e
appartamenti); ne è seguito altresì un frazionamento dell’edificio con un
notevole aumento di unità immobiliari da quattro (di cui 1 D/5 e 3 A/10 e 1
A/2) a venti (di cui 1 D/5, 9 A/10, 6 A/2 e quattro beni comuni non
censibili).
La tesi ermeneutica del Tar è in linea con la prevalente giurisprudenza del
Consiglio di Stato, da cui il Collegio non intende discostarsi, atteso
peraltro che nel caso di specie vi è stato un cambio di destinazione e un
notevole aumento dei locali. In particolare è stato precisato che:
- “In caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli
oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia
determinato un aumento del carico urbanistico, nella misura in cui
unicamente in tale ipotesi deriva un incremento della domanda di servizi
nella zona” (Consiglio di Stato, sezione IV, 29/10/2015, n. 4950);
- “Mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al
costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e
all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla
funzione di permettere all’amministrazione comunale il recupero delle spese
sostenute dalla collettività di riferimento per la trasformazione del
territorio consentita al privato istante, la quota del contributo di
costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve alla
prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore
carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per
aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare
l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più
intensamente quelle già esistenti” (Consiglio di Stato, sezione VI,
02/07/2015, n. 3298);
- “Il mutamento di destinazione d’uso di un immobile da
produttiva a ricreativa (nella specie da officina a sala giochi), deve
considerarsi attuato tra distinte categorie funzionali e comporta variazione
del carico urbanistico, con conseguente mutamento degli standard che è
sufficiente a giustificare la richiesta di contributo per oneri di
urbanizzazione” (Consiglio di Stato, sezione V, 30/08/2013, n. 4326);
- “In base al generale principio di correlare gli oneri di
urbanizzazione al carico urbanistico, tale carico sussiste anche in caso di
divisione e frazionamento di immobile che da uno si trasforma in due unità.
Pertanto è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale
effetto dell’intervento edilizio, sicché è sufficiente che risulti comunque
mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri riferiti
all’oggettiva rivalutazione dell’immobile e funzionali a sopportare
l’aggiuntivo carico socio-economico che l’attività edilizia comporta, anche
quando l’incremento dell’impatto sul territorio consegua solo a lavori
dovuti a una divisione dell’immobile in due unità o fra due o più
proprietari” (Consiglio di Stato, sezione IV, 17/05/2012, n. 2838);
- “Sulla base del generale principio di correlare gli oneri di
urbanizzazione al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta
il pagamento di detti oneri allorché l’intervento abbia determinato un
aumento del carico urbanistico -e considerato che il carico urbanistico
sussiste anche allorquando l’intervento di ristrutturazione comporti la
divisione ed il frazionamento di un immobile, conseguenti ad una scissione
societaria per essere l’edificio adibito ad attività di impresa di due
distinti soggetti, con l’apertura di due nuovi ingressi, per due distinte
unità abitative- deve ritenersi che anche in tal caso si realizza un aumento
dell’impatto sul territorio e sono pertanto dovuti i predetti oneri”
(Consiglio di Stato, sezione IV, 29/04/2004, n. 2611)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 12.04.2021 n. 2956 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La maggioritaria giurisprudenza, da tempo,
si è evoluta nel senso di ritenere che gli oneri di urbanizzazione sono
dovuti (in ipotesi anche per il mero mutamento di destinazione d’uso senza
opere) allorquando un intervento determini un maggiore carico urbanistico.
Altresì, «il
contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo
di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae. In effetti, gli
oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio
comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla
costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie,
si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli
edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto,
se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese
necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un
intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella
medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per
fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si
giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei
servizi.
All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un
incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di
urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione
degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze
urbanistiche. In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per
avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa
carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o
rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può
essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di
sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio
condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “in caso di
ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è
dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del
carico urbanistico"».
---------------
Il ricorso risulta parzialmente fondato.
Deve premettersi che è pacifico tra le parti che l’intervento assentito è
stato un intervento di ristrutturazione, nella forma della
demo-ricostruzione con ampliamento; è ugualmente pacifico che non vi siano
stati cambi di destinazione d’uso in quanto, già in precedenza, il complesso
ospitava un’area produttiva, un’area uffici ed un alloggio del custode,
ciascuna delle quali ha subito ampliamenti. E’ ugualmente pacifico che il
calcolo degli oneri di urbanizzazione è stato effettuato dal comune in
relazione all’intero edificio, ivi compresa la parte realizzata in
sostituzione delle preesistenti strutture.
La maggioritaria giurisprudenza, per contro, da tempo si è evoluta nel senso
di ritenere che gli oneri di urbanizzazione sono dovuti (in ipotesi anche
per il mero mutamento di destinazione d’uso senza opere) allorquando un
intervento determini un maggiore carico urbanistico (in tal senso ex
pluribus Tar Piemonte, sez. I, n. 630/2018; Tar Brescia n. 449/2018).
In senso analogo si è espresso il giudice d’appello, proprio in una
fattispecie di sostituzione edilizia realizzata nel comune di Torino, con la
sentenza Cons. St. sez. IV, n. 4950/2015, nella quale si legge: “il
contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo
di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae. In effetti, gli
oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio
comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla
costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie,
si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli
edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio. Ciò posto,
se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese
necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un
intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella
medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per
fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si
giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei
servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un
incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di
urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione
degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze
urbanistiche. In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per
avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa
carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o
rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può
essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di
sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico. Sul punto, il Collegio
condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “in caso di
ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è
dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del
carico urbanistico” (Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611).”.
Condividendosi i principi sopra affermati ne consegue che, per la quota
parte di edificio che trova corrispondenza nella pregressa SUL, non si è
realizzato alcun aumento di carico urbanistico e non sono dovuti, come in
effetti lamentato in ricorso, gli oneri di urbanizzazione
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 01.03.2021 n. 213 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio, richiamando quanto già espresso in ordine alla
rilevanza sul piano giuridico del mutamento di destinazione d’uso, osserva
che, secondo la costante giurisprudenza:
a) “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli
oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia
determinato un aumento del carico urbanistico”;
b) “la variazione della misura del contributo di costruzione è
legittimamente imposta anche in presenza di una trasformazione edilizia che,
indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di
vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il
mutamento di destinazione o, comunque, per ogni variazione anche di semplice
uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico”;
c) invero, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è connesso
all’aumento del carico urbanistico determinato dal nuovo intervento, nella
misura in cui da ciò deriva un incremento della domanda di servizi nella
zona coinvolta dalla costruzione; del resto, gli oneri di urbanizzazione si
caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui
l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente
utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova
destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli
stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Del resto, tale orientamento non può dirsi superato con l’entrata in
vigore dell’art. 23-ter del d.P.R. n. 380/2001, non risultando dal combinato
disposto di tale norma con quella di cui all’art. 16 del medesimo d.P.R.
alcuna esenzione (ancorché parziale) per l’ipotesi che interessa, potendo
osservarsi in particolare che:
a) l’articolo 23-ter attiene unicamente alla definizione dei
mutamenti di destinazione d’uso urbanisticamente rilevanti, nulla disponendo
in ordine al regime degli oneri concessori;
b) nemmeno l’articolo 16, laddove con specifico riferimento ai
costi di costruzione li rapporta ai costi delle opere edili, afferma
alcunché sulla sua applicabilità o meno ai mutamenti di destinazione d’uso;
c) così come il successivo articolo 17, che elenca i casi tassativi
di esonero totale o parziale dagli oneri concessori, non vi ricomprende i
mutamenti di destinazione d’uso senza opere.
Alla luce di tali considerazioni, il Collegio ritiene che gli oneri di
urbanizzazione sono dovuti solo se l’intervento edilizio comporti un
incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione,
atteso che le opere di urbanizzazione, sia primarie che secondarie, si
caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli
edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
Ne consegue che se, come nel caso di specie, rispetto ad una zona
circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i
suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che
implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, come quello
derivante dal mutamento di destinazione d’uso da “terziario” a “residenziale”,
determina la necessità di una nuova spesa per fornire ulteriori servizi per
far fronte ad un incremento delle connesse esigenze urbanistiche.
Risulta pertanto legittima la richiesta di versamento di tali ulteriori
oneri di urbanizzazione in vista della predisposizione degli strumenti
idonei, nella misura differenziale rispetto a quanto già in precedenza
corrisposto per la realizzazione dell’edificio a destinazione terziaria.
---------------
7. Con un secondo motivo di appello il Comune di Bari censura
l’impugnata sentenza laddove ha affermato la non debenza del contributo di
costruzione per la fattispecie in esame, senza considerare che, alla stregua
della normativa applicabile, il passaggio di destinazione d’uso da “terziario
direzionale” a “residenziale”, essendo queste categorie non
omogenee, è un cambio di destinazione d’uso di tipo rilevante,
indipendentemente dall’esecuzione di opere edilizie, e quindi deve essere
subordinato al pagamento del contributo di costruzione ex art. 16 d.P.R. n.
380/2001.
7.1. La censura è fondata.
7.2. Il Collegio, al riguardo, richiamando quanto già espresso in ordine
alla rilevanza sul piano giuridico del mutamento di destinazione d’uso,
osserva che, secondo la costante giurisprudenza:
a) “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli
oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia
determinato un aumento del carico urbanistico” (Cons. di Stato, Sez. IV,
29.04.2004, n. 2611);
b) “la variazione della misura del contributo di costruzione è
legittimamente imposta anche in presenza di una trasformazione edilizia che,
indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di
vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il
mutamento di destinazione o, comunque, per ogni variazione anche di semplice
uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico” (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2015, n. 4296;
Sez. IV, 03.09.2014, n. 4483);
c) invero, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è connesso
all’aumento del carico urbanistico determinato dal nuovo intervento, nella
misura in cui da ciò deriva un incremento della domanda di servizi nella
zona coinvolta dalla costruzione; del resto, gli oneri di urbanizzazione si
caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui
l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente
utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova
destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli
stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico (Cons.
Stato, Sez. IV, 29.10.2015, n. 4950).
7.3. Del resto, tale orientamento non può dirsi superato con l’entrata in
vigore dell’art. 23-ter del d.P.R. n. 380/2001, non risultando dal combinato
disposto di tale norma con quella di cui all’art. 16 del medesimo d.P.R.
alcuna esenzione (ancorché parziale) per l’ipotesi che interessa, potendo
osservarsi in particolare che:
a) l’articolo 23-ter attiene unicamente alla definizione dei
mutamenti di destinazione d’uso urbanisticamente rilevanti, nulla disponendo
in ordine al regime degli oneri concessori;
b) nemmeno l’articolo 16, laddove con specifico riferimento ai
costi di costruzione li rapporta ai costi delle opere edili, afferma
alcunché sulla sua applicabilità o meno ai mutamenti di destinazione d’uso;
c) così come il successivo articolo 17, che elenca i casi tassativi
di esonero totale o parziale dagli oneri concessori, non vi ricomprende i
mutamenti di destinazione d’uso senza opere.
7.4. Alla luce di tali considerazioni, il Collegio ritiene che gli oneri di
urbanizzazione sono dovuti solo se l’intervento edilizio comporti un
incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione,
atteso che le opere di urbanizzazione, sia primarie che secondarie, si
caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli
edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
Ne consegue che, se, come nel caso di specie, rispetto ad una zona
circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i
suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che
implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, come quello
derivante dal mutamento di destinazione d’uso da “terziario” a “residenziale”,
determina la necessità di una nuova spesa per fornire ulteriori servizi per
far fronte ad un incremento delle connesse esigenze urbanistiche.
Risulta pertanto legittima la richiesta di versamento di tali ulteriori
oneri di urbanizzazione in vista della predisposizione degli strumenti
idonei, nella misura differenziale rispetto a quanto già in precedenza
corrisposto per la realizzazione dell’edificio a destinazione terziaria.
7.5. In conclusione, essendo rilevante il mutamento di destinazione da
terziario a residenziale, e comportando ciò un aumento del carico
urbanistico, è legittima la richiesta di pagamento del corrispondente costo
di costruzione aggiuntivo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2021 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
l’obbligo di versamento del contributo di costruzione, quindi comprensivo
degli oneri di urbanizzazione, si è espresso, di recente, questo Consiglio,
affermando quanto segue: “occorre, dunque, perché sia necessario il rilascio
del permesso di costruire una modifica (parziale o totale) dell'organismo
edilizio preesistente ed un aumento della volumetria complessiva; solo in
questi casi, d’altra parte, l'intervento si caratterizza (in ossequio alla
prescrizione normativa) come “trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio”.
Nelle ipotesi, invece, di “ristrutturazione ricostruttiva”, a maggior
ragione se con invarianza, oltre che di volume, anche di sagoma e di area di
sedime, "non vi è necessità di permesso di costruire e, dunque, ai sensi
dell'art. 16 D.P.R. n. 380 del 2001, manca il presupposto per la richiesta e
corresponsione del contributo di costruzione”.
Si deve concludere ravvisando che emerge il principio, di conio statale,
secondo cui l’obbligo al pagamento degli oneri di urbanizzazione postula
l’incremento del carico urbanistico.
---------------
11.1 Col primo mezzo, l’appellante, dopo aver ripercorso i passaggi
essenziali della complessa vicenda di causa, ha dedotto che il Tar sarebbe
incorso in difetto motivazionale non avendo preso in considerazione le
difese dell’ente comunale articolate nel corso del giudizio di primo grado
ed imperniate sulla riconducibilità dell’intervento abusivamente realizzato
dagli appellati nel novero di quelli di ristrutturazione edilizia per
ritenerlo sottoposto alla previsione di cui all’art. 120 della legge Regione
Toscana n. 1 del 2005, secondo cui in casi siffatti si applica la Tabella C
dell’Allegato A della stessa legge, la quale prevede il coefficiente di 0,30
ai fini della determinazione degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria.
Secondo le prospettazioni dell’appellante, quindi, seppur l’intervento
contestato a controparte consiste nella demolizione e fedele ricostruzione
del manufatto originario senza alcuna aggiunta di volumi, sarebbe
applicabile nel caso di specie l’anzidetta norma regionale che prevede,
proprio nel caso di interventi siffatti, l’applicazione di un coefficiente,
sia pur ridotto, ai fini della determinazione degli oneri a carico del
richiedente la sanatoria.
L’infondatezza del motivo si deve innanzitutto al fatto che il giudice di
prime cure non ha alcun onere di soffermarsi su tutte le articolazioni
difensive della parte resistente dovendo anzi calibrare la propria pronuncia
sulle censure dedotte da parte ricorrente.
Esclusa, quindi, la carenza motivazionale da cui sarebbe affetta la sentenza
impugnata, occorre esaminare il merito delle deduzioni sollevate
dall’appellante in ordine alla effettiva ricorrenza dei presupposti per far
gravare sulla richiedente il titolo in sanatoria una quota parte di oneri di
urbanizzazione.
Giova premettere che, a fronte di quanto argomentato da parte appellante
circa la prevalenza della norma regionale su quella statale, è proprio il
riferimento alla prima e segnatamente allo stesso articolo 120 invocato
dall’appellante, che emerge la rilevanza attribuita all’incidenza
plano-volumetrica dell’intervento ai fini della soggezione o meno al
versamento degli oneri di urbanizzazione.
Infatti detta norma, al comma 1, statuisce che “gli oneri di
urbanizzazione sono dovuti in relazione agli interventi, soggetti a permesso
o a denuncia di inizio dell'attività, che comportano nuova edificazione o
determinano un incremento dei carichi urbanistici in funzione di: a) aumento
delle superfici utili degli edifici; b) mutamento delle destinazioni d'uso
degli immobili; c) aumento del numero di unità immobiliari”.
È di tutta evidenza, pertanto, che anche il legislatore regionale riconnette
l’onere di versare gli oneri di urbanizzazione alla realizzazione di un
intervento che sia in grado di determinare un incremento dei carichi
urbanistici, evenienza questa da escludere nel caso di specie proprio in
considerazione del fatto che trattasi di un intervento di demolizione e
fedele ricostruzione senza quindi che si possa configurare alcun surplus
volumetrico.
Circa l’obbligo di versamento del contributo di costruzione, quindi
comprensivo degli oneri di urbanizzazione, si è espresso, di recente, questo
Consiglio, affermando coerentemente con quanto testé opinato, quanto segue:
“occorre, dunque, perché sia necessario il rilascio del permesso di
costruire una modifica (parziale o totale) dell'organismo edilizio
preesistente ed un aumento della volumetria complessiva; solo in questi
casi, d’altra parte, l'intervento si caratterizza (in ossequio alla
prescrizione normativa) come “trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio”.
Nelle ipotesi, invece, di “ristrutturazione ricostruttiva” (come
definita dalla giurisprudenza: Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015 n. 1763;
09.05.2014 n. 2384; 06.07.2012 n. 3970), a maggior ragione se con invarianza,
oltre che di volume, anche di sagoma e di area di sedime, "non vi è
necessità di permesso di costruire e, dunque, ai sensi dell'art. 16 D.P.R.
n. 380 del 2001, manca il presupposto per la richiesta e corresponsione del
contributo di costruzione” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.05.2017, n.
2567; Tar Roma, sez. II-bis, 12.09.2019, n. 10887).
Si deve concludere ravvisando che emerge il principio, di conio statale,
secondo cui l’obbligo al pagamento degli oneri di urbanizzazione postula
l’incremento del carico urbanistico, che, nel caso di specie, è
pacificamente da escludere. Ne consegue che non ricorrono i presupposti per
ritenere che gli appellati siano tenuti al versamento del contributo, e ciò
anche in virtù di quanto disposto dalla norma regionale ritenuta
dall’Amministrazione prevalente, che detto principio non contraddice
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 15.01.2021 n. 489 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In merito alla richiesta del contributo di costruzione,
è utile premettere che lo stesso trova causa nell’utilità
che il proprietario ritrae appunto dall’edificazione
assentita. Trattandosi di principio di portata generale, la
deroga alla onerosità del titolo edilizio non può che
ricorrere nelle “…sole ipotesi tassativamente previste dalla
legge… da intendersi di stretta interpretazione”.
---------------
In base al prevalente orientamento della giurisprudenza
amministrativa “…la controversia sulla quantificazione del
contributo di costruzione involge l'apprezzamento del
diritto soggettivo alla determinazione dell'obbligazione
contributiva. Attività questa, non autoritativa, vincolata,
da eseguirsi secondo criteri predeterminati o tabelle
parametriche in ragione della natura paratributaria del
contributo…”, con la conseguenza
che “trova campo elettivo d'applicazione, specie con
riguardo alle norme che prevedono l'esonero e la riduzione
del pagamento del contributo, il criterio interpretativo
delle norme c.d. "a fattispecie esclusiva", proprio delle
disposizioni tributarie. Ossia l'interprete, oltre a doversi
attenere alla littera legis deve individuare il criterio in
base al quale è stato disposto il beneficio che deroga
all'ordinario regime paratributario, al fine di non
estenderne l'applicazione oltre i casi espressamente
preveduti”.
---------------
Con specifico riferimento al costo di
costruzione, è stato statuito che:
- “l’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce, al primo
comma, che il rilascio del permesso di costruire comporta la
corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza
degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di
costruzione. Presupposto per la debenza del costo di
costruzione è che l’intervento rientri nell’ambito di quelli
per i quali l’art. 10 del medesimo del D.P.R. n. 380/2001
prevede il titolo abilitativo del permesso di costruire. In
tal senso deve essere interpretato anche il comma 10,
dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, secondo il quale “nel
caso di interventi su edifici esistenti il costo di
costruzione è determinato in relazione al costo degli
interventi stessi, così come individuati dal comune in base
ai progetti presentati per ottenere il permesso di
costruire. Al fine di incentivare il recupero del patrimonio
edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione
edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), i
Comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi
di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori
determinati per le nuove costruzioni”.
Questo comma rileva l’esistenza di interventi di
ristrutturazione edilizia soggetti al pagamento dell’onere,
ma deve essere interpretato nel senso che, in caso di
interventi di ristrutturazione, il costo di costruzione è
dovuto solo qualora le opere medesime richiedano il titolo abilitativo del permesso di costruire in conformità a quanto
previsto dall’art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. n.
380/2001, ovverosia per quelle opere di ristrutturazione che
“che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino modifiche della
volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero
che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso,
nonché gli interventi che comportino modificazioni della
sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42”; mentre il costo di
costruzione non deve essere corrisposto per gli interventi
di ristrutturazione realizzabili con d.i.a..
Significativi dell’esattezza di tale interpretazione si
rivelano il comma 5 dell’art. 22 del D.P.R. n. 380/2001, che
assoggetta al pagamento del costo di costruzione gli
interventi effettuati con d.i.a. solo nel caso in cui questa
sia sostitutiva del permesso di costruire nelle ipotesi
previste nel comma 3, tra le quali si trova l’ipotesi degli
interventi di ristrutturazione assoggettati al regime del
permesso di costruire ai sensi del già indicato art. 10,
comma 1, lettera c), D.P.R. n. 380/2001. Inoltre, la
giurisprudenza ha precisato che per le opere di
ristrutturazione edilizia (soggette al regime del permesso
di costruire), il pagamento degli oneri concessori è dovuto solo
nel caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento
del carico urbanistico. [..
omissis ..]. Gli oneri concessori richiesti non risultavano,
pertanto dovuti, per due ragioni, ciascuna delle quali
autonomamente sufficiente; ovverosia perché le opere poste
in essere non rientrano nel regime abilitativo del permesso
di costruire e in quanto le stesse non hanno comportato
l’aumento del carico urbanistico”.
...
Speculari considerazioni valgono con riferimento alla debenza degli
oneri di urbanizzazione, dal momento che “è
consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui il
pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo
nel caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento
del carico urbanistico”.
---------------
1. Il ricorrente, in qualità di proprietario dell’immobile
sito nel Comune di Vico Equense, al corso ... n. 125
(Cinema – teatro Aequa), è stato autorizzato, con permesso
di costruire n. 35 del 2003, ad effettuare interventi di
riqualificazione e ripristino funzionale, unitamente alla
realizzazione di un parcheggio interrato di natura
pertinenziale. Il titolo edilizio è stato successivamente
volturato in favore della società Ge. s.p.a, incaricata di
eseguirne i lavori.
1.1. A fronte del rilievo della realizzazione di opere
difformi dal progetto originario, peraltro non conformi alle
norme edilizie in quanto integranti un’ipotesi di
ristrutturazione pesante, l’amministrazione comunale ha
ordinato, in espressa applicazione dell’art. 33 DPR
380/2001, il ripristino fedele della costruzione originaria,
irrogando una sanzione per le opere difformi, ed ha
contestualmente richiesto per la prima volta il pagamento
del contributo di costruzione, quantificato in 81.672,66
euro.
1.2. Avverso l’atto così adottato, limitatamente alla
richiesta del contributo e all’applicazione della sanzione
pecuniaria ex art. 33 DPR 380/2001, insorge con il presente
ricorso, articolando censure di violazione e falsa
applicazione degli artt. 16, 17 e 33 del d.P.R. n. 380 del
2001, nonché degli artt. 74 e 75 del P.r.g. del Comune di
Vico Equense, nonché per violazione degli obblighi nascenti
dalla convenzione stipulata fra le parti e per difetto dei
presupposti. Evoca inoltre la violazione del principio di
affidamento, tenuto anche conto che nei pregressi atti
autorizzatori il contributo non è stato mai stato richiesto,
con violazione dei principi posti a presidio dell’esercizio
del potere di autotutela.
In ogni caso contesta la genericità e la carenza di
motivazione in ordine ai criteri seguiti per quantificare il
contributo di costruzione, nonché le argomentazioni spese
dall’amministrazione in merito alla natura degli interventi
di ristrutturazione pesante.
...
2. Il ricorso è fondato nei seguenti termini.
2.1. In via preliminare occorre chiarire che la
contestazione relativa all’irrogazione della sanzione non ha
avuto alcuno sviluppo nel corpo del ricorso, ed anzi il
Comune di Vico Equense ha incontestatamente affermato e
documentato (cfr. deposito in atti del 05.02.2020) l’avvenuto
pagamento appunto della sanzione ad opera della GE. srl in
data 19.06.2019, onde l’impugnazione sul punto si rivela del
tutto inammissibile. Parimenti inammissibile per genericità
e carenza di interesse è la contestazione (evidentemente
ipotetica) dell’ammissibilità o meno degli interventi di
ristrutturazione pesante nell’area interessata.
2.2. In merito alla richiesta del contributo di costruzione,
è utile premettere che lo stesso trova causa nell’utilità
che il proprietario ritrae appunto dall’edificazione
assentita. Trattandosi di principio di portata generale, la
deroga alla onerosità del titolo edilizio non può che
ricorrere nelle “…sole ipotesi tassativamente previste dalla
legge… da intendersi di stretta interpretazione” (cfr.,
Cons. Stato, Sez. V, 07.05.2013, n. 2467; TAR Emilia
Romagna –BO- sez. I, 12/10/2016 n. 846).
In base al prevalente orientamento della giurisprudenza
amministrativa “…la controversia sulla quantificazione del
contributo di costruzione involge l'apprezzamento del
diritto soggettivo alla determinazione dell'obbligazione
contributiva. Attività questa, non autoritativa, vincolata,
da eseguirsi secondo criteri predeterminati o tabelle
parametriche in ragione della natura paratributaria del
contributo…” (v. TAR Emilia Romagna –BO- n. 846 del
2016 cit.; TAR Lombardia –BS- 24/08/2012 n. 1467; Cons.
Stato, sez. V, 14.12.1994 n. 1471), con la conseguenza
che “trova campo elettivo d'applicazione, specie con
riguardo alle norme che prevedono l'esonero e la riduzione
del pagamento del contributo, il criterio interpretativo
delle norme c.d. "a fattispecie esclusiva", proprio delle
disposizioni tributarie. Ossia l'interprete, oltre a doversi
attenere alla littera legis deve individuare il criterio in
base al quale è stato disposto il beneficio che deroga
all'ordinario regime paratributario, al fine di non
estenderne l'applicazione oltre i casi espressamente
preveduti” (TAR Liguria, Sez. I, 30/09/2014, n. 1401).
3. Fatte queste premesse, il ricorso va accolto, sulla
scorta delle considerazioni già fatte proprie da questo
Tribunale, in cui, con specifico riferimento al costo di
costruzione, è stato statuito che:
- “l’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce, al primo
comma, che il rilascio del permesso di costruire comporta la
corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza
degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di
costruzione. Presupposto per la debenza del costo di
costruzione è che l’intervento rientri nell’ambito di quelli
per i quali l’art. 10 del medesimo del D.P.R. n. 380/2001
prevede il titolo abilitativo del permesso di costruire. In
tal senso deve essere interpretato anche il comma 10,
dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, secondo il quale “nel
caso di interventi su edifici esistenti il costo di
costruzione è determinato in relazione al costo degli
interventi stessi, così come individuati dal comune in base
ai progetti presentati per ottenere il permesso di
costruire. Al fine di incentivare il recupero del patrimonio
edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione
edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), i
Comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi
di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori
determinati per le nuove costruzioni”.
Questo comma rileva l’esistenza di interventi di
ristrutturazione edilizia soggetti al pagamento dell’onere,
ma deve essere interpretato nel senso che, in caso di
interventi di ristrutturazione, il costo di costruzione è
dovuto solo qualora le opere medesime richiedano il titolo abilitativo del permesso di costruire in conformità a quanto
previsto dall’art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. n.
380/2001, ovverosia per quelle opere di ristrutturazione che
“che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino modifiche della
volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero
che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso,
nonché gli interventi che comportino modificazioni della
sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42”; mentre il costo di
costruzione non deve essere corrisposto per gli interventi
di ristrutturazione realizzabili con d.i.a..
Significativi dell’esattezza di tale interpretazione si
rivelano il comma 5 dell’art. 22 del D.P.R. n. 380/2001, che
assoggetta al pagamento del costo di costruzione gli
interventi effettuati con d.i.a. solo nel caso in cui questa
sia sostitutiva del permesso di costruire nelle ipotesi
previste nel comma 3, tra le quali si trova l’ipotesi degli
interventi di ristrutturazione assoggettati al regime del
permesso di costruire ai sensi del già indicato art. 10,
comma 1, lettera c), D.P.R. n. 380/2001. Inoltre, la
giurisprudenza ha precisato che per le opere di
ristrutturazione edilizia (soggette al regime del permesso
di costruire), il pagamento degli oneri concessori è dovuto solo
nel caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento
del carico urbanistico (Cons. Stato Sez. IV, 29.10.2015, n.
4950; Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611). [..
omissis ..]. Gli oneri concessori richiesti non risultavano,
pertanto dovuti, per due ragioni, ciascuna delle quali
autonomamente sufficiente; ovverosia perché le opere poste
in essere non rientrano nel regime abilitativo del permesso
di costruire e in quanto le stesse non hanno comportato
l’aumento del carico urbanistico” (da ultimo TAR Campania
Napoli, Sez. VIII, 28.04.2020 n. 1541).
3.1. Speculari considerazioni valgono con riferimento alla
debenza degli oneri di urbanizzazione, dal momento che “è
consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui il
pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel
caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento del
carico urbanistico (TAR Piemonte, sez. I, 26.11.2003 n. 1675
e, da ultimo, TAR Piemonte, sez. II, 16.09.2013 n. 1009;
Cons. Stato, sez. IV, 29.04.2004, n. 2611)” (TAR Lombardia
Milano, Sez. II, 03.10.2018 n. 2198).
4. Nel caso in esame, è incontestato che, a seguito del
tortuoso percorso relativo agli interventi edilizi
sull’immobile in questione, alla fine il proprietario,
mediante una demo-ricostruzione fedele, si è conformato
all’ordine di riduzione in pristino della struttura
pregressa, con conseguente elisione di ogni carico
urbanistico aggiuntivo. È pur vero che l’intervento di
ristrutturazione non sarebbe stato consentito dagli
strumenti urbanistici del territorio (onde correttamente
l’amministrazione comunale ha proceduto ad irrogare la
relativa sanzione), ma, sul piano sostanziale, la modalità
di recupero del manufatto pre-esistente (mediante
ristrutturazione ovvero mediante recupero conservativo), non
condiziona la debenza o meno degli oneri di costruzione, i
quali sono comunque collegati a tutti quegli interventi
suscettibili di determinare una diversa destinazione ovvero
una trasformazione strutturale che comportino una incidenza
qualitativa o quantitativa sul carico urbanistico.
4.1. Pertanto la richiesta degli oneri concessori non
risulta pertinente rispetto all’intervento realizzato dal
ricorrente e la relativa pretesa avanzata
dall’amministrazione comunale si rivela priva di fondamento (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 12.01.2021 n. 207 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso di demolizione e successiva ricostruzione di fabbricato,
il presupposto dell'onerosità della trasformazione edilizia è costituito dal
maggior carico urbanistico determinato dall'intervento, per cui l'Ente
locale deve richiedere il pagamento degli oneri di urbanizzazione se
il peso insediativo aumenta, mentre non deve chiedere alcunché se
non si verifica alcuna variazione.
Il contributo concessorio (comprendente
oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) è
un’obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio
della concessione edilizia ed è qualificabile come corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo
di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all'insieme dei benefici arrecati al nuovo manufatto.
La disposizione che regola la fattispecie si rinviene all’art. 16 del DPR
380/2001 (rubricato “Contributo per il rilascio del permesso di costruire”),
il quale dispone al comma 1 che “Salvo quanto disposto dall'articolo 17,
comma 3, il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di
un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché
al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo
e fatte salve le disposizioni concernenti gli interventi di trasformazione
urbana complessi di cui al comma 2-bis”.
Osserva il Collegio che, in linea generale, la partecipazione del privato
al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento
determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione
dell’immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a
sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il
profilo urbanistico.
Come ha statuito questo TAR di recente <<Mentre il costo di costruzione rappresenta una
compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà
immobiliare, gli oneri di urbanizzazione svolgono la funzione di compensare
la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa
sulla zona a causa della consentita attività edificatoria. Essi sono
pertanto dovuti nel caso di trasformazioni edilizie che, indipendentemente
dall’esecuzione di opere, si rivelino produttive di vantaggi economici per
il proprietario, determinando un aumento del carico urbanistico. Tale
incremento può derivare anche da una mera modifica della destinazione d’uso
di un immobile, mentre può non configurarsi nell’ipotesi di intervento
edilizio con opere. … Secondo consolidata e risalente giurisprudenza il
fondamento del contributo di urbanizzazione pertanto “non consiste nel
titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali
delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle
utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la
comunità con la conseguenza che, anche nel caso di modificazione della
destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è
integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della
differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione
originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione
impressa”…>>.
Anche il Consiglio di Stato ha
chiarito che “In linea di diritto, mentre la quota del contributo di
costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente
connessa alla tipologia e all'entità (superficie e volumetria)
dell'intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere
all'amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla
collettività di riferimento alla trasformazione del territorio consentita al
privato istante (ossia, a compensare la c.d. compartecipazione comunale
all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a
seguito della nuova edificazione), la quota del contributo di costruzione
commisurata agli oneri di urbanizzazione "assolve alla prioritaria
funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico
urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento
del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l'area
di nuove opere di urbanizzazione, quanto l'esigenza di utilizzare più
intensamente quelle già esistenti".
In definitiva, il presupposto dell'onerosità della trasformazione
edilizia è costituito dal maggior carico urbanistico determinato
dall'intervento, per cui l'Ente locale deve richiedere il pagamento degli
oneri se il peso insediativo aumenta, mentre non deve chiedere alcunché se
non si verifica alcuna variazione.
Detto altrimenti, "in caso di intervento di ristrutturazione edilizia, dal
contributo per gli oneri di urbanizzazione deve essere sottratto l'importo
imputabile al carico urbanistico generato dall'edificio preesistente".
---------------
Laddove siano state versate al comune somme non dovute a titolo di oneri
di urbanizzazione ovvero di costo di costruzione, la restituzione del quantum indebitamente percepito
soggiace alla quantificazione degli
interessi maturati.
Invero, dispone l’articolo 2033 cod. civ. che “chi ha
eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato.
Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se
chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede,
dal giorno della domanda”.
---------------
FATTO
A. Espongono i ricorrenti di essere proprietari, nel Comune di Cologne (BS),
di un immobile bifamiliare destinato a residenza, identificato in catasto al
Fg. 9, mappale 77, sub. 8, 9 e 10.
B. Alla luce delle esigenze abitative del nucleo, hanno presentato domanda
di permesso di costruire per un intervento di demolizione del fabbricato
esistente, per realizzare una nuova villa unifamiliare. Come illustrato
nella relazione tecnica (doc. 5), i committenti hanno inteso trasformare
l’edificio –composto da 2 unità immobiliari indipendenti che occupavano una
superficie di 408,32 mq.– in una villa unifamiliare ad uso esclusivo del
nucleo, con superficie complessiva di poco superiore (431,35 mq.) e un
incremento volumetrico di 379,41 mc (cfr. doc. 5-bis).
C. Il 28/05/2010 il Comune intimato rilasciava il titolo abilitativo, che
assentiva l’intervento edilizio e lo assoggettava al pagamento del
contributo ex art. 16 del DPR 380/2001 per 47.859,66 €, suddivisi in
29.008,48 € per costo di costruzione, 5.924,66 € per oneri di urbanizzazione
primaria e 12.926,52 € per oneri di urbanizzazione secondaria.
D. Gli esponenti ravvisavano l’erroneità dell’ammontare richiesto per la
voce “oneri di urbanizzazione”, in quanto l’Ufficio Tecnico aveva applicato
l’aliquota prevista per interventi di nuova costruzione e demo-ricostruzione
all’intero immobile in progetto (per l’intero volume di 1.077,21 mc.) senza
considerare la preesistenza di un fabbricato bifamiliare. Il versamento
veniva eseguito integralmente, per evitare effetti pregiudizievoli
sull’efficacia del permesso di costruire, con l’espressa riserva di tutela
in sede giurisdizionale.
E. Con gravame ritualmente notificato e tempestivamente depositato presso la
Segreteria della Sezione i ricorrenti propongono azione di accertamento,
assumendo la non debenza delle somme versate a titolo di oneri di
urbanizzazione e deducendo la violazione dell’art. 16 del DPR 380/2001,
nonché l’eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e di
diritto e il difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto:
a) l’edificio, in origine, era formato da due unità immobiliari al
piano terra e al piano primo (2 appartamenti indipendenti e idonei per due
nuclei, per una superficie totale pari a 408,32 mq.) mentre con l’intervento
si è ricavato un manufatto unico da destinare ad abitazione principale,
esteso per 431,35 mq.;
b) l’art. 16 del T.U. Edilizia è stato interpretato nel senso che
il pagamento degli oneri di urbanizzazione deve essere quantificato nella
sola misura determinata dall’incremento del carico urbanistico;
c) il contributo è un corrispettivo di diritto pubblico di natura
non tributaria, il cui presupposto si rinviene nella domanda di maggiore
dotazione di servizi nell’area di riferimento, indotta dalla destinazione
d’uso concretamente impressa all’immobile realizzato;
d) il Comune non ha verificato che l’intervento non ha incrementato
il carico urbanistico preesistente, dal momento che un’abitazione singola ha
sostituito due unità immobiliari ivi ubicate, con mantenimento della
destinazione d’uso residenziale (non sorge alcuna necessità di potenziamento
di strutture o servizi pubblici ed anzi il peso per la comunità sarà
inferiore);
e) l’aumento di superficie è del tutto trascurabile (23 mq.),
mentre la variazione volumetrica è stata determinata dalla collocazione
delle pertinenze accessorie (autorimessa e lavanderia) al piano terreno, con
conseguente computo nella SLP e nel volume urbanisticamente rilevante;
f) come si evince dalla relazione tecnica e dalla tavola di
sovrapposizione (doc. 5 e 8), l’ingombro del nuovo fabbricato è inferiore,
risultando più piccolo e meno profondo;
g) in via subordinata, la pretesa creditoria deve comunque essere
rapportata all’ampliamento dell’edificio in termini di metri cubi (maggior
onere effettivo sul tessuto urbanistico), posto che il volume del fabbricato
ante operam era pari a 697,81 mc. e dopo la ricostruzione ha raggiunto
1.077,21 mc. (l’obbligo di restituzione sarebbe pari a 12.211,68 €).
In conclusione, i ricorrenti chiedono la restituzione della somma
indebitamente versata, con interessi dal versamento al saldo.
F. Si è costituito in giudizio il Comune di Cologne, chiedendo la reiezione
del gravame. Nei propri scritti difensivi puntualizza che la quota di
contributo afferente all’incidenza degli oneri di urbanizzazione è dovuta
per legge al rilascio del titolo edilizio, è individuata dal Consiglio
comunale secondo tabelle parametriche predisposte dalla Regione e prescinde
dalla verifica in concreto del maggior carico urbanistico indotto dalla
nuova costruzione.
G. Alla pubblica udienza del 10/01/2020 il gravame introduttivo è stato
chiamato per la discussione e trattenuto in decisione.
DIRITTO
I ricorrenti, che hanno ottenuto il titolo abilitativo per i lavori di
demo-ricostruzione di un edificio (da bifamiliare a unifamiliare), censurano
la pretesa del Comune di esigere il pagamento della quota di oneri di
urbanizzazione. La controversia ha quindi ad oggetto un giudizio di
accertamento negativo in ordine all’obbligazione pecuniaria relativa al
pagamento del contributo, nell’ambito della giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, rispetto alla quale gli atti di liquidazione sono
privi di contenuto ed effetti provvedimentale (Consiglio di Stato, sez. IV –
01/02/2017 n. 425).
Il gravame è parzialmente fondato e merita accoglimento, nei termini di
seguito precisati.
1. Il Collegio richiama anzitutto i principi giurisprudenziali elaborati
nella materia controversa, per cui il contributo concessorio (comprendente
oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) è un’obbligazione giuridica
di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione edilizia (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI – 07/02/2017 n. 728) ed è qualificabile come
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici arrecati al nuovo
manufatto (Consiglio di Stato, sez. IV – 29/10/2015 n. 4950; sentenza
Sezione 04/04/2018 n. 449).
2. La disposizione che regola la fattispecie si rinviene all’art. 16 del DPR
380/2001 (rubricato “Contributo per il rilascio del permesso di costruire”),
il quale dispone al comma 1 che “Salvo quanto disposto dall'articolo 17,
comma 3, il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di
un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché
al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo
e fatte salve le disposizioni concernenti gli interventi di trasformazione
urbana complessi di cui al comma 2-bis”.
Nel caso di specie, è pacifica la
natura dell’intervento, consistente nella demolizione di un edificio bifamiliare e ricostruzione di un fabbricato monofamiliare (villa con
piscina di 1.077,22 mc. – cfr. doc. 3 e ss. del Comune).
3. Osserva il Collegio che, in linea generale, la partecipazione del privato
al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento
determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione
dell’immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a
sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il
profilo urbanistico (sentenza sez. I – 26/04/2018 n. 449).
Come ha statuito
questo TAR di recente (cfr. sentenza Sezione I – 17/06/2019 n. 574, che
non risulta appellata) <<Mentre il costo di costruzione rappresenta una
compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà
immobiliare, gli oneri di urbanizzazione svolgono la funzione di compensare
la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa
sulla zona a causa della consentita attività edificatoria (TAR Piemonte,
sez. I, 21.05.2018, n. 630). Essi sono pertanto dovuti nel caso di
trasformazioni edilizie che, indipendentemente dall’esecuzione di opere, si
rivelino produttive di vantaggi economici per il proprietario, determinando
un aumento del carico urbanistico. Tale incremento può derivare anche da una
mera modifica della destinazione d’uso di un immobile, mentre può non
configurarsi nell’ipotesi di intervento edilizio con opere. … Secondo
consolidata e risalente giurisprudenza il fondamento del contributo di
urbanizzazione pertanto “non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella
necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione,
facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla
presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità con la
conseguenza che, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso,
cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto
che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di
urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più
elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa” (Cons. Stato, Sez. V,
30.08.2013, n. 4326; id. ex multis TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 04.05.2009, n. 3604; Cons. Stato, Sez. V, 21.12.1994, n. 1563) …>>.
Anche il Consiglio di Stato (cfr. sentenza sez. II – 09/12/2019 n. 8377) ha
chiarito che “In linea di diritto, cioè, mentre la quota del contributo di
costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente
connessa alla tipologia e all'entità (superficie e volumetria)
dell'intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere
all'amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla
collettività di riferimento alla trasformazione del territorio consentita al
privato istante (ossia, a compensare la c.d. compartecipazione comunale
all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a
seguito della nuova edificazione), la quota del contributo di costruzione
commisurata agli oneri di urbanizzazione "assolve alla prioritaria funzione
di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che
si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico
urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l'area di nuove
opere di urbanizzazione, quanto l'esigenza di utilizzare più intensamente
quelle già esistenti" (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 07.05.2015, n. 2294; id.,
29.08.2019, n. 5964)” (si veda anche Consiglio di Stato, sez. II –
21/10/2019 n. 7119).
4. In definitiva, il presupposto dell'onerosità della trasformazione
edilizia è costituito dal maggior carico urbanistico determinato
dall'intervento, per cui l'Ente locale deve richiedere il pagamento degli
oneri se il peso insediativo aumenta, mentre non deve chiedere alcunché se
non si verifica alcuna variazione.
5. Nel caso di specie può dirsi realizzato un aumento solo parziale del
carico urbanistico, atteso che gli esponenti hanno trasformato l’edificio
bifamiliare in unifamiliare, aumentandone il volume: ricorre pertanto il
presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento degli oneri di
urbanizzazione limitatamente al surplus realizzato (in termini volumetrici).
Come ha rilevato TAR Lazio-Roma, sez. II-bis – 12/09/2019 n. 10887 <<Il
Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato al riguardo che "in caso di
intervento di ristrutturazione edilizia, dal contributo per gli oneri di
urbanizzazione deve essere sottratto l'importo imputabile al carico
urbanistico generato dall'edificio preesistente … (cfr. Cons. St., Sez. VI;
02.07.2015 n. 3298)>>.
Per effettuare il calcolo dovrà essere utilizzata la
tabella adottata dal Comune di Cologne (doc. 8 amministrazione), che
pre-determina in via generale ed astratta l’ammontare dovuto assumendo come
unità di misura il metro cubo.
6. In conclusione, il ricorso deve essere parzialmente accolto, con
l’accertamento della non debenza da parte degli esponenti –per l’intervento
di demolizione e successiva ricostruzione– della quota degli oneri di
urbanizzazione versati in eccedenza e con la condanna dell’amministrazione
comunale alla restituzione del quantum indebitamente percepito, oltre agli
interessi maturati dalla data di notificazione dell'atto introduttivo del
presente giudizio.
Dispone infatti l’articolo 2033 cod. civ. che “chi ha
eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato.
Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se
chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede,
dal giorno della domanda”. In assenza di prova contraria, deve presumersi la
buona fede dell’amministrazione comunale (cfr. sentenze sez. I – 20/05/2019
n. 499; sez. II – 02/05/2019 n. 426).
7. Il Comune intimato dovrà conseguentemente provvedere –entro 90 giorni
dalla comunicazione della presente pronuncia– al ricalcolo, alla
liquidazione del dovuto e al relativo pagamento. La somma dovrà essere
maggiorata degli interessi, calcolati dalla data di notificazione del
ricorso fino al saldo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.01.2020 n. 75 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
maggioritaria giurisprudenza si è evoluta nel senso che gli oneri di
urbanizzazione sono dovuti (in ipotesi anche per il mero mutamento di
destinazione d’uso senza opere) allorquando un intervento determini un
maggiore carico urbanistico.
In senso analogo si è espresso il giudice d’appello, proprio in una
fattispecie di sostituzione edilizia (demolizione/ricostruzione), nella
quale si legge: “il contributo per oneri di urbanizzazione è un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae.
In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto
l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella
zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in
primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie,
rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli
abitanti di un territorio.
Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le
spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un
intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella
medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per
fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si
giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei
servizi.
All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del
carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di urbanizzazione
dovrebbero essere versati in vista della predisposizione degli strumenti
idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche. In
sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura
compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per
rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio,
purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due
volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento
del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale
secondo cui “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli
oneri
di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia
determinato un aumento del carico urbanistico”.
---------------
Le ricorrenti hanno adito l’intestato TAR deducendo di essere state
rispettivamente proprietaria (F. s.r.l.) e titolare del relativo permesso di
costruire volturato (Pr. s.r.l.) di un edificio in Torino via ... n. 8,
originariamente suddiviso in 28 unità immobiliari a destinazione
residenziale, oltre una porzione a deposito.
A partire dal 2000 si è dato corso ad un intervento di sostituzione
edilizia, consistente nella demolizione delle strutture esistenti e loro
integrale riedificazione; per assentire il progetto l’amministrazione ha
reclamato il versamento di € 235.557,59, di cui € 172.099,66 a titolo di
oneri di urbanizzazione.
Le società hanno dato corso al versamento (gli oneri sono stati versati per
le ultime due rate dalla Pr. s.r.l. nelle more divenuta titolare del
permesso di costruire), contestando tuttavia l’addebito in quanto
l’intervento non avrebbe comportato alcun aumento di carico urbanistico e
dunque non avrebbe giustificato l’applicazione di oneri.
L’intervento rientra nella disciplina di cui all’art. 4, co. 36, delle NTA
del PRGC vigente, che consente di fatto di demolire l’esistente
ricostruendolo nei limiti della SLP precedente. La ricostruzione ha portato
alla realizzazione di 19 unità immobiliari in luogo di 28, oltre box auto,
in area di PRG già classificata “consolidata residenziale”, e dunque
urbanizzata. Il contributo di urbanizzazione, trovando causa nell’aumento di
carico urbanistico, non avrebbe giustificazione nel caso di specie.
Hanno chiesto pertanto la restituzione di quanto corrisposto oltre interessi
e rivalutazione monetaria.
...
Il ricorso risulta parzialmente fondato.
Deve premettersi che, come evidenziato dall’amministrazione, rispetto alle
somme complessivamente versate menzionate in ricorso (contributo di
costruzione ed oneri di urbanizzazione), la quota in effettiva contestazione
è quella relativa agli oneri di urbanizzazione, quantificati dal Comune in €
172.099,60 e versati a rate in connessione con il rilascio del titolo.
E’ poi pacifico tra le parti che una parte delle preesistenti strutture non
avesse destinazione residenziale; in particolare, come chiarito da una
congiunta valutazione dei tecnici di parte, la volumetria in precedenza
destinata ad attività produttiva era pari a mc. 425,73, corrispondenti ad
oneri di urbanizzazione per € 21.243,92.
E’ ugualmente pacifico che, esclusa l’area a destinazione produttiva, le
ricorrenti abbiano realizzato la sostituzione edilizia di un edificio per il
resto già adibito ad uso residenziale ed in precedenza composto di 28 unità
immobiliari; non vi è invece prova o evidenza alcuna in atti (né se ne fa
cenno nel provvedimento impugnato) che le menzionate unità immobiliari, poi
oggetto di un intervento radicale, fossero da tempo dismesse o praticamente
inservibili, fattispecie alla quale si fa riferimento nelle difese
dell’amministrazione ma che, per le ragioni indicate, non può essere presa
in considerazione.
Ne consegue che l’immobile aveva già in precedenza una parziale destinazione
residenziale, di cui aveva scontato gli oneri; d’altro canto, già in fase
procedimentale, l’amministrazione, a fronte delle obiezioni circa l’importo
calcolato a titolo di oneri di urbanizzazione si è limitata ad osservare
che:
- l’intervento non ricade in nessuno dei casi di esenzione previsti
espressamente dall’art. 17 del d.p.r. n. 380/2001;
- l’intervento ha comportato la sostituzione edilizia anche di una
parte di strutture ad uso non residenziale e, per questa parte, ha
comportato un aumento di carico urbanistico (cfr. doc. 6 di parte
resistente, risposta del comune alla richiesta di ricalcolo).
Così configurata in fatto la fattispecie, dal punto di vista normativo, la
maggioritaria giurisprudenza si è evoluta nel senso che gli oneri di
urbanizzazione sono dovuti (in ipotesi anche per il mero mutamento di
destinazione d’uso senza opere) allorquando un intervento determini un
maggiore carico urbanistico (in tal senso Tar Piemonte, sez. I, n. 630/2018;
Tar Brescia n. 449/2018).
In senso analogo si è espresso il giudice d’appello, proprio in una
fattispecie di sostituzione edilizia realizzata nel comune di Torino, con la
sentenza Cons. St. sez. IV, n. 4950/2015, nella quale si legge: “il
contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo
di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae. In effetti, gli
oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio
comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla
costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie,
si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli
edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio. Ciò posto,
se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese
necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un
intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella
medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per
fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si
giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei
servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un
incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di
urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione
degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze
urbanistiche. In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per
avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa
carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o
rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può
essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di
sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico. Sul punto, il Collegio
condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “in caso di
ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è
dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del
carico urbanistico” (Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611)”.
Condividendosi i principi sopra affermati ne consegue che, per la quota
parte di edificio che trova corrispondenza nella pregressa SUL a
destinazione residenziale, non si è realizzato alcun aumento di carico
urbanistico e non sono dovuti, come in effetti lamentato in ricorso, gli
oneri di urbanizzazione
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 07.01.2020 n. 20 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La trasformazione dei locali adibiti ad uso industriale in locali adibiti ad
attività di culto -attraverso la realizzazione di
opere interne con le quali sono state create, tra le altre, una cucina, due
locali wc, etc.- ha implicato una modifica funzionale dei locali interessati
con conseguente incidenza sul carico urbanistico.
La giurisprudenza amministrativa è pacifica nel ritenere che la
trasformazione dell’immobile con incremento del carico urbanistico
rappresenti una ristrutturazione edilizia subordinata al rilascio di
apposito permesso di costruire.
---------------
5. Il ricorso non merita accoglimento.
La trasformazione dei locali adibiti ad uso industriale in locali adibiti ad
attività di culto, compiuta dai ricorrenti attraverso la realizzazione di
opere interne con le quali sono state create, tra le altre, una cucina, due
locali wc, etc. ha implicato una modifica funzionale dei locali interessati
con conseguente incidenza sul carico urbanistico.
La giurisprudenza amministrativa è pacifica nel ritenere che la
trasformazione dell’immobile con incremento del carico urbanistico
rappresenti una ristrutturazione edilizia subordinata al rilascio di
apposito permesso di costruire.
Ai sensi dell’art. 3, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001, infatti, per
“interventi di ristrutturazione edilizia" si intendono: gli interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico
di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l’eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Per tali
interventi e per l’insieme sistematico di opere che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, il successivo art. 10
richiede che il privato sia preventivamente in possesso di apposito permesso
di costruire.
Nel caso di specie, invece, vi è assenza del titolo edilizio richiesto per
il mutamento della destinazione d’uso originariamente assentita e la
contestuale realizzazione di opere interne idonee ad incidere sul carico
urbanistico
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 21.11.2019 n. 2918 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Giusta
la disposizione ex art. 16 dpr 380/2001, il legislatore ha stabilito,
evidentemente al fine di contemperare i contrapposti interessi, che
l’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione scatta solo nel momento in cui si prospetta la
concreta possibilità di sfruttamento del fondo, nei limiti in cui tale
sfruttamento ha luogo, della qual cosa il rilascio del permesso di costruire
dà evidenza: ciò sul presupposto che l’obbligo di pagamento degli oneri di
urbanizzazione realizza, in chiave solidaristica, il contributo di ogni
proprietario di suoli alla realizzazione delle opere necessarie per
consentire ai cittadini di accedere ai servizi che debbono considerarsi
indispensabili alla vita moderna, ed inoltre sul presupposto che tale
concorso deve essere proporzionale all’effettiva richiesta di tali servizi,
in proporzione, cioè, al c.d. aumento del carico urbanistico.
Si è quindi formato un consolidato orientamento di giurisprudenza
secondo cui l’obbligo di contribuzione è indissolubilmente correlato
all’effettivo esercizio dello ius aedificandi, essendo gli oneri di
urbanizzazione, e di costruzione, oggetto di una obbligazione ex lege,
che ne collega la debenza alla specifica trasformazione del territorio
oggetto del titolo, conseguendo da ciò che se l’edificazione non ha luogo,
in tutto o in parte, le somme già corrisposte a titolo di oneri di
urbanizzazione, e/o di costo di costruzione, danno luogo ad un indebito,
fonte di un obbligo restitutorio.
La giurisprudenza, tuttavia, ha anche affermato che il ricordato
principio vale solo nel caso in cui il pagamento degli oneri di
urbanizzazione, o il costo di costruzione, trovi origine, direttamente e
soltanto, in un titolo edilizio, versandosi in tal caso in una obbligazione ex lege. Viceversa, ove l’obbligo di pagamento degli
oneri di
urbanizzazione, nonché del costo di costruzione, sia fatto oggetto di una
convenzione urbanistica, esso assume natura convenzionale e trova causa
nella convenzione di lottizzazione, nell’ambito della quale tale debenza
deve essere valutata e rapportata alla intera operazione, la cui complessiva
remuneratività “costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio
del sinallagma a base dell’accordo e, quindi, la sostanziale liceità degli
impegni assunti”.
E stato infatti puntualizzato che “La causa della convenzione
urbanistica, e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a
soddisfare, in particolare, va valutata non con riferimento ai singoli
impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale
della convenzione, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli
interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione” e che, inoltre, “non è affatto
escluso dal sistema che un operatore, nella convenzione urbanistica, possa
assumere oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge,
trattandosi di una libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera
scelta volta al benessere della collettività locale), rientrante nella
ordinaria autonomia privata, non contrastante di per sé con norme imperative”.
...
Il Collegio non ritiene di doversi discostarsi da tale orientamento,
anche per la ragione che
le convenzioni urbanistiche, ancorché le si voglia qualificare come
contratti pubblici, sono riconducibili ad accordi sostitutivi di atti
amministrativi che, ai sensi dell’art. 11 della L. 241/1990, sono soggetti
alle norme di diritto privato.
Segue da tale constatazione che per effetto della avvenuta stipula di
una convenzione urbanistica che recepisca l’obbligo, per la parte privata,
di pagare gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione, tale
obbligo assume natura convenzionale, risultando assistito da una causa che è
costituita, appunto, dalla convenzione urbanistica e dal complesso delle
pattuizioni in essa contenute, così che l’eventuale venir meno dell’obbligo
di che trattasi può determinarsi solo per il venir meno della stessa
convenzione urbanistica, che, secondo i principi civilistici, può essere
risolta consensualmente o per le altre cause indicate nel codice civile.
Del resto, la stipula di una convenzione urbanistica fa nascere
sicuramente, in capo alla amministrazione comunale, un affidamento circa il
pagamento degli oneri di urbanizzazione ivi previsti, nonché circa la
completa attuazione della convenzione, e proprio tale affidamento legittima
l’amministrazione medesima ad utilizzare le somme nel frattempo già versate
per la realizzazione di opere di urbanizzazione, che tra l’altro, nel caso
di opere di urbanizzazione secondaria, sono di fruizione collettiva e
servono gli abitanti di più quartieri: la pretesa della parte privata di una
convenzione urbanistica, tesa ad ottenere il rimborso di quanto corrisposto
per oneri di urbanizzazione in dipendenza della mancata attuazione, in tutto
o in parte della lottizzazione, rischia, allora, di creare gravi squilibri,
che giustificano l’affermazione secondo cui fintanto che la convenzione
urbanistica non viene invalidata o risolta, essa costituisce una giusta
causa di ritenzione di tali somme da parte dell’amministrazione, e, correlativamente, l’eventuale restituzione di esse non può che passare da un
accordo consensuale o –come già precisato– da altra forma di
invalidazione/risoluzione della convenzione, che all’occorrenza deve essere
fatta oggetto di specifica azione giudiziale.
L’eventuale arricchimento per il Comune derivante dalla mancata attuazione,
totale o parziale, della convenzione urbanistica, deve, a maggior ragione,
essere fatta valere espressamente, ai sensi dell’art. 2041 del codice
civile, con azione che ha natura sussidiaria e che, quindi, richiede
preliminarmente, l’esperimento e l’esaurimento di ogni altro mezzo di tutela
del soggetto che si ritiene impoverito.
---------------
10. Il ricorso è infondato.
11. Va ricordato, preliminarmente, che l’obbligo di pagare gli oneri di
urbanizzazione trova causa nella normativa di settore, attualmente
rappresentata dall’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, il quale, contiene le
seguenti previsioni:
“1. Salvo quanto disposto dall'articolo 17, comma 3, il rilascio del
permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo
commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo.
2. La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è
corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su
richiesta dell'interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o
parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a
realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto
dell'articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive
modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con
conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile
del comune .
…………….
3. La quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata
all'atto del rilascio, è corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le
garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione
della costruzione.
4. L'incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle
tabelle parametriche……
……………..
7. Gli oneri di urbanizzazione primaria sono relativi ai seguenti
interventi: strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature,
rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas,
pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato.
7-bis. Tra gli interventi di urbanizzazione primaria di cui al comma 7
rientrano i cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio di reti di
telecomunicazioni, salvo nelle aree individuate dai comuni sulla base dei
criteri definiti dalle regioni.
8. Gli oneri di urbanizzazione secondaria sono relativi ai seguenti
interventi: asili nido e scuole materne, scuole dell'obbligo nonché
strutture e complessi per l'istruzione superiore all'obbligo, mercati di
quartiere, delegazioni comunali, chiese e altri edifici religiosi, impianti
sportivi di quartiere, aree verdi di quartiere, centri sociali e
attrezzature culturali e sanitarie. Nelle attrezzature sanitarie sono
ricomprese le opere, le costruzioni e gli impianti destinati allo
smaltimento, al riciclaggio o alla distruzione dei rifiuti urbani, speciali,
pericolosi, solidi e liquidi, alla bonifica di aree inquinate...”.
12. Come si può constatare, il legislatore ha stabilito, evidentemente al
fine di contemperare i contrapposti interessi, che l’obbligo di pagamento
degli oneri di urbanizzazione scatta solo nel momento in cui si prospetta la
concreta possibilità di sfruttamento del fondo, nei limiti in cui tale
sfruttamento ha luogo, della qual cosa il rilascio del permesso di costruire
dà evidenza: ciò sul presupposto che l’obbligo di pagamento degli oneri di
urbanizzazione realizza, in chiave solidaristica, il contributo di ogni
proprietario di suoli alla realizzazione delle opere necessarie per
consentire ai cittadini di accedere ai servizi che debbono considerarsi
indispensabili alla vita moderna, ed inoltre sul presupposto che tale
concorso deve essere proporzionale all’effettiva richiesta di tali servizi,
in proporzione, cioè, al c.d. aumento del carico urbanistico.
13. Si è quindi formato un consolidato orientamento di giurisprudenza
secondo cui l’obbligo di contribuzione è indissolubilmente correlato
all’effettivo esercizio dello ius aedificandi, essendo gli oneri di
urbanizzazione, e di costruzione, oggetto di una obbligazione ex lege,
che ne collega la debenza alla specifica trasformazione del territorio
oggetto del titolo, conseguendo da ciò che se l’edificazione non ha luogo,
in tutto o in parte, le somme già corrisposte a titolo di oneri di
urbanizzazione, e/o di costo di costruzione, danno luogo ad un indebito,
fonte di un obbligo restitutorio (tra le più recenti: C.d.S., Sez. IV,
04.10.2019, n. 6668).
14. La giurisprudenza, tuttavia, ha anche affermato che il ricordato
principio vale solo nel caso in cui il pagamento degli oneri di
urbanizzazione, o il costo di costruzione, trovi origine, direttamente e
soltanto, in un titolo edilizio, versandosi in tal caso in una obbligazione
ex lege. Viceversa, ove l’obbligo di pagamento degli oneri di
urbanizzazione, nonché del costo di costruzione, sia fatto oggetto di una
convenzione urbanistica, esso assume natura convenzionale e trova causa
nella convenzione di lottizzazione, nell’ambito della quale tale debenza
deve essere valutata e rapportata alla intera operazione, la cui complessiva
remuneratività “costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio
del sinallagma a base dell’accordo e, quindi, la sostanziale liceità degli
impegni assunti (cfr. Cons. Stato, IV, 15.02.2019, n. 1069)” (C.d.S.,
Sez. IV, 04.10.2019, n. 6668).
E stato infatti puntualizzato che “La causa della convenzione
urbanistica, e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a
soddisfare, in particolare, va valutata non con riferimento ai singoli
impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale
della convenzione, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli
interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione (Cons.
Stato, V, 26.11.2013, n. 5603)” e che, inoltre, “non è affatto
escluso dal sistema che un operatore, nella convenzione urbanistica, possa
assumere oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge,
trattandosi di una libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera
scelta volta al benessere della collettività locale), rientrante nella
ordinaria autonomia privata, non contrastante di per sé con norme imperative”
(C.d.S., Sez. IV, 04.10.2019, n. 6668).
15. Il Collegio non ritiene di doversi discostarsi da tale orientamento,
anche per la ragione, correttamente prospettata nelle difese del Comune, che
le convenzioni urbanistiche, ancorché le si voglia qualificare come
contratti pubblici, sono riconducibili ad accordi sostitutivi di atti
amministrativi che, ai sensi dell’art. 11 della L. 241/1990, sono soggetti
alle norme di diritto privato (tra le più recenti: C.d.S., Sez. II,
29/07/2019 n. 5304; Consiglio di Stato sez. IV, 07/05/2015, n. 2313;
Consiglio di Stato sez. IV, 26/09/2013, n. 4810).
16. Segue da tale constatazione che per effetto della avvenuta stipula di
una convenzione urbanistica che recepisca l’obbligo, per la parte privata,
di pagare gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione, tale
obbligo assume natura convenzionale, risultando assistito da una causa che è
costituita, appunto, dalla convenzione urbanistica e dal complesso delle
pattuizioni in essa contenute, così che l’eventuale venir meno dell’obbligo
di che trattasi può determinarsi solo per il venir meno della stessa
convenzione urbanistica, che, secondo i principi civilistici, può essere
risolta consensualmente o per le altre cause indicate nel codice civile.
16.1. Del resto, la stipula di una convenzione urbanistica fa nascere
sicuramente, in capo alla amministrazione comunale, un affidamento circa il
pagamento degli oneri di urbanizzazione ivi previsti, nonché circa la
completa attuazione della convenzione, e proprio tale affidamento legittima
l’amministrazione medesima ad utilizzare le somme nel frattempo già versate
per la realizzazione di opere di urbanizzazione, che tra l’altro, nel caso
di opere di urbanizzazione secondaria, sono di fruizione collettiva e
servono gli abitanti di più quartieri: la pretesa della parte privata di una
convenzione urbanistica, tesa ad ottenere il rimborso di quanto corrisposto
per oneri di urbanizzazione in dipendenza della mancata attuazione, in tutto
o in parte della lottizzazione, rischia, allora, di creare gravi squilibri,
che giustificano l’affermazione secondo cui fintanto che la convenzione
urbanistica non viene invalidata o risolta, essa costituisce una giusta
causa di ritenzione di tali somme da parte dell’amministrazione, e, correlativamente, l’eventuale restituzione di esse non può che passare da un
accordo consensuale o –come già precisato– da altra forma di
invalidazione/risoluzione della convenzione, che all’occorrenza deve essere
fatta oggetto di specifica azione giudiziale.
L’eventuale arricchimento per il Comune derivante dalla mancata attuazione,
totale o parziale, della convenzione urbanistica, deve, a maggior ragione,
essere fatta valere espressamente, ai sensi dell’art. 2041 del codice
civile, con azione che ha natura sussidiaria e che, quindi, richiede
preliminarmente, l’esperimento e l’esaurimento di ogni altro mezzo di tutela
del soggetto che si ritiene impoverito
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 28.10.2019 n. 1090 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
demolizione e fedele ricostruzione dell’originario edificio, quanto a sagoma
e volumetria, non sconta il pagamento degli oo.uu. poiché non v'è incremento
del carico urbanistico.
Se il contributo per oneri di urbanizzazione costituisce un
corrispettivo di diritto pubblico
previsto dal legislatore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione, ovvero un
contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese
che l'Amministrazione
pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell'edificio e del
connesso utilizzo, da parte
dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti, la sua
debenza non dipende tanto, ai sensi degli artt. 16 e
22 del DPR n. 380/2001,
dalla tipologia del titolo abilitativo richiesto (permesso di costruire o
DIA, oggi SCIA) per la
realizzazione delle opere, quanto, piuttosto, dalla natura e dagli effetti
dell’intervento edilizio posto
in essere. Di aumento o meno, appunto, del carico antropico.
Invero, “il criterio discretivo tra l’intervento di demolizione e
ricostruzione e la nuova costruzione è
costituito, nel primo caso, dall’assenza di variazioni di volume
dell’altezza e della sagoma
dell’edificio per cui, in assenza di tali indefettibili e precise
condizioni, si deve parlare di intervento
equiparabile a nuova costruzione, da assoggettarsi alle regole proprie della
corrispondente attività
edilizia. Detti criteri vanno osservati con particolare rigore, specie a
seguito dell'ampliamento della
categoria della demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301/2002,
dato che, proprio perché
non vi è più il limite della fedele ricostruzione, si richiede la
conservazione delle caratteristiche
fondamentali dell'edificio preesistente nel senso che debbono essere
presenti gli elementi
fondamentali, in particolare per i volumi per cui la ristrutturazione
edilizia, per essere tale e non finire
per coincidere con la nuova costruzione, deve conservare le caratteristiche
fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione
dell'edificio deve riprodurre le precedenti linee
fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi”.
Altresì, “il presupposto
dell’onerosità della
trasformazione edilizia … è costituito dal maggior carico urbanistico
determinato dall’intervento, per
cui l’Ente locale deve richiedere il pagamento degli oneri se il peso
insediativo aumenta, mentre non
deve chiedere alcunché se non si verifica alcuna variazione del carico
urbanistico” sicché, per tale
motivo, “è solo nell’ipotesi di <<ristrutturazione ricostruttiva>>
(come definita dalla Giurisprudenza) che gli
oneri di urbanizzazione potrebbero al più ritenersi non dovuti, non anche
quando, in ossequio alla
prescrizione normativa, l’intervento risulti caratterizzato da una
<<trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio>>”.
Il Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato al riguardo che “in caso di
intervento di ristrutturazione
edilizia, dal contributo per gli oneri di urbanizzazione deve essere
sottratto l'importo imputabile al
carico urbanistico generato dall'edificio preesistente e, laddove la
costruzione originaria sia stata
realizzata in un periodo antecedente (all’introduzione dell')…istituto del
contributo concessorio, il
relativo onere deve ritenersi assolto virtualmente, visto che, in caso
contrario, verrebbe data
un'inammissibile applicazione retroattiva alla sopravvenuta disciplina impositiva”.
---------------
Con il ricorso in epigrafe il [omissis] ha chiesto al Tribunale di
“accertare il (suo) diritto … all’esenzione dal pagamento degli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria relativi all’intervento di demolizione
e ricostruzione del fabbricato condominiale e… condannare il Comune di Roma
… al rimborso della somma di € 78.518,68 corrisposta… per tale causale,
oltre rivalutazione monetaria ed interessi come per legge”.
...
Con il ricorso in epigrafe il [omissis] ha dedotto:
- a) di aver presentato in
data 31.07.2003 denuncia di
inizio attività dei lavori di demolizione e ricostruzione dell’edificio
condominiale, divenuto del tutto
inagibile a causa di un precario equilibrio strutturale;
- b) di essersi vista
richiedere da Roma Capitale
per tale intervento il pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria;
- c) di aver
provveduto “al solo fine di impedire l’interruzione del procedimento
instaurato con il deposito della
DIA” all’elaborazione di una perizia asseverata estimativa per la
determinazione dei suddetti oneri
ed al versamento, “in via cautelativa”, delle relative somme, in data
29.09.2004;
- d) di aver posto in
essere un semplice intervento di recupero edilizio, che si sostanziava nella
demolizione e fedele
ricostruzione dell’originario edificio quanto a sagoma e volumetria e, in
quanto tale, avrebbe dovuto
essere considerato esente da qualsiasi onere contributivo;
- e) di aver
reclamato invano il rimborso
degli oneri versati senza ricevere alcuna risposta dall’Amministrazione
Comunale.
Alla luce di tali circostanze il [omissis] ha, quindi, chiesto al Tribunale
di accertare il suo diritto
all’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria e di condannare
Roma Capitale alla rifusione della somma di € 78.518,68 già corrisposta,
lamentando la violazione
da parte dell’Amministrazione del DPR n. 380/2001 ed eccesso di potere per
travisamento dei fatti,
difetto di istruttoria ed omessa motivazione circa le ragioni alla base
della affermata debenza degli
oneri.
Tali censure sono fondate e meritevoli di accoglimento.
Nel caso di specie, l'intervento edilizio, attuato tramite DIA non ha
comportato un aumento del carico
urbanistico, in quanto ha previsto la demolizione di un fabbricato divenuto
ormai pericolante e la sua
successiva riedificazione con pari volumetria, stessa sagoma e medesimi
prospetti.
L'edificio risultante dalla ristrutturazione ha conservato, dunque, la
stessa volumetria, le medesime
caratteristiche e la stessa destinazione d'uso dell'edificio precedente, non
determinando alcuna
modifica dei parametri e del carico urbanistico.
Se, perciò, il contributo per oneri di urbanizzazione costituisce un
corrispettivo di diritto pubblico
previsto dal legislatore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione, ovvero un
contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese
che l'Amministrazione
pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell'edificio e del
connesso utilizzo, da parte
dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti, la sua
debenza, come ricordato anche da
Roma Capitale nelle sue difese, non dipende tanto, ai sensi degli artt. 16 e
22 del DPR n. 380/2001,
dalla tipologia del titolo abilitativo richiesto (permesso di costruire o
DIA, oggi SCIA) per la
realizzazione delle opere, quanto, piuttosto, dalla natura e dagli effetti
dell’intervento edilizio posto
in essere. Di aumento o meno, appunto, del carico antropico.
Come evidenziato anche da questo Tribunale (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II-quater,
06.11.2018 n.
10729) “il criterio discretivo tra l’intervento di demolizione e
ricostruzione e la nuova costruzione è
costituito, nel primo caso, dall’assenza di variazioni di volume
dell’altezza e della sagoma
dell’edificio per cui, in assenza di tali indefettibili e precise
condizioni, si deve parlare di intervento
equiparabile a nuova costruzione, da assoggettarsi alle regole proprie della
corrispondente attività
edilizia. Detti criteri vanno osservati con particolare rigore, specie a
seguito dell'ampliamento della
categoria della demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301/2002,
dato che, proprio perché
non vi è più il limite della fedele ricostruzione, si richiede la
conservazione delle caratteristiche
fondamentali dell'edificio preesistente nel senso che debbono essere
presenti gli elementi
fondamentali, in particolare per i volumi per cui la ristrutturazione
edilizia, per essere tale e non finire
per coincidere con la nuova costruzione, deve conservare le caratteristiche
fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione
dell'edificio deve riprodurre le precedenti linee
fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi”.
La stessa Amministrazione Comunale ha, poi, riconosciuto che “il presupposto
dell’onerosità della
trasformazione edilizia … è costituito dal maggior carico urbanistico
determinato dall’intervento, per
cui l’Ente locale deve richiedere il pagamento degli oneri se il peso
insediativo aumenta, mentre non
deve chiedere alcunché se non si verifica alcuna variazione del carico
urbanistico” e che, per tale
motivo, “è solo nell’ipotesi di <<ristrutturazione ricostruttiva>> (come
definita dalla Giurisprudenza:
Cons. Stato Sez. IV, 07.04.2015 n. 1763; 09.05.2014 n. 2384; 06.07.2012 n. 3970) che gli
oneri di urbanizzazione potrebbero al più ritenersi non dovuti, non anche
quando, in ossequio alla
prescrizione normativa, l’intervento risulti caratterizzato da una
<<trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio>>”.
Dagli atti di causa l’intervento posto in essere dal [omissis] ricorrente
risulta appartenere proprio al genus della “ristrutturazione ricostruttiva”, constando nella demolizione e
nella fedele ricostruzione
di un fabbricato degli anni ’50 che, divenuto ormai pericolante, non
risultava altrimenti recuperabile.
Né l’Amministrazione Comunale, nell’esigere dal ricorrente il pagamento
degli oneri di
urbanizzazione nel corso del procedimento o nell’ambito del presente
giudizio, dinanzi alle precise
doglianze del ricorrente, ha motivato in alcun modo la sua pretesa,
esponendo le ragioni per cui il
carico urbanistico e, dunque, il peso antropico dell’edificio ricostruito
avrebbe dovuto essere
considerato comunque aumentato rispetto a quello del fabbricato precedente,
così da rendere
necessaria un’integrazione di quanto eventualmente già versato.
Il Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato al riguardo che “in caso di
intervento di ristrutturazione
edilizia, dal contributo per gli oneri di urbanizzazione deve essere
sottratto l'importo imputabile al
carico urbanistico generato dall'edificio preesistente e, laddove la
costruzione originaria sia stata
realizzata in un periodo antecedente (all’introduzione dell')…istituto del
contributo concessorio, il
relativo onere deve ritenersi assolto virtualmente, visto che, in caso
contrario, verrebbe data
un'inammissibile applicazione retroattiva alla sopravvenuta disciplina impositiva” (cfr. Cons. St.,
Sez. VI; 02.07.2015 n. 3298).
In conclusione, il ricorso deve essere, perciò, accolto, con l’accertamento
della non debenza da parte
del [omissis] ricorrente, per l’intervento di demolizione e ricostruzione
dell’edificio condominiale
con medesima sagoma, altezza, volumetria e destinazione del precedente,
degli oneri di
urbanizzazione e condanna di Roma Capitale alla restituzione delle relative
somme versate da
[omissis] a tale titolo, oltre interessi legali dalla notifica del ricorso.
Trattandosi di un debito di valuta per la restituzione di somme
indebitamente versate, deve essere,
infine, respinta la richiesta di corresponsione della rivalutazione
monetaria
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 12.09.2019 n. 10887 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
demolizione/ricostruzione di un fabbricato, addirittura con diminuzione del
volume (nel caso di specie), non deve scontare il pagamento degli oneri di
urbanizzazione poiché non sussiste un incremento del carico urbanistico.
La controversia investe la questione circa la ricorrenza
dei presupposti per l’applicazione degli oneri di urbanizzazione previsti
dall’articolo 16 del dpr 380/2001. Prevede tale disposizione che: “il
rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al
costo di costruzione”.
Invero, mentre il costo di costruzione rappresenta una compartecipazione
comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare, gli oneri di
urbanizzazione svolgono la funzione di compensare la collettività per il
nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della
consentita attività edificatoria. Essi sono pertanto dovuti nel caso di
trasformazioni edilizie che, indipendentemente dall’esecuzione di opere, si
rivelino produttive di vantaggi economici per il proprietario, determinando
un aumento del carico urbanistico. Tale incremento può derivare anche da una
mera modifica della destinazione d’uso di un immobile, mentre può non
configurarsi nell’ipotesi di intervento edilizio con opere.
Secondo consolidata e risalente giurisprudenza il fondamento del contributo
di urbanizzazione pertanto “non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella
necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione,
facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla
presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità con la
conseguenza che, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso,
cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto
che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di
urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più
elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa”.
Pertanto “la partecipazione del privato al costo delle opere di
urbanizzazione è dovuta allorquando l'intervento determini un incremento del
peso insediativo con un'oggettiva rivalutazione dell'immobile, sicché
l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico
socio-economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico”.
---------------
Nel caso di specie non può dirsi realizzato un aumento del carico
urbanistico, atteso che gli esponenti hanno trasformato l’edificio
bifamiliare in unifamiliare, riducendone anche la S.L.P. Non ricorre
pertanto il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento degli
oneri di urbanizzazione.
Ne consegue la fondatezza del ricorso, che deve essere accolto, con la
condanna dell’amministrazione comunale resistente alla restituzione degli
oneri di urbanizzazione indebitamente percepiti, pari ad euro 11.446,81,
oltre agli interessi maturati dalla data di notificazione dell'atto
introduttivo del presente giudizio.
Dispone infatti l’articolo 2033 cod. civ. che “chi ha eseguito un pagamento
non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai
frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era
in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della
domanda”. In assenza di prova contraria deve infatti presumersi la buona
fede dell’amministrazione comunale. Non è, invece, dovuta la rivalutazione
monetaria.
---------------
FATTO
1. I signori An.Ma.So. e Da.Vi., proprietari di un fabbricato sito nel
Comune di Cremona, con ricorso depositato in data 22.05.2014 hanno chiesto
l’accertamento della non debenza, e quindi la restituzione, degli oneri di
urbanizzazione imposti dall’amministrazione per l’intervento di
ristrutturazione del loro immobile. Nel corso del giudizio, deceduto il
signor Vi., si sono costituiti in giudizio gli eredi, indicati in epigrafe.
2. Espongono i ricorrenti che l’edificio era originariamente disposto su tre
piani ed aveva utilizzo bifamiliare e che, in ragione del suo stato di
vetustà, lo avevano demolito e ricostruito, trasformandolo in un’unica unità
immobiliare con autorimessa accessoria. La Superficie Lorda di Pavimento (S.L.P.)
era stata ridotta con l’intervento da 180,40 mq a 153,06 mq.
3. L’amministrazione comunale, dopo la richiesta di verifica della non
onerosità della DIA formulata dal tecnico dei proprietari, ha comunicato di
ritenere l’intervento soggetto al contributo concessorio ai sensi
dell’articolo 16 del d.P.R. 380/2001 (Testo unico dell’edilizia) per essere
l’abitazione di carattere bifamiliare.
4. L’importo da versare è stato quantificato in complessivi 19.940,42 euro,
di cui 1.956,72 euro per oneri di urbanizzazione primaria, 9.490,09 per
oneri di urbanizzazione secondaria e 8.493,61 quale costo di costruzione.
5. Con il gravame proposto i ricorrenti censurano la pretesa del comune per
“violazione o falsa applicazione dell’art. 16 del d.P.R. 06.06.2001, n.
380. Eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e diritto e
difetto di motivazione”. Denunciano che il contributo per oneri di
urbanizzazione è previsto solo per interventi edilizi che determinano un
aumento del carico urbanistico dell’area in cui è localizzato e che nel caso
di specie detto aumento non si è realizzato, atteso che essi hanno
trasformato un’abitazione bifamiliare in unifamiliare e ne hanno ridotto la
S.L.P.
6. A tale argomento il Comune, costituitosi in giudizio, contrappone il
richiamo al tenore letterale dell’articolo 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. 380/2001, che prevede l’esenzione dal contributo di costruzione “per
gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20%, di edifici unifamiliari”, evidenziando che il requisito della
unifamiliarità dell’edificio deve sussistere sia prima che dopo l’intervento
edilizio.
...
DIRITTO
1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
2. Il comune resistente deduce che l’esonero previsto dall’articolo 17 del
d.P.R. 380/2001 per l’ampliamento di edifici unifamiliari non troverebbe
applicazione al caso di specie, perché l’intervento edilizio di cui è
questione è stato effettuato su un edificio originariamente bifamiliare;
l’amministrazione sottolinea la natura eccezionale delle esenzioni dal
contributo e richiama un precedente conforme pronunciamento di questo
Tribunale.
3. L’argomento non coglie nel segno.
4. La controversia non verte sulla verifica della ricorrenza delle
condizioni poste dal richiamato articolo 17 del Testo unico ai fini
dell’esonero dal contributo di costruzione, ma investe una questione
logicamente antecedente, ovvero la ricorrenza dei presupposti per
l’applicazione degli oneri di urbanizzazione previsti dall’articolo 16 del
medesimo testo normativo.
5. Prevede tale disposizione che: “il rilascio del permesso di costruire
comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli
oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
6. Mentre il costo di costruzione rappresenta una compartecipazione comunale
all’incremento di valore della proprietà immobiliare, gli oneri di
urbanizzazione svolgono la funzione di compensare la collettività per il
nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della
consentita attività edificatoria (TAR Piemonte, sez. I, 21.05.2018, n. 630).
Essi sono pertanto dovuti nel caso di trasformazioni edilizie che,
indipendentemente dall’esecuzione di opere, si rivelino produttive di
vantaggi economici per il proprietario, determinando un aumento del carico
urbanistico. Tale incremento può derivare anche da una mera modifica della
destinazione d’uso di un immobile, mentre può non configurarsi nell’ipotesi
di intervento edilizio con opere.
7. Secondo consolidata e risalente giurisprudenza il fondamento del
contributo di urbanizzazione pertanto “non consiste nel titolo edilizio
in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di
urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità
derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la
comunità con la conseguenza che, anche nel caso di modificazione della
destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è
integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della
differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione
originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione
impressa” (Cons. Stato, Sez. V, 30.08.2013, n. 4326; id. ex multis
TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 04.05.2009, n. 3604; Cons. Stato, Sez. V,
21.12.1994, n. 1563).
Pertanto “la partecipazione del privato al costo delle opere di
urbanizzazione è dovuta allorquando l'intervento determini un incremento del
peso insediativo con un'oggettiva rivalutazione dell'immobile, sicché
l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico
socio economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico”
(TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 26.04.2018, n. 449).
8. Nel caso di specie non può dirsi realizzato un aumento del carico
urbanistico, atteso che gli esponenti hanno trasformato l’edificio
bifamiliare in unifamiliare, riducendone anche la S.L.P. Non ricorre
pertanto il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento degli
oneri di urbanizzazione.
9. Ne consegue la fondatezza del ricorso, che deve essere accolto, con la
condanna dell’amministrazione comunale resistente alla restituzione degli
oneri di urbanizzazione indebitamente percepiti, pari ad euro 11.446,81,
oltre agli interessi maturati dalla data di notificazione dell'atto
introduttivo del presente giudizio.
Dispone infatti l’articolo 2033 cod. civ. che “chi ha eseguito un
pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre
diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha
ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno
della domanda”. In assenza di prova contraria deve infatti presumersi la
buona fede dell’amministrazione comunale. Non è, invece, dovuta la
rivalutazione monetaria (conformi: TAR Lombardia, Brescia, Sez. I,
20.05.2019, n. 499 e le pronunce ivi richiamate; TAR Lombardia, Brescia,
Sez. II, 02.05.2019, n. 426)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 17.06.2019 n. 574 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui il
pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui
l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico.
---------------
5. Il quarto motivo, fondato sull’erronea qualificazione
dell’intervento quale modificazione della destinazione d’uso invece che come
nuova costruzione, è infondato in quanto da esso non possono derivarsi
conseguenze ai fini della sottrazione all’individuazione e quantificazione
degli standard edilizi. Lo stesso vale per la discussione relativa alla
destinazione commerciale o industriale del precedente manufatto. Infatti è
consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui il pagamento degli
oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia
determinato un aumento del carico urbanistico (TAR Piemonte, sez. I,
26.11.2003 n. 1675 e, da ultimo, TAR Piemonte, sez. II, 16.09.2013 n. 1009;
Cons. Stato, sez. IV, 29.04.2004, n. 2611).
Nel caso di specie la sostituzione edilizia di un edificio di due piani
fuori terra, destinato a parcheggio privato a pagamento e residenza, con due
nuovi edifici di 7 e 5 piani fuori terra, interamente destinati a residenza,
ha sicuramente comportato un aumento del carico urbanistico. A ciò si
aggiunge che, se occorre verificare in concreto l’aumento del carico
urbanistico nel caso di trasformazione dell’esistente, deve ritenersi che la
nuova costruzione comporti sempre un aumento del carico urbanistico. Il
riferimento nell’atto impugnato al mutamento d’uso è quindi riferibile al
carico urbanistico e non al titolo in base al quale è stato effettuato
l’intervento.
Il motivo va quindi respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.10.2018 n. 2198 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sussiste
l'obbligo di corrispondere il contributo di costruzione per la ricostruzione
di una porzione di fabbricato crollata a seguito di un incendio.
Il
permesso di costruire è provvedimento naturalmente oneroso di modo che le norme di esenzione devono essere interpretate come “eccezioni”
ad una regola generale (e da considerarsi, quindi, di stretta
interpretazione), non essendo consentito alla stessa potestà legislativa
concorrente di ampliare le ipotesi al di là delle indicazioni della
legislazione statale, da ritenersi quali principi fondamentali in tema di
governo del territorio.
---------------
L’art. 17, co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001 prevede la esenzione dal
contributo di costruzione “per gli interventi da realizzare in attuazione
di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità”.
Si tratta di due distinte ipotesi, ambedue sorrette dal presupposto della “pubblica
calamità”.
Quest’ultima deve essere intesa come un evento imprevisto e
dannoso che, per caratteristiche, estensione, potenzialità offensiva sia
tale da colpire e/o mettere in pericolo non solo una o più persone o beni
determinati, bensì una intera ed indistinta collettività di persone ed una
pluralità non definibile di beni, pubblici o privati.
Ciò che caratterizza, dunque, il carattere “pubblico” della calamità
e la differenzia da altri eventi dannosi, pur gravi, è la riferibilità
dell’evento (in termini di danno e di pericolo) a una comunità, ovvero ad
una pluralità non definibile di persone e cose, laddove, negli altri casi,
l’evento colpisce (ed è dunque circoscritto) a singoli, specifici soggetti o
beni e, come tale, è affrontabile con ordinarie misure di intervento.
Se, dunque, l’evento deve caratterizzarsi
per straordinarietà, imprevedibilità e una portata tale da essere “anche
solo potenzialmente pericoloso per la collettività”, ciò non è,
tuttavia, sufficiente a qualificarlo quale “calamità pubblica”, posto
che deve comunque trattarsi di un evento non afferente a beni determinati e
non affrontabile e risolvibile con ordinari strumenti di intervento, sia sul
piano concreto che su quello degli atti amministrativi.
In senso riconducibile al concetto ora espresso, gli artt. 2, co. 1, lett.
c) e 5 l. 24.02.1992 n. 225, prevedono il conferimento di poteri
straordinari di ordinanza per il caso di “calamità naturali” (e, come
tali, “pubbliche”), e l’art. 54 DPR 08.08.2000 n. 267, conferisce al
Sindaco, quale Ufficiale di Governo, il potere (delegabile nei limiti
previsti dal medesimo articolo) di emanare ordinanze contingibili ed urgenti
“al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano
l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”; potere di ordinanza che va
tenuto distinto da quello, di carattere “ordinario” e riferito al
Sindaco quale rappresentante della comunità locale, previsto dall’art. 50
del medesimo Testo Unico degli Enti locali.
In conclusione, perché possa ricorrere l’ipotesi di esenzione di cui
all’art. 17 cit., occorre che gli interventi da realizzare costituiscano
attuazione di norme o di provvedimenti amministrativi che espressamente li
prevedono (e non siano invece effetto di una scelta volontaria del soggetto,
sia pure in conseguenza di provvedimenti emanati), e che siano stati
adottati a seguito di eventi eccezionali, dannosi o pericolosi per la
collettività, tali da richiedere l’esercizio di poteri straordinari.
Nel caso di specie, l’incendio che ha colpito l’immobile della società
ricorrente, se pur grave e tale da poter divenire fonte di pericolo per la
collettività, ove non tempestivamente circoscritto, tuttavia si caratterizza
quale evento che ha colpito beni specifici e che, per dimensioni,
caratteristiche ed intensità, è stato tale da non richiedere particolari
interventi di contrasto o esercizio di poteri straordinari.
Ne consegue, quindi, la inapplicabilità dell’esenzione di cui all’art. 17,
co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001.
---------------
... per la riforma della
sentenza
25.05.2016 n. 1079 del TAR LOMBARDIA-MILANO, SEZ. II, resa tra le parti, concernente quantificazione contributo di
costruzione a fronte del rilascio del permesso di costruire.
...
1. Con l’appello in esame, la società Nu.Gu. e Ra. s.r.l. impugna la
sentenza 25.05.2016 n. 1079, con la quale il TAR per la Lombardia, sez. II,
ha respinto il suo ricorso avverso il provvedimento del Responsabile del
Settore governo del territorio del Comune di Monza 11.04.2015, nella parte
in cui con tale provvedimento, oltre a rilasciare il richiesto permesso di
costruire, è stato richiesto il versamento del contributo di costruzione per
un importo di Euro 257.377,54.
La società espone di essere proprietaria di un immobile a destinazione
produttiva, realizzato sulla base di concessione edilizia del 1985 e di aver
dovuto richiedere nuovo titolo edilizio, al fine di ricostruire una porzione
del fabbricato, crollata a seguito di un incendio; tanto anche per
ottemperare ad una ordinanza emessa in data 24.09.2012 dal Comune di Monza,
di ripristino delle condizioni minime di sicurezza delle unità interessate
dall’incendio.
La presente controversia concerne, in sostanza, la sussistenza dell’obbligo
di corrispondere il richiesto contributo di costruzione, in occasione di
interventi edilizi effettuati nelle circostanze come innanzi descritte.
La sentenza impugnata afferma, in particolare:
- non ricorre il motivo di esenzione dal pagamento del contributo
di costruzione, di cui all’art. 17, co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001, poiché
il caso verificatosi non può essere annoverato tra le “pubbliche calamità”,
poiché si “è trattato di un episodio grave e dannoso per l’impresa, ma
non certo catastrofico, le cui conseguenze nocive sono risultate arginabili
mediante l’attuazione di normali operazioni di messa in sicurezza, né tanto
meno risultano essere stati adottati piani di emergenza o di evacuazione dei
residenti, a conferma del fatto che non è stata messa ad immediato
repentaglio ... la pubblica incolumità”;
- nel caso di specie, ricorre un’ipotesi di ristrutturazione
edilizia, intervento per il quale la delibera 03.11.2008 n. 43 della Giunta
Comunale di Monza ha previsto che “per gli interventi di ristrutturazione
comportanti demolizione e ricostruzione si applichino gli oneri di
urbanizzazione relativi alle nuove costruzioni”.
...
4. Nel merito, il Collegio ritiene opportuno rilevare –anche al fine di
meglio circoscrivere le ragioni per le quali l’appello deve essere accolto-
che sia il motivo con il quale si censura la sentenza impugnata per non aver
considerato applicabili, nel caso di specie, gli artt. 16, co. 1, e 17, co.
3, DPR n. 380/2001, recante quest’ultimo (lett. d) l’esenzione per la
ricostruzione a seguito di “pubbliche calamità” (motivo sub lett. a)
dell’esposizione in fatto), sia il motivo con il quale si censura la
sentenza per non aver ricondotto le opere alla manutenzione straordinaria,
anziché alla ristrutturazione edilizia (sub lett. b1) dell’esposizione in
fatto), sono infondati e devono essere, pertanto, respinti.
4.1. Quanto al primo, occorre premettere che il permesso di costruire è
provvedimento naturalmente oneroso (da ultimo, Corte Cost., 03.11.2016 n.
231), di modo che le norme di esenzione devono essere interpretate come “eccezioni”
ad una regola generale (e da considerarsi, quindi, di stretta
interpretazione), non essendo consentito alla stessa potestà legislativa
concorrente di ampliare le ipotesi al di là delle indicazioni della
legislazione statale, da ritenersi quali principi fondamentali in tema di
governo del territorio (Corte Cost., n. 231/2016 cit.).
L’art. 17, co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001 prevede la esenzione dal
contributo di costruzione “per gli interventi da realizzare in attuazione
di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità”.
Si tratta di due distinte ipotesi, ambedue sorrette dal presupposto della “pubblica
calamità”. Quest’ultima deve essere intesa come un evento imprevisto e
dannoso che, per caratteristiche, estensione, potenzialità offensiva sia
tale da colpire e/o mettere in pericolo non solo una o più persone o beni
determinati, bensì una intera ed indistinta collettività di persone ed una
pluralità non definibile di beni, pubblici o privati.
Ciò che caratterizza, dunque, il carattere “pubblico” della calamità
e la differenzia da altri eventi dannosi, pur gravi, è la riferibilità
dell’evento (in termini di danno e di pericolo) a una comunità, ovvero ad
una pluralità non definibile di persone e cose, laddove, negli altri casi,
l’evento colpisce (ed è dunque circoscritto) a singoli, specifici soggetti o
beni e, come tale, è affrontabile con ordinarie misure di intervento.
Se, dunque –come sostenuto dall’appellante– l’evento deve caratterizzarsi
per straordinarietà, imprevedibilità e una portata tale da essere “anche
solo potenzialmente pericoloso per la collettività”, ciò non è,
tuttavia, sufficiente a qualificarlo quale “calamità pubblica”, posto
che deve comunque trattarsi di un evento non afferente a beni determinati e
non affrontabile e risolvibile con ordinari strumenti di intervento, sia sul
piano concreto che su quello degli atti amministrativi.
In senso riconducibile al concetto ora espresso, gli artt. 2, co. 1, lett.
c) e 5 l. 24.02.1992 n. 225, prevedono il conferimento di poteri
straordinari di ordinanza per il caso di “calamità naturali” (e, come
tali, “pubbliche”), e l’art. 54 DPR 08.08.2000 n. 267, conferisce al
Sindaco, quale Ufficiale di Governo, il potere (delegabile nei limiti
previsti dal medesimo articolo) di emanare ordinanze contingibili ed urgenti
“al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano
l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”; potere di ordinanza che va
tenuto distinto da quello, di carattere “ordinario” e riferito al
Sindaco quale rappresentante della comunità locale, previsto dall’art. 50
del medesimo Testo Unico degli Enti locali.
In conclusione, perché possa ricorrere l’ipotesi di esenzione di cui
all’art. 17 cit., occorre che gli interventi da realizzare costituiscano
attuazione di norme o di provvedimenti amministrativi che espressamente li
prevedono (e non siano invece effetto di una scelta volontaria del soggetto,
sia pure in conseguenza di provvedimenti emanati), e che siano stati
adottati a seguito di eventi eccezionali, dannosi o pericolosi per la
collettività, tali da richiedere l’esercizio di poteri straordinari.
Nel caso di specie, l’incendio che ha colpito l’immobile della società
ricorrente, se pur grave e tale da poter divenire fonte di pericolo per la
collettività, ove non tempestivamente circoscritto, tuttavia si caratterizza
quale evento che ha colpito beni specifici e che, per dimensioni,
caratteristiche ed intensità, è stato tale da non richiedere particolari
interventi di contrasto o esercizio di poteri straordinari.
Ne consegue, quindi, la inapplicabilità dell’esenzione di cui all’art. 17,
co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.05.2017 n. 2567 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 16 DPR n. 380/2001 prevede che, salvi i casi di esenzione
di cui all’art. 17, co. 3, “il
rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al
costo di costruzione”.
Come appare evidente, la norma collega il pagamento del contributo di
costruzione al rilascio del permesso di costruire; in altre parole, è per
quelle opere per la cui realizzazione la legge prevede tale titolo
autorizzatorio che il contributo di costruzione è dovuto.
Il precedente art. 10 prevede che il permesso di costruire è necessario per
gli “interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”,
espressamente indicando, tra questi, (comma 1) gli interventi di nuova
costruzione (lett. a), gli interventi di ristrutturazione urbanistica (lett.
b), e gli interventi di ristrutturazione edilizia (lett. c).
Il comma 2 prevede, inoltre, che le Regioni possono stabilire con legge “quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di
immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a
denuncia di inizio attività”.
In sostanza, il legislatore statale collega la necessità di permesso di
costruire a fenomeni di “trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio” e, in primo luogo, qualifica tali la nuova costruzione, la
ristrutturazione urbanistica e la ristrutturazione edilizia; in secondo
luogo, demanda alle Regioni di individuare quali interventi (diversi da
quelli precedentemente indicati) comportanti trasformazione urbanistica (ma
non necessariamente edilizia), richiedano il permesso di costruire in
ragione della loro natura ed incidenza, in particolare, sul carico
urbanistico.
In ambedue le ipotesi innanzi considerate, appare evidente come il permesso
di costruire si colleghi sempre ad interventi che incidono sul territorio,
trasformandolo sul piano urbanistico–edilizio, o anche su uno solo dei due.
---------------
Più in particolare, per il caso di ristrutturazione edilizia, l’art.
10, co. 1, lett. c) –nel testo vigente al momento del rilascio del titolo
edilizio- prevede la necessità del permesso di costruire non già per tutti i
casi di ristrutturazione edilizia, bensì, più precisamente, per quelli che “portino
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei
prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli
interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti
a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 e successive
modificazioni”.
Al contempo, l’art. 3, co. 1, lett. d), del DPR n. 380/2001 “gli
interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o
in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o
la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi
anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni
necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti
al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o
demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne
la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili
sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e
successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e
gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono
interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la
medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di chiarire, con considerazioni
che qui si intendono completamente riportate, come, pur nella
successione di modifiche interessanti le norme in tema di ristrutturazione
edilizia, quest’ultima tipologia di intervento edilizio ricomprenda, nel
proprio ambito generale, tipologie differenti, solo per alcune delle quali
il legislatore prevede la necessità del permesso di costruire; da un lato,
dunque, vi è la generale definizione di ristrutturazione edilizia (art. 3, co. 1, lett. d);
dall’altro, le specifiche “species” del genus ristrutturazione edilizia per le quali occorre il permesso di costruire
(art. 10, co. 1, lett. c).
Si è, in particolare, affermato:
“Per effetto della modifica introdotta dall'art. 30, comma 1, lett. a),
D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito dalla L. 09.08.2013, n. 98, ... vi sono
ora tre distinte ipotesi di intervento rientranti nella
definizione di “ristrutturazione edilizia”, che possono portare
“ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”:
- la prima, non comportante demolizione del preesistente
fabbricato e comprendente (dunque, in via non esaustiva) “il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”;
- la seconda, caratterizzata da demolizione e ricostruzione,
per la quale è richiesta “la stessa volumetria di quello preesistente, fatte
salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica” (ed in questo caso, rispetto al testo previgente, non è più
richiesta l’identità di sagoma);
- la terza, rappresentata dagli interventi “volti al
ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti,
attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza”".
Inoltre, qualora la seconda e la terza delle ipotesi innanzi indicate
riguardino immobili sottoposti a vincoli di cui al d.lgs. n. 42/2004, potrà
parlarsi di ristrutturazione edilizia solo in presenza, nell’immobile
ricostruito, della identità di sagoma dell’edificio preesistente.
---------------
In definitiva, non tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia
necessitano del rilascio del permesso di costruire, ma solo quelli
specificamente indicati dall’art. 10, co. 1, lett. c) e, per quel che
interessa nella presente sede, quelli che “portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino
modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti”,
posto che le ulteriori due ipotesi contemplate dalla norma (mutamenti di
destinazione d’uso di immobili in zona A, interventi che modificano la
sagoma di immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.Lgs. n. 42/2004), non
interessano il caso di specie.
Occorre, dunque, perché sia necessario il rilascio del permesso di costruire
una modifica (parziale o totale) dell’organismo edilizio preesistente ed un
aumento della volumetria complessiva; solo in questi casi, d’altra parte,
l’intervento si caratterizza (in ossequio alla prescrizione normativa) come
“trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”.
Nelle ipotesi, invece, di “ristrutturazione ricostruttiva”, a maggior ragione se con invarianza,
oltre che di volume, anche di sagoma e di area di sedime, non vi è necessità
di permesso di costruire e, dunque, ai sensi dell’art. 16 DPR n. 380/2001,
manca il presupposto per la richiesta e corresponsione del contributo di
costruzione.
---------------
Alla luce delle considerazioni esposte, l’appello è fondato poiché, in presenza di interventi che non comportano “trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio”, nei sensi e limiti
normativamente considerati ed innanzi esposti, non è dovuto il contributo di
cui all’art. 16, co. 1, DPR n. 380/2001.
---------------
... per la riforma della
sentenza
25.05.2016 n. 1079 del TAR LOMBARDIA-MILANO, SEZ. II, resa tra le parti, concernente quantificazione contributo di
costruzione a fronte del rilascio del permesso di costruire.
...
1. Con l’appello in esame, la società Nu.Gu. e Ra. s.r.l. impugna la
sentenza 25.05.2016 n. 1079, con la quale il TAR per la Lombardia, sez. II,
ha respinto il suo ricorso avverso il provvedimento del Responsabile del
Settore governo del territorio del Comune di Monza 11.04.2015, nella parte
in cui con tale provvedimento, oltre a rilasciare il richiesto permesso di
costruire, è stato richiesto il versamento del contributo di costruzione per
un importo di Euro 257.377,54.
La società espone di essere proprietaria di un immobile a destinazione
produttiva, realizzato sulla base di concessione edilizia del 1985 e di aver
dovuto richiedere nuovo titolo edilizio, al fine di ricostruire una porzione
del fabbricato, crollata a seguito di un incendio; tanto anche per
ottemperare ad una ordinanza emessa in data 24.09.2012 dal Comune di Monza,
di ripristino delle condizioni minime di sicurezza delle unità interessate
dall’incendio.
La presente controversia concerne, in sostanza, la sussistenza dell’obbligo
di corrispondere il richiesto contributo di costruzione, in occasione di
interventi edilizi effettuati nelle circostanze come innanzi descritte.
La sentenza impugnata afferma, in particolare:
- non ricorre il motivo di esenzione dal pagamento del contributo
di costruzione, di cui all’art. 17, co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001, poiché
il caso verificatosi non può essere annoverato tra le “pubbliche calamità”,
poiché si “è trattato di un episodio grave e dannoso per l’impresa, ma
non certo catastrofico, le cui conseguenze nocive sono risultate arginabili
mediante l’attuazione di normali operazioni di messa in sicurezza, né tanto
meno risultano essere stati adottati piani di emergenza o di evacuazione dei
residenti, a conferma del fatto che non è stata messa ad immediato
repentaglio ... la pubblica incolumità”;
- nel caso di specie, ricorre un’ipotesi di ristrutturazione
edilizia, intervento per il quale la delibera 03.11.2008 n. 43 della Giunta
Comunale di Monza ha previsto che “per gli interventi di ristrutturazione
comportanti demolizione e ricostruzione si applichino gli oneri di
urbanizzazione relativi alle nuove costruzioni”.
...
5. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, con riferimento al
primo profilo del secondo motivo ed al terzo motivo di
ricorso (rispettivamente sub lett. b1) e c) dell’esposizione in fatto), per
le ragioni e nei limiti di seguito esposti.
Con il primo motivo ora indicato, la società appellante lamenta che “il
permesso di costruire è stato richiesto per ripristinare quella parte di
fabbricato distrutto dall’incendio accidentalmente occorso; le opere da
realizzare non hanno alcuna incidenza sul territorio, sia sotto il profilo
della trasformazione dell’area oggetto di intervento sia in termini di
aggravio del carico urbanistico della zona” ed inoltre a suo tempo la
società ha già corrisposto gli oneri dovuti per realizzare quella parte del
fabbricato ora da ricostruire a seguito di incendio.
Con il terzo motivo di appello, la società appellante lamenta, in
sostanza, il difetto di motivazione in ordine alle ragioni di fatto e di
diritto che hanno indotto l’amministrazione a determinare il contenuto
dell’atto oggetto di censura, non considerando la “peculiarità della
fattispecie”.
Giova osservare, in punto di fatto, che è pacifico tra le parti che
l’intervento per il quale la società ricorrente ha richiesto il permesso di
costruire non comporta modifica della sagoma, della superficie esistente ed
autorizzata, dei volumi e della destinazione d’uso (v. pagg. 11-12 app.;
pag. 13 memoria Comune di Monza del 11.01.2017).
Inoltre, il permesso di costruire n. 91 del Comune di Monza, oggetto di
(parziale) impugnazione, è stato emesso il 13.01.2015, ed è, dunque, a tale
data che occorre fare riferimento onde individuare la normativa
urbanistico-edilizia concretamente applicabile.
5.1. Tanto precisato, occorre osservare che l’art. 16 DPR n. 380/2001
prevede che, salvi i casi di esenzione di cui all’art. 17, co. 3, “il
rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al
costo di costruzione”.
Come appare evidente, la norma collega il pagamento del contributo di
costruzione al rilascio del permesso di costruire; in altre parole, è per
quelle opere per la cui realizzazione la legge prevede tale titolo
autorizzatorio che il contributo di costruzione è dovuto.
Il precedente art. 10 prevede che il permesso di costruire è necessario per
gli “interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”,
espressamente indicando, tra questi, (comma 1) gli interventi di nuova
costruzione (lett. a), gli interventi di ristrutturazione urbanistica (lett.
b), e gli interventi di ristrutturazione edilizia (lett. c).
Il comma 2 prevede, inoltre, che le Regioni possono stabilire con legge “quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di
immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a
denuncia di inizio attività”.
In sostanza, il legislatore statale collega la necessità di permesso di
costruire a fenomeni di “trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio” e, in primo luogo, qualifica tali la nuova costruzione, la
ristrutturazione urbanistica e la ristrutturazione edilizia; in secondo
luogo, demanda alle Regioni di individuare quali interventi (diversi da
quelli precedentemente indicati) comportanti trasformazione urbanistica (ma
non necessariamente edilizia), richiedano il permesso di costruire in
ragione della loro natura ed incidenza, in particolare, sul carico
urbanistico.
In ambedue le ipotesi innanzi considerate, appare evidente come il permesso
di costruire si colleghi sempre ad interventi che incidono sul territorio,
trasformandolo sul piano urbanistico–edilizio, o anche su uno solo dei due.
5.2. Più in particolare, per il caso di ristrutturazione edilizia, l’art.
10, co. 1, lett. c) –nel testo vigente al momento del rilascio del titolo
edilizio- prevede la necessità del permesso di costruire non già per tutti i
casi di ristrutturazione edilizia, bensì, più precisamente, per quelli che “portino
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei
prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli
interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti
a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 e successive
modificazioni”.
Al contempo, l’art. 3, co. 1, lett. d), del DPR n. 380/2001 “gli
interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o
in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o
la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi
anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni
necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti
al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o
demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne
la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili
sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e
successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e
gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono
interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la
medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di chiarire, con considerazioni
che qui si intendono completamente riportate (v. Cons. Stato, sez. IV,
02.02.2017 n. 443, e giurisprudenza ivi richiamata), come, pur nella
successione di modifiche interessanti le norme in tema di ristrutturazione
edilizia, quest’ultima tipologia di intervento edilizio ricomprenda, nel
proprio ambito generale, tipologie differenti, solo per alcune delle quali
il legislatore prevede la necessità del permesso di costruire; da un lato,
dunque, vi è la generale definizione di ristrutturazione edilizia (art. 3, co. 1, lett. d);
dall’altro, le specifiche “species” del genus ristrutturazione edilizia per le quali occorre il permesso di costruire
(art. 10, co. 1, lett. c).
Si è, in particolare, affermato:
“Per effetto della modifica introdotta dall'art. 30, comma 1, lett. a),
D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito dalla L. 09.08.2013, n. 98, ... vi sono
ora tre distinte ipotesi di intervento rientranti nella
definizione di “ristrutturazione edilizia”, che possono portare
“ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”:
- la prima, non comportante demolizione del preesistente
fabbricato e comprendente (dunque, in via non esaustiva) “il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”;
- la seconda, caratterizzata da demolizione e ricostruzione,
per la quale è richiesta “la stessa volumetria di quello preesistente, fatte
salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica” (ed in questo caso, rispetto al testo previgente, non è più
richiesta l’identità di sagoma);
- la terza, rappresentata dagli interventi “volti al
ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti,
attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza”".
Inoltre, qualora la seconda e la terza delle ipotesi innanzi indicate
riguardino immobili sottoposti a vincoli di cui al d.lgs. n. 42/2004, potrà
parlarsi di ristrutturazione edilizia solo in presenza, nell’immobile
ricostruito, della identità di sagoma dell’edificio preesistente.
Per effetto della lett. c) del medesimo articolo, anche l’art. 10, co. 1,
lett. c), del DPR n. 380/2001 è stato modificato, di modo che è necessario
il permesso di costruire per “gli interventi di ristrutturazione edilizia
che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della
destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della
sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo
22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni”.
Infine, con modifica introdotta dall’art. 17, co. 1, lett. d), d.l.
12.09.2014 n. 133, conv. in l. 11.11.2014 n. 164, alla necessità di permesso
di costruire per i casi in cui il nuovo fabbricato comporti anche “aumento
di unità immobiliari” e “modifica del volume”, si è sostituita la
più limitata ipotesi di “modifiche della volumetria complessiva degli
edifici” (eliminando, dunque, il caso dell’aumento delle unità
immobiliari).
E’ appena il caso di osservare che il legislatore, in sede di elencazione
delle ipotesi di ristrutturazione edilizia con necessità di permesso di
costruire, ha ricompreso anche quella comportante modifiche di sagoma di
edifici vincolati ex d.lgs. n. 42/2004, ipotesi da riferirsi ai soli casi in
cui la ristrutturazione riguardi edifici vincolati, ma senza abbattimento,
poiché, in tale ultima ipotesi, ai sensi del precedente art. 3, co. 1, lett.
d), si fuoriesce dalla definizione di “ristrutturazione edilizia”.
In definitiva, non tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia
necessitano del rilascio del permesso di costruire, ma solo quelli
specificamente indicati dall’art. 10, co. 1, lett. c) e, per quel che
interessa nella presente sede, quelli che “portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino
modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti”,
posto che le ulteriori due ipotesi contemplate dalla norma (mutamenti di
destinazione d’uso di immobili in zona A, interventi che modificano la
sagoma di immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.Lgs. n. 42/2004), non
interessano il caso di specie.
Occorre, dunque, perché sia necessario il rilascio del permesso di costruire
una modifica (parziale o totale) dell’organismo edilizio preesistente ed un
aumento della volumetria complessiva; solo in questi casi, d’altra parte,
l’intervento si caratterizza (in ossequio alla prescrizione normativa) come
“trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”.
Nelle ipotesi, invece, di “ristrutturazione ricostruttiva” (come
definita dalla giurisprudenza: Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015 n. 1763;
09.05.2014 n. 2384; 06.07.2012 n. 3970), a maggior ragione se con invarianza,
oltre che di volume, anche di sagoma e di area di sedime, non vi è necessità
di permesso di costruire e, dunque, ai sensi dell’art. 16 DPR n. 380/2001,
manca il presupposto per la richiesta e corresponsione del contributo di
costruzione.
Infine, giova osservare che, del tutto coerentemente, il legislatore,
all’art. 22, co. 1, lett. c), DPR n. 380/2001, prevede, tra gli interventi
sottoposti a segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), anche i
casi di ristrutturazione edilizia per i quali non è necessario il permesso
di costruire, fermo restando la possibilità per l’interessato (co. 7) di
richiedere comunque il permesso di costruire “senza obbligo del pagamento
del contributo di costruzione di cui all’art. 16” (con esclusione dei
casi in cui, ai sensi dell’art. 23, la SCIA è sostitutiva del permesso di
costruire).
5.3. Le conclusioni alle quali si è innanzi pervenuti non contrastano con
quanto previsto, per la Regione Lombardia, dall’art. 44 l. reg. 11.03.2005
n. 12, posto che, nel definire le modalità di determinazione degli oneri di
urbanizzazione per gli interventi di ristrutturazione edilizia, tale
disposizione non impone una generalizzata onerosità dell’intervento, come si
evince dall’inciso “se dovuti”, riferito agli oneri e più volte
ripetuto (v. co. 8, 10, 10-bis).
Inoltre –diversamente considerando rispetto alla sentenza impugnata (pag.
10)- è solo nei sensi e limiti innanzi esposti che può trovare applicazione
quanto previsto dalla delibera della Giunta comunale di Monza 03.11.2008 n.
43, laddove la stessa prevede il pagamento di oneri di urbanizzazione per
gli interventi di ristrutturazione comportanti demolizione e ricostruzione,
in misura pari a quelli previsti per le nuove costruzioni.
6. Alla luce delle considerazioni esposte, l’appello è fondato:
- sia in relazione al primo profilo del secondo motivo (sub lett.
b1), poiché, in presenza di interventi che non comportano “trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio”, nei sensi e limiti
normativamente considerati ed innanzi esposti, non è dovuto il contributo di
cui all’art. 16, co. 1, DPR n. 380/2001;
- sia in relazione al terzo motivo di appello (sub lett. c), posto
che l’amministrazione, lungi dal procedere ad una “automatica”
applicazione dell’art. 16, co. 1, cit. ai casi di ristrutturazione edilizia,
avrebbe dovuto congruamente motivare le ragioni per le quali, in presenza
della (affatto particolare) tipologia di intervento oggetto di istanza di
permesso di costruire, riteneva di procedere all’adozione del permesso di
costruire con corrispondente onerosità dell’intervento e, dunque,
imposizione degli oneri a carico del richiedente.
Da quanto esposto consegue, in riforma della sentenza di I grado, ed in
corrispondenza della domanda formulata con il ricorso instaurativo del
giudizio, l’annullamento del permesso di costruire 13.01.2015 n. 91, nella
parte in cui con il medesimo è stato richiesto il versamento del contributo
di costruzione per un importo di Euro 257.377,54.
Resta fermo il potere del Comune di Monza di verificare che il progetto
presentato ed oggetto di istanza, presenti tutte le caratteristiche innanzi
indicate che, ove esistenti, comportano la non corresponsione di oneri ai
sensi dell’art. 16 DPR n. 380/2001
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.05.2017 n. 2567 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Come
è noto, il contributo di costruzione costituisce un corrispettivo di diritto
pubblico previsto a titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa
giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione pubblica deve
accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso
utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi
circostanti.
In caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di
urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato
un aumento del carico urbanistico.
---------------
I ricorrenti hanno presentato denuncia di inizio attività, in data
26.11.2010, per la ristrutturazione del fabbricato unifamiliare residenziale
di loro proprietà in via ... n. 39.
Il progetto ha previsto il rifacimento del solaio del primo piano e del
balcone, modifiche alla tramezzatura interna, il rifacimento degli intonaci
e dei pavimenti, la modifica delle aperture esterne. Non sono stati
realizzati incrementi di volume e superficie utile, né è aumentato il numero
di unità immobiliari.
Con l’atto impugnato, il Comune di Cambiano ha determinato il contributo di
costruzione, ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, in euro
9.749,35.
I ricorrenti rivendicano la gratuità dell’intervento e deducono, in tal
senso, la violazione degli artt. 11, 16, 17 e 22 del d.P.R. n. 380 del 2001
nonché l’eccesso di potere sotto molteplici profili.
Si è costituito il Comune di Cambiano, chiedendo il rigetto del ricorso.
...
Il ricorso è fondato.
Con la d.i.a. n. 2033 del 2010, i ricorrenti hanno effettuato una
ristrutturazione edilizia “leggera” senza demolire e ricostruire
l’edificio, senza aumentare la superficie, il volume ed il numero di unità
immobiliari, senza mutare la destinazione d’uso.
E’ stato realizzato un nuovo bagno al piano primo.
Siccome costruito prima del 1975, l’edificio era già abitabile su entrambi i
piani, sebbene i locali fossero, prima della ristrutturazione, di altezza
interna pari a 2,55 mt. (e perciò inferiore all’altezza minima di 2,70 mt.
prescritta dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975).
L’intervento di ristrutturazione ha consentito di ottenere, per tutti i
piani, un’altezza di 2,70 mt. mediante la demolizione e ricostruzione delle
solette interne.
Ma ciò non ha determinato un incremento del carico urbanistico, come
erroneamente ritenuto dal Comune.
Come è noto, il contributo di costruzione costituisce un corrispettivo di
diritto pubblico previsto a titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa
giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione pubblica deve
accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso
utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi
circostanti.
In caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di
urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato
un aumento del carico urbanistico (cfr., tra molte, TAR Piemonte, sez. I,
13.12.2013 n. 1346).
Nella specie, la d.i.a. presentata dai ricorrenti non era alternativa al
permesso di costruire.
Per il combinato disposto dell’art. 22, terzo comma – lett. a) e quinto
comma, e dell’art. 10, primo comma – lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001,
l’intervento non è soggetto a contributo di costruzione.
Peraltro, come correttamente affermato dai ricorrenti, la gratuità
dell’intervento discende (anche) dalla previsione dell’art. 17, terzo comma
– lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, relativo alle ristrutturazioni di
edifici unifamiliari.
In conclusione, ed assorbite le ulteriori censure riferite al regolamento
comunale sugli oneri di urbanizzazione ed alla delibera regionale n.
179/CR-4170 del 1977, il ricorso è fondato a va accolto
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 21.04.2017 n. 532 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le controversie sulla debenza o meno del contributo per
il rilascio di una concessione edilizia e sul suo ammontare, devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dall’art. 16 l.
28.01.1977 n. 10, riguardando diritti soggettivi, non sottostanno ai termini
decadenziali propri dei giudizi impugnatori e possono essere attivate nei
normali termini di prescrizione”.
La giurisdizione esclusiva è stata confermata anche
in seguito all’introduzione del c.p.a. che all’art. 133, lett. f), devolve
al Giudice Amministrativo “le controversie aventi ad oggetto gli atti ed i
provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed
edilizia”.
La qualificazione delle situazioni giuridiche coinvolte in termini di
diritto soggettivo, derivano dalla circostanza secondo cui, in caso di
contestazione circa la quantificazione o la debenza degli oneri connessi al
permesso di costruire, ci si limita a censurare la misura del contributo
imposto, non l’esercizio del potere al rilascio del titolo edilizio.
---------------
Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo
di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae”.
In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed
in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di
servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione,
distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per
essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita
di relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già
state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai
cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior
carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di
una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente
ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte
dell’unicità dei servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito
imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli
oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della
predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di
dette esigenze urbanistiche.
In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano
per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione
si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o
rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può
essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di
sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale
secondo cui “in caso di ristrutturazione edilizia,
il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui
l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico”.
Da ultimo, il Collegio non ritiene rilevante l’affermazione di parte
appellante circa il mancato versamento degli oneri di urbanizzazione al
momento dell’originaria costruzione dell’edificio di proprietà della sig.ra
Cu.. In effetti, l’indagine relativa all’incremento del
carico urbanistico di un determinato insediamento non può coinvolgere anche
il regime contributivo riferibile all’edificio originario.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Piemonte-Torino: Sezione II n.
2033/2014, resa tra le parti, concernente accertamento della non debenza
degli oneri di urbanizzazione
...
1. L’oggetto del presente giudizio afferisce alla verifica circa la
sussistenza dell’obbligo di versamento degli oneri di urbanizzazione, da
parte del privato, in presenza di un intervento di sostituzione edilizia che
non determini un incremento del carico urbanistico preesistente.
2. Preliminarmente va esaminata l’eccezione, respinta in primo grado e
riproposta in sede di impugnazione, con cui l’Amministrazione appellante
afferma l’inammissibilità del ricorso di primo grado: secondo il Comune,
infatti, l’intervento assentito rientrerebbe nell’ambito della disciplina
prevista dall’art. 3 D.P.R. n. 380/2001 per le nuove costruzioni e, di
conseguenza, sarebbe soggetto alla normativa sul contributo di
urbanizzazione.
Tale premessa avrebbe dovuto condurre all’individuazione del nesso
sussistente fra la normativa regionale in tema di oneri di urbanizzazione (D.C.R.
n. 179 C.R. 4170 in data 26.05.1977) ed il permesso di costruire rilasciato
in favore della sig.ra Cu., al fine di affermare la necessità di previa
impugnazione, entro i termini, del permesso di costruire, in presenza di
contestazioni relative all’ammontare degli oneri di urbanizzazione.
Per altro verso, con riferimento all’ammontare degli oneri aggiuntivi per
l’impatto acustico, parte appellante afferma che è mancata, in primo grado,
la pregiudiziale impugnazione del provvedimento di compatibilità acustica
nel quale sono stati quantificati i relativi oneri.
2.1 Il motivo è infondato e va respinto.
Sul punto, il Collegio ritiene di condividere le argomentazioni proposte dal
giudice di prime cure, che evidenzia l’illogicità dell’iter processuale
ipotizzato dall’Amministrazione appellante: in effetti non pare ragionevole
sostenere “che parte ricorrente avrebbe dovuto impugnare provvedimenti a
sé favorevoli [...] solo perché essi hanno costituito la necessaria
occasione per la determinazione degli oneri”. In effetti il contenzioso
introdotto con il ricorso della sig.ra Cu. inerisce all’an ed al
quantum debeatur a titolo di oneri di urbanizzazione ed oneri
aggiuntivi, non, invece, all’ammissibilità del progetto proposto
dall’odierna appellata.
Sul punto, inoltre, la giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo
di precisare che “le controversie sulla debenza o meno
del contributo per il rilascio di una concessione edilizia e sul suo
ammontare, devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
dall’art. 16 l. 28.01.1977 n. 10, riguardando diritti soggettivi, non
sottostanno ai termini decadenziali propri dei giudizi impugnatori e possono
essere attivate nei normali termini di prescrizione”
(cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 06.12.1999 n. 2056; id. 15.02.2001, n. 790).
La giurisdizione esclusiva è stata confermata anche in
seguito all’introduzione del c.p.a. che all’art. 133, lett. f), devolve al
Giudice Amministrativo “le controversie aventi ad oggetto gli atti ed i
provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed
edilizia”. La qualificazione delle situazioni giuridiche coinvolte in
termini di diritto soggettivo, derivano dalla circostanza secondo cui, in
caso di contestazione circa la quantificazione o la debenza degli oneri
connessi al permesso di costruire, ci si limita a censurare la misura del
contributo imposto, non l’esercizio del potere al rilascio del titolo
edilizio.
Non può affermarsi, dunque, con riferimento al presente giudizio, il suo
carattere impugnatorio e, correlativamente, non troveranno ingresso le
disposizioni processuali inerenti ai termini di decadenza, poiché la domanda
giudiziale è soggetta al solo termine di prescrizione.
3. Con il secondo motivo di appello l’Amministrazione comunale afferma
l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui sostiene
l’inammissibilità di oneri di urbanizzazione in presenza di un intervento
edilizio che diminuisca il carico urbanistico.
In particolare, nel caso di specie, nonostante l’intervento assentito non
determini un incremento di S.L.P. complessiva e non modifichi la
destinazione d’uso preesistente, si sarebbe in presenza di una creazione di
un organismo edilizio del tutto nuovo per sagoma, numero di piani,
distribuzione interna, posizionamento e realizzazione di piani interrati.
Inoltre, l’assoggettamento dell’intervento al rilascio del permesso di
costruire e la sua ascrivibilità nel novero delle “nuove costruzioni”,
condurrebbero ad assoggettare l’immobile agli oneri di urbanizzazione. Per
altro verso, tali oneri non potrebbero dirsi nemmeno già scontati da quelli
sopportati all’origine, stante la vetustà del fabbricato che esclude ex
se l’avvenuto versamento degli oneri concessori, la cui disciplina
risale alla l. n. 10 del 1977.
3.1 Il motivo è infondato e va respinto.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere integralmente le argomentazioni
fornite dal giudice di prime cure, secondo cui “il
contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo
di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae”.
In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed
in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di
servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione,
distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per
essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita
di relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già
state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai
cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior
carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di
una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente
ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte
dell’unicità dei servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito
imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli
oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della
predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di
dette esigenze urbanistiche.
In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano
per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione
si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o
rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può
essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di
sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale
secondo cui “in caso di ristrutturazione edilizia, il
pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui
l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico”
(Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611).
Da ultimo, il Collegio non ritiene rilevante l’affermazione di parte
appellante circa il mancato versamento degli oneri di urbanizzazione al
momento dell’originaria costruzione dell’edificio di proprietà della sig.ra
Cu.. In effetti, l’indagine relativa all’incremento del
carico urbanistico di un determinato insediamento non può coinvolgere anche
il regime contributivo riferibile all’edificio originario.
Gli elementi su indicati consentono, in definitiva, di condividere gli
argomenti del giudice di prime cure e rigettare le censure sollevate sul
punto dall’Amministrazione appellante (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.10.2015 n. 4950 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Occorre premettere, quanto al riferimento temporale della disciplina
applicabile in materia di an e quantum del contributo concessorio, che
secondo consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato il
contributo di concessione va determinato con riferimento alla disciplina,
legislativa e regolamentare, vigente al momento del rilascio del titolo
edilizio, che segna il perfezionamento della fattispecie concessoria (o
autorizzatoria, a seconda della tipologia di titolo edilizio).
L’orientamento, per un verso, è fondato sulle previsioni normative che
correlano la determinazione e, in parte, anche la corresponsione del
contributo di concessione (nelle sue varie componenti), all’atto di rilascio
del titolo edilizio, e, per altro verso, è espressione del principio
generale sancito dall’art. 11 disp. prel. cod. civ., secondo cui ciascun
fatto genetico di effetti giuridici è sottoposto, salva diversa previsione
normativa, alla legge del tempo in cui viene in essere (se, poi, gli effetti
giuridici sono costituiti da un rapporto giuridico di durata, lo ius
superveniens, a seconda delle varie ipotesi, potrà incidere anche sulla
disciplina del rapporto).
---------------
Alla qualificazione delle opere come intervento di
ristrutturazione edilizia
consegue che dal contributo per gli oneri di urbanizzazione deve essere
scomputato l’importo imputabile al carico urbanistico generato dall’edificio
preesistente.
In linea generale, giova al riguardo rimarcare che, mentre la quota del
contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità (superficie e
volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere
all’Amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla
collettività di riferimento per la trasformazione del territorio consentita
al privato istante (ossia, a compensare la c.d. compartecipazione comunale
all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a
seguito della nuova edificazione), la quota del contributo di costruzione
commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve alla prioritaria funzione
di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che
si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico
urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove
opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente
quelle già esistenti.
È, pertanto, pienamente condivisibile il principio, ripetutamente affermato
dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui, qualora il progetto
riguardi la ristrutturazione di un edificio esistente, il suo impatto è
destinato ad incidere su una zona già urbanizzata, per cui la sua incidenza
sarà data dalla consistenza del nuovo intervento, detratto l’impatto di
quanto già esistente, con conseguente sussistenza del correlativo onere
contributivo in ragione del solo incremento del carico urbanistico.
---------------
6.1. Merita, in particolare, accoglimento il primo motivo di
appello principale, di cui sopra sub § 2.a), con cui si deduce l’erronea
esclusione del diritto allo scomputo del contributo per oneri di
urbanizzazione assolto in relazione all’edificio preesistente (nel caso di
specie, virtualmente, trattandosi di edificio costruito nel 1952), basata
sul rilievo che si verterebbe in fattispecie di costruzione nuova, e non già
di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione.
Occorre premettere, quanto al riferimento temporale della disciplina
applicabile in materia di an e quantum del contributo concessorio, che
secondo consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato (v., ex plurimis, Cons. St., Sez. IV,
07.06.2012, n. 3379; Cons. St., Sez. IV, 25.06.2010, n. 4109; Cons. St., Sez. V, 13.06.2003, n. 3332) il
contributo di concessione va determinato con riferimento alla disciplina,
legislativa e regolamentare, vigente al momento del rilascio del titolo
edilizio, che segna il perfezionamento della fattispecie concessoria (o
autorizzatoria, a seconda della tipologia di titolo edilizio).
L’orientamento, per un verso, è fondato sulle previsioni normative che
correlano la determinazione e, in parte, anche la corresponsione del
contributo di concessione (nelle sue varie componenti), all’atto di rilascio
del titolo edilizio, e, per altro verso, è espressione del principio
generale sancito dall’art. 11 disp. prel. cod. civ., secondo cui ciascun
fatto genetico di effetti giuridici è sottoposto, salva diversa previsione
normativa, alla legge del tempo in cui viene in essere (se, poi, gli effetti
giuridici sono costituiti da un rapporto giuridico di durata, lo ius
superveniens, a seconda delle varie ipotesi, potrà incidere anche sulla
disciplina del rapporto).
Nel caso di specie, ai fini dell’individuazione della disciplina
applicabile, si dovrà, pertanto, aver riguardo a quella vigente al momento
dell’emissione/rilascio della concessione n. 89/2005 (marzo-aprile 2005).
Orbene, l’art. 59 l. urb. prov. –emanato nell’esplicazione della potestà
legislativa primaria della Provincia autonoma di Bolzano in materia
urbanistica, ai sensi dell’art. 8, n. 5) dello Statuto di autonomia–
definisce come interventi di ristrutturazione edilizia «quelli rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere
che possono portare ad un organismo per sagoma, superficie, dimensione e
tipologia in tutto o in parte diverso dal precedente», aggiungendo che «tali
interventi comprendono il ripristino o la sostituzione, la modifica e
l’inserimento di nuovi elementi ed impianti», e sancendo, nel secondo comma,
la prevalenza delle disposizioni dello stesso art. 59 sulle previsioni dei
piani urbanistici comunali e dei regolamenti edilizi (in parte qua,
l’attuale formulazione normativa coincide con quella vigente all’epoca del
rilascio della concessione edilizia de qua).
Il terzo comma del citato art. 59 –come sostituito dall’art. 25 l. prov.
31.03.2003, n. 5, nella formulazione anteriore all’entrata in vigore
dell’art. 14, comma 3, l. prov. 02.07.2007, n. 3– prevede(va), poi, che
«il recupero di edifici siti in zone residenziali non soggette a un piano di
attuazione (quale, pacificamente, la zona di ubicazione dell’edificio in
questione; n.d.e.) può essere effettuato anche tramite interventi di
ristrutturazione edilizia ai sensi del comma 1, lett. d)», nel rispetto
delle distanze, della cubatura (urbanisticamente rilevante) e dell’altezza
dell’edificio preesistente.
La citata previsione normativa, ai fini della qualificazione dell’intervento
edilizio come ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, a
differenza dalla disciplina statale di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001 [olim, art. 31, lett. d), l. n. 347 del 1978], non
postula dunque la fedele ricostruzione con il rispetto anche della sagoma
dell’edificio preesistente, ma sancisce la continuità tra i due manufatti
alla sola condizione del rispetto di distanze, volumetria ed altezza
(peraltro, anche nell’ordinamento statale, con la recente novella apportata
dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito nella legge 09.08.2013, n.
98, all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 è stata eliminata la condizione
del rispetto della sagoma dell’edificio preesistente).
La previsione provinciale trova la sua ratio giustificatrice nella
circostanza che, a cagione della sua particolare conformazione geomorfologica, solo una parte esigua del territorio provinciale è
suscettibile di utilizzazione edificatoria, e nella conseguente filosofia di
risparmio del territorio che permea la locale legislazione urbanistica,
tesa, per quanto possibile, a concentrare gli interventi edilizi nell’ambito
del territorio già edificato ed a rivalorizzare le volumetrie esistenti (v.,
sulla riportata ricostruzione della disciplina provinciale in materia, la
recente sentenza 07.05.2015, n. 2294, di questa Sezione).
Ne deriva l’inconcludenza dei precedenti giurisprudenziali invocati
dall’appellato Comune, relativi alla –all’epoca– in parte qua diversa
disciplina statale.
Atteso il comprovato rispetto dei parametri della cubatura (urbanisticamente
rilevante) e dell’altezza dell’edificio preesistente (v. la copiosa
documentazione planimetrica in atti, compresi gli allegati alla consulenza
tecnica d’ufficio espletata in primo grado), l’intervento edilizio assentito
con la concessione edilizia n. 89/2005 deve, pertanto, qualificarsi come
ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 59, comma 1, lett. d), e comma
3, l. urb. prov..
Peraltro, lo stesso rilascio della menzionata concessione edilizia per i
lavori in questione, per un volumetria fuori terra di 56.009 mc (a fronte di
un volume preesistente di 57.741 mc; v. risultanze della c.t.u.) implica per
necessità logica la sussunzione, da parte della stessa Amministrazione
comunale, dell’intervento in questione sub specie di ristrutturazione
edilizia mediante demolizione e ricostruzione, in quanto, diversamente, il
rilascio del titolo edilizio sarebbe rimasto precluso dall’indice di
fabbricabilità di 3,5 mc/mq stabilito dal p.u.c. –indice che, tenuto conto
della superficie del lotto, avrebbe consentito l’edificazione entro il
limite di soli 21.500 mc–, con la conseguenza che la tesi difensiva del
Comune, volta a qualificare l’intervento come nuova costruzione, si risolve
in un’inammissibile protestatio contra factum proprium, lesiva
dell’affidamento riposto dall’originaria ricorrente nella qualificazione
dell’intervento edilizio operata dalla stessa Amministrazione, immanente al
rilascio della concessione edilizia negli esposti termini.
Alla qualificazione delle opere come intervento di ristrutturazione edilizia
consegue che dal contributo per gli oneri di urbanizzazione deve essere
scomputato l’importo imputabile al carico urbanistico generato dall’edificio
preesistente.
In linea generale, giova al riguardo rimarcare che, mentre la quota del
contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità (superficie e
volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere
all’Amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla
collettività di riferimento per la trasformazione del territorio consentita
al privato istante (ossia, a compensare la c.d. compartecipazione comunale
all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a
seguito della nuova edificazione), la quota del contributo di costruzione
commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve alla prioritaria funzione
di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che
si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico
urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove
opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente
quelle già esistenti.
È, pertanto, pienamente condivisibile il principio, ripetutamente affermato
dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui, qualora il progetto
riguardi la ristrutturazione di un edificio esistente, il suo impatto è
destinato ad incidere su una zona già urbanizzata, per cui la sua incidenza
sarà data dalla consistenza del nuovo intervento, detratto l’impatto di
quanto già esistente, con conseguente sussistenza del correlativo onere
contributivo in ragione del solo incremento del carico urbanistico (v. in
tal senso, ex plurimis, da ultimo, Cons. St., Sez. V, 13.05.2014, n.
2437).
Nell’ordinamento urbanistico provinciale tale principio è, ormai,
espressamente recepito dall’art. 66, comma 4-bis, l. urb. prov., inserito
dall’art. 15, comma 2, l. prov. 02.07.2007, n. 3, che testualmente
recita: «In caso di interventi su edifici esistenti, ivi compresa la loro
demolizione e ricostruzione, sono dovuti gli oneri di urbanizzazione in
ragione dell’incremento del carico urbanistico. I comuni con regolamento di
cui all’art. 73, comma 2, stabiliscono i relativi criteri, tenendo conto
dell’aumento della superficie utile e dei cambiamenti della destinazione
d’uso».
Orbene, risalendo la costruzione dell’originaria costruzione (ex-Hotel
Bristol) al 1952, ossia ad un’epoca in cui non vigeva ancora l’istituto del
contributo concessorio, introdotto nell’ordinamento urbanistico provinciale
di Bolzano con la l. prov. 03.01.1978, n. 1 (mentre la compartecipazione
dei privati alle opere di urbanizzazione aveva trovato una sua prima
definizione nel d.P.G.P. 23.06.1970, n. 20), il relativo onere deve
ritenersi assolto virtualmente, giacché, in difetto di un’imputazione
virtuale del pregresso, alla sopravvenuta disciplina impositiva verrebbe
data un’inammissibile applicazione retroattiva.
Né l’edificio preesistente rientrava in una delle fattispecie esentate dal
contributo –per previsione legislativa o degli strumenti urbanistici–, per
le quali sarebbe escluso il diritto allo scomputo, attesa l’incidenza della
nuova costruzione, a destinazione d’uso non esentata, per intero sul carico
urbanistico.
Ne consegue che nella determinazione del contributo concessorio per la
demo-ricostruzione del preesistente edificio deve detrarsi l’onere
riferibile al carico urbanistico generato dall’edificio preesistente,
sicché, alla luce delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, nulla
è dovuto dall’odierna appellante per il volume fuori terra, attesa
l’eccedenza del carico preesistente, virtualmente assolto, rispetto a quello
di cui al progetto assentito (v., in particolare, pp. 13 e 28 della
relazione depositata dal c.t.u. l’11.04.2013).
Ne deriva, altresì, l’illegittimità dell’art. 2, comma 4, del Regolamento
comunale per la determinazione del contributo di urbanizzazione, approvato
con deliberazione del Consiglio comunale n. 83 del 25.11.2004, vigente
all’epoca del rilascio della concessione edilizia –che statuisce
testualmente: «In caso di demolizione e ricostruzione di edifici realizzati
prima dell’entrata in vigore del regolamento comunale di determinazione
degli oneri di urbanizzazione, approvato con deliberazione del Consiglio
comunale n. 148 del 30.07.1975, il contributo di urbanizzazione è
interamente dovuto. Ai fini del presente regolamento per demolizione e
ricostruzione si intende qualunque intervento che comporti la demolizione
totale o parziale dei muri perimetrali dell’edificio esistente, fatta salva
la fedele ricostruzione della struttura»–, ponendosi tale disposizione
regolamentare in contrasto con la sopra ricostruita disciplina legislativa
degli interventi di ricostruzione-demolizione e col principio di
irretroattività sancito dall’art. 11 disp. prel. cod. civ..
In riforma dell’impugnata sentenza, s’impongono dunque le consequenziali
statuizioni di annullamento della citata disposizione regolamentare e di
accertamento dell’insussistenza della pretesa contributiva fatta valere dal
Comune con riguardo alla volumetria fuori terra.
6.2. L’accoglimento del primo motivo d’appello, cui consegue la non debenza
del contributo di urbanizzazione per il volume fuori terra, comporta
l’assorbimento del secondo motivo d’appello sub § 2.b), che censura
il regolamento comunale sotto altri profili, ormai irrilevanti ai fini
decisori
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.07.2015 n. 3298 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il contributo di costruzione costituisce un
corrispettivo di diritto pubblico previsto dal Legislatore a
titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la
propria causa giuridica nelle maggiori spese che
l’Amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza
della costruzione dell’edificio e del connesso utilizzo, da
parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi
circostanti.
---------------
E' pacifico
in giurisprudenza che il pagamento degli oneri di
urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento
abbia determinato un aumento del carico urbanistico,
dovendosi perciò ritenere illegittima la richiesta del
pagamento di tali maggiori oneri se non si verifica la
variazione del carico urbanistico.
---------------
Espone in fatto parte ricorrente di aver presentato SCIA al
Comune di Brusciano il 10/7/2013 n. 13740 per manutenzione
straordinaria e cambio d’uso del complesso produttivo in
Brusciano alla Via ... n. 102 su terreno di cui al fl.3
p.lla 53 di mq. 30.900. Con nota n. 15247 del 12/08/2013
veniva comunicato l’avvio del procedimento di rigetto ma
veniva chiarito che la destinazione d’uso di assemblaggio ed
esposizione di macchine per agricoltura e movimentazione era
compatibile con la destinazione D1 aree industriali,
artigianali e commerciali. Con la nota impugnata sono state
accolte le deduzioni ed è stato richiesto il pagamento di €
168.802,65 quale contributo di costruzione in ragione del
cambio di destinazione d’uso per volume edificato in zona
agricola.
Il Comune di Brusciano si è costituito in giudizio per
dedurre circa la legittimità della richiesta di pagamento
per avvenuto cambio di destinazione d’uso in quanto il lotto
non avrebbe sempre avuto la destinazione D1.
Con ordinanza resa in fase cautelare il Tribunale sospendeva
il provvedimento impugnato; parte ricorrente ha
successivamente depositato copia della comunicazione inviata
al Comune di inizio dei lavori di manutenzione
straordinaria.
...
1. Con il ricorso in esame parte ricorrente richiede
l’annullamento in parte qua della nota impugnata
quanto alla richiesta del contributo di costruzione
lamentando la violazione dell’art. 3 della Legge n. 241/1990
e degli artt. 16 e ss. del DPR n. 380/2001, nonché l’eccesso
di potere.
2. Con riguardo alla vicenda in oggetto la Sezione è
dell’avviso di dover preliminarmente chiarire in punto di
fatto che, con riguardo al complesso produttivo per il quale
sono stati richiesti € 168.082,65 quali “oneri di
urbanizzazione/contributo di costruzione” a seguito
della SCIA del 10/7/2013, già in data 26/07/2012 era stato
rilasciato Permesso di costruire in sanatoria n. 39/2012 con
pagamento di € 25.405,90 quali contributo di costruzione.
E’ poi il caso di rammentare che detto contributo
costituisce un corrispettivo di diritto pubblico previsto
dal Legislatore a titolo di partecipazione ai costi delle
opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che
ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese che
l’Amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza
della costruzione dell’edificio e del connesso utilizzo, da
parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi
circostanti.
3. Ora, avuto riguardo alla censura della presunta
illegittimità della richiesta di pagamento degli oneri, si
ritiene che il ricorso risulti fondato quanto meno con
riguardo alle aree esterne che non risultano essere state
interessate da opere edilizie e che, in base alla SCIA
citata, sono state al più oggetto di lavori di manutenzione
straordinaria di limitata consistenza rimanendo zona di
parcheggio delle macchine finite.
Peraltro è pacifico in giurisprudenza (cfr. TAR Campania,
Salerno, II, 10.03.2014, n. 552; TAR Piemonte, I,
13.12.2013, n. 1346; II, 16.09.2013, n. 1009; Cons. Stato,
IV, 29.04.2004, n. 2611) che il pagamento degli oneri di
urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento
abbia determinato un aumento del carico urbanistico,
dovendosi perciò ritenere illegittima la richiesta del
pagamento di tali maggiori oneri se non si verifica la
variazione del carico urbanistico; questa non risulta essere
avvenuta nel caso di specie, non risultando né la quantità
né la qualità delle infrastrutture necessarie a supportare
il nuovo insediamento.
3.1 Il provvedimento impugnato merita dunque di essere
annullato “in parte qua” nella misura in cui la
richiesta di pagamento per le aree esterne non è stata
giustificata dalla sussistenza di opere di urbanizzazione
primaria ex novo; la stessa relazione depositata agli
atti dall’Amministrazione resistente e datata 03/02/2015 ha
riguardo a fatti antecedenti al citato Permesso di costruire
n. 39 del 2012 per il quale era stato corrisposto il
contributo di costruzione, ma –ed è quel che più conta– non
prova che vi è stato aumento di volumetria e che si è
determinata una modifica della destinazione produttiva, in
altri termini non si riscontra in atti che vi sia stata
modifica dei parametri e del carico urbanistico.
4. Ciò premesso, il Collegio ritiene che il ricorso vada
accolto con conseguente annullamento in parte qua del
provvedimento oggetto di impugnazione (TAR Campania-Napoli,
Sez. II,
sentenza 12.03.2015 n. 1531 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
contributo per oneri di urbanizzazione costituisce un corrispettivo di
diritto pubblico previsto dal legislatore a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la
propria causa giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione pubblica
deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso
utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi
circostanti.
Pertanto, è consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui, in caso
di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è
dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del
carico urbanistico.
---------------
L’intervento assentito dal Comune prevede la demolizione di un fabbricato di
civile abitazione unifamiliare di quattro piani fuori terra e la successiva
edificazione di un nuovo fabbricato sempre di civile abitazione unifamiliare
di pari volumetria, composto da due piani fuori terra oltre seminterrato.
L’edificio risultante dalla ristrutturazione conserva la stessa volumetria e
la stessa destinazione d’uso dell’edificio precedente, non determinando,
quindi, alcuna modifica dei parametri e del carico urbanistico. Inconferente,
ai fini del carico urbanistico, è la modifica di sagoma e prospetti.
Ne consegue che non sono dovuti gli oneri di urbanizzazione.
... per l'annullamento del provvedimento di determinazione degli oneri di
urbanizzazione primaria/secondaria e di costruzione, emanato dal Comune di
Meina, nella persona del responsabile del servizio tecnico, in data
11.02.2000 e in pari data notificato al ricorrente (rif. pratica edilizia n.
11/1999);
...
Il ricorso è fondato.
Il contributo per oneri di urbanizzazione costituisce un corrispettivo di
diritto pubblico previsto dal legislatore a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la
propria causa giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione pubblica
deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso
utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi
circostanti.
Pertanto, è consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui, in caso
di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è
dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del
carico urbanistico (TAR Piemonte, sez. I, 26.11.2003 n. 1675 e, da ultimo,
TAR Piemonte, sez. II, 16.09.2013 n. 1009; Cons. Stato, sez. IV, 29.04.2004,
n. 2611).
Nel caso di specie, la documentazione versata in atti dal ricorrente sembra
obbiettivamente escludere che l’intervento edilizio abbia comportato un
aumento del carico urbanistico.
L’intervento assentito dal Comune prevede la demolizione di un fabbricato di
civile abitazione unifamiliare di quattro piani fuori terra e la successiva
edificazione di un nuovo fabbricato sempre di civile abitazione unifamiliare
di pari volumetria, composto da due piani fuori terra oltre seminterrato (cfr.
relazione tecnica sub doc. 1 di parte ricorrente).
L’edificio risultante dalla ristrutturazione conserva la stessa volumetria e
la stessa destinazione d’uso dell’edificio precedente, non determinando,
quindi, alcuna modifica dei parametri e del carico urbanistico.
Inconferente, ai fini del carico urbanistico, è la modifica di sagoma e
prospetti.
Ne consegue che non sono dovuti gli oneri di urbanizzazione.
Il ricorso è quindi fondato e va accolto. Per l’effetto, va disposto
l’annullamento dell’atto impugnato nella parte relativa all’indicazione e
alla quantificazione degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, e
va inoltre condannata l’amministrazione comunale a restituire al ricorrente
l’importo degli oneri da questi indebitamente versato, in misura pari
all’equivalente in Euro dell’importo di Lire 23.118.503, con gli interessi
legali dalla data della domanda (07.04.2000) fino al saldo (TAR Piemonte,
Sez. I,
sentenza 13.12.2013 n. 1346 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia attuata con demolizione e ricostruzione.
Onerosità.
Si chiede parere in merito all’onerosità –ovvero all’eventuale gratuità– di
un intervento di ristrutturazione edilizia da attuarsi mediante demolizione
e ricostruzione di un fabbricato preesistente (...continua) (Regione
Piemonte,
parere n. 1/2010 - tratto da www.regione.piemonte.it). |
Ed altro
ancora in materia di oneri di urbanizzazione di costo di
costruzione... |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
sussistenza, o meno, dei
presupposti per la declaratoria di acquiescenza laddove il ricorrente abbia
impugnato il permesso di costruire nella parte in cui prevede l'onerosità
solo dopo avere pagato l'importo richiesto e senza manifestare alcuna
preventiva riserva circa la debenza del contributo di costruzione.
Un consolidato orientamento giurisprudenziale ha avuto modo di evidenziare
che non ricorrono, nei casi come quello in esame, gli estremi per
configurare estinzione del diritto per acquiescenza.
- “L'acquiescenza consiste nell'accettazione definitiva del
provvedimento oppure in un comportamento incompatibile con la volontà
d'impugnarlo o di ottenerne il riesame da parte della p.a. emanante e non è
configurabile nel caso in cui non v'è un atto amministrativo autoritativo,
ma si riscontrano posizioni di diritto soggettivo direttamente azionabile
dal titolare (com'è, appunto, il diritto del concessionario a non pagare un
contributo eccedente o non dovuto)”.
- “La controversia attinente alla spettanza e liquidazione del
contributo per gli oneri di urbanizzazione, riservata alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo a norma dell’art. 16 l. 29.01.1977, n.
10 [oggi, ex art. 133, lett. f), cod. proc. amm.], ha ad oggetto
l’accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall’esistenza di
atti della pubblica amministrazione e non è soggetta alle regole delle
azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi ed ai rispettivi
termini di decadenza, con conseguente inconfigurabilità dell’istituto
dell’acquiescenza rispetto alla liquidazione del contributo e alla sua
corresponsione (pro quota o per intero) in funzione del rilascio del titolo
edilizio.
In tale contesto, irrilevante è il convenzionamento, o meno, dell’immobile
costruendo, incidente sulla misura del contributo di concessione, ma non sui
principi generali in tema di contestazione giudiziale del contributo e di
eventuale azione di ripetizione, entro il termine ordinario di prescrizione.
Si aggiunga che l’obbligo della corresponsione del contributo di
concessione, essendo obiettivamente collegato alla posizione di titolare
della concessione edilizia rilasciata, dà vita a un’obbligazione di diritto
pubblico priva di ogni connotazione negoziale, con la conseguenza che anche
la sottoscrizione, al momento del rilascio della concessione, di un impegno
a corrispondere al comune il contributo in una determinata misura non
preclude all’interessato la tutela giurisdizionale per l’accertamento del
diritto a non pagare il contributo in misura eccedente a quanto dovuto per
legge, versandosi in materia sottratta alla disponibilità delle parti”.
- “La giurisprudenza ha
chiarito che il pagamento degli oneri di urbanizzazione non determina
acquiescenza al provvedimento impositivo, dovendo piuttosto essere
considerato quale espressione della connaturale esigenza dell’attività
imprenditoriale edilizia di dare avvio, senza indugi, alla realizzazione
dell’opera progettata".
- “La mera esecuzione, anche senza riserve, del
provvedimento, non implica di per sé acquiescenza, in quanto il
provvedimento amministrativo, fino al suo eventuale annullamento, produce
effetti ed è immediatamente esecutivo. La sua esecuzione è, dunque,
comportamento neutro, potendo trovare giustificazione, più che nell'univoca
e incondizionata volontà di accettarne gli effetti, nell'esigenza di evitare
le conseguenze ulteriori che potrebbero derivare dalla sua inottemperanza.
I
medesimi principi sono stati affermati anche con riferimento al pagamento,
al momento del ritiro della concessione edilizia, dei relativi oneri
contributivi, escludendo che ricorra il requisito dell'univoca
manifestazione di volontà dell'interessato ad accettare le statuizioni di un
determinato provvedimento amministrativo e, quindi, a rinunciare
all'esperimento della tutela giurisdizionale, quando, al momento del ritiro
della concessione edilizia, lo stesso non avanzi riserva alcuna circa la debenza degli oneri concessori perché tale comportamento risponde
all'esigenza di dare avvio senza indugi all'opera edilizia o di beneficiare
del relativo titolo e le posizioni che si determinano in conseguenza del
rilascio del titolo abilitativo alla realizzazione dell'opera sono di
diritto soggettivo”.
---------------
4. Il Collegio esamina preliminarmente l’eccezione di inammissibilità
sollevata dall’amministrazione resistente, che ritiene sussistenti tutti i
presupposti per la declaratoria di acquiescenza, in quanto i ricorrenti
hanno impugnato il permesso di costruire nella parte in cui prevede
l'onerosità, solo dopo avere pagato l'importo richiesto e senza manifestare
alcuna preventiva riserva circa la debenza del contributo di costruzione.
Tale comportamento lascerebbe denotare, in maniera univoca, la volontà di
accettazione degli effetti del provvedimento.
Il Collegio ritiene tale eccezione priva di pregio.
Un consolidato orientamento giurisprudenziale ha avuto modo di evidenziare
che non ricorrono, nei casi come quello in esame, gli estremi per
configurare estinzione del diritto per acquiescenza.
- “L'acquiescenza consiste nell'accettazione definitiva del
provvedimento oppure in un comportamento incompatibile con la volontà
d'impugnarlo o di ottenerne il riesame da parte della p.a. emanante e non è
configurabile nel caso in cui non v'è un atto amministrativo autoritativo,
ma si riscontrano posizioni di diritto soggettivo direttamente azionabile
dal titolare (com'è, appunto, il diritto del concessionario a non pagare un
contributo eccedente o non dovuto)” (TAR Campania, 27/07/2006, sent.
8533).
- “La controversia attinente alla spettanza e liquidazione del
contributo per gli oneri di urbanizzazione, riservata alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo a norma dell’art. 16 l. 29.01.1977, n.
10 [oggi, ex art. 133, lett. f), cod. proc. amm.], ha ad oggetto
l’accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall’esistenza di
atti della pubblica amministrazione e non è soggetta alle regole delle
azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi ed ai rispettivi
termini di decadenza, con conseguente inconfigurabilità dell’istituto
dell’acquiescenza rispetto alla liquidazione del contributo e alla sua
corresponsione (pro quota o per intero) in funzione del rilascio del titolo
edilizio (v., ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, 21.08.2013, n. 4208; Cons. St.,
Sez. IV, 10.03.2011, n. 1565); in tale contesto, irrilevante è il
convenzionamento, o meno, dell’immobile costruendo, incidente sulla misura
del contributo di concessione, ma non sui principi generali in tema di
contestazione giudiziale del contributo e di eventuale azione di
ripetizione, entro il termine ordinario di prescrizione. Si aggiunga che
l’obbligo della corresponsione del contributo di concessione, essendo
obiettivamente collegato alla posizione di titolare della concessione
edilizia rilasciata, dà vita a un’obbligazione di diritto pubblico priva di
ogni connotazione negoziale, con la conseguenza che anche la sottoscrizione,
al momento del rilascio della concessione, di un impegno a corrispondere al
comune il contributo in una determinata misura non preclude all’interessato
la tutela giurisdizionale per l’accertamento del diritto a non pagare il
contributo in misura eccedente a quanto dovuto per legge, versandosi in
materia sottratta alla disponibilità delle parti (v. in tal senso, ex
plurimis, Cons. St., Sez. V, 06.12.1999, n. 2056)” (Cons. Stato Sez. VI,
07/05/2015, n. 2294, conforme TAR Campania, Napoli, Sez. III, 31/10/2016, n.
5013).
- “Infatti la giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha
chiarito che il pagamento degli oneri di urbanizzazione non determina
acquiescenza al provvedimento impositivo, dovendo piuttosto essere
considerato quale espressione della connaturale esigenza dell’attività
imprenditoriale edilizia di dare avvio, senza indugi, alla realizzazione
dell’opera progettata (cfr. TAR Toscana, Sez. III, 24.09.2018, n. 1213; TAR
Sicilia, Palermo, Sez. III, 08.11.2013, n. 2066; TAR Emilia Romagna,
09.02.1999, n. 81)” (TRGA Bolzano, 26.09.2019, sent. n. 226).
- Ed ancora “La mera esecuzione, anche senza riserve, del
provvedimento, non implica di per sé acquiescenza, in quanto il
provvedimento amministrativo, fino al suo eventuale annullamento, produce
effetti ed è immediatamente esecutivo. La sua esecuzione è, dunque,
comportamento neutro, potendo trovare giustificazione, più che nell'univoca
e incondizionata volontà di accettarne gli effetti, nell'esigenza di evitare
le conseguenze ulteriori che potrebbero derivare dalla sua inottemperanza. I
medesimi principi sono stati affermati anche con riferimento al pagamento,
al momento del ritiro della concessione edilizia, dei relativi oneri
contributivi, escludendo che ricorra il requisito dell'univoca
manifestazione di volontà dell'interessato ad accettare le statuizioni di un
determinato provvedimento amministrativo e, quindi, a rinunciare
all'esperimento della tutela giurisdizionale, quando, al momento del ritiro
della concessione edilizia, lo stesso non avanzi riserva alcuna circa la
debenza degli oneri concessori perché tale comportamento risponde
all'esigenza di dare avvio senza indugi all'opera edilizia o di beneficiare
del relativo titolo e le posizioni che si determinano in conseguenza del
rilascio del titolo abilitativo alla realizzazione dell'opera sono di
diritto soggettivo.” (TAR Lazio sez. II, 19/09/2017, sent. n. 9818).
Per tali ordini di considerazioni, dai quali questo Collegio non ritiene di
doversi discostare, l’eccezione di inammissibilità non può essere accolta (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 04.05.2021 n. 457 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio, richiamando i principi giurisprudenziali consolidatisi nella
materia, intende premettere che:
a) ai sensi dell’art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, inserito
dall’art. 17, comma 1, lett. n), d.l. n. 133 del 2014, il mutamento di
destinazione d’uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che influisce, di
conseguenza, sul c.d. carico urbanistico poiché la semplificazione delle
attività edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di rendere
tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono non
assimilabili, a conferma della scelta già operata con il d.m. n. 1444 del
1968;
b) l’aumento del carico urbanistico non si verifica solo in caso di
modifica della destinazione funzionale dell’immobile, ma anche nel caso in
cui, sebbene la destinazione non venga mutata, le opere si prestino a
rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone
con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni
esistenti;
c) pertanto il mutamento di destinazione d’uso, sia con che senza
opere, giuridicamente rilevante, ossia quello tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, influisce in via conseguenziale e
automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti
in concreto, carico da intendersi come rapporto di proporzione
quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi di una
determinata zona territoriale.
---------------
6. Con il primo motivo l’appellante lamenta l’erroneità
dell’impugnata pronuncia nell’aver confutato la posizione
dell’Amministrazione comunale che aveva subordinato il cambio di
destinazione dell’immobile da “terziario direzionale” a “residenziale”,
chiedendo la cessione “dell’integrale dotazione di standard” a
servizio della destinazione residenziale, così non considerando le superfici
a standard, che in fase di realizzazione dell’edificio come terziario, erano
già state asservite con l’imposizione di un vincolo di destinazione, stante
la differenza e la non assimilabilità tra le due tipologie di standard.
Ad avviso del Comune l’intervento de quo sarebbe sottoposto alla
disciplina di cui alla delibera c.c. n. 31/2015, che, in attuazione della
legge regionale della Puglia n. 16 del 07.04.2014, ha definito le zone di
attuazione per tali mutamenti di destinazione d’uso ed ha, al contempo,
definito le condizioni di applicabilità.
A tal ultimo riguardo, si fa notare che l’art. 39 delle NTA del PRG di Bari
dispone che “A norma dell’art. 5, comma 1°, n. 2 del D.M. 02.04.1968
devono essere “previsti” spazi, escluse le sedi viarie, in misura non
inferiore a 80 mq. per 100 mq. di superficie lorda di pavimento con
destinazione terziario-direzionale; inoltre, devono essere “reperiti” i
servizi di quartiere per gli abitanti insediati, nella misura di 20 mq. per
abitante, se la zona è parzialmente utilizzata per destinazioni
residenziali….”.
Ne consegue che gli standard “residenziali” e quelli del “terziario
direzionale” non potrebbero essere assimilati essendo di fatto legati a
concetti completamente differenti e pertanto non si potrebbe procedere tra
di essi allo scomputo.
6.1. La censura non è fondata.
6.2. Il Collegio, al riguardo, richiamando i principi giurisprudenziali
consolidatisi nella materia (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2018, n.
6388), intende premettere che:
a) ai sensi dell’art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, inserito
dall’art. 17, comma 1, lett. n), d.l. n. 133 del 2014, il mutamento di
destinazione d’uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che influisce, di
conseguenza, sul c.d. carico urbanistico poiché la semplificazione delle
attività edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di rendere
tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono non
assimilabili, a conferma della scelta già operata con il d.m. n. 1444 del
1968;
b) l’aumento del carico urbanistico non si verifica solo in caso di
modifica della destinazione funzionale dell’immobile, ma anche nel caso in
cui, sebbene la destinazione non venga mutata, le opere si prestino a
rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone
con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni
esistenti;
c) pertanto il mutamento di destinazione d’uso, sia con che senza
opere, giuridicamente rilevante, ossia quello tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, influisce in via conseguenziale e
automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti
in concreto, carico da intendersi come rapporto di proporzione
quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi di una
determinata zona territoriale.
Del resto, in maniera sostanzialmente conforme è disciplinato il mutamento
di destinazione d’uso dalla legge regionale Puglia n. 16/2014, recante “Modifiche
e integrazioni alla legge regionale 15.11.2007, n. 33 (Recupero dei
sottotetti, dei porticati, di locali seminterrati e interventi esistenti e
di aree pubbliche non autorizzate)”, dalla delibera del Consiglio
comunale del Comune di Bari n. 31/2015, che ha recepito detta legge
regionale, e dalla legge regionale Puglia n. 48/2017 (art. 4)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2021 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sebbene le dotazioni connesse alle due diverse destinazioni in
esame (“terziario
direzionale” e “residenziale”) siano ontologicamente diverse, il
mancato scomputo degli standard già originariamente contemplati (con vincolo
su aree) comporterebbe una erronea duplicazione e un ingiustificato
arricchimento dell’Amministrazione, con la conseguenza che nella
quantificazione degli oneri dovrà tenersi conto degli standard già
garantiti.
Invero, a tali fini, si osserva che:
a) la diversità di disciplina riservata dal d.m. n. 1444/1968 agli
“insediamenti residenziali” (art. 3) e agli “insediamenti
produttivi” (art. 5), e in particolare agli “insediamenti di
carattere commerciale e direzionale” (art. 5, n. 2), attiene
esclusivamente ai rapporti massimi che devono intercorrere tra l’area dotata
di specifica destinazione e le aree dedicate a standard, a tal ultimo
riguardo facendosi riferimento in maniera indistinta per entrambe le
destinazioni a “gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive,
a verde pubblico o a parcheggi”;
b) invero, le norme in materia di standard contenute in detto
decreto non pongono alcuna differenza qualitativa fra gli standard delle
diverse zone omogenee, stabilendo solo diverse percentuali quantitative del
rapporto fra aree a destinazione residenziale (o industriale, commerciale
etc.) e aree a servizi, ferma restando la differenziazione di queste ultime
fra viabilità, parcheggi ed altro, né è dirimente il richiamo agli “spazi
pubblici” contenuto nell’articolo 3 del d.m., atteso che esso è seguito
dall’inciso “o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggi”, in modo da confermare che non è detto che le aree in
questione debbano essere sempre e comunque rese pubbliche, ben potendo
essere vincolate a standard con modalità diverse, in tal modo trovando
fondamento la tesi circa l’indifferenza della modalità giuridica con cui
tale aree vengono individuate, e quindi la trasponibili anche a servizio
delle aree a destinazione residenziale delle aree a parcheggio illo
tempore reperite mediante vincolo di destinazione al servizio di quelle
a uso terziario;
c) peraltro, al riguardo non assume rilievo determinante la
differenza terminologica utilizzata nelle NTA (art. 39) dello strumento
urbanistico generale del Comune tra “previsti” e “reperiti”,
essa derivando esclusivamente dalla differenza tra le dotazioni connesse
agli standard per la residenza e agli standard per gli insediamenti con
destinazione direzionale, senza in nessun modo intaccare la sostanziale
omogeneità concettuale esistente tra essi;
d) invero, a nulla rileva la circostanza che in occasione della
originaria realizzazione dell’edificio de quo come terziario veniva
prevista, come necessaria dotazione di standard, la sola imposizione di un
vincolo di destinazione, data la generale irrilevanza della specifica
modalità dell’onere nell’ottica della previsione dell’imposizione in carico
al privato;
e) del resto, la tesi suggerita dal Comune fondata
sull’interpretazione della norma urbanistica sconterebbe un contrasto con la
disciplina riveniente dalle sovraordinate disposizioni regolamentari
rivenienti dal citato d.m. n. 1444/1968.
In conclusione sul punto, non essendo in astratto concepibile una
distinzione tra standard per area con destinazione “terziario direzionale”
e standard per area con destinazione “residenziale”, all’infuori
della diversità ontologica tra le relative dotazioni, risulta illegittima la
richiesta comunale di reperimento integrale delle superfici destinate a
standard per la residenza senza considerare le superfici a standard già
concesse in relazione all’edificio con destinazione a “terziario”,
che, pertanto, devono essere necessariamente computate nella determinazione
dei nuovi standard.
Invero, in caso di intervento edilizio comportante il mutamento di
destinazione d’uso, al fine della determinazione degli spazi e standard deve
rivalutarsi la complessiva situazione esistente, e conseguentemente è
ammissibile il reperimento della sola quota differenziale degli spazi a
standard ove già sussista la quota richiesta per il precedente uso, mentre,
solo in assenza di questa, le aree devono essere reperite per l’intero.
---------------
6.3. Ciò premesso, in ordine alla specifica questione oggetto della
controversia, è corretto rilevare, come fatto dal primo giudice, che,
sebbene le dotazioni connesse alle due diverse destinazioni in esame (“terziario
direzionale” e “residenziale”) siano ontologicamente diverse, il
mancato scomputo degli standard già originariamente contemplati (con vincolo
su aree) comporterebbe una erronea duplicazione e un ingiustificato
arricchimento dell’Amministrazione, con la conseguenza che nella
quantificazione degli oneri dovrà tenersi conto degli standard già
garantiti.
6.3.1. Invero, a tali fini, si osserva che:
a) la diversità di disciplina riservata dal d.m. n. 1444/1968 agli
“insediamenti residenziali” (art. 3) e agli “insediamenti
produttivi” (art. 5), e in particolare agli “insediamenti di
carattere commerciale e direzionale” (art. 5, n. 2), attiene
esclusivamente ai rapporti massimi che devono intercorrere tra l’area dotata
di specifica destinazione e le aree dedicate a standard, a tal ultimo
riguardo facendosi riferimento in maniera indistinta per entrambe le
destinazioni a “gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive,
a verde pubblico o a parcheggi”;
b) invero, le norme in materia di standard contenute in detto
decreto non pongono alcuna differenza qualitativa fra gli standard delle
diverse zone omogenee, stabilendo solo diverse percentuali quantitative del
rapporto fra aree a destinazione residenziale (o industriale, commerciale
etc.) e aree a servizi, ferma restando la differenziazione di queste ultime
fra viabilità, parcheggi ed altro, né è dirimente il richiamo agli “spazi
pubblici” contenuto nell’articolo 3 del d.m., atteso che esso è seguito
dall’inciso “o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggi”, in modo da confermare che non è detto che le aree in
questione debbano essere sempre e comunque rese pubbliche, ben potendo
essere vincolate a standard con modalità diverse, in tal modo trovando
fondamento la tesi circa l’indifferenza della modalità giuridica con cui
tale aree vengono individuate, e quindi la trasponibili anche a servizio
delle aree a destinazione residenziale delle aree a parcheggio illo
tempore reperite mediante vincolo di destinazione al servizio di quelle
a uso terziario;
c) peraltro, al riguardo non assume rilievo determinante la
differenza terminologica utilizzata nelle NTA (art. 39) dello strumento
urbanistico generale del Comune di Bari tra “previsti” e “reperiti”,
essa derivando esclusivamente dalla differenza tra le dotazioni connesse
agli standard per la residenza e agli standard per gli insediamenti con
destinazione direzionale, senza in nessun modo intaccare la sostanziale
omogeneità concettuale esistente tra essi;
d) invero, a nulla rileva la circostanza che in occasione della
originaria realizzazione dell’edificio de quo come terziario veniva
prevista, come necessaria dotazione di standard, la sola imposizione di un
vincolo di destinazione, data la generale irrilevanza della specifica
modalità dell’onere nell’ottica della previsione dell’imposizione in carico
al privato;
e) del resto, la tesi suggerita dal Comune fondata
sull’interpretazione della norma urbanistica sconterebbe un contrasto con la
disciplina riveniente dalle sovraordinate disposizioni regolamentari
rivenienti dal citato d.m. n. 1444/1968.
6.3.2. In conclusione sul punto, non essendo in astratto concepibile una
distinzione tra standard per area con destinazione “terziario direzionale”
e standard per area con destinazione “residenziale”, all’infuori
della diversità ontologica tra le relative dotazioni, risulta illegittima la
richiesta comunale di reperimento integrale delle superfici destinate a
standard per la residenza senza considerare le superfici a standard già
concesse in relazione all’edificio con destinazione a “terziario”,
che, pertanto, devono essere necessariamente computate nella determinazione
dei nuovi standard.
Invero, in caso di intervento edilizio comportante il mutamento di
destinazione d’uso, al fine della determinazione degli spazi e standard deve
rivalutarsi la complessiva situazione esistente, e conseguentemente è
ammissibile il reperimento della sola quota differenziale degli spazi a
standard ove già sussista la quota richiesta per il precedente uso, mentre,
solo in assenza di questa, le aree devono essere reperite per l’intero. E,
nel caso che qui occupa, non è in contestazione che l’edificio preesistente
già disponesse della quota di standard richiesta per la sua originaria
destinazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2021 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo costante giurisprudenza, la finalità degli
oneri concessori, con particolare riguardo alla parte correlata alle
opere di urbanizzazione primaria e secondaria, ha la chiara funzione di
contribuire alle spese da sostenere dalla collettività in riferimento alla
realizzazione delle stesse, sicché l’unico criterio per determinare se essi
siano dovuti o meno e in che misura consiste nella verifica del carico
urbanistico derivante dall’attività edilizia, con la precisazione che per
aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare
l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più
intensamente quelle esistenti.
Ciò a valere, tuttavia, per
quegli interventi edilizi in relazione ai quali sia revocata in dubbio
suddetta incidenza sul carico urbanistico, quale tipicamente la modifica di
destinazione d’uso funzionale o senza opere. Non certo laddove, come nel
caso di specie, l’intervento necessitava ab origine, per indiscussa
consistenza, di concessione edilizia, richiesta ex post a sanatoria.
In linea di diritto, cioè, mentre la quota del contributo di costruzione
commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla
tipologia e all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e
assolve alla funzione di permettere all’amministrazione comunale il recupero
delle spese sostenute dalla collettività di riferimento alla trasformazione
del territorio consentita al privato istante (ossia, a compensare la c.d.
compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà
immobiliare del costruttore, a seguito della nuova edificazione), la quota
del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione
«assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il
nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la
precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la
necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto
l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti».
La natura di prestazione patrimoniale imposta che connota gli oneri
concessori, in ciascuna delle due componenti, fa sì che l’eventuale
decurtazione della parte di essi correlata al beneficio collettivo
riveniente dalla presenza delle opere di urbanizzazione non consegua
automaticamente neppure all’avvenuta documentata realizzazione delle stesse
da parte del privato istante, laddove l’amministrazione non abbia assentito
al richiesto scomputo.
Infine, la determinazione dell’entità delle somme dovute non necessita
di alcuna motivazione aggiuntiva, essendo semplicemente frutto
dell’applicazione di parametri determinati da norme legislative o
regolamentari, conoscibili all’onerato.
---------------
Compenetrato al diritto di riscuotere
l’obbligazione principale, ovvero il contributo di costruzione
previsto dall’art. 3 della legge 27.01.1977, n. 10, cui fa rinvio l’art. 37
della l. n. 47/1985, è quello di imporre le sanzioni pecuniarie per il
ritardo nel relativo pagamento, quale strumento di coazione all’adempimento
del contributo principale previsto dal legislatore, in tanto dovute in
quanto sia dovuto tale onere.
---------------
7. Invertendo per comodità espositiva la trattazione dei motivi dell’appello principale proposto dai signori Mi.Ma.Re., Fi.Ci. e
Ca.Ci., il Collegio ritiene di poter anteporre lo scrutinio di quello
contraddistinto come secondo, attinente al merito della pretesa del Comune
di Prato, asseritamente indebita in quanto non avrebbe tenuto conto della
circostanza di fatto che le opere di urbanizzazione primaria erano già state
realizzate dalla parte richiedente all’atto della presentazione dell’istanza
di condono.
Detto motivo è infondato.
Secondo costante giurisprudenza, dalle cui risultanze non è ragione di
discostarsi, la finalità degli oneri concessori, con particolare riguardo
alla parte correlata alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, ha
la chiara funzione di contribuire alle spese da sostenere dalla collettività
in riferimento alla realizzazione delle stesse, sicché l’unico criterio per
determinare se essi siano dovuti o meno e in che misura consiste nella
verifica del carico urbanistico derivante dall’attività edilizia, con la
precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la
necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto
l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle esistenti (cfr. sul punto
Cons. Stato, Sez. VI, 07.05.2018, n. 2694).
Ciò a valere, tuttavia, per
quegli interventi edilizi in relazione ai quali sia revocata in dubbio
suddetta incidenza sul carico urbanistico, quale tipicamente la modifica di
destinazione d’uso funzionale o senza opere. Non certo laddove, come nel
caso di specie, l’intervento necessitava ab origine, per indiscussa
consistenza, di concessione edilizia, richiesta ex post a sanatoria.
8. In linea di diritto, cioè, mentre la quota del contributo di costruzione
commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla
tipologia e all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e
assolve alla funzione di permettere all’amministrazione comunale il recupero
delle spese sostenute dalla collettività di riferimento alla trasformazione
del territorio consentita al privato istante (ossia, a compensare la c.d.
compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà
immobiliare del costruttore, a seguito della nuova edificazione), la quota
del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione
«assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il
nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la
precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la
necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto
l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti» (cfr. Cons.
Stato, Sez. VI, 07.05.2015, n. 2294).
8.1. La natura di prestazione patrimoniale imposta che connota gli oneri
concessori, in ciascuna delle due componenti, fa sì che l’eventuale
decurtazione della parte di essi correlata al beneficio collettivo
riveniente dalla presenza delle opere di urbanizzazione non consegua
automaticamente neppure all’avvenuta documentata realizzazione delle stesse
da parte del privato istante, laddove l’amministrazione non abbia assentito
al richiesto scomputo. Nel caso di specie, peraltro, come correttamente
affermato dal giudice di prime cure, «neppure viene allegato quali opere di
urbanizzazione sarebbero state realizzate da Ma.Gr.Re., fatta
eccezione per non meglio decritti “vialetti privati interni di accesso”, dei
quali non è nota l’estensione, e che certo non assorbono certo il peso insediativo degli immobili in questione».
8.2 Infine, la determinazione dell’entità delle somme dovute non necessita
di alcuna motivazione aggiuntiva, essendo semplicemente frutto
dell’applicazione di parametri determinati da norme legislative o
regolamentari, conoscibili all’onerato.
9. Una volta acclarata la sussistenza del debito riveniente dagli oneri
concessori, nel caso di specie limitati al costo delle opere di
urbanizzazione, possono conseguirne, in caso di ritardo nella corresponsione
delle somme dovute, purché ne sia chiaro e certo l’importo, sanzioni e
interessi moratori.
Il che è quanto il Comune di Prato ha inteso essere
accaduto nel momento in cui ha richiesto la somma comprensiva di tutte e tre
le voci alle parti, nel frattempo subentrate, sulla base del combinato
disposto degli artt. 37 della l. n. 47/1985 e 3 e 15 della l. n. 10/1977,
per il tramite dell’ingiunzione prevista dall'art. 2 del regio decreto
14.04.1910, n. 639.
Compenetrato, infatti, al diritto di riscuotere
l’obbligazione principale, ovvero il contributo di costruzione previsto
dall’art. 3 della legge 27.01.1977, n. 10, cui fa rinvio l’art. 37 della l.
n. 47/1985, è quello di imporre le sanzioni pecuniarie per il ritardo nel
relativo pagamento, quale strumento di coazione all’adempimento del
contributo principale previsto dal legislatore, in tanto dovute in quanto
sia dovuto tale onere (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 08.03.2017, n.
1099).
9.1. Se, dunque, non sussiste un’obbligazione principale giuridicamente
valida, non è predicabile neppure un inadempimento di cui il preteso
debitore deve sopportare le conseguenze di legge.
Da questo nesso di presupposizione logico-giuridico tra le due diverse
prestazioni patrimoniali imposte al privato cui sia stato rilasciato un
titolo edilizio, anche in sanatoria, si ricava dunque la conseguenza che,
sebbene dovute al momento in cui sono state applicate, esse devono essere
restituite dall’amministrazione quando si accerti a posteriori che il
contributo concessorio per il cui mancato o ritardato pagamento sono stati
applicati i relativi interessi e sanzioni non era in realtà dovuto.
10. L’azione giudiziale in cui si contesta l’an o il quantum
del contributo in questione, come ancora di recente precisato da questo
Consiglio di Stato, non si inquadra dunque nel paradigma civilistico
dell’azione di restituzione dell’indebito eventualmente pagato, ma dà luogo
ad una domanda di accertamento negativo devoluta alla giurisdizione
amministrativa (Cons. Stato, Sez. IV, 07.02.2017, n. 528), dal cui
accoglimento consegue la possibilità di ripetere le somme versate ed
accertate come indebitamente corrisposte all’amministrazione nel giudizio di
cognizione, eventualmente con ricorso per ottemperanza laddove quest’ultima
non adempia correttamente al proprio debito restitutorio.
Il che, rileva la Sezione, è quanto avvenuto nel caso di specie, nel quale,
cioè, le parti contestano la sussistenza del credito del Comune di Prato,
ritenendone carenti i presupposti, di fatto (per la preesistenza delle opere
di urbanizzazione) e di diritto (per le modalità di computo seguite), con
ipotetica automatica caducazione delle somme accessorie richieste a titolo
di sanzione e interessi. Solo in denegata ipotesi, ovvero una volta
riconosciuta la legittimità della pretesa originaria, è questione di
eventuale illegittimità propria degli importi sanzionatori e moratori,
contestata egualmente dalle parti o in ragione dell’invocata non
trasmissibilità agli eredi dei primi, ovvero comunque per l’irregolarità
della notifica del titolo di credito originario, con riferimento ad entrambi
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 21.10.2019 n. 7119 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La pubblica amministrazione, nel corso del rapporto che si
instaura a seguito dell’avvenuto rilascio del titolo edilizio, può sempre rideterminare, sia a
favore che a sfavore del privato, l’importo del correlato tale contributo,
pur se in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a
questi la differenza, purché nell’ordinario termine di prescrizione
decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio,
senza incorrere in alcuna decadenza.
Per parte sua il privato non è tenuto
ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza,
potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione
esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo
termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento.
---------------
10.1 Passando adesso alla disamina dall’appello incidentale del comune di
Prato, il giudice di prime cure ha ritenuto non corretta, in ragione della
doverosa "personalità" delle sanzioni amministrative, consacrato nell’art. 7
della l. n. 689/1981, l’imputazione delle stesse a soggetti estranei alla
violazione, id est gli eredi, peraltro neppure direttamente della
responsabile, bensì del suo primo avente causa, signor Gi.Re., a sua
volta deceduto.
Il Comune di Prato non ha inteso contestare nel merito la ridetta
affermazione, da ritenersi pertanto consolidata; ne ha bensì avversato la
tempestiva proposizione, ritenendo che il Tribunale abbia indebitamente
respinto l’eccezione di inammissibilità dallo stesso già sollevata in primo
grado. La ridetta tardività si porrebbe, gradatamente, o in relazione
all’omessa prospettazione in occasione del primo ricorso al TAR, stante che
la nota del 14.09.1993 già conteneva la richiesta di pagamento delle somme
dovute, agevolmente determinabili per le parti mancanti sulla base di meri
calcoli aritmetici; ovvero avuto riguardo al giudizio instaurato innanzi al
giudice ordinario, con ciò precludendosi l’effetto della translatio
iudicii di una tematica estranea al petitum originario.
All’impugnativa delle ordinanze ingiunzione, tipica espressione di potere autoritativo della P.A., non cristallizzato in un atto paritetico, come
indebitamente ritenuto dal giudice di prime cure, sarebbe dunque applicabile
l’ordinario termine decadenziale, ormai spirato. Ma anche a voler aderire
alla qualificazione come “paritari” degli atti de quibus,
sottesa alle opzioni ermeneutiche del giudice di primo grado, il termine di
prescrizione applicabile non potrebbe che essere quello quinquennale, valido
in generale in materia sanzionatoria, con conseguente tardività del ricorso,
presentato comunque nel 2004, ovvero ben oltre i cinque anni dalla commessa
violazione, consumatasi non onorando tempestivamente l’obbligazione con il
Comune.
11. Anche tale eccezione è infondata e pertanto va respinto l’appello
incidentale e confermata sul punto la ricostruzione effettuata dal TAR per
la Toscana.
Oggetto dell’odierno giudizio è, per quanto sopra detto e sostanzialmente
già affermato dal Tribunale civile di Prato e dalla Corte d’Appello di
Firenze, il riconoscimento di un diritto soggettivo a carattere
patrimoniale, realizzabile peraltro indipendentemente dall’avvenuta
intermediazione di un provvedimento amministrativo (in tal senso, tutta la
giurisprudenza sulla distinzione tra atti paritetici ed atti autoritativi
sviluppatasi a seguito della c.d. sentenza "Fagiolari", Cons. Stato, Sez. V,
01.12.1939 n. 795).
In tale ambito devono infatti essere ricondotte le
controversie in tema di determinazione della misura dei contributi edilizi
che traggono origine direttamente da fonti normative, per cui sono
proponibili, a prescindere dall’impugnazione di provvedimenti
dell’amministrazione, nel termine di prescrizione (Cons. Stato, Sez. IV, 27.09.2017, n. 4515, che richiama Cons. Stato, Sez. IV, 20.09.2012, n. 6033). Come correttamente affermato dal TAR, infatti,
«l’opposizione all’ingiunzione, cumulando in sé le caratteristiche di forma
ed efficacia di titolo esecutivo e di precetto, si traduce in una
opposizione di merito all’esecuzione, con cui il privato può far valere
tutte le eccezioni e contestazioni relative al credito azionato dalla P.A.,
senza preclusioni legate all’epoca della formazione del titolo, stante
l’origine stragiudiziale dello stesso».
11.1. Giova al proposito ricordare come la nozione di atti paritari venga in
considerazione allorché l'amministrazione, tenuta per legge a far fronte ad
un obbligo in ragione di un rapporto di diritto pubblico avente natura
patrimoniale, si veda attribuito -da una legge, appunto, o da altra fonte
normativa- il potere di definire unilateralmente detto rapporto e, quindi,
di determinare essa stessa l'entità dei propri obblighi e dei correlativi
diritti (tipico è il caso della determinazione di stipendi, assegni,
emolumenti, etc.), in base ad una mera attività accertativa. Tali atti non
possono essere ricompresi, a rigore, tra i provvedimenti amministrativi,
poiché in tale ambito l'amministrazione non esercita un potere di supremazia
nei confronti del privato, bensì utilizza strumenti del diritto civile che
la pongono sullo stesso piano della controparte.
12. Che questa sia la natura delle ingiunzioni di pagamento riferite a tale
tipologia di credito, trova conferma di recente finanche in una pronuncia
dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato ( cfr. Cons. Stato, A.P.,
30.08.2018, n. 12), ancorché con riferimento alla tematica
dell’esercizio dell’autotutela e della conseguente necessità di tutelare
l’affidamento delle parti. Si è così riconosciuto che la rideterminazione
degli oneri concessori costituisce espressione di una legittima facoltà
della P.A. che si colloca nell’ambito del rapporto paritetico di natura
creditizia conseguente al rilascio del titolo edilizio a carattere oneroso,
ed è perciò sottoposto nelle sue forme di esercizio al termine
prescrizionale ordinario. Ciò non può non valere, aggiunge il Collegio, per
la loro determinazione originaria.
13. In sintesi, e senza addentrarsi in dissertazioni circa la natura del
titolo edilizio (per le quali si rinvia ancora a Cons. Stato, A.P., n. 12/2018)
la pubblica amministrazione, nel corso del rapporto che si instaura a
seguito dell’avvenuto rilascio dello stesso, può sempre rideterminare, sia a
favore che a sfavore del privato, l’importo del correlato tale contributo,
pur se in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a
questi la differenza, purché nell’ordinario termine di prescrizione
decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio,
senza incorrere in alcuna decadenza. Per parte sua il privato non è tenuto
ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza,
potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione
esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo
termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento. Il che è
quanto accaduto nel caso di specie non appena le parti sono venute a
conoscenza della pretesa (impugnativa della nota del 14.09.1993), nonché
dell’avvenuta inclusione nella stessa di sanzioni ed interessi, in sede di
prima comunicazione solo paventati
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 21.10.2019 n. 7119 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli oneri concessori conseguono al rilascio del titolo edilizio e
trovano la loro causa nello stesso, tanto da poter essere determinati o rideterminati nel termine prescrizionale di dieci anni. La
messa a conoscenza della loro entità non incide, pertanto, sulla loro
nascita, bensì più propriamente sulla loro esigibilità, nonché, per quanto
già detto, sulla decorrenza degli interessi e l’accertamento dell’illecito
ritardo.
La notifica, cioè, del provvedimento di quantificazione, mette la
controparte in condizione di onorare il debito, ma, diversamente da quanto
accade in ambito esclusivamente sanzionatorio, ove la tempestiva conoscenza
della condotta addebitata impatta anche sull’esercizio delle garanzie
difensive, non può certo travolgere la ragione della debenza, che resta
radicata nell’avvenuto rilascio del titolo edilizio.
---------------
18. Resta ora da scrutinare il motivo dell’appello principale incentrato sul
presunto vizio di notifica dell’atto con il quale, prima del diretto
coinvolgimento degli odierni appellanti, sarebbe stata indicata la somma
capitale dovuta a titolo di contributo concessorio alla richiedente la
sanatoria, signora Ma.Gr.Re..
18.1. Sostengono gli appellanti che il riferimento all’art. 139 c.p.c.
sarebbe errato in quanto nel caso di specie non è in contestazione tanto e
solo la qualifica di persona titolata alla ricezione degli atti di quella
che se ne è concretamente fatta carico; bensì l’erroneità dell’indirizzo ove
la notifica è stata effettuata.
19. Il motivo è fondato.
19.1. L’art. 139 c.p.c. considera regolarmente effettuata la notifica nel
luogo di residenza, dimora o domicilio del destinatario, avuto riguardo
all’avvenuta ricezione dell’atto da parte di soggetto, ivi rinvenuto, che ne
accetti la consegna, gravando sul destinatario l’onere di provare
l’inesistenza del rapporto in forza del quale deve ulteriormente presumersi
che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto. Ciò è quanto
sarebbe avvenuto nel caso di specie, essendo stato l’atto consegnato a mano
di tal signora An.Co., indicata come “addetta” nella prevista relata di notifica.
Ora, anche a prescindere dall’ambiguità della richiamata dizione “addetta” e
volendo riconoscere a tale infelice espressione di sintesi la corretta
accezione di “persona autoqualificatasi deputata alla ricezione degli
atti”, resta il tema del luogo ove è in concreto avvenuta tale affermazione
propositiva. Ove, infatti, la consegna fosse avvenuta effettivamente nel
luogo di residenza, domicilio o dimora della consegnataria, correttamente
dovrebbero trovare applicazione le ricordate regole sull’onere probatorio di
sconfessare la caratteristica di persona titolata al ritiro degli atti di
chi si qualifichi tale. Solo che nel caso di specie così non è accaduto e
per quanto la differenza di un solo numero civico abbia evidentemente
indotto il TAR a pretermettere l’eccepita circostanza essa non consente
di identificare l’indirizzo legale, diverso e ubicato al civico 44, con
quello di consegna del documento, relativo alla medesima via ... , ma
al civico 42.
19.2 Afferma al riguardo il Comune appellato che tale apparente errore
sarebbe da ascrivere ad un’opzione della stessa richiedente il condono che
avrebbe indicato il civico 42 quale proprio domicilio nella relativa
istanza. Ove ciò fosse stato provato, rileva la Sezione, si sarebbe potuto
ipotizzare un legittimo affidamento dell’Amministrazione procedente sulla
correttezza del dato utilizzato, in un’ottica di leale collaborazione che
comunque deve improntare il rapporto tra le parti.
Ma nel caso di specie l’indirizzo assunto quale residenza o domicilio della
parte è semplicemente quello indicato per individuare l’ubicazione del
manufatto oggetto di condono, al più correlabile all’interessata in termini
di domicilio avuto riguardo alla sua veste di presunta committente dei
lavori abusivi, non una volta ultimati gli stessi (il che peraltro,
trattandosi di condono, era già avvenuto al momento della presentazione
della relativa istanza).
19.3. A fronte, dunque, della mancata prova -il cui onere incombeva
sull’amministrazione procedente- della corretta individuazione del domicilio
della richiedente il condono, anagraficamente residente in un immobile a
confine, ma non coincidente, non può operare la presunzione invocata dal
TAR per la Toscana ai fini della ritenuta validità della consegna
dell’atto ad una sedicente “addetta” alla ricezione. Né a diverse
conclusioni può giungersi sul solo rilievo che al civico 42 della via ... insiste comunque un’attività imprenditoriale (la società Ma.
s.r.l) riconducibile a familiari dell’interessata, non potendo tale
circostanza consentire di sanare l’innegabile vizio formale della notifica,
in assenza di riscontro probatorio perfino sulla tipologia di rapporti
intercorrenti con i ridetti familiari, ovvero sulla frequentazione del luogo
da parte dell’interessata, comunque estranea all’attività imprenditoriale in
quanto di professione insegnante.
20. La ritenuta invalidità della notifica, tuttavia, rileva la Sezione, non
pone un problema di rivalutazione della legittimità della richiesta
creditoria nella sua globalità.
20.1. Ritiene cioè il Collegio che -così come essa non può palesarsi neutra
in relazione al computo di interessi e sanzioni, la cui stessa maturazione è
correlata necessariamente alla conoscenza dell’importo dovuto e al suo
mancato pagamento nei termini- lo stesso non può valere con riferimento alla
somma capitale.
Come chiarito ai §§ 7 e 8, gli oneri concessori conseguono al rilascio del
titolo edilizio e trovano la loro causa nello stesso, tanto da poter essere
determinati o rideterminati nel termine prescrizionale di dieci anni. La
messa a conoscenza della loro entità non incide, pertanto, sulla loro
nascita, bensì più propriamente sulla loro esigibilità, nonché, per quanto
già detto, sulla decorrenza degli interessi e l’accertamento dell’illecito
ritardo. La notifica, cioè, del provvedimento di quantificazione, mette la
controparte in condizione di onorare il debito, ma, diversamente da quanto
accade in ambito esclusivamente sanzionatorio, ove la tempestiva conoscenza
della condotta addebitata impatta anche sull’esercizio delle garanzie
difensive, non può certo travolgere la ragione della debenza, che resta
radicata nell’avvenuto rilascio del titolo edilizio.
22. Trasponendo il paradigma teorico sopra descritto nella concretezza della
fattispecie all’esame, si ha dunque che la determinazione dell’importo
dovuto, in quanto correlato alla pratica di condono del 1986, è stata
effettuata con nota del 1989, della quale tuttavia non è stata provata la
conoscenza da parte della richiedente, peraltro deceduta di lì a pochi mesi.
L’importo è stato nuovamente comunicato agli eredi con nota del 14.09.1993, ed è indubbio che a far data da tale momento gli stessi, subentrati
nella proprietà dell’immobile condonato, hanno acquisito piena contezza
della somma capitale dovuta. Per contro, suddetta pregressa mancata
conoscenza -rectius, la mancata prova dell’avvenuta conoscenza- dell’importo
delle somme dovute, travolge inesorabilmente finanche l’ipotizzata
responsabilità da ritardo della signora Ma.Gr.Re., da circoscrivere
peraltro tutt’al più al breve lasso di tempo intercorso tra la consegna
dell’atto (01.03.1989) e il sopravvenuto decesso (13.07.1990). La non
trasmissibilità agli eredi -il signor Gi.Re., a sua volta deceduto
prima dell’instaurazione dell’odierno contenzioso- ha pertanto già creato un
insanabile iato che non consentiva di attingere le odierne appellanti,
quanto meno in relazione a sanzioni ed interessi moratori.
22.1. Ancor prima dell’ingiunzione di pagamento, che dà avvio alla fase
esecutiva del credito, avuta conoscenza del debito “ereditato” una delle
parti ha provveduto a saldarne, pur con riserva di ripetizione, l’importo
capitale, con ciò eliminando in radice, a far data da tale momento, la
possibilità di addebitare alle parti nuovi ritardi, ovvero ulteriori
comportamenti sanzionabili.
22.2. A ciò consegue, rileva la Sezione, la sola residua facoltà per
l’Amministrazione procedente, ove ne ravvisi gli estremi, di rieditare il
proprio potere correggendo il computo degli interessi moratori sulla sola
somma capitale (essendo ormai prescritto l’eventuale autonomo illecito
ritardo addebitabile alle parti a far data dall’avvenuta conoscenza della
somma dovuta, con atto mai sospeso dai giudici adìti) per il lasso di tempo
intercorso tra la ricezione della nota del 14.09.1993 e il suo
avvenuto pagamento.
23. In conclusione, il Collegio ritiene fondata la richiesta del Comune in
relazione alla somma capitale per gli oneri concessori correlati all’istanza
di condono del 29.03.1986, peraltro già corrisposta, pertanto non
ripetibile; ma non quella concernente gli importi sanzionatori e moratori
addebitati agli eredi della -presunta- responsabile del ritardo a decorrere
dal 1989, fatta salva la facoltà di ricalcolo degli interessi moratori a far
data dal 14.09.1993, corrispondente all’effettiva messa a conoscenza
dell’entità del credito mediante notifica dell’apposita nota agli
appellanti. Conseguentemente risultano annullati tutti gli atti con i quali
si è dato seguito a tale parte della pretesa, con particolare riguardo
all’ingiunzione emessa in relazione a sanzioni e interessi di mora non
corrisposti per il lasso di tempo come sopra individuato.
24. Per tutto quanto detto, il Collegio ritiene di dover respingere
l’appello incidentale, confermando in parte qua l’impugnata sentenza, con le
integrazioni sopra esposte; accogliere in parte l’appello principale nei
sensi e limiti di cui in motivazione, con conseguente annullamento
dell’ingiunzione di pagamento prot. n. 33940 in data 08.05.1997, ferma
restando la richiamata facoltà del Comune appellato di rideterminarsi sugli
interessi moratori
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 21.10.2019 n. 7119 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In merito al calcolo del costo di costruzione il Collegio si conforma alla
giurisprudenza di questa Sezione, che condivide quanto affermato dal Consiglio di Stato, in forza delle quali continua a
trovare applicazione, nella Regione Lombardia, il decreto del Ministro per i
lavori pubblici del 10.05.1977, adottato in attuazione dell’art. 6 della
legge 10/1977, per il quale il costo si calcola sulla base della superficie
complessiva (Sc), pari alla somma della superficie utile (Su) e del 60%
della superficie non residenziale per servizi e accessori (Snr), con gli
incrementi previsti dal decreto in relazione alle classi di edifici.
Secondo l’art. 2 del DM 10.05.1977 “Le superfici per
servizi ed accessori riguardano: a) cantinole, soffitte, locali motore
ascensore, cabine idriche, lavatoi comuni, centrali termiche, ed altri
locali a stretto servizio delle residenze; b) autorimesse singole o
collettive; c) androni di ingresso e porticati liberi; d) logge e balconi”.
Per quanto riguarda tali servizi la giurisprudenza ha chiarito che “Dalla superficie non
residenziale devono invece essere escluse le scale che sono una struttura
necessaria (ma non la "scala di servizio non prescritta da leggi o
regolamenti o imposta da necessità di prevenzione di infortuni o di incendi"
di cui al n. 2 dell'art. 7 del d.m. 1977)” ed il Comune di Milano ha, in
conformità a tale interpretazione, modificato la circolare che conteggiava
nella s.n.r. le “scale e pianerottoli” sostituendo a questi “le scale
di servizio, cioè aggiuntive alla principale non prescritte da leggi o
regolamenti o imposte dalla necessità di evitare infortuni o incendi e
locali di distribuzione orizzontale esterni alle unità immobiliari”.
---------------
1. In merito al primo motivo di ricorso, relativo al supposto errore
nel calcolo del costo di costruzione, e la connessa domanda di ricalcolo del
medesimo, occorre rilevare che la domanda di ricalcolo è stata presentata
dopo il provvedimento impugnato ed è stata ritenuta infondata in sede di
memorie difensive del Comune in quanto avrebbe escluso dal conto del costo
di costruzione anche i pianerottoli.
Il motivo è fondato.
In merito al calcolo del costo di costruzione il Collegio si conforma alla
giurisprudenza di questa Sezione (TAR Lombardia (MI), Sez. II, n. 1248, del
13.05.2014) che condivide quanto affermato dal Consiglio di Stato nelle due
pronunce n. 6160 e 6161 del 20.12.2013, in forza delle quali continua a
trovare applicazione, nella Regione Lombardia, il decreto del Ministro per i
lavori pubblici del 10.05.1977, adottato in attuazione dell’art. 6 della
legge 10/1977, per il quale il costo si calcola sulla base della superficie
complessiva (Sc), pari alla somma della superficie utile (Su) e del 60%
della superficie non residenziale per servizi e accessori (Snr), con gli
incrementi previsti dal decreto in relazione alle classi di edifici.
Secondo l’art. 2 del Decreto ministeriale 10.05.1977 “Le superfici per
servizi ed accessori riguardano: a) cantinole, soffitte, locali motore
ascensore, cabine idriche, lavatoi comuni, centrali termiche, ed altri
locali a stretto servizio delle residenze; b) autorimesse singole o
collettive; c) androni di ingresso e porticati liberi; d) logge e balconi”
(in merito Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.11.2012 n. 6033).
Per quanto riguarda tali servizi la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez.
IV, 20/12/2013, n. 6161) ha chiarito che “Dalla superficie non
residenziale devono invece essere escluse le scale che sono una struttura
necessaria (ma non la "scala di servizio non prescritta da leggi o
regolamenti o imposta da necessità di prevenzione di infortuni o di incendi"
di cui al n. 2 dell'art. 7 del d.m. 1977)” ed il Comune di Milano ha, in
conformità a tale interpretazione, modificato la circolare che conteggiava
nella s.n.r. le “scale e pianerottoli” sostituendo a questi “le scale
di servizio, cioè aggiuntive alla principale non prescritte da leggi o
regolamenti o imposte dalla necessità di evitare infortuni o incendi e
locali di distribuzione orizzontale esterni alle unità immobiliari”.
Risulta chiaro quindi che, con la modificazione della circolare non solo
sono state espunte dal calcolo le scale che non siano di servizio, cioè
quelle necessarie, secondo l’interpretazione data dalla sentenza sopra
indicata, ma anche i pianerottoli, che prima erano inclusi nella s.n.r. e
poi non lo sono più, probabilmente perché sono stati ritenuti parte delle
scale. Poiché è lo stesso Comune ad aver equiparato, con la prima versione
della circolare, le scale ed i pianerottoli, vi è ragione per ritenere che
tale equiparazione valga anche dopo la modifica in quanto quest’ultima era
volta solo ad individuare solo le scale soggette o meno al conteggio e non
all’individuazione delle sue parti.
Ne deriva che il motivo va accolto con conseguente riconoscimento della non
debenza della somma di € 12.125,50
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.10.2018 n. 2198 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha chiarito che l’atto
con il quale l'Amministrazione comunale quantifica i contributi di
costruzione ha carattere puramente ricognitivo e contabile, in quanto l'ammontare
del credito è predeterminato sulla base di rigidi criteri di calcolo
definiti con atto regolamentare.
Anche dopo il rilascio della concessione edilizia, pertanto, il Comune può
provvedere al corretto riconteggio del contributo dovuto, a prescindere da
un'espressa riserva in tal senso, in quanto il credito esiste
indipendentemente dall'atto contabile che lo quantifica: la rettifica è
pertanto consentita ogni qual volta sia ravvisabile un errore, dovuto a
qualsiasi ragione, nella liquidazione o nel calcolo del contributo
concessorio.
Poiché la
rettifica dell’ammontare del contributo è sempre consentita, perché
l’applicazione di una tariffa diversa da quella corretta altro non è che un
errore di calcolo, essa è sottratta alle regole dell’autotutela
amministrativa.
---------------
2. Il secondo motivo di ricorso, incentrato sulla mancata
comunicazione di avvio del procedimento di rettifica del contributo
autoliquidato, è infondato.
Infatti la giurisprudenza a cui si conforma il Collegio ha chiarito che
l’atto con il quale l'Amministrazione comunale quantifica i contributi in
esame ha carattere puramente ricognitivo e contabile, in quanto l'ammontare
del credito è predeterminato sulla base di rigidi criteri di calcolo
definiti con atto regolamentare.
Anche dopo il rilascio della concessione edilizia, pertanto, il Comune può
provvedere al corretto riconteggio del contributo dovuto, a prescindere da
un'espressa riserva in tal senso, in quanto il credito esiste
indipendentemente dall'atto contabile che lo quantifica: la rettifica è
pertanto consentita ogni qual volta sia ravvisabile un errore, dovuto a
qualsiasi ragione, nella liquidazione o nel calcolo del contributo
concessorio (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 16.06.2011 n. 1042). Poiché la
rettifica dell’ammontare del contributo è sempre consentita, perché
l’applicazione di una tariffa diversa da quella corretta altro non è che un
errore di calcolo, essa è sottratta alle regole dell’autotutela
amministrativa (cfr. in particolare, Cons. Stato, sez. IV, 27.09.2017, n.
4515; Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2017, n. 2821).
Il motivo va quindi respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.10.2018 n. 2198 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Occorre
ben distinguere tra oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
Si afferma, infatti, in sede pretoria che per stabilire in quali
casi sussiste l'obbligo di versamento del contributo di costruzione, occorre
distinguere fra importi dovuti a titolo di oneri di urbanizzazione ed
importi dovuti a titolo di costo di costruzione.
Per quanto riguarda specificamente i primi, si ritiene che,
poiché la loro funzione è quella di far sì che il costruttore partecipi ai
costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici
che la costruzione ne ritrae, essi vanno corrisposti solo nel caso in cui
l'intervento determini un aumento del carico urbanistico, e cioè determini
la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione ovvero
l'esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti.
Nel sistema vigente il contributo per oneri di urbanizzazione è
infatti un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle
opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la
nuova costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla
zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla
concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo
edificatorio e dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la
realizzazione delle opere stesse; tali oneri sono pertanto dovuti anche al
di là di un nesso di stretta inerenza delle opere di urbanizzazione rispetto
alle singole aree.
Il costo di costruzione, invece, essendo una percentuale
rapportata non ad opere da fare per la collettività ma ai costi di
costruzione per tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono
suscettibili di entrare nel meccanismo dello scomputo, che è appunto
disciplinato da detta norma della convenzione.
---------------
II.2. Con il terzo mezzo, parte ricorrente evidenzia che l’intervento
avrebbe ad oggetto, tra l’altro, la realizzazione di interventi di edilizia
residenziale sociale, con conseguente diritto all’esonero dal contributo
di costruzione a norma dell’art. 17 d.P.R. n. 380/2001, il cui primo
comma prevede che “Nei casi di edilizia abitativa convenzionata, relativa
anche ad edifici esistenti, il contributo afferente al permesso di costruire
è ridotto alla sola quota degli oneri di urbanizzazione qualora il titolare
del permesso si impegni, a mezzo di una convenzione con il comune, ad
applicare prezzi di vendita e canoni di locazione determinati ai sensi della
convenzione-tipo prevista dall'articolo 18”.
Si afferma così in giurisprudenza che “L'unico presupposto richiesto
dall'art. 17, D.P.R. n. 380 citato, invero, è la realizzazione di alloggi e
l'impegno a venderli a prezzi agevolati, previa sottoscrizione di apposita
convenzione con il Comune” (cfr. Cons. Giust. Amm. Sic., 21.12.2015, n.
713).
Parte ricorrente ha fornito dimostrazione del presupposto costitutivo del
diritto, avendo versato in atti la convenzione Rep. n. 3562 del 24.01.2012,
stipulata dalle società Or. 85 S.c.a.r.l. e dalla Società Ga. S.r.l. con il
Comune di Pontecagnano, i cui artt. 2, 3 e 5 prevedono l’impegno della
ricorrente a realizzare intervento di edilizia residenziale sociale per “una
quota non inferiore al 30% dell’edificato residenziale assentito”, pari
a n. 33 alloggi con prezzo di trasferimento che “dovrà essere determinato
nel rispetto della disciplina in tema di edilizia sociale” (cfr. art.
5.5. della citata convenzione).
Occorre ben distinguere tra oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione.
Si afferma, infatti, in sede pretoria (TAR Milano-Lombardia, sez. II,
04.08.2016, n. 1561) che per stabilire in quali casi sussiste l'obbligo di
versamento del contributo di costruzione, occorre distinguere fra importi
dovuti a titolo di oneri di urbanizzazione ed importi dovuti a titolo
di costo di costruzione.
Per quanto riguarda specificamente i primi, si ritiene che, poiché la
loro funzione è quella di far sì che il costruttore partecipi ai costi delle
opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la
costruzione ne ritrae, essi vanno corrisposti solo nel caso in cui
l'intervento determini un aumento del carico urbanistico, e cioè determini
la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione ovvero
l'esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti.
Nel sistema vigente il contributo per oneri di urbanizzazione è infatti un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico
del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona
interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla
concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo
edificatorio e dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la
realizzazione delle opere stesse; tali oneri sono pertanto dovuti anche al
di là di un nesso di stretta inerenza delle opere di urbanizzazione rispetto
alle singole aree.
Il costo di costruzione, invece, essendo una percentuale rapportata non ad opere da
fare per la collettività ma ai costi di costruzione per tipologia edilizia,
adeguati annualmente, non sono suscettibili di entrare nel meccanismo dello
scomputo, che è appunto disciplinato da detta norma della convenzione.
Or dunque, va sottolineato che parte resistente, nelle sue articolazioni
difensive non ha contestato la effettiva realizzazione degli alloggi secondo
quanto previsto in progetto nella percentuale prevista per l’edilizia
residenziale pubblica, circostanza che quindi va reputata processualmente
acquisita e destinata ad integrare, unitamente al visto impegno
convenzionale, il presupposto costituivo del diritto, in questa sede
azionato, all’esenzione dal pagamento del costo di costruzione.
Tanto è sufficiente, risultando recessiva ogni deduzione
afferente all’adeguatezza motivazionale dell’atto impugnato, per
l’accoglimento del motivo in esame (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 31.01.2017 n. 179
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
|
Dichiarazione di incostituzionalità di una norma e relativi effetti sugli
atti amministrativi adottati:
ne davamo conto con l'AGGIORNAMENTO
AL 31.12.2021 e, di seguito, riportiamo ulteriori contributi al
riguardo. |
ATTI AMMINISTRATIVI: R.
Musone,
Nuove tendenze nel regime di invalidità dell’atto amministrativo
incostituzionale - Nota a TAR Veneto, Sez. I, 22.07.2019 n. 890 (27.02.2020
- link a www.filodiritto.com).
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Abstract
Il presente contributo trae spunto da una recente sentenza del TAR veneto
per analizzare il nuovo orientamento giurisprudenziale che propende per la
nullità dell’atto amministrativo applicativo di una norma di legge
attributiva del potere sulla quale sia sopraggiunta la dichiarazione di
incostituzionalità, distaccandosi dalla posizione tradizionale favorevole
all'illegittimità senza distinguere tra norma attributiva e norma regolativa
del potere e risalente all'Adunanza Plenaria n. 8/1963.
La pronuncia in commento, rappresentando solo l’ultima di una serie di
arresti fortemente innovativi in tema del regime di invalidità dell’atto
amministrativo applicativo di una norma di legge attributiva del potere e
successivamente oggetto di declaratoria di incostituzionalità, offre uno
spunto interessante per valutare l’ampiezza della svolta intervenuta sul
punto.
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Indice: 1. L’orientamento tradizionale - 2. Il nuovo indirizzo - 3.
Conclusioni. |
ATTI AMMINISTRATIVI: È
annullabile l’atto amministrativo adottato sulla base di una legge
incostituzionale.
L’orientamento prevalente della giurisprudenza
amministrativa ritiene che l’atto amministrativo adottato sulla base di una
legge incostituzionale deve ritenersi annullabile.
---------------
1.− La società Me.Ag. ha chiesto la riforma della sentenza, in epigrafe
indicata, con la quale il Tribunale amministrativo del Lazio ha respinto il
ricorso proposto avverso il provvedimento del 20.09.2012 del Gestore dei
servizi energetici (Gse), di decadenza dal diritto alle tariffe incentivanti
previste dal decreto ministeriale 05.05.2011, il provvedimento del
22.10.2012, con cui il Gse ha dichiarato la decadenza per un periodo di
dieci anni della società ricorrente e del suo legale rappresentante dagli
incentivi previsti per le energie rinnovabili, e il suddetto decreto
ministeriale nella parte in cui attribuisce al Gestore la competenza a
verificare la fine dei lavori sotto il profilo strutturale.
2.− La Sezione, con sentenza parziale 04.07.2014, n. 3411, ha ritenuto
infondato l’appello proposto dalla società Megasolare per la parte relativa
alla contestazione della mancata ultimazione dei lavori e del conseguente
provvedimento in data 20.09.2012, di decadenza dagli incentivi di cui al
decreto ministeriale 05.05.2011.
3.− La stessa Sezione, con ordinanza n. 4352 del 2014, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell'art. 43, comma 1, del decreto
legislativo 03.03.2011, n. 28 (Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla
promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, recante modifica e
successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE), in
riferimento agli artt. 3, 25, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, in
relazione (quest'ultimo) anche all'art. 7 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a
Roma il 04.11.1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 04.08.1955, n.
848.
In particolare, si è ritenuta pregiudiziale tale questione al fine di
valutare la fondatezza dell’appello del GSE. In attesa della sentenza della
Corte il giudizio è rimasto sospeso.
4.− La Corte costituzionale, con sentenza n. 51 del 2017, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale della suddetta norma per violazione dell’art.
76 Cost., non essendosi il legislatore delegato, mediante l’introduzione di
una misura interdittiva, mantenuto entro il perimetro della legge delega la
quale ha previsto unicamente il potere di irrogare sanzioni penali o
amministrative pecuniarie.
5.− La causa, dopo la pubblicazione della predetta sentenza, è stata decisa
all’esito dell’udienza pubblica del 14.12.2017.
6.− L’appello è fondato.
La Corte costituzionale, con la citata sentenza, ha ritenuto illegittima la
norma attributiva del potere di applicazione della sanzione interdittiva.
L’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa ritiene che
l’atto amministrativo adottato sulla base di una legge incostituzionale deve
ritenersi annullabile (Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2014, n. 4624. Questa
Sezione, con riferimento al contenzioso in esame, ha già avuto modo di
affermare che «sebbene il giudizio di costituzionalità afferisca alla
legge, esso spiega effetti anche sui provvedimenti amministrativi attuativi
della fonte primaria dichiarata non conforme alla costituzione che siano
stati impugnati nel giudizio a quo, trattandosi infatti di una particolare
ipotesi di invalidità derivata dell’atto» (Cons. Stato, sez. VI,
13.02.2018, n. 935). Nel caso di specie tale vizio è stato oltretutto
fatto ritualmente valere con uno specifico motivo di ricorso che, pertanto,
non può che trovare accoglimento
Ne consegue che il provvedimento impugnato in primo grado deve essere
annullato perché adottato sulla base di una norma ritenuta in contrasto con
la Costituzione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.02.2018 n.
1064 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
base al combinato disposto dell'art. 136 della Costituzione e dell'art. 30
della legge 11.03.1953, n. 87, la pronuncia di illegittimità costituzionale
di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes
ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che essa possa essere
applicata ai rapporti, in relazione ai quali la norma dichiarata
incostituzionale risulti ancora rilevante, stante l'effetto retroattivo
dell'annullamento, escluso solo per i c.d. rapporti esauriti.
In particolare, nel caso in cui, sulla base di una norma poi dichiarata
incostituzionale, sia stato emanato un atto amministrativo, la declaratoria
di illegittimità non determina la caducazione automatica dell’atto
dell’autorità quanto, piuttosto, l’illegittimità o invalidità -sopravvenuta
per violazione della legge costituzionale- dello stesso che dovrà essere
rimosso, anche a seguito di rilievo ex officio, da un pronuncia del giudice
titolare del potere di annullamento (e, in particolare, del giudice a quo
che di tale potestà sia provvisto) o da un provvedimento adottato in via di
autotutela dall’Amministrazione.
Ciò in quanto non esiste tra legge e atto amministrativo un rapporto di
consequenzialità, essendo essi il risultato di differenti procedimenti
-indipendentemente dall’influenza che l’uno possa esercitare sull’altro- ed
espressione di differenti e autonome funzioni dello Stato.
Tuttavia, affinché il giudice possa procedere alla caducazione dell’atto
divenuto illegittimo a seguito di successiva declaratoria di illegittimità
costituzionale, è necessario che l’atto sia stato tempestivamente impugnato,
in quanto, seppure sia fuor di dubbio che la dichiarazione di illegittimità
costituzionale di un norma abbia rilevanza nei processi in corso, essa,
però, non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi, poiché la
retroattività degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità
incontra un limite negli effetti che la norma, ancorché successivamente
rimossa dall’ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora resi
intangibili dalla preclusione nascente o dall’esaurimento dello specifico
rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta dall’ordinamento
giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze ovvero, ancora,
dalla formazione del giudicato.
Questo perché, nel caso di sopravvenuta illegittimità costituzionale della
norma posta alla base del potere esercitato è necessario, sul piano
processuale, coordinare il principio della rilevabilità d'ufficio della
questione di costituzionalità con il principio della domanda che
caratterizza il processo amministrativo. La questione può essere rilevata
d'ufficio purché la parte abbia introdotto nel processo i fatti principali
su cui il giudice deve pronunciarsi.
In particolare, è necessario che il ricorrente abbia impugnato il
provvedimento amministrativo facendo valere, mediante la formulazione di
censure, la sua illegittimità per contrasto con la norma, senza che sia
necessario avere anche indicato, tra i motivi, l'illegittimità
costituzionale della norma.
---------------
Con un secondo ricorso per motivi aggiunti, notificato via pec in
data 01/04/2016 e depositato 04.04.2016, il Comune ricorrente esponeva in
fatto:
- di aver rinvenuto nuova documentazione depositata dal Commissario
resistente in data 02/03/2016 e successivamente integrata;
- che, nelle more, era intervenuta sentenza della Corte
Costituzionale n. 7/2016, con la quale era stata dichiarata l’illegittimità
costituzionale dei commi 2, 4, 10-bis e 11 dell’art. 1 del d.l. 133/2014
conv. in l. 164/2014 ovvero delle disposizioni in forza delle quali erano
stati adottati gli atti impugnati, che erano, perciò, da ritenersi
illegittimi.
Sulla base di queste premesse, il Comune ricorrente articolava le seguenti
censure in diritto:
VII. Illegittimità derivata per sopravvenuta dichiarazione di
incostituzionalità in quanto a seguito della declaratoria di
incostituzionalità dell’art. 1, commi 2, 4, 10-bis e 11 del d.l. 133/2014 conv. in l. 164/2014 gli atti impugnati sarebbero divenuti illegittimi per
un ulteriore profilo, rappresentato dalla caducazione per illegittimità
della norma attributiva del potere;
VIII. Illegittimità dell’ordinanza n. 18 del 05/11/2015 per
l’avvenuta caducazione, in forza della sentenza della Corte Costituzionale
n. 7/2016 della norma attributiva del potere dell’organo commissariale che
l’ha adottata.
...
Il secondo ricorso per motivi aggiunti va, invece dichiarato
irricevibile per tardività.
Con esso il Comune ricorrente intende far valere l’illegittimità degli atti
già impugnati con il ricorso principale e con il primo ricorso per motivi
aggiunti, nonché –seppure questo dato non emerga chiaramente dall’epigrafe
del ricorso (cfr. originale e copie in atti)- dell’ordinanza commissariale
n. 18 del 05.11.2015, con la quale è stata -tra l’altro- indetta la
conferenza di servizi del 17/11/2015, svoltasi con la partecipazione del
Comune ricorrente, in conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale
21.01.2016 n. 7.
Con la pronuncia testé richiamata è stata dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 1, commi 2, 4, 10-bis e 11 dell’art. 1 del d.l.
133/2014 conv. in l. 164/2014 nella parte in cui non prevede,
rispettivamente:
a) che l’approvazione dei relativi progetti avvenga d’intesa con la
Regione interessata (commi 2 e 4);
b) che l’approvazione del Piano di ammodernamento
dell’infrastruttura ferroviaria avvenga d’intesa con la Conferenza
Stato-Regioni (comma 10-bis);
c) che sia sentito il parere della Regione sui contratti di
programma tra l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (ENAC e i gestori
degli scali aeroportuali di interesse nazionale.
Il Collegio osserva, al riguardo, che, in base al combinato disposto
dell'art. 136 della Costituzione e dell'art. 30 della legge 11.03.1953, n.
87, la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge
determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed impedisce,
dopo la pubblicazione della sentenza, che essa possa essere applicata ai
rapporti, in relazione ai quali la norma dichiarata incostituzionale risulti
ancora rilevante, stante l'effetto retroattivo dell'annullamento, escluso
solo per i c.d. rapporti esauriti (Cons. Stato, sez. V, 11.01.2013 n. 110;
Cons. Stato, sez. III, 14.03.2012, n. 1429; Cass. civ., 06.05.2010, n.
10958).
In particolare, nel caso in cui, sulla base di una norma poi dichiarata
incostituzionale, sia stato emanato –come nel caso di specie- un atto
amministrativo la declaratoria di illegittimità non determina la caducazione
automatica dell’atto dell’autorità (cfr. Cons. Stato, 03.11.2015, sez. IV,
n. 5012; v., però, contra Cons. Stato, sez. V, 11.01.2013 n. 110)
quanto, piuttosto, l’illegittimità o invalidità -sopravvenuta per violazione
della legge costituzionale- dello stesso che dovrà essere rimosso, anche a
seguito di rilievo ex officio, da un pronuncia del giudice titolare
del potere di annullamento (e, in particolare, del giudice a quo che
di tale potestà sia provvisto) o da un provvedimento adottato in via di
autotutela dall’Amministrazione (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 08.04.1963, n.
8). Ciò in quanto non esiste tra legge e atto amministrativo un rapporto di
consequenzialità, essendo essi il risultato di differenti procedimenti
-indipendentemente dall’influenza che l’uno possa esercitare sull’altro- ed
espressione di differenti e autonome funzioni dello Stato.
Tuttavia, affinché il giudice possa procedere alla caducazione dell’atto
divenuto illegittimo a seguito di successiva declaratoria di illegittimità
costituzionale, è necessario che l’atto sia stato tempestivamente impugnato,
in quanto, seppure sia fuor di dubbio che la dichiarazione di illegittimità
costituzionale di un norma abbia rilevanza nei processi in corso, essa,
però, non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi, poiché la
retroattività degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità
incontra un limite negli effetti che la norma, ancorché successivamente
rimossa dall’ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora resi
intangibili dalla preclusione nascente o dall’esaurimento dello specifico
rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta dall’ordinamento
giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze ovvero, ancora,
dalla formazione del giudicato (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2011 n. 5012).
Questo perché, nel caso di sopravvenuta illegittimità costituzionale della
norma posta alla base del potere esercitato è necessario, sul piano
processuale, coordinare il principio della rilevabilità d'ufficio della
questione di costituzionalità con il principio della domanda che
caratterizza il processo amministrativo. La questione può essere rilevata
d'ufficio purché la parte abbia introdotto nel processo i fatti principali
su cui il giudice deve pronunciarsi.
In particolare, è necessario che il ricorrente abbia impugnato il
provvedimento amministrativo facendo valere, mediante la formulazione di
censure, la sua illegittimità per contrasto con la norma, senza che sia
necessario avere anche indicato, tra i motivi, l'illegittimità
costituzionale della norma (Cons. Stato, 03.11.2015, sez. IV, n. 5012)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 08.06.2016 n. 2898 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ESPROPRIAZIONE: La
dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma rileva anche nei
processi in corso, ma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi.
Ciò perché la retroattività degli effetti della dichiarazione di
incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la stessa, ancorché
successivamente rimossa dall'ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto
qualora resi intangibili dalla preclusione nascente o dall'esaurimento dello
specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta
dall'ordinamento giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze
ovvero, ancora, dalla formazione del giudicato0
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5. Restano da esaminare: la questione della sopravvenuta declaratoria di
incostituzionalità dell’art. 43 del dPR n. 327/2001; la questione della
asserita inadeguatezza/irrisorietà della somma offerta in relazione al
valore intrinseco del bene, (il Consiglio di Stato, nella sentenza n.
3509/2009, confermativa di quella di ottemperanza 2160/2003 fece presente che
le relative questioni dovevano essere “esaminate dal Giudice di primo
grado, già peraltro adito dalle ricorrenti sia con ricorso di cognizione che
con ricorso in ottemperanza.”) ferma restando la esclusione
dell’ammissibilità dell’ulteriore petitum su danni morali etc., che
come chiarito prima è inammissibile; parimenti dovranno essere scrutinati i
motivi di censura in punto di “vizi” propri della determinazione del
Comune.
5.1.La censura afferente le pretese conseguenze della sopravvenuta
declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del dPR n. 327/2001 (che in
tesi avrebbe travolto il provvedimento comunale, in quanto sebbene
antecedentemente reso era ancora sub judice) ed i motivi di censura
relativi ai supposti “vizi” propri della determinazione del Comune,
sono connesse, e postulano la risoluzione di una problematica comune a
monte.
5.1.1. Essa può così essere sintetizzata: la determinazione comunale di
accedere allo strumento ex art. 43 del TU Espropriazione, integra atto
amministrativo “libero”, o costituisce ottemperanza alla regiudicata
sentenza n. 2160/2003?
5.2. Come accennato nella parte in fatto, il Tar ha prescelto la seconda
opzione ermeneutica (e coerentemente con tale opzione ne ha fatto discendere
le statuizioni processuali prima esaminate) .
Ha poi citato (in punto di conseguenze della sopravvenuta declaratoria di
incostituzionalità della norma “fondante” il potere esercitato
dall’amministrazione comunale) il principio per cui la dichiarazione di
illegittimità costituzionale di una norma rileva anche nei processi in corso
ma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi in ragione della
preclusione nascente dalla formazione del giudicato.
Ciò in quanto, “l’atto di acquisizione vede il proprio autonomo titolo
giuridico nella decisione del giudice amministrativo, di cui costituisce una
mera appendice pur con gli effetti costitutivi del diritto di proprietà sul
bene; pertanto, la disciplina del caso concreto trova in simili situazioni
la sua conclusiva e irreversibile definizione nel giudicato avente ad
oggetto l’esclusione della restituzione del bene al privato, i cui effetti
resistono di conseguenza alla sopraggiunta dichiarazione di
incostituzionalità della norma ivi applicata.”.
5.3. Parte appellante contesta detto approdo,ma il Collegio non condivide
tali critiche.
5.3.1. Ed invero, il Tar si è correttamente conformato alla giurisprudenza
amministrativa costante sul punto.
In particolare, nella decisione citata dalla stesso Tar, che il Collegio
condivide integralmente (Cons. giust. amm. Reg. Sic. 19.05.2011 n. 369) è
stata funditus esplorata la questione (la fattispecie ivi scrutinata
è, anche sotto il profilo della tempistica, sovrapponibile a quella in
esame).
Ivi è stato affermato che (punti 18 e 19) “18. - Le ultime considerazioni
introducono all'esame della domanda di restituzione dell'area, avanzata
nuovamente sul presupposto della recente sentenza della Corte costituzionale
n. 293/2010.
La domanda è infondata. Ed invero, la citata pronuncia recante la
dichiarazione di incostituzionalità del predetto art. 43 del D.P.R. n.
327/2001 è intervenuta in epoca successiva alla formazione del giudicato
sulle statuizioni recate dalla decisione non definitiva n. 710 del 2007.
Come sopra accennato, in detta sentenza questo Consiglio ha riconosciuto
soltanto in linea teorica la sussistenza del diritto della ricorrente alla
restituzione del bene, ma in concreto ha poi respinto, facendo salvi
unicamente i profili risarcitori, la domanda di annullamento del
provvedimento comunale di acquisizione sanante.
Si attaglia, pertanto, al caso in esame il consolidato principio (tra i
molti precedenti, si veda la pronuncia del Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2008,
n. 2724) secondo il quale la dichiarazione di illegittimità costituzionale
di una norma rileva anche nei processi in corso, ma non incide sugli effetti
irreversibili già prodottisi.
Ciò perché la retroattività degli effetti della dichiarazione di
incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la stessa, ancorché
successivamente rimossa dall'ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto
qualora resi intangibili dalla preclusione nascente o dall'esaurimento dello
specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta
dall'ordinamento giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze
ovvero, ancora, dalla formazione del giudicato.
Quest'ultima è l'ipotesi ricorrente nel caso che occupa il Collegio, giacché
gli effetti giuridici, ormai irreversibilmente prodottisi, sono per
l'appunto consistiti nella perdita, da parte della ricorrente, di ogni
diritto alla restituzione del bene, essendosi formato il giudicato in ordine
al riconoscimento in capo alla professoressa Ro. di un diritto di credito di
natura risarcitoria, a nulla rilevando che il presente giudizio prosegua per
la stima del quantum ad Ella spettante.
19. - Il rigetto della domanda di restituzione travolge anche la successiva
istanza di nomina di un commissario ad acta: ed invero, atteso quanto testé
chiarito, non dovendosi restituire alcunché alla ricorrente e non dovendosi
compiere alcuna attività provvedimentale di natura sostitutiva e con
finalità esecutive, residua unicamente il problema della esatta
quantificazione del risarcimento dovuto alla professoressa Ro., ma a tali
fini il Collegio non ha bisogno di avvalersi di un commissario ad acta,
apparendo indispensabile soltanto un accertamento (già in corso) tipicamente
riservato alla cognizione giurisdizionale (e, come tale, non delegabile ad
un commissario ad acta).”.
5.3.2. Il principio di diritto al quale conformarsi –a parere del Collegio
corretto e pienamente condivisibile– è quindi il seguente: "la
dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma rileva anche nei
processi in corso, ma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi.
Ciò perché la retroattività degli effetti della dichiarazione di
incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la stessa, ancorché
successivamente rimossa dall'ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto
qualora resi intangibili dalla preclusione nascente o dall'esaurimento dello
specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta
dall'ordinamento giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze
ovvero, ancora, dalla formazione del giudicato”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.11.2015 n. 5012 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’atto
amministrativo adottato sulla base di una legge dichiarata incostituzionale
è annullabile.
La legge in contrasto con la Costituzione è, infatti, una legge invalida
ancorché efficace sino alla pubblicazione della sentenza della Corte
costituzionale che la dichiara illegittima.
Tale sentenza, producendo effetti retroattivi incidenti sui rapporti
pendenti, comporta che il provvedimento amministrativo viene privato,
anch’esso con effetti retroattivi, della sua base legale.
La conseguenza sarà sempre l’annullabilità e non la nullità dell’atto anche
nel caso in cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sia
l’unica attributiva del potere
(L. n. 241/1990).
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2.– Con un primo motivo si assume l’illegittimità della nota
del 22.02.2011, prot. n. 1297, con la quale l’Università ha
rigettato l’istanza presentata, in quanto l’art. 25 della legge 30.12.2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di
personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per
incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario) ha disposto
che l’art. 16 del decreto legislativo 30.12.1992, n. 503 (Norme per il
riordino del sistema previdenziale dei lavoratori pubblici e privati a norma
dell’art. 3 della legge 23.10.1992 n. 421), nella parte in cui consente
il trattamento in servizio per un biennio dopo il raggiungimento dell’età
pensionabile, non si applica ai professori e ricercatori universitari.
Nell’atto di appello si afferma che tale illegittimità sarebbe conseguenza
della asserita illegittimità costituzionale del suddetto art. 25 per
violazione degli articoli 3 e 97 della Costituzione, nonché per violazione
dell’art. 6 del Trattato dell’Unione europea e degli articoli 1 e seguenti
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Si afferma, inoltre, che,
pur non essendo stata tale questione posta nel giudizio di primo grado, la
stessa è proponibile per la prima volta in appello, venendo in rilievo, ai
sensi dell’art. 104 cod. proc. amm., una eccezione rilevabile d’ufficio.
Nella memoria depositata in vista dell’udienza pubblica l’appellante ha
rilevato che, nelle more di svolgimento del giudizio di appello, la Corte
costituzionale, con sentenza 09.05.2013, n. 83, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 della legge n. 240 del 2010. Ne
conseguirebbe che, in ragione della efficacia ex tunc della sentenza della
Corte, debba essere dichiarata l’illegittimità dell’atto impugnato. Si
aggiunge, infine, che, pur essendo stata l’appellante collocata a riposo dal
01.11.2013 e sia trascorso il termine del 01.11.2013 sino al
quale la stessa avrebbe potuto svolgere servizio presso l’Università,
manterrebbe un interesse sia morale sia risarcitorio all’accoglimento del
ricorso.
Il motivo è fondato.
L’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 503 del 1992 prevede che: «È in facoltà
dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di
permanere in servizio, con effetto dalla data di entrata in vigore della
legge 23.10.1992, n. 421, per un periodo massimo di un biennio oltre i
limiti di età per il collocamento a riposo per essi previsti. In tal caso è
data facoltà all’amministrazione, in base alle proprie esigenze
organizzative e funzionali, di trattenere in servizio il dipendente in
relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal dipendente
in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell’efficiente andamento
dei servizi».
L’art. 25 della legge n. 240 del 2010 stabiliva che: «L’art. 16 del decreto
legislativo 30.12.1992, n. 503 non si applica a professori e
ricercatori universitari. I provvedimenti adottati dalle università ai sensi
della predetta norma decadono alla data di entrata in vigore della presente
legge, ad eccezione di quelli che hanno già iniziato a produrre i loro
effetti».
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 83 del 2013, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale del suddetto art. 25 per violazione:
a)
dell’art. 3 Cost., in quanto «non è dato individuare ragioni idonee a
giustificare, per la sola categoria dei professori e ricercatori
universitari, l’esclusione dalla possibilità di avvalersi del trattenimento
in servizio» disciplinato dal suddetto art. 16, comma 1;
b) dell’art. 97 Cost., in quanto preclude un possibile impiego di «docenti in grado di dare
un positivo contributo per la particolare esperienza professionale acquisita
in determinati o specifici settori ed in funzione dell’efficiente andamento
dei servizi».
Chiarito ciò, si tratta di stabilire se sia possibile dichiarare
l’illegittimità di un atto amministrativo a seguito della dichiarazione di
illegittimità costituzionale della norma posta a base del potere esercitato
nel caso in cui la questione di costituzionalità non sia stata posta nel
giudizio di primo grado ma solo nel giudizio di appello.
Sul piano sostanziale, l’atto amministrativo adottato sulla base di una
legge dichiarata incostituzionale è annullabile. La legge in contrasto con
la Costituzione è, infatti, una legge invalida ancorché efficace sino alla
pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale che la dichiara
illegittima. Tale sentenza, producendo effetti retroattivi incidenti sui
rapporti pendenti, comporta che il provvedimento amministrativo viene
privato, anch’esso con effetti retroattivi, della sua base legale. La
conseguenza sarà sempre l’annullabilità e non la nullità dell’atto anche nel
caso in cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sia l’unica
attributiva del potere.
Sul piano processuale, deve essere coordinato il principio della rilevabilità d’ufficio della questione di costituzionalità con il principio
della domanda che caratterizza il processo amministrativo. La questione può
essere rilevata d’ufficio purché la parte abbia introdotto nel processo i
fatti principali su cui il giudice deve pronunciarsi. In particolare, è
necessario che il ricorrente abbia impugnato il provvedimento amministrativo
facendo valere, mediante la formulazione di censure, la sua illegittimità
per contrasto con la norma, senza che sia necessario avere anche indicato,
tra i motivi, l’illegittimità costituzionale della norma (in questo senso
Cons. Stato, Sez. IV, 18.06.2009, n. 4002).
Quando sussistono questi presupposti non è necessario che nel giudizio di
appello venga fatto valere il vizio sopravvenuto dell’atto impugnato in
primo grado mediante la proposizione di motivi aggiunti (Cons. Stato, Sez.
IV, 25.06.2013, n. 3449).
Nella fattispecie in esame risulta che la ricorrente in primo grado, odierna
appellante, ha impugnato la nota del 22.02.2011, prot. n. 1297,
deducendo il suo contrasto con l’art. 25 della legge n. 240 del 2010. La
circostanza che tra i motivi di ricorso non fosse stata prospettata anche
l’illegittimità costituzionale della suddetta norma, dedotta con memoria
soltanto in appello, non costituisce, alla luce di quanto esposto, ragione
di irrilevanza della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionale della
norma stessa.
In definitiva, il provvedimento impugnato deve essere annullato perché
adottato sulla base di una legge dichiarata costituzionalmente illegittima
nel corso del giudizio di appello
(Consiglio di Stato, Sez. ,
sentenza 11.09.2014 n. 4624 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Poiché,
in base al combinato disposto dell’art. 136 della Costituzione e dell’art.
30 della legge 11.03.1953, n. 87, la pronuncia di illegittimità
costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua
efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che
essa possa essere applicata ai rapporti, in relazione ai quali la norma
dichiarata incostituzionale risulti anche rilevante, stante l’effetto
retroattivo dell’annullamento escluso solo per i c.d. rapporti esauriti, la
declaratoria di illegittimità costituzionale del più volte citato comma 4,
dell’articolo 19 del d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni
nella legge 15.07.2011, n. 111, travolge gli atti impugnati, privandoli del
loro fondamento normativo.
---------------
VIII.2.2. Ciò ricordato, occorre rilevare che tutte le delibere impugnate
con il ricorso introduttivo del presente giudizio costituiscono espressa
attuazione della disposizione dichiarata incostituzionale.
Infatti la delibera della Giunta comunale di Castrovillari n. 181 del
25.10.2011, sia nelle premesse che nel dispositivo, richiama la predetta
disposizione e proprio sul presupposto della sua immediata e diretta cogenza
(che modifica sia l’assetto organizzativo che i parametri previsti dall’art.
2, commi 2 e 3, del D.P.R. 18.06.1998, n. 233) istituisce i tre istituti
comprensivi, così ridefinendo l’assetto organizzativo delle istituzioni
scolastiche presenti sul suo territorio per rendere operante il nuovo piano
di dimensionamento scolastico a partire dall’anno scolastico 2012/2013.
Ugualmente è a dirsi per la delibera del consiglio provinciale di Cosenza n.
31 del 02.12.2011.
Anche la delibera della Giunta regionale n. 47 del 10.02.2012 (integrata
dalla successiva delibera n. 64 del 16.02.2012), costituisce attuazione
dell’articolo 19, comma 4, del d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito con
modificazioni nella legge 15.07.2011, n. 111, prendendo essa espressamente
atto dei piani di dimensionamento scolastico a tal fine predisposti dalle
province e approvando poi il Piano di organizzazione della rete scolastica
ed il Piano dell’offerta formativa, quale risultante dei singoli piani
provinciali; né a fondamento di tale atto di approvazione è stata
minimamente richiamata un’esigenza diversa da quella di dare puntuale
attuazione alla ricordata normativa statale (al di là di ogni ragionevole
dubbio indicata espressamente nelle ricordate delibere della Giunta comunale
di Castrovillari e della Provincia di Cosenza.
VIII.3. Poiché, in base al combinato disposto dell’art. 136 della
Costituzione e dell’art. 30 della legge 11.03.1953, n. 87, la pronuncia di
illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione
della sua efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione
della sentenza, che essa possa essere applicata ai rapporti, in relazione ai
quali la norma dichiarata incostituzionale risulti anche rilevante, stante
l’effetto retroattivo dell’annullamento escluso solo per i c.d. rapporti
esauriti (tra le più recenti, C.d.S., sez. III, 14.03.2012, n. 1429; Cass.
Civ., 06.05.2010, n. 10958), la ricordata declaratoria di illegittimità
costituzionale del più volte citato comma 4, dell’articolo 19 del d.l.
06.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni nella legge 15.07.2011, n.
111, travolge gli atti impugnati, privandoli del loro fondamento normativo.
IX. Alla stregua delle osservazioni svolte l’appello deve essere accolto e,
per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, devono essere annullati
gli atti impugnati in primo grado nei limiti dell’interesse degli appellanti
(Cons. Stato, Sez. V,
sentenza 11.01.2013 n. 110 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
TAR Milano, che in un primo momento (con
ordinanza 11.05.2012 n. 664) aveva dichiarato che "non appare
irrilevante né manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17, comma 1°, della l.r. n. 7/2012", ci ripensa
e non invia gli atti alla Consulta.
Nel caso in cui il Comune rilasci il titolo edilizio in
applicazione di norme solo successivamente dichiarate incostituzionali, è da
escludere che la declaratoria di incostituzionalità di una norma di legge
renda di per sé nulli i provvedimenti amministrativi adottati in base ad
essa.
Ai fini dell’esatta comprensione e decisione del primo mezzo di ricorso,
occorre prendere le mosse dalla sentenza della Corte Costituzionale
23.11.2011, n. 309 (cfr. doc. 8 dei ricorrenti), con la quale è stata
dichiarata l’illegittimità costituzionale di taluni articoli della legge
della Regione Lombardia n. 12/2005 sul governo del territorio e segnatamente
degli articoli 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo e dell’art. 103,
oltre che dell’art. 22 della legge regionale 7/2010, laddove gli stessi
annoveravano nel concetto di “ristrutturazione edilizia”, gli
interventi di demolizione e ricostruzione degli edifici, senza rispetto del
limite della sagoma.
In altri termini, le norme dichiarate incostituzionali consentivano, almeno
in Lombardia, di qualificare come “ristrutturazione edilizia” anche
le ipotesi di demolizione e ricostruzione di edifici, senza rispettare la
sagoma dello stabile preesistente poi demolito.
La Corte ha ritenuto che le definizioni delle categorie degli interventi
edilizi, contenute nella legge statale ed in particolare nell’art. 3 del DPR
380/2001 (Testo Unico sull’edilizia), costituiscono principi fondamentali
della legislazione statale in materia di “governo del territorio”
(materia riservata dall’art. 117, comma 3°, della Costituzione, alla potestà
legislativa concorrente Stato-Regioni), che devono pertanto essere
rispettati da parte delle Regioni nell’esercizio della loro funzione
legislativa.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011 ha immediatamente posto
il problema della sua applicazione ai rapporti giuridici pendenti al momento
della sua pubblicazione (23.11.2011), posto che, per espressa disposizione
dell’art. 136 della Costituzione, le norme dichiarate incostituzionali
cessano <<di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione
della decisione>>.
Con riguardo agli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale sui
titoli edilizi o –meglio– sui rapporti giuridici nascenti dai titoli stessi
(permesso di costruire, oppure DIA o SCIA, anche se questi ultimi non
costituiscono provvedimenti amministrativi), è opinione diffusa, anche in
dottrina, che le sentenze come quella di cui è causa possano esplicare
effetti anche su titoli già rilasciati, purché l’attività edilizia sia
ancora in corso e non siano ultimati i lavori assentiti, trattandosi di
rapporti giuridici pendenti e non ancora esauriti o definiti (giacché solo
in tale ultima ipotesi le sentenze del Giudice delle leggi non potrebbero
trovare applicazione).
In Lombardia, il legislatore regionale ha ritenuto di dettare una specifica
disciplina sulla sorte dei titoli edilizi, a seguito della sentenza della
Corte Costituzionale n. 309/2011, attraverso l’art. 17 della legge regionale
18.04.2012, n. 7 (sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia
20.04.2012).
Ai sensi del comma 1° del citato art. 17, <<In relazione agli interventi
di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte
Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, al fine di tutelare il legittimo
affidamento dei soggetti interessati, i permessi di costruire rilasciati
alla data del 30.11.2011 nonché le denunce di inizio attività esecutive alla
medesima data devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento
della dichiarazione di fine lavori, a condizione che la comunicazione di
inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012>>.
Nella presente fattispecie, la domanda di permesso di costruire indica
espressamente che l’intervento è di ristrutturazione avverrà con modifica
della sagoma (cfr. doc. 4 dei ricorrenti), ed il titolo edilizio è stato
rilasciato il 21.11.2011, vale a dire due giorni prima del deposito della
sentenza n. 309/2011.
Ciò premesso, si rimarca come nel primo mezzo di gravame si denuncia
l’illegittimità del titolo edilizio, in quanto con lo stesso viene
consentita una ristrutturazione senza limite di sagoma, in contrasto con la
citata sentenza della Corte Costituzionale.
La difesa del controinteressato, dal canto suo, ha invocato a proprio favore
l’art. 17, comma 1°, della legge regionale 7/2012, ritenuto applicabile al
caso di specie, visto che il permesso di cui è causa è stato rilasciato
prima del 30.11.2011.
Gli esponenti, di conseguenza, sia nella discussione orale all’udienza in
camera di consiglio sia nelle successive memorie difensive, hanno chiesto al
Tribunale di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 17
succitato, per violazione dell’art. 136 della Costituzione, avendo la norma
regionale del 2012 di fatto prorogato gli effetti di una serie di norme
dichiarate invece incostituzionali.
Il Collegio, nella propria ordinanza cautelare n. 664/2012, aveva ritenuto,
seppure al termine di una cognizione sommaria, che la questione di
costituzionalità dell’art. 17, comma 1°, fosse sia rilevante sia non
manifestamente infondata, pur riservandosi un necessario approfondimento in
sede di merito.
Orbene, tale approfondimento, assolutamente indispensabile vista la
complessità della questione, induce ora il Tribunale alla conclusione che la
questione di costituzionalità sia però priva, nel caso di specie, del
necessario requisito della rilevanza (si ricordi che, ai sensi dell’art. 23
della legge 11.03.1953, n. 87, la questione è rilevante <<qualora il
giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della
questione di legittimità costituzionale>>).
Infatti, il permesso di costruire di cui è causa (cfr. doc. 1 dei
ricorrenti), è stato rilasciato il 21.11.2011, prima (anche se di due soli
giorni, ma ciò non rileva), del deposito della sentenza della Corte
Costituzionale n. 309 del 23.11.2011, quindi in vigenza della disciplina
regionale poi dichiarata incostituzionale.
Il Comune di Sondrio, in altri termini, non ha dato certamente applicazione
all’art. 17, comma 1°, né al momento del rilascio del titolo edilizio (non
essendo allora ancora intervenuta la pronuncia della Corte), né
successivamente, non risultando che l’Amministrazione, d’ufficio o su
istanza di soggetti terzi, abbia mai adottato provvedimenti di esecuzione
del citato art. 17 (come sarebbe avvenuto, ad esempio, se il Comune, a
fronte di una diffida di soggetti interessati, si fosse rifiutato di inibire
l’intervento edilizio richiamando la norma dell’art. 17).
La questione di costituzionalità, pertanto, seppure appare al Collegio non
manifestamente infondata (non essendo possibile per il legislatore ordinario
assicurare una sorta di ulteriore vigenza di norme dichiarate
incostituzionali; cfr. fra le tante, Corte Costituzionale, sentenze n.
350/2010 e n. 223/1983), non può però reputarsi rilevante, visto che la
valutazione della legittimità di un permesso di costruire rilasciato prima
della sentenza della Corte, può –almeno nel caso di specie– prescindere
dalla norma dell’art. 17 della LR 7/2012.
In conclusione, il primo mezzo di ricorso deve respingersi, avendo il Comune
rilasciato il titolo in applicazione di norme solo successivamente
dichiarate incostituzionali e dovendosi escludere che la declaratoria di
incostituzionalità di una norma di legge renda di per sé nulli i
provvedimenti amministrativi adottati in base ad essa (così la
giurisprudenza amministrativa, a partire dalla nota decisione dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, 08.04.1963, n. 8), potendo semmai essere
esercitato il potere di autotutela amministrativa da parte del Comune di
Sondrio sul permesso di costruire di cui è causa (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 27.07.2012 n. 2147 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
dichiarazione dell’illegittimità costituzionale di una norma di legge non si
estende ai rapporti esauriti.
Costituisce regola di carattere generale, affermata
anche da questo Consiglio di Stato (tra le altre: Sez. VI, 05.09.2005 n.
4513; sez. III, 14.03.2012, n. 1429), quella secondo cui la dichiarazione
dell’illegittimità costituzionale di una norma di legge non si estende ai
rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla
pronuncia della Corte costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni
giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù, tra l’altro, della
definitività dei provvedimenti amministrativi da cui esse sono sorte.
Ad opinare in senso contrario, come fa la congregazione religiosa odierna
appellante allorché invoca la nullità degli atti amministrativi regionali,
si determinerebbe l’effetto di decentrare il sindacato di costituzionalità,
attraverso lo strumento della disapplicazione, dall’unico organo titolare al
giudice comune (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.04.2013, n. 2215)
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14.03.2012 n. 1429). |
ATTI AMMINISTRATIVI: S.
Montinaro,
Gli atti amministrativi applicativi di norme dichiarate incostituzionali
(12.06.2003 - link a www.altalex.com).
---------------
INDICE: Introduzione. - 1. Le soluzioni offerte dalla dottrina
formatasi attorno all’emanazione dell’art. 30 della L. 11.03.1953, n. 87. -
2. Le conseguenze della pronuncia della Corte sull’atto amministrativo
tratte dalla Giurisprudenza prima e dopo l’importante indirizzo tracciato
dalla sentenza del Cons. Stato 08.04.1963, n. 8. - 3. Il consolidarsi
dell’indirizzo introdotto dal Consiglio di Stato. - 4. Il vizio da cui
consegue l’invalidità dell’atto. Violazione di legge, eccesso di potere. -
5. L’applicabilità della c.d. invalidità successiva. - 6. La rilevabilità
d’ufficio dell’illegittimità dell’atto amministrativo emanato in base a
legge dichiarata incostituzionale. - 7. Alcuni cenni sugli interventi della
Corte di Giustizia europea. - 8. Considerazioni conclusive. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Corte
costituzionale - Dichiarazione d'incostituzionalità di legge - Effetti sui
ricorsi giurisdizionali amministrativi pendenti - Fattispecie (Costituzione
della Repubblica, art. 136).
Anche se la questione di costituzionalità non è stata
sollevata nei motivi del ricorso né, d'ufficio, nel corso del giudizio, il
Consiglio di Stato, al quale consti, al momento della decisione, della
sentenza della Corte costituzionale che, investitane dell'esame da altro
giudice, aveva dichiarato l'incostituzionalità della legge, su cui il
provvedimento impugnato si basava, deve accogliere il ricorso ed annullare
il provvedimento, salva la dichiarazione della cessazione della materia del
contendere per i provvedimenti annullati d'ufficio nelle more del giudizio
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 08.04.1963 n. 8). |
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IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sull'interpretazione
di una norma primaria o secondaria.
Di fronte all’evidente significato letterale della norma
non è, d’altra parte, ammissibile il ricorso a ulteriori canoni ermeneutici
quali quello teleologico o sistematico, atteso che questi possono essere
impiegati solo nel caso in cui il dato letterale non consenta di pervenire a
una interpretazione univoca del precetto normativo.
Un orientamento giurisprudenziale afferma, infatti, che nella
interpretazione delle norme, primarie o secondarie, occorre, in primo
luogo, riferirsi al criterio letterale, attribuendo alla disposizione il
solo significato emergente dalle parole da essa impiegate secondo la
connessione sintattica che si realizza tra di loro, risultando il criterio
in parola di regola sufficiente a individuarne, in modo chiaro e univoco, il
relativo significato e la connessa portata precettiva.
È, per converso, consentito ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario
costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della mens
legis -con il solo limite imposto dal divieto per l'interprete di correggere
il significato delle parole impiegate dalla norma- soltanto qualora la
lettera di quest’ultima risulti ambigua.
---------------
L’art. 27b delle NTA del PUC di Bonassola dispone, per quanto qui rileva:
“Non sono ammessi accorpamenti di manufatti in sito. E’ consentito
edificare con utilizzo di indice perequato piccoli edifici in pietra di S.A.
massima di 10 mq a un piano adagiati a muri di fascia con copertura a falda
in lastre di ardesia a spacco inclinata verso valle, altezza massima verso
monte pari a m. 2,50, una finestra di dimensioni 50x50 ed una porta di
ingresso in legno naturale di dimensioni massime 80x190. In alternativa
simili manufatti potranno essere interamente inseriti nella geometria delle
fasce purché ricoperti con strato di terreno vegetale dello spessore minimo
di cm 40 opportunamente piantumato in maniera da garantire la minima
modificabilità dello stato preesistente dei luoghi. In tal caso la
superficie agibile massima del manufatto potrà arrivare ad un massimo di 12
mq. Tali edifici dovranno essere vincolati a servizio delle attività
agricola e agro-silvo pastorali presenti in zona ed avere una densità
massima pari ad un manufatto per ciascun lotto di terreno contiguo posseduto
di 2.500 mq”.
La norma, non impugnata, è, quindi, chiarissima nel vietare l’accorpamento
dei manufatti di qualunque tipo essi siano (fuori terra o interrati), così
da inibire anche l’unione di due volumi posizionati uno nel soprassuolo e
uno nel sottosuolo.
Di fronte all’evidente significato letterale della norma non è, d’altra
parte, ammissibile il ricorso a ulteriori canoni ermeneutici quali quello
teleologico o sistematico, atteso che questi possono essere impiegati solo
nel caso in cui il dato letterale non consenta di pervenire a una
interpretazione univoca del precetto normativo (Cons. Stato, Sez. VI,
20/06/2012, n. 3585; 07/12/2007, n. 6307).
Un orientamento giurisprudenziale, che il Collegio condivide, afferma,
infatti, che nella interpretazione delle norme, primarie o secondarie,
occorre, in primo luogo, riferirsi al criterio letterale, attribuendo alla
disposizione il solo significato emergente dalle parole da essa impiegate
secondo la connessione sintattica che si realizza tra di loro, risultando il
criterio in parola di regola sufficiente a individuarne, in modo chiaro e
univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva. È, per
converso, consentito ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario
costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della mens
legis -con il solo limite imposto dal divieto per l'interprete di
correggere il significato delle parole impiegate dalla norma- soltanto
qualora la lettera di quest’ultima risulti ambigua (Cass. Civ., Sez. III,
04/10/2018, n. 24165; Sez. I, 18/06/2018, n. 16083)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 01.12.2021 n. 8011 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nell'ipotesi
in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge o (come nella
specie) regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed
univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva,
l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario
costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens
legis", specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al
risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente
espressa dal legislatore.
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si
appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico
sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore,
insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo
paritetico in seno al procedimento ermeneutico, si che il secondo funge da
criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da
interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto
all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui
l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia
incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito
all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle
espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto
sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è
intesa.
---------------
Come è noto, la giurisprudenza di questa Corte di cassazione ha più volte
affermato che nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma
di legge o (come nella specie) regolamentare sia sufficiente ad
individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la
connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al criterio
ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo
del testo, della "mens legis", specie se, attraverso siffatto
procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della
norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore (vd. Cass. n.
24165 del 2018; Cass. n. 5821 del 2001; Cass. n. 2533 del 1970).
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si
appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico
sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore,
insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo
paritetico in seno al procedimento ermeneutico, si che il secondo funge da
criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da
interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto
all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui
l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia
incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito
all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle
espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto
sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è
intesa (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 2533 dei 03/12/1970; id. Sez.
1, Sentenza n. 5128 dei 06/04/2001)
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 03.11.2021
n. 31470). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Processo
amministrativo: è necessario impugnare le circolari interpretative?
Non sussiste l’onere di immediata impugnazione delle
circolari interpretative, le quali, ancorché emanate per indirizzare
uniformemente l'azione degli organi amministrativi, non sono vincolanti,
restano un atto privo di effetti esterni e non possono essere considerate
quale atto presupposto del provvedimento applicativo ritenuto lesivo.
L’interesse, e correlativamente l’onere, di immediata impugnazione sussiste,
semmai, solo nei confronti di quelle circolari che assumano la veste di vere
e proprie “istruzioni” vincolanti, dalle quali l’organo amministrativo non
possa discostarsi, e che in tal senso rivestano anche rilevanza esterna.
---------------
1. Con il ricorso introduttivo del presente giudizio, le ricorrenti chiedono
l’annullamento dell’Orientamento concernente “La nozione di “società a
controllo pubblico” di cui all’articolo 2, comma 1, lett. m), del decreto
legislativo 19.08.2016, n. 175”, pubblicato sul sito istituzionale del
Dipartimento del Tesoro in data 15.02.2018.
...
8. L’atto impugnato è stato adottato dal Ministero resistente ai sensi del
comma 2 dell’articolo 15 del D.Lgs.. 175/2016 al fine prescritto di “fornire
orientamenti e indicazioni in materia di applicazione del presente decreto e
del decreto legislativo 11.11.2003, n. 333, e promuovere le migliori
pratiche presso le società a partecipazione pubblica”. Il contenuto
dell’atto de quo, valutato unitamente alla descritta finalità perseguita,
consentono di equiparare lo stesso ad una circolare interpretativa che,
secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, è suscettibile di
impugnazione e annullamento congiuntamente all’atto applicativo lesivo,
oppure in via autonoma e diretta, se connotata da una portata immediatamente
lesiva nei confronti di soggetti estranei alla P.A., secondo lo schema
tipico dell’impugnazione degli atti amministrativi generali e degli atti
normativi.
9. La giurisprudenza ha, infatti, avuto modo di chiarire che non sussiste
l’onere di immediata impugnazione delle circolari interpretative, le quali,
ancorché emanate per indirizzare uniformemente l'azione degli organi
amministrativi, non sono vincolanti, restano un atto privo di effetti
esterni e non possono essere considerate quale atto presupposto del
provvedimento applicativo ritenuto lesivo; l’interesse, e correlativamente
l’onere, di immediata impugnazione sussiste, semmai, solo nei confronti di
quelle circolari che assumano la veste di vere e proprie “istruzioni”
vincolanti, dalle quali l’organo amministrativo non possa discostarsi, e che
in tal senso rivestano anche rilevanza esterna (Ad. Plen. n. 19 del 2011),
come accade, ad esempio, con riferimento alle istruzioni impartite dal
Ministero dell’Interno con riferimento agli atti dell’ufficiale di stato
civile (Cons. Stato, Sez. IV, 04.12.2017, n. 5664; C.d.S Sez. III, n.
4478 del 26.10.2016).
10. La giurisprudenza ha, altresì, affermato che le circolari “non assumono
valore vincolante per i soggetti destinatari degli atti applicativi di
esse”, per cui tali soggetti non hanno l’onere di impugnare le circolari
antecedenti, neppure insieme all’atto che vi dà esecuzione, ma possono
limitarsi a contestare l’illegittimità del provvedimento applicativo in
quanto scaturente da una circolare illegittima che avrebbe dovuto essere disapplicata (Cons. Stato, Sez. IV, 28.01.2016, n. 310). E ciò con la
conseguenza che “(...) a fortiori, (...) una circolare amministrativa contra
legem può essere disapplicata anche d’ufficio dal giudice investito
dell’impugnazione dell’atto che ne fa applicazione” (così ancora Cons.
Stato, n. 310 del 2016, cit.; nello stesso senso anche Cons. Stato, Sez. IV,
17.04.2018, n. 2284, con ampi richiami di giurisprudenza).
11. Nella fattispecie, il contenuto dell’atto impugnato, privo di efficacia
vincolante e contenuto prescrittivo, non appare allo stato idoneo a
pregiudicare in modo immediato e diretto la sfera giuridica delle ricorrenti
le quali potranno essere incise esclusivamente da eventuali provvedimenti
applicativi del contestato orientamento che il Ministero dovesse ritenere di
adottare nell’esercizio dei poteri di monitoraggio e controllo ad esso
attribuiti dal D.Lgs. 175/2016. Le ricorrenti, pertanto, potranno impugnare
gli eventuali provvedimenti applicativi domandando, contestualmente,
l’annullamento ovvero la disapplicazione dell’atto oggetto dell’odierna
impugnazione.
12. Per le ragioni esposte, il Collegio ritiene che difetti in capo alle
ricorrenti un interesse attuale e concreto alla tutela giurisdizionale
richiesta in quanto l’atto impugnato è privo di efficacia immediatamente
lesiva di posizioni giuridiche soggettive individuali o collettive
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 23.09.2021 n. 9883 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Processo
amministrativo: le circolari interpretative non sono autonomamente
impugnabili.
Trattasi, nel caso di specie, di circolare c.d.
interpretativa, mediante la quale il Ministero esprime esclusivamente un
parere, non vincolante, per gli uffici oltre che per la stessa autorità che
l'ha emanata e per il giudice.
Pertanto, l'impugnazione della stessa, in quanto diretta verso un atto che
non possiede valore di provvedimento e che non ha efficacia vincolante verso
soggetti diversi dagli Uffici cui impartisce istruzioni operative, è
inammissibile e comunque la stessa, ove si evidenziassero profili di
illegittimità delle conformi disposizioni applicative emesse dall'Organo
periferico nei confronti dei soggetti destinatari di esse, potrebbe in ogni
caso essere disapplicata.
Invero, secondo orientamento giurisprudenziale consolidato, le circolari
amministrative sono atti diretti agli organi ed uffici periferici ovvero
sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o,
comunque, vincolante per i soggetti estranei all'Amministrazione, con la
conseguenza che i soggetti destinatari degli atti applicativi di esse non
hanno alcun onere di impugnativa, ma possono limitarsi a contestarne la
legittimità al solo scopo di sostenere che sono illegittimi perché
scaturiscono da una circolare illegittima che avrebbe dovuto essere
disapplicata; ne discende, “a fortiori”, che una circolare amministrativa
“contra legem” può essere disapplicata anche d'ufficio dal giudice investito
dell'impugnazione dell'atto che ne fa applicazione.
Ritiene pertanto il Collegio che l’atto in esame debba essere qualificato
come atto a valenza generale, privo, ex se, di idoneità lesiva, e come tale
impugnabile solo unitamente ad altro atto concretamente lesivo, che qui non
sussiste.
-----------------
Ora, come è noto, uno dei presupposti di ammissibilità di ogni ricorso
giurisdizionale amministrativo è che (anche) la lesione lamentata sia
concreta e attuale, vale a dire che non può essere eventuale o potenziale e
deve sussistere sia al momento della proposizione del ricorso che in quello
della decisione.
Motivo per il quale si precisa che, ai fini dell’onere di diretta
impugnazione del provvedimento, il requisito dell’attualità della lesione
dell'interesse dedotto in giudizio va accertato in concreto, con
riferimento, cioè, all'entità e alle modalità dell'incidenza effettuale, e
non semplicemente ipotetica ed eventuale, dell'atto nella sfera giuridica
del ricorrente.
Vale a dire che, in sintesi, può avere titolo a che un giudice
amministrativo si pronunci sul merito di un ricorso soltanto chi faccia
valere una lesione recata in modo diretto e attuale a un proprio interesse
personale e attuale, protetto dall’ordinamento, e abbia un interesse
–anch’esso personale e attuale– alla pronuncia richiesta.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione, della nota prot. n. I.0011882
del 19.11.2020, a firma del Capo dell'Ufficio legislativo del Ministero
resistente, recante in oggetto “Circolare in tema di tutela del lavoro
dei ciclo-fattorini delle piattaforme digitali ai sensi degli articoli 2 e
47-bis e seguenti, del decreto legislativo n. 81/2015” e di ogni altro
atto presupposto, consequenziale o comunque connesso.
...
2. Il problema giuridico che per il Collegio viene in rilievo come aspetto
pregiudiziale da risolvere, anche perché è stata sollevata espressa
eccezione del Ministero sul punto, riguarda la natura dell’atto oggetto di
gravame, nonché la sua stessa impugnabilità.
3. Asserisce l’Amministrazione che si tratterebbe di una circolare con la
quale il Ministero avrebbe chiarito, in sede di prima applicazione, alcune
urgenti questioni rilevanti per l’attività amministrativa a beneficio degli
uffici interessati. In quanto atto interno alla P.A. non si configurerebbe
in capo al privato un interesse concreto ed attuale alla sua impugnazione
giudiziale, con conseguente inammissibilità del ricorso.
A contrario, la ricorrente assume l’autonoma impugnabilità dell’atto in
esame che non potrebbe essere qualificato -nonostante il nomen iuris–
come “circolare” dal momento che: non costituirebbe un atto interno;
non avrebbe carattere meramente interpretativo, ma evidentemente innovativo
e precettivo; sotto il simulato intento di interpretare norme legislative
generali e astratte, in realtà provvederebbe concretamente a privare di
effetti utili uno specifico contratto collettivo, appena stipulato da As. e
UG.ri., incidendo in tal modo su un rapporto negoziale determinato e
alterando l’equilibrio fra le sigle sindacali, con evidente ed immediato
effetto penalizzante, e quindi lesivo, nei confronti dell’associazione
ricorrente.
Ancora, il provvedimento de quo sarebbe immediatamente lesivo e, quindi,
autonomamente impugnabile, in quanto la disciplina adottata non lascerebbe
alcun margine interpretativo o applicativo alle amministrazioni chiamate ad
adottare i provvedimenti finali: le Direzioni territoriali del lavoro, preso
atto che il contratto As.-UG.Ri. è stato sottoscritto da una sola
associazione sindacale per parte (e non da due o più) e che tali
associazioni non sono quelle “maggiormente rappresentative” nel più
ampio “ambito categoriale”, non potranno che sanzionare le imprese
che applicano tale contratto, in mera e meccanica esecuzione della circolare
impugnata.
4. Stante la contrapposta posizione delle parti, appare opportuno,
innanzitutto, precisare le caratteristiche dell’impugnato provvedimento.
Detto atto è rubricato “Circolare in tema di tutele del lavoro dei
ciclo-fattorini delle piattaforme digitali ai sensi degli articoli 2 e
47-bis e seguenti, del decreto legislativo n. 81/2015”.
Segnatamente, l’art. 2 del D.Lgs. 81/2015 (testo vigente) al comma 1
prescrive che: “A far data dal 01.01.2016, si applica la disciplina del
rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si
concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative
e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Le
disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità
di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche
digitali”.
Il successivo art. 47-bis dispone che: “Fatto salvo quanto previsto
dall'articolo 2, comma 1 le disposizioni del presente capo stabiliscono
livelli minimi di tutela per i lavoratori autonomi che svolgono attività di
consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di
velocipedi o veicoli a motore di cui all'articolo 47, comma 2, lettera a),
del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30.04.1992, n. 285,
attraverso piattaforme anche digitali”.
Orbene, l’atto in esame persegue chiaramente la finalità di interpretare la
norma che disciplina il lavoro dei ciclo-fattorini delle piattaforme
digitali e di chiarire questioni rilevanti per l’attività amministrativa a
beneficio degli uffici interessati.
Invero, detta Circolare premette che “L'attività lavorativa dei
ciclo-fattorini delle piattaforme digitali trova la propria disciplina nel
corpo del decreto legislativo 15.06.2015, n. 81, come modificato e integrato
dalla legge 02.11.2019, n. 128, di conversione del decreto-legge n. 101
dello stesso anno”. Procede, poi, a “delineare succintamente i
contorni di questa disciplina e, segnatamente, l'ambito applicativo delle
due previsioni di riferimento, osservando in premessa che quello
dell'articolo 47-bis, in forza dell'espressa clausola di salvezza di quanto
disposto dall'articolo 2, comma 1, è disegnato come residuale in rapporto a
tale ultima previsione, e che questa, quindi, costituisce l'ipotesi
attrattiva prevalente di disciplina dell'attività dei riders”.
Trattasi evidentemente di circolare c.d. interpretativa, mediante la quale
il Ministero esprime esclusivamente un parere, non vincolante, per gli
uffici oltre che per la stessa autorità che l'ha emanata e per il giudice.
Pertanto, l'impugnazione della stessa, in quanto diretta verso un atto che
non possiede valore di provvedimento e che non ha efficacia vincolante verso
soggetti diversi dagli Uffici cui impartisce istruzioni operative, è
inammissibile e comunque la stessa, ove si evidenziassero profili di
illegittimità delle conformi disposizioni applicative emesse dall'Organo
periferico nei confronti dei soggetti destinatari di esse, potrebbe in ogni
caso essere disapplicata (ex multis: TAR Roma n. 2250/2018).
Invero, secondo orientamento giurisprudenziale consolidato, le circolari
amministrative sono atti diretti agli organi ed uffici periferici ovvero
sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o,
comunque, vincolante per i soggetti estranei all'Amministrazione, con la
conseguenza che i soggetti destinatari degli atti applicativi di esse non
hanno alcun onere di impugnativa, ma possono limitarsi a contestarne la
legittimità al solo scopo di sostenere che sono illegittimi perché
scaturiscono da una circolare illegittima che avrebbe dovuto essere
disapplicata; ne discende, “a fortiori”, che una circolare
amministrativa “contra legem” può essere disapplicata anche d'ufficio
dal giudice investito dell'impugnazione dell'atto che ne fa applicazione (ex
plurimis: C. di St. n. 3877/2010).
Ritiene pertanto il Collegio che l’atto in esame debba essere qualificato
come atto a valenza generale, privo, ex se, di idoneità lesiva, e
come tale impugnabile solo unitamente ad altro atto concretamente lesivo,
che qui non sussiste (ex multis: TAR Roma n. 4658/2020).
Ora, come è noto, uno dei presupposti di ammissibilità di ogni ricorso
giurisdizionale amministrativo è che (anche) la lesione lamentata sia
concreta e attuale, vale a dire che non può essere eventuale o potenziale e
deve sussistere sia al momento della proposizione del ricorso che in quello
della decisione.
Motivo per il quale si precisa che, ai fini dell’onere di diretta
impugnazione del provvedimento, il requisito dell’attualità della lesione
dell'interesse dedotto in giudizio va accertato in concreto, con
riferimento, cioè, all'entità e alle modalità dell'incidenza effettuale, e
non semplicemente ipotetica ed eventuale, dell'atto nella sfera giuridica
del ricorrente.
Vale a dire che, in sintesi, può avere titolo a che un giudice
amministrativo si pronunci sul merito di un ricorso soltanto chi faccia
valere una lesione recata in modo diretto e attuale a un proprio interesse
personale e attuale, protetto dall’ordinamento, e abbia un interesse
–anch’esso personale e attuale– alla pronuncia richiesta.
Poiché, per tutto quanto sopra precisato, nel caso in esame non sussiste il
requisito della attualità della lesione, il ricorso non può che essere
dichiarato inammissibile
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater,
sentenza 03.08.2021 n. 9187 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Nell'interpretazione
di una norma la prevalenza del criterio letterale, ampiamente condiviso in
giurisprudenza, ha trovato recente conferma ed è stato affermato anche dal
Giudice delle leggi, per il quale il significato proprio delle parole è
canone ermeneutico essenziale.
Fermo quanto innanzi, di per sé dirimente, osserva ancora il Collegio come
anche dal versante del criterio teleologico (di carattere sussidiario e qui,
va ribadito, recessivo), la tesi di parte resistente sia sprovvista di
addentellati, dovendosi individuare la c.d. “mens legis” nell’intendimento
di evitare che la costruzione di nuovi impianti su siti contaminati possa
pregiudicare o rendere problematico «il completamento e l'esecuzione degli
interventi di messa in sicurezza d'emergenza, operativa o permanente e di
bonifica», nonché determinare nuovi o ulteriori «rischi per la salute dei
lavoratori e degli altri fruitori dell'area».
---------------
5. Il ricorso è fondato, alla stregua della motivazione che segue.
5.1. Coglie nel segno la dedotta censura di violazione dell’art. 33 della
cennata legge regionale n. 35 del 2018.
Tale disposizione, in particolare, così recita: «1. Le autorizzazioni
alla realizzazione di opere ed impianti e al loro esercizio in siti con
accertato superamento delle CSC sono rilasciate da parte delle rispettive
Autorità procedenti a condizione che dette opere e impianti siano realizzati
secondo modalità e tecniche che non pregiudicano né interferiscono con il
completamento e l'esecuzione degli interventi di messa in sicurezza
d'emergenza, operativa o permanente e di bonifica, né determinano rischi per
la salute dei lavoratori e degli altri fruitori dell'area.
2. La verifica delle condizioni di cui al comma 1 è di competenza della
Conferenza di servizi di cui all'art. 242 del Decreto, che si esprime a
seguito di istanza del richiedente, successivamente all'esito della
caratterizzazione del sito ai sensi dell'art. 242 del Decreto.
3. L'assegnazione di finanziamenti pubblici da parte della Regione per
iniziative produttive sui siti di cui al comma 1, è concessa solo ad esito
positivo della verifica di cui al comma 2.
4. Sono escluse dal campo di applicazione del presente articolo gli
interventi di cui all'articolo 34, commi 7, 8, 9 e 10 del decreto-legge
12.09.2014, n. 133, convertito con la legge 11.11.2014, n. 164».
L’avversata nota regionale prot. n. 4896 del 13.01.2020 ritiene
laconicamente applicabile tale disposizione all’installazione (di
termovalorizzazione di rifiuti urbani e speciali) di cui è questione, stante
l’insistenza di quest’ultima su di un sito «interessato da un
procedimento di messa in sicurezza e bonifica del suolo e della falda».
Nella prospettiva da cui muove parte resistente, dunque, lo spettro
applicativo del richiamato articolo 33 si estenderebbe anche a impianti già
esistenti, previamente autorizzati e operativi.
Ritiene, di contro, il Collegio che l’interpretazione della norma offerta
dall’Ente regionale resistente, col conseguente precipitato della sua
estensione al caso di specie, sia pianamente erronea.
L’esegesi condotta secondo i canoni dell’art. 12 delle disposizioni
preliminari al codice civile si impernia in primo luogo sul significato
letterale delle proposizioni normative, che qui si presenta di immediata
comprensione.
Invero, il legislatore si è testualmente riferito alle sole autorizzazioni «alla
realizzazione di opere e impianti», pertinentemente utilizzando poi il
verbo “rilasciare” (le autorizzazioni […] sono rilasciate), per
quindi chiudere il cerchio condizionando, appunto, la medesima realizzazione
(gli impianti […] sono realizzati) alla adozione di «modalità e tecniche
che non pregiudicano né interferiscono con il completamento e l'esecuzione
degli interventi di messa in sicurezza d'emergenza, operativa o permanente e
di bonifica, né determinano rischi per la salute dei lavoratori e degli
altri fruitori dell'area».
Già l’interpretazione letterale, dunque, stante il limite esterno costituito
dal “significato palese delle parole” (art. 12 delle preleggi, primo
periodo), non lascia residuare margine alcuno per l’approdo cui è pervenuto
l’Ente resistente. E’ agevole, in tal senso, osservare come non sia previsto
alcun riferimento al rinnovo o al riesame di titoli autorizzatori già in
essere, e, altresì, come neppure sia stato ivi considerato il caso di
installazioni già realizzate.
Ebbene, la prevalenza del criterio letterale, ampiamente condiviso in
giurisprudenza, ha trovato recente conferma (Cass. civ. SS.UU. n. 2505 del
2020; id. n. 8091 del 2020), ed è stato affermato anche dal Giudice delle
leggi, per il quale il significato proprio delle parole è canone ermeneutico
essenziale (Corte cost. n. 260 del 2015).
5.1.1. Fermo quanto innanzi, di per sé dirimente, osserva ancora il Collegio
come anche dal versante del criterio teleologico (di carattere sussidiario e
qui, va ribadito, recessivo), la tesi di parte resistente sia sprovvista di
addentellati, dovendosi individuare la c.d. “mens legis”
nell’intendimento di evitare che la costruzione di nuovi impianti su siti
contaminati possa pregiudicare o rendere problematico «il completamento e
l'esecuzione degli interventi di messa in sicurezza d'emergenza, operativa o
permanente e di bonifica», nonché determinare nuovi o ulteriori «rischi
per la salute dei lavoratori e degli altri fruitori dell'area».
6. Dalle considerazioni che precedono discende l’accoglimento del ricorso,
con assorbimento di ogni ulteriore doglianza, e, per l’effetto,
l’annullamento dell’atto impugnato
(TAR Basilicata,
sentenza 08.04.2021 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Quando
l'interpretazione letterale di una norma di legge (o regolamentare, come
nella specie) sia sufficiente ad esprimere un significato chiaro ed univoco,
l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario
costituito dalla ricerca, attraverso l'esame complessivo del testo, della
mens legis, il quale solo nel caso in cui, nonostante l'impiego del criterio
letterale e del criterio teleologico singolarmente considerati, la lettera
della norma rimanga ambigua, acquista un ruolo paritetico e comprimario
rispetto al criterio letterale.
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In ordine all'interpretazione della norma, va ribadito che, quando
l'interpretazione letterale di una norma di legge (o regolamentare, come
nella specie) sia sufficiente ad esprimere un significato chiaro ed univoco,
l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario
costituito dalla ricerca, attraverso l'esame complessivo del testo, della
mens legis, il quale solo nel caso in cui, nonostante l'impiego del
criterio letterale e del criterio teleologico singolarmente considerati, la
lettera della norma rimanga ambigua, acquista un ruolo paritetico e
comprimario rispetto al criterio letterale (tra tante, Sez. 3 civ., n. 24165
del 04/10/2018, Rv. 651130)
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza
20.10.2020 n. 28950). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Secondo
l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, è prevalente
il criterio letterale, rispetto al quale quello teleologico riveste un ruolo
sussidiario secondo cui, «Ove
l'interpretazione letterale sia sufficiente ad individuare, in modo chiaro
ed univoco, il significato e la portata precettiva di una norma di legge o
regolamentare, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico
sussidiario della mens legis, il quale solo nel caso in cui, nonostante
l'impiego del criterio letterale e del criterio teleologico singolarmente
considerati, la lettera della norma rimanga ambigua, acquista un ruolo
paritetico e comprimario rispetto al criterio letterale, mentre può assumere
rilievo prevalente nell'ipotesi, eccezionale, in cui l'effetto giuridico
risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il
sistema normativo, non essendo, invece, consentito all'interprete correggere
la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono
nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla
finalità pratica della norma stessa».
---------------
Va osservato che, secondo l'orientamento consolidato della giurisprudenza di
legittimità, è prevalente il criterio letterale, rispetto al quale quello
teleologico riveste un ruolo sussidiario (v., ex multis, Cass.
06/04/2001, n. 5128; Cass. 04/01/2018, n. 24165 secondo cui, «Ove
l'interpretazione letterale sia sufficiente ad individuare, in modo chiaro
ed univoco, il significato e la portata precettiva di una norma di legge o
regolamentare, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico
sussidiario della mens legis, il quale solo nel caso in cui, nonostante
l'impiego del criterio letterale e del criterio teleologico singolarmente
considerati, la lettera della norma rimanga ambigua, acquista un ruolo
paritetico e comprimario rispetto al criterio letterale, mentre può assumere
rilievo prevalente nell'ipotesi, eccezionale, in cui l'effetto giuridico
risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il
sistema normativo, non essendo, invece, consentito all'interprete correggere
la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono
nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla
finalità pratica della norma stessa»
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza
23.04.2020 n. 8091). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nell'ipotesi
in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge sia sufficiente ad
individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la
connessa portata precettiva,
l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario
costituito dalla ricerca, in virtù dell'esame complessivo del testo, della "mens
legis", specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al
risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente
espressa dal legislatore.
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si
appalesi, altresì, infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico
sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore,
insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo
paritetico in seno al procedimento ermeneutico, onde il secondo funge da
criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da
interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto
all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui
l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia
incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito
all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle
espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto
sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è
intesa.
---------------
Innanzitutto deve convenirsi con la premessa compiuta dal TSAP sulla scelta
del criterio ermeneutico da privilegiare in proposito, poiché -secondo la
consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 5128/2001
e Cass. n. 24165/2018)- nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di
una norma di legge sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed
univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva,
l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario
costituito dalla ricerca, in virtù dell'esame complessivo del testo, della "mens
legis", specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al
risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente
espressa dal legislatore.
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si
appalesi, altresì, infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico
sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore,
insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo
paritetico in seno al procedimento ermeneutico, onde il secondo funge da
criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da
interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto
all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui
l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia
incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito
all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle
espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto
sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è
intesa
(Corte di cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza
04.02.2020 n. 2505). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: In
ossequio al precetto declinato dall'art. 12 preleggi,
nell'interpretazione della legge occorre primariamente riferirsi al criterio
letterale, attribuendo alla disposizione interpretanda il solo significato
emergente dalle parole da essa impiegate secondo la connessione sintattica
che si realizza tra di loro, risultando il criterio in parola di regola
sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo
significato e la connessa portata precettiva.
E', per converso, consentito ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario
costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens
legis", con il solo limite imposto dal divieto per l'interprete di
correggere il significato delle parole impiegate dalla norma, soltanto
qualora la lettera di essa risulti ambigua, l'uno e l'altro criterio potendo
infine acquistare un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico
allorché singolarmente impiegati si rivelino inidonei allo scopo.
---------------
2.4. In ossequio al precetto declinato dall'art. 12 preleggi («Nell'applicare
la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese
dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla
intenzione del legislatore», porti a sposare una conclusione diversa da
quella a cui si è attenuto il giudice d'appello) vale qui infatti ribadire,
secondo un consolidato insegnamento di questa Corte, che
nell'interpretazione della legge, occorra primariamente riferirsi al
criterio letterale, attribuendo alla disposizione interpretanda il solo
significato emergente dalle parole da essa impiegate secondo la connessione
sintattica che si realizza tra di loro, risultando il criterio in parola di
regola sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo
significato e la connessa portata precettiva.
E', per converso, consentito ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario
costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens
legis", con il solo limite imposto dal divieto per l'interprete di
correggere il significato delle parole impiegate dalla norma, soltanto
qualora la lettera di essa risulti ambigua, l'uno e l'altro criterio potendo
infine acquistare un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico
allorché singolarmente impiegati si rivelino inidonei allo scopo (Cass.,
Sez. I, 06/04/2001, n. 5128) (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
ordinanza 18.06.2018 n. 16083). |
ANNO 2021 |
|
aggiornamento al
31.12.2021 (ore 23,59) |
|
Dell'impugnazione governativa alla Consulta ne
davamo conto con l'AGGIORNAMENTO
AL 21.04.2021 ed il Giudice delle leggi s'è
pronunciato:
è
incostituzionale la prorogata validità
"a)
di tutti i certificati, attestati, permessi,
concessioni, autorizzazioni e atti o titoli
abilitativi, comunque denominati, in scadenza dal
31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla
data di relativa scadenza"
di cui all’art.
28, comma 1, lett. a), della L.R. 07.08.2020 n. 18
(Assestamento
al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi
regionali),
come delimitato –nel suo ambito di applicazione–
dall’art.
20, comma 2, lett. b), della L.R. 27.11.2020 n. 22
(Seconda legge
di revisione normativa ordinamentale 2020). |
EDILIZIA PRIVATA: Titoli
edilizi, illegittima la proroga automatica decisa dalla Lombardia per il
Covid.
La Regione Lombardia non può prorogare la validità dei titoli edilizi
rilasciati durante l'emergenza Covid 2019 oltre il termine previsto dalla
normativa nazionale in quanto il regime dei titoli abilitativi costituisce
principio fondamentale della materia concorrente "governo del territorio"
rimesso alla potestà legislativa dello Stato ex articolo 117, comma terzo,
della Costituzione.
Lo ha stabilito la Consulta con la
sentenza 21.12.2021 n. 245,
che, su ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei Ministri, ha
dichiarato incostituzionale l'articolo 28, comma 1, lettera a), della legge
regionale 07.08.2020 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di
leggi regionali) che proroga automaticamente di tre anni «la validità di
tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti
o titoli abilitativi, comunque denominati, fino al 31.12.2021».
Norma che il Giudice delle leggi ha ritenuto in contrasto con:
- l'articolo 103, comma 2, del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 "Misure
connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19" secondo cui tutti i
titoli abilitativi in scadenza tra il 31.01.2020 e la dichiarazione di
cessazione dello stato di emergenza (ad oggi fissata al 31.03.2022)
conservano la loro efficacia sino ai novanta giorni successivi a tale
dichiarazione;
- l'articolo 10, comma 4, del decreto legge n. 76 del 2020 "Misure
urgenti per la semplificazione", nuovamente intervenuto in materia, di
emergenza Covid- 19, che stabilisce che, «[p]er effetto della
comunicazione del soggetto interessato di volersi avvalere del presente
comma, sono prorogati di tre anni i termini di inizio e di ultimazione dei
lavori di cui all'articolo 15, come indicati nei permessi di costruire
rilasciati o comunque formatisi fino al 31.12.2020, purché i suddetti
termini non siano già decorsi al momento della comunicazione
dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in
contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi
strumenti urbanistici approvati o adottati»;
- gli articoli 12 e 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, recanti
rispettivamente la disciplina in tema di presupposti per il rilascio del
permesso di costruire e di efficacia temporale e decadenza del permesso di
costruire.
La sentenza
L'Avvocatura generale dello Stato aveva impugnato la norma regionale
evidenziando che:
1) il legislatore statale era intervenuto in materia con interventi
graduali, proporzionati alla situazione emergenziale, subordinando la
proroga dei termini di inizio e ultimazione dei lavori dei permessi di
costruire alla comunicazione dell'interessato e alla perdurante conformità
del titolo agli strumenti urbanistici approvati o adottati, mentre la
Regione Lombardia aveva introdotto una proroga automatica e di maggiore
ampiezza al punto di rendere «variabile lo ius aedificandi»;
2) la norma regionale si sarebbe discostata dalla disciplina
statale che subordina la proroga alla compatibilità del titolo abilitativo
con gli strumenti urbanistici «anche meramente adottati», in
applicazione dell'articolo 12, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 («In
caso di contrasto dell'intervento oggetto della domanda di permesso di
costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa
ogni determinazione in ordine alla domanda»).
Argomentazioni che ha la Corte costituzionale ha condiviso («Le pur gravi
difficoltà che investono il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro
riscontrabili anche in altre realtà regionali, non giustificano
l'introduzione di un regime regionale difforme»).
L'Alta Corte ha confermato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui le
norme che disciplinano i titoli abilitativi sono riconducibili al rango di
principi fondamentali della materia "governo del territorio" (ex
plurimis, sentenza n. 125 del 2017, n. 49 del 2016 e n. 309 del 2011: «La
Corte ritiene principi fondamentali della materia le disposizioni che
definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste
ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al
procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche
penali».
Orientamento che l'Alta Corte ha più volte ribadito. Basta citare la
sentenza n. 2 del 2021 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di
alcune norme della legge della Regione Toscana 22.11.2019, n. 69
(Disposizioni in materia di governo del territorio) affermando che l'obbligo
di non iniziare i lavori prima di trenta giorni dalla segnalazione,
stabilito dall'articolo 23, comma 1, del testo unico edilizia, «concorre
a caratterizzare indefettibilmente il regime del titolo abilitativo della
"superScia", e costituisce anch'esso principio fondamentale della materia
"governo del territorio"»
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 27.12.2021). |
EDILIZIA PRIVATA:
Titoli edilizi ed emergenza Covid: incostituzionale la proroga della
Lombardia. La Corte Costituzionale ha confermato il contrasto con quanto
disposto dallo Stato a seguito dell'emergenza sanitaria.
Scadenza termini titoli abilitativi ed emergenza COVID-19: la proroga
disposta dalla regione Lombardia (legge 18/2020) è incostituzionale.
Proroga termini titoli abilitativi: la sentenza della Corte
Costituzionale
Così ha disposto la Corte Costituzionale, con la
sentenza 21.12.2021 n. 245,
per avere agito in difformità da quanto ha previsto lo Stato con i decreti
legge n. 18/2020 e n. 76/2020.
Nella fattispecie, il giudizio ha riguardato la legittimità costituzionale
dell’art. 28 della legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18
(Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali).
Tale norma prevedeva:
●
la proroga di tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni,
autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza
dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla data di relativa
scadenza;
●
la proroga delle convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 46 della
legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e
dei termini da esse stabiliti, nonché di quelli contenuti in accordi
similari, comunque denominati, previsti dalla legislazione regionale in
materia urbanistica, stipulati antecedentemente alla data di entrata in
vigore della presente legge, che conservano validità per tre anni dalla
relativa scadenza.
Secondo il Governo, la disposizione regionale impugnata ha dettato una
disciplina difforme da quella statale, contenuta nell’art. 103, commi 2 e
2-bis, del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 (c.d. Decreto “Cura Italia”),
convertito, con modificazioni, in legge 24.04.2020, n. 27, e nel successivo,
integrativo art. 10, commi 4 e 4-bis, del decreto-legge 16.07.2020, n. 76
(c.d. “Decreto Semplificazioni”) convertito, con modificazioni, in
legge 11.09.2020, n. 120.
In particolare, viene sottolineata:
●
la maggiore ampiezza della proroga disposta in ambito regionale, che ha
prolungato di tre anni la validità dei permessi di costruire in scadenza
fino al 31.12.2021;
●
l’automatismo che la connota, laddove il legislatore statale ha proceduto
con interventi graduali, proporzionati alla situazione emergenziale,
subordinando la proroga dei termini di inizio e ultimazione dei lavori dei
permessi di costruire alla comunicazione dell’interessato, nonché alla
perdurante conformità del titolo agli strumenti urbanistici approvati o
adottati: in particolare l’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020 ne
subordina l’efficacia alla richiesta dell’interessato e alla perdurante
compatibilità del titolo oggetto della richiesta di proroga con gli
strumenti urbanistici, generali o particolareggiati, nel frattempo adottati.
Inoltre la norma impugnata:
●
sarebbe costituzionalmente illegittima anche sotto il profilo della
violazione del principio di necessaria unitarietà della proroga, tanto dei
termini di validità dei titoli, quanto dei termini di inizio e ultimazione
dei lavori;
●
contrasterebbe con la legislazione statale prima richiamata anche con
riferimento alla causale dell’emergenza su cui esplicitamente si fonda,
poiché vengono meno i principi di proporzionalità e limitatezza temporale.
La proroga disposta dal legislatore regionale, riferita ai titoli
abilitativi in scadenza fino al 31.12.2021, violerebbe palesemente tali
principi.
Emergenza
Covid-19 e proroga titoli edilizi: il quadro normativo di riferimento
Nel giudicare il caso, la Corte Costituzionale ha preliminarmente fatto un
excursus delle norme di riferimento:
●
con l’art. 103, comma 1, del d.l. n. 18 del 17.03.2020 (cosiddetto Decreto
cura Italia), il legislatore ha approntato il primo intervento urgente: la
paralisi dell’attività amministrativa e l’esigenza di garantire la
protezione della salute e gli interessi collegati all’azione della pubblica
amministrazione, hanno indotto a prevedere la sospensione dei termini di
tutti i procedimenti amministrativi;
●
in sede di conversione in legge, si è stabilito che gli atti e i titoli in
scadenza tra il 31 gennaio e il 31.07.2020 conservano «validità» per
i novanta giorni successivi alla data della dichiarazione di cessazione
dello stato di emergenza, con previsione espressamente estesa ai termini di
inizio e di ultimazione dei lavori di cui all’art. 15 del d.P.R., n.
380/2001, alle segnalazioni certificate di inizio attività (SCIA), alle
segnalazioni di agibilità, alle autorizzazioni paesaggistiche e alle
autorizzazioni ambientali, comunque denominate;
●
nel luglio 2020, nel permanere dell’emergenza, il legislatore è tornato a
occuparsi di alcuni provvedimenti specifici –i permessi di costruire– per
ricalibrare la proroga automatica e generalizzata inizialmente disposta con
l’art. 103, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020: ecco quindi l’art. 10, comma
4, del d.l. n. 76 del 2020 (cosiddetto Decreto semplificazioni), come
convertito nella legge n. 120 del 2020, che ha previsto che i termini di
inizio e ultimazione dei lavori di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001,
come indicati nei permessi di costruire formatisi fino al 31.12.2020, sono
prorogati, se l’interessato comunica di volersi avvalere di tale proroga. Al
momento della comunicazione i termini non devono essere già decorsi e il
titolo deve risultare conforme agli strumenti urbanistici approvati o
adottati. Questa disciplina è stata espressamente estesa alle segnalazioni
di inizio attività presentate entro lo stesso termine (31.12.2020).
●
a causa del protrarsi dell’emergenza epidemiologica, il legislatore è
nuovamente intervenuto: l’art. 3, comma 1, lettera a), del d.l. n. 125 del
2020, come convertito, ha modificato l’art. 103, comma 2, sostituendo la
data del «31.07.2020» con «la data della dichiarazione di
cessazione dello stato di emergenza», così prorogando la validità di
tutti gli atti e titoli in scadenza nell’intero periodo emergenziale, a
partire dal 31.01.2020;
●
l’art. 3-bis, comma 1, lettera b), dello stesso d.l. n. 125 del 2020, ha
introdotto nell’art. 103 il comma 2-sexies, in cui si prevede che tutti gli
atti e provvedimenti indicati al comma 2 dell’art. 103 «scaduti» tra
il 01.08.2020 e la data di entrata in vigore della legge di conversione n.
159 del 2020 (27.11.2020), e non rinnovati, «si intendono validi e sono
soggetti alla disciplina di cui al medesimo comma 2». In questo modo, è
stata recuperata la validità degli atti in scadenza nel periodo successivo
al 31.07.2020, non compresi nella prima proroga. La disciplina dettata
dall’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020 è riferita solo ai permessi
di costruire e alla SCIA, mentre gli altri titoli abilitativi sono
assoggettati alla previsione dell’art. 103, comma 2, del d.l. n. 18 del
2020, come modificato.
Infine, con il decreto-legge 23.07.2021, n. 105, convertito, con
modificazioni, in legge 16.09.2021, n. 126, l’emergenza da COVID-19 è stata
prorogata fino al 31.12.2021.
Proroga automatica contrasta con le norme statali
La Corte Costituzionale quindi ha evidenziato che l’art. 28, comma 1,
lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, nel disporre la
proroga dei titoli abilitativi in modo difforme da quanto previsto nella
disciplina statale (artt. 103, comma 2, d.l. n. 18 del 2020, come
convertito, e 10, comma 4, d.l. n. 76 del 2020, come convertito), entra in
collisione con un principio fondamentale.
Il raffronto tra le norme statali interposte e la disciplina regionale rende
palese la diversità della proroga automatica disposta dalla Regione
Lombardia in riferimento a:
●
tipologia dei titoli abilitativi;
●
durata della proroga, che la disposizione regionale ha indicato in tre anni
dalla scadenza, mentre la norma statale ha individuato il termine finale nel
novantesimo giorno successivo alla dichiarazione di cessazione dello stato
di emergenza;
●
art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020, che ha previsto una disciplina
specifica della proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori
indicati nei permessi di costruire di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380 del
2001, eliminando l’automatismo e subordinando la concessione della proroga
alla richiesta dell’interessato, nonché alla perdurante compatibilità del
titolo oggetto di proroga con gli strumenti urbanistici approvati o
adottati.
Inoltre, nel testo che risulta a seguito della legge di conversione, è
previsto un termine differenziato di proroga dei suddetti termini,
rispettivamente di un anno e di tre anni.
La disciplina regionale è, pertanto, completamente differente rispetto a
quella statale.
Il Collegio ha quindi ricordato che la durata dei titoli abilitativi
rappresenta un punto di equilibrio fra i contrapposti interessi oggetto di
tutela, inerenti alla realizzazione di interventi di trasformazione del
territorio compatibili con la tutela dell’ambiente e dell’ordinato sviluppo
urbanistico, per ciò stesso assegnato a titolo esclusivo al legislatore
statale, secondo il sistema delineato dal d.P.R. n. 380 del 2001.
La
disciplina statale riguarda tutto il territorio nazionale
In una situazione inusuale di emergenza epidemiologica come quella da
COVID-19, l’intervento del legislatore è consistito nel prorogare i titoli
abilitativi in termini omogenei su tutto il territorio nazionale: "incidendo
sulla durata, le norme statali interposte partecipano della natura di
“principio fondamentale” che connota la disciplina dei titoli abilitativi,
con l’effetto di vincolare le Regioni. Le pur gravi difficoltà che investono
il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro riscontrabili anche in
altre realtà regionali, non giustificano l’introduzione di un regime
regionale difforme”.
Con le norme emanate, lo Stato ha disposto la proroga generalizzata dei
titoli abilitativi, seguendo lo sviluppo dell’emergenza epidemiologica e
delle sue ricadute, nel bilanciamento di interessi potenzialmente
confliggenti che connotano gli interventi sul territorio: da un lato,
l’interesse dei beneficiari dei titoli abilitativi a esercitare i propri
diritti, e l’interesse pubblico a non vincolare l’uso del territorio per un
tempo eccessivo, dall’altro. L’intervento statale ha inteso rispondere a
esigenze che riguardano l’intero territorio nazionale, colpito dalla
pandemia, con effetti drammatici che hanno inciso il tessuto sociale ed
economico.
L’art. 28, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia
07.08.2020, n. 18, è stato quindi giudicato illegittimo, ad esclusione della
parte in cui, nel testo antecedente all’entrata in vigore della legge reg.
Lombardia n. 22 del 2020, prevedeva la proroga delle autorizzazioni
paesaggistiche (23.12.2021 - tratto da e link a
www.lavoripubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: F.
Donegani,
Pandemia e proroga dei titoli abilitativi in Lombardia: l'intervento della
Corte Costituzionale (22.12.2021 - link a
www.dirittopa.it).
---------------
Fin dalle prime fasi della pandemia, il legislatore nazionale si è
preoccupato di prorogare i termini di titoli edilizi e convenzioni, sia per
preservarne la validità a fronte del blocco delle attività, che per favorire
il rilancio dell'economia accordando più ampi tempi di attuazione degli
interventi edilizi. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: La
proroga dei titoli abilitativi edilizi è riservata allo Stato.
La Corte Costituzionale, con la
sentenza 21.12.2021 n. 245,
ha dichiarato illegittima la disposizione della Regione Lombardia di proroga
dei termini dei titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di
lottizzazione, impugnata dal Governo perché in contrasto con la disciplina
statale che, incidendo sulla durata dei titoli abilitativi, partecipa della
natura di principio fondamentale della materia del governo del territorio. “Le
pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in
Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non
giustificano l’introduzione di un regime regionale difforme’’.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art.
117, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 28 della legge della Regione Lombardia 07.08.2020,
n. 18 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali).
In particolare la disposizione regionale impugnata, prevedeva che in
considerazione del permanere di gravi difficoltà per il settore delle
costruzioni, derivanti dall’emergenza epidemiologica da COVID-19, “fosse
prorogata la validità:
a) di tutti certificati, attestati, permessi, concessioni,
autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza
dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla data di relativa
scadenza;
b) delle convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 46 della
legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e
dei termini da esse stabiliti, nonché di quelli contenuti in accordi
similari, comunque denominati, previsti dalla legislazione regionale in
materia urbanistica, stipulati antecedentemente alla data di entrata in
vigore della presente legge, che conservano validità per tre anni dalla
relativa scadenza".
Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che la disposizione
regionale violi il riparto di competenze in quanto proroga la validità dei
titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione. Infatti
la normativa in esame è riconducibile alla materia «governo del
territorio», di competenza legislativa concorrente, e che, all’interno
di tale ambito materiale, la disciplina dei titoli edilizi e paesaggistici
assurga al rango di principio fondamentale, anche con riferimento alla
durata.
La disposizione regionale, con l’introdurre una disciplina sostitutiva di
quella statale sulla proroga dei titoli, violerebbe l’art. 117, terzo comma,
Cost., per il tramite del parametro interposto costituito dalle norme
statali richiamate, che esprimono principi fondamentali della materia.
Sentenza della Corte
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 245/2021 del 21.12.2021, ha
dichiarato incostituzionale la proroga dei termini dei titoli abilitativi
disposta durante l’emergenza COVID-19 dalla regione Lombardia (legge
18/2020) in modo difforme da quanto ha previsto lo Stato con i decreti legge
18 e 76 del 2020.
‘‘Le pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in
Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non
giustificano l’introduzione di un regime regionale difforme’’. La Corte
ha inoltre osservato che, nel seguire lo sviluppo dell’emergenza COVID-19 e
delle sue drammatiche ricadute, il legislatore statale ha inteso bilanciare
l’interesse dei beneficiari dei titoli a conservare i rispettivi diritti e
l’interesse pubblico a non vincolare l’uso del territorio per un tempo
eccessivo. Di qui la proroga generalizzata dei titoli abilitativi su tutto
il territorio nazionale, fino al novantesimo giorno successivo alla
cessazione dello stato di emergenza (21.12.2021 - tratto da
www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Art. 28 l.r. Lombardia n.
18/2020 – Illegittimità costituzionale – Emergenza
epidemiologica – Proroga dei titoli abilitativi difforme
rispetto alla previsione statale di cui agli artt. 103, c. 2
d.l. n. 18/2020 e 10, c. 4, d.l. n. 76/2020 – Durata dei
titoli abilitativi – Principio fondamentale assegnato a
titolo esclusivo al legislatore statale.
Va dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 28, comma 1, lettera a), della
legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18
(Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi
regionali), come delimitato –nel suo ambito di applicazione–
dall’art. 20, comma 2, lettera b), della legge della Regione
Lombardia 27.11.2020, n. 22 (Seconda legge di revisione
normativa ordinamentale 2020).
La norma, nel disporre la proroga dei titoli abilitativi in
modo difforme da quanto previsto nella disciplina statale (artt.
103, comma 2, d.l. n. 18 del 2020, come convertito, e 10,
comma 4, d.l. n. 76 del 2020, come convertito), entra in
collisione con un principio fondamentale, in tema di durata
dei titoli abilitativi, nella cui determinazione si ravvisa
un punto di equilibrio fra i contrapposti interessi oggetto
di tutela, inerenti alla realizzazione di interventi di
trasformazione del territorio compatibili con la tutela
dell’ambiente e dell’ordinato sviluppo urbanistico, per ciò
stesso assegnato a titolo esclusivo al legislatore statale.
La diversità della proroga automatica disposta dalla Regione
Lombardia è resa palese dal raffronto tra le norme statali
interposte e la disciplina regionale, con riferimento sia
all’oggetto –individuato in «tutti i certificati, attestati,
permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli
abilitativi, comunque denominati» in scadenza dal 31.01.2020
fino al 31.12.2021, laddove l’art. 103, comma 2, del d.l. n.
18 del 2020, prevedeva la proroga automatica degli atti e
titoli abilitativi in scadenza tra il 31.01.2020 e il
31.07.2020–, sia alla durata della proroga, che la
disposizione regionale ha indicato in tre anni dalla
scadenza, mentre la norma statale ha individuato il termine
finale nel novantesimo giorno successivo alla dichiarazione
di cessazione dello stato di emergenza.
La difformità si riscontra anche con riferimento alla
previsione integrativa dettata dall’art. 10, comma 4, del
d.l. n. 76 del 2020, che ha previsto una disciplina
specifica della proroga dei termini di inizio e di
ultimazione dei lavori indicati nei permessi di costruire di
cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, eliminando
l’automatismo e subordinando la concessione della proroga
alla richiesta dell’interessato, nonché alla perdurante
compatibilità del titolo oggetto di proroga con gli
strumenti urbanistici approvati o adottati.
Al disallineamento dei termini di proroga si affianca una
disciplina strutturalmente diversa, giacché il d.l. n. 76
del 2020, intervenuto nella seconda fase dell’emergenza, ha
superato l’automatismo della prima generalizzata proroga,
introducendo elementi condizionali (Corte
Costituzionale,
sentenza 21.12.2021 n. 245 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
EMERGENZA COVID: LA PROROGA DEI TITOLI
ABILITATIVI EDILIZI E PAESAGGISTICI E’ RISERVATA
ALLO STATO.
È incostituzionale la proroga dei termini dei titoli
abilitativi disposta durante l’emergenza COVID-19
dalla regione Lombardia (legge 18/2020) in modo
difforme da quanto ha previsto lo Stato con i
decreti legge 18 e 76 del 2020.
‘‘Le pur gravi difficoltà che investono il
settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro
riscontrabili anche in altre realtà regionali, non
giustificano l’introduzione di un regime regionale
difforme’’.
È quanto si legge nella
sentenza n. 245 depositata oggi (relatrice
Silvana Sciarra). La Corte costituzionale ha
dichiarato illegittima la disposizione regionale di
proroga dei termini, impugnata dal Governo perché in
contrasto con la disciplina statale che, incidendo
sulla durata dei titoli abilitativi, partecipa della
natura di principio fondamentale della materia del
governo del territorio.
La Corte ha osservato che, nel seguire lo sviluppo
dell’emergenza COVID-19 e delle sue drammatiche
ricadute, il legislatore statale ha inteso
bilanciare l’interesse dei beneficiari dei titoli a
conservare i rispettivi diritti e l’interesse
pubblico a non vincolare l’uso del territorio per un
tempo eccessivo. Di qui la proroga generalizzata dei
titoli abilitativi su tutto il territorio nazionale,
fino al novantesimo giorno successivo alla
cessazione dello stato di emergenza (Corte
Costituzionale,
comunicato
stampa 21.12.2021).
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SENTENZA
1.– Con il
ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 95
del 2020), il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art.
117, terzo comma, della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art.
28 della legge della Regione Lombardia 07.08.2020,
n. 18 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con
modifiche di leggi regionali).
2.– L’impugnato art. 28, rubricato «Differimento
di termini e sospensione dell’efficacia di atti in
materia di governo del territorio in considerazione
dell’emergenza epidemiologica da COVID-19», ha
disposto «[a]nche in considerazione del permanere
di gravi difficoltà per il settore delle
costruzioni, derivanti dall’emergenza epidemiologica
da COVID-19», la proroga della validità di atti
e titoli abilitativi.
In particolare l’art.
28, comma 1, ha previsto, alla lettera a), la
proroga della validità di «tutti i certificati,
attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e
atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in
scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per
tre anni dalla data di relativa scadenza», e,
alla lettera b), la proroga della validità delle «convenzioni
di lottizzazione di cui all’articolo 46 della legge
regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio) e dei termini da esse stabiliti,
nonché di quelli contenuti in accordi similari,
comunque denominati, previsti dalla legislazione
regionale in materia urbanistica, stipulati
antecedentemente alla data di entrata in vigore
della presente legge, che conservano validità per
tre anni dalla relativa scadenza».
2.1.– Il ricorrente ritiene che la disposizione
regionale violi il riparto di competenze in quanto
proroga la validità dei titoli edilizi,
paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione
difformemente da quanto previsto dalla disciplina
statale nell’art.
103, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge 17.03.2020,
n. 18 (Misure di potenziamento del
Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico
per famiglie, lavoratori e imprese connesse
all’emergenza epidemiologica da COVID-19),
convertito, con modificazioni, in legge 24.04.2020,
n. 27, e nel successivo, integrativo
art. 10, commi 4 e 4-bis, del
decreto-legge 16.07.2020, n. 76 (Misure
urgenti per la semplificazione e l’innovazione
digitale) convertito, con modificazioni, in legge
11.09.2020, n. 120.
2.2.– Il ricorrente muove dall’assunto che la
normativa in esame sia riconducibile alla materia «governo
del territorio», di competenza legislativa
concorrente, e che, all’interno di tale ambito
materiale, la disciplina dei titoli edilizi e
paesaggistici assurga al rango di principio
fondamentale, anche con riferimento alla durata.
La disposizione regionale, con l’introdurre una
disciplina sostitutiva di quella statale sulla
proroga dei titoli, violerebbe l’art. 117, terzo
comma, Cost., per il tramite del parametro
interposto costituito dalle norme statali
richiamate, che esprimono principi fondamentali
della materia.
2.3.– La Regione Lombardia ha contestato che la
proroga dei titoli abilitativi rientri nella
normativa di principio riservata allo Stato in
materia di «governo del territorio»,
assumendo che il legislatore regionale possa
modulare diversamente la proroga per soddisfare
esigenze peculiari del territorio.
3.– Occorre, in via preliminare, esaminare le
eccezioni di inammissibilità sollevate dalla Regione
resistente.
3.1.– La Regione Lombardia, anzitutto, eccepisce
l’inammissibilità del ricorso promosso avverso
l’intero
art. 28 della legge reg. Lombardia n. 18 del 2020,
in quanto sia la delibera di impugnazione del
ricorso del Consiglio dei ministri che il ricorso
non avrebbero individuato con sufficiente
determinatezza le disposizioni impugnate,
limitandosi a richiamare genericamente l’intero art.
28, che contiene disposizioni fra loro non omogenee.
3.1.1. – L’eccezione è priva di fondamento.
Come riconosciuto dalla stessa Regione Lombardia,
sia dalla delibera di proposizione del ricorso, sia
dal ricorso stesso emerge chiaramente che le censure
di illegittimità costituzionale sono riferite alle
sole prescrizioni contenute nel comma 1 del citato
art. 28. Pertanto, lo scrutinio di questa Corte è
circoscritto a tale comma.
3.2.– Deve essere, del pari, rigettata l’eccezione
di inammissibilità formulata dalla difesa regionale
con riguardo alla proroga della validità delle
autorizzazioni paesaggistiche.
Il ricorrente, pur senza soffermarsi sulla dedotta
violazione, chiaramente si duole che la proroga
disposta dall’art.
28, comma 1, lettera a), investe i titoli
autorizzativi anche paesaggistici, prevedendo
termini diversi da quelli fissati dalla disciplina
statale.
3.3.– Ancora in linea preliminare, occorre rilevare
che, con atto depositato il 19.11.2021, il
Presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato
di rinunciare al ricorso limitatamente alla
impugnazione dell’art.
28, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia
n. 18 del 2020, in ragione della sopravvenuta
abrogazione della citata disposizione ad opera dell’art.
18, comma 1, lettera a), della legge della Regione
Lombardia 27.11.2020, n. 22 (Seconda legge di
revisione normativa ordinamentale 2020).
La Regione resistente, con delibera di Giunta
pervenuta in data 30.11.2021, ha dichiarato di
accettare la rinuncia.
Ciò comporta l’estinzione del processo,
limitatamente alla questione di legittimità
costituzionale dell’art.
28, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia
n. 18 del 2020, promossa dal Governo in
riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost.
3.4.– Con la memoria illustrativa, la difesa
regionale ha segnalato l’ulteriore sopravvenienza
normativa costituita dal
comma 1-bis dell’art. 28 della legge reg. Lombardia
n. 18 del 2020, inserito dall’art. 20, comma 2,
lettera b), della legge reg. Lombardia n. 22 del
2020, entrata in vigore il 30.11.2020, precisando
che tale disposizione ha escluso le autorizzazioni
paesaggistiche dalla proroga di cui al comma 1. Una
tale sopravvenienza comporterebbe, secondo la difesa
regionale, la cessazione della materia del
contendere.
Il periodo di vigenza della disposizione regionale
impugnata –11.08.2020-30.11.2020– è allineato con la
disciplina statale, contenuta nell’art.
103, comma 2-sexies, del d.l. n. 18 del 2020,
aggiunto dal decreto-legge 07.10.2020, n. 125,
recante «Misure urgenti connesse con la proroga
della dichiarazione dello stato di emergenza
epidemiologica da COVID-19, per il differimento di
consultazioni elettorali per l’anno 2020 e per la
continuità operativa del sistema di allerta COVID,
nonché per l’attuazione della direttiva (UE)
2020/739 del 03.06.2020, e disposizioni urgenti in
materia di riscossione esattoriale», convertito,
con modificazioni, in legge 27.11.2020, n. 159. La
norma regionale impugnata avrebbe potuto operare
dopo novanta giorni dalla scadenza della
dichiarazione dello stato di emergenza previsto
dalla normativa statale, ovvero dopo il 31.01.2021 e
dunque non ha trovato applicazione, come affermato
dalla difesa regionale nella memoria illustrativa.
Sussistono pertanto i presupposti per dichiarare
cessata la materia del contendere con riguardo alla
questione di legittimità costituzionale dell’art.
28, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia
n. 18 del 2020, nella sola parte relativa alla
proroga delle autorizzazioni paesaggistiche.
4.– Nel merito, la questione di legittimità
costituzionalità, circoscritta alla restante parte
della lettera a) del comma 1 dell’art. 28, è
fondata.
4.1.– È opportuno ricostruire diacronicamente il
succedersi degli interventi statali, ispirati, sia
pure nella diversa modulazione tra la prima e la
seconda fase dell’emergenza epidemiologica da
COVID-19, dall’impellente esigenza di preservare, su
tutto il territorio nazionale, la validità e
l’efficacia dei titoli abilitativi altrimenti
compromessa dal blocco delle attività.
4.1.1.– Con l’art.
103, comma 1, del d.l. n. 18 del 17.03.2020
(cosiddetto Decreto cura Italia), il legislatore ha
approntato il primo intervento urgente. La paralisi
dell’attività amministrativa e l’esigenza di
garantire la protezione della salute e gli interessi
collegati all’azione della pubblica amministrazione,
hanno indotto il legislatore a prevedere la
sospensione dei termini di tutti i procedimenti
amministrativi.
In larga parte sovrapponibile è la ratio che
sorregge la previsione contenuta nel successivo
comma 2, rilevante in questo giudizio, che dispone
la proroga della validità degli atti e provvedimenti
e titoli abilitativi già perfezionati, nonché lo
slittamento dei termini in essi previsti.
Al di là del riferimento agli atti amministrativi di
certazione (certificati, attestati), il catalogo
riguarda provvedimenti ampliativi della sfera
giuridica dei destinatari, quali i titoli
abilitativi, che conformano lo ius aedificandi,
e nascono temporalmente limitati. Lo scopo che la
proroga si prefigge è mantenere intatta la posizione
dei destinatari fino alla fine dell’emergenza.
In sede di conversione in legge, si è stabilito che
gli atti e i titoli in scadenza tra il 31 gennaio e
il 31.07.2020 conservano «validità» per i
novanta giorni successivi alla data della
dichiarazione di cessazione dello stato di
emergenza, con previsione espressamente estesa ai
termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui
all’art. 15 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante «Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia edilizia (Testo A)», alle
segnalazioni certificate di inizio attività (SCIA),
alle segnalazioni di agibilità, alle autorizzazioni
paesaggistiche e alle autorizzazioni ambientali,
comunque denominate.
4.1.2.– Nel luglio 2020, nel permanere
dell’emergenza, il legislatore è tornato a occuparsi
di alcuni provvedimenti specifici –i permessi di
costruire– per ricalibrare la proroga automatica e
generalizzata inizialmente disposta con l’art.
103, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020.
L’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020
(cosiddetto Decreto semplificazioni), come
convertito nella legge n. 120 del 2020, ha previsto
che i termini di inizio e ultimazione dei lavori di
cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, come
indicati nei permessi di costruire formatisi fino al
31.12.2020, sono prorogati, se l’interessato
comunica di volersi avvalere di tale proroga. Al
momento della comunicazione i termini non devono
essere già decorsi e il titolo deve risultare
conforme agli strumenti urbanistici approvati o
adottati.
Questa disciplina è stata espressamente estesa alle
segnalazioni di inizio attività presentate entro lo
stesso termine (31.12.2020).
4.1.3.– A causa del protrarsi dell’emergenza
epidemiologica, il legislatore è nuovamente
intervenuto. L’art. 3-bis, comma 1, lettera a), del d.l.
n. 125 del 2020, come convertito, ha modificato
l’art. 103, comma 2, sostituendo la data del «31.07.2020»
con «la data della dichiarazione di cessazione
dello stato di emergenza», così prorogando la
validità di tutti gli atti e titoli in scadenza
nell’intero periodo emergenziale, a partire dal
31.01.2020.
L’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del medesimo d.l.
n. 125 del 2020, ha introdotto nell’art.
103 il comma 2-sexies, in cui si prevede che
tutti gli atti e provvedimenti indicati al comma 2
dell’art. 103 «scaduti» tra il 01.08.2020 e
la data di entrata in vigore della legge di
conversione n. 159 del 2020 (27.11.2020), e non
rinnovati, «si intendono validi e sono soggetti
alla disciplina di cui al medesimo comma 2».
In questo modo, è stata recuperata la validità degli
atti in scadenza nel periodo successivo al
31.07.2020, non compresi nella prima proroga.
La disciplina dettata dall’art. 10, comma 4, del
d.l. n. 76 del 2020 è riferita ai permessi di
costruire e alla SCIA, mentre gli altri titoli
abilitativi sono assoggettati alla previsione
dell’art.
103, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020,
come modificato.
4.1.4.– Infine, con il
decreto-legge 23.07.2021, n.
105 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza
epidemiologica da COVID-19 e per l’esercizio in
sicurezza di attività sociali ed economiche),
convertito, con modificazioni, in legge 16.09.2021,
n. 126, l’emergenza da COVID-19 è stata prorogata
fino al 31.12.2021.
5.– La disposizione regionale oggetto della
questione di legittimità costituzionalità deve
ricondursi alla materia «governo del territorio», di
competenza legislativa concorrente. Tale questione
si incentra sulla pretesa violazione delle
disposizioni statali relative alla proroga
generalizzata dei titoli abilitativi in ragione
della emergenza epidemiologica, qualificate come
disposizioni contenenti principi fondamentali della
materia, vincolanti per le Regioni.
5.1.– L’art.
28, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia
n. 18 del 2020, nel disporre la proroga dei
titoli abilitativi in modo difforme da quanto
previsto nella disciplina statale (artt. 103, comma
2, d.l. n. 18 del 2020, come convertito, e 10, comma
4, d.l. n. 76 del 2020, come convertito), entra in
collisione con un principio fondamentale.
Il raffronto tra le norme statali interposte e la
disciplina regionale rende palese la diversità della
proroga automatica disposta dalla Regione Lombardia,
con riferimento sia all’oggetto –individuato in «tutti
i certificati, attestati, permessi, concessioni,
autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque
denominati» in scadenza dal 31.01.2020 fino al
31.12.2021, laddove l’art.
103, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020, prevedeva
la proroga automatica degli atti e titoli
abilitativi in scadenza tra il 31.01.2020 e il
31.07.2020–, sia alla durata della proroga, che la
disposizione regionale ha indicato in tre anni dalla
scadenza, mentre la norma statale ha individuato il
termine finale nel novantesimo giorno successivo
alla dichiarazione di cessazione dello stato di
emergenza.
La difformità si riscontra anche con riferimento
alla previsione integrativa dettata dall’art. 10,
comma 4, del d.l. n. 76 del 2020, che ha previsto
una disciplina specifica della proroga dei termini
di inizio e di ultimazione dei lavori indicati nei
permessi di costruire di cui all’art. 15 del d.P.R.
n. 380 del 2001, eliminando l’automatismo e
subordinando la concessione della proroga alla
richiesta dell’interessato, nonché alla perdurante
compatibilità del titolo oggetto di proroga con gli
strumenti urbanistici approvati o adottati.
Inoltre, nel testo che risulta a seguito della legge
di conversione, è previsto un termine differenziato
di proroga dei suddetti termini, rispettivamente di
un anno e di tre anni.
La disciplina regionale è, pertanto, affatto
differente rispetto a quella statale.
Al disallineamento dei termini di proroga si
affianca una disciplina strutturalmente diversa,
giacché il d.l. n. 76 del 2020, intervenuto nella
seconda fase dell’emergenza, ha superato
l’automatismo della prima generalizzata proroga,
introducendo gli elementi condizionali sopra
indicati.
5.2. – Come già detto, la Regione contesta che la
disciplina dettata dalle norme interposte assurga al
rango di normazione di principio.
Per contrastare tale prospettazione si deve innanzi
tutto richiamare l’orientamento di questa Corte,
secondo cui la competenza legislativa concorrente
non è contraddistinta da una netta separazione di
materie, ma dal limite “mobile” e “variabile”
costituito dai principi fondamentali, limite che «è
incessantemente modulabile dal legislatore statale
sulla base di scelte discrezionali, ove espressive
di esigenze unitarie sottese alle varie materie»
(sentenza n. 68 del 2018, punto 12.1.1. del
Considerato in diritto, che richiama le sentenze n.
16 del 2010 e n. 50 del 2005).
5.3.– La riconducibilità delle norme che
disciplinano i titoli abilitativi al rango di
principi fondamentali della materia «governo del
territorio» è stata ripetutamente affermata da
questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 2 del
2021, n. 125 del 2017, n. 49 del 2016 e n. 309 del
2011).
Di recente si è ribadito che anche «la
definizione delle categorie di interventi edilizi a
cui si collega il regime dei titoli abilitativi
costituisce principio fondamentale della materia
concorrente “governo del territorio” (sentenze n. 68
del 2018 e n. 231 del 2016). L’obbligo di non
iniziare i lavori prima di trenta giorni dalla
segnalazione, stabilito dall’art. 23, comma 1, t.u.
edilizia, concorre a caratterizzare
indefettibilmente il regime del titolo abilitativo
della “superSCIA”, e costituisce anch’esso principio
fondamentale della materia» (sentenza n. 2 del
2021, punto 2.3.2. del Considerato in diritto).
5.4.– Il principio fondamentale che viene ora in
rilievo riguarda la durata dei titoli abilitativi,
nella cui determinazione si ravvisa un punto di
equilibrio fra i contrapposti interessi oggetto di
tutela, inerenti alla realizzazione di interventi di
trasformazione del territorio compatibili con la
tutela dell’ambiente e dell’ordinato sviluppo
urbanistico, per ciò stesso assegnato a titolo
esclusivo al legislatore statale, secondo il sistema
delineato dal d.P.R. n. 380 del 2001.
L’obiettivo perseguito dall’intervento statale,
nello svolgersi di una inusitata emergenza
epidemiologica come quella da COVID-19, è consistito
nel prorogare i titoli abilitativi in termini
omogenei su tutto il territorio nazionale.
Incidendo sulla durata, le norme statali interposte
partecipano della natura di “principio
fondamentale” che connota la disciplina dei
titoli abilitativi, con l’effetto di vincolare le
Regioni. Le pur gravi difficoltà che investono il
settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro
riscontrabili anche in altre realtà regionali, non
giustificano l’introduzione di un regime regionale
difforme.
Né risulta pertinente il richiamo della difesa
regionale alla proroga dei termini di inizio e di
ultimazione dei lavori prevista dal legislatore
statale con l’art. 30, comma 3, del decreto-legge
21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il
rilancio dell’economia), convertito, con
modificazioni, in legge 09.08.2013, n. 98. In quel
caso, era la stessa normativa statale di proroga
che, sorretta dalla diversa ratio di rilancio
dell’intero settore delle costruzioni, consentiva
alle Regioni di dettare termini diversi, in funzione
delle diverse esigenze dei territori.
5.5.– Con la disciplina richiamata a parametro
interposto, lo Stato ha disposto la proroga
generalizzata dei titoli abilitativi, seguendo lo
sviluppo dell’emergenza epidemiologica e delle sue
ricadute, nel bilanciamento di interessi
potenzialmente confliggenti che connotano gli
interventi sul territorio: l’interesse dei
beneficiari dei titoli abilitativi a esercitare i
diritti ivi conformati, da un lato, e l’interesse
pubblico a non vincolare l’uso del territorio per un
tempo eccessivo, dall’altro.
L’intervento statale ha inteso rispondere a esigenze
che riguardano l’intero territorio nazionale,
colpito dalla pandemia, con effetti drammatici che
hanno inciso il tessuto sociale ed economico.
Si deve, pertanto, dichiarare l’illegittimità
costituzionale dell’art.
28, comma 1, lettera a), della legge della Regione
Lombardia 07.08.2020, n. 18, con esclusione
della parte in cui, nel testo antecedente
all’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n.
22 del 2020, prevedeva la proroga delle
autorizzazioni paesaggistiche.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
28, comma 1, lettera a), della legge della Regione
Lombardia 07.08.2020, n. 18 (Assestamento al
bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi
regionali), come delimitato –nel suo ambito di
applicazione– dall’art.
20, comma 2, lettera b), della legge della Regione
Lombardia 27.11.2020, n. 22 (Seconda legge
di revisione normativa ordinamentale 2020);
2) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alla
questione di legittimità costituzionale dell’art.
28, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia
n. 18 del 2020, nella parte in cui –nel testo
antecedente all’entrata in vigore della legge reg.
Lombardia n. 22 del 2020– prevedeva la proroga delle
autorizzazioni paesaggistiche, promossa, in
riferimento all’art. 117, terzo comma, della
Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei
ministri con il ricorso indicato in epigrafe;
2) dichiara estinto il processo, limitatamente alla questione di
legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1,
lettera b), della legge reg. Lombardia n. 18 del
2020, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo
comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei
ministri con il ricorso indicato in epigrafe (Corte
Costituzionale,
sentenza 21.12.2021 n. 245). |
"A
questo punto la domanda sorge spontanea":
cosa succede ai
titoli edilizi prorogati ovvero ai
lavori intrapresi in forza della proroga triennale "regionale"
la cui norma è stata cassata dalla Consulta?
Detto
altrimenti,
quali sono le conseguenze di tale abrogazione? |
La
risposta capita a fagiuolo, come si suol dire,
grazie al recentissimo
parere 28.12.2021 n. 1984 del Consiglio di
Stato, Sez. I, laddove la Giustizia
Amministrativa lo commenta siccome riportato nel
prosieguo: |
EDILIZIA PRIVATA: Effetti
della sentenza che dichiara l'illegittimità
costituzionale di una norma regionale.
L'efficacia retroattiva della sentenza che dichiara
l'illegittimità costituzionale di una norma non si
estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti
che, sorti precedentemente alla pronuncia della
Corte costituzionale, abbiano dato luogo a
situazioni giuridiche ormai consolidate e
intangibili in virtù del passaggio in giudicato di
decisioni giudiziali, della definitività di
provvedimenti amministrativi non più impugnabili,
del completo esaurimento degli effetti di atti
negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o
decadenza, ovvero del compimento di altri atti o
fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale.
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Ha ricordato la Sezione che l’art. 136 Cost.
dispone che, quando la Corte costituzionale dichiara
l'illegittimità costituzionale di una norma di legge
o di atto avente forza di legge, la norma cessa di
avere efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione. Inoltre, l’art.
30, l. 11.03.1953, n. 87, prevede che “la
sentenza che dichiara l'illegittimità costituzionale
di una legge o di un atto avente forza di legge
dello Stato o di una Regione, entro due giorni dal
suo deposito in Cancelleria, è trasmessa, di
ufficio, al Ministro di grazia e giustizia od al
Presidente della Giunta regionale affinché si
proceda immediatamente e, comunque, non oltre il
decimo giorno, alla pubblicazione del dispositivo
della decisione nelle medesime forme stabilite per
la pubblicazione dell'atto dichiarato
costituzionalmente illegittimo. La sentenza, entro
due giorni dalla data del deposito viene, altresì,
comunicata alle Camere e ai Consigli regionali
interessati, affinché, ove lo ritengano necessario
adottino i provvedimenti di loro competenza. Le
norme dichiarate incostituzionali non possono avere
applicazione dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione. Quando in
applicazione della norma dichiarata incostituzionale
è stata pronunciata sentenza irrevocabile di
condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli
effetti penali”.
Va osservato che l’invalidità della legge impugnata
per contrasto con norme gerarchicamente superiori
non produce effetto ipso iure, ma va
affermata con una sentenza di natura costitutiva,
vincolante erga omnes, che riguarda tutti i
soggetti dell’ordinamento e tutti i rapporti non
ancora definiti.
Con la sentenza di accoglimento la Corte dichiara l’illegittimità
costituzionale, anche solo parziale, della
disposizione impugnata che, come visto, cessa di
avere efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione (ex art. 136 Cost.). È stato
correttamente osservato dalla dottrina che
un’interpretazione letterale dell’art. 136 Cost.
lascerebbe qualificare l’effetto delle sentenze di
accoglimento come una sorta di abrogazione, dal
momento che la norma perde efficacia dal giorno
successivo alla pubblicazione della sentenza,
riguardando, pertanto, solo i rapporti futuri e non
quelli pendenti alla data della decisione.
In tal modo, tuttavia, si creerebbe una sorta di “corto
circuito” con il meccanismo dell’instaurazione
del giudizio di costituzionalità in via incidentale,
poiché, da un lato, il giudice rimettente può
sollevare la questione di incostituzionalità, sul
presupposto della sua rilevanza nel giudizio a
quo, e, dall’altro, la decisione di
incostituzionalità non dovrebbe poter produrre
effetti proprio sul giudizio a quo in quanto
la sua efficacia riguarderebbe solo i rapporti
futuri. La migliore dottrina sul punto ha rilevato
che in un ordinamento a Costituzione rigida sarebbe
contraddittorio che leggi dichiarate
costituzionalmente illegittime continuino a spiegare
effetti; peraltro, se la “perdita di efficacia”
valesse solo per l’avvenire, nessuna parte
solleverebbe la questione di legittimità
costituzionale “per il semplice motivo che non ne
avrebbe interesse”.
L’incongruenza lamentata –da parte di autorevole
dottrina definita “assurda”– è stata superata
con l’interpretazione dell’art. 136 Cost. ad opera
del citato
art. 30, l.
11.03.1953, n. 87, articolo quest’ultimo che
ha chiarito che le norme dichiarate incostituzionali
“non possono avere applicazione” dal giorno
successivo alla pubblicazione della decisione.
Pertanto, la “perdita di efficacia” dell’art.
136 Cost. diventa “perdita di ulteriore
applicabilità” delle norme dichiarate
incostituzionali, con riferimento a tutti i
rapporti, anche quelli già pendenti. In questo senso
l’effetto delle sentenze di accoglimento è
qualificato in termini di “annullamento”
della legge dichiarata incostituzionale che viene
espunta dall’ordinamento, mentre le leggi soltanto
abrogate da ulteriori disposizioni di legge (fatte
salve eventuali previsioni di retroattività delle
norme successive) continuano ad applicarsi ai
rapporti ancora pendenti alla data dell’abrogazione.
Il limite all’efficacia delle sentenze di
accoglimento è invece rappresentato dai rapporti
ormai esauriti per effetto di prescrizione,
decadenza o passaggio in giudicato di una sentenza,
prevalendo in questi casi il principio di certezza
del diritto.
In altri termini, mentre l’efficacia retroattiva
della dichiarazione di illegittimità costituzionale
è giustificata dalla stessa eliminazione della norma
che non può più regolare alcun rapporto giuridico,
salvo che si siano determinate situazioni giuridiche
ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge
–dal momento che la norma anteriore è pienamente
valida ed efficace fino al momento in cui non è
sostituita– la nuova legge non può che regolare i
rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i
quali vale il principio che la disciplina
applicabile è quella vigente al momento in cui si è
realizzata la situazione giuridica o il fatto
generatore del diritto. Unica eccezione alla regola
appena descritta si realizza in materia penale, come
chiaramente disposto dall’art.
30, comma 4, l. 11.03.1953, n. 87. Si tratta
in questo caso di un’applicazione del principio già
stabilito dall’articolo 2, comma 2, c.p., nonché “dalla
particolare tutela della libertà personale voluta
dalla nostra Costituzione”.
Nel diritto amministrativo, a differenza che nel diritto penale,
l'efficacia retroattiva delle pronunce di
illegittimità costituzionale si arresta, invece,
dinanzi ai rapporti esauriti. Il ruolo affidato alla
Corte come custode della Costituzione nella sua
integralità impone di evitare che la dichiarazione
di illegittimità costituzionale di una disposizione
di legge determini, paradossalmente, «effetti
ancor più incompatibili con la Costituzione»
(sentenza n. 13 del 2004) di quelli che hanno
indotto a censurare la disciplina legislativa.
Per evitare che ciò accada, è compito della Corte
modulare le proprie decisioni, anche sotto il
profilo temporale, in modo da scongiurare che
l'affermazione di un principio costituzionale
determini il sacrificio di un altro. Per la Corte è
pacifico che l'efficacia delle sentenze di
accoglimento non retroagisce fino al punto di
travolgere le «situazioni giuridiche comunque
divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti
esauriti». Diversamente, ne risulterebbe
compromessa la certezza dei rapporti giuridici
(sentenze n. 49 del 1970, n. 26 del 1969, n. 58 del
1967 e n. 127 del 1966).
Pertanto, il principio della retroattività «vale
[...] soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con
conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali
rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida»
(sentenza n. 139 del 1984, ripresa da ultimo dalla
sentenza n. 1 del 2014). In questi casi,
l'individuazione in concreto del limite alla
retroattività, dipendendo dalla specifica disciplina
di settore -relativa, ad esempio, ai termini di
decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti
amministrativi- che precluda ogni ulteriore azione o
rimedio giurisdizionale, rientra nell'ambito
dell'ordinaria attività interpretativa di competenza
del giudice comune (principio affermato, ex
plurimis, sin dalle sentenze n. 58 del 1967 e n.
49 del 1970 e poi ribadito con ordinanza 135 del
2010,
sentenza 11.02.2015 n. 10 e 191 del 2021).
Nel diritto amministrativo, dunque, la dichiarazione
di illegittimità costituzionale di una norma di
legge non può travolgere i provvedimenti
amministrativi ormai divenuti definitivi per mancata
impugnazione o per formazione del giudicato sulla
relativa controversia (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 28.12.2021 n. 1984 - commento tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
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PARERE
6. La sentenza che dichiara l’illegittimità
costituzionale.
Occorre ricordare innanzi tutto che l’art. 136 Cost.
dispone che, quando la Corte costituzionale dichiara
l'illegittimità costituzionale di una norma di legge
o di atto avente forza di legge, la norma cessa di
avere efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione.
Inoltre, l’art. 30 l. 11.03.1953, n. 87, prevede che
“la sentenza che dichiara l'illegittimità
costituzionale di una legge o di un atto avente
forza di legge dello Stato o di una Regione, entro
due giorni dal suo deposito in Cancelleria, è
trasmessa, di ufficio, al Ministro di grazia e
giustizia od al Presidente della Giunta regionale
affinché si proceda immediatamente e, comunque, non
oltre il decimo giorno, alla pubblicazione del
dispositivo della decisione nelle medesime forme
stabilite per la pubblicazione dell'atto dichiarato
costituzionalmente illegittimo.
La sentenza, entro due giorni dalla data del
deposito viene, altresì, comunicata alle Camere e ai
Consigli regionali interessati, affinché, ove lo
ritengano necessario adottino i provvedimenti di
loro competenza.
Le norme dichiarate incostituzionali non possono
avere applicazione dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione.
Quando in applicazione della norma dichiarata
incostituzionale è stata pronunciata sentenza
irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e
tutti gli effetti penali”.
Va osservato che l’invalidità della legge impugnata
per contrasto con norme gerarchicamente superiori
non produce effetto ipso iure, ma va affermata con
una sentenza di natura costitutiva, vincolante
erga omnes, che riguarda tutti i soggetti
dell’ordinamento e tutti i rapporti non ancora
definiti.
Con la sentenza di accoglimento la Corte dichiara
l’illegittimità costituzionale, anche solo parziale,
della disposizione impugnata che, come visto, cessa
di avere efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione (ex art. 136 Cost.).
È stato correttamente osservato dalla dottrina che
un’interpretazione letterale dell’art. 136 Cost.
lascerebbe qualificare l’effetto delle sentenze di
accoglimento come una sorta di abrogazione, dal
momento che la norma perde efficacia dal giorno
successivo alla pubblicazione della sentenza,
riguardando, pertanto, solo i rapporti futuri e non
quelli pendenti alla data della decisione.
In tal modo, tuttavia, si creerebbe una sorta di “corto
circuito” con il meccanismo dell’instaurazione
del giudizio di costituzionalità in via incidentale,
poiché, da un lato, il giudice rimettente può
sollevare la questione di incostituzionalità, sul
presupposto della sua rilevanza nel giudizio a
quo, e, dall’altro, la decisione di
incostituzionalità non dovrebbe poter produrre
effetti proprio sul giudizio a quo in quanto la sua
efficacia riguarderebbe solo i rapporti futuri.
La migliore dottrina sul punto ha rilevato che in un
ordinamento a Costituzione rigida sarebbe
contraddittorio che leggi dichiarate
costituzionalmente illegittime continuino a spiegare
effetti; peraltro, se la “perdita di efficacia”
valesse solo per l’avvenire, nessuna parte
solleverebbe la questione di legittimità
costituzionale “per il semplice motivo che non ne
avrebbe interesse”.
L’incongruenza lamentata –da parte di autorevole
dottrina definita “assurda”– è stata superata
con l’interpretazione dell’art. 136 Cost. ad opera
del citato art. 30 l. 11.03.1953, n. 87, articolo
quest’ultimo che ha chiarito che le norme dichiarate
incostituzionali “non possono avere applicazione”
dal giorno successivo alla pubblicazione della
decisione. Pertanto, la “perdita di efficacia”
dell’art. 136 Cost. diventa “perdita di ulteriore
applicabilità” delle norme dichiarate
incostituzionali, con riferimento a tutti i
rapporti, anche quelli già pendenti. In questo senso
l’effetto delle sentenze di accoglimento è
qualificato in termini di “annullamento”
della legge dichiarata incostituzionale che viene
espunta dall’ordinamento, mentre le leggi soltanto
abrogate da ulteriori disposizioni di legge (fatte
salve eventuali previsioni di retroattività delle
norme successive) continuano ad applicarsi ai
rapporti ancora pendenti alla data dell’abrogazione.
Il limite all’efficacia delle sentenze di
accoglimento è invece rappresentato dai rapporti
ormai esauriti per effetto di prescrizione,
decadenza o passaggio in giudicato di una sentenza,
prevalendo in questi casi il principio di certezza
del diritto.
In altri termini, mentre l’efficacia retroattiva
della dichiarazione di illegittimità costituzionale
è giustificata dalla stessa eliminazione della norma
che non può più regolare alcun rapporto giuridico,
salvo che si siano determinate situazioni giuridiche
ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge
–dal momento che la norma anteriore è pienamente
valida ed efficace fino al momento in cui non è
sostituita– la nuova legge non può che regolare i
rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i
quali vale il principio che la disciplina
applicabile è quella vigente al momento in cui si è
realizzata la situazione giuridica o il fatto
generatore del diritto.
Unica eccezione alla regola appena descritta si
realizza in materia penale, come chiaramente
disposto dall’art. 30, comma 4, l. 11.03.1953, n.
87. Si tratta in questo caso di un’applicazione del
principio già stabilito dall’articolo 2, comma 2,
c.p., nonché “dalla particolare tutela della
libertà personale voluta dalla nostra Costituzione”.
7. Gli effetti della sentenza che dichiara
l’illegittimità costituzionale nel diritto
amministrativo.
Come ora spiegato, dunque, nel nostro sistema di
giustizia costituzionale è jus receptum
l’affermazione secondo la quale le pronunce della
Consulta producono effetti tanto per il passato
quanto per il futuro. Per la giurisprudenza, la
pronuncia di illegittimità costituzionale di una
norma di legge determina la cessazione della sua
efficacia erga omnes e la norma di diritto
c.d. sostanziale (ma anche la norma processuale)
-dichiarata incostituzionale- cessa di operare dal
giorno successivo alla pubblicazione della sentenza
della Corte costituzionale nella gazzetta ufficiale,
ai sensi dell'art. 30, l. 11.03.1953, n. 87;
inoltre, avendo l'illegittimità costituzionale per
presupposto l'invalidità originaria della legge, sia
essa di natura sostanziale, procedimentale o
processuale, per contrasto con un precetto
costituzionale, le pronunce di accoglimento del
giudice delle leggi -dichiarative di illegittimità
costituzionale- eliminano la norma con effetto ex
tunc, con la conseguenza che essa non è più
applicabile, indipendentemente dalla circostanza che
la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla
pubblicazione della decisione.
Resta fermo naturalmente il principio che gli
effetti dell'incostituzionalità non si estendono ai
diritti quesiti e ai rapporti ormai esauriti in modo
definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o
per essersi verificato altro evento cui
l'ordinamento collega il consolidamento del rapporto
medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni
processuali o decadenze e prescrizioni non
direttamente investite, nei loro presupposti
normativi, dalla pronuncia d'incostituzionalità (ex
multis, Consiglio di Stato, sez. III,
12.07.2018, n. 4264). La Corte costituzionale –con
principio poi che è stato esteso anche alle sentenze
e ai pareri del Consiglio di Stato (si veda Cons.
Stato, parere 30.06.2020, n. 1233)– poi può
modularne gli effetti attraverso specifiche
indicazioni che, come affermato dalla dottrina,
hanno lo “scopo di evitare che alcune pronunce,
se operative su tutti i rapporti non ancora
esauriti, produc(essero)ano danni così rilevanti, da
mettere in ombra i benefici della dichiarazione di
incostituzionalità”.
Per una disamina esaustiva degli effetti della
sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale
occorre allora verificarne le conseguenze nel
giudizio a quo, nei rapporti pendenti e, infine, con
riferimento ai rapporti esauriti.
7.1. Nel giudizio a quo.
La sentenza della Corte costituzionale è vincolante
per il giudice a quo che, nel continuare il
giudizio dopo la restituzione degli atti da parte
della Corte, si trova di fronte all’avvenuto
accertamento di illegittimità della legge,
accertamento di illegittimità che la rende
inapplicabile e che non può non vincolare il giudice
a quo.
Del resto, per costante giurisprudenza
costituzionale (ex multis, Corte Cost. n.
303/2007), ai fini dell’ingresso della questione di
costituzionalità sollevata nel corso di un giudizio
dinanzi ad un’autorità giurisdizionale, è requisito
necessario, unitamente al vaglio della non manifesta
infondatezza, che essa sia rilevante, ovvero che
investa una disposizione avente forza di legge di
cui il giudice rimettente è tenuto a fare
applicazione, quale passaggio obbligato ai fini
della risoluzione della controversia oggetto del
processo principale.
La rilevanza della questione di costituzionalità
comporta, dunque, che, primo fra tutti, il giudice
rimettente dovrà fare applicazione concreta della
decisione della Consulta nella soluzione della
controversia a lui sottoposta.
Ciò è quanto accaduto, come sopra visto, nel caso
qui in esame: il Tar per la Sicilia, sez. I,
15.02.2021, n. 579 ha dichiarato infatti che “i
ricorrenti hanno diritto alla retrodatazione
dell’attribuzione della qualifica di Vice
Sovrintendenti della Polizia di Stato”.
7.2. Nei rapporti esauriti.
7.2.1. L'efficacia retroattiva della sentenza (ossia
l’annullamento ex tunc della norma censurata
oggetto della declaratoria di incostituzionalità)
che dichiara l'illegittimità costituzionale di una
norma non si estende ai rapporti esauriti, ossia a
quei rapporti che, sorti precedentemente alla
pronuncia della Corte costituzionale, abbiano dato
luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate e
intangibili in virtù del passaggio in giudicato di
decisioni giudiziali, della definitività di
provvedimenti amministrativi non più impugnabili,
del completo esaurimento degli effetti di atti
negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o
decadenza, ovvero del compimento di altri atti o
fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale.
Per la Corte Costituzionale, “a differenza dello
ius superveniens, che attiene alla «vigenza
normativa», la dichiarazione di illegittimità
costituzionale rimuove la norma censurata
dall'ordinamento in quanto affetta da una invalidità
«genetica», legata al sistema di gerarchia delle
fonti: invalidità che impone di considerarla tamquam
non esset, con il solo limite -non del giudicato-
ma di quegli effetti «già compiuti e del tutto
consumati», per loro natura insuscettibili di
neutralizzazione” (Corte cost.. 16.04.2021, n.
68).
Più nello specifico, con sentenza 08.10.2021, n.
191, la Corte Costituzionale ricorda che “per
costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, la
cosiddetta efficacia retroattiva delle pronunce di
illegittimità costituzionale incontra il limite dei
rapporti esauriti, tra i quali rientrano quelli che
non possano più dare materia a un giudizio in
ragione della disciplina dei termini di
inoppugnabilità degli atti amministrativi (sentenza
n. 10 del 2015, ordinanza n. 135 del 2010)”.
7.2.2. Occorre ora qui, affrontare più in dettaglio,
quanto già esposto al § 7 in relazione alla materia
penale (atteso il chiaro tenore dell’ultimo comma
dell’art. 30 l. 11.03.1953, n. 87), non perché
rilevante per la risposta ai quesiti formulati ma
per l’individuazione di una regola vigente nella
materia penale che è certamente diversa da quella
esistente nel diritto amministrativo, come più
ampiamente si esporrà al § 7.2.3.
Come prima anticipato, la ragione per cui in materia
penale la dichiarazione di illegittimità
costituzionale delle norme travolge il giudicato
risiede nella considerazione della gravità con cui
le sanzioni penali incidono sulla libertà o su altri
interessi fondamentali della persona. La Corte
Costituzionale ha chiaramente affermato che “il
principio della retroattività degli effetti delle
pronunce di illegittimità costituzionale di cui al
terzo comma del medesimo articolo -che, come questa
Corte ha più volte ribadito, «è (e non può non
essere) principio generale valevole nei giudizi
davanti a questa Corte» (da ultimo, sentenza n. 10
del 2015)- si estende oltre il limite dei rapporti
esauriti nel solo ambito penale, in considerazione
della gravità con cui le sanzioni penali incidono
sulla libertà o su altri interessi fondamentali
della persona” (Corte cost., 24.02.2017, n. 43).
In termini ancora più chiari, si è stabilito che
esiste un principio “in base al quale le sentenze
di accoglimento producono i loro effetti anche sui
rapporti sorti precedentemente, purché, però, non
definitivamente "chiusi" sul piano giuridico;
dunque, con esclusione dei rapporti «esauriti»
(sentenze n. 10 del 2015, n. 1 del 2014, n. 3 del
1996, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966; ordinanza
n. 135 del 2010), quali, anzitutto, quelli coperti
sul piano processuale dal giudicato (sentenze n. 235
del 1989, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966).
Soluzione, questa, coerente con l'esigenza di tutela
della certezza delle situazioni giuridiche (sentenze
n. 10 del 2015 e n. 26 del 1969).
Il quarto comma dell'art. 30 della legge n. 87 del
1953, … pone, tuttavia, una regola specifica e
distinta con riguardo alla materia penale,
stabilendo che «[q]uando in applicazione della norma
dichiarata incostituzionale è stata pronunciata
sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la
esecuzione e tutti gli effetti penali».
Come emerge anche dai relativi lavori parlamentari,
si tratta di regola suggerita dalle peculiarità
della materia considerata e dalla gravità con cui le
sanzioni penali incidono sulla libertà personale o
su altri interessi fondamentali dell'individuo”
(Corte cost. 16.04.2021, n. 68).
7.2.3 Nel diritto amministrativo, a differenza che
nel diritto penale (si veda il precedente § 7.2.2),
l'efficacia retroattiva delle pronunce di
illegittimità costituzionale si arresta, invece,
dinanzi ai rapporti esauriti.
Il ruolo affidato alla Corte come custode della
Costituzione nella sua integralità impone di evitare
che la dichiarazione di illegittimità costituzionale
di una disposizione di legge determini,
paradossalmente, «effetti ancor più incompatibili
con la Costituzione» (sentenza n. 13 del 2004)
di quelli che hanno indotto a censurare la
disciplina legislativa. Per evitare che ciò accada,
è compito della Corte modulare le proprie decisioni,
anche sotto il profilo temporale, in modo da
scongiurare che l'affermazione di un principio
costituzionale determini il sacrificio di un altro.
Per la Corte è pacifico che l'efficacia delle
sentenze di accoglimento non retroagisce fino al
punto di travolgere le «situazioni giuridiche
comunque divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti
esauriti». Diversamente, ne risulterebbe
compromessa la certezza dei rapporti giuridici
(sentenze n. 49 del 1970, n. 26 del 1969, n. 58 del
1967 e n. 127 del 1966).
Pertanto, il principio della retroattività «vale
[...] soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con
conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali
rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida»
(sentenza n. 139 del 1984, ripresa da ultimo dalla
sentenza n. 1 del 2014). In questi casi,
l'individuazione in concreto del limite alla
retroattività, dipendendo dalla specifica disciplina
di settore -relativa, ad esempio, ai termini di
decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti
amministrativi- che precluda ogni ulteriore azione o
rimedio giurisdizionale, rientra nell'ambito
dell'ordinaria attività interpretativa di competenza
del giudice comune (principio affermato, ex
plurimis, sin dalle sentenze n. 58 del 1967 e n.
49 del 1970 e poi ribadito con ordinanza 135 del
2010, sentenza 10 del 2015 e 191 del 2021).
Nel diritto amministrativo, dunque, la dichiarazione
di illegittimità costituzionale di una norma di
legge non può travolgere i provvedimenti
amministrativi ormai divenuti definitivi per mancata
impugnazione o per formazione del giudicato sulla
relativa controversia.
Tra i provvedimenti amministrativi soggetti alla
disciplina ora esposta vi rientra certamente anche
il ruolo di anzianità del personale di una pubblica
amministrazione –soprattutto se in regime di diritto
pubblico– relativamente alle specifiche posizioni
ricoperte da ciascun dipendente. Conseguentemente le
posizioni in ruolo non tempestivamente contestate
dai singoli interessati, con riferimento al posto in
cui sono collocati, nell’ordinario termine di
decadenza previsto per impugnare innanzi al giudice
amministrativo (sessanta giorni decorrenti, ai sensi
del combinato disposto degli articoli 29 e 41 c.p.a.,
“dalla notificazione, comunicazione o piena
conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia
richiesta la notificazione individuale, dal giorno
in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se
questa sia prevista dalla legge o in base alla legge”)
si consolidano, resistendo dunque anche alle
pronunce di illegittimità costituzionale. Tale
regola, oltre che scaturire dai principi prima
esposti, ha un fondamento logico perché evita che,
come nel caso sottoposto all’attenzione di questo
Consiglio da parte del Ministero, si rimettano in
discussione assetti amministrativi consolidati
risalenti anche a venti anni or sono e riferibili
pure a soggetti che non hanno mai preso parte a
giudizi.
Anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha
nel tempo affermato che le pronunce di accoglimento
della Corte Costituzionale hanno effetto
retroattivo, inficiando fin dall'origine la validità
e la efficacia della norma dichiarata contraria alla
Costituzione, salvo il limite delle situazioni
giuridiche "consolidate" per effetto di
eventi che l'ordinamento giuridico riconosce idonei
a produrre tale effetto, quali le sentenze passate
in giudicato, l'atto amministrativo non più
impugnabile, la prescrizione e la decadenza (Cass.,
sez. III, 28.07.1997, n. 7057; nello stesso senso
sez. I, 14.05.1999, n. 4766; sez. I 07.06.2000, n.
7704; sez. I 25.06.2001, n. 10115; in relazione ai
rapporti di lavoro, sez. lavoro, 25.08.2003, n.
12454).
7.3. Nei giudizi ancora pendenti innanzi al
giudice amministrativo.
7.3.1. L’efficacia retroattiva delle sentenze che
dichiarano l’illegittimità costituzionale non è
dunque illimitata ma al contrario presuppone che i
rapporti su cui la decisione può produrre effetti
siano ancora “non esauriti” o perché relativi
al giudizio a quo o perché incardinati in
altri giudizi ancora pendenti in cui non è stata
sollevata questione di legittimità costituzionale.
L’indagine sulla c.d. fase discendente del giudizio
di costituzionalità, ossia del seguito nei giudizi
amministrativi ancora pendenti, diversi da quello a
quo, della dichiarazione di incostituzionalità di
una norma sulla genesi o sull’esercizio del potere
amministrativo, si traduce in un’indagine sulla
sorte del provvedimento amministrativo adottato
sulla base della disposizione incostituzionale, se
cioè questo debba essere considerato inesistente,
nullo o annullabile.
Nella fase discendente, osserva la dottrina, si
ripropone una tensione tra dimensione soggettiva dei
vincoli imposti dai motivi di ricorso e dimensione
oggettiva dell’interesse al controllo di
costituzionalità che sembrerebbe attribuire al
giudice un potere eccezionale, cioè al di là delle
regole processuali del giudizio amministrativo di
annullamento di un atto anche per un motivo diverso
da quello fatto valere dal ricorrente. Tale tensione
non emerge tanto nel giudizio amministrativo in cui
la questione di costituzionalità è stata sollevata
(giudizio a quo), quanto nei giudizi
amministrativi pendenti, in cui sia stato impugnato
un provvedimento adottato sulla base della norma
oggetto del giudizio di costituzionalità.
In definitiva, dovrà verificarsi se in questi casi
il potere di annullamento (d’ufficio) dell’atto
impugnato, al di fuori dei vizi dedotti dal
ricorrente, trovi o meno significativo ostacolo nel
principio della domanda, costituendo una peculiare
limitazione agli effetti erga omnes del
sindacato di costituzionalità.
7.3.2. In una prima fase (dal 1956 al 1963), le
decisioni del Consiglio di Stato sono state
oscillanti e hanno considerato l’atto amministrativo
emesso sulla base di norma dichiarata
incostituzionale inesistente, a volte con
conseguente improcedibilità del ricorso proposto
contro di esso, a volte con la necessità di una
dichiarazione di difetto di giurisdizione a
conoscere del ricorso proposto. Altre decisioni,
invece, hanno affermato la sopravvivenza dell’atto
amministrativo considerandolo annullabile.
7.3.3. Sul tema decisiva è la pronuncia
dell’Adunanza Plenaria 8/1963 che fa discendere
dall’efficacia della pronuncia d’incostituzionalità
della legge l’annullabilità dell’atto amministrativo
ed afferma, inoltre, che il vizio dell’atto
amministrativo fondato su norme incostituzionali non
incontra i limiti derivanti dal non essere stato
denunciato nel relativo giudizio, né quello del
diverso apprezzamento espresso precedentemente dal
giudice sullo stesso vizio.
“Quando, con la dichiarazione di
incostituzionalità, la legge perde l’efficacia, la
conseguenza che bisogna trarre” relativamente
agli atti amministrativi “è solo che vi è stata
una illegittima attribuzione di potestà
discrezionale”, quindi “l’esercizio di un
potere viziato per riflesso del vizio di
costituzionalità che inficia la norma attributiva”.
La pronuncia smentisce definitivamente la teoria,
sino allora sostenuta, della inesistenza degli atti
amministrativi emanati in base ad una norma
dichiarata incostituzionale; ciò che rileva infatti,
secondo l’Adunanza Plenaria, per l’esistenza
dell’atto è che l’amministrazione abbia agito
nell’esercizio di funzioni attribuite dalla legge
vigente al momento in cui l’atto è stato emanato.
Così l’Adunanza Plenaria: “la dichiarazione di
illegittimità costituzionale ha efficacia ex tunc,
salvo il limite degli effetti irrevocabilmente
prodotti dalla norma incostituzionale (situazioni e
rapporti divenuti incontrovertibili per il maturarsi
di termini di prescrizione o di decadenza, o perché
definiti con giudicato, etc.) ed opera erga omnes,
cioè anche fuori dell’ambito del rapporto
processuale in cui è stato sollevato l’incidente di
incostituzionalità, distinguendosi dalla abrogazione
della legge, perché si estende ai fatti anteriori.
La norma dichiarata incostituzionale non può
dichiararsi inesistente (con conseguente inesistenza
dell’organo creato in base ad essa e degli atti
emessi da tale organo). Fra legge ed atto
amministrativo non sussiste un rapporto di
consequenzialità analogo a quello ravvisabile tra
atto preparatorio e atto finale del procedimento
amministrativo. L’atto amministrativo, quale
manifestazione di autonomia del potere esecutivo, ha
una sua vita ed una sua individualità propria e non
resta direttamente travolto dalla cessazione di
efficacia della legge. … L’invalidità dell’atto
derivata dalla incostituzionalità della norma non ha
sempre pieno effetto satisfattorio,
indipendentemente dalla rimozione reale dell’atto
stesso. Il giudice amministrativo, pertanto,
richiesto della pronunzia di annullamento dell’atto
per tale causa non può limitarsi a dichiarare la
cessazione della materia del contendere, privando il
ricorrente della possibilità di rendere coercibile
l’esecuzione del giudicato relativo ad un dovere
giuridico della P.A. solo incidentalmente affermato
nella motivazione.
La dichiarazione di incostituzionalità di una norma
che attribuisce alla P.A. un potere discrezionale,
non trasforma ex tunc le originarie posizioni di
interesse legittimo in diritti soggettivi, privando
di giurisdizione l’adito Consiglio di Stato. Infatti
nel momento della emanazione dell’atto il potere
discrezionale non poteva dirsi mancante ma veniva
esercitato in base ad una legge viziata di
incostituzionalità (…) i ricorsi impostati sulla
intervenuta dichiarazione di illegittimità
costituzionale vanno decisi dal giudice
amministrativo tenendo presente che l’atto
amministrativo continua ad avere vita autonoma
finché non sia rimosso con uno degli strumenti a ciò
idonei e che persiste l’interesse di chi ne ha
chiesto l’annullamento ad ottenerlo. Tale
annullamento va pronunziato sia se la questione
incidentale è stata sollevata nel corso del giudizio
risolvendosi in un motivo di impugnazione dell’atto,
sia se pur essendo stata sollevata non sia stata
ancora delibata dal giudice amministrativo al
momento della intervenuta pronunzia della Corte
Costituzionale, non avendo rilievo la circostanza
che la fondatezza del dubbio di costituzionalità sia
stata accertata nel corso del medesimo giudizio o
nel corso di altro giudizio”.
7.3.4. Questo orientamento che, in definitiva, vuole
l’atto amministrativo emanato sulla base di una
legge successivamente dichiarata incostituzionale,
anche se invalido, produttivo dei suoi effetti sino
alla sua formale rimozione a mezzo dell’annullamento
(purché non sia già divenuto definitivo e/o non sia
“sceso” il giudicato sulla relativa
controversia), è stato confermato in seguito dalla
giurisprudenza e dalla dottrina.
La giurisprudenza amministrativa ha infatti
utilizzato la categoria dell’invalidità “sopravvenuta”
(o “derivata”), alludendo ad un atto
amministrativo conforme al proprio modello legale
nel momento della emanazione e, quindi, nel momento
di esercizio del potere sotteso, ma divenuto viziato
a seguito della dichiarazione di incostituzionalità
della stessa norma, attributiva o regolativa.
7.3.5. Posta l’utilizzabilità della categoria della
invalidità derivata e del regime della
annullabilità, si pone il problema del rilievo ex
officio, degli spazi di esercizio del potere di
annullamento e se tale potere sia vincolato ad un
motivo del ricorso.
La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che “legittimamente
il giudice adito annulla l'atto impugnato fondato su
una norma dichiarata incostituzionale, anche nel
caso in cui la relativa questione non abbia formato
oggetto di uno specifico motivo di ricorso,
considerato che detto giudice è chiamato, sia pur in
modo indiretto o implicito, a far applicazione della
norma nella quale trova legittimazione l'atto
impugnato” (Consiglio di Stato, sez. V,
06.02.1999, n. 138).
Sempre che il relativo giudizio sia ancora pendente
al momento della pubblicazione della sentenza della
Corte costituzionale, dunque, la mancata deduzione
del vizio derivabile dalla pronuncia di
incostituzionalità in seno al ricorso introduttivo
non comporta, quindi, né la preclusione della
deduzione, né la necessità di deduzione integrativa
(con motivi aggiunti). In questo modo, è stato
osservato dalla dottrina, la disciplina del processo
amministrativo è stata sottoposta ad una
interpretazione di adeguamento alle dinamiche del
controllo di costituzionalità in via incidentale.
Unico limite rimane tuttavia la pendenza della
controversia e la rilevanza della questione ai fini
della decisione del giudice amministrativo. La
giurisprudenza afferma infatti che il giudice non
può applicare d’ufficio l’intervenuta pronuncia di
illegittimità costituzionale della norma in ipotesi
in cui, ex ante, non avrebbe potuto
sollevare, di ufficio o su istanza di parte, la
questione di legittimità costituzionale della norma
predetta per difetto di rilevanza. È stato
correttamente osservato in dottrina che l’interesse
generale che norme dichiarate incostituzionali non
trovino più applicazione legittima sì il potere di
annullamento ex officio, ma questo elemento di
novità e di tensione nel processo amministrativo
deve rimanere pur sempre ancorato ai motivi del
ricorso, essendo l’esame della norma utile ai fini
della decisione, e all’attuale pendenza della
controversia.
7.3.6. La giurisprudenza ha inoltre distinto tra le
norme sul quomodo di esercizio del potere e
quelle sulla genesi del potere, aggiungendo che il
rilievo d’ufficio dell’incostituzionalità della
norma non incontra il limite dei motivi del ricorso
quando la Corte costituzionale dichiari illegittima
una norma sulla “genesi” del potere. In
questo caso, sempre che il relativo giudizio sia
ancora pendente al momento della pubblicazione della
sentenza della Corte costituzionale, il giudice
amministrativo può esercitare un potere di
annullamento d’ufficio, anche quando il ricorrente
abbia assunto come violate tutt’altre norme (così
Consiglio di Stato, sez. VI, 20.11.1986, n. 855: “la
dichiarazione di illegittimità costituzionale della
norma nella quale trova esclusivo fondamento il
potere esercitato dalla p.a. con il provvedimento
impugnato, svolge i suoi effetti ex tunc nei giudizi
in corso, comportando l’illegittimità del
provvedimento stesso, del quale va dichiarato
l’annullamento con sentenza del giudice
amministrativo”).
L’orientamento giurisprudenziale appena riferito è
stato confermato dal Consiglio di Stato,
riaffermando la tesi dell’annullabilità dell’atto
amministrativo e distinguendo tra norme
incostituzionali che incidono sull’an o sul
quomodo del potere amministrativo solo ai
fini del potere di rilievo officioso che non può
essere esercitato quando la norma sul quomodo del
potere dichiarata incostituzionale non sia stata
richiamata dal ricorrente nei motivi di ricorso o si
sia altrimenti esaurito il potere.
8. Estensione del giudicato amministrativo e
suoi limiti.
L’articolo 2909 c.c. dispone che l'accertamento
contenuto nella sentenza passata in giudicato fa
stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o
aventi causa (c.d. efficacia soggettiva del
giudicato).
Nel diritto amministrativo, è jus receptum
che la decisione di annullamento di un provvedimento
-che per i limiti soggettivi del giudicato esplica
in via ordinaria effetti solo fra le parti in causa-
acquista efficacia erga omnes esclusivamente
nei casi di atti a contenuto inscindibile, ovvero di
atti a contenuto normativo (regolamenti) o
amministrativi generali, rivolti a destinatari
indeterminati ed indeterminabili a priori, in
relazione ai quali gli effetti dell'annullamento non
sono circoscrivibili ai soli ricorrenti, essendosi
in presenza di un atto a contenuto generale
sostanzialmente e strutturalmente unitario, il quale
non può esistere per taluni e non esistere per altri
(cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. IV,
04.04.2018, n. 2097).
Per insegnamento costante, e risalente nel tempo,
invece, l’annullamento giurisdizionale dell'atto
plurimo e scindibile (sulla nozione si veda, Cons.
Stato, sez. VI, 13.02.2009, n. 765), qual è il ruolo
di anzianità di una pubblica amministrazione, non
può avere efficacia erga omnes ma solo
effetti inter partes. Ed invero, sarebbe
errato ammettere l’applicazione dello stesso
principio di efficacia generalizzata ultra partes
della sentenza di annullamento degli atti
inscindibili perché significherebbe sottrarre i
singoli destinatari dell’atto plurimo –che sono
portatori di uno specifico interesse personale e
differenziato in relazione ad una volontà
amministrativa rivolta distintamente a più
destinatari occasionalmente raggruppati in un unico
provvedimento– dai principi del processo
impugnatorio e dei relativi termini decadenziali (Cons.
Stato, sez. V, 15.12.2005, n. 7144). In tal caso la
diligenza e la solerzia di alcuni andrebbe a
beneficio di coloro che non hanno fatto valere
tempestivamente il loro diritto di difesa.
Con specifico riferimento al pubblico impiego
occorre inoltre considerare che l’art. 1, comma 132,
l. 30.12.2004, n. 311 dispone che “per il
triennio 2005-2007 è fatto divieto a tutte le
amministrazioni pubbliche di cui agli articoli 1,
comma 2, e 70, comma 4, del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, di
adottare provvedimenti per l'estensione di decisioni
giurisdizionali aventi forza di giudicato, o
comunque divenute esecutive, in materia di personale
delle amministrazioni pubbliche” e che il
successivo art. 41, comma 6, l. 207/2008 prevede che
“il divieto di cui all'articolo 1, comma 132,
della legge 30.12.2004, n. 311, è prorogato anche
per gli anni successivi al 2008”.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha di recente
ricordato che: “in tema di divieto di estensione
di decisioni giurisdizionali aventi forza di
giudicato nel pubblico impiego, la posizione
giuridica di coloro che abbiano presentato un
tempestivo ricorso avverso un atto di
macro-organizzazione si differenzia sotto il profilo
soggettivo da quella degli altri dipendenti che
avevano prestato acquiescenza nei confronti del
suddetto atto rimanendo inattivi. Il giudicato
amministrativo, in assenza di norme ad hoc nel
c.p.a., è sottoposto alle disposizioni generali sul
processo civile, per cui il giudicato opera solo
inter partes, secondo quanto prevede per il
giudicato civile l'art. 2909 c.c. e, quindi, sono
eccezionali i casi di giudicato amministrativo con
effetti ultra partes, i quali si giustificano solo
grazie all'inscindibilità degli effetti dell'atto o
dell'inscindibilità del vizio dedotto (nel caso in
esame il provvedimento impugnato aveva ad oggetto
una vicenda amministrativa specifica e temporalmente
circoscritta, ossia la mobilità connessa alla c.d.
«riforma della Buona Scuola»” (Consiglio di
Stato, sez. VI, 26.01.2021, n. 799).
Anche l’Adunanza Plenaria, sempre di recente, ha
ribadito che: “Il giudicato amministrativo ha di
regola effetti limitati alle parti del giudizio e
non produce effetti a favore dei cointeressati che
non abbiamo tempestivamente impugnato; i casi di
giudicato con effetti ultra partes sono eccezionali
e si giustificano in ragione dell'inscindibilità
degli effetti dell'atto o dell'inscindibilità del
vizio dedotto: in particolare, l'indivisibilità
degli effetti del giudicato presuppone l'esistenza
di un legame altrettanto inscindibile fra le
posizione dei destinatari, in modo da rendere
inconcepibile, logicamente, ancor prima che
giuridicamente, che l'atto annullato possa
continuare ad esistere per quei destinatari che non
lo hanno impugnato; per tali ragioni deve escludersi
che l'indivisibilità possa operare con riferimento a
effetti del giudicato diversi da quelli caducanti e,
quindi, per gli effetti conformativi, ordinatori,
additivi o di accertamento della fondatezza della
pretesa azionata, che operano solo nei confronti
delle parti del giudizio” (Consiglio di Stato,
ad. plen., 27.02.2019, nn. 4 e 5).
Alla luce del quadro normativo e delle pronunce
della giurisprudenza amministrativa riferiti è
chiaro che nella materia oggetto di esame viga il
divieto di estensione del giudicato.
9. Legalità costituzionale e autotutela
amministrativa.
L'esercizio del potere di autotutela, che trova
fondamento nei principi di legalità, imparzialità,
buon andamento cui deve essere improntata l'attività
della P.A., è facoltà ampiamente discrezionale
(soprattutto nell'an) dell'Amministrazione,
che non ha alcun dovere giuridico di esercitarla;
detto potere si esercita discrezionalmente
d'ufficio, essendo rimesso alla più ampia
valutazione di merito dell'Amministrazione e non su
istanza di parte. Ne consegue che, fatte salve
ipotesi eccezionali, essa non ha alcun obbligo di
provvedere su istanze che ne sollecitino l'esercizio
e che alla richiesta del privato di autotutela deve
essere riconosciuta una funzione meramente
sollecitatoria, in quanto, in caso contrario, si
verificherebbe l'elusione del termine decadenziale
di impugnazione il cui rispetto è funzionale
all'esigenza di tutela della certezza delle
situazioni giuridiche di diritto pubblico.
Giova ricordare che l’esercizio del potere di
autotutela è legato altresì al rispetto dell’art.
21-nonies l. 241/1990, ai sensi del quale: “1. Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al
medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico, entro un termine ragionevole,
comunque non superiore a dodici mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o
di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i
casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi
dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi
dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo
che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto
dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità
connesse all'adozione e al mancato annullamento del
provvedimento illegittimo”.
Resta ferma infine la necessità poi di valutare la
successiva azione amministrativa con l’articolo 1,
comma 132, l. 30.12.2004, n. 311, prima illustrato
al § 8 (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 28.12.2021 n. 1984 - commento tratto da
www.giustizia-amministrativa.it). |
Sull'efficacia retroattiva, o meno delle sentenze
della Corte Costituzionale si legga anche
l'ulteriore pronunciamento a seguire: |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’efficacia
retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale è principio
generale valevole nei giudizi davanti alla Consulta; esso, tuttavia, non è
privo di limiti.
Questa Corte ha già chiarito che l’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità
costituzionale è (e non può non essere) principio generale valevole nei
giudizi davanti a questa Corte; esso, tuttavia, non è privo di limiti.
Anzitutto è pacifico che l’efficacia delle sentenze di accoglimento non
retroagisce fino al punto di travolgere le «situazioni giuridiche
comunque divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti esauriti».
Diversamente ne risulterebbe compromessa la certezza dei rapporti giuridici.
Pertanto, il principio della retroattività «vale […] soltanto per i
rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i
quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida». In questi
casi, l’individuazione in concreto del limite alla retroattività, dipendendo
dalla specifica disciplina di settore –relativa, ad esempio, ai termini di
decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti amministrativi– che
precluda ogni ulteriore azione o rimedio giurisdizionale, rientra
nell’ambito dell’ordinaria attività interpretativa di competenza del giudice
comune.
Inoltre, come il limite dei «rapporti esauriti» ha origine
nell’esigenza di tutelare il principio della certezza del diritto, così
ulteriori limiti alla retroattività delle decisioni di illegittimità
costituzionale possono derivare dalla necessità di salvaguardare principi o
diritti di rango costituzionale che altrimenti risulterebbero
irreparabilmente sacrificati. In questi casi, la loro individuazione è
ascrivibile all’attività di bilanciamento tra valori di rango costituzionale
ed è, quindi, la Corte costituzionale –e solo essa– ad avere la competenza
in proposito.
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7.– Nel pronunciare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni
impugnate, questa Corte non può non tenere in debita considerazione
l’impatto che una tale pronuncia determina su altri principi costituzionali,
al fine di valutare l’eventuale necessità di una graduazione degli effetti
temporali della propria decisione sui rapporti pendenti.
Il ruolo affidato a questa Corte come custode della Costituzione nella sua
integralità impone di evitare che la dichiarazione di illegittimità
costituzionale di una disposizione di legge determini, paradossalmente, «effetti
ancor più incompatibili con la Costituzione» (sentenza n. 13 del 2004)
di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina legislativa. Per
evitare che ciò accada, è compito della Corte modulare le proprie decisioni,
anche sotto il profilo temporale, in modo da scongiurare che l’affermazione
di un principio costituzionale determini il sacrificio di un altro.
Questa Corte ha già chiarito (sentenze n. 49 del 1970, n. 58 del 1967 e n.
127 del 1966) che l’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità
costituzionale è (e non può non essere) principio generale valevole nei
giudizi davanti a questa Corte; esso, tuttavia, non è privo di limiti.
Anzitutto è pacifico che l’efficacia delle sentenze di accoglimento non
retroagisce fino al punto di travolgere le «situazioni giuridiche
comunque divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti esauriti».
Diversamente ne risulterebbe compromessa la certezza dei rapporti giuridici
(sentenze n. 49 del 1970, n. 26 del 1969, n. 58 del 1967 e n. 127 del 1966).
Pertanto, il principio della retroattività «vale […] soltanto per i
rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i
quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n.
139 del 1984, ripresa da ultimo dalla sentenza n. 1 del 2014). In questi
casi, l’individuazione in concreto del limite alla retroattività, dipendendo
dalla specifica disciplina di settore –relativa, ad esempio, ai termini di
decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti amministrativi– che
precluda ogni ulteriore azione o rimedio giurisdizionale, rientra
nell’ambito dell’ordinaria attività interpretativa di competenza del giudice
comune (principio affermato, ex plurimis, sin dalle sentenze n. 58
del 1967 e n. 49 del 1970).
Inoltre, come il limite dei «rapporti esauriti» ha origine
nell’esigenza di tutelare il principio della certezza del diritto, così
ulteriori limiti alla retroattività delle decisioni di illegittimità
costituzionale possono derivare dalla necessità di salvaguardare principi o
diritti di rango costituzionale che altrimenti risulterebbero
irreparabilmente sacrificati. In questi casi, la loro individuazione è
ascrivibile all’attività di bilanciamento tra valori di rango costituzionale
ed è, quindi, la Corte costituzionale –e solo essa– ad avere la competenza
in proposito.
Una simile graduazione degli effetti temporali delle dichiarazioni di
illegittimità costituzionale deve ritenersi coerente con i principi della
Carta costituzionale: in tal senso questa Corte ha operato anche in passato,
in alcune circostanze sia pure non del tutto sovrapponibili a quella in
esame (sentenze n. 423 e n. 13 del 2004, n. 370 del 2003, n. 416 del 1992,
n. 124 del 1991, n. 50 del 1989, n. 501 e n. 266 del 1988).
Il compito istituzionale affidato a questa Corte richiede che la
Costituzione sia garantita come un tutto unitario, in modo da assicurare «una
tutela sistemica e non frazionata» (sentenza n. 264 del 2012) di tutti i
diritti e i principi coinvolti nella decisione. «Se così non fosse, si
verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe
“tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente
riconosciute e protette»: per questo la Corte opera normalmente un
ragionevole bilanciamento dei valori coinvolti nella normativa sottoposta al
suo esame, dal momento che «[l]a Costituzione italiana, come le altre
Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e
vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese
di assolutezza per nessuno di essi» (sentenza n. 85 del 2013).
Sono proprio le esigenze dettate dal ragionevole bilanciamento tra i diritti
e i principi coinvolti a determinare la scelta della tecnica decisoria usata
dalla Corte: così come la decisione di illegittimità costituzionale può
essere circoscritta solo ad alcuni aspetti della disposizione sottoposta a
giudizio –come avviene ad esempio nelle pronunce manipolative– similmente la
modulazione dell’intervento della Corte può riguardare la dimensione
temporale della normativa impugnata, limitando gli effetti della
declaratoria di illegittimità costituzionale sul piano del tempo.
Del resto, la comparazione con altre Corti costituzionali europee –quali ad
esempio quelle austriaca, tedesca, spagnola e portoghese– mostra che il
contenimento degli effetti retroattivi delle decisioni di illegittimità
costituzionale rappresenta una prassi diffusa, anche nei giudizi in via
incidentale, indipendentemente dal fatto che la Costituzione o il
legislatore abbiano esplicitamente conferito tali poteri al giudice delle
leggi.
Una simile regolazione degli effetti temporali deve ritenersi consentita
anche nel sistema italiano di giustizia costituzionale.
Essa non risulta inconciliabile con il rispetto del requisito della
rilevanza, proprio del giudizio incidentale (sentenza n. 50 del 1989). Va
ricordato in proposito che tale requisito opera soltanto nei confronti del
giudice a quo ai fini della prospettabilità della questione, ma non anche
nei confronti della Corte ad quem al fine della decisione sulla
medesima. In questa chiave, si spiega come mai, di norma, la Corte
costituzionale svolga un controllo di mera plausibilità sulla motivazione
contenuta, in punto di rilevanza, nell’ordinanza di rimessione, comunque
effettuato con esclusivo riferimento al momento e al modo in cui la
questione di legittimità costituzionale è stata sollevata.
In questa
prospettiva si spiega, ad esempio, quell’orientamento giurisprudenziale che
ha riconosciuto la sindacabilità costituzionale delle norme penali di favore
anche nelle ipotesi in cui la pronuncia di accoglimento si rifletta soltanto
«sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria,
modificandone la ratio decidendi […], pur fermi restando i pratici effetti
di essa» (sentenza n. 148 del 1983, ripresa sul punto dalla sentenza n.
28 del 2010).
Né si può dimenticare che, in virtù della declaratoria di illegittimità
costituzionale, gli interessi della parte ricorrente trovano comunque una
parziale soddisfazione nella rimozione, sia pure solo pro futuro, della
disposizione costituzionalmente illegittima.
Naturalmente, considerato il principio generale della retroattività
risultante dagli artt. 136 Cost. e 30 della legge n. 87 del 1953, gli
interventi di questa Corte che regolano gli effetti temporali della
decisione devono essere vagliati alla luce del principio di stretta
proporzionalità. Essi debbono, pertanto, essere rigorosamente subordinati
alla sussistenza di due chiari presupposti: l’impellente necessità di
tutelare uno o più principi costituzionali i quali, altrimenti,
risulterebbero irrimediabilmente compromessi da una decisione di mero
accoglimento e la circostanza che la compressione degli effetti retroattivi
sia limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il
contemperamento dei valori in gioco (Corte Costituzionale,
sentenza 11.02.2015 n. 10). |
aggiornamento al
31.10.2021 |
|
Ne davamo notizia con l'AGGIORNAMENTO
AL 21.04.2021
ed ora la Consulta s'è pronunziata dichiarando: |
1)
l’illegittimità costituzionale dell’art.
40-bis della legge della Regione Lombardia
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio), introdotto dall’art. 4, comma 1,
lettera a), della legge della Regione Lombardia
26.11.2019, n. 18, recante «Misure di
semplificazione e incentivazione per la
rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il
recupero del patrimonio edilizio esistente.
Modifiche e integrazioni alla legge regionale
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio) e ad altre leggi regionali», nel
testo vigente prima dell’entrata in vigore della
legge della Regione Lombardia 24.06.2021, n. 11,
recante «Disposizioni relative al patrimonio
edilizio dismesso con criticità. Modifiche all’art.
40-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio)»;
2) in via conseguenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge
11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale),
l’illegittimità costituzionale del
comma 11-quinquies dell’art. 40-bis della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art.
1, comma 1, lettera m), della legge reg. Lombardia
n. 11 del 2021. |
EDILIZIA PRIVATA: E'
incostituzionale la normativa della Regione Lombardia sul recupero degli
immobili dismessi.
L'art.
40-bis della l.r. n. 12/2005, siccome introdotto dall’art. 4, comma 1, lett.
a), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n. 18, così recita:
1. I comuni, con deliberazione consiliare,
anche sulla base di segnalazioni motivate e documentate,
individuano entro sei mesi
dall'entrata in vigore della legge regionale recante 'Misure di
semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale,
nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e
integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio) e ad altre leggi regionali' gli immobili di
qualsiasi destinazione d'uso, dismessi da oltre cinque anni, che causano
criticità per uno o più dei seguenti aspetti: salute, sicurezza idraulica,
problemi strutturali che ne pregiudicano la sicurezza, inquinamento, degrado
ambientale e urbanistico-edilizio.
La disciplina del presente articolo si applica, anche senza la deliberazione
di cui sopra, agli immobili già individuati dai comuni come degradati e
abbandonati. Le disposizioni di cui al presente articolo, decorsi i termini
della deliberazione di cui sopra, si applicano anche agli immobili non
individuati dalla medesima, per i quali il proprietario, con perizia
asseverata giurata, certifichi oltre alla cessazione dell'attività,
documentata anche mediante dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà
a cura della proprietà o del legale rappresentante, anche uno o più degli
aspetti sopra elencati, mediante prova documentale e/o fotografica. I comuni
aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, entro sei mesi dall'entrata
in vigore della legge regionale recante 'Misure di semplificazione e
incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il
recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla
legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad
altre leggi regionali', mediante deliberazione del consiglio comunale
possono individuare gli ambiti del proprio territorio ai quali non si
applicano le disposizioni di cui ai commi 5 e 10 del presente articolo, in
relazione a motivate ragioni di tutela paesaggistica.
2. I comuni, prima delle deliberazioni di cui al
comma 1, da aggiornare
annualmente, notificano ai sensi del codice di procedura
civile ai proprietari degli immobili dismessi e che causano criticità le
ragioni dell'individuazione, di modo che questi, entro 30 giorni dal
ricevimento di detta comunicazione, possano dimostrare, mediante prove
documentali, l'assenza dei presupposti per l'inserimento.
3. (omissis)
5. Gli interventi sugli immobili di cui al comma 1
usufruiscono di un incremento del 20 per cento dei diritti edificatori
derivanti dall'applicazione dell'indice di edificabilità massimo previsto o,
se maggiore di quest'ultimo, della superficie lorda esistente e sono inoltre
esentati dall'eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, a eccezione di
quelle aree da reperire all'interno dei comparti edificatori o degli
immobili oggetto del presente articolo, già puntualmente individuate
all'interno degli strumenti urbanistici e da quelle dovute ai sensi della
pianificazione territoriale sovraordinata. A tali interventi non si
applicano gli incrementi dei diritti edificatori di cui all'articolo 11,
comma 5. Nei casi di demolizione l'incremento dei diritti edificatori del 20
per cento si applica per un periodo massimo di dieci anni dalla data di
individuazione dell'immobile quale dismesso.
6. E' riconosciuto un ulteriore incremento
dell'indice di edificabilità massimo previsto dal PGT o rispetto alla
superficie lorda (SL) esistente del 5 per cento per interventi che
assicurino una superficie deimpermeabilizzata e destinata a verde non
inferiore all'incremento di SL realizzato, nonché per interventi che
conseguano una diminuzione dell'impronta al suolo pari ad almeno il 10 per
cento. A tal fine possono essere
utilizzate anche le superfici situate al di fuori del lotto di intervento,
nonché quelle destinate a giardino pensile, cosi come regolamentate dalla
norma UNI 11235/2007.
7. Se il proprietario non provvede entro il termine di cui al comma
4, non può più accedere ai benefici di cui ai commi 5 e 6 e il comune lo
invita a presentare una proposta di riutilizzo, assegnando un termine da
definire in ragione della complessità della situazione riscontrata, e
comunque non inferiore a mesi quattro e non superiore a mesi dodici.
8. Decorso il termine di cui al comma 7 senza
presentazione delle richieste o dei titoli di cui al comma 4, il comune
ingiunge al proprietario la demolizione dell'edificio o degli edifici
interessati o, in alternativa, i necessari interventi di recupero e/o messa
in sicurezza degli immobili, da effettuarsi entro un anno. La demolizione
effettuata dalla proprietà determina il diritto ad un quantitativo di
diritti edificatori pari alla superficie lorda dell'edificio demolito fino
all'indice di edificabilità previsto per l'area. I diritti edificatori
generati dalla demolizione edilizia possono sempre essere perequati e
confluiscono nel registro delle cessioni dei diritti edificatori di cui
all'articolo 11, comma 4.
9. Decorso infruttuosamente il termine di cui al
comma 8, il comune provvede in via sostitutiva, con obbligo di rimborso
delle relative spese a carico della proprietà, cui è riconosciuta la SL
esistente fino all'indice di edificabilità previsto dallo strumento
urbanistico.
10. Tutti gli interventi di rigenerazione degli
immobili di cui al presente articolo sono realizzati in deroga alle norme
quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento, sulle distanze
previste dagli strumenti urbanistici comunali vigenti e adottati e ai
regolamenti edilizi, fatte salve le norme statali e quelle sui requisiti
igienico-sanitari.
11. (omissis)
11-bis. (omissis)
In generale,
l’imposizione ai Comuni, per di più al di fuori di
qualsiasi procedura di raccordo collaborativo, di una disciplina quale
quella in esame finisce per alterare i termini essenziali di esercizio della
funzione pianificatoria, anche perché obbliga i medesimi Comuni a far
dipendere le loro scelte fondamentali sulle forme di uso e sviluppo del
territorio da una decisione legislativa destinata a incidere in modo assai
significativo sull’aumento dell’edificato e sulla conseguente pressione
insediativa.
Ciò contrasta con l’assunto, che questa Corte condivide, per
cui «il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo
all’interesse all’ordinato sviluppo edilizio del territorio […], ma è
rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti
interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti».
Deve, pertanto, essere
dichiarata l’illegittimità costituzionale
●
dell’art. 40-bis della legge della Regione Lombardia 11.03.2005,
n. 12
(Legge per il governo del territorio), introdotto dall’art.
4, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n.
18, recante «Misure di
semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale,
nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e
integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio) e ad altre leggi regionali», nel testo
vigente prima dell’entrata in vigore della legge della Regione Lombardia
24.06.2021, n. 11, recante
«Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità.
Modifiche all’art. 40-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per
il governo del territorio)»;
●
in via conseguenziale,
ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
l’illegittimità costituzionale del comma 11-quinquies dell’art. 40-bis della
legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1,
lettera m), della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021.
---------------
SENTENZA
9.– Alla luce delle ragioni ora esposte, deve quindi procedersi all’esame
delle sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis
della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, nel testo vigente prima delle
modifiche ad esso apportate dall’art. 1 della legge reg. Lombardia n. 11 del
2021.
Con un primo ordine di questioni, il TAR Lombardia ritiene che tale
previsione normativa, introdotta dall’art. 4, comma 1, lettera a), della
legge reg. Lombardia n. 18 del 2019, si ponga in contrasto con plurimi
parametri costituzionali (artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, commi
secondo, lettera p, terzo e sesto, e 118 Cost.), perché il legislatore
regionale avrebbe introdotto una disciplina per il recupero degli immobili
abbandonati e degradati che comprime illegittimamente, da più angolazioni,
la potestà pianificatoria comunale, essenzialmente in ragione della sua
portata temporalmente indefinita, dell’assolutezza delle sue prescrizioni e
dell’assenza di una procedura di interlocuzione con i Comuni.
10.– Le questioni sono fondate.
10.1.– È utile premettere che la legge reg. Lombardia n. 18 del 2019, con
cui è stato introdotto nella legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 il
censurato art. 40-bis, individua quali obiettivi da perseguire lo «sviluppo
sostenibile» e stabilisce che gli interventi finalizzati alla
rigenerazione urbana e territoriale, riguardante ambiti, aree ed edifici,
costituiscono «azioni prioritarie per ridurre il consumo di suolo,
migliorare la qualità funzionale, ambientale e paesaggistica dei territori e
degli insediamenti, nonché le condizioni socio-economiche della popolazione»
(art. 1).
Il recupero e la rigenerazione degli immobili dismessi, pertanto,
rappresentano uno strumento a cui il legislatore regionale ha ritenuto di
ricorrere nell’ambito di una rinnovata declinazione degli strumenti di
governo del territorio e, in particolare, dell’azione pianificatoria, che in
Lombardia ha trovato una significativa attuazione già con la legge reg.
Lombardia, n. 31 del 2014. In essa, secondo quanto si ricava dal suo art. 1,
comma 1, sono infatti dettate disposizioni «affinché gli strumenti di
governo del territorio, nel rispetto dei criteri di minimizzazione del
consumo di suolo, orientino gli interventi edilizi prioritariamente verso le
aree già urbanizzate, degradate o dismesse ai sensi dell’articolo 1 della
legge regionale 11.03.2005, n. 12».
10.2.– Così ricostruita la finalità che il legislatore lombardo ha inteso
perseguire con la disposizione censurata, è di tutta evidenza come essa si
presti a incidere sull’esercizio della potestà pianificatoria comunale, per
il fatto di dettare una disciplina sul recupero degli immobili dismessi
idonea, in ragione della sua natura autoapplicativa, a ripercuotersi su
scelte attinenti all’uso del territorio.
La disciplina regionale oggetto di esame, infatti, si sovrappone ad
attribuzioni assegnate ai Comuni in tale ambito e, in particolare, ai
contenuti necessari del piano delle regole fissati dall’art. 10 della legge
reg. Lombardia n. 12 del 2005. Il comma 2 di tale articolo prevede, in
particolare, che, anche in vista dell’obiettivo della minimizzazione del
consumo di suolo, stabilito dall’art. 8, comma 1, lettera b), della medesima
legge regionale, spetti al piano delle regole definire «le
caratteristiche fisico-morfologiche che connotano l’esistente, da rispettare
in caso di eventuali interventi integrativi o sostitutivi, nonché le
modalità di intervento, anche mediante pianificazione attuativa o permesso
di costruire convenzionato, nel rispetto dell’impianto urbano esistente».
Il successivo comma 3 demanda poi al medesimo piano delle regole il compito
di identificare una serie di parametri da rispettare «negli interventi di
nuova edificazione o sostituzione», tra i quali «caratteristiche
tipologiche, allineamenti, orientamenti e percorsi» (lettera a), «consistenza
volumetrica o superfici lorde di pavimento esistenti o previste»
(lettera b), «rapporti di copertura esistenti e previsti» (lettera c)
e «altezze massime e minime» (lettera d).
10.3.– A fronte di tale sovrapposizione alle funzioni comunali, assume
rilievo la previsione con cui il legislatore statale, nell’esercizio della
competenza ad esso esclusivamente attribuita dall’art. 117, secondo comma,
lettera p), Cost., ha individuato, «[f]erme restando le funzioni di
programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle
materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione»,
quali funzioni fondamentali dei Comuni «la pianificazione urbanistica ed
edilizia di ambito comunale, nonché la partecipazione alla pianificazione
territoriale di livello sovracomunale» (art. 14, comma 27, lettera d,
del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia
di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica»,
convertito, con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n. 122).
Con tale previsione è stato legislativamente riconosciuto un orientamento
costante della giurisprudenza costituzionale, secondo cui quella attinente
alla pianificazione urbanistica rappresenta una funzione che non può essere
oltre misura compressa dal legislatore regionale, perché «il potere dei
comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del
proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie
di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere» (sentenza
n. 378 del 2000) e la suddetta competenza regionale «non può mai essere
esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei comuni»
(sentenza n. 83 del 1997).
Al tempo stesso, questa Corte ha sempre ribadito che l’autonomia comunale «non
implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore
competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di
esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di
funzioni già assegnate agli enti locali»
(sentenza n. 160 del 2016). Più specificamente, la Corte ha escluso che «il
“sistema della pianificazione” assurga a principio così assoluto e
stringente da impedire alla legge regionale –che è fonte normativa primaria
sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali– di prevedere
interventi in deroga a tali strumenti» (sentenza n. 245 del 2018 e,
analogamente, sentenza n. 46 del 2014).
10.4.– Poste in questi termini le coordinate entro le quali sono chiamate a
coesistere e a dinamicamente integrarsi, nel quadro del principio di
sussidiarietà verticale, l’autonomia comunale e quella regionale, questa
Corte ha di recente stabilito che, laddove si assuma lesa la potestà
pianificatoria comunale, lo scrutinio di legittimità costituzionale si
concentrerà «dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo
perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla
necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi
coinvolti», così da verificare se la sottrazione di potere ai Comuni
costituisca effettivamente «il minimo mezzo utile per perseguire gli
scopi del legislatore regionale» (sentenza n. 179 del 2019).
Tale giudizio di proporzionalità, mirante a verificare l’«esistenza di
esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni
legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali»
(sentenza n. 286 del 1997), consente quindi di appurare «se, per effetto
di una normativa regionale rientrante nella materia del governo del
territorio, come quella sub iudice, non venga menomato il nucleo delle
funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della
pianificazione”, così da salvaguardarne la portata anche rispetto al
principio autonomistico ricavabile dall’art. 5 Cost.» (sentenza n. 119
del 2020).
11.– In questi termini, l’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge reg.
Lombardia n. 18 del 2019, si pone in violazione del combinato disposto
dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., relativamente alla
competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali dei Comuni, e degli
artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., in riferimento al principio di
sussidiarietà verticale.
11.1.– Per quanto, come si è detto, la previsione di incentivi per il
recupero degli immobili dismessi, anche in deroga agli strumenti
urbanistici, possa essere ricondotta a un obiettivo legittimamente
perseguibile dal legislatore regionale in quanto rientrante nella sua
competenza legislativa in materia di governo del territorio, le modalità con
cui questi incentivi sono stati previsti dalla disciplina in esame, e la
loro stessa entità, determinano una compressione della funzione fondamentale
dei Comuni in materia di pianificazione urbanistica che si spinge «oltre
la soglia dell’adeguatezza e della necessità» (sentenza n. 119 del
2020).
L’alterazione dell’equilibrio che deve sussistere tra esercizio delle
competenze regionali e salvaguardia dell’autonomia dei Comuni è innanzi
tutto determinata dalla previsione, contenuta nella disposizione censurata,
di ampliamenti di volumetria riconosciuti a chi intraprenda operazioni di
recupero di immobili abbandonati, stabiliti in misura fissa e in percentuale
significativa, oscillante tra il 20 e il 25 per cento rispetto al manufatto
insediato. Se a ciò si aggiunge la generalizzata esenzione dal reperimento
degli standard urbanistici e l’altrettanto indiscriminata previsione di
deroghe a norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e
sulle distanze (con l’unica eccezione di quelle previste da fonte statale),
si evince agevolmente come i Comuni lombardi vedano gravemente alterati i
termini essenziali di esercizio del loro potere pianificatorio, per il fatto
che risulta loro imposta una disciplina che genera un aumento non
compensato, di portata potenzialmente anche significativa, del carico
urbanistico e, più in generale, della pressione insediativa, che per certi
aspetti potrebbe risultare poco coerente con le finalità perseguite dalla
stessa legge regionale.
Peraltro, ai medesimi Comuni non è attribuita alcuna possibilità di influire
sull’applicazione delle misure incentivanti, sia perché ad essi (ove abbiano
una popolazione superiore a 20.000 abitanti) non è attribuita alcuna “riserva
di tutela” rispetto ad ambiti del proprio territorio ritenuti meritevoli
di una difesa rafforzata del paesaggio, sia perché –ancora prima– la scelta
di intervenire con legge regionale li ha ulteriormente privati di qualsiasi
compensazione procedurale (quale, in ipotesi, si sarebbe potuta avere in
sede di interlocuzione nel corso della procedura di adozione del piano di
governo del territorio, ovvero all’atto della pianificazione regionale), con
l’effetto –costituzionalmente intollerabile– di «estromettere tali Enti
dalle decisioni riguardanti il proprio territorio» (sentenza n. 478 del
2002).
Né, infine, gli esiti ravvisati possono essere attenuati dalla natura
temporanea degli incentivi e delle deroghe introdotte, atteso che nessuna
delle misure in discussione, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa
regionale, è soggetta a un termine di efficacia: esse si prestano, quindi, a
comprimere in modo stabile il potere pianificatorio comunale, con l’unica e
circoscritta eccezione dell’incremento dei diritti edificatori riconosciuto
dal comma 5, ultimo periodo, del citato art. 40-bis ai proprietari degli
immobili in caso di demolizione, applicabile per un periodo massimo di dieci
anni dalla data di individuazione dell’immobile quale dismesso.
Anche da ciò, pertanto, si ricava come la disposizione in esame non faccia
residuare in capo ai Comuni alcun reale spazio di decisione, con l’effetto
di farli illegittimamente scadere a meri esecutori di una scelta
pianificatoria regionale, per questo lesiva dell’autonomia comunale
presidiata dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., oltre che del
principio di sussidiarietà verticale di cui al combinato disposto degli artt.
5 e 118, commi primo e secondo, Cost.
11.2.– Gli argomenti addotti dalla Regione Lombardia e dalla parte privata a
sostegno della legittimità costituzionale del richiamato art. 40-bis non
scalfiscono le conclusioni raggiunte.
11.2.1.– Non colgono nel segno, innanzi tutto, gli argomenti spesi dalla
difesa di MDV_Newco 40 srl per ritenere che la funzione comunale non sarebbe
compromessa in ragione del mantenimento in capo ai Comuni del potere di
individuare gli immobili abbandonati e degradati. I presupposti fissati
dall’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 per tale
individuazione, infatti, rendono l’esercizio della funzione dei Comuni
sostanzialmente vincolata sul punto, perché essa viene ristretta tanto con
riguardo al periodo a partire dal quale gli immobili devono ritenersi
abbandonati (da oltre cinque anni), quanto in relazione ai profili di
criticità che, da soli o congiuntamente, sono idonei a rivelarne lo stato di
abbandono e di degrado.
11.2.2.– La difesa regionale ha invece sostenuto che la disposizione
censurata non intacca il potere dei Comuni di scegliere quali funzioni
insediare sul proprio territorio, ciò che potrebbe salvaguardare la loro
autonomia per il fatto di consentire un’applicazione diversificata delle
misure incentivanti e delle deroghe sul territorio di riferimento.
Tale assunto è innanzi tutto smentito nel momento in cui la disposizione
censurata ha visto retroattivamente estendere la sua portata anche agli
immobili già individuati dai Comuni come dismessi, sottraendosi così a
qualsiasi forma di raccordo con gli atti pianificatori già assunti.
Questa circostanza incide in modo significativo sulla potestà pianificatoria
municipale, perché riconnette a una scelta effettuata dal Comune in un
determinato momento e, quindi, nel quadro delle complessive politiche
pianificatorie da questo perseguite, conseguenze che lo stesso non avrebbe
potuto prevedere al momento di adozione di quelle scelte e che finiscono
potenzialmente per stravolgere l’esercizio del nucleo incomprimibile delle
sue funzioni.
Ciò è del resto dimostrato dalle ricadute che la norma in esame ha prodotto
nel caso che ha dato origine al giudizio a quo, in cui il Comune di
Milano si è dotato di una disciplina sul recupero degli immobili dismessi,
quale quella contenuta nel richiamato art. 11 delle NdA, nel quadro della
più generale scelta pianificatoria consistente nell’adozione del principio
dell’indifferenza funzionale, vale a dire della generale libertà delle
funzioni da insediare sul proprio territorio (art. 8 NdA). Che il medesimo
Comune, in un secondo momento, si veda imposta la scelta di consentire il
recupero degli immobili dismessi con misure incentivanti ampie e stabilite
in modo fisso, senza poterne più modulare la portata sulla base delle
distinte funzioni insediate sul territorio, dimostra quanto dalla scelta
pianificatoria in precedenza adottata scaturiscano conseguenze che esso non
poteva prevedere, di cui non può più modulare l’efficacia e la portata e che
conseguentemente stravolgono l’impianto della sua pianificazione.
11.2.3.– Più in generale, l’imposizione ai Comuni, per di più al di fuori di
qualsiasi procedura di raccordo collaborativo, di una disciplina quale
quella in esame finisce per alterare i termini essenziali di esercizio della
funzione pianificatoria, anche perché obbliga i medesimi Comuni a far
dipendere le loro scelte fondamentali sulle forme di uso e sviluppo del
territorio da una decisione legislativa destinata a incidere in modo assai
significativo sull’aumento dell’edificato e sulla conseguente pressione
insediativa. Ciò contrasta con l’assunto, che questa Corte condivide, per
cui «il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo
all’interesse all’ordinato sviluppo edilizio del territorio […], ma è
rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti
interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti» (Consiglio di Stato, sezione quarta,
sentenza 09.05.2018, n. 2780).
12.– Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto
dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2019,
nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n.
11 del 2021 (14.12.2019).
Restano assorbite le altre questioni di legittimità costituzionale sollevate
dalle ordinanze di rimessione.
12.1.– La declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione
comporta, ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
l’illegittimità costituzionale in via conseguenziale del comma 11-quinquies
dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto
dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021,
che ha stabilito, al ricorrere dei presupposti ivi indicati, l’ultrattività
delle disposizioni originariamente contenute nell’art. 40-bis della legge
reg. Lombardia n. 12 del 2005, pur a seguito delle modifiche ad esso
apportate dall’art. 1 della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 40-bis della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio), introdotto dall’art.
4, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n.
18, recante «Misure di
semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale,
nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e
integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio) e ad altre leggi regionali», nel testo
vigente prima dell’entrata in vigore della legge della Regione Lombardia
24.06.2021, n. 11, recante
«Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità.
Modifiche all’art. 40-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per
il governo del territorio)»;
2) dichiara, in via conseguenziale,
ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
l’illegittimità costituzionale del comma 11-quinquies dell’art. 40-bis della
legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1,
lettera m), della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021
(Corte Costituzionale,
sentenza 28.10.2021 n. 202). |
Ora, quale sarà la sorte degli eventuali
provvedimenti comunali emessi in applicazione della
suddetta norma dichiarata incostituzionale?? |
Sul punto occorre considerare che la giurisprudenza
amministrativa, fin dalla
sentenza
10.04.1963 n. 8 dell’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato (v. anche
Consiglio di Stato
n. 6619/2020,
n. 4624/2014), ha ricondotto a
illegittimità/annullabilità il vizio del
provvedimento assunto sulla scorta di una norma
dichiarata successivamente incostituzionale,
escludendo trattarsi di altre figure patologiche,
quali la nullità o l’inesistenza.
Il che a dire che, giusta la declaratoria di
incostituzionalità dell’art. 40-bis, l’illegittimità
dei provvedimenti emessi sulla base di tale norma
potrà essere rilevata con gli ordinari mezzi
previsti dall’ordinamento, ossia tramite
a) impugnazione del provvedimento
innanzi al TAR, nel termine ordinario di 60 giorni,
b) impugnazione del provvedimento in via
straordinaria innanzi al Capo dello Stato, nel
termine di 120 giorni, nonché
c) annullamento d’ufficio del provvedimento
illegittimo, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro il termine di 12 mesi [cfr.
F. Donegani,
Rigenerazione urbana in Lombardia: la parola alla
Corte Costituzionale (15.03.2021 -
link a www.dirittopa.it)]. |
|
Distanza minima
di 10,00 mt. tra fabbricati:
il balcone (sia aggettante che
incassato nella falda di tetto) fa distanza
(in quanto
trattasi di manufatto che assicura la possibilità di esercitare la veduta). |
EDILIZIA PRIVATA: Calcolo
della distanza tra edifici con finestre e balconi. Distanze tra edifici:
i 10 metri partono dai balconi e non anche dalle sporgenze non significative
(22.09.2021 - link a
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
balconi devono sempre essere considerati ai fini del calcolo della distanza
tra edifici e tra questi ed il confine. Le sole parti delle quali può non
tenersi conto, in detto calcolo, sono quelle aggettanti, aventi una funzione
esclusivamente artistica ed ornamentale, quali fregi, sculture in aggetto e
simili.
In tema di distanze legali, il principio
della prevenzione ex art. 875 c.c. non è derogato nel caso in cui il
regolamento edilizio si limiti a fissare la distanza minima tra le
costruzioni, mentre lo è qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o
soltanto) la distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in
quest'ultimo caso l'obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come il
corrispondente divieto di costruire sul confine, a meno che una specifica
disposizione del regolamento edilizio non consenta espressamente di
costruire in aderenza.
----------------
La realizzazione di un balcone in aggetto a
distanza inferiore a quella legale da un edificio prospiciente non pone
soltanto una questione di veduta, ma anche di rispetto della distanza minima
tra gli edifici, posto che il balcone costituisce comunque parte
dell'edificio al quale accede.
In tal caso, ai fini del calcolo della predetta distanza legale fra gli
edifici, costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi
particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti,
anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché,
pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto
civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la
consistenza dei fabbricati. Solo le sporgenze esterne del fabbricato che
abbiano funzione meramente artistica ed ornamentale, come fregi, sculture in
aggetto e simili, non sono computabili ai fini del calcolo della distanza
legale tra gli edifici".
---------------
Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione
dell'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, e la falsa applicazione
dell'art. 11 delle N.T.A. del P.G.R. del Comune di Campi
Bisenzio, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.,
perché la Corte di Appello avrebbe dovuto ravvisare un
contrasto tra la disciplina statale e quella prevista dal
regolamento locale e disapplicare la seconda.
La censura è fondata.
La Corte di Appello richiama la motivazione del Tribunale
(cfr. pag. 9 della sentenza impugnata), che aveva escluso la
rilevanza delle finestre esistenti nel muro della proprietà To.,
interessate dalla prospiciente nuova edificazione denunciata,
sul presupposto che dette aperture non concorressero al
raggiungimento del rapporto minimo di illuminazione tra
superficie pavimentata e superficie finestrata.
In sostanza, il
primo giudice aveva affermato che dal momento che la
proprietà To. aveva altre aperture, dalle quali prendeva
sufficiente luce, la violazione della normativa in tema di
distanze minime tra le pareti finestrate prospicienti non era
rilevante, poiché interessante solo aperture "secondarie".
Ad
avviso della Corte fiorentina, l'appellante To. non si sarebbe
adeguatamente confrontato con tale argomentazione della
sentenza di prima istanza, non contestando il fatto che le due
aperture interessate dall'edificazione di cui è causa fossero a
servizio di vani adibiti a servizi igienici, o comunque non
rilevanti ai fini dell'illuminazione della sala da pranzo della
proprietà To. Di conseguenza, il giudice di secondo grado ha
ritenuto di non poter entrare nel merito della decisione assunta
dal Tribunale.
Con tale motivazione, in realtà, la Corte toscana ha
totalmente omesso di considerare che il To. -come la stessa
sentenza impugnata dà atto: cfr. pag. 10- aveva contestato la
legittimità della costruzione realizzata a meno di dieci metri
dalla sua parete finestrata, "... citando copiosa giurisprudenza
del giudice ordinario e del giudice amministrativo ..." e quindi
aveva attinto il punto della decisione con il quale la sua
domanda era stata respinta.
La Corte distrettuale evidenzia che la censura formulata in
appello non attingeva la ratio decidendi della sentenza di prime
cure, fondata "... sulle specifiche considerazioni svolte dal
C.T.U. ing. Ri.Ma. alle pagine 51, 52 e 53 della relazione
di c.t.u. in base alla normativa regolamentare di riferimento".
Tale argomento, tuttavia, oltre ad essere di per sé erroneo,
poiché ispirato al modello processuale del cd. "appello
cassatorio", che non trova cittadinanza nel vigente sistema
processuale civile, sottovaluta il fatto che, oggettivamente, il
To. aveva attinto, con il primo motivo di appello, la statuizione
con la quale il Tribunale aveva respinto la sua domanda di
arretramento del fabbricato frontistante il suo fino al limite di
dieci metri previsto tra le pareti finestrate. Il giudice di appello,
di conseguenza, era tenuto ad esaminare il merito della
questione che l'appellante, con la censura di cui si discute,
aveva chiaramente devoluto alla sua cognizione.
Con il
secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione
dell'art. 11 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Campi
Bisenzio, nonché la falsa applicazione dell'art. 877 c.c., in
relazione all'art. 360, primo corna, n. 3, c.p.c., perché la Corte
fiorentina avrebbe dovuto ritenere non operante la norma del
codice civile, che autorizza la costruzione in aderenza, in
presenza di un regolamento locale che prevede il rispetto di una specifica
distanza tra edifici, e tra edificio e confine, senza
autorizzare espressamente la costruzione in aderenza.
La censura è fondata.
La Corte di Appello parte dal presupposto (cfr. pagg. 11 e
ss. della sentenza impugnata) che nel caso specifico la
normativa regolamentare locale, pur prevedendo distanze
maggiori di quelle indicate nel codice civile, richiamava
espressamente la normativa codicistica.
Pertanto, secondo la
Corte fiorentina, tra norma locale e norma del codice civile si
configurava un rapporto non già di sovrapposizione, ma di
integrazione, con la conseguenza che, anche in difetto di
esplicita norma regolamentare che autorizzasse l'edificazione in
aderenza, quest'ultima dovesse essere ritenuta comunque
consentita, proprio per effetto del rinvio operato alle norme del
codice civile.
Siddetta interpretazione non è coerente con il consolidato
insegnamento di questa Corte, secondo cui "In tema di
distanze legali, il principio della prevenzione ex art. 875 c.c.
non è derogato nel caso in cui il regolamento edilizio si limiti a
fissare la distanza minima tra le costruzioni, mentre lo è
qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o soltanto) la
distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in
quest'ultimo caso l'obbligo di arretrare la costruzione è
assoluto, come il corrispondente divieto di costruire sul
confine, a meno che una specifica disposizione del regolamento
edilizio non consenta espressamente di costruire in aderenza"
(Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8283 del 20/04/2005, Rv. 581792;
conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22896 del 30/10/2007, Rv.
600691; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8465 del 09/04/2010, Rv.
612355; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23693 del 06/11/2014, Rv.
633061; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 11664 del 14/05/2018, Rv. 648398).
In
presenza di norme regolamentari locali che
prevedano il rispetto di una distanza minima, tra edifici o tra
questi ed il confine, dunque, la possibilità di realizzare una
costruzione in aderenza è subordinata alla presenza, nel
regolamento locale, di una norma che espressamente autorizzi
detta facoltà. Ove detta disposizione non sia contenuta nella
norma locale, non è consentito rinviare all'art. 873 c.c.
Dal che deriva il primo errore commesso dal giudice di
merito, il quale non ha tenuto conto del consolidato principio
per cui l'edificazione in aderenza non è consentita, in presenza
di norma regolamentare locale che, nel prescrivere specifiche
distanze tra edifici e tra questi ed i confini, non contempli
espressamente tale specifica facoltà.
Il criterio dell'integrazione opera, piuttosto, in assenza di
piano regolatore locale, tra l'art. 17 della Legge n. 765 del
1967 e la normativa codicistica, poiché in tale ipotesi vale il
principio secondo cui "In tema di distanze nelle costruzioni, il
principio codicistico della prevenzione si applica anche alle
situazioni nelle quali opera, in assenza di piano regolatore, la
disciplina dell'art. 17 della Legge 06.08.1967, n. 765, le cui
prescrizioni, regolando la distanza tra fabbricati, e non tra
fabbricato e confine, sono sostanzialmente integrative dell'art.
873 c.c., con la conseguenza che ad essa devono applicarsi le
regole ed i principi previsti dal codice civile per la disciplina
della distanza fra costruzioni su fondi finitimi, compreso quello
della prevenzione, non escluso dalla legge speciale" (Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 27522 del 19/12/2011, Rv. 620680).
Nel caso di specie è certo che il Comune di Campi Bisenzio,
nel cui territorio ricadono i luoghi di cui è causa, si sia dotato di
piano di regolatore, a corredo del quale sono state adottate
specifiche norme tecniche di attuazione, la cui violazione è -tra l'altro-
oggetto tanto delle domande proposte dal Tosi nel
giudizio di merito, che delle censure articolate dal medesimo
nella presente sede di legittimità.
La Corte territoriale, dunque,
ha ulteriormente errato nella parte in cui ha ritenuto non
conferenti i precedenti di questa Corte in materia di
prevenzione, poiché quest'ultima presuppone l'edificazione a
distanza inferiore da quella prevista dalla legge o dal
regolamento locale, e quindi e intimamente connessa al
problema della costruzione in aderenza.
Con il
terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione
dell'art. 873 c.c. e la falsa applicazione dell'art. 11 delle N.T.A.
del P.R.G. del Comune di Campi Bisenzio, in relazione all'art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché il giudice di seconde
cure avrebbe erroneamente deciso la domanda relativa
all'arretramento dei balconi realizzati nel nuovo edificio facendo
applicazione della disposizione di cui all'art. 905 c.c., in materia
di diritto di veduta, e non invece di quella di cui all'art. 873
c.c., in materia di distanze tra gli edifici.
La censura è fondata.
La Corte di Appello ha, da un lato, richiamato la
motivazione resa dal Tribunale, secondo la quale "... le
disposizioni regolamentari prevedono che ai fini del calcolo
della anzidetta distanza di mt. 5 non debbano essere
considerati gli aggetti della copertura e gli elementi decorativi
nonché le terrazze aggettanti" (cfr. pag. 14), e dall'altro lato
affermato che nel caso di specie non verrebbe in rilievo un
problema di distanze tra le costruzioni o dal confine, ma
piuttosto una questione di regolamentazione del diritto di
veduta, con conseguente applicazione non dell'art. 873 c.c.,
ma dell'art. 905 c.c.
Entrambe le affermazioni sono erronee.
In particolare, è errata la seconda -che logicamente
precede la prima- in quanto il balcone costituisce una parte
dell'edificio, ond'esso va considerato, ai fini del calcolo delle
distanze tra fabbricati, o tra essi ed il confine.
E lo è la
seconda, in base al consolidati principio -al quale il collegio
ritiene di dare continuità- secondo cui "In tema di distanze
legali fra edifici non sono computabili le sporgenze esterne del
fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale,
mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici
aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da
solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile
profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a
volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di
costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la
consistenza dei fabbricati.
Ne consegue che l'art. 14 delle
norme tecniche di attuazione del piano regolatore di Verona, là
dove si riferisce alla lunghezza dei "corpi prospicienti" per
rapportare le distanze all'altezza massima dei fabbricati,
essendo il "corpo di fabbrica" sinonimo di "costruzione" agli
effetti dell'art. 873 cod. civ., che non può essere derogato da
norme secondarie, se non per stabilire distanze maggiori dal
confine, deve essere interpretato nel senso che la lunghezza
delle facciate degli edifici dev'essere computata così da
escludere solo le sporgenze aventi funzione ornamentale e non
anche quelle che prolungando il fronte eccedono detta
funzione" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1.2964 del 31/05/2006,
Rv. 593831; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5963 del
25/03/2004, Rv. 571526; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1556 del
26/01/2005, Rv. 578604).
In termini ancor più chiari, si è affermato che "In tema di
distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo
calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume
edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9
del D.M. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata
dalla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150, come
modificata dalla legge 06.08.1967 n. 765- stabilisce la
distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti
antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di
misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto
dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto,
sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone,
viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt.
10, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (legge 06.08.1967 n. 765, che, con l'articolo 17, ha aggiunto alla
legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 l'articolo 41-quinquies, il cui comma non fa rinvio al D.M.
02.04.1968,
che all'articolo 9, numero 2, ha prescritto il predetto limite di
mt. 10)" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17089 del 27/07/2006, Rv.
593396).
Da quanto precede deriva che i balconi devono sempre
essere considerati ai fini del calcolo della distanza tra edifici e
tra questi ed il confine. Le sole parti delle quali può non tenersi
conto, in detto calcolo, sono quelle aggettanti, aventi una
funzione esclusivamente artistica ed ornamentale, quali fregi,
sculture in aggetto e simili.
In definitiva, tutti e tre i motivi di ricorso vanno accolti,
con conseguente cassazione della decisione impugnata e rinvio
della causa alla Corte di Appello di Firenze, in differente
composizione, anche per le spese del presente giudizio di
legittimità.
Il giudice del rinvio avrà cura di uniformarsi ai seguenti principi di
diritto:
"1) Il motivo di appello con il quale venga attinta la
statuizione di rigetto della domanda di arretramento dell'edificio
prospiciente, per violazione della distanza minima tra le pareti finestrate
prevista dall'art. 9 del D. M. n. 1444 del 1968, va ritenuto
sufficientemente specifico, e dunque idoneo a devolvere la questione al
giudice di secondo grado, anche qualora la parte appellante, nel formulare
la censura e ribadire gli argomenti difensivi già proposti in prime cure,
non abbia specificamente confutato le argomentazioni contenute nella
decisione di prime cure a sostegno della decisione di rigetto, ogni qual
volta la doglianza consenta comunque al giudice di appello di identificare
la questione devoluta.
2) In tema di distanze legali, il principio
della prevenzione ex art. 875 c.c. non è derogato nel caso in cui il
regolamento edilizio si limiti a fissare la distanza minima tra le
costruzioni, mentre lo è qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o
soltanto) la distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in
quest'ultimo caso l'obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come il
corrispondente divieto di costruire sul confine, a meno che una specifica
disposizione del regolamento edilizio non consenta espressamente di
costruire in aderenza;
3) La realizzazione di un balcone in aggetto a
distanza inferiore a quella legale da un edificio prospiciente non pone
soltanto una questione di veduta, ma anche di rispetto della distanza minima
tra gli edifici, posto che il balcone costituisce comunque parte
dell'edificio al quale accede.
In tal caso, ai fini del calcolo della predetta distanza legale fra gli
edifici, costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi
particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti,
anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché,
pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto
civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la
consistenza dei fabbricati. Solo le sporgenze esterne del fabbricato che
abbiano funzione meramente artistica ed ornamentale, come fregi, sculture in
aggetto e simili, non sono computabili ai fini del calcolo della distanza
legale tra gli edifici" (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 17.09.2021 n.
25191). |
EDILIZIA PRIVATA:
Calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze
minime degli edifici – Nozione di “pareti finestrate”
– Art. 9, d.m. n. 1444/1968 – Fattispecie: aperture
finalizzate a consentire l’ingresso in un edificio.
In tema di calcolo dei balconi e degli
sporti ai fini delle distanze degli edifici, detti elementi
architettonici possono non essere compresi nel computo delle
distanze di cui all’art. 9, d.m. n. 1444/1968 qualora vi sia
una norma di piano che ciò autorizzi ed a condizione che si
tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile
dell’edificio.
La ratio stessa della previsione delle distanze minime fra
edifici, come noto, è quella di evitare la creazione di
intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità
pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa
escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da
fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione
urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus
abbiano le suddette caratteristiche.
Pertanto, ai sensi dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per
“pareti finestrate” devono intendersi non soltanto le pareti
munite di “vedute” ma, più in generale, tutte le pareti
munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno,
quali porte, balconi, finestre di ogni tipo.
Inoltre, l’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 detta
disposizioni inderogabili da parte dei regolamenti locali in
tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra i
fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra
costruzioni e non tra queste e le vedute.
Nella specie le aperture –erano addirittura finalizzate a
consentire l’ingresso nell’edificio– pertanto, non potevano
in alcun modo ritenersi quali mere “luci” le quali, secondo
un orientamento della giurisprudenza civile che dà invece
rilievo alla possibilità dell’affaccio, non sarebbero di per
sé idonee a far ritenere la parete come “finestrata” (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.09.2021 n. 33419 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Costituisce orientamento
consolidato che nella verifica dell’osservanza delle
distanze tra fabbricati, ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444,
vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro
caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei
vani che vi accedono.
Dunque, nel caso di specie, trattandosi di terrazze incassate nella sagoma dell’edificio, la
distanza dalla parete frontistante (cioè quella dell’edificio della
ricorrente) deve essere calcolata non già a partire dalla porta-finestra che
consente di accedere dall’appartamento alla terrazza in commento, ma dalla
linea esterna di tale terrazza coincidente con la balaustra (non è in
contestazione tra le parti che, in tal modo correttamente calcolata, la
distanza tra le pareti sia inferiore a quella prescritta dall’art. 9 del DM
1444/1968, essendo pari a mt. 7,90).
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1. Con il ricorso in disamina la società Fi.Re.Es. ha
chiesto l’annullamento del provvedimento con cui il Comune di Cerea ha
annullato in via di autotutela la SCIA alternativa al permesso di costruire
presentata in data 21.08.2017 dalla ricorrente (cfr. all. 12 al ricorso).
Con i due motivi di gravame si lamenta, in primo luogo, che l’esercizio del
potere sarebbe stato tardivo in quanto successivo al decorso del termine di
18 mesi indicato dall’art. 21-nonies della L. 241/1990, e, in secondo luogo,
che non sussisterebbe la violazione delle distanze contestata dal Comune, in
quanto sull’immobile frontistante quello della ricorrente sarebbero presenti
solo delle terrazze di copertura del piano inferiore dell’edificio non
qualificabili come “pareti finestrate” ai sensi dell’art. 9, primo comma,
n. 2), del D.M. n. 1444/1968.
Giova prendere le mosse, in via logica, dal secondo motivo di censura:
ritiene il Collegio che, nel caso di specie, sussistano senz’atro i
presupposti per l’applicazione del disposto della norma da ultimo citata in
punto di distanze minime tra pareti finestrate.
L’esame della documentazione in atti e, segnatamente, delle fotografie
prodotte dalle parti (cfr. doc. 7 del Comune di Cerea e doc. 14 di parte
ricorrente) evidenzia come le terrazze esistenti sulla proprietà dei
controinteressati, munite di balaustra, non hanno una funzione di mera
copertura del piano sottostante dell’edificio, ma costituiscono una
proiezione verso l’esterno dell’appartamento, e dunque una componente
strutturale dell’edificio ove si prolunga la vita abitativa: esse si
sviluppano in continuità con il perimetro esterno del fabbricato e
consentono l’affaccio e la veduta in ogni direzione (cfr. Cass. civ. n.
4834/2019; Cons. Stato, sez. VI. n. 5307/2018: “Costituisce orientamento
consolidato, qui condiviso, che nella verifica dell’osservanza delle
distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, vadano
considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro
caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei
vani che vi accedono (cfr., Cons. Stato, sez. V, 13.03.2014, n. 1272; Id,
sez. IV, 21.10.2013, n. 5108)”).
Dunque, trattandosi di terrazze incassate nella sagoma dell’edificio, la
distanza dalla parete frontistante (cioè quella dell’edificio della
ricorrente) deve essere calcolata non già a partire dalla porta-finestra che
consente di accedere dall’appartamento alla terrazza in commento, ma dalla
linea esterna di tale terrazza coincidente con la balaustra: non è in
contestazione tra le parti che, in tal modo correttamente calcolata, la
distanza tra le pareti sia inferiore a quella prescritta dall’art. 9 del DM
1444/1968, essendo pari a mt. 7,90 (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 11.05.2021 n. 616 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Un
orientamento giurisprudenziale, interpretando l’articolo 9 del D.M.
1444/1968, ha affermato la non computabilità delle terrazze e degli elementi aggettanti, ove la
strumentazione urbanistica comunale ne preveda l’esclusione dal calcolo
della volumetria, purché si tratti di elementi estranei al volume utile
dell’edificio.
Invero, s'è affermato che “Al riguardo, la
Sezione non ignora l’esistenza di precedenti che, muovendo da una rigorosa
qualificazione delle norme del d.m. nr. 1444/1968 in termini di disposizioni
di ordine pubblico, traenti la propria fonte direttamente dalla legge
primaria (e, segnatamente, dall’art. 41-quinquies, comma 2, della legge
17.08.1942, nr. 1150), esclude che le stesse possano essere derogate dagli
strumenti urbanistici generali, le cui prescrizioni pertanto, ove
contrastanti con le predette norme, devono essere disapplicate dal giudice.
Tuttavia, esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di
calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, dal
quale in questa sede si ritiene di non doversi discostare, che ammette che i
detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle
distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una
norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi
aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio.
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio stessa della
previsione delle distanze minime fra edifici, che come noto è quella di
evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la
salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa
escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte
di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi
architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche”.
---------------
5. Non è, invece, fondato il terzo motivo, con cui sono
dedotti i vizi di violazione dell’art. 9 D.M. 1444/1968, di eccesso di potere
per carenza di istruttoria, difetto di motivazione e si chiede di sollevare
la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 14/2015.
Afferma il ricorrente che le terrazze del primo e del secondo piano
sarebbero poste ad una distanza inferiore a quella di 10 metri prevista
dall’articolo 9 D.M. 1444/1968. Esse, infatti, superano il limite di 10
metri di m. 1,30.
Il ricorrente richiama l’orientamento giurisprudenziale
alla stregua del quale sono rilevanti ai fini del rispetto della suddetta
distanza le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati
(c.d. “aggettanti”) destinati ad estendere la consistenza del
fabbricato, restando irrilevanti soltanto le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura o
accessoria di limitata entità.
La deroga a tale principio non potrebbe essere contenuta nelle disposizioni
del regolamento edilizio, trattandosi di norme secondarie alle quali non è
consentito, in assenza di espressa previsione, derogare alle norme di aventi
rango legislativo.
Neppure la minore distanza potrebbe trovare fondamento nell’articolo 8,
comma 4-bis, L.R. 4/2015 (alla stregua del quale: “in attuazione
dell’articolo 2-bis del D.P.R. 380/2001, ai fini del calcolo della distanza
minima tra pareti finestrate di cui all’art. 9 del D.M. 1444/1968, non sono
computati gli sporti e gli elementi a sbalzo, compresi terrazze e balconi
non chiusi aggettanti dalla facciata dell’edificio per non più di metri
1,50. Resta fermo il rispetto delle disposizioni del codice civile relative
alle distanze tra costruzioni nonché quelle relative all’apertura di vedute
dirette e balconi sul fondo del vicino”) che il ricorrente ritiene
incompatibile con il sistema costituzionale di riparto della potestà
legislativa tra Stato e Regioni e, in particolare, con l’articolo 117, comma
2, lett. l, Cost.
5.1 E’ incontestato tra le parti che le terrazze del primo e del secondo
piano sono poste ad una distanza dalla parete finestrata antistante
inferiore a quella prevista dall’articolo 9 D.M. 1444/1968, ma inferiore a
quella massima prevista dall’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 4/2015, che
esclude dal calcolo della suddetta distanza minima, gli sporti e gli
elementi a sbalzo, compresi terrazze e balconi non chiusi aggettanti dalla
facciata dell’edificio per non più di metri 1,50.
La deroga al D.M. 1444/1968, pertanto, è giustificata dalla ricorrenza delle
condizioni previste dalla suddetta legge regionale. Questa Sezione si è già
espressa per l’insussistenza del presupposto della non manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale così come
prospettata in questo giudizio, nella sentenza del 10.02.2021, n. 187, con
argomenti da cui non si ravvisano ragioni per discostarsi.
Infatti, l’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 14/2015 è stato approvato in
espressa attuazione dell’articolo 2-bis D.P.R. 380/2001, che consente a
Regioni e Province autonome di “prevedere, con proprie leggi e
regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444 possono dettare disposizioni sugli spazi da
destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli
riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito
della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a
un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.”.
La norma, pertanto, costituisce esercizio delle facoltà di deroga
riconosciuta alle Regioni dal legislatore statale. Inoltre essa trova
fondamento, come ha rilevato il Comune, nell’intesa raggiunta tra Stato e
Regione sul R.E.T., le cui definizioni, consentono di sottrarre al calcolo
delle distanze gli aggetti inferiori a m 1,50 (cfr. nn. 18 e 30, all. A dell’Intesa).
La previsione, peraltro, è conforme ad un orientamento giurisprudenziale
che, interpretando l’articolo 9 del D.M. 1444/1968, ha affermato la non
computabilità delle terrazze e degli elementi aggettanti, ove la
strumentazione urbanistica comunale ne preveda l’esclusione dal calcolo
della volumetria, purché si tratti di elementi estranei al volume utile
dell’edificio (TAR Lazio, sez. II, 11.09.2019, n. 10843 che richiama
Consiglio di Stato, sez. IV, 30.12.2016, n. 5552: “Al riguardo, la
Sezione non ignora l’esistenza di precedenti che, muovendo da una rigorosa
qualificazione delle norme del d.m. nr. 1444/1968 in termini di disposizioni
di ordine pubblico, traenti la propria fonte direttamente dalla legge
primaria (e, segnatamente, dall’art. 41-quinquies, comma 2, della legge
17.08.1942, nr. 1150), esclude che le stesse possano essere derogate dagli
strumenti urbanistici generali, le cui prescrizioni pertanto, ove
contrastanti con le predette norme, devono essere disapplicate dal giudice.
Tuttavia, esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di
calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, dal
quale in questa sede si ritiene di non doversi discostare, che ammette che i
detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle
distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una
norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi
aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 05.01.2015, nr. 11; id., sez. IV, 22.11.2013, nr. 5557; id.,
07.07.2008, nr. 3381).
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio stessa della
previsione delle distanze minime fra edifici, che come noto è quella di
evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la
salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa
escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte
di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi
architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche.”).
Anche alla stregua di tale orientamento, che ha interpretato la normativa
statale, non si ravvisa, pertanto, la violazione del parametro
costituzionale invocato dal ricorrente (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 31.03.2021 n. 414 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le distanze legali previste
dal regolamento edilizio, a fini
pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a
differenti esigenze di tutela.
● La ratio sottesa alla vigente
normativa codicistica sull'apertura
e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva
predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei
proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei
rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente
tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità
all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare
con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire
che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio
cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e
riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche
interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui
appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo
da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una
determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il
fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi
indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il
diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata
unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una
distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente
compressione dell'altrui diritto alla riservatezza.
● La ratio della norma sulle distanze contenute nel
regolamento
edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro
e della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma
mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per
l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti.
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono
coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla
nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina
predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma
è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino
intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un
adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima
fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico
sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da
compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione
luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti
esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e
tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che
dispongano in maniera riduttiva.
---------------
E' irrilevante, ai fini dell’applicazione dell'art.
9 DM 1444/1968, che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla
stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra.
Inoltre, rilevato che i balconi della proprietà De Fa. insistono su una
parete posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della
proprietà Pa., se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze
ai sensi dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli
sporti di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o
decorativo, è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi
nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e
funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di
gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai
predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni,
come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza.
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto
delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e
profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi
costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non
corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione,
per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica
dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per
i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie
abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, anche di recente, la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della
norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto
trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta,
conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti
munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di
qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che
incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola
parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune nel
provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non
costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato
dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici
che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti
addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente
(perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
---------------
Rispetto
a manufatti posti l’uno di fronte all’altro, anche per obliquo:
a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima
rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti
considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della
misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per
le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed
ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è
quello di evitare le intercapedini dannose.
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle
facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la
misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate
avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
---------------
11.1.2. Trasponendo tali concetti dal generale al particolare, nella
fattispecie in esame, occorre accertare quale sia la situazione edilizia in
cui versano gli immobili di proprietà dei signori De Fa. fronteggianti
l’immobile della signora Pa. al momento del rilascio a quest’ultimo dal
titolo edilizio in contestazione.
L’immobile si divide in tre unità abitative: l’appartamento posto al secondo
piano (terzo piano fuori terra), di proprietà Sa. De Fa.;
l’appartamento posto al primo piano (secondo fuori terra), di proprietà Ci.
De Fa.; l’appartamento posto al piano terra (primo piano fuori terra), di
proprietà Ca. De Fa..
Gli immobili posti al piano terra ed al primo piano di proprietà,
rispettivamente, dei signori Ca. De Fa. e Ci. De Fa. sono stati
assentiti con concessioni edilizie in sanatoria rilasciate in data 06.05.2004, ormai inoppugnabili.
L’immobile posto al secondo piano, di proprietà del signor Sa. De
Fa., invece, è stato assentito da permesso di costruire in sanatoria
rilasciato in data 18.07.2019, sicché, al momento del rilascio dei
titoli contestati ed al momento della proposizione del ricorso in primo
grado, lo stesso risultava abusivo.
Di contro, gli abusi afferenti la realizzazione sui balconi dei tre piani di
piccole verande, in quanto non “coprenti” l’intera metratura dei balconi
stessi, non assumono rilievo ai fini in discorso.
Infatti, nonostante tali abusi insistano sui balconi da cui occorrerebbe
calcolare le distanze, i piccoli manufatti abusivi, per come si evince dalla
documentazione fotografica versata in atti ed a prescindere dal fatto che
siano stati o meno abusivamente riproposti dopo la loro demolizione, coprono
in piccola parte la superficie dei balconi, i quali, quindi, non hanno perso
le loro caratteristiche essenziali e la loro destinazione d’uso.
Ne consegue che sussiste la legittimazione a contestare l’intervento
edilizio assentito alla signora Pa., atteso che, al momento del rilascio
dei titoli edilizi e della proposizione del ricorso in primo grado,
risultavano comunque assentiti i primi due piani della proprietà De Fa.,
sicché potrebbe eventualmente escludersi la legittimazione all’impugnazione
da parte del solo signor Sa. De Fa., proprietario dell’unità
immobiliare a quel momento ancora abusiva, ma tale circostanza non è idonea
ad escludere la complessiva legittimazione alla proposizione del ricorso.
11.2. I signori De Fa., con l’appello proposto in via incidentale, hanno
sostenuto che la signora Pa. non avrebbe potuto beneficiare del permesso a
costruire richiesto, in considerazione della causa di esclusione contenuta
nell’art. 3, comma 1, lett. a), della più volte menzionata L.R. Campania n.
19 del 2009.
11.2.1. Il motivo di doglianza non è persuasivo.
...
11.3. La signora Pa., così come il Comune di Volla nel suo appello
incidentale, hanno contestato la statuizione della sentenza impugnata, con
cui è stato ritenuto fondato il motivo di impugnativa relativo alla
violazione delle norme sulle distanze.
11.3.1. Il giudice di primo grado ha così motivato sul punto:
“Orbene, nella fattispecie che occupa il Tribunale evidenzia come dai
grafici versati in atti e dalle stesse foto corredanti la relazione di
chiarimenti depositata dall’Amministrazione resistente, emerge che il
progetto assentito con gli impugnati titoli edilizi preveda la realizzazione
di un vano scale di nuova costruzione posto in aderenza al muro di confine
con la proprietà dei ricorrenti, nella parte non edificata, il quale risulta
posto ad una distanza inferiore ai dieci metri prescritti dalla parete frontistante dell’edificio di proprietà di quest'ultimi, costituita da un
prolungamento ad “L” del fabbricato in cui sono inclusi i balconi.
Per quanto sin qui osservato appare evidente che il provvedimento prot. n.
23138 del 31.07.2018, con cui il Comune di Volla, all'esito del procedimento
di autotutela avviato con comunicazione prot. n. 10933 del 06.04.2018, ha
convalidato il permesso a costruire n. 76 del 27.12.2016 e la successiva
SCIA prot. n. 5014 del 13.12.2018 presentata dalla controinteressata, e gli
stessi provvedimenti sottostanti tutti ritualmente impugnati dai ricorrenti,
sono illegittimi quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della
precedente scala esterna scoperta, in quanto tutti fondati sull’erroneo
presupposto che il rispetto della distanza di 10 metri imposta dal D.M. 1444
del 1968 è applicabile unicamente alle pareti che si fronteggiano, che il
balcone non è riconducibile al concetto di parete finestrata e che la
misurazione delle distanze in tale caso deve avvenire in modo lineare e non
radiale.
Le suesposte considerazioni risultano decisive -quanto alla realizzazione
del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta- ai fini
dell’accoglimento del ricorso per come integrato dai primi motivi aggiunti
…”.
11.3.2. L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive,
per i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci
metri tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono
unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e
che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere
vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può
fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua,
la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui
la veduta obliqua si esercita.
11.3.3. Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini
pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a
differenti esigenze di tutela.
11.3.3.1. La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica sull'apertura
e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva
predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei
proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei
rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente
tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità
all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare
con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire
che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio
cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e
riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche
interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui
appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo
da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una
determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il
fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi
indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il
diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata
unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una
distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente
compressione dell'altrui diritto alla riservatezza (cfr. sentenza della
Corte costituzionale n. 394 del 1999).
11.3.3.2. La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento
edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e
della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma
mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per
l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti (cfr. Corte Cass.
II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834).
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono
coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla
nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina
predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma
è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino
intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un
adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima
fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico
sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da
compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione
luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti
esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e
tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che
dispongano in maniera riduttiva (Cons. Stato, IV, 31.03.2015, n. 1670).
11.3.4. La questione maggiormente problematica che si pone nella fattispecie
in esame, quindi, è quella di verificare se debba trovare applicazione
l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, come ritengono i signori De Fa., o se
non sussistono i presupposti per l’applicazione di tale norma, come
sostenuto dal Comune di Volla e dalla signora Na.Pa..
Il Collegio ritiene che la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968
sussiste, in quanto la fattispecie concreta rientra nella fattispecie
astratta prevista dalla norma.
In primo luogo, occorre considerare che, in ragione della ratio prima
descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla
stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass. Civ., II,
ordinanza 19.02.2019, n. 4834 cit.).
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione,
rilevato che i balconi della proprietà De Fa. insistono su una parete
posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà
Pa., se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi
dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti
di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo,
è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le
sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (Cfr. Cass. Civ.,
19.09.2016, n. 12828).
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di
gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai
predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni,
come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza (cfr. Cass. Civ., II, 19.09.2016,
n. 12828, che richiama Cass. 17242/2010; 12964/2006; 1556/2005).
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto
delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e
profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi
costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non
corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione,
per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica
dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per
i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie
abitativa dei vani che vi accedono (cfr. Cons. Stato, VI, 10.09.2018,
n. 5307, che richiama Cons. Stato, V, 13.03.2014, n. 1272 e Cons. Stato,
IV, 21.10.2013, n. 5108).
In proposito, anche di recente (cfr. Cass. Civ., ordinanza 19.02.2019,
n. 4834), la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della
norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto
trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta,
conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti
munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di
qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che
incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola
parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune di Volla nel
provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non
costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato
dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici
che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti
addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente
(perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
Infatti, dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla
parete dei signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della
parete della signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla parete
che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone che, in
quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De Fa.,
quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del
balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che,
ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà
confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si
trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –-secondo quanto dedotto dalla parte ed indicato
nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15 dal corpo
scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una sua
consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è
servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante,
con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate
fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità
degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una parete
non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri
perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le
pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una
rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri
perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità,
determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto
della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto)
di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano
l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la
presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo
retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in
esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte
all’altro, anche per obliquo (Cass. civ., sez. II, 01.10.2019 n.
24471):
a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima
rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti
considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della
misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per
le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed
ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è
quello di evitare le intercapedini dannose (Cass. Civ., sez. II, 25.06.1993, n. 7048).
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle
facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la
misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate
avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De
Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino
scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del
D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
Ciò è sufficiente ad escludere la fondatezza dei motivi di appello proposti
dalla signora Pa. e dal Comune di Volla.
11.3.5. Per altro verso, è da escludere però la contestuale violazione
dell’art. 907 c.c., in quanto i signori De Fa. non hanno dato prova,
neppure presuntiva, di avere acquistato il diritto di avere vedute dirette o
oblique sul fondo vicino (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.03.2021 n. 1841 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le disposizioni che disciplinano l'esercizio dell'attività
edificatoria (come quelle sul calcolo delle distanze e delle altezze,
sull'osservanza di canoni estetici, sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali, regole tecniche sull'attività costruttiva, etc.)
sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel
momento in cui è adottato l'atto applicativo e, dunque, possono essere
oggetto di censura in occasione della relativa impugnazione.
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Come noto, l’art. 8 DM 1444/1968 prevede che: “Le altezze massime degli edifici
per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A):
- per le operazioni di risanamento conservativo non è consentito superare le
altezze degli edifici preesistenti, computate senza tener conto di
soprastrutture o di sopraelevazioni aggiunte alle antiche strutture;
- per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino
ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può superare l'altezza
degli edifici circostanti di carattere storico-artistico;
2) Zone B):
- l'altezza massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli
edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità
fondiaria di cui all'art. 7 (…)”.
L’interpretazione che la giurisprudenza ha costantemente offerto sulla
nozione di “edifici preesistenti e circostanti” è quella che fa riferimento
a una serie ristretta di edifici, identificabili in quelli circostanti, vale
a dire immediatamente limitrofi.
In particolare, è stato affermato al riguardo che “la ratio della norma
richiamata, nel riferirsi all’altezza “degli edifici preesistenti e
circostanti”, sia quella di porre a riferimento della nuove costruzioni, o
dell’ampliamento di costruzioni esistenti, l’altezza degli immobili contigui
al fine di mantenere, in un assetto edilizio circoscritto e già consolidato
(la zona urbanistica è classificata come “residenziale satura”)
caratteristiche di omogeneità. Pertanto, nel caso in cui la disciplina urbanistico-edilizia
prescriva che l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa
superare l'altezza di quelli “preesistenti circostanti”, il Collegio ritiene
che tale parametro (gli edifici “circostanti”) non può che riferirsi agli
edifici limitrofi a quello costruendo, coerentemente con la ratio della
norma, preordinata ad evitare che fabbricati contigui o strettamente vicini
presentino altezze marcatamente differenti e a far sì che restino omogenei
gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione”.
---------------
2. Con l’atto introduttivo del giudizio si lamenta, in primo
luogo, che il progetto autorizzato dal Comune consentirebbe l’elevazione
dell’edificato in altezza oltre i limiti consentiti dalle disposizioni
vigenti, e in particolare dall’art. 9, comma 8-bis, L.R. 14/2009, letto in
combinato disposto con l’art. 8 del D.M. 1444 del 1968: si tratta del primo,
del secondo e del quarto motivo di ricorso che è possibile esaminare
congiuntamente.
Si anticipa che il terzo motivo di ricorso non è assistito da alcun
interesse alla relativa disamina, giacché il Comune non ha allegato di aver
fatto applicazione delle norme attuative del cd. secondo piano casa ai cui
si riferisce il motivo di gravame.
Difatti, tanto il Comune di Jesolo quanto la controinteressata, nelle
proprie difese, assumono di aver determinato l’altezza massima in progetto
sulla scorta delle previsioni della delibera del Consiglio comunale di
Jesolo n. 140 del 30.10.2015, che consentivano che l’edificazione
raggiungesse l’altezza prevista anche a prescindere dall’esercizio della
facoltà di deroga alle disposizioni vigenti in materia di altezze prevista
dalla legge sul cd. piano casa.
Difatti, in base alla citata delibera, per
le Z.T.O. del territorio comunale di tipo ‘B’ (ove ricade l’immobile in
oggetto) l’inciso ‘edifici circostanti’ di cui al D.M. 1444/1968 deve essere
interpretato nel senso di edifici ricadenti in un ‘raggio di intorno’ pari a
mt. 200: si assume, in particolare, che nel raggio di 200 mt. dall’immobile
autorizzato con il titolo impugnato esisterebbero edifici di altezza tale da
legittimare le previsioni progettuali.
Nella relazione tecnica allegata all’istanza di rilascio di permesso di
costruire si legge in proposito:
“Il P.R.G. (art. 11 delle N.T.A., Zone B3) prevede che l’altezza massima
degli edifici non potrà superare l’altezza degli edifici preesistenti e
circostanti (nel raggio di 200 ml.). Si considera come edificio
“preesistente e circostante”, avente altezza certa, il fabbricato denominato
Hotel Ancora, distante 137 ml. ad ovest del lotto in oggetto. Tale
fabbricato, allo stato precedente la sopraelevazione autorizzata con
permesso di costruire T-2018-5583 del 30.01.18, ha altezza urbanistica di
ml. 22.60 e altezza massima ml. 25.00.
Edificio in progetto: il fabbricato in progetto avrà altezza urbanistica di
ml. 18.45, inferiore all’altezza massima consentita dal P.R.G.
L’art. 9, comma 8-bis, della L.R. 32/2013 consente inoltre la ricostruzione
del fabbricato in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste
dal D.M. 1444/1968, sino a un massimo del 40% dell’edificio esistente. Tale
norma non viene comunque applicata, poiché l’altezza del fabbricato in
progetto è già nei limiti imposti dal P.R.G.” (cfr. doc. 3 della produzione
Tr. srl).
La citata delibera comunale è stata oggetto di impugnazione tramite ricorso
per motivi aggiunti: dunque, per chiarezza espositiva e per consequenzialità
sul piano logico nella trattazione delle varie questioni da esaminare, giova
prendere le mosse dalla disamina del ricorso per motivi aggiunti, al fine di
stabilire se l’altezza di progetto fosse assentibile sulla scorta della
delibera citata (riservando al prosieguo la disamina dei motivi di censura
proposti con il ricorso introduttivo).
La società controinteressata ha eccepito: l’irricevibilità dell’impugnazione
della delibera nr. 140/2015 per tardiva proposizione del gravame, giacché il
termine di impugnazione dovrebbe farsi decorrere dalla pubblicazione
dell’atto nell’Albo Pretorio; l’irricevibilità perché la censura avrebbe
dovuto proporsi con l’introduzione del giudizio, in quanto dagli atti
progettuali era evincibile il criterio seguito per la determinazione
dell’altezza massima di zona; l’inammissibilità dell’impugnazione,
trattandosi di un atto di indirizzo completamente privo di efficacia
prescrittiva e portata lesiva: analoga eccezione di irricevibilità/inammissibilità
è stata sollevata dal Comune.
Dunque, in primo luogo, si assume che il termine per impugnare la delibera
nr. 140/2015 dovrebbe farsi decorrere dalla relativa pubblicazione nell’albo
comunale: in particolare la controinteressata ha dedotto che l’atto,
riferendosi solo a determinate aree del territorio comunale, era dotato di
immediata portata lesiva e pertanto doveva essere immediatamente contestato
in giudizio.
Giova richiamarsi sul punto al consolidato orientamento giurisprudenziale a
mente del quale le disposizioni che disciplinano l'esercizio dell'attività
edificatoria (come quelle sul calcolo delle distanze e delle altezze,
sull'osservanza di canoni estetici, sull'assolvimento di oneri
procedimentali e documentali, regole tecniche sull'attività costruttiva, etc.)
sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel
momento in cui è adottato l'atto applicativo e, dunque, possono essere
oggetto di censura in occasione della relativa impugnazione (cfr. TAR
Veneto, Sez. II, n. 1368 del 2014).
Non convince l’argomentazione sviluppata dalla parte controinteressata a
mente della quale la delibera gravata, in quanto dettata con riguardo solo a
un’area determinata del territorio comunale avrebbe avuto immediata portata
lesiva, e avrebbe dovuto conseguentemente essere oggetto di immediata
impugnativa: osserva in proposito il Collegio che la regolamentazione sulle
altezze in commento risulta adottata con esclusivo riferimento alla zona B)
del territorio comunale, e più in particolare alle zone B1.2 – B2.1 – B.2.2 –
e B.3 mentre l’immobile della ricorrente ricade in zona C) (cfr. all. 2
della produzione allegata ai motivi aggiunti). In tal senso, non è possibile
individuare una immediata, concreta, portata pregiudizievole della delibera
determinativa dei parametri relativi alle altezze assentibili, rispetto agli
interessi di cui la ricorrente è titolare.
Quanto poi all’eccezione di irricevibilità della censura per essere stata
tale delibera, comunque, citata negli elaborati tecnici consegnati dal
Comune in seguito all’istanza di accesso presentata dalla società Ma.,
parte ricorrente ha dedotto, senza che vi sia stata specifica smentita sul
punto, di non aver esaminato alcun atto in tal senso utile prima della
costituzione in giudizio delle controparti processuali, in quanto non
rientrante tra quelli resi ostensibili dall’ente resistente: tali deduzioni
non sono contraddette dalla documentazione versata in atti.
Infine, è stata eccepita l’inammissibilità del gravame per mancanza di
portata precettiva della delibera in commento, in quanto semplice atto di
indirizzo: anche tale argomentazione non convince (se ne registra, peraltro,
una certa contraddittorietà rispetto a quanto dedotto in ordine alla
immediata portata lesiva della delibera per sostenere la tardività del
gravame).
Con la delibera impugnata, infatti, il Comune resistente, lungi dall’offrire
un semplice indirizzo interpretativo, ha stabilito puntualmente il perimetro
dell’area rilevante ai fini della determinazione dell’altezza massima di
zona, ex art. 8 DM 1444/1968, prevedendo di “stabilire un raggio di intorno
urbano pari a m. 200 ai fini dell’individuazione della fattispecie di
“edifici preesistenti e circostanti” cui fare riferimento al fine della
determinazione dell’altezza massima ammissibile per i fabbricati in
progetto, ai sensi degli articoli 8, 9, 10 e 11 delle norme tecniche di
attuazione del p.r.g.” (cfr. doc. 2 alla produzione allegata ai motivi
aggiunti).
Deve, dunque, procedersi al vaglio dei motivi di gravame articolati avverso
tale delibera.
Ritiene il Collegio che sia fondata la censura con cui parte ricorrente
lamenta la violazione dell’art. 8 DM 1444/1968.
Come noto, tale disposizione prevede che: “Le altezze massime degli edifici
per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A):
- per le operazioni di risanamento conservativo non è consentito superare le
altezze degli edifici preesistenti, computate senza tener conto di
soprastrutture o di sopraelevazioni aggiunte alle antiche strutture;
- per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino
ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può superare l'altezza
degli edifici circostanti di carattere storico-artistico;
2) Zone B):
- l'altezza massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli
edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità
fondiaria di cui all'art. 7 (…)”.
L’interpretazione che la giurisprudenza ha costantemente offerto sulla
nozione di “edifici preesistenti e circostanti” è quella che fa riferimento
a una serie ristretta di edifici, identificabili in quelli circostanti, vale
a dire immediatamente limitrofi (cfr. Tar Lombardia, Sez. II, 14.07.2020, nr.
1576; Tar Calabria, Reggio Calabria, 08.05.2019 nr. 387; Tar Veneto, Sez. II,
08.10.2020, n. 1255).
In particolare, è stato affermato al riguardo che “la ratio della norma
richiamata, nel riferirsi all’altezza “degli edifici preesistenti e
circostanti”, sia quella di porre a riferimento della nuove costruzioni, o
dell’ampliamento di costruzioni esistenti, l’altezza degli immobili contigui
al fine di mantenere, in un assetto edilizio circoscritto e già consolidato
(la zona urbanistica è classificata come “residenziale satura”)
caratteristiche di omogeneità. Pertanto, nel caso in cui la disciplina urbanistico-edilizia prescriva che l'altezza massima degli edifici di nuova
costruzione non possa superare l'altezza di quelli “preesistenti
circostanti”, il Collegio ritiene che tale parametro (gli edifici
“circostanti”) non può che riferirsi agli edifici limitrofi a quello
costruendo, coerentemente con la ratio della norma, preordinata ad evitare
che fabbricati contigui o strettamente vicini presentino altezze
marcatamente differenti e a far sì che restino omogenei gli assetti
costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (cfr. da ultimo per un
analogo iter argomentativo Cons. Stato n. 4553/2014, n. 3184/2013)” (TAR
Napoli, sez. VII, sentenza n. 4102 del 26.08.2016).
Operate tali premesse, il Collegio ritiene che l’atto gravato, ove ha
stabilito che la nozione di “edifici preesistenti e circostanti” debba
essere intesa come “edifici ricadenti in un raggio di mt. 200”, si ponga in
contrasto con la ratio della disposizione dettata dall’art. 8 in commento,
nell’interpretazione costante che ne è stata offerta, proponendo una lettura
della norma che rischia di contraddirne il fine: si prende, infatti, in
considerazione non solo una gamma ristretta di edifici, e cioè quelli
effettivamente limitrofi, ma anche costruzioni che insistono fino a 200 mt.
di distanza, in via generale e a prescindere dalle concrete caratteristiche
del contesto, in tal modo tradendo la voluntas legis che è quella di
garantire l’omogeneità tra le altezze degli edifici contigui.
Ciò posto, deve ancora osservarsi che il Comune resistente e la società
controinteressata hanno dedotto che le altezze autorizzate sarebbero,
comunque, legittime in virtù della possibilità di fruire della deroga di cui
all’art. 9, comma 8-bis, L.R.V. 14/2009, e dunque a prescindere
dall’applicazione della delibera comunale in commento.
Anche questa argomentazione non coglie nel segno, fondandosi su una
interpretazione non condivisibile delle norme richiamate, come contestato
dalla ricorrente con il primo motivo del ricorso introduttivo: si pretende,
cioè, di applicare l’aumento del 40% dell’altezza dell’edificio oggetto di
ampliamento alle altezze massime di zona ricavate in base all’art. 8 DM
1444/1968.
Ciò costituisce una applicazione errata dell’articolo 9, comma 8-bis, L.R.
14/2009, che recita: “Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione
del tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con l’obiettivo
prioritario di ridurre o annullare il consumo di suolo, anche mediante la
creazione di nuovi spazi liberi, in attuazione dell’articolo 2-bis del
D.P.R. n. 380/2001 gli ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti
situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati ai sensi
della presente legge, sono consentiti anche in deroga alle disposizioni in
materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e
successive modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento dell’altezza
dell’edificio esistente”.
Come questo TAR ha già avuto modo di osservare, la norma è chiara
nell’affermare che l’altezza massima consentita in ampliamento -“anche (n.d.r.
cioè, eventualmente) in deroga” alle disposizioni in materia previste dal
D.M. 1444/1968- è pari al 40% dell’altezza dell’edificio esistente, ossia di
quello oggetto di ampliamento.
E’, altresì, chiara nell’affermare che un ampliamento in tale misura può
essere consentito “anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze
previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968”.
La norma è formulata secondo la medesima tecnica normativa utilizzata da
altre disposizioni premiali della medesima Legge, in cui è stabilita la
misura massima dell’aumento dei parametri edilizi degli edifici esistenti,
all’evidente scopo di contemperare le finalità incentivanti con quelle di
contenimento dell’edificato entro limiti predeterminati.
Si tratta di una tecnica che è propria anche della legislazione condonistica,
o di altre normative con finalità incentivanti, in cui sono fissate le
misure degli incrementi massimi, consentendo deroghe ai limiti
ordinariamente previsti per il conseguimento di finalità di altra natura.
In tutte queste ipotesi il legislatore individua un limite massimo di
aumento dei dati stereometrici, eventualmente consentendo di derogare alle
norme urbanistico-edilizie ordinariamente applicabili.
Non vi sono ragioni, pertanto, per forzare il dato letterale della
disposizione fino al punto di interpretarla come se il legislatore avesse
inteso fissare non la misura massima dell’ampliamento in altezza
dell’edificio esistente, ma la misura massima della deroga ammissibile alle
disposizioni del D.M. 1444/1968.
In conclusione, l’altezza massima degli edifici in progetto avrebbe dovuto
essere calcolata aumentando nella misura massima del 40% l’altezza
dell’edificio esistente (cfr. Tar Veneto, II Sez, 08.10.2020 nr. 1254 2020;
Tar Veneto, Sez. II, 24.11.2017, n. 944).
Devono, dunque, ritenersi fondate le censure sviluppate nel ricorso
introduttivo del giudizio e nel primo ricorso per motivi aggiunti,
relativamente all’illegittimità del permesso di costruire quanto alle
altezze autorizzate e della delibera comunale nella parte di interesse (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.02.2021 n. 187 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per quanto riguarda la più complessa questione della modalità di
calcolo dei balconi ai fini del rispetto delle distanze prescritte dall’art.
9 del DM n. 1444/1968, il Supremo Consesso s’è pronunciato espressamente, prendendo aperta
posizione sulle opposte tesi e aderendo a quella autorevolmente esposta
nella sentenza 30.12.2016, n. 5552, chiarendo che “esiste un diffuso,
recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti
ai fini delle distanze degli edifici che ammette che i detti elementi architettonici
possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto
art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò
autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè
al volume utile dell’edificio”.
La Sezione condivide le considerazioni e conclusioni dell’orientamento
giurisprudenziale sopra richiamato respingendo le censure
avverso le previsioni dello strumento urbanistico e l’applicazione delle
prescrizioni sul calcolo delle distanze dedotte con doglianze analoghe a
quelle sollevate dalla ricorrente.
Così nel precedente richiamato è stata disattesa la doglianza relativa “alla
violazione del limite minimo di 5 metri lineari previsto dall’art. 4 delle
NTA del PRG, reclamando a tal fine doversi includere nel computo i balconi
ed alcuni pilastri” osservando che: “l’art. 4 disciplina il computo
del volume fabbricabile e, nell’ambito di questo, contiene previsioni sugli
aggetti, e che i balconi sono computabili nel volume solo se costituiscono
corpo di fabbrica (cioè aggetti chiusi volti a separare l’ambiente interno
da quello esterno) e non quando invece siano aperti su tre lati, come
affermato da costante giurisprudenza, è solo a questi, contemplati dal primo comma
dell'art. 4 che la previsione delle NTA richiamata fa riferimento, al comma
successivo, per indicare la misura delle distanze (…) Al riguardo va
ricordato che, come affermato da costante giurisprudenza, ai fini del
computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi,
anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della
solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti
di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa
e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto
all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene. Infatti, ciò che rende computabili
i balconi ai fini della misurazione delle distanze tra fondi finitimi è la
loro riconducibilità al concetto di costruzione edilizia, comportando essi
un ampliamento della consistenza dell'edificio tale da doversi senz'altro
considerare nel calcolo delle distanze legali (…)".
---------------
La giurisprudenza ha ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico
dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che prescrive la distanza minima
di 10 mt lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti,
precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano
preveda ciò.
Invero, “i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla
facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento
dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di
necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a
livello incassate nel corpo dell’edificio con la conseguenza che mentre i
primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo
caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla
determinazione del volume”.
Con riferimento ad un caso, come quello in esame, in cui il regolamento
comunale prevedeva che “nella verifica delle distanze non si tiene conto
di (…) balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60”, è stato
ritenuto che tale prescrizione “costituisce norma eccezionale e di
favore, in quanto integra e deroga (con il favore della giurisprudenza, come
si è avuto modo di dimostrare, seppur entro determinati limiti) alla norma
di ordine pubblico di cui all’art. 9 del DM più volte richiamato”,
precisando che tali “deroghe/integrazioni” debbano essere interpretate in
senso restrittivo.
Anche negli anni successivi tale orientamento è stato confermato ribadendo
che “balconi e pensiline” non sono compresi nel computo delle distanze di
cui al ridetto art. 9, d.m. n. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano
che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti,
estranei cioè al volume utile dell’edificio”; per cui si tratta di mere strutture architettoniche non
computabili nella volumetria della costruzione ed irrilevante ai fini del
calcolo delle distanze legali, a differenza dei “corpi di fabbrica,
computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari
proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se
scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza”.
In conclusione, assume rilevanza decisiva il profilo della dimensione della
sporgenza, come ribadito da Consiglio di Stato sez. IV, n. 5895/2017 e n.
706/2018 (per cui nel caso di balconi aggettanti lo sporto nei limiti di
metri 1,50 è irrilevante rispetto alla distanza secondo Consiglio di Stato
sez. IV, n. 1801/2016; nello stesso senso, ugualmente per dimensioni
contenute, come nel caso in esame in metri 1,60, Consiglio di Stato sez. VI,
n. 5557/2013; mentre, nel caso contrario, in cui le dimensioni dello sporto
siano “importanti”, superando i due metri, va necessariamente calcolato,
come ribadito da ultimo, da TAR Puglia, n. 485/2019).
---------------
Con il primo motivo di ricorso si lamenta che il permesso a costruire
in variante impugnato si ponga in contrasto con i limiti di distanza
prescritti dall’art. 9 del d.m. 1444/1968 (che prevede che tra le pareti dei
fabbricati tra i nuovi edifici e le strade destinate al traffico veicolare
sia rispettata una distanza minima rispettivamente di ml 10 e ml 5),
riprodotti anche dall’art. 1 del Piano Particolareggiato (secondo la
ricorrente detto Piano, seppur decaduto perché sono trascorsi più di dieci
anni dalla sua approvazione, sarebbe tutt’ora applicabile relativamente alla
disciplina degli allineamenti ed il rispetto dei comparti), oltre che
dall’art. 17 delle NTA del PTP (per quanto concerne la distanza minima dal
ciglio stradale) nonché dall’art. 23 del regolamento edilizio (che prevede
che per calcolare il distacco dai confini la distanza va misurata nei punti
di massima sporgenza).
Ad avviso della ricorrente, il Comune non si sarebbe avveduto che il
progetto in variante riporta misure errate per quanto riguarda le distanze,
dato che non tiene conto dell’ingombro di 1,60 metri prodotto dai balconi e
dai bow windows, per cui, mentre la distanza del fabbricato dal filo
stradale di via Garigliano riportata sul progetto misura metri 5 (prendendo
come riferimento il muro del prospetto), essa risulta in realtà, ove venga
calcolata anche la sporgenza dei balconi, di soli metri 3,40.
Tale errore nel metodo del calcolo del distacco dell’edificio in
contestazione si riverbera anche sul calcolo della distanza dalla parete
dell'immobile prospiciente (cioè quello della ricorrente): anche in questo
caso, se si tiene conto dei balconi, il distacco non misura 10 metri, come
indicato nel progetto, bensì appena 8,40 metri. Inoltre, ad avviso della
ricorrente, le distanze sopraindicate risulterebbero ancora più ridotte (di
circa dieci centimetri), se si scomputasse dal relativo calcolo anche il
rivestimento perimetrale esterno (cd. cappotto termico).
In conclusione, secondo la ricorrente, l’errore di calcolo insito nel
progetto rende illegittimo il permesso a costruire, in quanto, fondandosi su
dati numerici non corrispondenti alla realtà, che non tengono conto
dell’ingombro dei balconi, contrasta con quanto prescritto dall’art. 23 del
Regolamento Edilizio Comunale che prevede che il distacco dai confini debba
essere misurato “nei punti di massima sporgenza, del piano terra e la
linea di confine”, mentre nel caso in esame, le distanze sono state
calcolate dalle pareti dell’edificio, anziché dal parapetto dei balconi.
Inoltre, secondo la ricorrente, non vale ad escludere l’illegittimità del
titolo abilitativo impugnato il fatto che l’art. 26 del Regolamento
Edilizio, nel disciplinare “Aggetti e Sporgenze”, “sembra
escludere dal computo della distanza legale tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti, le pensiline ed i balconi o altri sporti abitabili o
comunque utilizzabili”: se così fosse, la previsione del REC andrebbe
annullata in quanto contrasta con i limiti di densità edilizia, di altezza e
di distanza tra i fabbricati inderogabilmente sanciti dal D.M. n. 1444 del
02.04.1968 o comunque disapplicata (con automatica sostituzione dei limiti
prescritti dal predetto DM, che costituisce la disciplina dettata, mediante
rinvio, dalla legge n. 765/1967).
Le doglianze vengono riprese nel terzo motivo di ricorso, ove si
denuncia la violazione dell’art. 6 della legge n. 241/1990, lamentando il
difetto di istruttoria in cui sarebbe incorso il responsabile del
procedimento per non aver rilevato l’errore di misurazione e di conseguenza
la violazione dei limiti inderogabili di distanza prescritti dall’art. 9 del
d.m. 1444/1968.
I mezzi di censura sopra richiamati vanno disattesi.
Innanzitutto, in punto di fatto, ove la ricorrente lamenta la violazione dei
limiti sopraindicati affermando che la distanza -“stimata visivamente”-
sarebbe di soli 4,65 metri, va osservato che, ai fini di verificare il
rispetto delle prescrizioni sul distacco dal confine, conta esclusivamente
la distanza fisica “effettiva” della costruzione -che risulta pari a
cinque metri- e non quella stimata sulla base dell’impressione visiva dei
soggetti interessati.
Inoltre, va precisato, ancora sulla qualificazione dei fatti, che i setti
murari impropriamente descritti dalla ricorrente come “bow-windows”
(come d’altronde ammesso nella stessa memoria conclusionale a pag. 11)
costituiscono in realtà delle strutture aggettanti che non rilevano ai fini
del calcolo delle distanze in quanto sono “aperti solo lateralmente e non
anche frontalmente, risultano destinati ad ospitare le centraline termiche
e, comunque, non sono destinati all’uso abitativo”: come chiarito dal
Consiglio di Stato con l’ordinanza n. 4461/2018 pronunciata in sede di
appello cautelare -pienamente condivisa dal Collegio- devono essere esclusi
dal calcolo delle distanze e dei volumi i cd. locali tecnici.
Anche per quanto riguarda la più complessa questione della modalità di
calcolo dei balconi ai fini del rispetto delle distanze prescritte dall’art.
9 del DM n. 1444/1968, il Supremo Consesso, nel confermare il rigetto
dell’istanza cautelare, s’è pronunciato espressamente, prendendo aperta
posizione sulle opposte tesi e aderendo a quella autorevolmente esposta
nella sentenza 30.12.2016, n. 5552, chiarendo che “esiste un diffuso,
recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti
ai fini delle distanze degli edifici, dal quale in questa sede si ritiene di
non doversi discostare, che ammette che i detti elementi architettonici
possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto
art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò
autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè
al volume utile dell’edificio”.
La Sezione condivide le considerazioni e conclusioni dell’orientamento
giurisprudenziale sopra richiamato, al quale aveva già in passato aderito
con sentenza TAR Lazio II-quater 31.3.2010 n. 5319, respingendo le censure
avverso le previsioni dello strumento urbanistico e l’applicazione delle
prescrizioni sul calcolo delle distanze dedotte con doglianze analoghe a
quelle sollevate dalla ricorrente.
Così nel precedente richiamato è stata disattesa la doglianza relativa “alla
violazione del limite minimo di 5 metri lineari previsto dall’art. 4 delle
NTA del PRG, reclamando a tal fine doversi includere nel computo i balconi
ed alcuni pilastri” osservando che: “l’art. 4 disciplina il computo
del volume fabbricabile e, nell’ambito di questo, contiene previsioni sugli
aggetti, e che i balconi sono computabili nel volume solo se costituiscono
corpo di fabbrica (cioè aggetti chiusi volti a separare l’ambiente interno
da quello esterno) e non quando invece siano aperti su tre lati, come
affermato da costante giurisprudenza (cfr., di recente, Consiglio di Stato,
sez. IV, 07.07.2008, n. 3381), è solo a questi, contemplati dal primo comma
dell'art. 4 che la previsione delle NTA richiamata fa riferimento, al comma
successivo, per indicare la misura delle distanze (…) Al riguardo va
ricordato che, come affermato da costante giurisprudenza, ai fini del
computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi,
anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della
solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti
di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa
e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto
all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene. Infatti, ciò che rende computabili
i balconi ai fini della misurazione delle distanze tra fondi finitimi è la
loro riconducibilità al concetto di costruzione edilizia, comportando essi
un ampliamento della consistenza dell'edificio tale da doversi senz'altro
considerare nel calcolo delle distanze legali (…)".
Infine, per quanto attiene al rispetto delle prescrizioni urbanistiche sulle
distanze minime dei fabbricati, i ricorrenti sostengono che il limite minimo
di 10 metri lineari sarebbe applicabile indipendentemente dalle presenza di
pareti finestrate, denunciando che il fabbricato da realizzare risulterebbe
superare tale limite (…) in quanto la planimetria allegata al progetto non
prende in considerazione i terrazzi, che come, corpi aggettanti vanno
computati ai fini delle distanze. Anche tale censura va disattesa in quanto
la giurisprudenza ha ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico
dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che prescrive la distanza minima
di 10 mt lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti,
precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel
computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano
preveda ciò (TAR Liguria, sez. I, n. 1736/2009).
In tal modo la Sezione si era adeguata all’orientamento sancito dalla
sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381, la quale
aveva precisato che “i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla
facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento
dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di
necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a
livello incassate nel corpo dell’edificio con la conseguenza che mentre i
primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo
caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla
determinazione del volume” (Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n.
3381).
Con riferimento ad un caso, come quello in esame, in cui il regolamento
comunale prevedeva che “nella verifica delle distanze non si tiene conto
di (…) balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60”, è stato
ritenuto che tale prescrizione “costituisce norma eccezionale e di
favore, in quanto integra e deroga (con il favore della giurisprudenza, come
si è avuto modo di dimostrare, seppur entro determinati limiti) alla norma
di ordine pubblico di cui all’art. 9 del DM più volte richiamato”,
precisando che tali “deroghe/integrazioni” debbano essere
interpretate in senso restrittivo (Consiglio di Stato sez. VI, n. 5557/2013
con espresso richiamo a Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381).
Anche negli anni successivi tale orientamento è stato confermato ribadendo
che “balconi e pensiline” non sono compresi nel computo delle distanze di
cui al ridetto art. 9, d.m. n. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano
che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti,
estranei cioè al volume utile dell’edificio” (Consiglio di Stato, sez. IV,
n. 5552/2016); per cui si tratta di mere strutture architettoniche non
computabili nella volumetria della costruzione ed irrilevante ai fini del
calcolo delle distanze legali, a differenza dei “corpi di fabbrica,
computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari
proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se
scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza” (Consiglio di Stato sez.
VI, 10/09/2018, n. 5307 e Consiglio di Stato sez. V, 13/03/2014, n. 1272).
In conclusione, assume rilevanza decisiva il profilo della dimensione della
sporgenza, come ribadito da Consiglio di Stato sez. IV, n. 5895/2017 e n.
706/2018 (per cui nel caso di balconi aggettanti lo sporto nei limiti di
metri 1,50 è irrilevante rispetto alla distanza secondo Consiglio di Stato
sez. IV, n. 1801/2016; nello stesso senso, ugualmente per dimensioni
contenute, come nel caso in esame in metri 1,60, Consiglio di Stato sez. VI,
n. 5557/2013; mentre, nel caso contrario, in cui le dimensioni dello sporto
siano “importanti”, superando i due metri, va necessariamente calcolato,
come ribadito da ultimo, da TAR Puglia, n. 485/2019).
Nel caso in esame, pertanto, trovano applicazione i principi sopra
richiamati per cui i balconi in contestazione non sono computabili, al fine
della determinazione del rispetto delle distanze in questione, date le
caratteristiche costruttive (struttura aggettante: i balconi aperti in
questione) e le limitate dimensioni (metri 1,60, al netto del parapetto, per
un totale di circa 1,75 come indicato nel progetto e come effettivamente
costruito, stante l’esito della verifica effettuata in contraddittorio con
le parti nel corso del nuovo sopralluogo in data 03.07.2018, effettuato per
approfondire le prime sommarie rilevazioni dell’08.06.2008); le circostanze
rilevate dalla PA nel corso del sopralluogo in contradditorio sono
confermate dalla relazione del 09.11.2018 del CTU –all’esito del
sopralluogo in data 02.08.2018– incaricato nell’ambito del giudizio civile
davanti al Tribunale di Velletri, che ha confermato la misurazione della
larghezza dei balconi sopraindicati ed ha altresì attestato la conformità al
progetto di quanto costruito, nonché il rispetto della disciplina in tema di
distanze.
Pertanto non è in discussione il dato oggettivo della dimensione dei balconi
(sporgenti per metri 1,60 al netto dei parapetti oppure 1,75 inclusi i
parapetti, con conseguente riduzione della distanza dalla facciata rispetto
al limite minimo di 10 metri prescritto dal DM 1444/1968), bensì se tale
misura “intermedia” tra quella che per pacifica giurisprudenza consente di
ritenere il balcone un mero elemento architettonico (cioè 150-160
centimetri) oppure di configurare un vero e proprio autonomo corpo di
fabbrica (2 metri).
Nella mancanza di parametri di riferimento occorre tener conto della
disciplina edilizia locale e della costante prassi applicativa del Comune:
questa era nel senso di escludere i balconi di tali dimensioni dal calcolo
delle distanze degli edifici, come attestato dal Responsabile del Servizio
Urbanistica in data 09.08.2018 (detti balconi sono posti ad una distanza
superiore a ml. 3.00, nel rispetto dell'art. 26 del Regolamento Edilizio
Comunale; il fabbricato è conforme al progetto approvato; rispetta il punto
14.15 dell'art. 23 del predetto regolamento; anche con riferimento alla
distanza tra pareti finestrate l’opera eseguita risulta “non inferiore a
metri 10.00, nel rispetto dei limiti di distanza stabiliti dall’art. 9,
comma 2, del D.M. n. 1444/1968”; soprattutto lo stesso responsabile
dell’Ufficio predetto precisa che “per tutte le pratiche edilizie presentate
nel corso degli anni, per fabbricati simili e nella stessa zona F1 di P.R.G.
nella determinazione della distanza di ml. 10.00 tra pareti finestrate, non
sono mai stati considerati i balconi”); come confermato anche dal CTU che ha
escluso che il permesso di costruire in contestazione sia stato rilasciato
con violazione delle prescrizioni in materia di distanze legali.
In conclusione, l’orientamento giurisprudenziale, la prassi applicativa del
Comune, la legislazione sopra richiamate, inducono il Collegio ad escludere
l’illegittimità del permesso di costruire in esame, relativo ad un edificio
che, peraltro, è stato già da tempo realizzato secondo il progetto
contestato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 11.09.2019 n. 10843 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Tribunale ritiene che nel calcolo delle distanze tra fabbricati non possano
non prendersi in considerazione le sporgenze. Queste ultime nel caso di
specie, tenuto conto della loro apprezzabile consistenza (balconi della
larghezza di 2 mt), possono
considerarsi come ampliamento dell'edificio in superficie e volume.
Ai fini del computo delle distanze assumono, invero, rilievo tutti gli
elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi
i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità
trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
Per cui, l’art. 9 delle NTA, laddove disciplina la distanza minima dal
confine deve essere letta nel senso più conforme alla nozione di costruzione
stabilita dalla legge statale (ex art. 873 cc e dm 1444/1968), che impone di
tenere conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, qualora
queste presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di
opera edilizia.
---------------
Il Collegio ritiene che, anche in sede di computo minimo
delle distanze tra fabbricati, l’esclusione degli aggetti e dei balconi
aperti vada riferito esclusivamente a quelli di modeste dimensioni o con
funzione decorativa, pena la violazione della disciplina statale di
riferimento come costantemente interpretata dal giudice amministrativo ed
ordinario.
Difatti, le disposizioni del D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma
2, sulla distanza tra i fabbricati sono inderogabili e prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali,
evidentemente, si sostituiscono per inserzione automatica, con immediata
operatività nei rapporti tra privati in virtù della natura integrativa del
regolamento comunale rispetto all’art. 873 cc.
Del resto, la stessa giurisprudenza
limita, in presenza di una norma autorizzativa di piano, il mancato computo
dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze, alla condizione che si
tratti di strutture architettoniche (sporti e balconi) estranee al volume
utile dell’edificio,
situazione, evidentemente, del tutto diversa dal caso in esame.
Al riguardo, il Collegio ritiene “che rientrino nella categoria degli
sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con
funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le
mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili,
mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra
costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi,
costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile
profondità ed ampiezza”.
E ciò anche nella considerazione che i balconi, laddove privi di
carattere ornamentale, non possono in ogni caso integrare “volume tecnico”,
che, in quanto non computabile nella volumetria della costruzione sarebbe
irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali.
---------------
Sotto altro aspetto, non trova integrale applicazione il principio della c.d.
prevenzione temporale (art. 873 cc), secondo cui il proprietario che
costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle
altre costruzioni sui fondi vicini.
Il principio della prevenzione, infatti, non è applicabile quando l'obbligo
di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato, come nel caso
in esame, da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, con
lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari confinanti l’obbligo di
salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, avuto riguardo al
carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi
preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di
interessi generali.
Del resto, l’asserita operatività del principio della prevenzione
renderebbe del tutto pleonastica la previsione della deroga concordata della
distanza minima dal confine, che invece l’atto regolamentare ha previsto
come unica alternativa alla distanza “legale” (art. 9 NTA), e con finalità
del tutto diverse dalla prevenzione essendo diretto l’accordo ad assicurare
tra i confinanti “il rispetto della distanza totale prescritta tra i
fabbricati”.
---------------
10.- Nel merito, il ricorso è fondato.
11.- L’art. 9 delle NTA del Piano Particolareggiato del Comune di Gravina di
Puglia, invero, prescrive che “l’edificazione, quando non avvenga in
aderenza, deve rispettare una distanza minima dal confine di 5 metri. E’
consentita la costruzione di un fabbricato a meno di 5 metri dal confine
solo nel caso in cui tra i confinanti si stabilisca un accordo che assicuri
il rispetto della distanza totale prescritta tra i fabbricati”.
12.- La norma in questione, quindi, nel caso in cui non si ritenga di
costruire in aderenza, consente la deroga convenzionale della distanza
minima di 5 metri dal confine.
13.- Ciò posto, e in mancanza dell’accordo tra confinanti previsto dall’art.
9 delle NTA di Piano, il Collegio ritiene sussistere la contestata
violazione delle distanze prescritte dalle citate NTA.
14.- La controinteressata, infatti, si è limitata a rappresentare al Comune
di aver “notiziato” i proprietari limitrofi della richiesta di permesso di
costruire con lettera raccomandata, dal cui contenuto, tuttavia, non emerge
affatto –come sarebbe stato necessario- una specifica richiesta ai
confinanti di consenso alla deroga circa il regime delle distanze.
E ciò nonostante l’accordo richiesto dall’art. 9 citato abbia un oggetto ben
preciso dovendo le parti stabilire consensualmente le modalità che
consentano di rispettare la distanza totale (di dieci metri) prescritta tra
i fabbricati.
15.- Che sia mancato il consenso “tacito” dei ricorrenti è assunto,
peraltro, che trova conferma nella circostanza di fatto che i ricorrenti,
solo a seguito dell’esame del progetto da parte del tecnico di fiducia, sono
stati posti nelle condizioni di prestare un consenso o un dissenso informato
in ordine alla nuova costruzione in deroga alle distanze fissate nel Piano.
Tale dissenso, pertanto, è stato correttamente esercitato prima con le note
del 06.11.2018, indirizzate al Comune di Gravina di Puglia e, poi, con la
proposizione dell’odierno ricorso.
16.- Tanto premesso, il Collegio rileva che il progetto assentito
effettivamente prevede la costruzione del fabbricato a distanza di m. 3,00
dal confine con la porzione di terreno di proprietà degli odierni
ricorrenti, inferiore, quindi, alla distanza di 5 metri prescritta,
dall’art. 9 delle NTA, per gli edifici dal confine qualora l’edificazione
non sia in aderenza.
La perizia depositata dagli istanti in giudizio, sul punto non smentita
dalla controinteressata, dà infatti atto che sul confine nord con la
proprietà degli odierni ricorrenti “dal corpo di fabbrica della Ir.Im. srl sono stati previsti degli aggetti sporgenti aventi una
larghezza di mt. 2,00, tal da ridurre la distanza dal confine a metri 3”.
17.- Tale circostanza, peraltro, è stata confermata dalla stessa
amministrazione civica che, all’atto del sopralluogo del 11.01.2018, ha
accertato la demolizione del balcone (peraltro oggetto di apposita Scia),
comunicato dalla controinteressata con nota del 13.12.2018.
18.- Al riguardo, il Tribunale ritiene che nel calcolo delle distanze non
possano non prendersi in considerazione le sporgenze. Queste ultime, tenuto
conto della loro apprezzabile consistenza (larghezza di 2 mt) possono
considerarsi come ampliamento dell'edificio in superficie e volume.
19.- Ai fini del computo delle distanze assumono, invero, rilievo tutti gli
elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi
i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità
trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
20.- Per cui, l’art. 9 delle NTA, laddove disciplina la distanza minima dal
confine deve essere letta nel senso più conforme alla nozione di costruzione
stabilita dalla legge statale (ex art. 873 cc e dm 1444/1968), che impone di
tenere conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, qualora
queste presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di
opera edilizia (Cfr., Cassazione civile sez. II, 29/01/2018, n. 2093).
21.- In realtà, l'art. 9 delle NTA del Piano particolareggiato del Comune di
Gravina non introduce un criterio di calcolo delle distanze diverso da
quello prescritto dalla legislazione statale, posto che quando impone i
limiti di distacco dal confine, si riferisce -non escludendoli
espressamente- anche ai balconi che fanno parte di tali costruzioni.
22.- Né ad una diversa conclusione può pervenirsi applicando –come
suggerisce la difesa della controinteressata- le modalità di computo delle
distanze minime tra i fabbricati, indicate dall’art. 9 delle NTA come “la
lunghezza del segmento intercorrente tra le fronti di edifici antistanti,
effettuata perpendicolarmente alle pareti e sul piano orizzontale,
escludendo gli aggetti ed i balconi totalmente aperti”.
23.- Il Collegio, infatti, ritiene che, anche in sede di computo minimo
delle distanze tra fabbricati, l’esclusione degli aggetti e dei balconi
aperti vada riferito esclusivamente a quelli di modeste dimensioni o con
funzione decorativa, pena la violazione della disciplina statale di
riferimento come costantemente interpretata dal giudice amministrativo ed
ordinario.
24.- Difatti, le disposizioni del D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma
2, sulla distanza tra i fabbricati sono inderogabili e prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali,
evidentemente, si sostituiscono per inserzione automatica, con immediata
operatività nei rapporti tra privati in virtù della natura integrativa del
regolamento comunale rispetto all’art. 873 cc (cfr. Cass. sez. un. 07.07.2011,
n. 14953; Cass. 26.07.2016, n. 15458).
25.- Del resto, la stessa giurisprudenza citata dalla controinteressata,
limita, in presenza di una norma autorizzativa di piano, il mancato computo
dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze, alla condizione che si
tratti di strutture architettoniche (sporti e balconi) estranee al volume
utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2016, 5552),
situazione, evidentemente, del tutto diversa dal caso in esame.
26.- Al riguardo, il Collegio ritiene “che rientrino nella categoria degli
sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con
funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le
mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili,
mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra
costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi,
costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile
profondità ed ampiezza” (TAR Genova, sez. I, 21/11/2013, n. 1406).
27.- E ciò anche nella considerazione che i balconi, laddove privi di
carattere ornamentale, non possono in ogni caso integrare “volume tecnico”,
che, in quanto non computabile nella volumetria della costruzione sarebbe
irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali (Consiglio di Stato
sez. VI, 10/09/2018, n. 5307 Consiglio di Stato sez. V, 13/03/2014, n. 1272).
28- Sotto altro aspetto, contrariamente a quanto ritenuto dalla società
controinteressata, non trova integrale applicazione il principio della c.d.
prevenzione temporale (art. 873 cc), secondo cui il proprietario che
costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle
altre costruzioni sui fondi vicini.
29.- Il principio della prevenzione, infatti, non è applicabile quando
l'obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato, come
nel caso in esame, da regolamenti comunali in tema di edilizia e di
urbanistica, con lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari
confinanti l’obbligo di salvaguardare una zona di distacco tra le
costruzioni, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali
fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati
diritti soggettivi, di interessi generali. (Cassazione civile sez. II,
21/02/2019, n. 5146).
30.- Del resto, l’asserita operatività del principio della prevenzione
renderebbe del tutto pleonastica la previsione della deroga concordata della
distanza minima dal confine, che invece l’atto regolamentare ha previsto
come unica alternativa alla distanza “legale” (art. 9 NTA), e con finalità
del tutto diverse dalla prevenzione essendo diretto l’accordo ad assicurare
tra i confinanti “il rispetto della distanza totale prescritta tra i
fabbricati”.
31.- Pertanto, e, in assenza di una costruzione in aderenza, la
controinteressata era tenuta al rispetto della distanza minima di 5 mt dal
confine prevista dalle disposizioni delle NTA del Piano particolareggiato,
al riguardo imprescindibilmente vincolanti, in mancanza di diverso accordo
tra le parti.
32.- Alla luce delle considerazioni che precedono, ed assorbite le restanti
censure, il ricorso deve essere accolto (TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 02.04.2019 n. 485 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sono
da ritenersi illegittime le disposizioni di natura regolamentare adottate da
un comune volte a esonerare i balconi, anche se di apprezzabile profondità,
dal calcolo della distanza tra edifici.
Secondo la prevalente giurisprudenza “rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di
gronda e simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai
predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni,
come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza”.
È superfluo rilevare che il D.M. n. 1444/1968, emanato su delega della L.
17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto
dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, e,
attenendo alla materia dell’ordinamento civile, riservata alla competenza
del legislatore nazionale, le sue disposizioni sui limiti inderogabili di
distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali, poiché afferiscono a interessi pubblici di natura
igienico-sanitaria, sottratti a qualsiasi valutazione o apprezzamento
discrezionale e alla disponibilità dei privati interessati.
Le disposizioni dei regolamenti locali in contrasto con la suddetta
disciplina statale non possono essere applicate e, per giurisprudenza
costante, sono da essa sostituite per inserzione automatica.
Sulla scorta di quanto appena osservato sono dunque da ritenersi illegittime
le disposizioni di natura regolamentare adottate da un comune volte a
esonerare i balconi, anche se di apprezzabile profondità, dal calcolo della
distanza tra edifici.
È perciò da concludersi per l’illegittimità, e dunque per la disapplicazione,
della regola data dal combinato disposto delle lettere b) e g) dell’art. 1
delle norme d’attuazione al p.u.c. di Bolzano, laddove, escludendoli dalla
superficie coperta, esonera i balconi fino alla considerevole larghezza di
1,80 m dal computo della distanza tra edifici.
Detta regola è da intendersi sostituita dalla disposizione distanziale
dettata dal D.M. n. 1444/1968, nell’applicazione che ne ha fatto la
richiamata giurisprudenza, in particolare per quanto di rilievo, con
riguardo alla nozione di costruzione, la quale, secondo l’orientamento
prevalente, ricomprende anche i balconi, che dunque devono essere
considerati ai fini del computo della distanza.
---------------
Le disposizioni dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 sono
inderogabili e cogenti unicamente in ordine al limite minimo di distanza tra
edifici e sostituiscono le previsioni degli strumenti urbanistici locali
solo se queste siano meno restrittive.
Ove, però, il piano urbanistico comunale prescriva una distanza fra edifici
maggiore di quella minima di metri 10 prevista dal D.M. citato, trova
senz’altro applicazione la disposizione comunale. Se, infatti, la finalità
dell'art. 9 del D.M. è da ravvisarsi nell'intento di evitare la formazione
tra edifici frontistanti di intercapedini nocive, con la prescrizione di una
distanza "minima" inderogabile, non è impedito ai Comuni di adottare, nella
formazione dei piani urbanistici e dei regolamenti edilizi locali, in forza
dell'autonomia loro riconosciuta dall'art. 128 Cost., regole che, con la
medesima efficacia delle fonti primarie del diritto, siano più rigorose,
sulla base di valutazioni discrezionali degli interessi pubblici da
tutelare.
Non v’è dubbio, infatti, che le disposizioni sulle distanze, oltre che
rispondere all’esigenza di tutelare aspetti igienico-sanitari connessi
all’edilizia, perseguono contemporaneamente chiare finalità urbanistiche, la
cui individuazione compete all’ente locale nell’ambito dei poteri
attribuitigli in materia di governo del territorio.
Sono pertanto da ritenersi legittime le disposizioni attuative del piano
urbanistico comunale che, nello stabilire i distacchi tra fabbricati,
prevedano distanze maggiori di quanto indicato dall’art. 9 del D.M. n.
1444/1968, o prescindano dal carattere finestrato delle pareti, oppure
ancora optino per un metodo di calcolo radiale, che disegni gli intervalli
tra pieni e vuoti in modo più rigoroso rispetto a quanto stabilito dal D.M.
1444/1968, perseguendo, oltre alle finalità igienico–sanitarie proprie di quest’ultimo, anche un disegno urbanistico ritenuto maggiormente rispondente
all’armonico sviluppo edilizio del territorio governato.
---------------
In giurisprudenza si è chiarito che la nozione
di costruzione, non può che essere unitaria in rapporto al parametro
distanziale; essa non è quindi suscettibile di essere differentemente
modulata a seconda del metodo di computo impiegato, con la conseguenza che
se i balconi, in quanto elementi costruttivi che estendono in superficie il
corpo di fabbrica, debbono necessariamente essere computati nel sistema
lineare sotteso alla disposizione statale, lo devono essere anche in quello
radiale prescritto dalla regola locale.
Sul punto valga richiamare un
significativo precedente della Cassazione civile che ha affermato il seguente principio di diritto: “La
nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può
subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali,
da parte delle norme secondarie, in quanto il rinvio contenuto nella seconda
parte del suddetto articolo ai regolamenti locali è circoscritto alla sola
facoltà di stabilire una distanza maggiore.”.
---------------
12. Il provvedimento di diniego della concessione edilizia oggetto
di gravame è sostenuto, come s’è visto in precedenza, su due cardini
motivazionali, seppure sinteticamente indicati, ossia sull’affermata
violazione del D.M. n. 1444/1968, per quanto attiene alla distanza tra
l’ampliamento dei balconi e il fabbricato prospiciente, e sull’affermata
realizzazione del prolungamento dei predetti aggetti in violazione della
distanza rispetto al confine.
13. Afferma la ricorrente, riguardo al primo dei profili di criticità
rilevati dal Comune, che sussisterebbero tutti i presupposti per
l’approvazione del progetto presentato per la sanatoria del prolungamento
degli aggetti, poiché rispetto all’edificio sul lotto finitimo sarebbe
osservata sia la distanza prescritta dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, sia
quella prevista dalle norme d’attuazione al p.u.c..
La prima, infatti, sarebbe da misurare con il metodo lineare, la seconda, da
misurare, invece, secondo il più rigoroso metodo radiale, escluderebbe
tuttavia dal calcolo, per espressa previsione regolamentare, gli aggetti
fino a 1,80 m di larghezza.
Applicando le predette disposizioni sulle distanze secondo il rispondente
metodo di calcolo appena descritto, il distacco tra l’ampliamento dei
balconi e l’edificio prospiciente sarebbe rispettato.
Avrebbe perciò errato il Comune nell’applicare il metodo radiale previsto
dalla norma d’attuazione al p.u.c., senza tenere conto dell’esclusione dei
balconi fino a 1,80 m di larghezza pure espressamente contemplata dalla
norma regolamentare.
14. La tesi non convince il Collegio.
In tema di distanze tra costruzioni viene in rilievo innanzi tutto l’art. 9
del D.M. n. 1444/1968.
La disposizione, nello stabilire in 10 m il distacco tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti, allude, come puntualmente rileva la
ricorrente, al metodo di calcolo lineare.
Va ricordato, per quanto di rilievo ai fini della decisione, che secondo la
prevalente giurisprudenza “rientrano nella categoria degli sporti, non
computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione
meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le
lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), costituiscono,
invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli
edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da
solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza
(Cass. 31/05/2006, n. 12964; Cass. 22/07/2010, n. 17242; Cass. 19/09/2016,
n. 18282)” (così ancora di recente Cassazione civile, sez. I, 10.08.2017, n.
19932.
È superfluo rilevare che il D.M. n. 1444/1968, emanato su delega della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto
dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato,
e, attenendo alla materia dell’ordinamento civile, riservata alla competenza
del legislatore nazionale, le sue disposizioni sui limiti inderogabili di
distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali, poiché afferiscono a interessi pubblici di natura
igienico-sanitaria, sottratti a qualsiasi valutazione o apprezzamento
discrezionale e alla disponibilità dei privati interessati (cfr., tra le
tante, C.d.S. n. 2650/2014; C.d.S., n. 4451/2013 e n. 844/2013).
Le disposizioni dei regolamenti locali in contrasto con la suddetta
disciplina statale non possono essere applicate e, per giurisprudenza
costante, sono da essa sostituite per inserzione automatica (Cass. S.U., n.
14953/2011; Cass. S.U. n. 5889/1997).
Sulla scorta di quanto appena osservato sono dunque da ritenersi illegittime
le disposizioni di natura regolamentare adottate da un comune volte a
esonerare i balconi, anche se di apprezzabile profondità, dal calcolo della
distanza tra edifici.
È perciò da concludersi per l’illegittimità, e dunque per la disapplicazione,
della regola data dal combinato disposto delle lettere b) e g) dell’art. 1
delle norme d’attuazione al p.u.c. di Bolzano, laddove, escludendoli dalla
superficie coperta, esonera i balconi fino alla considerevole larghezza di
1,80 m dal computo della distanza tra edifici (cfr. TRGA Bolzano n.
280/2016).
Detta regola è da intendersi sostituita dalla disposizione distanziale
dettata dal D.M. n. 1444/1968, nell’applicazione che ne ha fatto la
richiamata giurisprudenza, in particolare per quanto di rilievo, con
riguardo alla nozione di costruzione, la quale, secondo l’orientamento
prevalente, ricomprende anche i balconi, che dunque devono essere
considerati ai fini del computo della distanza (cfr. Cass. Civ., n.
5594/2016 e n. 2094/2014).
14. Le disposizioni del citato art. 9 del D.M. n. 1444/1968, tuttavia, sono
inderogabili e cogenti unicamente in ordine al limite minimo di distanza tra
edifici e sostituiscono le previsioni degli strumenti urbanistici locali
solo se queste siano meno restrittive.
Ove, però, il piano urbanistico comunale prescriva una distanza fra edifici
maggiore di quella minima di metri 10 prevista dal D.M. citato, trova
senz’altro applicazione la disposizione comunale. Se, infatti, la finalità
dell'art. 9 del D.M. è da ravvisarsi nell'intento di evitare la formazione
tra edifici frontistanti di intercapedini nocive, con la prescrizione di una
distanza "minima" inderogabile, non è impedito ai Comuni di adottare, nella
formazione dei piani urbanistici e dei regolamenti edilizi locali, in forza
dell'autonomia loro riconosciuta dall'art. 128 Cost., regole che, con la
medesima efficacia delle fonti primarie del diritto, siano più rigorose,
sulla base di valutazioni discrezionali degli interessi pubblici da tutelare
(cfr. in tal senso Cass. Civ., n. 4076/2012).
Non v’è dubbio, infatti, che le disposizioni sulle distanze, oltre che
rispondere all’esigenza di tutelare aspetti igienico-sanitari connessi
all’edilizia, perseguono contemporaneamente chiare finalità urbanistiche, la
cui individuazione compete all’ente locale nell’ambito dei poteri
attribuitigli in materia di governo del territorio.
Sono pertanto da ritenersi legittime le disposizioni attuative del piano
urbanistico comunale che, nello stabilire i distacchi tra fabbricati,
prevedano distanze maggiori di quanto indicato dall’art. 9 del D.M. n.
1444/1968, o prescindano dal carattere finestrato delle pareti, oppure
ancora optino per un metodo di calcolo radiale, che disegni gli intervalli
tra pieni e vuoti in modo più rigoroso rispetto a quanto stabilito dal D.M.
1444/1968, perseguendo, oltre alle finalità igienico–sanitarie proprie di quest’ultimo, anche un disegno urbanistico ritenuto maggiormente rispondente
all’armonico sviluppo edilizio del territorio governato.
Non può perciò trarsi in dubbio la legittimità dell’art. 1, lett. g), delle
norme d‘attuazione al p.u.c. di Bolzano che ha introdotto il più rigoroso
metodo radiale per la misurazione della distanza tra fabbricati, in
sostituzione, come correttamente rileva la difesa comunale, al metodo
lineare sotteso all’art. 9 del richiamato decreto ministeriale.
15. Il Comune di Bolzano, in definitiva, nel negare alla ricorrente la
concessione edilizia in sanatoria per l’ampliamento abusivo degli aggetti
sul lato sud dell’edificio, ha fatto corretta applicazione delle
disposizioni statali e locali in materia di distacchi tra fabbricati,
applicandole secondo i principi affermati dalla prevalente giurisprudenza,
innanzi ricordati. Ha, in particolare, legittimamente adottato il metodo
radiale di misura della distanza, contemplato dalla disposizione
regolamentare locale più rigorosa di quella statale, e ha correttamente
fissato il punto di misurazione del distacco tenuto conto anche delle
sporgenze di non trascurabili dimensioni, quali i balconi in discussione,
dovendoli considerare, alla luce della prevalente giurisprudenza parte della
costruzione (per un precedente di questo Tribunale si veda la sentenza n.
73/2018).
Né può condividersi la tesi della ricorrente che differenzia la nozione di
costruzione a seconda che venga in rilievo la distanza lineare oppure quella
radiale, considerando nel primo caso il balcone come parte della costruzione
di cui tenere conto nel computo del distacco, nel secondo caso, invece, come
elemento escluso.
In giurisprudenza si è, infatti, chiarito che la nozione
di costruzione, non può che essere unitaria in rapporto al parametro
distanziale; essa non è quindi suscettibile di essere differentemente
modulata a seconda del metodo di computo impiegato, con la conseguenza che
se i balconi, in quanto elementi costruttivi che estendono in superficie il
corpo di fabbrica, debbono necessariamente essere computati nel sistema
lineare sotteso alla disposizione statale, lo devono essere anche in quello
radiale prescritto dalla regola locale. Sul punto valga richiamare un
significativo precedente della Cassazione civile, Sez. II, che nella
pronuncia n. 5163/2015 ha affermato il seguente principio di diritto: “La
nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può
subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali,
da parte delle norme secondarie, in quanto il rinvio contenuto nella seconda
parte del suddetto articolo ai regolamenti locali è circoscritto alla sola
facoltà di stabilire una distanza maggiore.” Si veda anche TRGA Bolzano,
n. 280/2016
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 02.05.2018 n. 145 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine computabili
le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente
ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la
mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel
concetto civilistico di "costruzione" le parti dell'edificio, quali scale,
terrazze e corpi avanzati (cosiddetti "aggettanti"), che, seppure non
corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed
ampliare la consistenza del fabbricato.
Sicché, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di
"costruzione", che è stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non
può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze,
dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte
dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per i regolamenti
locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine)
rispetto a quella codicistica.
Invero, questa Corte ha qualificato come costruzione la realizzazione, in
aggiunta al preesistente edificio, di un corpo di fabbrica sporgente
costituito da una soletta in cemento armato della larghezza di mt. 1,60,
contornata da parapetto alto mt. 1,50 edificato con colonnine prefabbricate
in cemento armato.
Ed ancora, l'art. 9, 3° co., del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato
emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150
(cosiddetta "legge urbanistica"), aggiunto dall'art. 17 della legge
06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza
tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti
locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (...
in tema di distanze tra fabbricati, nel regolamento locale che non preveda
distanza alcuna o che preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte
per zone territoriali omogenee dall'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, questa
inderogabile disciplina si inserisce automaticamente, con immediata
operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del
regolamento rispetto all'art. 873 cod. civ.).
D'altronde, a tal ultimi riguardi la giurisprudenza amministrativa ha
puntualizzato che in linea generale non è legittima l'adozione, negli
strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del d.m. n.
1444/1968 (in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e
di distanza tra i fabbricati), nel senso che lo stesso, essendo stato
emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942, ha
efficacia di legge.
---------------
I medesimi motivi sono fondati e meritevoli di accoglimento.
Evidentemente questa Corte non può che reiterare i propri insegnamenti.
Ovvero in primo luogo l'insegnamento per cui, in tema di distanze legali fra
edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del
fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria di limitata entità, come la mensole, le lesene, i cornicioni, le
grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di "costruzione"
le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (cosiddetti "aggettanti"),
che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad
estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
E per cui, ulteriormente, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la
nozione di "costruzione", che è stabilita dalla legge statale, deve
essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del
computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio
contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola
facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra
edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica (cfr. Cass. 26.01.2005,
n. 1556; nella specie, questa Corte, nel confermare la sentenza impugnata,
ha qualificato come costruzione la realizzazione, in aggiunta al
preesistente edificio, di un corpo di fabbrica sporgente costituito da una
soletta in cemento armato della larghezza di mt. 1,60, contornata da
parapetto alto mt. 1,50 edificato con colonnine prefabbricate in cemento
armato; Cass. 19.09.2016, n. 18282; Cass. 22.07.2010, n. 17242).
Ovvero in secondo luogo l'insegnamento secondo cui l'art. 9, 3° co., del
d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art.
41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (cosiddetta "legge
urbanistica"), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha
efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti
inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono
sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si
sostituiscono per inserzione automatica (cfr. Cass. sez. un. 07.07.2011, n.
14953; Cass. 26.07.2016, n. 15458, secondo cui, in tema di distanze tra
fabbricati, nel regolamento locale che non preveda distanza alcuna o che
preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte per zone territoriali
omogenee dall'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, questa inderogabile disciplina
si inserisce automaticamente, con immediata operatività nei rapporti tra
privati, in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art.
873 cod. civ.).
D'altronde, a tal ultimi riguardi la giurisprudenza amministrativa ha
puntualizzato che in linea generale non è legittima l'adozione, negli
strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del d.m. n.
1444/1968 (in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e
di distanza tra i fabbricati), nel senso che lo stesso, essendo stato
emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942, ha
efficacia di legge (cfr. Consiglio di Stato 21.10.2013, n. 5108).
Negli esposti termini, giacché è da escludere che i balconi dell'edificio "Romano"
abbiano funzione meramente ornamentale in dipendenza delle dimensioni che li
caratterizzano -"è risultato dall'istruttoria svolta che detti elementi
costruttivi nel caso di specie non hanno solo una funzione ornamentale ma
sono funzionali all'edificio" (così sentenza non definitiva n. 204/2010,
pag. 16; in proposito cfr. altresì ricorso incidentale Perrella nel
procedimento iscritto al n. 18329 - 2014 R.G., pag. 68)- non possono essere
condivise e vanno conseguentemente censurate, siccome contrastanti con la
nozione "unitaria" e "statuale" di "costruzione" e con
il principio dell'inderogabilità in peius della disciplina di cui
all'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, l'affermazione della corte di merito, di
cui alla sentenza non definitiva n. 204/2010 e sulla cui scorta è stata
reputata infondata l'eccezione del Perrella, a tenor della quale il
regolamento locale può dettare tout court una diversa disciplina ("l'interpretazione
data dal Perrella alla norma suddetta (...) è corretta (...), ma solo se il
piano regolatore locale non detti una diversa disciplina"; così sentenza
non definitiva n. 204/2010, pag. 19) nonché le affermazioni, del pari della
corte di merito, di cui alla sentenza definitiva n. 134/2013, a tenor delle
quali "va applicata invece la nuova normativa che (...) esclude i balconi"
(così sentenza d'appello definitiva, pag. 35) ed "i balconi saranno
intangibili solo fino a mt. lineari 1,40, da misurarsi, ovviamente, partendo
dalla linea di attacco balcone-facciata" (così sentenza d'appello
definitiva, pag. 35) (cfr. specificamente Cass. 27.06.2007, n. 17089,
secondo cui, in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, con
riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone,
estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di
fabbrica, e poiché l'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, stabilisce
distanze inderogabili, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di
misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione
del balcone, è "con tra legem", in quanto, sottraendo dal calcolo
della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza
tra fabbricati inferiore al distacco voluto dalla cosiddetta "legge ponte")
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
29.01.2018 n. 2093).
---------------
Al riguardo si legga anche:
● M. Grisanti,
Sono assolutamente vietate le intercapedini tra fabbricati minori
dell’altezza dell’edificio più alto - Nota a Cassazione, Sez. II civile, n.
2093 depositata il 29.01.2018 (link a https://lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Si è già affermato che i balconi non appaiono riconducibili per
dimensioni e caratteristiche costruttive a meri elementi ornamentali privi
di rilevanza ai fini del calcolo delle distanze, sicché la mera differenza
di tecnica costruttiva ravvisabile tra la parete in muratura ed un balcone
aperto, non consente di aderire ad una diversa ricostruzione della portata
applicativa della norma, dovendo quindi reputarsi che anche la presenza di
un balcone imponga di ravvisare una situazione di parete finestrata.
Inoltre se la finalità delle norme in tema di distanze tra
costruzioni è quella di evitare la creazione di intercapedini
dannose, e di riflesso di assicurare un ordinato e razionale
sviluppo dell'attività edilizia al fine della salvaguardia della
salubrità e dell'armonico sviluppo dell'attività edificatoria,
l'escludere la rilevanza di un balcone ai fini del computo delle
distanze vanificherebbe in maniera evidente lo scopo cui mira
il legislatore.
Infine, conforta tale conclusione anche la costante giurisprudenza di questa
Corte, che anche di recente ha avuto modo di affermare che in tema di
distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo
873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo
calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume
edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9
del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata
dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla
legge n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt.
dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento
edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza
tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è
"contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza
l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra
fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd.
legge ponte.
In conclusione, sulla possibilità di
degradare il balcone al rango di mero sporto, in tema di distanze legali fra
edifici
- rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle
distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di
rifinitura od accessoria -come le mensole, le lesene, i cornicioni, le
canalizzazioni di gronda e simili- mentre
- costituiscono corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le
sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi,
costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile
profondità ed ampiezza.
---------------
5. Il quarto motivo denunzia la violazione e falsa applicazione
dell'art. 873 c.c. nella parte in cui i giudici di appello hanno
ritenuto che nel calcolare le distanze tra i fabbricati
fronteggiantisi si dovesse tenere conto anche della terrazza in
aggetto.
La ricorrente, pur mostrando di avere ben presente
l'orientamento al quale ha fatto cenno anche la sentenza
impugnata, circa la necessità di dover tenere conto ai fini del
calcolo delle distanze anche degli elementi sporgenti, quale nel
caso di specie la terrazza degli attori, ritiene però che si tratti
di un orientamento non condivisibile.
Il motivo è infondato.
Ed, invero, in disparte il richiamo alla legittimità urbanistica
dell'opera, già oggetto del primo motivo di ricorso, la censura
si scontra in maniera evidente con la pacifica giurisprudenza di
questa Corte, alla quale il Collegio ritiene di dover dare
continuità, attesa anche l'assenza di seri elementi di critica
idonei ad indurre a far rimeditare le conclusioni già raggiunte.
Ed, invero si è già affermato che i balconi non appaiono
riconducibili per dimensioni e caratteristiche costruttive a meri
elementi ornamentali privi di rilevanza ai fini del calcolo delle
distanze, sicché la mera differenza di tecnica costruttiva
ravvisabile tra la parete in muratura ed un balcone aperto, non
consente di aderire ad una diversa ricostruzione della portata
applicativa della norma, dovendo quindi reputarsi che anche la presenza di
un balcone imponga di ravvisare una situazione di
parete finestrata.
Inoltre se la finalità delle norme in tema di distanze tra
costruzioni è quella di evitare la creazione di intercapedini
dannose, e di riflesso di assicurare un ordinato e razionale
sviluppo dell'attività edilizia al fine della salvaguardia della
salubrità e dell'armonico sviluppo dell'attività edificatoria,
l'escludere la rilevanza di un balcone ai fini del computo delle
distanze vanificherebbe in maniera evidente lo scopo cui mira
il legislatore.
Infine, conforta tale conclusione anche la costante
giurisprudenza di questa Corte, che anche di recente ha avuto
modo di affermare che (cfr. Cass. n. 5594/2016) in tema di
distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo
873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo
calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume
edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9
del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata
dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla
legge n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt.
dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento
edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza
tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è
"contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza
l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra
fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla
cd. legge ponte (in senso sostanzialmente conforme si veda
anche Cass. n. 23553/2013; Cass. n. 17089/2006).
In conclusione, una volta esclusa, per espresso accertamento
da parte degli stessi giudici di appello, la possibilità di
degradare il balcone in oggetto al rango di mero sporto (cfr. a
tal fine da ultimo Cass. n. 18282/2016, secondo cui, in tema di
distanze legali fra edifici, rientrano nella categoria degli sporti,
non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi
con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria -come le mensole, le lesene, i cornicioni, le
canalizzazioni di gronda e simili- mentre costituiscono corpi di
fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici
aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da
solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile
profondità ed ampiezza; Cass. n. 17242/2010), deve ribadirsi
la correttezza della soluzione raggiunta dalla sentenza
impugnata (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 05.01.2018 n. 166). |
EDILIZIA PRIVATA: Misurazione
della distanza tra edifici ed estensione del balcone.
In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi
dell’articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo
calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio,
costituisce corpo di fabbrica, e poiché l’articolo 9 del d.m. 02.04.1968
–applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150
del 1942, come modificata dalla legge n. 765 del 1967– stabilisce la
distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un
regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della
distanza tra edifici che non tenga conto dell’estensione del balcone, è
“contra legem” in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l’estensione
del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt.
dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
22.03.2016 n. 5594 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
5. - I primi due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro
connessione, sono infondati perché presuppongono che la parete sud del
fabbricato dei ricorrenti non sia finestrata, a norma delle N.T.A., in
quanto il balcone ivi esistente non sarebbe da considerarsi quale finestra a
tal fine.
In senso opposto va osservato, invece, che in tema di distanze tra
costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c., con
riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone,
estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di
fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla
fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150, come
modificata dalla legge 06.08.1967 n. 765- stabilisce la distanza minima di
mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio
che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non
tenga conto dell'estensione del balcone, è contra legem in quanto,
sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a
determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il
distacco voluto dalla c.d. legge ponte (legge 06.08.1967 n. 765, che, con
l'articolo 17, ha aggiunto alla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150
l'articolo 41-quinquies, il cui comma non fa rinvio al d.m. 02.04.1968, che
all'articolo 9, numero 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10) (Cass.
n. 17089/2006).
[Del resto, se anche le pareti finestrate fossero solo quelle munite di
finestre e non anche quelle dotate di balconi, questi ultimi sarebbero pur
sempre da considerare come parte della costruzione ai fini della distanza. E
poiché, nella specie, gli stessi ricorrenti sostengono (v. pag. 24 del
ricorso) che la parete del loro fabbricato è posta a mt. 3,10 dal confine,
la presenza del balcone, che per definizione non può essere profondo soli 10
cm., già porterebbe la parete ad essere ad una distanza inferiore a quella
legale, anche a voler applicare l'art. 6, lett. c). N.T.A. del Piano
particolareggiato]. |
Ed altri pronunciamenti, ancora, sempre in materia
di distanza tra edifici... |
EDILIZIA PRIVATA: Richiamando
i consolidati principi giurisprudenziali, laddove vi sia una modifica anche
solo dell’altezza dell’edificio sono ravvisabili gli estremi della nuova
costruzione, da considerare tale anche ai fini del computo delle distanze
rispetto agli edifici contigui.
Peraltro, secondo consolidata giurisprudenza la regola delle distanze legali
tra costruzioni di cui al comma 2 dell'art. 9 cit. è applicabile anche alle
sopraelevazioni.
Infine la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate deve essere
rispettata anche in caso di interventi di recupero dei sottotetti a fini
abitativi.
Non è, dunque, pertinente la tesi difensiva del Comune appellante secondo
cui la asserita modesta modifica di altezza non impatterebbe sulla veduta
del vicino, mantenendosi la sopraelevazione ad una quota più bassa, atteso
che ciò che rileva, alla stregua dell’art. 9 D.M. 1444/1968, non è la
distanza della sopraelevazione dalla specifica veduta bensì la distanza
della stessa dalla parete finestrata.
Né è necessario accertare, come opinato dall’appellante, se l’edificio, come
sopraelevato, raggiunga la quota della finestra del vicino, in quanto ciò
che rileva è che, incontestata essendo la sopraelevazione, si è in presenza
di una nuova costruzione, cui consegue l’effetto obbligatorio del rispetto
delle distanze di dieci metri tra pareti finestrate e edifici antistanti:
non è fondata, dunque, la censura di omessa pronuncia sul punto.
In materia di distanze tra fabbricati, l'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968, che
prescrive una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti, è applicabile anche nel caso in cui una sola delle
due pareti fronteggiantesi sia finestrata e indipendentemente dalla
circostanza che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio
preesistente, o che si trovi alla medesima altezza o ad altezza diversa
rispetto all'altro.
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444,
essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area
confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad
almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in
cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota
inferiore a quella dalle finestre antistanti.
---------------
Questo Consesso ha già avuto
modo di osservare che le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444
integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o
revisione degli strumenti urbanistici.
Invero è stato affermato dalla costante giurisprudenza che la disposizione
contenuta nell'art. 9 D.M. 1444/1968, che prescrive la distanza di dieci
metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile,
trattandosi di norma imperativa che predetermina in via generale ed astratta
le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive
connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti
con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del
diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova
costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta,
anche in tema di distanze, dal codice civile.
Ne discende che, in presenza di strumenti urbanistici contenenti
disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di cui all'art. 9
D.M. 02.04.1968 n. 1444, il giudice avrebbe comunque l'obbligo di applicare
la norma di rango superiore.
---------------
L’appello è infondato.
1. Oggetto del titolo edilizio in contestazione è un intervento che prevede
il recupero abitativo del sottotetto, con realizzazione di un volume in
sopraelevazione.
Tale circostanza di fatto, come correttamente rilevato dal TAR, non è
contestata.
Non possono quindi che applicarsi le conseguenze che derivano dal richiamo
di consolidati principi giurisprudenziali secondo cui laddove vi sia una
modifica anche solo dell’altezza dell’edificio (come nel caso di specie)
sono ravvisabili gli estremi della nuova costruzione, da considerare tale
anche ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui (Cons.
Stato, Sez. IV, 12.02.2013, n. 844).
Peraltro, secondo consolidata giurisprudenza (si veda, tra tante, in tal
senso, Cass., Sez. II, 27.03.2001, n. 4413) la regola delle distanze legali
tra costruzioni di cui al comma 2 dell'art. 9 cit. è applicabile anche alle
sopraelevazioni (Cons. Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759).
Infine la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate deve essere
rispettata anche in caso di interventi di recupero dei sottotetti a fini
abitativi (Cons. Stato, Sez. IV, 16.09.2020, n. 5466).
Non è, dunque, pertinente la tesi difensiva del Comune appellante secondo
cui la asserita modesta modifica di altezza non impatterebbe sulla veduta
del vicino, mantenendosi la sopraelevazione ad una quota più bassa, atteso
che ciò che rileva, alla stregua dell’art. 9 D.M. 1444/1968, non è la
distanza della sopraelevazione dalla specifica veduta bensì la distanza
della stessa dalla parete finestrata.
Né è necessario accertare, come opinato dall’appellante, se l’edificio, come
sopraelevato, raggiunga la quota della finestra del vicino, in quanto ciò
che rileva è che, incontestata essendo la sopraelevazione, si è in presenza
di una nuova costruzione, cui consegue l’effetto obbligatorio del rispetto
delle distanze di dieci metri tra pareti finestrate e edifici antistanti:
non è fondata, dunque, la censura di omessa pronuncia sul punto.
In materia di distanze tra fabbricati, l'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968, che
prescrive una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti, è applicabile anche nel caso in cui una sola delle
due pareti fronteggiantesi sia finestrata e indipendentemente dalla
circostanza che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio
preesistente, o che si trovi alla medesima altezza o ad altezza diversa
rispetto all'altro (Cass., Sez. II, 01.10.2019, n. 24471).
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444,
essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area
confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad
almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in
cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota
inferiore a quella dalle finestre antistanti (Cons. Stato, Sez. IV,
30.10.2017, n. 4992).
Le assorbenti considerazioni che precedono comportano la conferma
dell’impugnata sentenza.
2. Quanto all’impugnazione del capo della sentenza che ha regolamentato le
spese del giudizio di primo grado il Collegio ricorda che questo Consesso ha
già avuto modo di osservare che le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n.
1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle
costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o
revisione degli strumenti urbanistici.
Invero è stato affermato dalla costante giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV,
23.06.2017 n. 3093; id. 08.05.2017, n. 2086; id. 29.02.2016 n. 856; Cass.,
Sez. II, 14.11.2016, n. 23136) che la disposizione contenuta nell'art. 9
D.M. 1444/1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere
tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, trattandosi di norma
imperativa che predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le
costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento
dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei
proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è
invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze,
dal codice civile.
Ne discende che, in presenza di strumenti urbanistici contenenti
disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di cui all'art. 9
D.M. 02.04.1968 n. 1444, il giudice avrebbe comunque l'obbligo di applicare
la norma di rango superiore (così Cass., Sez. II, 27.03.2001, n. 4413; Cons.
Stato, Sez. IV, 12.06.2007, n. 3094).
Ne discende che la presenza di una previsione regolamentare in contrasto con
l'anzidetto limite minimo non è idonea ad elidere o limitare la
responsabilità dell’ente, neanche ai fini della valutazione della
soccombenza.
Conclusivamente l’appello va respinto, con integrale conferma della sentenza
impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 19.10.2021 n. 7029 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza costante, la locuzione “nuovi edifici”
per i quali trovano applicazione le distanze previste dall’art. 9, primo
comma, n. 2, del D.M. 1444 del 1968, deve intendersi riferita non solo agli
edifici costruiti per intero per la prima volta, ma anche alle parti o
sopraelevazioni degli stessi.
Tale può definirsi anche un parapetto fisso, poiché è idoneo a determinare
l’innalzamento del prospetto e della sagoma del fabbricato, e possiede i
caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione.
---------------
Il ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 9, comma primo, n. 2), D.M. 1444/1968.
Il permesso di costruire autorizza la ricostruzione dell’edificio
alla distanza preesistente che era, tuttavia, di soli 6 metri. Poiché
l’intervento di ricostruzione in progetto stravolge completamente l’aspetto
originario dell’edificio demolito, determinandone un notevole ampliamento,
esso sarebbe da qualificare come intervento di nuova costruzione (e non di
ristrutturazione), soggetto, come tale, al rispetto delle distanze previste
dall’art. 9 D.M. 1444/1968.
L’orientamento richiamato dal ricorrente è stato superato e meglio
precisato dalla successiva giurisprudenza, la quale ha affermato
l’irrilevanza -ai fini della verifica del rispetto delle distanze minime
previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968- della formale qualificazione
dell’intervento come ristrutturazione o nuova costruzione e la necessità,
invece, di verificare se l’edificio ricostruito possa ritenersi, in tutto o
in parte, un “edificio nuovo”.
“Secondo questa giurisprudenza si ha ricostruzione, che segue le sorti
dell'immobile originario, quando ci si contenga nei limiti preesistenti di
altezza, volumetria, sagoma dell'edificio. Si ha un novum, una nuova
costruzione, soggetta alle distanze vigenti, per ciò che eccede.
La disposizione dell'art. 9, n. 2, del D.M. n. 1444/1968 riguarda infatti
"nuovi edifici", intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o
sopraelevazioni di essi) "costruiti per la prima volta" e non già edifici
preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso
prescrivere distanze diverse; invece, nel caso in cui il manufatto venga
ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell'area di
sedime, come pure consentito dall'art. 30, comma 1, lett. a), del D.L. n.
69/2013, convertito nella legge n. 98/2013, occorrerà comunque il rispetto
delle distanze prescritte, proprio perché esso, quanto alla sua collocazione
fisica, rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare,
indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o
nuova costruzione, le norme sulle distanze”.
Tanto premesso, occorre chiarire, ai fini che rilevano, che, riguardo
all’applicazione delle distanze legali nell’ipotesi di interventi di
demolizione e ricostruzione, la giurisprudenza sia del Consiglio di Stato che
della Corte di cassazione ritiene applicabile la disciplina sulle distanze
“per ciò che eccede” la mera ricostruzione.
Pertanto in caso di demolizione e ricostruzione di un precedente edificio,
in cui siano distinguibili le parti eccedenti quelle originarie, solo queste
sono soggette alla disciplina delle distanze, configurandosi come “nuove
costruzioni”.
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2
E’, altresì, fondato, in parte, il quarto motivo con cui sono dedotti
i vizi di violazione dell’art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 e di eccesso di
potere per difetto d’istruttoria.
Afferma il ricorrente che il permesso di costruire impugnato ha autorizzato
la sopraelevazione di 85 cm della parete perimetrale fronteggiante la sua
proprietà, mediante l’inserimento di un parapetto di 85 cm posto a distanza
inferiore di dieci metri. Ad avviso del ricorrente, sarebbe violato anche
l’art. 9 ultimo comma del citato D.M. nella parte in cui stabilisce che
“Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino
inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono
maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa”.
2.1 Il motivo è fondato limitatamente alla violazione dell’art. 9 primo
comma, n. 2), del D.M. 1444 del 1968.
Per giurisprudenza costante, la locuzione “nuovi edifici” per i quali
trovano applicazione le distanze previste dall’art. 9, primo comma, n. 2,
del D.M. 1444 del 1968, deve intendersi riferita non solo agli edifici
costruiti per intero per la prima volta, ma anche alle parti o
sopraelevazioni degli stessi (ex multis Consiglio di Stato sez. IV,
16/09/2020, n. 5466).
Tale può definirsi anche un parapetto fisso, poiché è idoneo a determinare
l’innalzamento del prospetto e della sagoma del fabbricato (cfr. Consiglio
di Stato, sez. VI, 20.08.2019, n. 5763), e possiede i caratteri della
solidità, stabilità, ed immobilizzazione (Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2013, n. 354, Consiglio di Stato sez. II, 18/05/2021, n. 3883).
Non rileva, infine, ai fini di cui in disamina, la definizione di altezza
dettata dall’art. 9, comma 1, punto 3, delle NTA del PI, atteso che la
medesima disposizione si applica solo per le finalità espressamente
stabilite dallo strumento urbanistico, come emerge dalla clausola di
salvezza delle altezze massime e delle distanze minime inderogabili tra
fabbricati previste dal D.M. 1444/1968 contenuta nell’ultimo periodo della
medesima disposizione (“Salvi i casi puntualmente disciplinati dal PI e dai PUA, resta fermo il rispetto delle altezze massime e delle distanze minime
inderogabili tra fabbricati previste dal D.M. 1444/1968.”).
...
7.
E’ infondato anche il quinto motivo del ricorso introduttivo con cui
il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 9, comma primo, n. 2), D.M.
1444/1968.
Il permesso di costruire autorizza la ricostruzione dell’edificio
alla distanza preesistente che era, tuttavia, di soli 6 metri. Poiché
l’intervento di ricostruzione in progetto stravolge completamente l’aspetto
originario dell’edificio demolito, determinandone un notevole ampliamento,
esso sarebbe da qualificare come intervento di nuova costruzione (e non di
ristrutturazione), soggetto, come tale, al rispetto delle distanze previste
dall’art. 9 D.M. 1444/1968.
7.1 L’orientamento richiamato dal ricorrente è stato superato e meglio
precisato dalla successiva giurisprudenza, la quale ha affermato
l’irrilevanza -ai fini della verifica del rispetto delle distanze minime
previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968- della formale qualificazione
dell’intervento come ristrutturazione o nuova costruzione e la necessità,
invece, di verificare se l’edificio ricostruito possa ritenersi, in tutto o
in parte, un “edificio nuovo”.
“Secondo questa giurisprudenza si ha ricostruzione, che segue le sorti
dell'immobile originario, quando ci si contenga nei limiti preesistenti di
altezza, volumetria, sagoma dell'edificio. Si ha un novum, una nuova
costruzione, soggetta alle distanze vigenti, per ciò che eccede (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, n. 4728/2017).
La disposizione dell'art. 9, n. 2, del D.M. n. 1444/1968 riguarda infatti
"nuovi edifici", intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o
sopraelevazioni di essi) "costruiti per la prima volta" e non già edifici
preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso
prescrivere distanze diverse; invece, nel caso in cui il manufatto venga
ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell'area di
sedime, come pure consentito dall'art. 30, comma 1, lett. a), del D.L. n.
69/2013, convertito nella legge n. 98/2013, occorrerà comunque il rispetto
delle distanze prescritte, proprio perché esso, quanto alla sua collocazione
fisica, rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare,
indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o
nuova costruzione, le norme sulle distanze (da ultimo Cons. Stato, sez. IV,
n. 5466 del 2020).” (Consiglio di Stato, sentenza n. 6282, del 16.10.2020).
Tanto premesso, occorre chiarire, ai fini che rilevano, che, riguardo
all’applicazione delle distanze legali nell’ipotesi di interventi di
demolizione e ricostruzione, la giurisprudenza sia del Consiglio di Stato che
della Corte di cassazione ritiene applicabile la disciplina sulle distanze
“per ciò che eccede” la mera ricostruzione (Cass. n. 9637 del 2006; Cass. n.
19287 del 2009).
Pertanto in caso di demolizione e ricostruzione di un precedente edificio,
in cui siano distinguibili le parti eccedenti quelle originarie, solo queste
sono soggette alla disciplina delle distanze, configurandosi come “nuove
costruzioni”.
Nel caso di specie, emerge dagli elaborati eseguiti dal verificatore, che
l’edificio ricostruito è posto su un’area di sedime coincidente in parte con
quella originaria, essendone distinguibile l’ampliamento in lunghezza sul
lato opposto a quello dove insiste l’edificio del ricorrente. La proiezione
“verticale” dell’edificio sul lato prospettante sulla proprietà del
ricorrente si pone alla distanza originaria (di sei metri) fino all’altezza
dell’edificio in demolizione, mentre la parte sopraelevata (piani quarto e
quinto) è posta alla distanza di m 10 dall’edificio del ricorrente. Emerge,
inoltre, dalla sovrapposizione grafica dei due edifici che l’incremento di
volumetria è stato in parte realizzato attraverso la sopraelevazione di due
piani (come si è detto posta a distanza di dieci metri rispetto all’edificio
del ricorrente) e, in parte, attraverso l’ampliamento dell’edificio sul lato
opposto a quello di proprietà del ricorrente.
Può, pertanto, ritenersi che la parte ricostruita sia avvenuta nel rispetto
dei preesistenti distacchi, mentre l’ampliamento è stato realizzato nel
rispetto delle distanze previste per le nuove costruzioni (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 18.10.2021 n. 1239 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
tra edifici, ai centri storici non si applica il limite di 10 metri.
Consiglio di Stato: il limite di 10 metri previsto all’articolo 9 del DM
1444/1968 per le “nuove costruzioni” non è riferito ai centri storici ma
alle “altre zone”.
Il Consiglio di Stato, Sez. II, con
sentenza
09.08.2021 n. 5830, ribaltando la
decisione assunta in primo grado dal TAR, ha affermato che il limite di 10
metri previsto all’articolo 9 del DM 1444/1968 per le “nuove costruzioni”
non è riferito ai centri storici ma alle “altre zone”.
Tra le motivazioni poste alla base della decisione il Consiglio di Stato ha
ritenuto che:
- il DM 1444/1968 nel disciplinare le zone A (centri storici) ha prescritto in
questi casi che la distanza “non sia inferiore a quella intercorrente tra i
volumi edificati preesistenti”;
- il limite dei 10 metri si applica solo alle “nuove costruzioni” ed è
riferito alle “altre zone” ossia diverse da quelle delle zone A–centro
storico e non può essere data una interpretazione più ampia di quella che
può esserne tratta in via letterale.
Si ricorda, infatti, che l’art. 9 dm 1444/1968 prevede:
- zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali
ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a
quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza
tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore
storico, artistico o ambientale;
- nei nuovi edifici ricadenti in altre zone è prescritta in tutti i casi la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti;
- zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici
antistanti, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto; la
norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli
edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a mt 12.
Il caso sottoposto all’esame del collegio riguardava un intervento di
demolizione e ricostruzione con incremento volumetrico in applicazione del
cd. Piano casa regionale su un immobile ubicato in centro storico.
Per il TAR l’intervento doveva essere considerato come “nuova costruzione” e
per questo essere tenuto al rispetto della distanza minima di 10 metri
prevista dall’articolo 9 del DM 1444/1968.
Diversa la decisione del Consiglio di Stato che, oltre a non qualificare
l’intervento come nuova costruzione, ha sottolineato altresì come, l’assenza
di una disciplina specifica per le distanze da osservare nei centri storici
all’interno del DM 1444/1968, si giustifica per il fatto che, in tali
ambiti, non sono consentiti interventi se non sul preesistente.
Applicando il limite dei 10 metri anche nei centri storici, inoltre,
verrebbe preclusa in ampie zone dei territori comunali l’applicazione del
Piano Casa regionale, nella parte in cui prevede la possibilità di
realizzare ampliamenti fino al 35% (commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
SENTENZA
11. L’appello è fondato.
11.1 Come sopra esposto, il Comune appellante articola le proprie deduzioni,
nell’ambito di un unico motivo di gravame, per avversare la statuizione
accoglitiva recata dall’impugnata sentenza e che si fonda sulla
valorizzazione della disciplina sulle distanze prevista dal d.m. n.
1444/1968. Ha ritenuto, infatti, il Tar che il permesso di costruire sarebbe
stato rilasciato in violazione dell’art. 9 di tale compendio normativo, in
quanto, trattandosi di un intervento edilizio qualificabile come “nuova
costruzione”, sarebbe suscettibile di applicazione analogica la
previsione sulle distanze nelle zone diverse dalla “A”, nella persistenza
della “ratio giustificatrice della disciplina che consiste nell’esigenza
di evitare intercapedini dannose per la salute”.
Deve rilevarsi, preliminarmente, che con il primo motivo del ricorso
originario, accolto dal giudice di prime cure, si ipotizzava la violazione
(anche) dell’art. 6 della legge sul Piano Casa (n. 49/2009), il quale
articolo impone “il rispetto della distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici frontistanti” così implicitamente richiamando
la previsione di cui al citato d.m. tanto che nella stessa domanda di
permesso di costruire si attesta il rispetto di tale distanza di 10 metri
tra pareti finestrate.
Orbene, ritiene il Collegio che tale disciplina non sia suscettibile di
applicazione analogica.
Osserva, sul punto, l’appellante che la previsione del d.m. n. 1444/1968,
secondo cui la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve
essere inferiore a dieci metri, vale per i “Nuovi fabbricati” in “altre
zone”, cioè diverse dalla zona A (centro storico), nella quale si trova il
fabbricato oggetto della domanda edificatoria, posto che in quest’ultima,
dove vige il generale divieto di costruzioni “ex novo”, la norma si limita a
prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra
volumi edificati preesistenti.
La deduzione sollevata dall’appellante è meritevole di accoglimento, in
quanto effettivamente il d.m., dopo aver disciplinato le “Zone A”, introduce
la “distanza minima assoluta di m. 10” con esclusivo riferimento alle “altre
zone”, di guisa che non è suscettibile di estensione analogica una norma che
introduce una limitazione o un divieto quale quella in commento. Né può
dirsi che la disciplina ordinamentale contempla l’esclusione dell’edificabilità
di nuove costruzioni in quanto la legge regionale sul Piano Casa non esclude
la sua applicazione nelle zone A e, ad opinare in senso conforme
all’orientamento del Tar, tale modulo abilitativo non sarebbe
suscettibile di applicazione nel centro storico stante l’alta densità
edilizia che solitamente connota tali aree. La mancata previsione della
distanza minima in zona A in seno al citato d.m. non costituisce, quindi,
frutto di una dimenticanza del redattore della norma, così da costituire un
vuoto normativo colmabile in sede interpretativa, quanto espressione di una
sua precisa opzione connessa al fatto che in zona centro storico
tendenzialmente non sono consentiti se non interventi sul preesistente.
L’avvento del Piano Casa regionale, con la prevista possibilità di
realizzare ampliamenti entro il limite del 35 %, non giustifica il ricorso
ad una interpretazione analogica che avrebbe l’effetto di precludere, di
fatto, l’applicazione di tale disciplina di favore in ampie zone dei
territori comunali.
E’ peraltro meritevole di favorevole apprezzamento quanto argomentato
dall’appellante a sostegno delle proprie deduzioni facendo leva sulla
formulazione della stessa norma di cui all’art. 6 della l.r. n. 49/2009,
nella versione ratione temporis vigente fino alla riforma introdotta dalla
l.r. 01.03.2011, n. 4, alla cui stregua il titolo edilizio era stato
rilasciato, laddove prevedeva che “la ricostruzione deve avvenire in sito,
anche su diverso sedime, e può essere assentita in deroga alle previsioni
urbanistico-edilizie dello strumento urbanistico comunale, fatto salvo il
rispetto delle distanze dai fabbricati ivi previste” (cfr. comma 2).
Il
rinvio operato dalla norma alla disciplina urbanistica locale impone il
riferimento alle NTA, il cui art. AS8) si limita a prevedere, per la
Sottozona AS (“Disciplina degli interventi di costruzione di nuovi edifici e
relativi parcheggi pertinenziali”), “il corretto inserimento architettonico
dell’edificio nell’intorno” così alludendo alla necessità di rispettare le
(sole) distanze preesistenti invece che quelle previste per le edificazioni
ex novo.
Peraltro la classificazione dell’intervento quale costruzione ex novo non
può derivare dalla semplice circostanza che il progetto di demolizione e
ricostruzione del fabbricato preveda la realizzazione di ampliamenti della
volumetria preesistente. Se è vero che possono essere iscritti nell’ampia
nozione di nuova costruzione anche gli interventi di ristrutturazione è pur
vero che ciò è possibile, come ha rammentato la Sezione, soltanto “ove in
ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione,
possa parlarsi di una modifica radicale dell'immobile, rendendo l'opera
realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente”
(cfr. sentenza, 06.04.2020, n. 2304).
La ristrutturazione edilizia, più precisamente, sussiste “solo quando viene
modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche
fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente
trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento
volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell’intero fabbricato), ma
anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della
struttura originaria (allungamento delle falde del tetto, perdita degli
originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l’intervento
rientra nella nozione di nuova costruzione” (Cons. Stato, sez. II,
13.01.2021, n. 423).
Ad ogni modo, dalla documentazione progettuale dell’intervento (che prevede
la demolizione e ricostruzione di un edificio destinato a civile abitazione
e la costruzione di una nuova autorimessa) ed in particolare dalla relazione
tecnica allegata alla domanda di permesso di costruire, avanzata ai sensi
dell’art. 6 della l.r. n. 49/2009, è dato rilevare che la ricostruzione
dell’immobile da demolire, interessato da una situazione di dissesto statico
come descritto in dettaglio nella perizia tecnica in atti, con un
ampliamento volumetrico (di poco) inferiore al 35%,“avverrà
prevalentemente in altezza e su sedime lievemente modificato […] nel
rispetto delle distanze dai fabbricati” (cfr. pagina 3 della relazione
tecnica citata) precisandosi, nella parte rubricata “Confini e distanze”,
che “l’area di progetto, appartenente alla zona AS del PUC vigente, confina
a nord con la Salita Cavallo, ad est con edifici non finestrati e situati in
zona AS, a sud ed a ovest con zone BB con le quali si sono rispettate le
distanze minime di 10 metri dalle superfici finestrate degli edifici
prospicienti” (cfr. pagina 6 della medesima relazione). L’affermazione di
controparte, secondo cui il nuovo edificio “non conserva l’originario
allineamento”, non trova preciso riscontro e pertanto non è dato inferire
dalla documentazione di causa alcuna violazione della distanza minima di mt.
10 dalle pareti finestrate.
Ad ogni modo, in disparte la non immediatamente evidenziabile natura
dell’intervento di nuova costruzione, che invece viene apoditticamente
affermata dal Tar, è da rilevare, come sopra rilevato, la mancanza di una
previsione normativa che stabilisca, per le zone A, la distanza minima di 10
metri tra pareti finestrate, la cui violazione non può quindi essere
fondatamente contestata nel caso in esame.
Conclusivamente sul punto, in disparte la non condivisione da parte del
Collegio delle considerazioni rese dal Tar che finiscono per
ridimensionare la rilevanza provvedimentale del silenzio-assenso, va quindi
accolto l’appello proposto dal Comune di Genova ove si deduce
l’insussistente violazione del d.m. n. 1444/1968 non contemplando la
previsione sulla distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate, peraltro
non evincibile dagli atti di causa, che pertanto il Tar ha ritenuto
erroneamente violata
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza
09.08.2021 n. 5830 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
legali, pareti finestrate e balconi.
Devono intendersi ‘pareti finestrate’ tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso l’esterno quali porte, balconi, finestre
di ogni tipo, che assicurano la possibilità di esercitare la veduta. Di
conseguenza anche i balconi contribuiscono a definire ‘finestrata’ una
parete, poiché assicurano la possibilità di esercitare la veduta ed è
necessario, pertanto, tenerne conto nel calcolo delle distanze tra edifici
confinanti (Corte d'Appello di Firenze,
Sez. III, sentenza 06.07.2021 n. 1381 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Calcolo della distanza.
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
prevista dall’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Inoltre, è stato osservato in giurisprudenza che, per “pareti finestrate”,
ai sensi dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, devono intendersi, non
soltanto le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti
munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte,
balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì
che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 06.04.2021 n. 319
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
Con il provvedimento oggetto di censura il Comune ha accertato, in
autotutela, l’assenza dei presupposti per la formazione del titolo edilizio
in relazione alla DIA del 2015 e alle successive varianti e ordinato il
ripristino dello stato dei luoghi antecedente all’intervento per la sola
porzione di veranda in ampliamento, mediante rimozione della stessa. Ciò
sulla scorta del verbale con cui è stato rilevato che, sebbene la violazione
delle distanze dai confini sia minimale e non sia, dunque, configurabile una
variazione essenziale in relazione a tale profilo, altrettanto non può
sostenersi con riferimento alla porzione di veranda in ampliamento, posta a
una distanza inferiore ai dieci metri imposti dall’art. V.1 del Piano delle
Regole del Comune di Treviglio e dall’art. 9 del D.M. 1444/1968.
Deve essere preliminarmente rigettata l’eccezione in rito correlata alla
mancata notificazione del controinteressato da individuarsi nel proprietario
dell’immobile rispetto a cui risulta essere stato violato il limite della
distanza. La giurisprudenza, infatti, ravvisa il contraddittorio necessario
solo nel caso in cui oggetto del controvertere sia la legittimità del titolo
rilasciato al controinteressato, non anche nel caso contrario, come quello
in esame, in cui il vicino è parte avvantaggiata dal provvedimento
censurato, che trova la sua motivazione nella violazione di una norma
edilizia solo incidentalmente e indirettamente posta a tutela del
confinante, che, dunque, potrebbe intervenire nel giudizio, ma non può
essere considerato contraddittore necessario.
Come chiarito dal Consiglio di Stato, nella sentenza n. 5472/2020, che
richiama la pronuncia 06.06.2011 n. 3380 “nell’impugnazione di
un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei
confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel
caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il
terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo
avesse provveduto a segnalare all’amministrazione l’illecito edilizio da
altri commesso”. Tale orientamento si fonda sulla considerazione che la
qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va
riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere
in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze
soltanto indirette o riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva
un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della
propria sfera giuridica.
Ne deriva l’ammissibilità del ricorso in esame.
Passando all’esame del merito della controversia, ragioni di ordine logico
impongono di esaminare in via preordinata i motivi di ricorso numeri 2 e 3,
i quali revocano in dubbio la legittimità dell’esercizio del potere di
autotutela. L’accertamento della sussistenza delle condizioni di legge per
poter procedere all’esercizio del potere in questione risulta, infatti,
essere logicamente preordinato rispetto all’accertamento della conformità
alla legge del risultato cui esso ha condotto.
Fatta tale premessa, il Comune risulta aver disposto la revoca degli effetti
delle DIA e della SCIA inoltrate da parte ricorrente sulla scorta di
un’asserita violazione di una norma, quella che disciplina la distanza
minima tra pareti finestrate, il cui rispetto si impone, prima ancora che
nell’interesse della proprietà confinante, per garantire la salubrità delle
costruzioni. Tenuto conto di ciò, non può essere ravvisata la lamentata
carenza del presupposto che legittima l’esercizio del potere ex art.
21-nonies della legge n. 241/1990 da parte del Comune e nemmeno la dedotta
carenza di motivazione, essendo a tal fine sufficiente l’indicazione della
norma violata, posta a tutela dell’interesse pubblico.
Anche la terza doglianza non può trovare accoglimento, in quanto il
provvedimento censurato è, nella sostanza, rivolto alla rimozione di un
abuso edilizio derivante dall’asserita violazione dei limiti di distanza tra
pareti finestrate, il che comporta, per inciso, anche la declaratoria
dell’illegittimità degli effetti della DIA presentata da parte ricorrente
per la realizzazione del manufatto senza garantire il rispetto degli stessi.
Pertanto, considerato che la giurisprudenza è costante nell’affermare che la
repressione degli abusi edilizi, previo eventuale annullamento del titolo
che ha previsto la realizzazione della costruzione in violazione della
legge, può intervenire in qualsiasi momento, non può ritenersi applicabile
alla fattispecie il termine di diciotto mesi riconosciuto dall’art.
21-nonies della legge n. 241/1990 all’amministrazione per poter procedere
all’annullamento in autotutela.
In ogni caso, considerato che la documentazione tecnica prodotta da parte
ricorrente non rappresentava la presenza di una parete finestrata prima che
fosse depositata la DIA del 09.12.2016, il termine dei diciotto mesi
decorrerebbe comunque solo da tale data, coincidente con il momento in cui
l’Amministrazione è stata resa edotta della reale situazione dei luoghi e
eliminata la non corretta descrizione degli stessi che ha impedito di
rilevare un possibile problema di violazione delle distanze. Il termine
risulterebbe, pertanto, rispettato.
Esclusa la fondatezza dei vizi correlati alla sussistenza dei presupposti
per l’esercizio del potere avversato, si può passare ad esaminare la censura
n. 1, avente a oggetto la pretesa violazione della norma regolante la
distanza tra pareti finestrate.
A tale proposito il Collegio ritiene di poter preliminarmente convenire con
il Comune che, nella fattispecie in questione, la parete posta a confine con
il mappale 3866 deve essere qualificata come “finestrata” in
relazione alla presenza di vedute nella parte più bassa della stessa. Le
aperture, infatti, sono dotate di inferiate e non di grate, per cui
l’affaccio risulta agevole e, in ogni caso, per la loro dimensione e
l’altezza a cui sono collocate consentono sia l’inspectio, che la
prospectio.
Ciò chiarito, secondo parte ricorrente le distanze in questione non
sarebbero applicabili al caso di fabbricati disposti ad angolo senza avere
pareti contrapposte.
Ciò sembrerebbe supportato dalla formulazione dell’art. V.1 del PdR, il
quale sembrerebbe assumere come presupposto il fatto che la distanza minima
prescritta riguardi pareti che si fronteggiano.
In realtà, il Consiglio di Stato, considerando la ratio dell’art. 9 del DM
1444/1968, volto ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, e, pertanto non eludibile, ha chiarito che “la
distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela
(così, Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909)” (cfr. Cons. Stato
7731/2010).
Inoltre, come ricordato nella sentenza del TAR Napoli, n. 2519/2019: <<la
medesima giurisprudenza ha altresì osservato che, per "pareti finestrate",
ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444, “devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti
munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte,
balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì
che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte
d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001,
n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano,
sez. IV, 07.06.2011, n. 1419)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV 22.10.2013
n. 5557 citato), e tale principio è stato di recente ribadito anche dalla
Suprema Corte di Cassazione che nella sentenza n. 166/2018>>.
Ne discende che legittimamente il Comune ha assoggettato a verifica la
distanza tra la nuova veranda e la parete dell’edificio collocato sulla
proprietà prospiciente (mappale 3866), da qualificarsi come finestrata.
Conseguentemente, misurate le distanze applicando il criterio della distanza
lineare e non radiale, è incontestato che esse siano inferiori al limite di
dieci metri imposto dalla legge e dal PdR comunale.
Rimane, dunque, da verificare se la distanza ridotta preesistesse, così come
sostenuto da parte ricorrente, rispetto alla ricostruzione dell’edificio.
Secondo il sig. Bo., infatti, lo spigolo del corpo di fabbrica preesistente,
demolito e ricostruito, era già posto a distanza di 5,28 metri (o comunque
inferiore a 10 metri) dalla parete in questione. Più precisamente, erano
presenti delle superfetazioni, poste a distanza inferiore a quella attuale,
che sono state demolite e sostituite da una veranda priva di vedute, più
bassa rispetto alle precedenti superfetazioni e costruita in modalità
diagonale, obliqua e trasversale -non parallelamente, né frontalmente-
rispetto all’edificio dei sigg.ri Mo. e Co..
La norma di riferimento, anche in questo caso, è sempre l’art. V.1 del PdR,
il quale prevede che, nel caso di sostituzione edilizia, la distanza minima
di metri 10 rispetto a pareti finestrate dei fabbricati antistanti
(intendendosi come tali le pareti con una o più vedute) debba essere
rispettata solo in relazione alle porzioni non comprese nella sagoma
dell’edificio preesistente.
La prescrizione, dunque, impone la distanza minima solo in relazione a “porzioni
non comprese nella sagoma”, facendo salve le ricostruzioni alle stesse
distanze che caratterizzavano la costruzione originaria. Dalla
documentazione in atti, però, non è possibile dedurre con certezza se lo
spigolo della veranda, da cui è stata misura la distanza dalla parete
finestrata dell’immobile collocato sulla proprietà confinante, ricada, ad
oggi, all’interno di quello che era il perimetro della sagoma dell’edificio
preesistente.
Pertanto, al di là del fatto che la nuova veranda abbia comportato una
contenuta variazione in aumento della volumetria e sia stata collocata in
una posizione diversa da quella originaria, risulta essenziale, al fine
della decisione definitiva, verificare tecnicamente la sussistenza di tale
condizione, di cui parte ricorrente non ha fornito adeguata prova.
Conseguentemente, il Comune resistente dovrà provvedere a verificare tale
condizioni, producendo, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione o
notificazione della presente pronuncia, una relazione circa gli esiti di
tale accertamento, corredata di una planimetria che, sovrapponendo lo stato
preesistente e quello derivato dalla demolizione e ricostruzione, evidenzi
la sagoma dell’edificio prima e dopo l’intervento, con indicazione della
distanza minima tra la parete finestrata dell’edificio di proprietà dei
sig.ri Mo. e Co. e la parete dell’edificio di proprietà del ricorrente prima
e dopo l’intervento di ristrutturazione.
Spese al definitivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di
Brescia (Sezione Seconda), non definitivamente pronunciando sul ricorso,
come in epigrafe proposto:
- lo dichiara ammissibile;
- lo respinge nella parte in cui tende ad escludere la sussistenza
dei presupposti per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela dei
titoli edilizi formatisi a seguito della DIA del 2015 e delle successive
varianti;
- quanto alla domanda di annullamento dell’atto impugnato ordina
gli incombenti istruttori indicati in motivazione;
- rinvia al definitivo ogni decisione sulle spese del giudizio;
- fissa, per l’ulteriore esame della controversia, l’udienza
pubblica del 06.10.2021. |
EDILIZIA PRIVATA: - l'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come
nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo
assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della
riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto
il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente
dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle loro
pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di
una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel
limitato segmento.
Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere
cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al
giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi.
La prescrizione di distanza in questione è assoluta e inderogabile;
- l'art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore
l'art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in
forza dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile
di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che
tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, e il giudice è tenuto ad applicare
tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli
strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente
inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima.
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria,
costituisce un principio assoluto e inderogabile, che prevale sia sulla potestà legislativa regionale,
in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze, sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria
dei Comuni, in quanto derivante da una fonte normativa statale sovraordinata,
sia infine sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi
pubblici che non sono nella disponibilità delle parti;
- la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici
antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non
alle sole parti che si fronteggiano.
Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a
quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela, indipendentemente
dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e
che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente,
o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima
o a diversa altezza rispetto all'altra;
- è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della
parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si
trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza
minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di
finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si
trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra;
- ai sensi dell'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per "pareti
finestrate" devono intendersi non soltanto le pareti munite di "vedute"
ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere
verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di
luce).
---------------
Proprio
perché la normativa sulle distanze è tesa a prevenire intercapedini, è da
ritenere che, nel caso in cui le pareti che si fronteggino abbiano diversa
altezza, la distanza è da calcolare “non in
relazione allo spazio vuoto esistente al di sopra del lastrico solare
dell’edificio”, “ma in relazione alla parete del detto edificio frontistante,
se pure più basso, la detta parete in sopraelevazione”.
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La giurisprudenza ha già chiarito che “non sono computabili nel calcolo
della distanza fra edifici gli sporti, le parti che hanno funzione
ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali),
le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, gli aggetti, gli elementi di
ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità; non possono
invece essere esclusi dal computo le pensiline, i balconi e tutte quelle
sporgenze che, per le particolari dimensioni, sono destinate anche ad
estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso
abitativo dell'edificio”.
Tale principio ha trovato recente applicazione
proprio con riguardo a “pilastri” che “creano un ingombro coerente a tutto
il manufatto”.
---------------
3. È anzitutto fondato il primo motivo di ricorso.
Con quest’ultimo, la ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 9, comma
2, del DM n. 1144 del 1968 e dell’art. 9, comma 4, del PRG vigente, nonché
eccesso di potere per travisamento, difetto di istruttoria e illogicità,
poiché il permesso di costruire avrebbe assentito l’opera, benché essa non
assicurasse il rispetto delle distanze minime prescritte sia dalla normativa
statale, sia da quella locale.
In particolare, l’art. 9, comma 2, del DM n. 11444/1968 prescrive, per gli
edifici collocati in zona B, come nel caso di specie, una distanza minima di
10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
Il Tribunale, in linea con la giurisprudenza amministrativa (Tar Veneto, n.
1137 del 2014, proprio in tema di cd piano caso e distanze), osserva che
tale distanza minima non può subire deroghe, neppure in forza della
disciplina relativa al cd piano casa: la stessa legge regionale n. 21 del
2009 lo afferma all’art. 4, comma 2.
3.1 Va altresì premesso che, nell’individuare i termini di raffronto per
calcolare la distanza effettiva, dovranno essere considerati anche i
balconi, che, nel caso di specie, hanno una significativa profondità dal
lato della nuova palazzina, pari a circa tre metri, come confermato dal CTU.
Essi, pertanto, costituiscono ad ogni effetto una componente strutturale
dell’edificio, ove si prolunga la vita abitativa, con ciò che ne consegue in
ordine alla necessità che sia questo il punto dal quale misurare la distanza
(Cass. civ. n. 4834/2019; Cons. Stato, sez. VI. n. 5307/2018).
Tale conclusione varrà anche per ogni elemento strutturale dell’edificio,
con particolare riguardo ai pilastri su cui si reggono parti di esso.
E va aggiunto, a tale proposito, che tale principio, in quanto codificato da
una norma espressiva della competenza esclusiva statale in tema di
ordinamento civile e di quella concorrente a dettare i principi fondamentali
del governo del territorio, non può trovare correzioni o integrazioni nella
normativa regionale o locale sulle distanze. Quest’ultima, infatti, può,
nella sussistenza di rigide condizioni attinenti alla pianificazione,
derogare alle distanze del DM n. 1144 del 1968 (ex plurimis, Corte
costituzionale, sentenza n. 50 del 2017), ma non certo prescrivere criteri
di interpretazione della normativa statale.
Ne consegue che eventuali previsioni del PRG e del regolamento edilizio che
dovessero prevedere criteri differenti per il calcolo delle distanze,
rispetto alla già affermata rilevanza dei balconi aggettanti e dei pilastri,
si applicherebbero solo con riguardo a quelle introdotte dagli strumenti
locali, e non a quelle di origine statale.
Nel caso di specie, in particolare, al fine di valutare l’osservanza
dell’art. 9 del DM n. 1144 del 1968, non potranno avere spazio gli artt. 9.4
delle NTA e l’art. 165 del regolamento edilizio, quanto al rilievo da
assegnare ai balconi, perché dovrà rilevare esclusivamente la norma statale,
come ovviamente interpretata dalla giurisdizione.
In particolare, l’art. 9.4 prevede, in conformità alla normativa statale,
che la distanza sia calcolata anche tenuto conto di “balconi, scale
esterne, pensiline e gronde”, ma aggiunge che “non si considerano ai
fini del distacco gli elementi sporgenti quali balconi, scale esterne e
pensiline con aggetti inferiori a mt 1,20”.
Per tale ultima parte, la previsione non può essere tenuta in considerazione
nel calcolo della distanza di 10 mt indicata dall’art. 9 del DM 1444 del
1968, quando la norma locale, come nel caso di specie, raggiunge balconi
che, per natura e profondità, debbano invece essere presi in considerazione,
sulla base delle massime di giurisprudenza sopra ricordate.
Gli allegati fotografici, a tale proposito, confermano che, nel caso
odierno, i balconi sono rilevanti: non rileva, in senso contrario, che una
porzione di essi sia interna alla facciata, sicché a sporgere è l’ultimo
tratto, di misura non superiore a mt 1,20: il balcone, apprezzato nella sua
integrità costruttiva e funzionale, è con ogni evidenza prolungamento della
vita abitativa.
4. Tali principi sono stati reiteratamente affermati dalla giurisprudenza
amministrativa, secondo la quale (ex plurimis, Cons. Stato, sez. V,
n. 6136 del 2019):
- l'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come
nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo
assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della
riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto
il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (Cass. civ., II,
26.01.2001, n. 1108; Cons. Stato, V, 19.10.1999, n. 1565; Cass. civ.,
II, ordinanza 03.10.2018, n. 24076).
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente
dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle loro
pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di
una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel
limitato segmento (Cass., n. 24076/2017, cit.).
Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere
cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al
giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi
(Cass. civ., II, 16.08.1993, n. 8725). La prescrizione di distanza in
questione è assoluta e inderogabile (Cass. civ., II, 07.06.1993, n. 6360;
09.05.1987, n. 4285;
- l'art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore
l'art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in
forza dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile
di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che
tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, e il giudice è tenuto ad applicare
tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli
strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente
inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima (Cass. civ., II,
29.05.2006, n. 12741).
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria,
costituisce un principio assoluto e inderogabile (Cass. civ., II,
26.07.2002, n. 11013), che prevale sia sulla potestà legislativa regionale,
in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (Corte Cost.,
sentenza n. 232 del 2005), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria
dei Comuni, in quanto derivante da una fonte normativa statale sovraordinata
(Cass. civ., II, 31.10.2006, n. 23495), sia infine sull'autonomia negoziale
dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che non sono nella
disponibilità delle parti (Cons. Stato, IV, 12.06.2007, n. 3094);
- la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici
antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non
alle sole parti che si fronteggiano (Cons. Stato, V, 16.02.1979, n. 89).
Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a
quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela (Cass., II, 30.03.2001, n. 4715), indipendentemente
dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e
che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente,
o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima
o a diversa altezza rispetto all'altra (Cass., II, 03.08.1999, n. 8383;
Cons. Stato, IV, 05.12.2005, n. 6909; 02.11.2010, n. 7731);
- è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della
parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si
trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza
minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di
finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si
trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra (Cons. Stato, IV,
05.12.2005, n. 6909; Cass. Civ., II, 20.06.2011, n. 13547; 28.09.2007, n.
20574);
- ai sensi dell'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per "pareti
finestrate" devono intendersi non soltanto le pareti munite di "vedute"
ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere
verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di
luce).
5.
Il Tribunale, sulla base di queste premesse in diritto, ha perciò disposto
CTU, allo scopo di verificare, in particolare, distanza e altezza.
Con riguardo alle distanze, nel supplemento di istruttoria, il CTU ha
erroneamente escluso i balconi, in applicazione dell’art. 9.4 delle NTA e
dell’art. 165 del regolamento edilizio, stimando che essi non avessero
aggetto superiore a mt 1,20.
Si sono già specificate sopra le ragioni per le quali, invece, la distanza
andasse calcolata dal punto di massima sporgenza dei balconi.
Adottando tale criterio, torna utile il calcolo delle distanze formulato con
la prima CTU, e che, del resto, la seconda CTU ha confermato sul piano
fattuale, pur impiegando poi erronei criteri giuridici al fine di concludere
per la sussistenza di una distanza maggiore di quella effettiva.
Se ne può concludere per una determinazione della distanza di soli metri
7,85, anziché almeno 10, dai balconi (da intendersi quale parete finestrata
ai fini dell’applicazione dell’art. 9 del DM 1444 del 1968: Cass. civ. n.
4834/2019) alla parete dell’edificio antistante della ricorrente.
5.1 Tuttavia, ciò rende verosimile, ma non provato, che il regime delle
distanze sia stato violato per tale aspetto.
Infatti, il CTU, dato atto che gli edifici si fronteggiano solo per l’unico
piano di quello della ricorrente e per il piano adibito a garage di quello
della controinteressata (in questo punto, la distanza è conforme alla legge,
in quanto pari a mt. 10,35), ha correttamente reputato di dover valutare la
distanza, anche a partire dai piani sopraelevati del nuovo edificio, ma ha
errato nell’assumere a punto di raffronto la proiezione verticale (e,
dunque, un punto meramente astratto) dell’immobile della ricorrente.
Viceversa, proprio perché la normativa sulle distanze è tesa a prevenire
intercapedini, è da ritenere che, nel caso in cui le pareti che si
fronteggino abbiano diversa altezza, la distanza è da calcolare “non in
relazione allo spazio vuoto esistente al di sopra del lastrico solare
dell’edificio”, “ma in relazione alla parete del detto edificio frontistante,
se pure più basso, la detta parete in sopraelevazione” (Cass. civ. n.
8383 del 1999).
6. A questo punto, sarebbe possibile un terzo accertamento peritale, per
determinare la distanza dai balconi, sulla base di tale criterio.
Tuttavia, in considerazione del fatto che la causa pende dal 2014 e per
ragioni di economia processuale, il Tribunale ritiene di potersi pronunciare
fin d’ora, posto che l’illegittimità dell’atto impugnato, quanto alle
distanze, emerge anche nel raffronto tra le pareti finestrate della
ricorrente e quelle della controinteressata, se calcolata a partire dal vano
scala A.
Anche a tale proposito, è necessario tenere fermo il calcolo offerto con la
prima CTU, che ha determinato la distanza in mt. 8,54, se calcolata dai
pilastri strutturali in cemento armato del vano scala A (e, poi, in 8,80 mt
con riferimento al cd. tracantone di cui al supplemento di perizia), e in
mt. 9.93, se calcolata dalla parete finestrata di tale vano scala.
Va subito precisato che a rilevare, tra le due, è la distanza minima di mt
8,54 (o 8,80/8,90: cfr supplemento di CTU), posto che essa è computata a
partire da “pilastri di cemento armato realizzati a chiusura del vano scala
A posto a nord-ovest della nuova palazzina” con “altezza di oltre 10 metri
ed una larghezza di oltre 60 cm ciascuno”, rappresentando “in modo
incontrovertibile degli elementi rilevanti ai fini del computo della
distanza” (prima CTU, pag. 8-9).
La giurisprudenza ha già chiarito che “non sono computabili nel calcolo
della distanza fra edifici gli sporti, le parti che hanno funzione
ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali),
le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, gli aggetti, gli elementi di
ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità; non possono
invece essere esclusi dal computo le pensiline, i balconi e tutte quelle
sporgenze che, per le particolari dimensioni, sono destinate anche ad
estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso
abitativo dell'edificio” (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV,
21/10/2013, n. 5108). Tale principio ha trovato recente applicazione
proprio con riguardo a “pilastri” che “creano un ingombro coerente a tutto
il manufatto” (Cons. Stato, sez. VI, n. 521 del 2021).
Nel caso di specie, la prima CTU ha perciò correttamente tenuto conto dei
“pilastri verticali portanti del nuovo edificio, in cui, in parte,
alloggiano anche le scale di accesso ai vari piani”.
6.1 Erronea, viceversa, è stata la decisione del CTU, in occasione del
supplemento istruttorio, di mutare del tutto la propria posizione, offrendo,
senza peraltro alcuna adeguata motivazione a supporto della nuova
conclusione, una indicazione delle distanze compatibili con l’art. 9 del DM
1444 del 1968.
Già l’assertività di tale mutamento di rotta, a fronte della esaustiva
motivazione svolta con la prima CTU, rende manifestamente incongruo, e
quindi da disattendere in questa sede, il rinnovato giudizio del consulente.
Se, poi, il nuovo calcolo dovesse essere il frutto dell’applicazione
dell’art. 9.4 delle NTA e dell’art. 165 del regolamento edilizio, come pare
intuibile dal supplemento istruttorio (pag. 7), esso sarebbe comunque da
respingere.
Il CTU osserva che la normativa edilizia applicabile nel territorio di
Fiumicino esclude dal calcolo delle distanze anche le scale “esterne”
sporgenti, che aggettano per meno di mt 1,20.
Tuttavia, tale osservazione, come posto in rilievo dal consulente di parte
della ricorrente, appare priva di pertinenza con riguardo al vano scala A,
giacché la prima CTU ha già acclarato che si è in presenza di un vano chiuso
generatore di cubatura (pag. 18), sicché nessuna “scala esterna” acquisisce
rilievo.
Inoltre, vale per ogni elemento sporgente quanto precisato in diritto in
ordine alla applicabilità, in tema di distanze minime ex DM 1444 del 1968,
della sola normativa statale, come interpretata dalla giurisprudenza, con la
conseguenza che né il cd. tracantone (definito come un “ringrosso del muro
contenente le tubazioni dei servizi”), né tanto meno i pilastri del vano
scala A, come sopra descritti, possono essere esclusi dal calcolo della
distanza.
Ed è rimarchevole, ancora una volta, che a tale corretta conclusione il CTU
fosse già giunto con la prima consulenza, ove si era escluso di poter
attribuire rilievo all’art. 9.4 delle NTA (pag. 16), cosicché non si
comprende in base a quali fattori egli abbia poi radicalmente cambiato
parere, ciò che costituisce un ulteriore vizio logico del supplemento
istruttorio, tale da imporre che esso venga disatteso dal Tribunale per tale
parte.
7. Da ultimo, rispondendo ad un quesito del consulente di parte a proposito
del vano scala A, il CTU si è poi soffermato sulla presunta abusività
dell’immobile della ricorrente, che, a suo tempo, non avrebbe a sua volta
rispettato le distanze di legge.
Ove tale precisazione fosse da intendersi nel senso che tale fattore possa
incidere sull’osservanza delle distanze da parte del nuovo edificio, essa
sarebbe da rigettare, posto che “le disposizioni dettate dal DM n. 1444 del
1968 art. 9 trovano applicazione in relazione alla situazione concreta, a
prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti (e) dalla loro
eventuale abusività” (Cass. civ. n. 2367 del 2021).
Non ha infatti pregio l’argomento di parte resistente, secondo cui
l’inosservanza delle distanze minime sarebbe da attribuire alla ricorrente,
che avrebbe edificato senza osservare lo stacco minimo dal confine
prescritto dalla normativa locale (metri 3,95, anziché 5.00, come rilevato
dal CTU).
La presente controversia verte esclusivamente sulla conformità a legge del
permesso di costruire rilasciato alla controinteressata (cfr Cons. Stato,
sez. IV, n. 2086 del 2017). In quest’ottica, il Comune (ferma l’attivazione,
che non vi è stata, di eventuali poteri di riduzione in pristino, ove
ammissibili) non poteva che prendere atto della situazione esistente in
loco, in base alla quale l’edificio della ricorrente sorgeva ad una certa
distanza dal confine; si trattava, cioè, di valutare sulla base di essa se
il nuovo immobile rispettasse o no la distanza minima, ed è tale valutazione
che si è dimostrata erronea nella presente causa.
Ed è appena il caso di osservare che l’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001,
invocato da parte resistente per negare il carattere essenziale della
variazione sulla distanza, è del tutto privo di pertinenza, perché regola la
fattispecie del tutto diversa degli interventi eseguiti in difformità dal
titolo abilitativo, e non certo la violazione della distanza minima di cui
all’art. 9 del DM 1444 del 1968.
7,1 In definitiva, il Tribunale reputa che la prima CTU apporti elementi
sufficienti per decidere la causa, quanto ai fatti che essa era tenuta ad
accertare, e che questi ultimi non siano inficiati dagli esiti del
supplemento dell’istruttoria, da rigettare sia perché manifestamente
incongrua, sia perché fondata su un’erronea applicazione della legge.
Non vi è dubbio, perciò, che il permesso di costruire impugnato sia
illegittimo, poiché in contrasto con il regime delle distanze minime
prescritto dall’art. 9, comma 2, del DM n. 1144 del 1968 (TAR
Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 05.03.2021 n. 2763 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
tra edifici: vanno rispettate anche nelle ristrutturazioni?
Se è evidente la violazione delle distanze tra edifici diventa irrilevante
la qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia.
Ergo l’art. 9 d.m. n. 1444/1968, che riguarda esclusivamente le nuove
costruzioni, è inapplicabile (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 05.03.2021 n. 1867 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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1.1. - La censura, nei suoi diversi profili, va respinta.
In merito all’applicabilità dell’evocato art. 9 D.M. 1444 del 1968 e
all’individuazione della nozione di ‘nuova costruzione’, occorre
sottolineare come il mero rinvio all’art. 3, lett. e), del d.P.R. 380 del
2001 non appaia dirimente.
La giurisprudenza, sia amministrativa (da ultimo, Cons. Stato, IV, 08.01.2018, n. 72; id., IV,
02.03.2018, n. 1309) che civile (Cass. civ., II, 15.12.2020, n. 28612; id., II, 28.10.2019, n. 27476; id., II, 10.02.2020, n. 3043) ha evidenziato una tendenziale autonomia del
concetto in ambito civilistico, rimarcando che, ai fini dell'osservanza
delle norme sulle distanze legali tra edifici di origine codicistica, la
nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve
estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i
caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di
fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal
livello di posa e di elevazione dell'opera (Cons. Stato, IV, 22.01.2013, n. 354).
Nel caso in esame, anche a volersi unicamente fondare sulla relazione
tecnica di parte (che ritiene che nel progetto “vengano riprese, con
modifiche sia interne che esterne, le voci già oggetto della concessione
ormai scaduta. La maggior parte delle opere previste interessano la
copertura con una variazione minima di volume in diminuzione, determinata
dalla compensazione tra volumi in aumento e volumi in detrazione. Le opere
prevedono modifiche statiche solo nell’orditura del tetto, mentre tutte le
strutture portanti dell’edificio non vengono modificate dagli interventi in
progetto”), vengono comunque in evidenza interventi sulla volumetria
dell’immobile. In particolare, come notato dal TRGA, rileva il sollevamento
della falda sul lato nord, dove è prevista la realizzazione di una terrazza,
e quello della falda sul lato sud, dove ci sarà l’innalzamento della
copertura su una parte del prospetto in sostituzione del precedente abbaino,
che era decisamente più ridotto.
In relazione ai singoli elementi progettuali, la violazione delle distanze
appare quindi evidente, essendo così conseguentemente irrilevante la vantata
qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia.
Va inoltre qui vagliata la circostanza che, nel computo complessivo della
volumetria, l’intervento, compensando aumenti e diminuzioni, determina una
complessiva riduzione dell’impatto; il che, a giudizio della parte
appellante, renderebbe l’intervento non significativo anche dal punto di
vista civilistico.
Tuttavia, tale esito appare recessivo di fronte all’esigenza di tutelare le
distanze che, come recita il citato art. 9, sono quelle minime e che quindi
possono essere violate anche solo puntualmente, atteso che il carattere di
nuova costruzione va riscontrato in rapporto ai “caratteri del suo sviluppo
volumetrico esterno” (Cass. civile, II, 15.12.2020, n. 28612).
Conclusivamente sul punto, la censura, che si attaglia sulla dimostrazione
della natura di ristrutturazione edilizia dell’opera, appare superata
dall’esigenza dell’autonoma sussunzione nel concetto di nuova costruzione ai
fini dell’applicazione della disciplina delle distanze legali.
In merito alla censura sull’erronea applicazione della stessa disposizione,
non essendovi pareti finestrate contrapposte, va condiviso l’approccio del
Tribunale, che ha evidenziato come la disposizione regolamentare sia
integrata, a livello locale, dall’art. 1, lett. h), delle Norme di
attuazione al piano urbanistico comunale di Bolzano rielaborate, come
vigenti al momento del provvedimento, che recita:
“h) Distanza tra edifici: è la distanza minima radiale misurata
in proiezione orizzontale tra le pareti più sporgenti degli edifici siti
sullo stesso lotto o su lotti finitimi e/o dalla superficie coperta. Tale
distanza nei fabbricati ad eccezione di fabbricati accessori preesistenti
non può essere inferiore a 10 metri, salvo nel caso di fabbricati con pareti
prive di vedute, come da codice civile.”
È palese che la disposizione comunale introduca strumenti più restrittivi di
calcolo dell’osservanza delle distanze, utilizzando il criterio della
distanza radiale, ossia non solo per gli interventi fronteggianti, ma
valevole in ogni caso in cui la nuova costruzione vada ad intaccare lo
spazio circostante gli edifici preesistenti, come considerato dalla
disposizione comunale. Il che impone di considerare corretta la valutazione
svolta dal primo giudice.
Infine, per quanto riguarda l’applicazione del calcolo radiale, questo è
espressamente citato dalla normativa comunale applicabile; mentre in
relazione alla possibilità che quest’ultima introduca limiti più rigorosi,
va ricordato l’insegnamento di Corte cost., 16.06.2005, n. 232 per cui
“in materia di distanze tra fabbricati, primo principio, fissato in epoca
risalente ma ancora di recente ribadito, è che la distanza minima sia
determinata con legge statale, mentre in sede locale, sempre ovviamente nei
limiti della ragionevolezza, possono essere fissati limiti maggiori.”
Conclusivamente, il motivo di ricorso deve essere integralmente respinto in
tutte le sue sfaccettature. |
EDILIZIA PRIVATA: Quando va osservata la distanza di dieci metri? La distanza di dieci metri dalle pareti finestrate di preesistenti edifici,
prevista dall’art. 9 d.m. n. 1444/1968, va osservata anche quando la nuova
costruzione sia fronteggiata da un balcone che aggetta da una parete in sé
non frontistante.
L’abuso edilizio di per sé non può incidere negativamente sulla
posizione giuridica di chi intende esercitare il diritto di edificare.
La giurisprudenza, infatti, ha avuto modo di chiarire che il diritto di
edificare attribuito dalla legge al proprietario dell’area (ovvero a chi ne
abbia titolo), qualora non sia legittimamente escluso od impedito dalla
norma urbanistica, deve trovare attuazione immediata e piena, tenuto conto
che la stessa legge fa salvi soltanto “i diritti” dei terzi, ma non
certo le “illiceità edilizie” dei terzi.
Questa conclusione, del resto, è coerente con il diritto vivente secondo cui
nel processo amministrativo non è data possibilità di tutela del c.d.
interesse illegittimo o emulativo.
La verifica della “distanza minima legale tra costruzioni” va operata
nel momento in cui il cittadino legittimamente chiede di poter esercitare il
proprio jus aedificandi, mentre l’eventuale successiva sanatoria
dell’illecito edilizio non assume rilievo impeditivo, tenuto conto che non
appare razionalmente giustificabile come una valutazione posteriore (quella
relativa alla sanabilità dell’abuso), inesistente all’atto dello svolgimento
del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire ed al
momento dell’adozione del relativo provvedimento, possa pregiudicare, con un
sostanziale effetto retroattivo, il diritto anteriormente sorto e
realizzatosi.
In conclusione, l’abuso edilizio in sé considerato, e cioè quello per cui
l’interessato non abbia attestato l’intervenuta sanatoria o l’intervenuto
condono al momento in cui occorre valutare la domanda del confinante di
edificare sul proprio suolo, non può essere ex se rilevante e idoneo a
paralizzare la posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena
il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio
discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite.
Tale itinerario argomentativo porta ad escludere in tutti i casi, anche con
riferimento alla sopraelevazione di un immobile, che il proprietario di un
immobile abusivo limitrofo possa dolersene in giudizio.
In altri termini, non potendo la costruzione illecita interferire sul
diritto del confinante ad edificare, il proprietario di un’opera abusiva non
può ritenersi legittimato ad agire in giudizio avverso il titolo edilizio
rilasciato al proprietario del fondo finitimo.
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L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per
i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri
tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono
unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e
che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere
vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può
fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua,
la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui
la veduta obliqua si esercita.
Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini
pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a
differenti esigenze di tutela.
La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica
sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865,
che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi
confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico
assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente
tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità
all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare
con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire
che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio
cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e
riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche
interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui
appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo
da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una
determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il
fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi
indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il
diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata
unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una
distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente
compressione dell'altrui diritto alla riservatezza.
La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento
edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e
della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma
mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per
l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti.
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono
coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla
nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina
predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma
è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino
intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un
adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima
fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti
finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico
sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da
compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione
luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti
esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e
tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che
dispongano in maniera riduttiva.
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In ragione della ratio prima
descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla
stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra.
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione,
rilevato che i balconi della proprietà De Falco insistono su una parete
posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà
Palma, se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi
dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti
di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo,
è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le
sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di
gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai
predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni,
come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza.
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto
delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e
profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi
costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non
corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione,
per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica
dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per
i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie
abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, anche di recente, la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma
non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto
trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta,
conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le
pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite
di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia
aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia
finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune nel
provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non
costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato
dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici
che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti
addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente
(perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
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Dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla parete dei
signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della parete della
signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla
parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone
che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De
Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del
balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che,
ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà
confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si
trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –secondo quanto dedotto dalla parte ed
indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15
dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una
sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è
servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante,
con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate
fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità
degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una
parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri
perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le
pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una
rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri
perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità,
determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto
della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto)
di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano
l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la
presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo
retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in
esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte
all’altro, anche per obliquo:
a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima
rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti
considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della
misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per
le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed
ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è
quello di evitare le intercapedini dannose.
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle
facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la
misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate
avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De
Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino
scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del
D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
---------------
11. Le questioni oggetto del presente, articolato, giudizio sono
sostanzialmente tre:
a) la legittimazione dei signori De Fa. ad agire in giudizio per
contestare il titolo edilizio rilasciato alla signora Na.Pa.;
b) la realizzazione della costruzione della signora Pa.in assenza o
in difformità ai titoli abilitativi in precedenza rilasciati, il che, ai
sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), della L.R. Campania n. 19 del 2009,
escluderebbe la possibilità della realizzazione, con i benefici del c.d.
piano casa, dell’intervento edilizio oggetto del presente giudizio;
c) il rispetto delle distanze minime legali tra i fabbricati.
11.1. L’appellante principale ha dedotto l’insussistenza della
legittimazione all’impugnazione da parte dei signori De Fa., in ragione
dell’abusività dei loto titoli edilizi.
L’insussistenza delle condizioni soggettive dell’azione, peraltro, potrebbe
e dovrebbe anche essere rilevata d’ufficio dal giudice.
11.1.1. La questione assume evidente rilievo in quanto l’abuso edilizio di
per sé non può incidere negativamente sulla posizione giuridica di chi
intende esercitare il diritto di edificare.
La giurisprudenza, infatti, ha avuto modo di chiarire che il diritto di
edificare attribuito dalla legge al proprietario dell’area (ovvero a chi ne
abbia titolo), qualora non sia legittimamente escluso od impedito dalla
norma urbanistica, deve trovare attuazione immediata e piena, tenuto conto
che la stessa legge fa salvi soltanto “i diritti” dei terzi, ma non
certo le “illiceità edilizie” dei terzi (cfr. Cons. Stato, IV, n.
1874 del 2009, richiamata da Cons. Stato, IV, n. 3968 del 2015).
Questa conclusione, del resto, è coerente con il diritto vivente secondo cui
nel processo amministrativo non è data possibilità di tutela del c.d.
interesse illegittimo o emulativo (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. n. 5 del
2015; n. 9 del 2014).
La verifica della “distanza minima legale tra costruzioni” va operata
nel momento in cui il cittadino legittimamente chiede di poter esercitare il
proprio jus aedificandi, mentre l’eventuale successiva sanatoria
dell’illecito edilizio non assume rilievo impeditivo, tenuto conto che non
appare razionalmente giustificabile come una valutazione posteriore (quella
relativa alla sanabilità dell’abuso), inesistente all’atto dello svolgimento
del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire ed al
momento dell’adozione del relativo provvedimento, possa pregiudicare, con un
sostanziale effetto retroattivo, il diritto anteriormente sorto e
realizzatosi.
In conclusione, l’abuso edilizio in sé considerato, e cioè quello per cui
l’interessato non abbia attestato l’intervenuta sanatoria o l’intervenuto
condono al momento in cui occorre valutare la domanda del confinante di
edificare sul proprio suolo, non può essere ex se rilevante e idoneo a
paralizzare la posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena
il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio
discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite.
Tale itinerario argomentativo porta ad escludere in tutti i casi, anche con
riferimento alla sopraelevazione di un immobile, che il proprietario di un
immobile abusivo limitrofo possa dolersene in giudizio.
In altri termini, non potendo la costruzione illecita interferire sul
diritto del confinante ad edificare, il proprietario di un’opera abusiva non
può ritenersi legittimato ad agire in giudizio avverso il titolo edilizio
rilasciato al proprietario del fondo finitimo.
11.1.2. Trasponendo tali concetti dal generale al particolare, nella
fattispecie in esame, occorre accertare quale sia la situazione edilizia in
cui versano gli immobili di proprietà dei signori De Fa. fronteggianti
l’immobile della signora Pa. al momento del rilascio a quest’ultimo dal
titolo edilizio in contestazione.
L’immobile si divide in tre unità abitative: l’appartamento posto al secondo
piano (terzo piano fuori terra), di proprietà Salvatore De Fa.;
l’appartamento posto al primo piano (secondo fuori terra), di proprietà Ci.
De Fa.; l’appartamento posto al piano terra (primo piano fuori terra), di
proprietà Ca. De Fa..
Gli immobili posti al piano terra ed al primo piano di proprietà,
rispettivamente, dei signori Ca. De Fa. e Ci. De Fa. sono stati assentiti
con concessioni edilizie in sanatoria rilasciate in data 06.05.2004, ormai
inoppugnabili.
L’immobile posto al secondo piano, di proprietà del signor Sa. De Fa.,
invece, è stato assentito da permesso di costruire in sanatoria rilasciato
in data 18.07.2019, sicché, al momento del rilascio dei titoli contestati ed
al momento della proposizione del ricorso in primo grado, lo stesso
risultava abusivo.
Di contro, gli abusi afferenti la realizzazione sui balconi dei tre piani di
piccole verande, in quanto non “coprenti” l’intera metratura dei
balconi stessi, non assumono rilievo ai fini in discorso.
Infatti, nonostante tali abusi insistano sui balconi da cui occorrerebbe
calcolare le distanze, i piccoli manufatti abusivi, per come si evince dalla
documentazione fotografica versata in atti ed a prescindere dal fatto che
siano stati o meno abusivamente riproposti dopo la loro demolizione, coprono
in piccola parte la superficie dei balconi, i quali, quindi, non hanno perso
le loro caratteristiche essenziali e la loro destinazione d’uso.
Ne consegue che sussiste la legittimazione a contestare l’intervento
edilizio assentito alla signora Pa. atteso che, al momento del rilascio dei
titoli edilizi e della proposizione del ricorso in primo grado, risultavano
comunque assentiti i primi due piani della proprietà De Fa., sicché
potrebbe eventualmente escludersi la legittimazione all’impugnazione da
parte del solo signor Sa. De Fa., proprietario dell’unità immobiliare a quel
momento ancora abusiva, ma tale circostanza non è idonea ad escludere la
complessiva legittimazione alla proposizione del ricorso.
11.2. I signori De Fa., con l’appello proposto in via incidentale, hanno
sostenuto che la signora Palma non avrebbe potuto beneficiare del permesso a
costruire richiesto, in considerazione della causa di esclusione contenuta
nell’art. 3, comma 1, lett. a), della più volte menzionata L.R. Campania n.
19 del 2009.
11.2.1. Il motivo di doglianza non è persuasivo.
11.2.2. L’art. 3, comma 1, lett. a), della L.R. Campania n. 9 del 2009
prevede che gli interventi edilizi di cui agli articoli 4, 5, 6-bis e 7, non
possono essere realizzati su edifici che, al momento della presentazione
della denuncia di inizio di attività edilizia o della richiesta di permesso
di costruire, risultano realizzati in assenza o in difformità al titolo
abilitativo per i quali non sia stata rilasciata concessione in sanatoria.
In proposito, occorre preliminarmente rilevare che l’art. 32 del d.P.R. n.
380 del 2001, al primo comma, determina le variazioni essenziali, disponendo
che l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle
seguenti condizioni:
a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli
standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio
da valutare in relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del
progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di
pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio
assentito;
e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia
antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
Il secondo comma dello stesso articolo, inoltre, indica che non possono
ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità
delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative.
Il provvedimento di convalida, come prima indicato, è stato adottato in
quanto l’Amministrazione ha qualificato non essenziali, ai sensi dell’art.
32 del d.P.R. n. 380 del 2001, le difformità tra lo stato di progetto
dell’originario PdC n. 55 del 2008 e successiva variante e lo stato di fatto
di cui al PdC n. 76 del 2016 e, a tal fine, la convalida ha fatto
riferimento alle relazioni del 23.03.2018 e del 03.04.2018, riguardanti i
sopralluoghi effettuati dal responsabile del procedimento.
In particolare, dal sopralluogo del 30.03.2018, di cui alla relazione del
03.04.2018, è emerso che:
“Per quanto riguarda la verifica del piano seminterrato, riportato nei
grafici progettuali come ‘area non rilevata’, è stato verificato lo stato
dei luoghi rispetto a quanto assentito con il permesso di Costruire n. 55
del 23.10.2008.
In data 30.3.2018 lo stato di fatto presenta una diminuzione della
superficie calpestabile e delle difformità di distribuzione interna e
aperture esterne rispetto al permesso di costruire n. 55/2008, in
particolare è stata ampliata la zona garage ed è stata realizzata a 9,57 m
circa dall’ingresso del garage la parete divisoria con il locale deposito
con annesso wc.
Il primo piano ed il piano secondo sono realizzati in conformità ai grafici
stato di fatto allegati al permesso di costruire n. 76 del 27.12.2016.
Dalla verifica della documentazione agli atti d’ufficio si fa rilevare che
lo stato di fatto del piano primo e del piano secondo riportato nei grafici
allegato al permesso di costruire n. 76/2016 presentano delle difformità in
termini di distribuzione interna e apertura dei vani esterni rispetto a
quanto assentito con il permesso di costruire n. 55/2008”.
Pertanto, il Comune di Volla, ritenuto che il piano seminterrato non ha
cambiato destinazione d’uso e che sono state rilevate difformità in termini
di distribuzione interna e apertura dei vani esterni, ha qualificato come
non essenziali le variazioni.
Tale qualificazione, sulla base della indicata relazione, non appare
irragionevole.
Né, i signori De Fa. hanno specificamente contestato l’esito dei
sopralluoghi svolti dall’Amministrazione comunale, deducendone il
travisamento dei fatti, nemmeno attraverso l’eventuale proposizione di una
querela di falso o con gli altri strumenti di tutela previsti, per cui deve
ritenersi che non abbiano fornito un adeguato supporto probatorio alla loro prospettazione relativa all’avvenuto cambio di destinazione d’uso del piano
seminterrato in abitazione ed alla presenza di altre modifiche in ipotesi
essenziali, in misura tale da sovvertire l’istruttoria e la valutazione
operata dall’Amministrazione.
11.3. La signora Pa., così come il Comune di Volla nel suo appello
incidentale, hanno contestato la statuizione della sentenza impugnata, con
cui è stato ritenuto fondato il motivo di impugnativa relativo alla
violazione delle norme sulle distanze.
11.3.1. Il giudice di primo grado ha così motivato sul punto:
“Orbene, nella fattispecie che occupa il Tribunale evidenzia come dai
grafici versati in atti e dalle stesse foto corredanti la relazione di
chiarimenti depositata dall’Amministrazione resistente, emerge che il
progetto assentito con gli impugnati titoli edilizi preveda la realizzazione
di un vano scale di nuova costruzione posto in aderenza al muro di confine
con la proprietà dei ricorrenti, nella parte non edificata, il quale risulta
posto ad una distanza inferiore ai dieci metri prescritti dalla parete
frontistante dell’edificio di proprietà di quest'ultimi, costituita da un
prolungamento ad “L” del fabbricato in cui sono inclusi i balconi.
Per quanto sin qui osservato appare evidente che il provvedimento prot. n.
23138 del 31.07.2018, con cui il Comune di Volla, all'esito del procedimento
di autotutela avviato con comunicazione prot. n. 10933 del 06.04.2018, ha
convalidato il permesso a costruire n. 76 del 27.12.2016 e la successiva
SCIA prot. n. 5014 del 13.12.2018 presentata dalla controinteressata, e gli
stessi provvedimenti sottostanti tutti ritualmente impugnati dai ricorrenti,
sono illegittimi quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della
precedente scala esterna scoperta, in quanto tutti fondati sull’erroneo
presupposto che il rispetto della distanza di 10 metri imposta dal D.M. 1444
del 1968 è applicabile unicamente alle pareti che si fronteggiano, che il
balcone non è riconducibile al concetto di parete finestrata e che la
misurazione delle distanze in tale caso deve avvenire in modo lineare e non
radiale.
Le suesposte considerazioni risultano decisive -quanto alla realizzazione
del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta- ai fini
dell’accoglimento del ricorso per come integrato dai primi motivi aggiunti …”.
11.3.2. L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per
i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri
tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono
unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e
che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere
vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può
fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua,
la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui
la veduta obliqua si esercita.
11.3.3. Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini
pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a
differenti esigenze di tutela.
11.3.3.1. La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica
sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865,
che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi
confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico
assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente
tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità
all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare
con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire
che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio
cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e
riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche
interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui
appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo
da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una
determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il
fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi
indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il
diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata
unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una
distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente
compressione dell'altrui diritto alla riservatezza (cfr. sentenza della
Corte costituzionale n. 394 del 1999).
11.3.3.2. La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento
edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e
della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma
mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per
l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti (cfr. Corte Cass.
II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834).
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono
coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla
nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina
predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma
è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino
intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un
adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima
fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti
finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico
sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da
compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione
luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti
esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e
tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che
dispongano in maniera riduttiva (Cons. Stato, IV, 31.03.2015, n. 1670).
11.3.4. La questione maggiormente problematica che si pone nella fattispecie
in esame, quindi, è quella di verificare se debba trovare applicazione
l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, come ritengono i signori De Fa., o se
non sussistono i presupposti per l’applicazione di tale norma, come
sostenuto dal Comune di Volla e dalla signora Na.Pa..
Il Collegio ritiene che la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968
sussiste, in quanto la fattispecie concreta rientra nella fattispecie
astratta prevista dalla norma.
In primo luogo, occorre considerare che, in ragione della ratio prima
descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla
stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass. Civ., II,
ordinanza 19.02.2019, n. 4834 cit.).
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione,
rilevato che i balconi della proprietà De Falco insistono su una parete
posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà
Palma, se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi
dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti
di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo,
è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le
sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (Cfr. Cass. Civ.,
19.09.2016, n. 12828).
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella
categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto
quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od
accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di
gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai
predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni,
come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di
apprezzabile profondità ed ampiezza (cfr. Cass. Civ., II, 19.09.2016, n.
12828, che richiama Cass. 17242/2010; 12964/2006; 1556/2005).
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto
delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e
profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi
costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non
corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione,
per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica
dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per
i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie
abitativa dei vani che vi accedono (cfr. Cons. Stato, VI, 10.09.2018, n.
5307, che richiama Cons. Stato, V, 13.03.2014, n. 1272 e Cons. Stato, IV,
21.10.2013, n. 5108).
In proposito, anche di recente (cfr. Cass. Civ., ordinanza 19.02.2019, n.
4834), la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma
non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come
finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto
trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta,
conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le
pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite
di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia
aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia
finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune di Volla nel
provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non
costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato
dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici
che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti
addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente
(perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
Infatti, dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla
parete dei signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della
parete della signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla
parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone
che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De
Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del
balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che,
ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà
confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si
trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –secondo quanto dedotto dalla parte ed
indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15
dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una
sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è
servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante,
con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate
fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità
degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una
parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri
perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le
pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una
rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri
perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità,
determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto
della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto)
di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano
l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la
presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo
retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in
esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte
all’altro, anche per obliquo (Cass. civ., sez. II, 01.10.2019, n. 24471):
a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima
rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti
considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della
misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per
le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed
ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è
quello di evitare le intercapedini dannose (Cass. Civ., sez. II, 25.06.1993,
n. 7048).
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle
facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la
misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate
avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De
Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino
scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del
D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
Ciò è sufficiente ad escludere la fondatezza dei motivi di appello proposti
dalla signora Palma e dal Comune di Volla.
11.3.5. Per altro verso, è da escludere però la contestuale violazione
dell’art. 907 c.c., in quanto i signori De Fa. non hanno dato prova, neppure
presuntiva, di avere acquistato il diritto di avere vedute dirette o oblique
sul fondo vicino (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 04.03.2021 n. 1841 -
link a www-giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La distanza di 10 metri nelle nuove costruzioni.
La distanza, nelle nuove costruzioni, di dieci metri dalle pareti finestrate
di edifici frontistanti, prevista dall’art. 9 d.m. n. 1444/1968, va
osservata quantunque l’edificio prospiciente sia abusivo
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 04.02.2021 n. 2637 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione
dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, degli artt. 872 e 873 c.c. e dei
principi in tema di distanze tra pareti finestrate, in relazione all'art.
360 n. 3 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la
corte d'appello ha ritenuto legittimo l'edificio dell'appellante principale
sul rilievo che, ai fini del calcolo delle distanze, non bisogna tener conto
dei manufatti abusivi.
1.2. Così facendo, infatti, ha osservato il ricorrente, la corte d'appello
ha violato sia il principio per cui la distanza di dieci metri tra pareti
frontestanti deve essere rispettata anche nel caso in cui nella prima
costruzione vi siano abusi edilizi, sia il principio per cui, ai fini
dell'applicazione delle distanze tra pareti finestrate, è sufficiente che le
finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta senza che sia
necessario che insistano nelle parti in cui le pareti effettivamente si
fronteggiano.
1.3. L'applicazione dei predetti principi comporta, ha concluso il
ricorrente, che la concessione edilizia che ha autorizzato l'appellante a
costruire l'edificio sul confine tra i fondi e a distanza di cinque metri
dalla parete finestrata del Lo., è illegittima e deve essere, quindi,
disapplicata, come aveva correttamente ritenuto il tribunale.
...
9.1. Il primo motivo, nei limiti che seguono, è fondato, con
assorbimento di tutti gli altri.
9.2. Questa Corte, infatti, ha avuto più volte modo di affermare che la
natura abusiva della costruzione (preventivamente realizzata) rileva
unicamente nei rapporti con l'amministrazione pubblica e non anche ai fini
del rispetto delle distanze legali (cfr., sul punto, Cass. n. 21354 del
2017, in motiv.).
In effetti, le norme di cui all'art. 872, comma 2°, c.c. in tema di distanze
tra costruzioni nonché quelle che in tale materia sono integrative del
codice civile sono le uniche che consentano, in caso di loro violazione
nell'ambito dei rapporti interprivatistici, la richiesta, oltre che del
risarcimento del danno, anche della riduzione in pristino, a nulla
rilevando, per converso, il preteso carattere abusivo della costruzione
finitima, il suo insediamento in zona non consentita, la disomogeneità della
sua destinazione rispetto a quella (legittimamente) conferita al fabbricato
del privato istante in conformità con le disposizioni amministrative in
materia e la sua insuscettibilità di sanatoria amministrativa, trattandosi
di circostanze che, pur legittimando provvedimenti demolitori o ablativi da
parte della pubblica amministrazione e pur essendo astrattamente idonee a
fondare una pretesa risarcitoria in capo al presunto danneggiato, non
integrano, in alcun modo, gli (indispensabili) estremi della violazione
delle norme di cui agli artt. 873 e SS. c.c. (Cass. SU n. 5143 del 1998).
Nello stesso modo, le disposizioni dettate dall'art. 9 del d.m. n. 1444 del
1968 trovano applicazione in relazione alla situazione concreta, a
prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti, dalla loro
eventuale abusività o da altre disposizioni in senso contrario contenute
negli strumenti urbanistici (C.d.S. n. 2086 del 2017, in motiv.).
In effetti, in tema di distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui
la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce
nell'ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi
ai rapporti tra privati, deve essere inteso nel senso che il conflitto tra
proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere
risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive
dell'opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le
quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la
concessione edilizia, perché queste riguardano solo l'aspetto formale
dell'attività costruttiva, con la conseguenza che, così come è irrilevante
la mancanza di licenza o concessione edilizia allorquando la costruzione
risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle
norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l'aver eseguito
la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non
esclude di per sé la violazione di dette prescrizioni e quindi il diritto
del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento
dei danni (Cass. n. 7563 del 2006, la quale ha confermato la sentenza di
merito che aveva accertato la violazione delle distanze da parte del
fabbricato del ricorrente: questi aveva censurato la decisione sostenendo
che i resistenti avevano costruito in assenza di concessione ma la S.C. ha
affermato, conclusivamente, che una volta che il fabbricato sia stato
costruito, anche in assenza di concessione, il secondo frontista, in
osservanza del principio della prevenzione, è tenuto a rispettare la
distanza legale tra gli edifici, a meno che non abbia acquistato in base ad
un titolo valido il corrispondente diritto di servitù; conf., per
l'affermazione dello stesso principio, Cass. n. 10173 del 1998; Cass. n.
10875 del 1997; Cass. n. 4372 del 2002; in seguito, Cass. n. 17286 del 2011;
Cass. n. 4833 del 2019).
9.3. La sentenza impugnata, lì dove ha ritenuto che "gli edifici abusivi
non possono essere tenuti in considerazione nel calcolo delle distanze",
potendosi imporre alla erigenda costruzione il rispetto dei dieci metri solo
se i corpi in questione sono stati legittimamente realizzati, e che, di
conseguenza, nel caso esaminato, a fronte delrabusività delle aperture
praticate dal Lo. nella parete antistante il fabbricato della Pe. ",
quest'ultima non era tenuta all'osservanza della distanza legale di metri 10
tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti prevista dall'art. 9
del Decreto Ministeriale 1448/1968", non si è, evidentemente, attenuta
ai principi esposti. |
EDILIZIA PRIVATA: Le norme di edilizia locale.
In tema di distanze tra edifici, laddove le norme di edilizia locale
prescrivono per le costruzioni distanze maggiori di quelle previste dal
codice civile, fissandole in relazione al confine, le stesse hanno carattere
integrativo della disciplina contenuta nel codice civile.
Ne deriva che la
violazione di tali distanze dà diritto ad ottenere non solo la tutela in
forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al
verificarsi dell’illecito, ma anche quella risarcitoria
(TRIBUNALE di Asti, Sez. I, sentenza 20.10.2020 n. 558 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanza di dieci metri tra edifici antistanti.
La disposizione contenuta nell’art. 9 del d.min. n. 1444 del 1968 sulla
distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti ha
carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale
predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di
sicurezza.
Tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse
pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari
degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal
codice civile
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.06.2020 n. 3710
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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8.1.‒ In punto di diritto, le disposizioni sulle distanze
legali a cui il Comune avrebbe dovuto far riferimento per accertare la
legittimità delle opere erano quelle vigenti al momento della costruzione
dell’edificio preesistente, nel 1962.
Va premesso che, secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato (sentenze 14.09.2017, n. 4337; 23.06.2017, n. 3093; 08.05.2017, n. 2086; 29.02.2016, n. 856), la disposizione contenuta
nell’art. 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 sulla distanza di
dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere
inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in
via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione
delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali
distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non
già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla
disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Tuttavia, la disposizione dell’art. 9, n. 2, D.M. n. 1444 riguarda «nuovi
edifici», intendendosi per tali gli edifici «costruiti per la prima volta» e
non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non
avrebbe senso prescrivere distanze diverse
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art. 41-quinquies, della
legge 17.08.1942 n. 1150, «i limiti inderogabili di densità edilizia, di
altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi» (quelli
di cui al successivo D.M. n. 1444/1968), sono imposti «ai fini della
formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti». Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la
«nuova» pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente,
tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente”
non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica).
Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso art. 9, per le
zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che
le distanze «non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i
volumi edificati preesistenti».
Difatti, il discrimen in tema di distanze, nella ratio dell'art. 9, non è
dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del
tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di
un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non
potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa,
tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un
immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso
di specie), si otterrebbe che da un lato, l'immobile de quo non potrebbe
essere demolito e ricostruito, se non arretrando rispetto all’allineamento
preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi,
quindi, un improprio “effetto espropriativo” del decreto ministeriale n.
1444 del 1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare
della deroga di cui all'ultimo comma dello stesso art. 9, allorquando la
demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse
prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio
plano volumetrico. Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art.
9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi
conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le norme sulle distanze di cui
al D.M. n. 1444 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e
non già ad interventi specifici sull'esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per effetto di una non
coerente applicazione dell'art. 9), produrrebbe esso stesso non solo un
disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus
estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed
intercapedini essi stessi nocivi per le condizioni di salubrità, igiene,
sicurezza e decoro, che invece l’art. 9 intende perseguire.
In definitiva, la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda
immobili o parti di essi costruiti (anche in sopra elevazione) “per la prima
volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può
riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di
immobili preesistenti con successiva ricostruzione. |
EDILIZIA PRIVATA: Violazione delle distanze tra gli edifici.
Accertata la violazione delle distanze tra edifici, in luogo della
demolizione totale di un manufatto è da preferire, laddove possibile, la
soluzione della modificazione dello stesso tale da eliminarne i vizi,
nell’ottica del rispetto prioritario della legge ma anche del
contemperamento delle esigenze di entrambe le parti
(TRIBUNALE di Livorno, sentenza 10.06.2020 n. 413 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Azione per violazione delle distanze tra edifici e onere probatorio.
In tema di violazione delle distanze tra edifici l’attore deve dimostrare
oltre alla violazione della distanza secondo i regolamenti locali anche che
il titolare dell’azione aveva acquistato anteriormente l’immobile e con esso
il diritto alla veduta
(nel caso di specie, il ricorrente aveva fatto un vago cenno alla presunta
violazione dei diritti di affaccio e di veduta ma nel corso dell’istruttoria
l’attenzione era stata focalizzata solo sulla presunta violazione delle
distanze legali tra costruzioni che non era stata provata)
(TRIBUNALE di Grosseto, sentenza 28.03.2020 n. 291 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Violazione distanze tra edifici: il risarcimento del danno.
Il risarcimento del danno conseguente alla violazione delle distanze tra
edifici è in re ipsa e non è necessario provarlo. (Nel caso di specie si
trattava di una veranda che ampliava ed estendeva la consistenza del
fabbricato)
(TRIBUNALE di Grosseto, sentenza 21.03.2020 n. 272 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: discipline applicabili e limiti di derogabilità.
In tema di distanze tra edifici le norme attinenti al piano regolatore
generale e dalle norme tecniche di attuazione possono essere invocate
seppure abbiano natura integrativa a quanto disposto dal codice civile
mentre le disposizioni previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968 possono essere
derogate solo dalla legge (nel caso di specie, si trattava di un intervento di recupero di un
sottotetto ove non erano stati rispettati i limiti previsti per le distanze
tra le costruzioni ex art. 9 D.M. 1444/1968)
(TRIBUNALE di Pavia, Sez. III, sentenza 12.03.2020 n. 365 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici ed elementi accessori.
Nelle distanze tra edifici, non possono considerarsi i montanti di una
tettoia/pergolato in quanto rientrano nella categoria degli sporti e non
computabili ai fini delle distanze. Trattasi di elementi con funzione
accessoria
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.01.2020 n. 117 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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3. Anche il secondo motivo è infondato.
In merito, assorbite le questioni relative alla qualificazione della
tettoia/pergolato come costruzione, deve ritenersi che i ricorrenti non
abbiano dato sufficiente prova delle violazione delle distanze.
Come chiarito dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza
22.11.2013 n. 5557) la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di
edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va
calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati rispetto ai quali si
denuncia la violazione delle distanze e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
E’ chiaro quindi che occorre considerare come punto di riferimento, secondo
quanto correttamente affermato dal Comune, la linea esterna della parete
ideale della tettoia/pergolato (interna al terrazzo) e non il limite esterno
del terrazzo stesso, trattandosi di verificare le distanze dalla
tettoia/pergolato e non dal terrazzo.
Né a tal fine possono valere i montanti della tettoia/pergolato in quanto
essi rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle
distanze, trattandosi di elementi con funzione meramente ornamentale, di
rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le
canalizzazioni di gronda e simili) (in tal senso Corte di Cassazione, Sez.
II civile, 19.01.2018 n. 1365).
Va poi considerato che, se è pur vero che il processo amministrativo secondo
il tradizionale modello impugnatorio è retto, dal punto di vista
istruttorio, dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, ciò non può
essere inteso nel senso che la parte ricorrente, la quale si dolga di un
atto dell’Autorità, possa limitarsi alla mera contestazione dei presupposti
di fatto e di diritto sui quali si è radicata l’azione amministrativa e
attendere che sia il giudice ad acquisire il materiale probatorio necessario
al giudizio, dovendo essa, invece, offrire –a sostegno della pretesa
azionata in giudizio– adeguati riscontri probatori quantomeno rispetto agli
elementi dei quali ha una disponibilità pressoché piena (v., tra le altre,
TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 02/07/2018 n. 4375).
Spettava dunque ai ricorrenti fornire elementi di prova univoci circa
l’effettiva violazione della distanza di dieci metri, per essere in realtà
la doglianza non assistita da dati obiettivi idonei a superare la
contestazione delle controparti, proprio sotto il profilo della misurazione
puntuale del distacco tra i manufatti in esame.
E analoga carenza probatoria si riscontra anche con riferimento alla
questione della volumetria residua che il lotto può esprimere. Infatti si
adduce genericamente un difetto di istruttoria, quando invece sarebbe stato
necessario allegare quanto meno un principio di prova circa l’ipotizzata
violazione dei relativi parametri di zona. |
EDILIZIA PRIVATA: Fabbricati antistanti.
Ai fini dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, due fabbricati, per essere
antistanti, non devono necessariamente essere paralleli, ma possono anche
fronteggiarsi con andamento obliquo, purché tra le facciate dei due edifici
sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di
entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato
segmento.
Ne consegue che non danno luogo a pareti antistanti gli edifici posti ad
angolo retto, né quelli in cui sono gli spigoli opposti a potersi toccare se
prolungati idealmente uno verso l’altro
(Corte
di Cassazione, Sez. II,
sentenza 01.10.2019 n. 24471
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Prescrizione regolamentare di una distanza tra fabbricati maggiore.
Il principio della prevenzione si applica anche nell’ipotesi in cui il
regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di
quella ex art. 873 c.c. e tuttavia non imponga una distanza minima delle
costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della
disposizione regolamentare si estende all’intero impianto codicistico,
inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva
la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla
metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di
costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c.
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 09.09.2019 n. 22447 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
●
ritenuto che con il primo motivo la ricorrente denunzia violazione o
falsa applicazione degli artt. 35 e 36 del regolamento edilizio del Comune
di Cassano Jonío e delle norme tecniche di attuazione del P.R.G., in
relazione agli artt. 872 e 873, cod. civ. e all'art. 360, n. 3, cod. proc.
civ., assumendo che:
- la sopraelevazione distava dal confine 3,35 m. e l'art. 46 del
regolamento locale fissava «la distanza delle costruzioni dal confini in
base alla distanza minima di metri 10 che deve intercorrere fra le pareti
finestrate di fabbricati antistanti», con la conseguenza che «la
distanza minima delle costruzioni dai confini di proprietà non può essere
inferiore a 5 metri», non potendo operare il principio della
prevenzione, pur ove «i regolamenti edilizi prevedano una distanza minima
assoluta tra costruzioni maggiore di quella prescritta dal codice civile
senza un riferimento esplicito al confine»;
●
ritenuto che con il secondo motivo la Ip. prospetta violazione dell'art.
112, cod. proc. civ., con conseguente nullità «della sentenza o del
procedimento», in relazione all'art. 360, n. 4, cod. proc. civ.,
assumendo che:
- la Ip. aveva chiesto la rimessione in pristino, anche tenendo
conto del fatto che la controparte aveva violato il divieto di costruire a
distanza inferiore ai 5 metri dal confine nascente da privata pattuizione
(atti pubblici del 12/11/1980 e del 28/10/1976) e la Corte locale aveva
omesso di pronunciarsi sul punto;
●
considerato che il primo motivo è manifestamente destituito di
giuridico fondamento per le ragioni di cui appresso:
- non è dubbio che il regolamento locale, come riporta la sentenza,
stabiliva distanza minima tra fabbricati, nulla prevedendo con riferimento
alla distanza dal confine;
- poiché i due fabbricati frontistanti risultavano posti alla
distanza di m. 15,60 la norma regolamentare risultava essere stata
rispettata;
- devesi, infatti, ribadire che il principio della prevenzione si
applica anche nell'ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una
distanza tra fabbricati maggiore di quella ex art. 873 c.c. e tuttavia non
imponga (come nel caso al vaglio) una distanza minima delle costruzioni dal
confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare
si estende all'intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della
prevenzione, sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul
confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta
tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in
aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c. (S.U., n. 10318,
19/05/2016, Rv. 639677); |
EDILIZIA PRIVATA: Distanza minima di 10 metri dalle pareti finestrate.
In tema di distanze, la distanza minima fissata dall’art. 9 del D.M.
02.04.1968 n. 1444 di 10 mt. dalle pareti finestrate è volta alla
salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, al fine di
evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di
salubrità degli stessi, quanto ad areazione, luminosità ed altro.
E trattasi certamente di una norma che, in ragione delle prevalenti esigenze
di interesse pubblico, innanzi indicate, ha carattere cogente e tassativo,
prevalendo anche sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che
dispongano in maniera riduttiva
(Corte d'Appello di Catania, Sez. II, sentenza 08.06.2019 n. 1326 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La distanza di dieci metri sussistente tra edifici antistanti: a cosa si
riferisce?
La distanza di dieci metri, sussistente tra edifici antistanti, si riferisce
a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e sia quella del nuovo
edificio o dell’edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione;
inoltre, la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici
antistanti, deve essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti
finestrate, non soltanto a quella principale
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 10.05.2019 n. 2519 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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Ciò posto, osserva il Collegio che lo spiegato ricorso è infondato nel
merito e va pertanto respinto.
Ed invero, va evidenziato come l’impugnato diniego si fondi sulla
circostanza che la prevista sopraelevazione del locale garage "violerebbe la
prescrizione relativa alla distanza dai fabbricati imposta dall'art. 28
delle vigenti norme di attuazione del P.R.G. che peraltro richiama il
disposto dell'art. 9 del D.M 02.04.1968 n. 1444"; ciò in quanto con la
prevista sopraelevazione del solaio di copertura a quota + 1,5 mt., e cioè in
corrispondenza del piano rialzato dell'abitazione retrostante di proprietà
del ricorrente, quest’ultimo si troverebbe di fatto agganciato in
prosecuzione di un preesistente balcone del locale cucina del ricorrente,
trasformandolo in un ampio terrazzo, a confine con la proprietà aliena, come
del resto inequivocabilmente dimostrato dalla prevista costruzione anche di
un torrino scale per raggiungere la sommità del garage stesso, il tutto in
violazione delle distanze minime previste dall’art 28 delle N.T.A -che
prevede, per le nuove costruzioni, una distanza non inferiore a m. 10 tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti-, risultando invece, nel
caso di specie, il nuovo ampio balcone così di fatto realizzato ad una
distanza di mt. 4,70 dal retrostante preesistente immobile finestrato in
ditta Ma..
Orbene, la condivisibile giurisprudenza amministrativa ha da tempo osservato
che “la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti
si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla
circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che
tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o
della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o
a diversa altezza rispetto all'altra. Si rammenta in particolare, a tale
proposito che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici
antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata
con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché
non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il
volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene,
i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in
oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro
sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di
particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e
ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso
abitativo” ( cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909,
Consiglio di Stato, sez. IV 22.10.2013 n. 5557).
La medesima giurisprudenza ha altresì osservato che, per "pareti finestrate",
ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444, “devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti
munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte,
balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì
che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte
d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565;
TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419)” (cfr. Consiglio
di Stato, sez. IV 22.10.2013 n. 5557 citato), e tale principio è stato
di recente ribadito anche dalla Suprema Corte di Cassazione che nella
sentenza n. 166/2018 ha espressamente affermato che "in tema di distanze tra
costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'art. 873 c.c., con riferimento
alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in
superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poichè
il D.M. 02.04.1968, art. 9, -applicabile alla fattispecie, disciplinata
dalla Legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla L. n. 765
del 1967- stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate
e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di
misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione
del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della
distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra
fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd.
legge ponte (in senso sostanzialmente conforme si veda anche Cass. n.
23553/2013; Cass. n. 17089/2006). |
EDILIZIA PRIVATA: Disciplina delle distanze tra edifici.
Qualora vi siano edifici che si fronteggiano, il rispetto degli
allineamenti è condizionato della disciplina delle distanze tra edifici,
prevista dal D.M. n. 1444/1968, e ciò a prescindere dallo stato di
urbanizzazione dell’area, dovendo peraltro essere osservate anche le norme
sugli allineamenti verticali
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.05.2019 n. 3003
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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10.1. La Sezione ritiene decisive, nel senso del rigetto dell’appello, le
seguenti considerazioni:
a) in data 28.11.2016, il Comune di Campobasso ha emanato la
comunicazione prot. n. 40133, concernente “provvedimento per l’annullamento
d’ufficio in autotutela del silenzio-assenso formatosi sull’istanza edilizia prot. n. 4915 del 17.02.2015, dichiarato con sentenza del Tar Molise
n. 340/2016, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990”;
b) l’amministrazione comunale ha motivato la decisione di ritiro in
autotutela, sulla base delle seguenti considerazioni: assenza
dell’asseverazione del progettista abilitato, di cui all’art. 20, comma 1,
del d.p.r. n. 380/2001 e s.m.i.; assenza dei pareri dei Beni ambientali
della Regione Molise e della Soprintendenza, richiesti dalla delibera di
consiglio comunale n. 2 del 12.02.2010, avente ad oggetto legge
regionale n. 30 dell’11.12.2009 – cd. legge sul Piano casa; violazione
e falsa applicazione della predetta legge regionale in relazione alla
disciplina sulle distanze legali; difformità del progetto alle vigenti norme urbanistico-edilizie, con particolare riguardo ai profili dell’inosservanza
degli allineamenti verticali; all’inosservanza delle disposizioni di cui
alla delibera c.c. n. 33/2010 e dell’art. 22 della l.r. n. 33/1999;
all’inosservanza dell’art. 9 del DM 1444/1968 quanto alle distanze tra i
fabbricati; all’assenza della titolarità sull’unità immobiliare censita in
catasto al foglio 119, part. 126, sub. 2; all’assenza degli elaborati di cui
all’art. 3, comma 1 della legge regionale n. 36/2002.
c) L’intervento edilizio programmato non si limita alla demolizione
e alla ricostruzione dell’esistente, bensì alla realizzazione di un corpo di
fabbrica diverso per forma e per sagoma, mediante sopraelevazione (dagli
originari due piani si passa a nove piani, per un’altezza di circa 26
metri), aumento di volume e di superficie (da circa mq 1.000 si passa a
circa mq 9.000) e mutamento della destinazione d’uso (da cinema teatro a
residenza e locali commerciali).
d) Tali caratteristiche determinano l’assoggettamento
dell’intervento al regime delle distanze minime tra i fabbricati, situati
all’interno delle zone territoriali omogenee, stabilite dall’art. 9, comma
2, del D.M. 1444/1968, per il quale “è prescritta in tutti i casi la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti”.
f) L’indirizzo ermeneutico del Consiglio di Stato, è costante
nell’affermare che:
f.1) la disposizione contenuta nell'articolo 9
cit. ha carattere inderogabile, poiché si tratta di una norma imperativa,
emanata in applicazione dell'art. 41-quinquies della l. 07.08.1942 n.
1150, la quale predetermina in via generale e astratta le distanze tra le
costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento
dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei
proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è
invece disposta dalla disciplina, anche in tema di distanze, del codice
civile (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4337 del 14.09.2017);
f.2) il dovere di rispettare siffatte distanze
sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si
collochino le aperture tra le due pareti fronti stanti e, ai fini
dell'operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia
finestrata anche una sola delle due pareti interessate; inoltre, la
disposizione è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle
sopraelevazioni di edifici esistenti, in ragione della sua finalità di
tutela della salubrità, ed al tale riguardo è esclusa ogni discrezionalità
valutativa del giudice circa l'esistenza in concreto di intercapedini e di
condizioni di pregiudizio alla salubrità dei luoghi, stante la sua portata
generale, astratta e inderogabile (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 3522
del 04.08.2016);
f.3) l’art. 9, comma 2, cit. riguarda “nuovi
edifici”, intendendosi per tali, gli edifici (o parti o sopraelevazioni di
essi) “costruiti per la prima volta”, e non già gli edifici preesistenti
(Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4337 del 14.09.2017);
f.4) dall’ambito applicativo della norma, va
esclusa la fattispecie (non sussistente nel caso all’esame, attesa
l’imponente sopraelevazione) della mera ricostruzione dell’immobile
demolito, atteso che –altrimenti- si otterrebbe:
a) la perdita di volume
dell’immobile, non potendo –il medesimo immobile- che essere ricostruito, se
non arretrato, rispetto all'allineamento preesistente;
b) il disallineamento
del fabbricato ricostruito rispetto agli altri immobili preesistenti, con un
evidente vulnus estetico e realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed
intercapedini nocivi per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e
decoro, che invece l'articolo 9 intende perseguire (Consiglio di Stato,
Sezione IV, n. 4337 del 14.09.2017);
g) i principi di diritto enucleati dall’Adunanza Plenaria n. 8 del
2017 (bilanciamento tra l’interesse pubblico e privato e tutela del
legittimo affidamento) riguardano il caso specifico in cui le opere siano
state realizzate e occorra, pertanto, dare luogo ad un ragionevole e
proporzionato bilanciamento tra l’interesse pubblico sostanziale al
ristabilimento della legalità violata e l’interesse privato alla
conservazione del bene. Nel caso de quo, attesa la mancata realizzazione
delle opere, la natura imperativa ed inderogabile della disciplina edilizia
in materia di distanze (il DM 1444 del 1968 è stato emanato in attuazione
della legge n. 1150 del 1942) e la pronuncia di incostituzionalità della
Legge regionale che consentiva di derogare a tale disciplina, non può darsi
luogo ad automatica applicazione di siffatti principi esegetici;
h) in ogni caso, anche laddove vi si volesse fare richiamo, il
rispetto dei parametri edilizi normativi evidenzia, di per sé, la natura
degli interessi pubblici che in concreto si assumono pregiudicati
dall’intervento in contestazione, nonché la loro prevalenza rispetto agli
interessi privati antagonisti, in ragione della loro rilevanza
costituzionale e delle inderogabili finalità di interesse generale che sono
chiamate a presidiare;
i) non può dirsi radicato, inoltre, alcun ragionevole affidamento
del privato in ordine alla conservazione del titolo, atteso che:
1)
l’Amministrazione comunale si è sempre attivata, richiedendo alla parte
privata le dovute integrazioni documentali volte a chiarire la reale portata
dell’intervento programmato;
2) l’Amministrazione ha emanato un espresso
provvedimento di diniego, perché in contrasto con la disciplina edilizia
della zona;
3) è intercorso un brevissimo lasso di tempo –poco più di due
mesi– tra il deposito (in data 17.08.2016) della sentenza del Tar
Molise, dichiarativa dell’intervenuta formazione del silenzio assenso, e
l’avvio (in data 31.10.2016), del procedimento di autotutela per la
rimozione del titolo medesimo;
4) in ogni caso, è ragionevole, ai sensi
dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, anche il lasso di tempo
intercorso tra la prospettata formazione del silenzio assenso (04.07.2015) e la comunicazione di avvio del procedimento di autotutela (31.10.2016);
l) la Corte costituzionale, con la sentenza n. 185 del 20.07.2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7,
della L.R. 30/2009 che, nella originaria formulazione, prevedeva la
possibilità di derogare ai limiti di distanza tra fabbricati di cui all’art.
9 del D.M. n. 1444/1968. L’esercizio del potere di annullamento officioso,
da parte del Comune di Campobasso, non rinviene preclusioni di sorta, in
considerazione del fatto che non si è prodotto alcun effetto intangibile o
irreversibile (è mancato un giudicato sulla legittimità del titolo
edilizio);
m) il progetto edilizio in questione non può beneficiare della
deroga contenuta nell'ultimo comma dell'articolo 9 cit. (“Sono ammesse
distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”), perché,
per un verso, manca il piano attuativo di iniziativa pubblica o privata e,
per un altro verso, l’intervento riguardo un solo fabbricato e non “gruppi
di edifici”;
n) la deliberazione n. 2/2010, in attuazione del piano casa di cui
alla legge regionale n. 30/2009, non equivale all’adozione e
all’approvazione del piano particolareggiato di esecuzione, secondo quanto
previsto dall’art. 13, della legge n. 1150 del 1942;
o) il rispetto degli allineamenti, in presenza di edifici che si
fronteggiano, resta comunque condizionato al rispetto della disciplina delle
distanze tra edifici di cui al DM 1444/1968, a prescindere dallo stato di
urbanizzazione dell’area. Devono, inoltre, essere osservate le norme sugli
allineamenti verticali;
p) non è ravvisabile lo sviamento di potere rispetto alla funzione
tipica: il provvedimento di autotutela è stato emanato sul presupposto della
violazione di una norma inderogabile di natura imperativa (il DM 1444 del
1968, in attuazione della legge delega n. 1150 del 1942), non in ragione del
vincolo culturale (vincolo, peraltro, annullato in via giurisdizionale dalla
sentenza non definitiva della Sezione n. 6166 del 2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: il principio della prevenzione.
In tema di distanze tra edifici, il principio della prevenzione è escluso
solo in presenza di una norma del regolamento edilizio comunale che
prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine. Ne consegue
che, in assenza di una siffatta previsione, deve trovare applicazione il
principio della prevenzione in base al principio della prevenzione il
proprietario che costruisce per primo condiziona la scelta del vicino che
voglia a sua volta costruire
(Corte d'Appello di Catania, Sez. II, sentenza 11.04.2019 n. 842 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il calcolo delle distanze tra edifici.
Ai fini del calcolo delle distanze tra edifici assumono rilievo tutti gli
elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi
carattere della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che si tratti di sporgenze e di aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità
trascurabile rispetto all’interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell’igiene
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 02.04.2019 n. 485
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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18.- Al riguardo, il Tribunale ritiene che nel calcolo delle
distanze non possano non prendersi in considerazione le sporgenze. Queste
ultime, tenuto conto della loro apprezzabile consistenza (larghezza di 2 mt)
possono considerarsi come ampliamento dell'edificio in superficie e volume.
19.- Ai fini del computo delle distanze assumono, invero, rilievo tutti gli
elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi
i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità
trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
20.- Per cui, l’art. 9 delle NTA, laddove disciplina la distanza minima dal
confine deve essere letta nel senso più conforme alla nozione di costruzione
stabilita dalla legge statale (ex art. 873 cc e dm 1444/1968), che impone di
tenere conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, qualora
queste presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di
opera edilizia (Cfr., Cassazione civile sez. II, 29/01/2018, n. 2093).
21.- In realtà, l'art. 9 delle NTA del Piano particolareggiato del Comune di
Gravina non introduce un criterio di calcolo delle distanze diverso da
quello prescritto dalla legislazione statale, posto che quando impone i
limiti di distacco dal confine, si riferisce -non escludendoli
espressamente- anche ai balconi che fanno parte di tali costruzioni.
22.- Né ad una diversa conclusione può pervenirsi applicando –come
suggerisce la difesa della controinteressata- le modalità di computo delle
distanze minime tra i fabbricati, indicate dall’art. 9 delle NTA come “la
lunghezza del segmento intercorrente tra le fronti di edifici antistanti,
effettuata perpendicolarmente alle pareti e sul piano orizzontale,
escludendo gli aggetti ed i balconi totalmente aperti”.
23.- Il Collegio, infatti, ritiene che, anche in sede di computo minimo
delle distanze tra fabbricati, l’esclusione degli aggetti e dei balconi
aperti vada riferito esclusivamente a quelli di modeste dimensioni o con
funzione decorativa, pena la violazione della disciplina statale di
riferimento come costantemente interpretata dal giudice amministrativo ed
ordinario.
24.- Difatti, le disposizioni del D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma
2, sulla distanza tra i fabbricati sono inderogabili e prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali,
evidentemente, si sostituiscono per inserzione automatica, con immediata
operatività nei rapporti tra privati in virtù della natura integrativa del
regolamento comunale rispetto all’art. 873 cc (cfr. Cass. sez. un. 07.07.2011,
n. 14953; Cass. 26.07.2016, n. 15458).
25.- Del resto, la stessa giurisprudenza citata dalla controinteressata,
limita, in presenza di una norma autorizzativa di piano, il mancato computo
dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze, alla condizione che si
tratti di strutture architettoniche (sporti e balconi) estranee al volume
utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2016, 5552),
situazione, evidentemente, del tutto diversa dal caso in esame.
26.- Al riguardo, il Collegio ritiene “che rientrino nella categoria degli
sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con
funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le
mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili,
mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra
costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi,
costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile
profondità ed ampiezza” (TAR Genova, sez. I, 21/11/2013, n. 1406).
27.- E ciò anche nella considerazione che i balconi, laddove privi di
carattere ornamentale, non possono in ogni caso integrare “volume tecnico”,
che, in quanto non computabile nella volumetria della costruzione sarebbe
irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali (Consiglio di Stato
sez. VI, 10/09/2018, n. 5307 Consiglio di Stato sez. V, 13/03/2014, n.
1272).
28- Sotto altro aspetto, contrariamente a quanto ritenuto dalla società
controinteressata, non trova integrale applicazione il principio della c.d.
prevenzione temporale (art. 873 cc), secondo cui il proprietario che
costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle
altre costruzioni sui fondi vicini.
29.- Il principio della prevenzione, infatti, non è applicabile quando
l'obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato, come
nel caso in esame, da regolamenti comunali in tema di edilizia e di
urbanistica, con lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari
confinanti l’obbligo di salvaguardare una zona di distacco tra le
costruzioni, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali
fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati
diritti soggettivi, di interessi generali. (Cassazione civile sez. II,
21/02/2019, n. 5146).
30.- Del resto, l’asserita operatività del principio della prevenzione
renderebbe del tutto pleonastica la previsione della deroga concordata della
distanza minima dal confine, che invece l’atto regolamentare ha previsto
come unica alternativa alla distanza “legale” (art. 9 NTA), e con finalità
del tutto diverse dalla prevenzione essendo diretto l’accordo ad assicurare
tra i confinanti “il rispetto della distanza totale prescritta tra i
fabbricati”.
31.- Pertanto, e, in assenza di una costruzione in aderenza, la
controinteressata era tenuta al rispetto della distanza minima di 5 mt dal
confine prevista dalle disposizioni delle NTA del Piano particolareggiato,
al riguardo imprescindibilmente vincolanti, in mancanza di diverso accordo
tra le parti.
32.- Alla luce delle considerazioni che precedono, ed assorbite le restanti
censure, il ricorso deve essere accolto. |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: regolamento edilizio comunale.
In tema di distanze tra edifici, il principio della prevenzione è escluso
solo in presenza di una norma del regolamento edilizio comunale che
prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine, con lo scopo
di ripartire equamente tra i proprietari confinanti l’obbligo di
salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni.
Ne consegue che, in assenza di una siffatta previsione, deve trovare
applicazione il principio della prevenzione, potendo il prevenuto costruire
in aderenza alla fabbrica realizzata per prima, se questa sia stata posta
sul confine o a distanza inferiore alla metà del prescritto distacco tra
fabbricati (nella specie, in applicazione del richiamato principio, la S.C.
ha cassato con rinvio la sentenza della corte di appello che aveva ritenuto
che l’indicazione di un distacco minimo tra fabbricati da parte di un
regolamento edilizio comunale escludesse la facoltà, in capo ai proprietari
dei fondi confinanti, di costruire in prevenzione, essendo implicito in
quella disciplina il richiamo alla distanza da mantenere rispetto ai
confini)
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 21.02.2019 n. 5146
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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1. Il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 873, 875 c.c. e
57 del regolamento edilizio comunale, nonché l'omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c.,
lamentando che la Corte abbia ritenuto che qualora lo strumento locale
preveda una distacco assoluto tra fabbricati, non possa operare la facoltà
di costruire in prevenzione, essendo implicito il richiamo ai confini, non
rilevando che detto regolamento disciplinava la distanza dal confine,
consentendo all'amministrazione di concedere deroghe ai sede di rilascio
delle concessioni, così come era accaduto nel caso di specie; che in ogni
caso, la pronuncia aveva erroneamente escluso l'operatività del principio
della prevenzione.
Il motivo è fondato nei termini che seguono.
I ricorrenti hanno realizzato parte del loro fabbricato sulla part. 230,
a confine con le partt. 220 e 396, inedificate, e della part. 229 su cui
insisteva un preesistente manufatto.
Per tale parte la nuova costruzione è stato ritenuta illegittima poiché
posto a distanza inferiore a mt. 5 dal confine (inedificato), avendo la
Corte distrettuale escluso il criterio della prevenzione in virtù della
previsione dello strumento urbanistico locale che imponeva un
distacco minimo tra fabbricati.
Tale assunto non può essere condiviso.
Questa Corte, con la sentenza a sezioni unite n. 11489/2002 ha
precisato che il principio della prevenzione è escluso "solo in presenza
di una norma regolamentare che prescriva una distanza tra fabbricati
con riguardo al confine", sussistendo in tal caso l'esigenza di "un'equa
ripartizione tra proprietari confinanti dell'onere di salvaguardare una
zona di distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in
assenza di una siffatta prescrizione, deve trovare applicazione il
principio della prevenzione, potendo il prevenuto costruire in
aderenza alla fabbrica costruita per prima, se questa sia stata posta sul
confine od a distanza inferiore alla metà del prescritto distacco
tra fabbricati".
Più di recente, componendo un contrasto tra le sezioni semplici, le
Sezioni unite di questa Corte hanno ribadito che il principio della
prevenzione si applica anche nell'ipotesi in cui il regolamento edilizio
locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella del
codice senza imporre una distanza minima delle costruzioni dal
confine, atteso che la portata integrativa della disposizione
regolamentare si estende all'intero impianto codicistico, inclusivo del
meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva la
facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla
metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di
costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e
877 c.c. (Cass. s.u. 10318/2016; Cass. 24714/2017; Cass. 15298/2016).
La sentenza impugnata, avendo -per contro- ritenuto che la costruzione dei
ricorrenti dovesse arretrare fino al rispetto di mt. 5 dal confine con le
partt. 396 e 220 (all'epoca inedificate) nonché rispetto alla part. 229 (su
cui preesisteva una costruzione del resistente), è dunque incorsa nella
violazione denunciata, poiché, rispetto al confine inedificato, i ricorrenti
potevano edificare sul confine avvalendosi del criterio della prevenzione,
mentre, rispetto alla part. 229, la distanza andava calcolata tra i
fabbricati, conformemente alle previsioni delle norme locali, senza valutare
la legittimità della nuova opera rispetto al confine stesso. |
EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza.
In tema di distanze legali, sono da ritenere integrative del codice civile
le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione
della distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza e che regolino, con
qualsiasi criterio o modalità, la misura dello spazio che deve essere
osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo
principale la tutela d’interessi generali urbanistici, disciplinano solo
l’altezza in sé degli edifici, senza nessuna relazione con le distanze
intercorrenti tra gli stessi, proteggono, nell’ambito degli interessi
privati, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini. Ne
consegue che, nel primo caso, sussiste, in favore del danneggiato, il
diritto alla riduzione in pristino, nel secondo, invece, è ammessa
unicamente la tutela risarcitoria
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 21.02.2019 n. 5142 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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Con il secondo motivo di ricorso si censura la violazione dell'art.
112 c.p.c. nonché la violazione e falsa applicazione dell'art. 872 c.c. per
non avere il Tribunale accolto la domanda risarcitoria, in luogo di quella
ripristinatoria, non potendo ad avviso della ricorrente darsi luogo alla
demolizione in ipotesi di violazione delle norme integrative di quelle del
codice civile.
Il motivo è infondato.
Secondo il consolidato indirizzo di Questa Corte, infatti, le norme degli
strumenti urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o come
spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o in rapporto con
l'altezza delle stesse, ancorché inserite in un contesto normativo volto a
tutelare il paesaggio o a regolare l'assetto del territorio, conservano il
carattere integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a
disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo equo
l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto la loro violazione
consente al privato di ottenere la riduzione in pristino (Cass. 7384/2001).
In particolare, le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla
determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che
regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve
essere osservato tra le costruzioni sono da ritenere integrative delle norme
del codice civile, mentre non lo sono le norme che, avendo come scopo
principale la tutela d'interessi generali urbanistici, disciplinano solo
l'altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze
intercorrenti tra gli stessi. Ne consegue che nel primo caso sussiste, in
favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, mentre nel
secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria (Cass. 1073/2009).
Nel caso di specie, il regolamento urbanistico locale, disciplinando in modo
esplicito la distanza dei fabbricati dal confine, ha carattere integrativo
delle norme del codice civile e come tale è suscettibile di tutela
ripristinatoria. |
EDILIZIA PRIVATA: Pareti finestrate di edifici fronteggiantesi.
Ai fini dell’applicazione della norma di cui all’art. 9 d.m. n. 1444 del
1968, assume carattere preminente, nel calcolo delle distanze, la parete
munita di finestre, nel suo sviluppo ideale verticale od orizzontale
rispetto alla frontestante facciata per cui è del tutto irrilevante che una
sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia
quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla
medesima o a diversa altezza rispetto all’altra, atteso che il regolamento
edilizio che impone una distanza minima tra pareti finestrate di edifici
fronteggiantesi, deve essere osservato anche se dalle finestre dell’uno non
è possibile la veduta sull’altro perché la ratio di tale normativa non è la
tutela della privacy, bensì il decoro e la sicurezza, ed evitare
intercapedini dannose tra pareti
(Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
ordinanza 19.02.2019 n. 4834
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra costruzioni e tra costruzione e confine.
In tema di distanze tra costruzioni e distanze tra costruzione e confine,
non v’è alcuna differenza tra fabbricati principali e costruzioni accessorie
ai primi; in questo contesto, a nulla valgono le eventuali distinzioni tra
gli stessi enucleate nelle norme edilizie locali, le quali possono essere
prese in considerazione al solo fine della maggiore distanza imponibile in
ragione di quanto disposto dall’art. 873 c.c..
E' quindi da considerarsi illegittima la costruzione di un edificio a
distanza inferiore di quella regolamentare, anche con riferimento ad
edificio accessorio a quello principale posto su fondo finitimo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2019 n. 836
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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1. L’appello è infondato e va respinto, il che consente di prescindere dalla
disamina dell’eccezione di inammissibilità per acquiescenza dell’originario
ricorso di primo grado, articolata dal comune appellato con la memoria
depositata il 24.12.2018.
2. E’ incontestato in punto di fatto che l’immobile edificando disterebbe
mt. 1,575 dal confine di proprietà.
2.1. Tenuto conto delle N.t.a. comunali, nel senso che verrà di seguito
esplicitato, ed anche a dare per incontestato che si trattasse di un ‘corpo
accessorio’, l’appello non può essere accolto.
3. Invero, stabilisce l’art. 873 del codice civile che “le costruzioni su
fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a
distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere
stabilita una distanza maggiore.”.
4. Per la consolidata giurisprudenza (tra le tante, Cassazione civile, sez.
II, 11.09.2018, n. 22054), “le norme dei regolamenti edilizi che
impongono distanze tra le costruzioni maggiori rispetto a quelle previste
dal codice civile o stabiliscono un determinato distacco tra le costruzioni
e il confine sono volte non solo a regolare i rapporti di vicinato evitando
la formazione di intercapedini dannose, ma anche a soddisfare esigenze di
carattere generale, come quella della tutela dell'assetto urbanistico, così
che, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a
prescindere dal fatto che gli edifici si fronteggino”.
Va sottolineato che la giurisprudenza, sul punto, non fa distinzioni tra
corpo principale ed accessorio (Cassazione civile, sez. II, 16.03.2017, n.
6855: “in tema di distanze tra costruzioni e distanze tra costruzione e
confine, non v'è alcuna differenza tra fabbricati principali e costruzioni
accessorie ai primi. In questo contesto, a nulla valgono le eventuali
distinzioni tra gli stessi enucleate nelle norme edilizie locali, le quali
possono essere prese in considerazione al solo fine della maggiore distanza
imponibile in ragione di quanto disposto dall'art. 873 c.c.. È da
considerarsi illegittima la costruzione di un edificio a distanza inferiore
di quella regolamentare, anche con riferimento ad edificio accessorio a
quello principale posto su fondo finitimo”).
4.1. Muovendo da tali punti di partenza, ed incontestato che -sia con
riguardo alle costruzioni, che con riferimento alla distanza dai confini- le
N.t.a. comunali possono prevedere una distanza maggiore, rispetto a quella
prevista nel codice civile, si osserva che:
a) l’art. 21, comma 2, delle NTA comunali stabilisce che la
distanza dai confini debba essere pari o superiore a metri 5 e la distanza
tra costruzioni debba essere pari o superiore a metri 10;
b) l’art. 7 delle norme di attuazione contiene effettivamente una
deroga con riferimento ai corpi accessori, ma detta deroga è riferita
soltanto alla distanza tra costruzioni, e non anche alla distanza dai
confini;
c) sebbene si possa riconoscere che il coordinamento tra le due
fattispecie sia poco perspicuo, il dato letterale è decisivo, sul punto;
d) neppure può dirsi –come sostiene la difesa dell’appellante- che
intesa nel senso su indicato la deroga di cui all’art. 7 sia inutile, e
svuotata di contenuto, in quanto la stessa vale a chiarire la non
computabilità dei corpi accessori nell’ipotesi di costruzioni che insistono
sul confine.
5. Alla stregua delle superiori, assorbenti, considerazioni, l’appello è
infondato e deve essere respinto e la sentenza di primo grado va confermata,
con le precisazioni sopra esposte. |
EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra edifici.
In tema di distanze tra costruzioni, la deroga alla disciplina stabilita
dalla normativa statale realizzata dagli strumenti urbanistici regionali
deve ritenersi legittima quando faccia riferimento ad una pluralità di
fabbricati (“gruppi di edifici”) che siano oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni
planivolumetriche che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i
rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni,
considerate come fossero un edificio unitario, e siano finalizzate a
conformare un assetto complessivo di determinate zone, poiché la legittimità
di tale deroga è strettamente connessa al governo del territorio e non,
invece, ai rapporti fra edifici confinanti isolatamente intesi
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 30.10.2018 n. 27638 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
1.1. - Il motivo non è fondato.
1.2. - In reiterate occasioni (cfr. da ultimo Corte Cost. n. 41/2017), la
giurisprudenza costituzionale ha ribadito che la disciplina delle distanze
fra costruzioni, che ha la sua collocazione nel codice civile, ed in
particolare negli artt. 873 e 875, attiene in via primaria e diretta ai
rapporti tra proprietari di fondi finitimi. Essa, pertanto, rientra nella
materia dell'ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello
Stato, con la conseguenza che è illegittima l'eventuale previsione contenuta
in una legge regionale che deroghi alla disciplina statale delle distanze
tra fabbricati al di fuori dell'ambito della competenza regionale
concorrente in materia di governo del territorio.
In tale ottica quindi,
l'intervento derogatorio del legislatore regionale è consentito solo
allorquando i fabbricati insistono su di un territorio che può avere
specifiche caratteristiche rispetto ad altri, per ragioni naturali e
storiche; con la conseguenza che la disciplina che li riguarda, e in
particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso, esorbita
dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi
pubblici, la cui cura è affidata anche alle Regioni perché attratta
all'ambito di competenza concorrente del governo del territorio.
Tuttavia nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza —statale in
materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del
territorio»— il punto di equilibrio deve essere individuato nell'ultimo
comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, dotato di particolare efficacia
precettiva e inderogabile, in quanto richiamato dall'art. 41-quinquies I. 17.08.1942, n. 1150, così che, secondo le indicazioni interpretative della
giurisprudenza costituzionale, e come poi disposto dall'art. 2-bis del TUE,
è legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite
dalla normativa statale, ma solo se inserite in strumenti urbanistici,
funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate
zone del territorio.
L'assenza di precise indicazioni, infatti, non consente di
attribuire agli interventi in questione un perimetro di azione
necessariamente coerente con l'esigenza di garantire omogeneità
di assetto a determinate zone del territorio ed implicherebbe
quindi l'invasione da parte della Regione della sfera di
competenza riservata alla legislazione esclusiva dello stato in
materia di ordinamento civile (conf. Corte Cost. n. 232 del 2005;
n. 6 del 2013, n. 231 del 2016, n. 189 del 2016, n. 185 del
2016, n. 178 del 2016).
In definitiva è da reputarsi legittima la previsione regionale di distanze
in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, solo «nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche», e quindi «se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (Corte Cost. n.
134 del 2014; n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la loro
legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e
quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici
confinanti isolatamente considerati» (Corte Cost. n. 114 del 2012; nello
stesso senso, n. 232 del 2005).
A tal fine si è ritenuto che tali
conclusioni debbano essere mantenute ferme anche dopo l'introduzione
dell'art. 2-bis del TUE, da parte dell'art. 30, comma 1, lettera a), del
decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dall'art. 1,
comma 1, della legge n. 98 del 2013, in quanto tale disposizione ha
sostanzialmente recepito l'orientamento della giurisprudenza costituzionale,
inserendo nel testo unico sull'edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze
legali stabilite dal DM n. 1444/1968 e dell'ammissibilità delle deroghe,
solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio» (Corte Cost. n. 185 del 2016; nello stesso senso, ex plurimis,
Corte Cost. n. 189 del 2016).
Richiamando quanto affermato, da ultimo, da Corte Cost.
n. 41 del 2017, va quindi ribadito che «la deroga alla disciplina
delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in
conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad
una pluralità di fabbricati ("gruppi di edifici") e sia fondata su
previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità
progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e
architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un
edificio unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del
1968)»; situazione questa non riscontrabile nella concreta
fattispecie.
1.3. - Ciò premesso, nella specie, la Corte di merito -premesso che il
primo Giudice aveva erroneamente fondato la decisione su di una risalente
giurisprudenza (Cass. n. 13011/2000, n. 6812/2000), secondo la quale le
prescrizioni dettate dall'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 (distanza di 10 metri
tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti), essendo dirette ai
Comuni, ai fini della formazione degli strumenti urbanistici, non sono
immediatamente applicabili nei rapporti tra privati- ha correttamente
richiamato la giurisprudenza più recente (Cass. n. 21899 del 2004; Cass. n.
7563 del 2006; Cass. n. 3199 del 2008), la quale ha precisato che il
suddetto principio di non immediata operatività del citato art. 9 del D.M.
n. 1444/1968 nei rapporti tra privati, va interpretato nel senso che
l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici
contrastanti con la norma comporta l'obbligo per il Giudice di merito, non
solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare la
disposizione dell'art. 9 divenuta, per inserzione automatica, parte
integrante dello strumento urbanistico.
La Corte di merito, inoltre, ha ricordato che, più di recente,
la Cassazione (sez. un. n. 14953 del 2011) ha stabilito che il
suddetto art. 9, essendo stato emanato su delega dell'art. 17-quinquies L.
n. 1150/1942, aggiunto dall'art. 17 della L. n.
765/1967, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza
tra fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti
locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (si
vedano anche, Cass. n. 15458 del 2016; Cass. n. 3199 del 2008). Da ciò, la
Corte d'appello ha affermato che la norma regolamentare del Comune di Avezzano,
che consente di costruire manufatti a distanza inferiore a 10
metri, vada disapplicata (v. Cass. n. 27558 del 2014; Cass n.
7563 del 2006).
Conclusione questa che non può essere contestata sull'assunto (dei
ricorrenti) secondo cui la previsione della N.T.A. sarebbe comunque
assimilabile alle ipotesi, aventi valida portata derogatoria, contemplate
nel comma 3 dell'art. 9 del D.M. 1444/1968, diverse essendo le norme
tecniche di attuazione dei piani regolatori, le quali hanno natura
regolamentare e danno luogo ad uno strumento meramente secondario e
subalterno, rispetto ai piani particolareggiati ed alle lottizzazioni
convenzionate, i quali danno luogo ad uno strumento urbanistico esecutivo
(Cass. n. 23136 del 2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Disciplina in tema di distanze e di fabbricati.
Il rinvio, contenuto nell’art. 879, comma 2, c.c., alle leggi e ai
regolamenti che riguardano le costruzioni “che si fanno in confine con le
piazze e le vie pubbliche” non va interpretato come deroga
all’inapplicabilità, prevista dal medesimo art. 879, comma 2, c.c., delle
norme sulle distanze alle pubbliche strade e piazze, concernendo, invece, la
disciplina in tema non già di “distanze”, bensì di “fabbricati”
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 29.10.2018 n. 27364 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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2.2. - L'art. 879, secondo comma, c.c. prevede che «Alle costruzioni che
si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le
norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti
che le riguardano».
La sentenza impugnata ha affermato, con valutazione non censurabile (né
specificamente censurata) in questa sede, che l'area sulla quale si affranza
il fabbricato dei ricorrenti (Vicolo Potenza nel comune di sant'Agata di
Militello) vada classificata come "via pubblica", alla stregua della
presunzione di demanialità ex art. 22, all. F, legge n. 2248/1865, rimasta
insuperata in giudizio.
Tuttavia, nonostante tale qualificazione -che condurrebbe ad escludere
l'applicazione della disciplina relativa alle distanze, in base a quanto
disposto dalla prima parte del secondo comma dell'art. 879 c.c. (per il
quale, come detto, "alle costruzioni che si fanno in confine con le
piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze")-,
la Corte di merito giunge a ritenere applicabile la disciplina del D.M. n.
1444/1968 e, con essa, la previsione delle distanze, attraverso il tramite
del Regolamento edilizio locale del 1983, pervenendo a tale conclusione
attraverso il richiamo generale che il menzionato secondo comma dell'art.
879 c.c. fa alla regola dell'osservanza, comunque, "delle leggi e dei
regolamenti che le riguardano", tra cui appunto quelle del D.M. n.
1444/1968.
Con ciò -data siffatta interpretazione del secondo comma dell'art. 879 c.c.-
la regolazione delle distanze relativamente all'area pubblica non sarebbe a
sua volta impedita nella fattispecie dal testo dell'art. 9 del citato D.M.
n. 1444/1968 che stabilisce le distanze minime tra fabbricati, anche per
quelli "tra i quali siano interposte Strade destinate al traffico di
veicoli", ma "con esclusione della viabilità a fondo cieco al
servizio di singoli edifici o di insediamenti".
Sicché, secondo la pronuncia impugnata, l'eccezione relativa alla viabilità
a fondo cieco, nella specie al "vicolo", non significherebbe che le
distanze tra fabbricati indicate nel citato D.M. non trovino applicazione in
dette aree chiuse, bensì soltanto che non avrebbero applicazione le
maggiorazioni delle distanze, poste dall'art. 9 in rapporto proporzionale
con la larghezza della strada destinata al traffico veicolare, ma resterebbe
pur sempre applicabile la regolazione generale della distanza minima di
metri 10.
2.3. - Questo Collegio ritiene che le argomentazioni, poste dalla Corte di
merito a sostegno della sentenza impugnata, non siano condivisibili.
Ciò, in primo luogo, in ragione del recupero della regolazione delle
distanze tramite la enfatizzazione della formula generale dell'ultima parte
del secondo comma dell'art. 879 c.c. con la conseguenza che, alla stregua di
questa interpretazione (contrastante con gli ordinari canoni di logica
ermeneutica e, dunque, con l'art. 12 delle preleggi), si verifica un effetto
palesemente distorto, per cui la medesima disposizione finisce
contemporaneamente per negare (comma secondo, prima parte) e per affermare
(comma secondo parte seconda) l'applicabilità delle norme sulle distanze.
Laddove, si deve affermare che la parte prescrittiva che rinvia alle "leggi
e regolamenti" intenda piuttosto riferirsi alla disciplina (riguardante
non già le "distanze" bensì i "fabbricati") che non
interferisce con la tutela del codice civile, inoperante, quanto alle
distanze, rispetto alle pubbliche strade e piazze.
In merito, va richiamato il principio secondo cui l'esonero dal rispetto
delle distanze legali previsto dall'art. 879 c.c., comma 2, per le
costruzioni a confine con le piazze e vie pubbliche (che va riferito anche
alle costruzioni a confine delle strade di proprietà privata gravate da
servitù pubbliche di passaggio, come nella specie, giacché il carattere
pubblico della strada, rilevante ai fini dell'applicazione della norma
citata) attiene più che alla proprietà del bene, all'uso concreto di esso da
parte della collettività (Cass. n. 6006 del 2008; cfr. anche Cass. n. 5172
del 1997; Cass. n. 2463 del 1990; Cass. n. 307 del 1982).
Sicché -tale essendo la medesima esigenza di provvedere all'interesse
pubblico all'assetto viario ed alla circolazione urbana che se ne serve- non
si ravvisa la ratio sottesa alla diversa disciplina nella stessa
materia concernente le distanze, nell'un caso derogandone la imposizione,
nel secondo caso estendendone l'imposizione. Il quale effetto si verifica
altresì in quanto la esclusione della viabilità a fondo cieco, presente
nell'art. 9 D.M. 1444/1968, viene confinata alle sole maggiorazioni delle
distanze tra fabbricati che sono poste nello stesso articolo, giacché tale
interpretazione riduttiva (al di là della sua collocazione contestuale
riferita alle "maggiorazioni") finisce per determinare, nuovamente,
causa di frizione logica, nel predicare allo stesso tempo un esonero ed una
applicazione di una regola di distanza, che possono elidersi reciprocamente.
2.4. - In secondo luogo, la Corte di merito (pur avendo dichiarato la "natura
pubblica del sito e la sua estensione che interferisce per intero con
estensione con la antistanza delle pareti" delle costruzioni in oggetto:
sentenza, pag. 10), non ne ha tratto la inammissibilità della tutela
ripristinatoria. Le disposizioni di legge e regolamentari tra le quali, fra
l'altro, il codice della strada ed il relativo regolamento di esecuzione,
cui rinvia l'art. 879, comma secondo, cod. civ. per il caso delle
costruzioni "in confine con le piazze e le vie pubbliche", non sono
dirette alla regolamentazione dei rapporti di vicinato ed alla tutela della
proprietà, ma alla protezione di interessi pubblici, con particolare
riferimento alla sicurezza della circolazione stradale; [per cui] è da
ritenersi insussistente un diritto soggettivo suscettibile di dar luogo a
tutela ripristinatoria (Cass. n. 5204 del 2008).
Per l'accoglimento della domanda di riduzione in pristino proposta dal
proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze fra
costruzioni contenute in leggi speciali e regolamenti edilizi locali è
necessario che le norme violate abbiano carattere integrativo delle
disposizioni del codice civile sui rapporti di vicinato, siccome
disciplinanti la stessa materia e da esse (artt. 872 e 873 cod. civ.)
richiamate, e che si tratti di costruzioni soggette all'obbligo delle
distanze e quindi non confinanti con vie o piazze pubbliche (art. 879,
secondo comma, cod. civ.); resta pertanto esclusa la riduzione in pristino
se tra i fabbricati siano interposte strade pubbliche, ancorché la norma
edilizia locale applicabile (integrativa di quelle del codice civile)
prescriva che la distanza minima prevista debba essere osservata anche nel
caso che tra i fabbricati siano interposte aree pubbliche (Cass. n. 3567 del
1988; conf. Cass. n. 2436 del 1988; Cass. n. 5378 del 1996). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra fabbricati: la distanza minima di 10 metri.
In materia di distanze tra fabbricati, la distanza minima di 10 metri è
richiesta anche nel caso in cui una sola delle pareti fronteggianti tra loro
sia finestrata
(Corte d'Appello di Bari, Sez. III, sentenza 25.10.2018 n. 1814 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I Comuni possono prescrivere distanze inferiori per gli edifici?
L’ultimo comma dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444 consente ai comuni di
prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa nazionale
soltanto laddove le costruzioni siano incluse nel piano particolareggiato o
nella lottizzazione convenzionata, riguardando dunque solo le distanze tra
edifici inclusi in quella determinata zona
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 16.10.2018 n. 25833 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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I motivi sono fondati. La Corte d'appello ha rigettato l'impugnazione sulla
base dei seguenti argomenti:
- il fabbricato degli appellati, che si trova nella zona B1 del
Comune di Conversano, è posto a una distanza da quello dell'appellante che
rispetta quanto imposto (almeno 6 metri) dai c.d. studi particolareggiati
del Comune;
- dato che l'ultimo capoverso del terzo comma dell'art. 9 del d.m.
1444/1968 prescrive che se un Comune si dota di un piano particolareggiato
può prevedere, per le zone territoriali omogenee di tale piano, distanze
inferiori a quelle previste dal medesimo d.m., se ne deduce che valgono per
la zona B1 le norme tecniche di attuazione degli studi particolareggiati,
ossia la distanza minima di 6 metri tra edifici;
- concludere diversamente significherebbe giungere alla conclusione
"catastrofistica" di disapplicare in parte qua non solo le
concessioni edilizie ottenute dalla controparte, ma "addirittura" lo
strumento urbanistico.
Il ragionamento seguito dal giudice di merito non può essere accolto.
Secondo "l'ormai consolidato orientamento di questa Corte, in tema di
distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma 2, del d.m. 02.04.1968, n. 1444 ha
efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti
inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono
sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si
sostituiscono per inserzione automatica", con la conseguenza che "l'adozione,
da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la
citata norma fa insorgere l'obbligo per il giudice di merito non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, ma proprio di applicare
immediatamente la disposizione del menzionato art. 9, divenuta, per
inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in
sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata" (così
Cass. 23136/2016).
Quanto all'ipotesi derogatoria contemplata dall'ultimo comma dell'art. 9 del
d.m. 02.04.1968, n. 1444, che consente ai comuni di prescrivere distanze
inferiori a quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni siano
incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione,
essa riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che
siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni
entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata (cfr. Cass.,
sez. un., n. 1486/1997).
Pertanto, il fatto che gli strumenti urbanistici del Comune di Conversano
-che possono essere disapplicati ove contrastino con la disciplina di cui al
citato art. 9, disciplina che diviene in tal caso direttamente applicabile-
consentissero distanze inferiori rispetto a quelle fissate dalla norma, non
è sufficiente per ritenere legittima la deroga, ma è necessario accertare,
come prescrive l'ultimo comma dell'art. 9, che le costruzioni fossero in
zone incluse in un piano particolareggiato, verifica che non emerge da
quanto affermato nella sentenza impugnata. |
EDILIZIA PRIVATA: Violazione di distanza minima tra fabbricati.
Ai sensi dell’art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 1444/1968, in tema di distanze
legali tra fabbricati è prevista la distanza minima inderogabile di dieci
metri per cui un manufatto realizzato a distanza di 6,65 metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti è senz’altro ubicato a distanza
inferiore rispetto a quella legale ne consegue che, pur se nel corso del
giudizio viene rimossa l’opera realizzata, il giudice dopo aver dichiarato
la cessazione della materia del contendere deve pronunciarsi in merito alle
spese di lite
(TRIBUNALE di Napoli, Sez. X, sentenza 18.06.2018 n. 6036 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze inferiori tra fabbricati: quando sono ammesse?
Ai sensi dell’art. 879, co. 2 c.c., in tema di distanze tra edifici occorre
far riferimento al disposto del D.M. 1444/1968, secondo il quale le distanze
tra fabbricati, in quanto recepite dalle N.T.A. del piano regolatore
comunale, diventano cogenti e integrano le disposizioni in materia del
codice civile; in tale ambito la presenza di una strada pubblica può
sovvertire gli interessi generali tutelati dalla legislazione urbanistica ed
edilizia, mentre distanze inferiori sono ammesse, in deroga, solo in caso di
edifici oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.06.2018 n. 3329
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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3. Con un terzo motivo di censura il sig. Ma. lamenta l'erroneità
della sentenza nella parte in cui i giudici di prima istanza hanno ritenuto
inderogabili i limiti di distanza tra i fabbricati previsti dal D.M. n.
1444/1968.
3.2 La censura non è fondata
Al riguardo si osserva che nell'atto di appello non è contestata la
distanza, confermata anche dal verificatore, esistente tra le pareti
finestrate dell’edificio della sig.ra Ma.In. e quello prospiciente del sig.
Mi.Ma., di mt. 3,80 rispetto al fabbricato preesistente e di metri 3,50
rispetto alla porzione in estensione, distanza ben inferiore, in entrambi i
casi, ai metri 10,00 minimi prescritti per la zona B dal primo comma, punto
2, dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444; parimenti non contestato è il
non legittimo aumento volumetrico consentito con il permesso di costruire n.
27/2013.
L'appellante, invece, sostiene che, trattandosi di costruzioni a confine con
strada pubblica a fondo cieco a servizio dei fabbricati, non vi sarebbe
l'obbligo del rispetto della distanza minima di 10 metri tra fabbricati
prospicienti di cui all’art. 9, comma 1, n. 2 e comma 2 del D.M. 1444/1968.
Diversamente da quanto asserito, però, l’art. 879, comma 2 c.c. in tema di
distanze tra edifici obbliga al rispetto delle leggi e dei regolamenti
vigenti, per cui, nel caso di specie occorre far riferimento al disposto del
D.M. 02.04.1968, richiamato anche dall’art. 3 delle N.T.A. del programma di
fabbricazione del Comune di Agnone, nonché alle prescrizioni delle N.T.A.
medesime che, come evidenziato dal TAR, nella zona B3 prevedono in via
generale un distacco dai confini di metri 5,00 (art. 9). Quando, poi, si
interpone una via pubblica, anche a fondo cieco, non uti singuli e si
sia in presenza di pareti finestrate (art. 9, comma 2) sussiste senza
eccezioni l'obbligo di rispettare la distanza minima di 10 metri (Cons.
Stato, sez. IV, 22.05.2014, n. 2650) incrementabili fino a mt. 13 nella
sussistenza di una sede stradale larga mt. 3,00.
3.3 Le distanze tra fabbricati ex D.M. n. 1444/1968, in quanto recepite
dalle N.T.A. del piano regolatore comunale, diventano cogenti e integrano le
disposizioni in materia del codice civile e la presenza di una strada
pubblica può sovvertire gli interessi generali che la legislazione
urbanistica ed edilizia tutela, mentre, come il TAR ha evidenziato, distanze
inferiori sono ammesse, in deroga solo, nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche (art. 9, u.c., D.M. 1444/1968). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze legali tra edifici.
La realizzazione di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico
come intervento di nuova costruzione non di natura pertinenziale e, anche ai
fini dell’osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, la
nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e
immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente
realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell’opera
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.03.2018 n. 1309 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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4.3. Per ricorrente giurisprudenza, invero, la realizzazione di una tettoia
va configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova
costruzione e non di natura pertinenziale, essendo assente il requisito
della individualità fisica e strutturale propria della pertinenza. Il
manufatto costituisce, infatti, parte integrante dell'edificio e la nozione
di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente
interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità ed
immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente
realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni
dell'opera.
Per la tettoia come realizzata, necessita, quindi, la sua conformità alle
disposizioni del testo unico dell'edilizia (D.P.R. n. 380/2001) e alle norme
dallo stesso richiamate in tema di disciplina urbanistica ed edilizia (cfr.
art. 12), tra cui quella sulle distanze previste dal codice civile.
4.4. Non può trovare condivisione la tesi degli appellanti che l'art. 3,
comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380/2001 prevederebbe che gli interventi
come quello di interesse possono essere considerati nuova costruzione solo
se le N.T.A. del P.R.G. del Comune lo evidenzino espressamente o nel caso in
cui si realizzino opere che abbiano un volume superiore al 20% del volume
dell'edificio principale, atteso che nulla si evince al riguardo dalla
disciplina di settore del Comune e, comunque, a rilevare è, come si è
accennato, la disciplina statale sulle distanze tra edifici, che essendo
volta alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, è
tassativa ed inderogabile nell'imporre al proprietario dell'area confinante
di costruire il proprio edificio ad almeno 10 metri, senza alcuna deroga. |
EDILIZIA PRIVATA: I
limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati previsti
dall'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, (emanato su delega
dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 - c.d. legge
urbanistica, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765) che
prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, trovano applicazione
anche con riferimento alle nuove costruzioni, quali devono considerarsi le
sopraelevazioni effettuate in zona A (centro storico) dove, vigendo il
generale divieto di realizzazione di costruzioni ex novo, è previsto solo
che le distanze tra gli edifici interessati da interventi di
ristrutturazione e di risanamento conservativo (i soli consentiti), non
possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i preesistenti volumi
edificati.
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2.3 La seconda censura proposta con il secondo motivo è così
rubricata: violazione e falsa applicazione degli articoli 8 e 9 del D.M. n.
1444 del 1968 in relazione all'articolo 360, primo comma, n. 3, c.p.c. per
non aver ritenuto violate dalla sopraelevazione e dalle vedute del
fabbricato dell'Or. le distanze dei fabbricati sui mapp. 217, 221, foglio
42.
Rileva la ricorrente che le norme citate, di cui la sentenza non ha tenuto
conto, hanno natura di norme primarie prevalenti ed inderogabili per tutti i
regolamenti edilizi approvati dopo l'emanazione del suddetto decreto
ministeriale.
La censura si fonda sul fatto che il fabbricato della Fr. è in zona A nella
quale le distanze tra edifici non possono essere inferiori a quelle
intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti e la sopraelevazione,
considerata alla stregua di nuova costruzione, deve essere inderogabilmente
posta a distanza di 10 mt. dagli altri fabbricati. Nella specie considerate
le misurazioni del consulente tecnico d'ufficio le distanze erano inferiori.
Anche in relazione alle altezze massime degli edifici sarebbe violato il
disposto dell'articolo 8 del medesimo decreto.
2.4 La censura è fondata.
Impregiudicata la questione relativa alla prova circa la comproprietà della
ricorrente in ordine al mapp. 217, sub. 1, che spetterà al giudice del
rinvio valutare, deve osservarsi che la motivazione della Corte d'Appello in
ordine alla sopraelevazione non è conforme alla giurisprudenza di questa
Corte in materia.
Devono richiamarsi i seguenti principi del tutto consolidati:
- In tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, secondo
comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega
dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge
urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha
efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti
inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono
sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si
sostituiscono per inserzione automatica Sez. U, Sentenza n. 14953 del
07/07/2011 (Rv. 617949).
- Inoltre l'art. 9, primo comma, n. 2), del d.m. 02.04.1968,
n. 1444 -emanato in forza dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n.
1150, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765- in base al quale
la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve essere
inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole nuove edificazioni
consentite in zone diverse dal centro storico (zona A), posto che in questo
ultimo, dove vige il generale divieto di costruzioni ex novo, la norma si
limita a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella
intercorrente tra i volumi edificati preesistenti (Sez. 2, Sentenza n.
12767 del 20/05/2008).
La sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un
aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto,
considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle
distanze, come nuova costruzione (Sez. 3, Sentenza n. 21509 del 01/10/2009.
Orbene la Corte d'Appello di Milano non ha fatto corretta applicazione dei
suddetti principi e, al contrario, ha ritenuto che il D.M. 02.04.1968, n.
1444 non fosse immediatamente operante nei rapporti fra i privati,
nonostante l'adozione nel Comune di Civo del piano regolatore sin dal 1984
e, in secondo luogo, ha ritenuto, sulla base del rilievo del C.T.U., che la
normativa applicabile fosse quella codicistica perché il manufatto di cui ai
mappali 231 e 232 era ricompreso nella zona Al-R del piano regolatore
comunale e nelle zone A del d.m. n. 1444 del 02.04.1968, nonostante si
trattasse di una sopraelevazione, da intendersi sempre come nuova
costruzione.
Deve dunque affermarsi il seguente principio di diritto:
"I limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati
previsti dall'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, (emanato
su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 - c.d.
legge urbanistica, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765) che
prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, trovano applicazione
anche con riferimento alle nuove costruzioni, quali devono considerarsi le
sopraelevazioni effettuate in zona A (centro storico) dove, vigendo il
generale divieto di realizzazione di costruzioni ex novo, è previsto
solo che le distanze tra gli edifici interessati da interventi di
ristrutturazione e di risanamento conservativo (i soli consentiti), non
possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i preesistenti volumi
edificati"
(Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
sentenza 15.02.2018 n. 3739). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
pacifica giurisprudenza di legittimità, in tema di distanze tra
costruzioni, l'art. 873 cod. civ. (e quindi anche le eventuali e
più rigorose previsioni degli strumenti urbanistici locali) trova
applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la
costruzione edificata nell'area meno elevata non raggiunga il
livello di quella superiore, in quanto la necessità del rispetto
delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del
formarsi d'intercapedini dannose.
Invero, la distanza minima assoluta di
dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti va
rispettata anche nel caso in cui la nuova costruzione realizzata nel mancato
rispetto di essa sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a
quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste
conforme alle previsioni dell'art. 907, comma terzo, cod. civ. e così pure
dal confine.
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4. Il terzo motivo di ricorso denunzia la violazione e
falsa
applicazione dell'art. 9, punto 1, co. 4, della NTA del PRG del
Comune di Roma, laddove la sentenza ha reputato applicabile
la distanza di metri 10 tra pareti finestrate.
Si sostiene che tale norma che richiama quanto previsto
dall'art. 9 del DM n. 1444/1968, come peraltro riferito anche
dal CTU, non può essere applicata nel caso di specie in quanto
si tratterebbe di costruzioni non realizzate su fondi confinanti.
Inoltre l'appartamento degli attori ha una quota di calpestio del
terrazzo molto più elevata di quella della copertura del corpo di
fabbrica adibito a negozi della ricorrente, sicché non si ravvisa
una possibilità di interferire con la visuale che si esercita dalla
terrazza degli attori.
Il motivo va disatteso.
Ed, invero, oltre a riprendere in larga misura la tesi oggetto del
secondo motivo di ricorso, già disatteso, circa la sussistenza di
un unico complesso edilizio, in parte si risolve in una non
consentita contestazione dell'accertamento in fatto operato dai
giudici di merito, i quali hanno ritenuto applicabile la suddetta
previsione regolamentare locale, sulla scorta della verifica
dell'esistenza di aperture nella costruzione degli attori (nella
specie, terrazza in aggetto) tali da far acquisire ad almeno una
delle pareti fronteggiantisi, la qualifica di finestrata.
Inoltre, nella parte in cui la censura insiste sulla differenza di
quota tra la proprietà degli attori e la copertura dell'immobile
fronteggiante, non si confronta con l'altrettanto pacifica
giurisprudenza di legittimità per la quale (cfr. Cass. n.
19486/2008; Cass. n. 20850/2013) in tema di distanze tra
costruzioni, l'art. 873 cod. civ. (e quindi anche le eventuali e
più rigorose previsioni degli strumenti urbanistici locali) trova
applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la
costruzione edificata nell'area meno elevata non raggiunga il
livello di quella superiore, in quanto la necessità del rispetto
delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del
formarsi d'intercapedini dannose (cfr. altresì Cass. n.
145/2006, a mente della quale la distanza minima assoluta di
dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti va
rispettata anche nel caso in cui la nuova costruzione realizzata
nel mancato rispetto di essa sia destinata ad essere mantenuta
ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a
distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907,
comma terzo, cod. civ. e così pure dal confine; conf. Cass. n. 5741/2008) (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 05.01.2018 n. 166). |
EDILIZIA PRIVATA: Il computo delle distanze tra pareti finestrate di edifici antistanti.
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti,
prevista dall’art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, deve computarsi con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 06.10.2017 n. 4690 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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Con censura di carattere assorbente il sig. Ma. si duole che sia stato
rilasciato provvedimento di condono nonostante che il manufatto in oggetto
sia stato costruito in violazione delle norme sulle distanze legali.
Il motivo è fondato.
Le opere realizzate e condonate con le concessioni n. 6/c e 7/c, in epigrafe
indicate, consistono in ampliamenti della sagoma dell’edificio (chiusura di
una scala, trasformazione di una tettoia aperta) che hanno alterato le
preesistenti distanze dal confine e dal fabbricato del ricorrente.
In particolare da quanto risulta dagli atti causa e dalla relazione del
verificatore -redatta a seguito di sopralluogo e sulla base della
documentazione di causa- l’ampliamento del nucleo originario dell’immobile
della sig.ra Am., tramite estensione fino al muro di confine con la
proprietà Ma., ha annullato la distanza dell’edificio dal predetto
confine;
Come emerge quindi dalle risultanze del sopralluogo (e dalla perizia di
parte ricorrente in quanto il verificatore conferma la correttezza dei
grafici depositati dalla stessa parte) l’edificio dell’Am., come
trasformato dalle opere oggetto dei provvedimenti di condono, non rispetta
la distanza di 10 metri dal nucleo originario del fabbricato della
ricorrente (ex art. 9 DM 1444/1968 che per i nuovi edifici prescrive “la
distanza minima assoluta di m 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti”).
La violazione della norma sulle distanze rende dunque illegittima la
sanatoria comunale.
Non ha pregio l’assunto della controinteressata secondo cui le distanze
legali non sarebbero direttamente vincolanti ai fini del rilascio del
provvedimento di condono, trattandosi di disposizioni non direttamente
cogenti e opponibili solo dopo l’approvazione del piano regolatore comunale
(avvenuta per il Comune di Massa Lubrense nel 2002).
Al riguardo, è sufficiente richiamare la pacifica giurisprudenza che
dichiara direttamente precettive le norme in materia di distanze contenute
nel d.m. n. 1444/1968 sia nei rapporti fra privati che ai fini della
regolarità degli atti di assenso edilizio non potendo le stesse essere
intese come prescrizioni rivolte al solo organo pianificatore (cfr. Cons.
Stato 3522/2016, n. 1951/2015; n. 844/2013 e da ultimo Tar Napoli n.
3036/2017 dove si evidenzia che tale precetto costituisce, sia in ragione
della relativa fonte di legittimazione -art. 41-quinquies della L. n.
1150/1942- sia per la funzione igienico-sanitaria assolta tesa ad evitare
la formazione di intercapedini malsane, un principio inderogabile della
materia).
La condonabilità delle opere lesive delle distanze dai confini e dagli
edifici limitrofi, va, dunque esclusa, anche, e soprattutto, perché la
disciplina urbanistica in materia di distanze non è derogabile, essendo
diretta non già alla sola tutela di interessi privati, bensì alla tutela di
interessi generali e pubblici in materia urbanistica.
Non ha poi pregio il rilievo difensivo della controinteressata in base al
quale la violazione delle distanze sarebbe imputabile in prima battuta a
lavori di ampliamento eseguiti dal sig. Ma. e relativi all’edificazione di
un porticato.
I lavori eseguiti dal ricorrente -che peraltro a quanto consta dagli atti
risultano assistiti da permesso di costruire (n. 11/2013)- come chiarito
dal verificatore non hanno comportato variazioni della sagoma originaria
dell’immobile stesso e comunque non risultano, dall’esame degli atti di
causa e delle planimetrie depositate, influenti al fine del mancato rispetto
della distanza legale dall’immobile confinante del sig. Ma. come
identificato nella sua configurazione risalente.
Non ha neanche pregio l’assunto secondo cui (in relazione alla concessione
n. 7c/2016) le pareti del fabbricato della controinteressata non abbiano
pareti fronteggianti in via lineare.
Il Collegio ritiene infatti, in linea con l’orientamento espresso dalla
giurisprudenza amministrativa d’appello che la distanza di dieci metri tra
pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, d.m. 02.04.1968, n. 1444, debba computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati
e non alle sole parti che si fronteggiano, prescindendo anche dal fatto che
esse siano o meno in posizione parallela (cfr. in termini, di recente Cons.
Stato n. 2861/2015).
Per le stesse ragioni, per la parte in cui legittima le irregolarità
riscontrate, risulta viziata l’autorizzazione in sanatoria n. 68 del
17.06.1998, concernente “la sanatoria e il completamento delle opere relative
al fabbricato” della controinteressata.
4. In conclusione, per le ragioni esposte il ricorso viene accolto e per
l’effetto sono annullati gli atti impugnati. Assorbite le ulteriori censure. |
EDILIZIA PRIVATA: Possibilità di ridurre le distanze tra edifici.
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, comma
6, l.reg. Liguria 02.04.2015, n. 11, censurato per violazione dell’art.
117, comma 3, Cost., in quanto la possibilità di ridurre le distanze tra
edifici anche nei confronti di edifici ubicati all’esterno del perimetro del
PUO contrasterebbe con l’art. 2-bis TUE e invaderebbe la sfera di competenza
legislativa esclusiva statale in materia di «ordinamento civile».
La norma impugnata rientra nell’ambito applicativo dell’art. 2-bis TUE,
giacché, nel disciplinare i «limiti di conformità» del piano operativo
rispetto a quello strategico, consente al PUO di derogare alle distanze
previste nel PUC, il quale a sua voltain forza dell’art. 29-quinquies, comma
1, lett. b), l.reg. Liguria 04.09.1997, n. 36, anch’esso inserito
dall’art. 34, comma 1, l.reg. n. 11 del 2015, ma non impugnato«potrebbe
averle fissate in misura anche inferiore a quanto previsto nel d.m. n. 1444
del 1968.
Inoltre, la possibilità di derogare alle distanze minime è accordata con la
necessaria garanzia dell’intermediazione dello strumento urbanistico e al
fine di conformare in modo omogeneo l’assetto di una specifica zona del
territorio (circoscritta, per l’appunto, agli edifici ricompresi nel PUO), e
non con riferimento a tipi di interventi edilizi singolarmente considerati
(ristrutturazioni, sopraelevazioni, recupero di sottotetti, ed altro).
La previsione regionale non risulta priva di riferimento a specifiche
esigenze del territorio neppure nella parte in cui dispone che la riduzione
delle distanze è «applicabile anche nei confronti di edifici ubicati
all’esterno del perimetro del PUO», trovando tale inciso giustificazione nel
fatto che il territorio comunale viene ripartito in plurimi ambiti (di
conservazione, di riqualificazione, di completamento) e distretti (di
trasformazione), con la conseguente necessità che sia disciplinata anche la
distanza tra un edificio ricompreso nel perimetro di uno strumento operativo
e un edificio “frontista” rispetto al primo, ma esterno a quel perimetro e
ricadente in altro ambito o distretto.
Anche in questa parte, pertanto, la disposizione regionale è conforme alla
disciplina statale, in quanto, da un lato, condiziona l’operatività del suo
precetto alla presenza di uno strumento urbanistico, dall’altro lato
autorizza la riduzione delle distanze solo se essa è idonea ad assicurare un
«equilibrato assetto urbanistico e paesaggistico in relazione alle tipologie
degli interventi consentiti e tenuto conto degli specifici caratteri dei
luoghi e dell’allineamento degli immobili già esistenti» (sentt. nn. 232 del
2005, 114 del 2012, 6 del 2013, 134 del 2014, 178, 185, 231 del 2016; ord.
n. 173 del 2011)
(Corte Costituzionale,
sentenza 10.03.2017 n. 50
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Deroga alle distanze minime tra pareti finestrate.
La deroga alle distanze minime tra pareti finestrate, ai sensi del decreto
assessorile regionale sardo del 20.12.1983 n. 2266/U (c.d. decreto
“Floris”) è ammissibile a determinate condizioni: non può, in ogni caso,
incidere sulle distanze legali minime stabilite dalle norme del codice
civile, può essere concessa (nelle zone B) anche per le aree «risultanti
libere in seguito a demolizione», si giustifica esclusivamente ove si
dimostri che il rispetto delle distanze tra pareti finestrate comporti
l’inutilizzazione dell’area o una soluzione tecnica inaccettabile
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 23.02.2017 n. 125 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
9. - I motivi esposti si prestano a una trattazione congiunta,
considerato che tutti si incentrano sulla questione della legittimità della
deroga alle distanze minime tra edifici fissate dalle norme tecniche di
attuazione.
9.1. - In tale prospettiva, occorre in primo luogo ricostruire la
motivazione che sorregge la concessione edilizia impugnata.
Come emerge
dalla lettura dell’atto, l’istruttoria procedimentale si è fondamentalmente
concentrata sulla verifica delle «soluzioni progettuali possibili [in vista
del rispetto] delle normali distanze previste dallo strumento urbanistico»,
giungendo alla conclusione «che, effettivamente, l’applicazione delle
distanze normalmente previste dallo strumento urbanistico avrebbe comportato
delle soluzioni progettuali tecnicamente inaccettabili, irrazionali e [la]
inutilizzazione dell’area», rendendo conseguentemente ammissibile la deroga
alle distanze prevista dall’art. 48 (quattordicesimo alinea) del regolamento
edilizio comunale (applicabile alla fattispecie ratione temporis), che a
tali fini rinvia al decreto dell’Assessore degli Enti Locali, Finanze e
Urbanistica, 20.12.1983, n. 2266/U, disponendo che tale «deroga …può essere
consentita purché si rispetti la distanza minima di mt. 3 dai confini».
Il
rinvio implica il richiamo al testo del decreto assessorile, che contempla
la deroga (per le zone B) in questi termini: «Nelle zone inedificate
esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto o risultanti
libere in seguito a demolizione, contenute in un tessuto urbano già definito
o consolidato, che si estendono sul fronte stradale o in profondità per una
lunghezza inferiore a mt. 24 per i Comuni della I e II Classe, e a mt. 20
per quelli della III e IV classe, nel caso di impossibilità di costruire in
aderenza, qualora il rispetto delle distanze tra pareti finestrate comporti
l'inutilizzazione dell'area o una soluzione tecnica inaccettabile, il Comune
può consentire la riduzione delle distanze, nel rispetto delle disposizioni
del codice civile».
9.2. - Dal quadro normativo delineato emergono una serie di elementi
rilevanti per la soluzione della controversia in esame:
- la deroga ai distacchi minimi previsti dal decreto assessorile
non può, in ogni caso, incidere sulle distanze legali minime stabilite dalle
norme del codice civile;
- la deroga può essere concessa (nelle zone B) anche per le aree
«risultanti libere in seguito a demolizione»;
- la deroga si giustifica esclusivamente ove si dimostri che il
rispetto delle distanze tra pareti finestrate comporti l'inutilizzazione
dell'area o una soluzione tecnica inaccettabile.
Nel caso di specie, rammentato che la concessione impugnata giustifica la
deroga al rispetto delle distanze minime in ragione della inaccettabilità
tecnica delle soluzioni alternative prospettate, i ricorrenti contestano la
sussistenza di quanto asserito dall’amministrazione con argomentazioni che,
tuttavia, non appaiono convincenti.
Occorre precisare, tuttavia, sul piano dell’interpretazione della citata
disposizione del decreto assessorile, che il riferimento alla «soluzione
tecnica inaccettabile» non può tradursi in una condizione equiparabile alla
inutilizzabilità dell’area. Le due formule (inutilizzabilità e «soluzione
tecnica inaccettabile») indicano due circostanze distinte, per cui
all’interno della seconda rientrano soluzioni progettuali che (pur non
comportando la inutilizzabilità dell’area) sono comunque irrazionali o
pregiudicano gli interessi dei proprietari in misura eccessiva (e, quindi,
non rispettosa del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa).
La soluzione deve, quindi, essere inaccettabile (non solo e non tanto sotto
il profilo tecnico-costruttivo ma) alla stregua di una valutazione degli
interessi pubblici e privati coinvolti. |
EDILIZIA PRIVATA: Limiti di distanza tra i fabbricati.
L’art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci
metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti
i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è
eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere
cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze
collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al
giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
Ai fini del computo delle distanze assumono rilievo:
- tutti gli elementi
costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i
caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione
meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità
trascurabile rispetto all’interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo
triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell’igiene;
- il
terrapieno e il muro di contenimento, che producano un dislivello o
aumentano quello già esistente per la natura dei luoghi
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 13.12.2016 n. 1231 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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In relazione al secondo ordine di motivi, in tema di violazione delle
norme di principio sulle distanze, vanno richiamati i principi più volte
richiamati dalla giurisprudenza anche della sezione (cfr. sent. n. 1406 cit.,
confermata in appello e quindi rilevante anche a fronte delle ultime
produzioni della difesa comunale, aventi ad oggetto la riforma di un ben
diverso precedente di questo Tar, in diversa composizione). Pertanto, in
linea di diritto, quale che sia la qualificazione regionale come
ristrutturazione, è pacifico nella giurisprudenza anche del Collegio come la
sopraelevazione ed il conseguente nuovo volume assumano rilevanza a fini
delle distanze. In sostanza, qualora si realizzino nuovi volumi
sopraelevando l'edificio originario sì da vita ad un nuovo edificio, che
deve conseguentemente osservare la norma sulla distanza minima di cui
all'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 (cfr. ad es. sentenza 1621/2009).
In generale, va ribadito che per principio consolidato, le distanze legali
previste dagli standards urbanistici sono immediatamente applicabili ai
rapporti privati, ove gli strumenti urbanistici prevedono distanze minori.
L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci
metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti
i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è
eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con
carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle
esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo
che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità
nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi (cfr. ad es. Tar Liguria n 476/2013 e giurisprudenza ivi
richiamata).
Questa sezione ha più volte ribadito che la disciplina sulle distanze minime
legali non può considerarsi derogata dalla legislazione regionale
derogatoria sul recupero dei sottotetti a fini abitativi; al riguardo s'è
affermato che l'art. 9 d.m. 1444/1968, al di là della fonte che la
disposizione prevede, è norma di principio tale da costituire limite alla
potestà legislativa regionale concorrente in materia di governo del
territorio. Analoghe considerazioni di principio vanno ribadite ai connessi
fini in esame.
Ancora (sentenza n. 6 del 2013) la Consulta ha avuto modo di
intervenire sul punto nei seguenti termini: premesso che, in linea di
principio, la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella
materia dell'ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza
legislativa statale, mentre alle regioni è consentito fissare limiti in
deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a
condizione che la deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio, la legge regionale,
laddove consente espressamente ai comuni di derogare alle distanze minime
fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite
dall'art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che esige che
le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia
dell'interesse pubblico relativo al governo del territorio, autorizzando, al
contrario, i comuni ad "individuare gli edifici" dispensati dal rispetto
delle distanze minime, viola la competenza legislativa statale in materia
"ordinamento civile" (sent. n. 232 del 2005, 173 del 2011, 114 del 2012).
Peraltro, parte resistente contesta l'applicazione delle invocate distanze
sia in termini di difetto di legittimazione dei ricorrenti, sia di difetto
di giurisdizione.
Sotto il primo versante è sufficiente richiamare quanto sopra evidenziato in
termini di ammissibilità del ricorso (oltre alla pacifica giurisprudenza
secondo cui il criterio della vicinitas e il danno risentito per la
realizzazione dell'opera in ritenuta violazione delle distanze e del carico
urbanistico della zona, integrano, rispettivamente, la legittimazione al
ricorso e l'interesse concreto ed attuale, ai sensi dell'art. 100 c.p.c.,
all'impugnativa, da parte della ricorrente, proprietaria di immobile
confinante o limitrofo, configurando ex se una posizione qualificata e
differenziata al corretto assetto del territorio, a prescindere da qualsiasi
esame sul tipo di lesione che, in concreto, possa essere riconducibile alle
opere compiute - cfr. ad es. Tar Calabria n. 433/2012 e Cons. Stato, Sez.
VI, 20.10.2010, n. 7591, Tar Campania n. 23762/2010 e Tar Liguria
476/2013, Consiglio di Stato n. 3929/2002 e 5759/2011).
Inoltre, in tema di
proprietà, l'obbligo di rispettare le distanze legali previste dagli
strumenti urbanistici per le costruzioni legittime non soltanto a tutela dei
proprietari frontisti ovvero della relativa riservatezza, ma anche per
finalità di pubblico interesse, dovendo così essere osservato sia in sede di
valutazione di abusi soggetti ad istanza di sanatoria sia rispetto a nuove
edificazioni, in ordine alle quali i soggetti caratterizzati dalla vicinitas
hanno il diretto concreto ed attuale interesse affinché la relativa
realizzazione avvenga nel rispetto delle norme dettate a tutela (anche) di
interessi fondamentali e collettivi.
Sotto il secondo versante, costituisce jus receptum il principio per cui la
controversia, derivante dall'impugnazione di un permesso di costruire da
parte del vicino, che lamenti la violazione delle distanze legali,
costituisce una disputa non già tra privati, ma tra privato e Pubblica
amministrazione, nella quale la posizione del primo si atteggia a interesse
legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione al giudice
amministrativo (cfr. ex multis CdS 3511/2016).
Se in linea di fatto nel caso di specie dalla documentazione prodotta emerge
il mancato rispetto della distanza invocata, in linea di diritto,
contrariamente a quanto prospettato dai resistenti, ai fini del computo
delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche
accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità,
della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti
e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di
rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto
all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della
sicurezza, della salubrità e dell'igiene (cfr. ad es. Consiglio di Stato,
Sez. V, 19.03.1996, n. 268, Tar Liguria 1406 cit.).
In dettaglio, va quindi ribadito che nel calcolo delle distanze tra
costruzioni, devono prendersi in considerazione le sporgenze costituenti per
il loro carattere strutturale e funzionale veri e propri aggetti implicanti
perciò un ampliamento dell'edificio in superficie e volume, come appunto i
balconi formati da solette aggettanti anche se scoperti di apprezzabile
profondità, ampiezza e consistenza (Tar Puglia n. 1235/2012).
Analogamente,
gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché
non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il
volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene,
i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in
oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro
sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di
particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche ad estendere ed
ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso
abitativo (Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Pertanto, sulla scorta di tali indicazioni non può certo escludersi dai
manufatti rilevanti a fini di distanze, in quanto palesemente in grado di
dar vita a intercapedini contrarie alla finalità della norma, i muri di
contenimento (cfr. ex multis Cass. civ. 15391/2012 e 15972/2011 e Consiglio di
Stato 7731/2010, oltre a Tar Liguria 1406 cit.). Va quindi ribadito che ai
fini dell'osservanza delle norme sulle distanze dal confine, il terrapieno e
il muro di contenimento, che producano un dislivello o aumentano quello già
esistente per la natura dei luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee
ad incidere sull'osservanza delle norme in tema di distanza dal confine. |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici.
La maggiorazione della distanza fino a raggiungere la misura corrispondente
all’altezza del fabbricato più alto prevista dal terzo comma dell’art. 9,
d.m. n. 1444/1968, si applica negli stessi casi in cui sono prescritti i
limiti di distanza indicati dal primo comma del medesimo articolo.
Da ciò si
deduce che i limiti posti alle distanze degli edifici dal comma in questione
si applicano anche alla zona A e nelle stesse ipotesi previste dal n. 1 del
primo comma dell’art. 9.
Ciò comporta che le distanze in questione si applicano indipendentemente
dalla presenza o meno di pareti finestrate, in quanto il punto n. 1 del
primo comma dell’art. 9 si riferisce alle distanze tra edifici senza altre
specificazioni (TAR Campania-Napoli,
Sez. VIII,
sentenza 23.08.2016 n. 4092 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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6) Nel quinto e ultimo motivo di ricorso parte ricorrente ha indicato che
gli interventi della legge sul piano casa sono consentiti su edifici
residenziali ubicati in aree urbanizzate, nel rispetto delle distanze minime
e delle altezze massime dei fabbricati di cui al Decreto Ministeriale
n. 1444/1968.
Nel caso di specie sarebbe stato violato l'art. 9, ultimo comma,
dell’indicato decreto, che prevede come, qualora le distanze tra fabbricati
risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le stesse siano
maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa.
Il fabbricato delle ricorrenti risulterebbe alto 14,88 metri e presenterebbe
pareti finestrate, munite anche di balconi, sul fronte contrapposto
all'edificio in corso di realizzazione che risulta posizionato a “soli”
12,07 metri di distanza.
Inoltre, l'edificio assentito con il Permesso di Costruire impugnato
risulterebbe posizionato a 3,15 metri dal confine della proprietà delle
ricorrenti, in violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, che prevede la
distanza minima di 10 metri fra gli edifici, comportando, per dato logico,
l'obbligo di rispettare anche la distanza minima di 5 metri dal confine.
Risulterebbe, infine, violato anche l'art. 7 del richiamato D.M. n. 1444/1968,
che prevede in zona A una densità fondiaria per le eventuali nuove
costruzioni ammesse che, in base alla tipologia dell’intervento assentito,
non può superare in ogni caso i 5 metri cubi a metro quadrato, che di fatto
sarebbe stato superato.
L'indice fondario risultante dal permesso di costruire assentito sarebbe,
infatti, pari a 7,30 metri cubi a metro quadrato, ben superiore ai 5
consentiti.
Inoltre, il Piano Regolatore Generale del Comune di Maddaloni, prevede, per
la zona A1, che il rapporto tra altezza del fabbricato e larghezza dello
spazio pubblico o privato antistante debba essere pari a 1.
Il Permesso di Costruire rilasciato prevede la sopraelevazione del corpo del
fabbricato prospiciente Via Marconi, che raggiunge un'altezza di oltre 11
metri.
La Via Marconi è larga circa 7 metri e, pertanto, l'altezza assentita supera
la larghezza della strada, violando così il rapporto specificamente dettato
dal Piano Regolatore Generale.
Il motivo di ricorso si rileva fondato.
E’ pacifico che l’edificio in questione ricada in zona A, in riferimento
alla quale l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, prevede che per le operazioni di
risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze
tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i
volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni
aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o
ambientale.
Il comma 3 del medesimo art. 9 prevede che “qualora le distanze tra
fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del
fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere
la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori
a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che
formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”.
Al riguardo la maggiorazione della distanza fino a raggiungere la misura
corrispondente all'altezza del fabbricato più alto prevista dal terzo comma
dell'indicato art. 9 si applica negli stessi casi in cui sono prescritti i
limiti di distanza indicati dal primo comma del medesimo articolo (Consiglio
di Stato, sez. IV, 05.10.2015, n. 4628).
Da ciò si deduce che i limiti posti alle distanze degli edifici dal comma in
questione si applicano anche alla zona A e nelle stesse ipotesi previste dal
n. 1 del primo comma dell’art. 9.
Ciò comporta che le distanze in questione si applicano indipendentemente
dalla presenza o meno di pareti finestrate, in quanto il punto n. 1 del primo
comma dell’art. 9 si riferisce alle distanze tra edifici senza altre
specificazioni.
Nel caso di specie la distanza intercorrente con l’edificio vicino è minore
dei 14,88 metri corrispondenti all’altezza del fabbricato delle ricorrenti
che risulta posizionato a 12,07 metri di distanza e non ha rilevanza, a tal
fine, la circostanza che la parete da cui è stata misurata la distanza sia
stata solo di recente dotata di aperture e che, quindi, non potesse essere
considerata come parete finestrata.
La su indicata censura si rivela, pertanto, fondata. |
EDILIZIA PRIVATA: Criterio della prevenzione.
Inesistenza di alcun margine di discrezionalità in sede giurisdizionale
nell’applicazione della disciplina. L’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444,
laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di
edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma
volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario, dovendosi dunque interpretare le distanze tra le
costruzioni come predeterminate con carattere cogente in via generale ed
astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di
igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine
di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo
contemperamento degli opposti interessi
(TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I,
sentenza 09.05.2016 n. 152 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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I motivi di gravame seguono due diverse linee direttrici. Da un lato,
viene invocata la disciplina edilizia locale e pianificatoria, che
consentirebbe il rispetto di distanze inferiori a quelle disposte dalla
normativa statale applicata col provvedimento impugnato. Dall’altro lato, si
contesta l’assenza dei presupposti per l’esercizio del potere di autotutela.
Sul primo versante, la posizione prospettata appare contrastante con la
costante opinione giurisprudenziale, compiutamente posta a fondamento
dell’atto impugnato. In materia, va pertanto ribadito che l'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le
pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi,
trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive
sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è eludibile. Pertanto, le
distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via
generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse
ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato
alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in
materia di equo contemperamento degli opposti interessi (cfr. ad es. Tar
Liguria n 476/2013 e CdS 2861/2015).
Sul secondo versante, in linea di diritto per giurisprudenza consolidata e
tradizionale l'annullamento in autotutela di una concessione edilizia
rilasciata in violazione delle distanze minime tra fabbricati non necessita
di specifica motivazione né dell'espressa comparazione tra l'interesse
pubblico all'annullamento e quello del privato alla conservazione dell'atto
illegittimo, essendo le norme sulla distanza tra fabbricati inderogabili ed
esse stesse tese al rispetto di principi fondamentali in termini di
salubrità, con la conseguenza che l'attività posta in essere dal comune è
vincolata (cfr. ad es. CdS n. 3201/2006).
Nel caso di specie, il provvedimento impugnato ha preso in esame tutti gli
elementi della fattispecie, evidenziando il vizio di legittimità che minava
i titoli annullati; vizi di tale rilevanza da escludere la necessità,
secondo il principio appena richiamato, dell’indicazione di ulteriori
considerazioni e profili di interesse pubblico. Inoltre, nell’ambito dello
stesso provvedimento risulta essere stata svolta una adeguata valutazione
degli ulteriori elementi invocati, integranti l’esercizio di autotutela; in
specie, relativamente all’affidamento del privato, assume rilievo dirimente
l’immediata attivazione da parte della p.a. del rimedio della sospensione
dei lavori, nelle more della necessaria valutazione degli elementi poi posti
a fondamento dell’annullamento, avente altresì l’effetto di limitare il
consolidarsi dell’invocato affidamento.
Né appare invocabile il termine finale o perentorio di diciotto mesi,
introdotto ex novo dal d.l. 133/2014 e dalla legge 124/2015; in proposito,
se per principio generale (tempus regit actum) tale nuova disposizione non è
certo invocabile rispetto ad una fattispecie consumatasi oltre quattro anni
prima la relativa entrata in vigore, nel caso di specie tale violazione
neppure risulta tempestivamente dedotta né deducibile (risalendo lo stesso
ricorso al 2010). In proposito, è erroneo il richiamo al precedente
giurisprudenziale (C.S. n. 5625/2015), in quanto la sentenza invocata ha
accolto il ricorso censurando l’irragionevolezza del termine di tredici anni
trascorso fra il rilascio del titolo e l’annullamento nonché la mancata
valutazione motivata della conseguente posizione assunta dai destinatari
dell’atto; inoltre, proprio con riferimento alla nuova normativa la stessa
decisione, all’opposto rispetto a quanto invocato dalla odierna difesa
ricorrente, ne ha escluso l’applicazione alla fattispecie in esame ratione
temporis, sottolineandone unicamente (in termini invero del tutto
condivisibili) rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema
degli interessi rilevanti.
Nel caso de quo, all’opposto, del tutto lineare appare il comportamento
della p.a. procedente, la quale ha accertato e valutato tutti gli elementi
della fattispecie, sia conformemente alla normativa preminente sia in
termini di adeguatezza e completezza tali da escludere, negli ambiti di
sindacabilità propri del presente giudizio di legittimità, il travisamento
di quale elemento di fatto ovvero la manifesta irragionevolezza delle
valutazioni svolte. |
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In tema di "mobbing"
nel pubblico impiego: |
PUBBLICO IMPIEGO: Onere
probatorio incombente sul lavoratore vessato.
L’elemento qualificante del mobbing non va ravvisato nella legittimità o
illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li
unifica. La relativa prova è a carico di chi assume di avere subito la
condotta vessatoria.
Di conseguenza il lavoratore che agisce chiedendo il
risarcimento dei danni subiti a causa del mobbing deve provare tutti gli
elementi costitutivi della fattispecie, quindi in primis la molteplicità di
comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti ove
considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo
sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio (TRIBUNALE di Torino, Sez. V, sentenza 10.05.2021 n. 724 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: presupposti.
L’elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai
ripetuti soprusi legati tra loro dall’intento persecutorio nei confronti
della vittima (Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 19.01.2021 n. 591
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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11.1 Lamenta il ricorrente di aver subìto nel
tempo atti e comportamenti vessatori, alcuni dei quali concretizzatisi nella
dequalificazione delle mansioni, ad opera dei vari Dirigenti o comunque dei
superiori gerarchici succedutisi ai vertici del Reparto di appartenenza. In
altri termini, nei suoi confronti sarebbe stata portata avanti una strategia
complessiva da una pluralità di soggetti, finalizzata a danneggiarlo ed
isolarlo dal contesto, integrante gli estremi del cosiddetto mobbing.
12. L'individuazione della cornice definitoria del fenomeno, in assenza di
indicazioni normative, è ormai agevolata dai numerosi arresti
giurisprudenziali, penali, civili, amministrativi e contabili,
sostanzialmente convergenti verso l’enucleazione di principi comuni.
La Sezione ritiene sufficiente qualche cenno al riguardo, onde attualizzare
il paradigma giuridico rispetto alla già chiara ricostruzione del Tar,
allo scopo di valutare la correttezza della valutazione effettuata di
insussistente sovrapponibilità degli accadimenti in esame rispetto allo
stesso. Il Giudice amministrativo ha dunque confermato, con considerazioni
cui ci si riporta, che “l’elemento oggettivo
della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi legati tra
loro dall'intento persecutorio nei confronti della “vittima”” (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
07.02.2019, n. 910).
La tradizionale
distinzione tra c.d. mobbing verticale o bossing, e c.d. mobbing
orizzontale, in ragione del soggetto attuatore delle condotte vessatorie (il
superiore gerarchico o un collega), nel caso di specie parrebbe non
rilevare, venendo in evidenza entrambe le componenti. Il ricorrente,
infatti, non si diffonde nella ricerca delle responsabilità soggettive, con
ciò accomunando nella narrazione condotte e atti posti in essere da autori
diversi per i quali la riconducibilità ad un unitario disegno persecutorio
appare tutt’altro che provata.
13. Il Collegio rileva, infatti, come sotto il profilo dell’elemento
psicologico si renda necessario che gli accadimenti siano tutti sussumibili
sotto l’egida unificante del dolo generico o specifico di danneggiare
psicologicamente la personalità del lavoratore, emarginandolo, sulla base di
un’unica strategia. Singoli atti riconducibili all’ordinaria dinamica del
rapporto di lavoro, perfino se conflittuale a cagione di antipatia,
sfiducia, scarsa stima professionale, ove non caratterizzati da tale
volontà, non assumono rilievo nella necessaria visione d’insieme del
fenomeno. La ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante deve essere
pertanto esclusa allorquando la valutazione complessiva dell'insieme di
circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a
palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro,
non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il
richiamato carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei
confronti del singolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.10.2018, n. 5905).
Nelle premesse, l’appellante ripercorre i profili della vicenda esaminati
dal verificatore nel corso del giudizio di prime cure al fine di coglierne
pretesi errori, ma l’intento che ispira la parte non può dirsi raggiunto
avendo l’istruttoria disposta dal Tar consentito di appurare
l’inconsistenza degli episodi enumerati nel ricorso originario al fine di
integrare la prospettata condotta mobbizzante. A nulla rileva la
circostanza, evidenziata in appello, del mancato compiuto godimento del
periodo di congedo straordinario, comunque consentito dall’Ufficio così come
non si evince l’effettivo pregiudizio patito dal ricorrente per effetto
della mancata iniziativa assunta dall’Ufficio ai fini dell’invio della
pratica alla Commissione Medica Ospedaliera (mancanza alla quale ha
sopperito lo stesso ricorrente) o al difetto di informazione in ordine alla
indizione degli interpelli nel periodo in cui il dipendente era in malattia.
14. Chiarito quanto sopra, il Collegio può passare a vagliare la complessa
vicenda sottesa alle deduzioni del ricorrente, avuto riguardo peraltro alla
dualità delle richieste avanzate: in primo luogo, il danno da quello da
mobbing; indi da mancata adozione delle misure a tutela della salute del
lavoratore.
Ora, è noto che l’analisi del mobbing, per la particolare sensibilità della
relativa tematica, impone al giudice di evitare di assumere acriticamente
l’angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne
vittima: da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di
lavoro (cui siano imputabili in ipotesi le condotte illecite di altri
dipendenti) non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi,
se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura
patologica; dall’altro, che gli atti relativi siano di per sé ragionevoli e
giustificati, in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso
interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà
caratteriali.
In altre parole, non si deve sottovalutare l’ipotesi che
l’insorgere di un clima di cattivi rapporti umani e l’insorgere di
comportamenti oggettivamente sgraditi derivi, almeno in parte, anche da
responsabilità dell’interessato; tale ipotesi può, anzi, essere
empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si
spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una
situazione che invece i suoi colleghi trovano normale, pur non essendo tale.
Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l’ambiente di
lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni
militari o gerarchicamente organizzate, quali i Corpi di Polizia,
caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non
tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono
essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le
carenze possono essere tollerate.
L’appellante, conseguita la qualifica di Assistente Capo in data 28.08.2003, valorizza una serie di episodi asseritamente idonei ad integrare una
vera e propria condotta persecutoria ai suoi danni a decorrere dal mese di
luglio 2006 per circa un biennio, che tuttavia appaiono slegati fra di loro
invece che essere avvinti da quel filo conduttore che consenta di
riconfigurarli quali tasselli di una fattispecie complessa. Come rammentato,
di recente, dalla Sezione (sentenza 11.03.2020, n. 1746), per costante e
condivisa giurisprudenza (ex aliis Cassazione civile, sez. lav., 11.12.2019, n. 32381) “il mobbing lavorativo è configurabile ove ricorrano due
elementi: quello oggettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del
datore di lavoro, e quello soggettivo, integrato dall'intendimento
persecutorio del datore medesimo; quest'ultimo richiede che siano posti in
essere atti, contro la vittima, in modo miratamente sistematico e prolungato
nel tempo, direttamente dal datore o di un suo preposto o di altri
dipendenti, comunque sottoposti al potere gerarchico dei primi due”. E’
proprio tale indefettibile elemento soggettivo che non trova in alcun modo
riscontro negli atti di causa.
Per quanto riguarda poi l’asserito demansionamento, questo Consiglio di
Stato ha già avuto modo di affermare (v. da ultimo, Cons. Stato, sez. III,
27.02.2019, n. 1371) che “il prestatore di lavoro, che chiede la
condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della
lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base
alla qualifica professionale rivestita (lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso), deve fornire la prova
dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento,
prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una
valutazione equitativa (ex multis,Cass. Civ. sez. lav., 05.12.2008, n.
28849)”.
A fronte di ciò parte appellante si limita ad affermare che il
mancato rispetto dell’assetto mansionistico di riferimento si sarebbe
verificato “in svariate occasioni” senza tuttavia esporre un quadro fattuale
più dettagliato, anche di tipo probatorio, anzi invocando l’applicazione del
“principio di cui all’art. 116 c.p.c.” (cfr. pagina 14 dell’appello). Ora, a
prescindere dalla effettiva ricaduta applicativa di tale principio nel
processo amministrativo (in tema, Cons. Stato, sez. VI, 27.02. 2018, n.
1160, secondo cui “il principio di “non contestazione” di cui agli artt. 115
e 116 cod. proc. civ. trova nel processo amministrativo di legittimità
un’applicazione temperata dalla particolare struttura di quest’ultimo, che
di regola fa seguito ad un procedimento amministrativo, le cui risultanze,
tradotte nei relativi atti, vanno tenute per ferme, quanto meno sino a prova
contraria”) è fuor di dubbio che, in caso di proposizione di domanda risarcitoria, l’onere della prova incombe sull’istante secondo il principio
generale previsto dall’art. 2697 c.c. (Cons. Stato, sez. III, 24.12.2019, n. 8813).
Nel caso di specie, alla luce di quanto innanzi esposto, non
risulta integrata la prova della sussistenza del danno, né degli specifici
aspetti riconducibili a responsabilità del datore di lavoro pubblico, che
avrebbero privato il lavoratore dello svolgimento di uno o più dei profili mansionistici afferenti alla propria qualifica, tali da potersi ricollegare
causalmente ad un danno subìto e che, come si è detto, è rimasto non
provato. Parte appellante insiste nel ritenere di essere stato indebitamente
adibito al servizio di sentinella ancorché esso, all’esito dell’istruttoria,
non sia risultato estraneo alle proprie mansioni e comunque non può
escludersi che si sia palesata l’esigenza di provvedere, peraltro per un
ristretto arco temporale, all’adibizione del ricorrente al suo espletamento.
15. Parte appellante insiste, altresì, per la domanda di risarcimento del
danno per la mancata adozione delle misure necessarie alla tutela
dell’integrità psico-fisica del lavoratore ai sensi dell’art. 2087 c.c.
evidenziando l’alterità di tale istanza rispetto a quella di risarcimento
del danno per mobbing.
Per vero, l’art. 2087 c.c. –secondo cui il datore di lavoro è tenuto ad
adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e
la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro– può trovare applicazione anche al di fuori
delle ipotesi di mobbing. Ove il lavoratore chieda il risarcimento del danno
patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità
di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura
asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata
insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli
episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una
condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti
denunciati —esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale— pur
non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere
considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano
ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato
a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili (Cons. Stato, sez. VI,
12.03.2015, n. 1282).
Orbene, la domanda risarcitoria postula però la
lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore di cui non vi è traccia
negli atti di causa. Anche tale domanda va quindi respinta.
16. Va infine disattesa l’istanza di indagine medico legale sull’effettivo
stato di salute del dipendente sia perché non viene in considerazione alcun
evento potenzialmente traumatico in grado di autonomamente inficiare
l’integrità psico-fisica dell’appellante sia perché il giudice non può
sopperire al mancato espletamento dell’onere probatorio, come detto,
incombente alla parte ricorrente in caso di proposizione di domanda
risarcitoria.
11. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto. |
PUBBLICO IMPIEGO: Tutela delle condizioni di lavoro.
In tema di comportamenti datoriali discriminatori, l’art. 40 del d.lgs.
11.04.2006, n. 198 –nel fissare un principio applicabile sia nei casi di
procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi
dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità– non stabilisce
un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime
probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea
con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54, l’onere di
fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo
che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche
da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori
lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati
nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di
fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non
gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti
discriminatori in ragione del sesso (TRIBUNALE di Roma, Sez. I, sentenza 06.11.2020 n. 7274 -
massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: contenzioso e onere della prova.
In tema di mobbing, spetta al lavoratore, ex art. 2697 c.c., fornire la
prova della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro,
della molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, dell’evento
lesivo della salute o della personalità del dipendente, del nesso eziologico
tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il
pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore, nonché la prova
dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (TRIBUNALE di Mantova, Sez. lavoro, sentenza 28.10.2020 n. 103 -
massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Intento persecutorio: risarcibilità dei danni.
Ai fini dell’accertamento di una condotta datoriale mobbizzante, è onere del
lavoratore fornire una sicura prova circa:
(a) la molteplicità dei
comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se
considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato con intento vessatorio;
(b) l’evento
lesivo della propria salute o della propria personalità;
(c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro (o del superiore gerarchico)
ed il pregiudizio alla propria integrità psico-fisica; e
(d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio
unificante di tutti i comportamenti lesivi (TRIBUNALE di Roma, Sez. lavoro, sentenza 21.01.2020 n. 542 -
massima tratta da
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PUBBLICO IMPIEGO: Riparto dell’onere probatorio.
Posto che il mobbing ha fonte sia contrattuale ex art. 2087 c.c. sia
extracontrattuale ex art. 2043 c.c., si deve ritenere che spetti al datore
di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per
tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente, e che invece spetti al
lavoratore dimostrare l’esistenza del nesso causale tra l’evento lesivo e il
comportamento del datore di lavoro.
Ciò che è certo, è che non può configurarsi un danno psichico del
lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento
qualora non venga offerta rigorosa prova del danno e della relazione causale
fra il medesimo ed i pretesi comportamenti persecutori (TRIBUNALE di Roma, Sez. lavoro, sentenza 15.01.2020 n. 10057 -
massima tratta da
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PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: elementi essenziali e onere probatorio.
Il fenomeno del mobbing, per assumere giuridica rilevanza, implica
l’esistenza di plurimi elementi, la cui prova compete al prestatore di
lavoro, di natura sia oggettiva che soggettiva e, fra questi, l’emergere di
un intento di persecuzione, che non solo deve assistere le singole condotte
poste in essere in pregiudizio del dipendente, ma anche comprenderle in un
disegno comune e unitario, quale tratto che qualifica la peculiarità del
fenomeno sociale e giustifica la tutela della vittima.
(Nella specie si trattava di scelte di politica e organizzazione aziendale
che hanno riguardato tutti i lavoratori addetti al servizio di guardiania e
custodia come eliminare dalla guardiola il frigorifero, il televisore e la
macchina del caffè, vietare ai custodi l’uso dell’alloggio nel villaggio,
adottare un orario di lavoro spezzato o in singole condotte che hanno
riguardato altri lavoratori o che hanno avuto comunque valenza generale come
l’omessa riparazione della pavimentazione all’esterno della guardiola, ma
tali condotte non avevano un intento persecutorio in danno del ricorrente) (TRIBUNALE di Lecce, Sez. lavoro, sentenza 25.11.2019 n. 3468 -
massima tratta da
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PUBBLICO IMPIEGO: Responsabilità oggettiva e onere della prova del lavoratore.
L’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ciò
in quanto la responsabilità del datore di lavoro deve essere collegata alla
violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o
suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Da tale
principio deriva che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito un
danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure
la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 01.08.2019 n. 1808
- massima tratta da
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II) In via preliminare va affermata la giurisdizione del
giudice amministrativo in relazione alla controversia di cui è causa.
A margine del rilievo della non pertinenza delle pronunce giurisprudenziali
citate dalla ricorrente a sostegno della propria deduzione in ordine al
difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, e non volendo il
Collegio soffermarsi sulla violazione del canone di buona fede processuale,
concretatasi nel caso di specie con il venire contra factum proprium, avendo
la ricorrente adito sua sponte il giudice amministrativo, va rilevato che
nessun dubbio sussiste in ordine alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, trattandosi di controversia attinente al pubblico impiego di
personale non contrattualizzato, ai sensi del combinato disposto di cui
all’art. 133, comma 1, lett. i), c.p.a. e all’art. 3 del D.lgs. 165/2001.
In
tale ipotesi la giurisdizione si estende anche alla cognizione delle azioni
inerenti il risarcimento del danno derivante dal cosiddetto mobbing a
condizione che l'azione proposta possa qualificarsi in termini di
responsabilità contrattuale per violazione dell'obbligo di garanzia imposto
dall'art. 2087 c.c. (Cons. Stato Sez. VI, 20.06.2012, n. 3584) nel caso di
comportamenti vessatori adottati nell'esercizio del potere di supremazia
gerarchica posto a regolazione dello svolgimento del rapporto di lavoro
(Consiglio di Stato, sez. IV, 26/11/2015, n. 5371) e da ricondurre
specificamente al rapporto di servizio.
Ora, secondo la prospettazione della ricorrente le condotte
dell'Amministrazione che avrebbero determinato il danno asseritamente subito
sarebbero proprio riconducibili al rapporto di servizio.
Va comunque in proposito precisato che nessuna rilevanza può avere ai fini
del riparto di giurisdizione la vicenda (distinta) riguardante
l’accertamento della dipendenza da causa di servizio della patologia
riscontrata, che, come si dirà meglio in seguito, neppure rileva sotto il
profilo di merito della presente controversia.
Le questioni riguardanti la pensione privilegiata, di cui la ricorrente ha
interessato la competente sezione regionale della Corte dei Conti, hanno
natura nettamente differente dalla domanda avanzata con il ricorso
introduttivo.
Deve dunque affermarsi la giurisdizione di questo Tribunale.
III) Venendo al merito della controversia, come appena rilevato, va innanzi
tutto osservato che non può trarsi alcun elemento di fondatezza della
domanda risarcitoria avanzata nella presente sede dall’avvenuto accertamento
della dipendenza da causa di servizio della patologia riscontrata alla
ricorrente.
Come condivisibilmente argomentato dalla difesa dell’Amministrazione non può
esserci un’automatica trasposizione sul piano della responsabilità datoriale
dell’accertata inidoneità al servizio attivo.
Ed invero al fine di ritenere sussistente la fattispecie del mobbing
occorrono elementi che, nel procedimento volto ad accertare la dipendenza da
causa di servizio di una certa patologia, non vengono minimamente
considerati, quale, in particolare, l’intento persecutorio.
Sotto tale profilo risultano del tutto irrilevanti e non pertinenti le
argomentazioni sviluppate dalla difesa della ricorrente nelle 39 pagine
della memoria depositata per l’udienza pubblica (e dei 209 documenti),
prevalentemente incentrate sul procedimento per il riconoscimento della
dipendenza da causa di servizio con digressioni varie sulla natura del
Comitato di verifica per le cause di servizio, che, evidentemente non sono
conducenti in relazione alla vicenda di cui è causa.
La giurisprudenza ha avuto modo di osservare che la riconosciuta dipendenza
delle malattie da una "causa di servizio" non implica necessariamente, o può
far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di
insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla
qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e
dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro
impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori
dall'ambito dell'art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità ancorata a
criteri probabilistici e non solo possibilistici (Consiglio di Stato sez.
VI, 12.03.2015, n. 1282; Cassazione civile sez. lav., 29.01.2013, n. 2038).
Ciò chiarito, ad avviso del Collegio il ricorso non è meritevole di
accoglimento.
Va premesso, in via teorica e generale, che in relazione al mobbing,
fattispecie priva di definizione normativa, sono stati elaborati dalla
giurisprudenza alcuni principi, con specifica attinenza al rapporto di
pubblico impiego, per delinearne gli elementi costitutivi.
Il mobbing c.d. verticale, nel rapporto di impiego pubblico, si sostanzia in
una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa,
continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente
nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente
ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto
all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà
finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente,
tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica (TAR
Milano sez. III, 02.02.2018, n. 310; Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.03.2015, n. 1282).
Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva da mobbing, va
accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, di seguito
indicati (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16.04.2015, n. 1945; Cass. civ.,
sez. lav., 19.02.2016, n. 3291; id., 16.03.2016, n. 5230):
a) la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere
persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo
miratamente sistematico o prolungato contro il dipendente secondo un disegno
vessatorio;
b) l'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore
gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore;
d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio.
La sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata
dall'accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie,
poiché proprio l'elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno
o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di
provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla
dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal
contesto organizzativo nel quale è inserito, che è imprescindibile ai fini
della concretizzazione del mobbing (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 14.05.2015, n. 2412).
Conseguentemente un singolo atto illegittimo o anche più atti illegittimi di
gestione del rapporto in danno del lavoratore, non sono, di per sé soli,
sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante (cfr. Consiglio
di Stato, Sez. VI, sentenza 16.04.2015, n. 1945).
Sul piano processuale, la condotta che dà luogo a mobbing deve essere
allegata nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi
davanti al giudice a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito,
ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi, ma deve quanto
meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice,
eventualmente, anche attraverso l'esercizio dei suoi poteri ufficiosi, possa
verificare la sussistenza, nei suoi confronti, di un più complessivo disegno
preordinato alla vessazione o alla prevaricazione.
La ricorrenza del mobbing deve essere, dunque, esclusa tutte le volte che la
valutazione complessiva dell'insieme delle circostanze addotte (ed accertate
nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singulatim, elementi od
episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare,
secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere esorbitante ed
unitariamente persecutorio e discriminante del complesso di condotte poste
in essere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.09.2015, n.
4394).
Applicando al caso di specie le suddette coordinate ermeneutiche, ad avviso
del Collegio non risultano provati gli elementi che integrano la fattispecie
risarcitoria da mobbing, dovendosi rammentare che nel giudizio risarcitorio
che si svolge davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio
generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui
chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della
domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l'onere della prova
grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui
hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo
acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il ricorrente che
chiede il risarcimento del danno deve fornire la prova dei fatti costitutivi
della domanda (Consiglio di Stato, sez. VI, 28.01.2016, n. 284).
In particolare nel caso di specie non risulta assolto l'onere probatorio da
parte della ricorrente in relazione né al profilo oggettivo della condotta
illecita né a quello soggettivo.
Quanto alla condotta illecita sotto un profilo oggettivo la ricorrente si è
limitata ad elencare una serie di episodi che appaiono pacificamente
riconducibili alle ordinarie dinamiche, talvolta anche conflittuali,
nell’ambito del rapporto di impiego. Ed invero il non gradimento da parte
del dipendente delle scelte organizzative dell’Amministrazione, che incidono
sulla sua posizione lavorativa, non può essere ascritto ad una ipotesi di
mobbing.
In termini generali va osservato che molti degli episodi riferiti sono
riconducibili a fisiologiche conflittualità tra subordinati e superiori
gerarchici, particolarmente esasperati in un ambiente, quale quello
militare, in cui il principio della superiorità gerarchica permea
profondamente la disciplina del rapporto di servizio.
Altri episodi sono invece riconducibili ad atti organizzativi assunti
tenendo conto delle fisiologiche carenze di personale che affliggono tale
settore del pubblico impiego.
A prescindere dal fatto che l’Amministrazione nella propria memoria fornisce
una ricostruzione differente degli stessi episodi, i quali dunque risultano
contestati nella loro dimensione fenomenologica, va osservato che nell’atto
introduttivo del giudizio in relazione a tali episodi non è stata neppure
individuata la violazione da parte dell'Amministrazione degli specifici
obblighi inerenti al rapporto di impiego, essendosi limitata la ricorrente a
generiche e non contestualizzate affermazioni sul mobbing, nonché a lati
riferimenti giurisprudenziali sulla fattispecie.
Va in proposito ricordato che "l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di
responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro
va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da
norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del
momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito,
a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di
provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di
lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia
fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro
l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire
il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è
ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi" (Cassazione sez. lav. 29.01.2013, n. 2038).
Quanto al profilo soggettivo della condotta illecita, l’individuazione
dell’intento persecutorio, che deve costituire il filo conduttore dei
diversi episodi ritenuti mobbizzanti, è dalla ricorrente meramente affermata
ma lungi dall’essere dimostrata. Ciò anche alla luce di quanto rilevato in
relazione agli episodi riferiti, che non sembrano di per sé rivelare alcun
intento persecutorio o di un disegno unitario dell’Amministrazione volto
alla emarginazione o alla persecuzione della dipendente.
L’intento persecutorio imputato all’Amministrazione risulta quindi frutto di
personale convincimento della ricorrente, che tuttavia non risulta
supportato da alcuna concreta ed idonea dimostrazione.
Il lavoratore "non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi
di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici
atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento
in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza
nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione
o alla prevaricazione" (Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2013, n. 4135; idem
12.03.2012, n. 1388).
In conclusione, per le ragioni che precedono, il ricorso non è meritevole di
accoglimento e deve essere rigettato. |
PUBBLICO IMPIEGO: Pluralità di condotte lesive e intento persecutorio.
È configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo,
integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello
soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo è onere del
lavoratore che lo denunci e che chieda di essere risarcito provare
l’esistenza di tale danno, ed il nesso causale con il contesto di lavoro
(respinta, nella specie, la richiesta di risarcimento avanzata da un
dipendente, di un Caf; mancava, infatti, la prova che le singole condotte
tenute dalla struttura avessero avuto come obiettivo quello di emarginare e
ledere il lavoratore) (Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 05.04.2019 n. 9664
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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6.3. La sentenza della Corte territoriale non è incorsa
infatti nella
violazione delle disposizioni in tema di distribuzione dell'onere della
prova (2697 cod. civ.).
Premesso che è configurabile il "mobbing"
lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità di
comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo
dell'intendimento persecutorio del datore medesimo è onere del
lavoratore che lo denunci e che chieda di essere risarcito provare
l'esistenza di tale danno, ed il nesso causale con il contesto di lavoro
(cfr. Cass. 06/08/2014 n. 17698, 21/05/2018 n. 12437).
La Corte
territoriale esattamente applicando tale regola e sulla base delle
allegazioni e delle prove acquisite in giudizio ha escluso che fosse stata
offerta la prova che le singole condotte denunciate fossero connotate
da un'emarginazione o di un intento persecutorio del datore di lavoro,
nella sostanza escludendo che il comportamento datoriale sia stato
caratterizzato da iniziative che potessero ledere i diritti fondamentali
del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative
"stressogene". |
PUBBLICO IMPIEGO: Danno alla salute a causa dell’attività lavorativa.
Incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività
lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre
all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il
nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova
sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte
le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno
(Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 27.02.2019 n. 5749
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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4. Il primo motivo è connotato da assoluta genericità delle
critiche
mosse alla decisione impugnata.
Peraltro, la decisione si pone in linea
con i principi reiteratamente affermati da questa Corte in tema di
responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. e di
riparto
dell'onere della prova, principi secondo i quali tale norma "non configura
un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del
datore di lavoro -di natura contrattuale- va collegata alla violazione
degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti
dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue
che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa
dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare,
oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro,
nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito
tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere
adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del
danno" (cfr. Cass. 19.10.2018 n. 26495, Cass. 08.10.2018 n. 24742 e,
da ultimo, Cass. 122808/2018).
5. In tema di malattie ed eziologia plurifattoriali, la prova della causa
di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro, che grava
sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole
certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell'origine
professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un
rilevante grado di probabilità (cfr. Cass. 08.05.2013 n. 10818).
Né la
riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio"
implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi
siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro,
potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente
usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento
dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per
un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito
dell'art. 2087 cod. civ., che riguarda una responsabilità contrattuale
ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (cfr. Cass.
29.01.2013 n. 2038).
6. Infine, le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o
a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione
di infortunio o malattia contenuta nell'art. 2110 c.c., sono
normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del
posto, mentre, affinché l'assenza per malattia possa essere detratta
dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia
un'origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione
lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua
genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087
c.c. (cfr. Cass. 27.06.2017 n. 15972).
Ciò che nella specie è stato
escluso dal giudice del gravame con motivazioni che, come sopra
precisato, non sono state idoneamente contrastate dai rilievi mossi in
questa sede. |
PUBBLICO IMPIEGO: Domanda di risarcimento del danno da
mobbing.
Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al
risarcimento del danno subito a causa del mobbing deve indicare in maniera
specifica il tipo di danno che assume di avere subito e poi fornire la prova
dei pregiudizi da tale tipo di danno in concreto scaturiti, prova che può
essere fornita anche ex art. 2729 c.c., attraverso presunzioni gravi,
precise e concordanti, restando in ogni caso affidato al giudice di merito
il compito di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto
danno sussista, dopo l’individuazione, appunto, della specie, e
determinandone l’ammontare, eventualmente con liquidazione equitativa (TRIBUNALE di Trani, Sez. lavoro, sentenza 19.11.2018 n. 1770 -
massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: intento persecutorio del datore di lavoro.
Diversamente dalla figura del demansionamento, il mobbing è caratterizzato
dall’esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro,
intento che deve formare oggetto di dimostrazione da parte di chi rivendica
il danno subìto, fermo restando che il demansionamento, qualora provochi
danni morali e professionali, dà diritto al risarcimento indipendentemente
dalla ulteriore sussistenza del mobbing.
In ogni caso, i fatti portati a
fondamento sia del danno da demansionamento, quanto del danno da mobbing,
devono ricevere idonea dimostrazione in giudizio secondo il principio
dell’onere della prova, sancito dall’art. 2697 c.c. e valido anche per le
controversie portate dinnanzi alla giurisdizione amministrativa, secondo il
quale chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che
ne costituiscono il fondamento (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 01.02.2017 n. 84
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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3. Il ricorso non è fondato.
Nella sostanza il ricorrente fa valere, con il presente giudizio, i danni
che gli sarebbero derivati sia dall’illegittimo “demansionamento” (vale a
dire, dall’attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle della sua
qualifica di appartenenza) sia dal complessivo comportamento di mobbing
posto in essere nei suoi confronti.
3.1. E’ nota in proposito la differenza tra le due situazioni: il mobbing,
diversamente dall’altra figura, è caratterizzato dall’esistenza di un
intento persecutorio da parte del datore di lavoro, intento che deve formare
oggetto di dimostrazione da parte di chi rivendica il danno subìto, fermo
restando che il demansionamento, qualora provochi danni morali e
professionali, dà diritto al risarcimento indipendentemente dalla ulteriore
sussistenza del mobbing (cfr., Consiglio di Stato, Sez. III, 12.01.2015
n. 28 del 2015; TRGA Trentino Alto Adige, Bolzano, 23.09.2015,
n. 279 del 2015; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 02.03.2015, n. 342).
In ogni caso, i fatti portati a fondamento sia del danno da demansionamento,
quanto del danno da mobbing, devono ricevere idonea dimostrazione in
giudizio secondo il principio dell’onere della prova, sancito dall’art. 2697
c.c. e valido anche per le controversie portate dinnanzi alla giurisdizione
amministrativa, secondo il quale chi vuole far valere un diritto in giudizio
deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
3.2. La giurisprudenza, in proposito, ha precisato che, ai fini di ritenere
provato un danno da dequalificazione professionale attraverso il meccanismo
delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., non è sufficiente a fondare
una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie
generali, come la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il
tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del
demansionamento, la sua durata e altri simili indici, dovendo invece
procedere il giudice di merito, pur nell'ambito di tali categorie, ad una
precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della
dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e
regole di comune esperienza (di recente, in tal senso, Cass., Sez. lav., 18.08.2016, n. 17163).
Analogamente è a dirsi per la prova degli elementi costitutivi del mobbing,
tenendo presente che, nel rapporto d’impiego pubblico, esso si sostanzia in
una condotta del datore di lavoro (o del superiore gerarchico) “complessa,
continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente
nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente
ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto
all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà
finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente,
tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica; pertanto,
ai fini della configurabilità della condotta lesiva da mobbing, va accertata
la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati in particolare:
a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio,
illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente
sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;
b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la
lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore;
d) dalla prova
dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio unificante i
singoli fatti lesivi, che rappresenta elemento costitutivo della
fattispecie” (in tal senso, di recente, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2016, n. 4509).
3.3. E così, per un verso, quanto al danno da demansionamento, la
giurisprudenza ha evidenziato che, sul piano probatorio, sebbene l’obbligo
del datore di lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni rispondenti alla
categoria attribuita o a mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte
abbia natura contrattuale, tuttavia il contenuto del preteso demansionamento
va comunque esposto nei suoi elementi essenziali dal lavoratore che non può,
quindi, limitarsi genericamente a dolersi di essere vittima di un illecito,
ma deve almeno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il
Giudice amministrativo, anche con i suoi poteri officiosi, possa verificare
la sussistenza nei suoi confronti di una condotta illecita; ciò, peraltro,
sul presupposto che l'illecito di demansionamento non è ravvisabile in
qualsiasi inadempimento alle obbligazioni datoriali bensì soltanto
nell'effettiva perdita delle mansioni svolte (in tal senso, da ultimo,
TAR Lazio, Roma, Sez. I, 07.02.2015, n. 2280).
Per altro verso, ed analogamente, quanto al danno da mobbing è stato
ribadito che il lavoratore non può limitarsi, davanti al giudice, a dolersi
genericamente di essere vittima di un illecito (ovvero ad allegare
l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare
qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa
verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno
preordinato alla vessazione o alla prevaricazione (Cons. Stato, Sez. VI, 12.03.2015, n. 1282).
3.4. Con riguardo, poi, al danno-conseguenza, ossia allo specifico
pregiudizio professionale, biologico ed esistenziale sofferto dal
lavoratore, esso deve essere parimenti allegato e provato dal danneggiato,
in quanto non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento
illegittimo rientrante nelle su indicate categorie: non è sufficiente, in
altre parole, dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta
datoriale, ma incombe sul lavoratore l’onere non solo di allegare gli
elementi costitutivi del demansionamento o del mobbing, ma anche di fornire
la prova, ex art. 2697 c.c., del danno non patrimoniale che ne è derivato e
del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (da ultimo, in tal
senso, TAR Lazio, Roma, Sez. I-ter, 26.06.2015, n. 8705 del 2015; TAR
Sicilia, Catania, Sez. II, 12.03.2015, n. 725).
...
4.2.2. Come è noto, la condotta illecita di mobbing “non è ravvisabile
quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su
cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale
condotta del datore di lavoro, funzionale all'assetto dell'apparato
amministrativo (o imprenditoriale nel caso del lavoro privato), o, infine,
quando vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento
datoriale (Cons. Stato, Sez. VI, 06.05.2008 n. 2015; TAR Piemonte, Sez.
I, 08.10.2008, n. 2438)” (TAR Piemonte, Sez. I, 10.07.2015, n.
1168).
...
7. Alla luce delle su indicate circostanze, il Collegio ritiene che il
ricorrente non abbia adempiuto (né si sia offerto di adempiere articolando
prova testimoniale su circostanze in tal senso rilevanti) agli oneri
probatori su di esso gravanti in materia.
Come è noto, “in relazione all’imputazione soggettiva dell’onere della
prova, la giurisprudenza afferma la natura contrattuale della relativa
azione risarcitoria, dal momento che quest’ultima rinviene il proprio
presupposto nell'espletamento dell'attività lavorativa da parte del soggetto
asseritamente leso e nella ritenuta violazione, da parte del datore di
lavoro, dell'obbligo su di esso incombente ai sensi dell'art. 2087 c.c..
Pertanto, alla luce dei principi affermati dall’art. 1218 c.c., grava sul
lavoratore l'onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra
questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro il solo onere
di provare l'assenza di una colpa a sé riferibile.
In ordine all'onere della prova da offrirsi da parte del soggetto
destinatario di una condotta mobbizzante, quest'ultima deve essere
adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli
comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito intento persecutorio diretto
a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o
conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo (TAR
Lombardia, Milano, sez. I, 11.08.2009 n. 4581; TAR Lazio, Roma, III,
14.12.2006 n. 14604);
- in altri termini, il mobbing, proprio perché non può prescindere da un
supporto probatorio oggettivo, non può essere correlato in via esclusiva, ma
neanche prevalente, al vissuto interiore del soggetto, ovvero
all'amplificazione da parte di quest'ultimo delle normali difficoltà che
connotano la vita lavorativa di ciascuno (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I,
07.04.2008 n. 2877);
- in particolare, nell'esaminare i casi di preteso mobbing, il giudice deve
evitare di assumere acriticamente l'angolo visuale prospettato dal
lavoratore che asserisce di esserne vittima: da un lato, infatti, è
possibile che i comportamenti del datore di lavoro, pur se oggettivamente
sgraditi, non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se
non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura
patologica; dall'altro, è possibile che gli atti del datore di lavoro (pur
sgraditi) siano di per sé ragionevoli e giustificati in quanto indotti da
comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze
sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali, etc. (TAR Umbria, Sez. I, 24.09.2010 n. 469);
- in altre parole, non si deve sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere di un
clima di cattivi rapporti umani derivi, almeno in parte, anche da
responsabilità dell'interessato; tale ipotesi può, anzi, essere
empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si
spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una
situazione che invece i suoi colleghi trovano normale;
- tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l'ambiente di
lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni
militari o gerarchicamente organizzate (come i Corpi di Polizia),
caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non
tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono
essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le
carenze possono essere tollerate: infatti, in questa situazione un approccio
condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non strumentale) fornita
dall'interessato può essere quanto mai fuorviante” (TAR Piemonte, Sez. I,
10.07.2015, n. 1168). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing e onere della prova.
Nel giudizio per il risarcimento del danno da mobbing non può darsi ingresso
al c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio, con la
conseguenza che il ricorrente che chiede il risarcimento del danno da
cattivo (o omesso) esercizio della funzione pubblica, deve fornire la prova
dei fatti costitutivi della domanda.
Inoltre, la prova dell’esistenza del
danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che
faccia concludere per la sua certezza, la quale a sua volta presuppone:
l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una
lesione, che è configurabile (oltre che nell’ovvia evidenza fattuale) anche
allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata
dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della P.A.; nondimeno, i doveri di
solidarietà sociale, che traggono fondamento dall’art. 2 Cost., impongono di
valutare complessivamente la condotta tenuta anche dalle parti private nei
confronti della P.A. in funzione dell’obbligo di prevenire o attenuare
quanto più possibile le conseguenze negative scaturenti dall’esercizio della
funzione pubblica o da condotte ad essa ricollegabili in via immediata e
diretta; l’esame di tale profilo si riconnette direttamente
all’individuazione, in concreto, dei presupposti per l’esercizio dell’azione
risarcitoria, onde evitare che situazioni pregiudizievoli prevenibili o
evitabili con l’esercizio della normale diligenza si
scarichino in modo improprio sulla collettività in generale
e sulla finanza pubblica in particolare (TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 28.06.2016, n. 7494
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
Osserva il Collegio, al riguardo, che con il ricorso in
esame è introdotta azione per il risarcimento del danno, anche biologico,
derivante da inadempienze agli obblighi del datore di lavoro nei confronti
del ricorrente che, in proposito, lamenta la lesione dei propri diritti,
riconducibili allo status di agente di Polizia Penitenziaria, compromesso e
infine cessato a causa della attività di mobbing posta in essere da organi
dell’Amministrazione di appartenenza.
L’azione introdotta, dunque, va inquadrata nell’ambito della responsabilità
contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ., ed è, dunque,
riconducibile alla Amministrazione penitenziaria che, in virtù del principio
di immedesimazione organica, risponde direttamente anche per i fatti lesivi
posti in essere da parte dei suoi organi.
In coerenza con tale impostazione, la domanda di condanna al risarcimento
del danno è stata in effetti rivolta nei soli confronti dell’Amministrazione
penitenziaria.
Peraltro, trattandosi di azione risarcitoria per mobbing che si concretizza
attraverso le condotte del superiore gerarchico nei confronti del dipendente
esorbitante dall’ordinaria gestione del rapporto di lavoro, la funzionaria
intimata, che anche nella prospettazione di parte ricorrente avrebbe un
ruolo centrale in tale ambito, assume la qualità di controinteressata,
siccome chiamata in causa quale autrice materiale della condotta contestata
(astrattamente fonte di responsabilità per l’amministrazione di
appartenenza) e, pertanto, non può ritenersi estranea al giudizio, come
dimostrano anche le ampie e circostanziate difese prodotte dalla medesima,
e, pertanto, non deve esserne estromessa.
III. Come emerge dalla ampia esposizione in fatto, il ricorrente ripercorre
gli avvenimenti occorsi tra il 2007 ed il 2012 che, a suo dire,
costituiscono gli elementi dimostrativi della situazione di mobbing dal
medesimo patita, incidenti sul suo stato di salute compromesso fino al punto
di essere dichiarato, nel 2013, permanentemente NON IDONEO al servizio di
istituto nella Polizia Penitenziaria in modo assoluto e da collocare in
congedo assoluto a soli quaranta anni.
I tratti salienti delle vicende lavorative possono essere ricondotti
essenzialmente ai seguenti punti:
a) demansionamento che avrebbe subito nel
2007 quale ritorsione per essere stato promotore di una serie di ricorsi
patrocinati dal proprio genitore, avvocato, in favore di numerosi dipendenti
che hanno così ottenuto i buoni pasto precedentemente non percepiti;
b)
abbassamento delle note di qualifica negli anni 2011 e 2012 conseguente
all’intensificarsi dell’attività sindacale che lo ha visto fondatore di una
nuova sigla;
c) attività di ricerca dei presupposti per avviare procedimento
disciplinare nei suoi confronti;
d) inserimento nel relativo fascicolo
personale di documentazione idonea a metterlo in cattiva luce, ignorando
qualsiasi pur sussistente elemento di segno contrario;
e) documentata
attività, in particolare, della dirigente dott.ssa -OMISSIS-, per creare un
clima ostile e diffamatorio nell’ambiente di lavoro, attorno all’agente
sgradito;
f) avvio di un procedimento disciplinare finalizzato addirittura
alla dispensa dal servizio, nell’assoluta assenza dei relativi presupposti
di fatto;
g) derubricazione dei fatti, posti a indebito fondamento dell’incolpazione,
dopo un lasso di tempo (circa dieci mesi) tale da comportare –per la
sommatoria di tutte le circostanze sopra sintetizzate al prolungato stress,
provocato dalla prospettiva di perdere il lavoro– gravi e cronicizzate
conseguenze sulla sua salute, che, come sopra precisato, successivamente
lasciava il servizio, per sopravvenuta inabilità psico-fisica.
IV. Così individuati i tratti salienti delle vessazioni e mortificazioni
subite nell’ambito lavorativo che costituirebbero la prova dell’esistenza di
un preciso disegno di emarginazione del ricorrente, e che hanno comunque
determinato uno stato di stress psichico ormai cronicizzato, tanto da
costringerlo a lasciare il posto di lavoro senza più alcuna certezza sul
proprio futuro, umano e lavorativo, il Collegio ritiene doveroso richiamare
i principi elaborati dalla giurisprudenza come recentemente ribaditi dal
Consiglio di Stato (cfr. Cons. di Stato, Sez. VI, 28.01.2016, n. 284),
al fine di valutare la fondatezza delle istanze avanzate nel presente
giudizio risarcitorio.
Innanzitutto, deve accertarsi il rispetto del principio generale sancito dal
combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio
deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64,
co. 1, c.p.a. (secondo cui l'onere della prova grava sulle parti che devono
fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità),
non potendosi, di contro, dare ingresso al c.d. metodo acquisitivo tipico
del processo impugnatorio; da tanto consegue che il ricorrente che chiede il
risarcimento del danno da cattivo (o omesso) esercizio della funzione
pubblica, deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda.
Ancora, la prova dell'esistenza del danno deve intervenire all'esito di una
verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la
quale a sua volta presuppone: l'esistenza di una posizione giuridica
sostanziale; l'esistenza di una lesione, che è configurabile (oltre che
nell'ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante
probabilità di risultato utile frustrata dall'agire (o dall'inerzia)
illegittima della p.a.; nondimeno, i doveri di solidarietà sociale, che
traggono fondamento dall'art. 2 Cost., impongono di valutare
complessivamente la condotta tenuta anche dalle parti private nei confronti
della p.a. in funzione dell'obbligo di prevenire o attenuare quanto più
possibile le conseguenze negative scaturenti dall'esercizio della funzione
pubblica o da condotte ad essa ricollegabili in via immediata e diretta;
l’esame di tale profilo si riconnette direttamente all'individuazione, in
concreto, dei presupposti per l'esercizio dell'azione risarcitoria, onde
evitare che situazioni pregiudizievoli prevenibili o evitabili con
l'esercizio della normale diligenza si scarichino in modo improprio sulla
collettività in generale e sulla finanza pubblica in particolare.
Esaminando, più da vicino, il fenomeno del mobbing nel rapporto di impiego
pubblico questo deve sostanziarsi in una condotta del datore di lavoro o del
superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta
nei confronti del dipendente nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con
comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti
od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un
disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del
medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute
psicofisica (Cons. Stato, Sez. VI, 12/03/2015 n. 1282).
Pertanto, ai fini
della configurabilità della condotta lesiva da mobbing, va accertata la
presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati in particolare:
a)
dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio,
illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente
sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;
b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la
lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore;
d) dalla prova
dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
E’ stato quindi, ritenuto che la sussistenza di condotte mobbizzanti deve
essere qualificata dall'accertamento di precipue finalità persecutorie o
discriminatorie, poiché proprio l'elemento soggettivo finalistico consente
di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una
sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario
teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore
pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito che è
imprescindibile ai fini dell'enucleazione del mobbing (Cons. Stato, Sez. III,
14/05/2015 n. 2412). Conseguentemente un singolo atto illegittimo o anche più
atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore, non sono,
di per sé soli, sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante (Cons.
Stato Sez. VI, 16/04/2015 n. 1945). |
PUBBLICO IMPIEGO: Condotta vessatoria a carico del lavoratore.
Si ravvisa il mobbing a fronte di una serie di comportamenti di carattere
persecutorio, illeciti o anche leciti se singolarmente considerati, che, con
intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo
miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del
datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti,
sottoposti al potere direttivo dei primi.
Altresì, è necessario che vi sia
un evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del
dipendente, nonché l’intento persecutorio, quale elemento unificante di
tutti i comportamenti lesivi. La prova della condotta vessatoria,
presupposto indefettibile per la configurazione dell’eventus damni e degli
effetti risarcitori connessi, spetta al lavoratore (prova che, invero, nella
fattispecie non era stata fornita né in primo grado né in secondo grado dal
lavoratore, con conseguente rigetto della domanda volta al risarcimento dei
danni asseritamente patiti a causa di una condotta vessatoria subita dal
medesimo sul luogo di lavoro) (Corte d'Appello di Potenza, Sez. lavoro, sentenza 26.05.2016 n. 118
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Elementi costitutivi del
mobbing.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva di mobbing da parte del
datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, il cui accertamento
costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non
sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato:
a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o
anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere
in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con
intento vessatorio;
b) l’evento lesivo della salute o della personalità del
dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del
superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del
lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento
persecutorio, spettando al lavoratore l’onere di provare ciascuno di detti
elementi (TRIBUNALE di Napoli, Sez. lavoro, sentenza 11.06.2015 -
massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing e mansioni svolte dal dirigente medico.
In termini di ripartizione dell’onere della prova in materia di mobbing,
stante la natura contrattuale dell’illecito, grava sul lavoratore l’onere di
provare tutta la serie di circostanze e accadimenti storici, poiché occorre
che sia necessariamente che sia dimostrato dal datore di lavoro l’intento
persecutorio che avrebbe permeato le condotte datoriali (nella specie si è
nel merito negato l’asserito demansionamento del lavoratore, in quanto le
mansioni svolte dal dirigente medico –pur quantitativamente ridotte– non
assumevano un contenuto professionale qualitativamente inferiore rispetto a
quelle espletate in precedenza)
(Corte d'Appello di L’Aquila, Sez. lavoro, sentenza 04.06.2015 n. 685
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Emarginazione del dipendente ed espulsione dal contesto lavorativo.
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi da
parte del datore di lavoro comportamenti, anche protratti nel tempo,
rivelatori, in modo inequivoco, di un’esplicita volontà di quest’ultimo di
emarginazione del dipendente, occorrendo, pertanto dedurre e provare la
ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte
dirette (oggettivamente) all’espulsione dal contesto lavorativo, o comunque
connotate da un alto tasso di vessatorietà e prevaricazione, nonché sorrette
(soggettivamente) da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente
collegate dall’unico fine intenzionale di isolare il dipendente (respinta la
richiesta risarcitoria avanzata da una dipendente in quanto infondata; a
detta della Corte, la ricorrente aveva confuso l’accertamento del fatto
materiale con quello della sua illegittimità di cui la componente
psicologica era elemento essenziale e la cui prova era onere dell’attrice)
(Corte di
Cassazione, Sez. civile, sentenza 23.01.2015 n. 1258 -
massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Comportamento vessatorio dei colleghi o dei superiori.
Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario qualora il dipendente faccia
valere il comportamento vessatorio di colleghi o superiori quale titolo
giustificativo della pretesa, mentre va affermata la giurisdizione del
giudice amministrativo nel caso in cui la lesione sia derivante da una
violazione del rapporto contrattuale, fondando l’azione proposta su uno
specifico inadempimento da parte dell’Amministrazione.
Nel caso di avvenuto
accertamento di fatti di mobbing, che si assumono aver cagionato al
dipendente rilevanti conseguenze sul piano morale e psicofisico, la
responsabilità dell’Amministrazione datrice di lavoro ai sensi dell’art.
2087 c.c. ha natura contrattuale se la domanda risarcitoria risulti
espressamente fondata sull’inosservanza degli obblighi derivanti dal
rapporto di impiego, con conseguente distribuzione dell’onere della prova
sul dipendente (che deve provare la condotta illecita dell’Amministrazione e
il danno patito) e quest’ultima (che deve dimostrare l’assenza di una colpa
a sé riferibile) (TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 26.11.2014 n. 11882
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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Con riguardo alla domanda di risarcimento danni
proposta per c.d. mobbing, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario
qualora il dipendente faccia valere il comportamento vessatorio di colleghi
o superiori quale titolo giustificativo della pretesa, mentre va affermata
la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso in cui la lesione sia
derivante da una violazione del rapporto contrattuale, fondando l'azione
proposta su uno specifico inadempimento da parte dell'Amministrazione (Cfr.
TAR Friuli Venezia Giulia 26.05.2011 n. 260).
Nel caso di avvenuto accertamento di fatti di mobbing, che si assumono aver
cagionato al dipendente rilevanti conseguenze sul piano morale e
psicofisico, la responsabilità dell'Amministrazione datrice di lavoro ai
sensi dell'art. 2087 Cod. civ. ha natura contrattuale se la domanda
risarcitoria risulti espressamente fondata sulla inosservanza degli obblighi
derivanti dal rapporto d'impiego, con conseguente distribuzione dell'onere
della prova sul dipendente (che deve provare la condotta illecita
dell'Amministrazione e il danno patito) e quest'ultima (che deve dimostrare
l'assenza di una colpa a sé riferibile) (Cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 13.04.2010 n. 2045).
In virtù di tali premesse, risulta evidente che ogni doglianza, così come
prospettata, tendente a rimarcare il comportamento vessatorio e persecutorio
del diretto superiore Tenente Colonnello -OMISSIS-, è del tutto
inammissibile poiché le medesime condotte possono essere esaminate in un
ambito di una possibile responsabilità extracontrattuale, il cui esame, come
ribadito in precedenza, è precluso al giudice amministrativo.
Infatti, appare più conforme alle linee-guida, che emergono dalla sentenza
della Corte Costituzionale n. 204/2004, la posizione della giurisprudenza
che qualifica l’azione proposta come riferita alla responsabilità
extra-contrattuale per mobbing, laddove la stessa è riconducibile,
sostanzialmente, a comportamenti vessatori dei superiori gerarchici o dei
colleghi di lavoro del dipendente interessato, al di là dei limiti, che la
Suprema Corte ha indicato quali parametri di rango costituzionale per la
giurisdizione del Giudice Amministrativo, escludendo da tali parametri la
categoria generalizzata dei “comportamenti” (al di fuori, deve ritenersi,
della valutazione in via incidentale dei medesimi, ove riconducibili ad una
lesione di interessi legittimi, o di diritti soggettivi sussistenti in una
materia, che sia oggetto di giurisdizione esclusiva). La predetta
giurisdizione sul risarcimento del danno, anche biologico, derivante da mobbing sussiste, dunque, nella misura strettamente riconducibile ad un
contesto di specifiche inadempienze agli obblighi del datore di lavoro;
dette inadempienze possono ravvisarsi anche in comportamenti omissivi,
contraddittori o dilatori dell’Amministrazione, ovvero in atti posti in
essere in violazione di norme, sulle quali non sussistano incertezze
interpretative, o ancora nella reiterazione di atti, anche affetti da mere
irregolarità formali, ma dal cui insieme emerga una grave alterazione del
rapporto sinallagmatico, tale da determinare un danno all’immagine
professionale e alla salute del dipendente (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 15.04.2008 n. 1739).
Né consegue che l’esame dell’intera vicenda rimessa al giudice evocato con
la proposizione del presente mezzo di gravame può essere ammessa soltanto
nella misura in cui si prospettano delle violazioni di precisi obblighi di
tutela delle condizioni di lavoro del ricorrente poste a carico
dell’Amministrazione intimata quale datore di lavoro pubblico. In pratica
occorre esaminare se si sostenga contestualmente la violazione di doveri
legali che regolano il rapporto, deducendo l'inadempimento da parte
dell'Amministrazione dei principi di buona fede e correttezza, nonché la
violazione dei doveri di imparzialità e buona amministrazione, posta in
essere con un comportamento omissivo o commissivo, e facendosi valere la
violazione dell'obbligo specifico, di cui all'art. 2087 c.c., del datore di
lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità
psico-fisica e morale del lavoratore.
Giova, altresì, segnalare che l’eccepita prescrizione non è ipotizzabile nel
caso di specie, dovendosi computare il diverso termine ordinario decennale.
Si prescinde dall’esame di ogni altra eccezione in rito stante
l’infondatezza nel merito del gravame.
Al fine di configurare una condotta causale di danno da mobbing, la
giurisprudenza ha specificato che occorre fornire, inter alios, la prova
dell’esistenza di un disegno persecutorio da ravvisarsi in ipotesi di
comportamenti materiali o di provvedimenti contraddistinti da finalità di
volontaria ed organica vessazione nonché discriminazione, con connotazione
emulativa e pretestuosa identificabile quale elemento soggettivo della
fattispecie illecita (per tutte,Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 06.05.2008, n.
2015 e Cass. Civ., Sez. Lav., 06.03.2006, n. 4774).
Nel caso di specie tale disegno organico persecutorio non risulta
sussistente né tanto meno provato.
Come più volte ricordato dalla giurisprudenza, il termine mobbing deriva dal
verbo in lingua inglese to mob (che significa assalire, prendere d’assalto,
malmenare) e viene spesso utilizzato per indicare genericamente molestie
morali sul luogo di lavoro.
La medesima giurisprudenza ha chiarito che costituisce mobbing l'insieme
delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della
persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente con comportamenti,
materiali o provvedimentali, sicché, la sussistenza della lesione, del bene
protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata, procedendosi alla
valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi e
considerando l'idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata,
per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue
caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti
specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa (Cass. Civ. Sez.
Lav., 06.03.2006, n. 4774).
Tuttavia, determinati comportamenti non possono essere qualificati come
mobbing, ai fini della pronuncia risarcitoria richiesta (di natura
contrattuale), se è dimostrato che vi è una ragionevole ed alternativa
spiegazione al comportamento datoriale. |
PUBBLICO IMPIEGO: Estromissione del lavoratore dalla struttura organizzativa.
Il tratto strutturante del mobbing —tale da attrarre nell’area della
fattispecie comportamenti che altrimenti sarebbero confinati nell’ordinaria
dinamica, ancorché conflittuale, dei rapporti di lavoro— è rappresentato
dalla sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte del
datore di lavoro volta ad emarginare o estromettere il lavoratore dalla
struttura organizzativa.
Consegue, in ordine all’onere della prova da
offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobizzante, che
quest’ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione
dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l’asserito
intento persecutorio diretto ad emarginare il dipendente, non rilevando mere
posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento del
rapporto lavorativo.
Ciò che, quindi, qualifica il mobbing è il nesso che lega i diversi atti e
comportamenti del datore di lavoro, i quali in tanto raggiungono tale soglia
in quanto si dimostrino legati da un disegno unitario finalizzato a vessare
il lavoratore e a distruggerne la personalità e la figura professionale (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 20.05.2014 n. 218
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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6. Osserva, invero, il Collegio che, come ha avuto modo di chiarire la
migliore giurisprudenza civilistica (ex multis Corte di Cassazione, Sezione
Lavoro, 09.09.2008, n. 22858), il mobbing è costituito da una condotta
protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore, che assume le
caratteristiche di una persecuzione.
6.1 Ai fini della sua configurabilità sono, pertanto, rilevanti i seguenti
elementi:
- la protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti,
giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente legittimi (Corte
cost. 19.12.2003 n. 359; Cass. Sez. Un. 04.05.2004 n. 8438; Cass.
29.09.2005 n. 19053; dalla protrazione, il suo carattere di illecito
permanente: Cass. Sez. Un. 12.06.2006 n. 13537), posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente, in modo da
svelare un intento vessatorio;
- la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione od
all'emarginazione del dipendente);
- la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o
sessuale o morale o psicologico o fisico;
- il nesso eziologico tra la condotta del mobber e il pregiudizio
all’integrità psico-fisica.
6.2 Il tratto strutturante del mobbing -tale da attrarre nell'area della
fattispecie comportamenti che altrimenti sarebbero confinati nell'ordinaria
dinamica, ancorché conflittuale, dei rapporti di lavoro– è rappresentato
dalla sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte del
datore di lavoro volta a emarginare o estromettere il lavoratore dalla
struttura organizzativa. Consegue, in ordine all'onere della prova da
offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobizzante, che
quest'ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione
dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito
intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere
posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un
rapporto lavorativo (TAR Lombardia–Milano, I, 11.08.2009 n. 4581; TAR Sicilia-Catania, III, 27.02.2009, n. 421 e
05.05.2008, n. 777; TAR
Lazio, sez. III, 14.12.2006, n. 14604).
6.3 Ciò che, quindi, qualifica il mobbing é il nesso che lega i diversi atti
e comportamenti del datore di lavoro, i quali in tanto raggiungono tale
soglia in quanto si dimostrino legati da un disegno unitario finalizzato a
vessare il lavoratore e a distruggerne la personalità e la figura
professionale.
7. Nel caso di specie, si osserva, tuttavia, che il ricorrente non ha
fornito idonea prova della sussistenza del su indicato intento
finalisticamente indirizzato ad arrecargli pregiudizio.
7.1 Si rammenta, infatti, che, dovendo ricondursi la fattispecie di
responsabilità portata all’attenzione di questo giudice alla violazione da
parte del datore di lavoro di specifici obblighi contrattuali, derivanti dal
principio di protezione delle condizioni di lavoro sancito dall’art. 2087
C.C., incombe sul lavoratore l’onere della prova in ordine alla sussistenza
del rapporto di lavoro (pacifico nel caso di specie), del fatto, del danno
di cui chiede il risarcimento e del nesso causale tra sottoposizione alle
vessazioni e danno. Spetta, invece, al datore di lavoro che voglia ottenere
il rigetto della domanda l’onere di provare l’avvenuto adempimento
dell’obbligazione ovvero la non imputabilità dell’inadempimento, cioè
l’avvenuta adozione di tutte le misure idonee ad evitare il danno ai sensi
dell’art. 2087 C.C..
7.2 Dagli elementi agli atti si può, anzi, escludere la sussistenza di detta
fattispecie.
7.3 Dalla copiosa documentazione prodotta e dall’estremamente lungo ricorso
introduttivo, nonché dalle argomentazioni e produzioni difensive del
Ministero intimato, che si danno per noti e ai quali tutti -per logiche
esigenze di sinteticità- si fa rinvio, emerge, invero, unicamente che, nel
periodo di riferimento il ricorrente ha sofferto di varie patologie che lo
hanno costretto a ricorrere a cure mediche e ad assentarsi dal posto di
lavoro, che, avendo posto in essere condotte ritenute penalmente e/o
disciplinarmente rilevanti, è stato sovente sottoposto ai relativi
procedimenti e che è stato più volte trasferito su sua istanza o per
riscontrate situazioni di incompatibilità ambientale, senza pur tuttavia che
sia ravvisabile una qualche diretta correlazione tra le patologie sofferte,
da un lato, e i procedimenti penali/disciplinari e/o i trasferimenti,
dall’altro.
7.3.1 Tale correlazione risulta, invero, solo affermata e riferita dal
ricorrente (che sovente, nel ricorso, specifica di essersi rivolto alle cure
sanitarie dopo un colloquio con l’uno o l’altro superiore gerarchico, senza,
pur tuttavia, offrire serie e concrete prove in merito), ma non idoneamente
comprovata.
7.3.2 Emerge, anzi, dai vari referti medici prodotti dal medesimo che gli
specialisti cui si è rivolto abbiano dapprima solo sospettato e poi via via
affermato con sempre maggior convinzione che egli è afflitto da un disturbo
paranoide di personalità (all. n. 844, 845, 847, 852, 854 e 865– fascicolo
doc. ricorrente).
7.3.3 Tale circostanza, pur non consentendo di escludere a priori la
possibilità che egli sia stato anche vittima di mobbing, induce, pertanto,
questo Collegio a non ritenere probanti nel senso auspicato dall’interessato
le allegazioni e produzioni documentali dal medesimo offerte. La dottrina
afferma, infatti, che le difficoltà relazionali, tipiche di tale disturbo
(che è considerato un disturbo mentale), potrebbero elicere comportamenti
aggressivi in ambito lavorativo che validano le convinzioni persecutorie del
soggetto, che a sua volta risponde con comportamenti disadattivi, quali
l’isolamento e le reiterate lamentele o l’aperta ostilità. Quando in un
contesto lavorativo si crea una tale dinamica è molto difficile discriminare
fra il persecutore e la vittima e identificare un inizio del problema in
processo non lineare, ma circolare (da “Un modello di valutazione
psicologica del mobbing” di I. Giorgi, P. Argentero, W. Zanaletti, S.M.
Candura - G Ital Med Lav Erg 2004; 26:2, 127-132).
7.4 Ad avviso del Collegio, i vari procedimenti avviati nei confronti del
-OMISSIS-, lungi dal costituire indice di un disegno persecutorio attuato
nei suoi confronti, devono, in ogni caso, essere ricondotti molto più
ragionevolmente allo specifico contesto in cui i fatti si sono svolti e
letti alla luce degli elevati valori umani ed etici e delle regole
comportamentali particolarmente rigide cui deve essere quotidianamente
informata la vita lavorativa e privata degli appartenenti ai corpi militari
dello Stato. Regole che il ricorrente ha manifestato, però, di mal
tollerare, essendosi messo in luce sin da subito per un comportamento poco
consono ai valori dell’-OMISSIS- (vedi all. da 1 a 18 – fascicolo doc.
Avvocatura) e che, nel tempo, ha più volte messo in discussione, con
condotte inappropriate o espressioni inopportune, sì da legittimare da parte
dei suoi superiori la “reazione” normativamente prescritta.
7.5 Analogamente è a dirsi per quanto concerne i trasferimenti, che -ove
non occasionati da richieste avanzate dallo stesso ricorrente– sono stati
necessitati da ragioni di incompatibilità ambientale e disposti in seguito a
valutazioni ampiamente discrezionali dei fatti che hanno sconsigliato la sua
permanenza in una determinata sede, senza per ciò assumere carattere sanzionatorio.
7.5.1 In ogni caso, il ricorrente non offre alcun utile indizio che possa
portare a ritenere che, nel caso specifico, tale potere sia stato esercitato
in maniera macroscopicamente illogica e/o irragionevole, sì da celare
intenti vessatori e/o persecutori.
7.6 Generici e non sorretti da adeguati elementi di riscontro s’appalesano,
poi, i denunciati demansionamento e denigrazione professionale che il
ricorrente afferma d’aver subito.
7.6.1 Non è, in ogni caso, provato che le azioni, in cui –a detta del
ricorrente- gli stessi si sarebbero concretati, siano state finalisticamente indirizzate ad arrecargli pregiudizio e pare, anzi, più
plausibile ritenere che tali azioni –ammesso che siano state effettivamente
poste in essere– siano state necessitate dal comportamento non propriamente
esemplare (e/o comunque non all’altezza del ruolo ricoperto) tenuto dal
medesimo.
7.6.2 Dalla documentazione versata in atti, trapela, in ogni caso, che il
ricorrente, nel quotidiano relazionarsi con colleghi e superiori, fosse
alquanto polemico e, in genere, privo di quell’autocontrollo e senso della
gerarchia e disciplina, che è auspicabile possieda chi appartiene al
-OMISSIS-.
7.6.3 Non risulta, però, ritraibile alcun intento vessatorio nell’attività
posta in essere dai suoi superiori gerarchici o colleghi nel periodo di
riferimento.
7.7 L’esame obiettivo delle circostanze riportate dal ricorrente non
consente, dunque, di affermare che esse contengano, anche soltanto per via
indiretta, la prova del dato fattuale strutturante la fattispecie illecita.
7.7.1 Non dubita il Collegio che i rapporti tra il ricorrente e i suoi
superiori gerarchici e/o colleghi possano essere stati connotati da una
certa conflittualità, che il -OMISSIS- possa aver soggettivamente percepito
come immotivati ed ingiusti alcuni atti adottati nei suoi confronti o che
abbia effettivamente sofferto il disagio psico-fisico lamentato, ma, nel
caso di specie, l’indimostrata sussistenza del fatto nella sua articolata
complessità e nella sua strutturale unitarietà non consente di ritenere
integrata la fattispecie del mobbing.
7.7.2 Ad avviso di questo giudice, il ricorrente non ha offerto, infatti, la
prova rigorosa della sussistenza dell’intento finalisticamente indirizzato
ad arrecargli pregiudizio, ma, unicamente, riferito una serie di fatti
accaduti, come ha personalmente avvertito e percepito il quotidiano
svolgersi della dinamica relazionale con i superiori di riferimento e, in
genere, l’evolversi del rapporto di lavoro.
Situazione sicuramente di disagio, ma non per questo necessariamente
persecutoria o volutamente preordinata ad emarginarlo o estrometterlo dalla
struttura organizzativa.
Il fatto di aver subito dei procedimenti penali e disciplinari, di essere
stato trasferito ad altre sedi o di aver emotivamente sofferto quanto
accaduto sul luogo di lavoro tra la fine del 1997 e il 2004 non paiono, in
definitiva, costituire circostanze di per sé idonee a fondare una condotta
mobbizzante e a legittimare pretese risarcitorie.
Non appare, infatti, ultroneo ribadire che “ciò che configura il mobbing
non è l’individualità degli episodi, ma la loro configurazione
individualistica che vale a strutturare come peculiare e non riducibile ad
altre fattispecie similari l’istituto del mobbing” (Tar Sicilia,
Catania, III, 13.03.2008, n. 777).
8. L’insussistenza dell’illecito, sotto il profilo oggettivo, esonera,
quindi, il Collegio dalla necessità di accertare la produzione in concreto
dei danni lamentati, nonché il nesso causale tra la condotta e l’evento
dannoso.
9. Il ricorso va, pertanto, rigettato. |
PUBBLICO IMPIEGO: Condotta del datore di lavoro finalizzata a vessare e perseguitare il
dipendente.
Per dedurre un’ipotesi di mobbing, non è sufficiente che l’interessato sia
stato oggetto di un trasferimento di sede e di sanzioni disciplinari, come
nel caso di specie, o comunque di un altro fatto soggettivamente avvertito
come ingiusto e dannoso, ma occorre che tali vicende, oltre che essersi
ripetute per un apprezzabile lasso di tempo, siano anche legate da un
preciso intento del datore di lavoro diretto a vessare e perseguitare il
dipendente con lo scopo di demolirne la personalità e la professionalità, il
che deve essere poi dimostrato in giudizio, secondo l’ordinaria regola
dell’onere della prova.
Ai fini della deduzione del mobbing, insomma, non è
sufficiente la prospettazione di un mero distacco per incompatibilità
ambientale, con trasferimento ad altra sede, ancorché illegittimo,
occorrendo, invece, anche l’allegazione di una preordinazione finalizzata
all’emarginazione del dipendente (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 15.05.2013 n. 578). |
aggiornamento all'11.09.2021 |
|
Conflitto
di interessi tra responsabile UTC e progettista:
attenzione a rilasciare il richiesto permesso di costruire!! |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: La
relazione di parentela entro il quarto grado tra il responsabile
dell’U.T.C. che ha rilasciato il titolo a costruire e il progettista dei
lavori –che sono cugini- vale a determinare una situazione generativa di un
potenziale conflitto di interessi.
Giova premettere che, come noto, in materia di conflitto
di interessi il legislatore è intervenuto a più riprese:
- con l’art. 1, comma 41, della legge 06.11.2012 n. 190, ha
novellato la legge 07.08.1990 n. 241 introducendo nella stessa l’articolo
6-bis (conflitto di interessi);
- al comma 54 dello stesso articolo 1 ha previsto, altresì, che “il
Governo stabilisce un codice di comportamento dei dipendenti delle P.A. al
fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di
corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà,
imparzialità e servizio esclusivo della cura dell’interesse pubblico”;
- al comma 8 dello stesso articolo 1 ha previsto che l’organo di
indirizzo politico adotta entro il 31 gennaio di ogni anno il piano
triennale di prevenzione della corruzione;
- con il DPR 62/2013 ha introdotto il “regolamento recante il
codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’art. 54 del
d.lgs. 30.03.2001 n. 165”, che all’articolo 7 disciplina l’obbligo di
astensione, nei termini in precedenza illustrati.
E’ appena il caso di evidenziare che il dovere di astensione dei pubblici
dipendenti e degli amministratori vale a preservare anzitutto la credibilità
e la fiducia dell’Amministrazione, scattando, perciò, a fronte di situazioni
di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi in cui sussistano
condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da
assumere, appaiano anche potenzialmente idonee a porre in pericolo
l’assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell’ente
stesso, a prescindere dai profili o dalle conseguenze penali che possono
implicare. La prevenzione del conflitto di interessi è, infatti, ad oggi
volta non solo a garantire l’imparzialità della singola decisione pubblica,
ma più in generale a tutelare il profilo dell’immagine di imparzialità
dell’Amministrazione.
Nel caso di specie, la relazione di parentela entro il quarto grado
tra il responsabile dell’U.T.C. che ha rilasciato il titolo a costruire e il
progettista dei lavori –che, come si è evidenziato, sono cugini- vale, a
parere del Collegio a determinare una situazione generativa di un potenziale
conflitto di interessi che avrebbe imposto al funzionario pubblico di
astenersi dall’adozione dell’atto in parola.
Non è, infatti, condivisibile l’argomentazione del Comune a mente della
quale dal disposto dell’art. 7 del DPR 61/2013 dovrebbe trarsi il rilievo,
ai fini dell’attivazione del dovere di astensione, dei soli rapporti di
parentela entro il secondo grado.
Una lettura attenta della norma rivela, infatti, che il limite del “secondo
grado” è riferito esclusivamente al rapporto di affinità e non
anche al rapporto di parentela, come evidenziato dalla virgola che separa le
due espressioni: “Il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di
decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di
suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi…”.
Le conclusioni cui è possibile pervenire secondo un’interpretazione
letterale del testo convergono con quelle raggiunte indagando sulla ratio
della disposizione: è logico e coerente con il fine perseguito (e cioè
escludere ogni lesione, anche potenziale, dell’imparzialità dell’agere
amministrativo) introdurre un vincolo più stringente in presenza di un
legame più intenso tra i soggetti coinvolti, quale quello di parentela, e
limitare invece (fino al secondo grado) il rilievo di un legame che
si instaura tra soggetti non consanguinei, quale quello di affinità.
---------------
Con il ricorso in disamina la Sig.ra Bo. ha impugnato il permesso di
costruire rilasciato dal Comune di Peschiera del Garda in relazione a un
intervento di demolizione e ricostruzione da effettuarsi sull’immobile
confinante con quello nella titolarità della ricorrente.
Avverso tale titolo a costruire sono stati articolati i seguenti motivi di
gravame:
1) con il primo motivo si lamenta che sarebbe stata
autorizzata l’edificazione (mediante demolizione e ricostruzione ex novo del
preesistente edificio) in violazione delle norme poste a tutela della fascia
di rispetto stradale e in particolare degli artt. 39, comma 3, lett. F, 84 e
86 delle n.t.a. del P.I.), laddove, si afferma, la costruzione preesistente
osservava nei confronti della strada una distanza addirittura superiore a
quella di legge;
2) si contesta, inoltre, la violazione dell’art. 6, n. 50, delle
n.t.a. del P.I. comunale, il quale prevede che il “verde profondo”
non possa avere una percentuale di superficie inferiore al 35% da calcolarsi
su quella fondiaria complessiva del lotto, al netto delle aree riservate a
passaggi veicolari e ai parcheggi pertinenziali, laddove dal progetto
presentato si ricaverebbe una superficie vincolata a verde di estensione
inferiore;
3) con il terzo motivo si lamenta l’illegittima concessione
all’istante di un bonus volumetrico supplementare pari al 5%, in
applicazione dell’art. 12 del D.lgs. 28/2011, oltre al bonus del 70%
assicurato dall’art. 3 L.R. 14/2009: tale supplemento, tuttavia, non sarebbe
previsto per gli interventi di demolizione e ricostruzione; si osserva,
inoltre, che la formulazione dell'art. 3 della L.R. 14/2009, come novellato
dalla L.R. 32/2013, terrebbe già conto, ai fini della concessione del bonus,
delle finalità legate al risparmio energetico;
4) con il quarto motivo si osserva che non si rinverrebbero,
nel progetto e/o delle relative tavole, gli elementi minimi indispensabili
per poter beneficiare dello scomputo di parte dello spessore dei solai ai
fini della determinazione dell’altezza dell’edificio;
5) con il quinto motivo si lamenta che la misurazione “a
mano” con scalimetro del sedime destinato a parcheggio risulterebbe
inferiore rispetto alla superficie indicata nell’elaborato “dimostrazione
parcheggi”;
6) con il sesto motivo si evidenzia che il permesso di
costruire risulterebbe firmato dal Responsabile dell’Area tecnica Edilizia
Privata e Urbanistica del Comune di Peschiera del Garda, Geom. Ma.Cr.,
mentre il progetto in generale, gli elaborati e l’istanza di rilascio del
titolo sarebbero firmati dall’Arch. Pa.Cr.: tanto in violazione del disposto
dell’art. 6-bis L. 241/1990;
7) con il settimo motivo (indicato in ricorso come I motivo
della Parte II dell’atto) si lamenta la carenza di motivazione e il difetto
di istruttoria degli atti gravati in punto di valutazione della
compatibilità paesaggistico/ambientale dell’intervento;
8) si contesta, infine, la mancata sottoposizione del progetto
all’esame istruttorio preliminare della apposita “Commissione locale per
il paesaggio”, secondo quanto previsto dall’art. 16-bis del Regolamento
Edilizio adottato in occasione della variante urbanistica approvata con
D.G.R. n. 181 del 29.01.2008.
...
1. Con il ricorso in disamina la Sig.ra Bo. ha chiesto l’annullamento del
permesso di costruire rilasciato dal Comune di Peschiera del Garda in
relazione ad un intervento di demolizione e ricostruzione con ampliamento da
effettuarsi ai sensi del cd. Piano Casa su terreno prossimo a quello di
proprietà della ricorrente; la Sig.ra Bo. ha chiesto, altresì,
l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata in riferimento
al medesimo intervento.
...
2. Ciò posto, nel merito il ricorso è fondato sotto il profilo assorbente
della violazione dell’art. 6-bis della L. 241/1990 lamentata con il sesto
motivo di impugnazione (indicato come settimo nell’atto introduttivo del
giudizio).
E’ pacifico tra le parti in causa che il geom. Ma.Cr., Responsabile
dell’Area Tecnica Edilizia Privata e Urbanistica del Comune di Peschiera del
Garda, che ha firmato il permesso di costruire impugnato è cugino, e dunque
parente di quarto grado, del progettista dell’intervento di cui si discute,
Arch. Pa.Cr..
Il Comune ha dedotto sul punto che l’art. 6-bis della L. 241/1990 (norma che
prevede: “Il responsabile del procedimento ed i titolari degli uffici
competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti
endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di
conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche
potenziale”) andrebbe letto in combinato disposto con quanto previsto
dall’art. 7 del DPR 16.04.2013, n. 62 (Codice di comportamento dei
dipendenti pubblici), che stabilisce: “Il dipendente si astiene dal
partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere
interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del
coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di
frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli
o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o
debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia
tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche
non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore
o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui
esistano gravi ragioni di convenienza. Sull'astensione decide il
responsabile dell'ufficio di appartenenza”.
Sostiene il Comune che la norma, come formulata, darebbe rilievo ai fini del
dovere di astensione ai soli rapporti di parentela entro il secondo grado:
in tal senso, si aggiunge, si era del resto espresso il Responsabile
Trasparenza e Anticorruzione del Comune in un parere reso in data 21.02.2019
(cfr. doc. 21 della produzione di parte resistente).
Dall’esame di tale parere emerge infatti che il Responsabile, nella premessa
dell’avvenuto recepimento dell’art. 7 del DPR 62/2013 nel Piano triennale di
prevenzione della corruzione adottato dal Comune con delibera di G.M. n.
19/2019, osservava che la norma in commento “cita il secondo grado”:
il Responsabile concludeva, dunque, nel senso di escludere l’esistenza di
una situazione generativa del divieto di astensione con riguardo al rapporto
di parentela tra il geom. Ma.Cr. e l’Arch. Pa.Cr..
Il Collegio ritiene che l’interpretazione che il Comune propone della norma
in commento non sia condivisibile.
Giova premettere che, come noto, in materia di conflitto di interessi il
legislatore è intervenuto a più riprese:
- con l’art. 1, comma 41, della legge 06.11.2012 n. 190, ha
novellato la legge 07.08.1990 n. 241 introducendo nella stessa l’articolo
6-bis (conflitto di interessi), il cui testo è stato già riportato;
- al comma 54 dello stesso articolo 1 ha previsto, altresì, che “il
Governo stabilisce un codice di comportamento dei dipendenti delle P.A. al
fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di
corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà,
imparzialità e servizio esclusivo della cura dell’interesse pubblico”;
- al comma 8 dello stesso articolo 1 ha previsto che l’organo di
indirizzo politico adotta entro il 31 gennaio di ogni anno il piano
triennale di prevenzione della corruzione;
- con il DPR 62/2013 ha introdotto il “regolamento recante il
codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’art. 54 del
d.lgs. 30.03.2001 n. 165”, che all’articolo 7 disciplina l’obbligo di
astensione, nei termini in precedenza illustrati.
E’ appena il caso di evidenziare che il dovere di astensione dei pubblici
dipendenti e degli amministratori vale a preservare anzitutto la credibilità
e la fiducia dell’Amministrazione, scattando, perciò, a fronte di situazioni
di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi in cui sussistano
condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da
assumere, appaiano anche potenzialmente idonee a porre in pericolo
l’assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell’ente
stesso, a prescindere dai profili o dalle conseguenze penali che possono
implicare. La prevenzione del conflitto di interessi è, infatti, ad oggi
volta non solo a garantire l’imparzialità della singola decisione pubblica,
ma più in generale a tutelare il profilo dell’immagine di imparzialità
dell’Amministrazione.
Nel caso di specie, la relazione di parentela entro il quarto grado
tra il responsabile dell’U.T.C. che ha rilasciato il titolo a costruire e il
progettista dei lavori –che, come si è evidenziato, sono cugini- vale, a
parere del Collegio a determinare una situazione generativa di un potenziale
conflitto di interessi che avrebbe imposto al funzionario pubblico di
astenersi dall’adozione dell’atto in parola.
Non è, infatti, condivisibile l’argomentazione del Comune a mente della
quale dal disposto dell’art. 7 del DPR 61/2013 dovrebbe trarsi il rilievo,
ai fini dell’attivazione del dovere di astensione, dei soli rapporti di
parentela entro il secondo grado.
Una lettura attenta della norma rivela, infatti, che il limite del “secondo
grado” è riferito esclusivamente al rapporto di affinità e non anche
al rapporto di parentela, come evidenziato dalla virgola che separa le due
espressioni: “Il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di
decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di
suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi…”.
Le conclusioni cui è possibile pervenire secondo un’interpretazione
letterale del testo convergono con quelle raggiunte indagando sulla ratio
della disposizione: è logico e coerente con il fine perseguito (e cioè
escludere ogni lesione, anche potenziale, dell’imparzialità dell’agere
amministrativo) introdurre un vincolo più stringente in presenza di un
legame più intenso tra i soggetti coinvolti, quale quello di parentela, e
limitare invece (fino al secondo grado) il rilievo di un legame che
si instaura tra soggetti non consanguinei, quale quello di affinità.
La fondatezza del motivo in disamina comporta l’accoglimento del ricorso, e
risulta assorbente rispetto alle ulteriori censure proposte avverso il
titolo edilizio; quanto ai motivi di gravame svolti in riferimento
all’autorizzazione paesaggistica rilasciata in relazione al medesimo
intervento edilizio, il Collegio ritiene che l’annullamento del permesso di
costruire, in conseguenza di quanto in precedenza osservato, implichi il
venir meno dell’interesse alla relativa disamina.
3. Conclusivamente, il ricorso deve trovare accoglimento nei termini
indicati: deve, dunque, disporsi l’annullamento del permesso di costruire
annullato; il ricorso deve invece essere dichiarato improcedibile nella
parte in cui con esso si impugna l’autorizzazione ambientale
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 09.07.2021 n. 908 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
|
Pubblici dipendenti e pausa
caffè al bar in orario di servizio: le correlate conseguenze... |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: B.
Amuro,
Pausa caffè: è reato? (06.09.2021 - link a
www.filodiritto.com).
---------------
Pausa caffè e sosta in tabaccheria senza timbrare il tesserino per la
pausa. Azione fraudolenta o semplice consuetudine tutta italiana?
La
sentenza 29.07.2021 n.
29674 della Sez. III penale della Corte di
Cassazione propende la prima e rinvia alla Corte d’appello solo per la
valutazione circa l’eventuale non punibilità per particolare tenuità del
fatto (articolo 131-bis Codice Penale). (...continua). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rischi
penali per le pause caffè senza timbrare. Solo episodi singoli possono
evitare la maxi-sanzione grazie alla «lieve tenuità».
La «lieve tenuità» può evitare le sanzioni penali, ma le indicazioni
offerte dalla
sentenza 29.07.2021 n.
29674 della Cassazione
(Sole 24 Ore del 26 agosto) dettano principi piuttosto rigidi
sull’applicazione delle norme anti-assenteismo. L’allontanamento
dall’ufficio per la pausa caffè senza la timbratura dell’uscita integra per
i giudici il reato della falsa attestazione della presenza, anche se è stato
commesso una volta sola, tranne che si dimostri la particolare tenuità del
fatto.
Non è necessaria la presenza di un dolo specifico, quindi è sufficiente che
i dipendenti siano a conoscenza dell’esistenza di un vincolo della
timbratura; maturano le condizioni per contestare l’aggravante dell’essere
pubblico ufficiale, anche se si tratta di una circostanza non strettamente
collegata all’esercizio delle attività; la condotta determina la maturazione
del danno all’immagine.
La Corte dà inoltre conto del fatto che vi sono letture contrastanti sulla
scelta di subordinare la sospensione della condanna al risarcimento del
danno, posto che in caso di risposta positiva va dimostrato che il
dipendente è nelle condizioni economiche di poter dare corso al
risarcimento. La sentenza evidenzia quanto la scelta legislativa sia rigida
e figlia della volontà di punire duramente comportamenti che creano
disservizi e danneggiano la credibilità delle Pa, ma che il tutto va
ricondotto ai principi generali dell’ordinamento penale.
La prima indicazione netta è che non è necessario, per irrogare la sanzione
penale della reclusione e della multa prevista dall’articolo 55-quinquies
del Dlgs 165/2001 (reclusione da uno a cinque anni e sanzione da 400 a 1.600
euro), dimostrare che la condotta è stata caratterizzata da continuità,
abitualità o reiterazione. Anche un singolo episodio integra gli estremi del
reato. Che matura per la semplice mancata timbratura dell’uscita e non sono
necessari l’alterazione o la manomissione del sistema di rilevazione delle
presenze. La mancanza prevista dal legislatore si determina per il fatto che
il dipendente non è in ufficio e che la sua assenza non è registrata.
Un’altra indicazione rigida deriva dalla scelta legislativa: è sufficiente a
integrare il reato il dolo generico e non serve la dimostrazione di una
volontà specifica. I dipendenti vanno sanzionati se conoscono l’esistenza di
un vincolo all’uso del badge e non ci sono giustificazioni convincenti.
Dalla rigidità della disposizione scaturisce l’aggravante dell’essere un
pubblico ufficiale: la norma non richiede «un nesso funzionale tra tali
poteri o doveri e il compimento del reato». Il fatto di essere un
dipendente di Pa determina un «maggior disvalore penale del reato».
La sentenza ricorda che la norma prevede il risarcimento da parte del
dipendente del danno provocato all’ente, sia di natura patrimoniale per la
retribuzione che ha percepito indebitamente, sia all’immagine, con
quantificazione della misura minima. In applicazione dei principi di
carattere generale e segnatamente dell’articolo 131-bis del Codice penale,
matura la non punibilità nel caso di «particolare tenuità del fatto».
Il che richiede che la mancanza sia una sola, che abbia determinato effetti
di lieve entità e che le modalità della condotta consentano questo giudizio
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2021). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Rischi
penali per le pause caffè senza timbrare.
L'allontanamento dall'ufficio per la cosiddetta pausa caffè senza la
timbratura dell'uscita integra il reato della falsa attestazione della
presenza, anche se è stato commesso una volta sola, tranne che si dimostri
la particolare tenuità del fatto.
Non è necessaria la presenza di un dolo
specifico, quindi è sufficiente che i dipendenti siano a conoscenza della
esistenza di un vincolo della timbratura; maturano le condizioni per
contestare l'aggravante dell'essere pubblico ufficiale, anche se si tratta
di una circostanza che non è strettamente collegata all'esercizio delle
attività; tale condotta determina la maturazione del danno all'immagine.
Sono queste le principali
indicazioni contenute nella
sentenza 29.07.2021 n.
29674 della III Sez. penale della Corte di Cassazione.
La stessa dà inoltre conto del fatto che ci sono letture contrastanti sulla
scelta di subordinare la sospensione della condanna al risarcimento del
danno, posto che in caso di risposta positiva sull'utilizzazione di questa
possibilità occorre dimostrare che il dipendente è nelle condizioni
economiche di potere dare corso al risarcimento. La sentenza evidenzia
quanto la scelta legislativa sia rigida e sia figlia della volontà di punire
duramente comportamenti che creano disservizi e determinano danni rilevanti
alla credibilità delle Pa, ma che il dettato legislativo deve essere
comunque ricondotto nel rispetto dei principi di carattere generale dettati
dall'ordinamento penale.
La prima indicazione molto netta è che non è necessario, per potere irrogare
la sanzione penale della reclusione e della multa prevista dall'articolo
55-quinquies del Dlgs 165/2001 dimostrare che la condotta del dipendente è
stata caratterizzata dalla continuità o dalla abitualità o dalla
reiterazione. Di conseguenza, anche un singolo episodio integra gli estremi
per la maturazione del reato. Intimamente connessa a tale principio è la
considerazione che il reato matura per la semplice mancata timbratura della
uscita e non sono necessari l'alterazione o la manomissione del sistema di
rilevazione delle presenze. La mancanza prevista dal legislatore si
determina per il semplice fatto che il dipendente non è in ufficio e che la
sua assenza non risulta registrata dal sistema di rilevazione delle
presenze.
Un'altra indicazione che possiamo definire come rigida e che deriva
direttamente dalla scelta legislativa è la seguente: è sufficiente a
integrare il reato il dolo generico e non è necessaria la dimostrazione di
una volontà specifica. Quindi, i dipendenti vanno sanzionati se sono a
conoscenza della esistenza di un vincolo alla utilizzazione del badge e se
non vi sono elementi di giustificazione convincenti.
Dalla rigidità della disposizione scaturisce l'elemento per cui si deve
contestare la circostanza aggravante dell'essere il dipendente un pubblico
ufficiale: il dettato legislativo non richiede che vi sia «un nesso
funzionale tra tali poteri o doveri ed il compimento del reato». In
altri termini, il semplice fatto di essere un dipendente di Pa determina un
«maggior disvalore penale del reato».
La sentenza ricorda che la disposizione prevede che il dipendente debba
risarcire il danno che ha provocato all'ente, sia di natura patrimoniale per
la retribuzione che ha percepito indebitamente, sia alla immagine della Pa,
con la quantificazione della misura minima.
In applicazione dei principi di carattere generale e segnatamente
dell'articolo 131-bis del codice penale, matura la non punibilità nel caso
di «particolare tenuità del fatto». Il che richiede che la mancanza sia una
sola, che essa abbia determinato degli effetti di lieve entità e che le
modalità della condotta consentano la maturazione di tale giudizio
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.09.2021). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La Cassazione chiude un occhio sulla fuga per la pausa caffè.
Resta reato ma punibile solo se sono provati abitualità e danno rilevante
per la Pa. I dipendenti non timbravano il badge e confidavano su prassi e
tolleranza.
I futili motivi che inducono i furbetti del cartellino a
uscire per la pausa caffè e le sigarette non bastano a escludere la non
punibilità, per la particolare tenuità del fatto. Per negare il beneficio,
previsto dall’articolo 131-bis del Codice penale serve, infatti, la prova
dell’abitualità del comportamento e del danno rilevante per la pubblica
amministrazione. Due elementi
che la Corte d’appello, disattesa dalla Cassazione (sentenza 29.07.2021 n.
29674), aveva rilevato.
Per la Corte territoriale erano punibili due impiegati del Comune, finiti
nelle maglie della giustizia, perché assenti ingiustificati durante un
controllo dei Carabinieri. Un’uscita, senza timbrare il badge, per
comprare le sigarette e andare al bar. In realtà a metterli davvero nei guai
erano state le loro giustificazioni. Il bevitore di caffè aveva parlato di
necessità, non essendoci in ufficio un distributore e di prassi seguita in
tutti i luoghi di lavoro. Il dipendente che era andato dal tabaccaio, aveva
maledetto la cattiva sorte, perché in 36 anni di servizio non gli era mai
capitata una cosa del genere.
Frasi che, per la Corte territoriale, provavano l’abitualità dei
comportamenti. Dello stesso parere il Pubblico ministero, secondo il quale
il beneficio era stato giustamente negato, anche ai fini delle attenuanti
generiche, perché era stato violato il principale dovere di un lavoratore:
la presenza sul posto di lavoro. Gli imputati avevano agito con noncuranza
verso l’utenza tendendo a sminuire l’azione commessa.
Sulla stessa linea sia il Tribunale sia la corte d’Appello, che avevano
messo l’accento sulla futilità dei motivi delle uscite, e sulla gravità
dell’allontanamento non registrato. Una condotta idonea «ad incrementare
un diffuso malumore verso la categoria dei pubblici dipendenti e cagionare
un danno all’immagine della casa Comunale». E questo per assecondare
«bisogni della vita del tutto accessori».
In più, dalle dichiarazioni degli imputati, risultava che l’allontanamento
non era occasionale, anzi , una prassi «una consuetudine mattutina,
radicata e addirittura abituale».
Diversa la lettura della Suprema corte, secondo la quale le affermazioni, «incriminate»
dai giudici di merito, non provavano affatto l’abitualità. E i giudici di
legittimità richiamano alla necessità di stare ai fatti.
I due ricorrenti non avevano timbrato il badge in uscita e dunque, in
base all’orario di entrata, potevano essere stati via dai cinque minuti a
un’ora. Né è corretta l’affermazione sull’ostacolo al beneficio dato dalla
futilità dei motivi.
Una causa ostativa che la Corte di merito ha tratto dal comma 2
dell’articolo 131-bis, in base al quale l’offesa non può essere considerata
di particolare tenuità se l’autore ha agito per motivi abietti o futili. Nel
caso specifico, però, ad avviso della Cassazione, l’errore non nasce da un
istinto criminale, ma da una sorta di affidamento nella prassi o nella
tolleranza dei superiori. Detto questo, i giudici di legittimità confermano
il reato, previsto dalla cosiddetta legge Brunetta (Dlgs 150/2009, articolo
55-quinquies). Una norma, rivista dal Dlgs 116/2016, secondo la quale la
falsa attestazione scatta qualunque modalità venga usata per far risultare
in servizio chi è assente.
Viene dunque confermata anche la condanna a risarcire il danno alla Pa. Ma
la Corte d’Appello è invitata a rivedere il no alla non punibilità
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2021). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIAGO: Il
badge anche per la pausa caffè. Non sufficiente l’autorizzazione orale del
capo ufficio. La Corte di cassazione ha confermato il reato di attestazione
fraudolenta della presenza.
L'allontanamento dal posto di lavoro, per fruire
della pausa caffè, deve essere accertato dal sistema di rilevazione delle
presenze, anche in presenza dell'autorizzazione orale del capo ufficio. In
questo caso, infatti, il dipendente incorre nel reato falsa attestazione
della presenza, essendo sufficiente che, ai fini dell'integrazione del
reato, la situazione di fatto (presenza in ufficio) sia diversa da quella
reale (allontanamento al bar).
Con queste indicazioni la Corte di Cassazione, Sez. III penale (sentenza 29.07.2021 n.
29674) ha, da un lato, confermato la fattispecie del reato
ma, dall'altro lato, ha accolto il ricorso dei ricorrenti sulla
possibile applicazione della particolare tenuità del reato, anche in caso di
reiterazione, rinviando al giudice di merito la relativa decisione.
La vicenda. Il
Tribunale di primo grado e la Corte di appello hanno confermato il reato, di
attestazione fraudolenta della presenza, di due dipendenti che, a seguito
del riscontro effettuato dalle forze dell'ordine, si erano allontananti
dall'ufficio, il primo per una pausa caffè ed il secondo per recarsi al
tabaccaio.
Trattandosi di pochi minuti di allontanamento, tra la fase di uscita, in
assenza della timbratura al cartellino marcatempo, e quella in entrata, i
convenuti hanno, tra l'altro evidenziato la particolare tenuità del fatto.
Uno dei ricorrenti ha, inoltre, precisato che l'allontanamento dall'ufficio,
per pochi minuti, era stato in ogni caso preventivamente autorizzato dal
capo ufficio, in assenza del distributore automatico di bevande.
Le indicazioni della Cassazione.
Il delitto di "false attestazioni o certificazioni" si consuma, a
dire dei giudici di legittimità, con la realizzazione di qualsiasi
comportamento fraudolento che, consista nell'irregolare utilizzo dei sistemi
di rilevazione delle presenze e che, il reato in questione concorre con la
truffa aggravata, in tutti i casi nei quali la condotta del dipendente
pubblico provoca un danno all'amministrazione (decreto legislativo n.
165/200).
Ricorda la Cassazione che, il nuovo testo dell'art. 55-quater riguardante il
licenziamento disciplinare, ha precisato al comma 1-bis, che costituisce
falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta
posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente
in servizio o trarre in inganno l'amministrazione circa il rispetto
dell'orario di lavoro.
Nel caso di specie, il delitto si consuma con la realizzazione, da parte dei
pubblici dipendenti, di un comportamento fraudolento consistente
nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, poiché
in ragione della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino
elettronico assume, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di
quella attestazione, è di per sé idonea a trarre in inganno
l'amministrazione presso la quale presta servizio.
Pertanto, nessun rilievo può assumere la circostanza sollevata, in ordine
alla "pausa caffè", considerato che la stessa non integra uno stato
di necessità neanche in assenza di distributori automatici e qualsiasi pausa
o permesso implicano necessariamente che, l'allontanamento non solo deve
essere autorizzato, ma deve trovare traccia nell'utilizzo del badge che
segna l'uscita del dipendente. È stata, invece, accolta l'eccezione della
difesa sulla particolare tenuità del fatto.
Infatti, anche in presenza di ipotesi di reiterazioni, l'applicabilità
dell'art. 131 c.p. è stata fondata sulla lieve entità delle singole
condotte, isolatamente considerate. Tale soluzione poggia sulla mancata
ripetizione, nell'articolo citato, dell'inciso "anche se ciascun fatto,
isolatamente considerato, sia di lieve entità".
In altri termini, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la
possibilità, in caso di "reati che abbiano ad oggetto condotte plurime,
abituali e reiterate", di applicare l'art. 131-bis c.p., all'esito di
una valutazione di particolare tenuità delle singole condotte o dei singoli
fatti. Spetterà al giudice di appello, cui la causa è rinviata, verificare
se gli illeciti non siano espressivi di una tendenza o inclinazione al
crimine, dovendo essere soppesata l'incidenza della continuazione in tutti i
suoi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti
penali, durata temporale della violazione, numero delle leggi violate,
effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato,
interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni, anche indirette, sottese
alla condotta (articolo ItaliaOggi del
05.08.2021).
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SENTENZA
4. Entrambi i motivi sono infondati.
4.1. In primo luogo, per la soluzione del ricorso in esame, occorre
individuare
il perimetro in cui è applicabile la fattispecie risultante dall'art.
55-quinquies,
D.Lgs. n. 165/2001. La giurisprudenza di legittimità ha delineato, in
particolare,
l'ambito di applicabilità della norma, tenendo conto, da un lato, dei
profili di concorrenza
con il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato e, dall'altro, delle
conseguenze della condotta nei casi di particolare tenuità, ovvero quando le
violazioni
non siano state reiterate e ripetute ma limitate. Al riguardo, la norma
evidenzia
in modo preciso una condotta che sembra essere di per sé punibile e non
richiede continuità o abitualità.
In generale, il delitto di "false
attestazioni o certificazioni"
si consuma con la realizzazione di qualsiasi comportamento fraudolento
che consista nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle
presenze e che
il reato in questione concorre con la truffa aggravata, disciplinata
dall'art. 640, co.
2, n. 1, c.p. in tutti i casi nei quali la condotta del dipendente pubblico
provoca
un danno all'Amministrazione poiché al primo comma del citato art.
55-quinquies
è espressamente previsto "fermo quanto previsto dal Codice penale" (Sez. III,
n.
45698 del 27/10/ 2015).
Contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, la Corte di appello ha
rigettato
le tesi difensive, secondo cui le condotte contestate agli imputati, di
essersi
allontanati dal luogo di lavoro senza timbrare il badge all'uscita, non
sarebbero
riconducibili all'art. 55- quinquies citato, non essendovi stata
un'alterazione dei sistemi
di rilevamento delle presenze e non essendo riconnprese nelle altre modalità
fraudolente, che in quanto non sufficientemente tipizzate devono essere
interpretate
restrittivamente nel senso di altre modalità di alterazione del sistema di
registrazione.
Ed infatti, la condotta contemplata dal D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies non viola il principio di tassatività, poiché sanziona chi attesta
falsamente
la presenza in servizio, utilizzando svariate modalità fraudolente non a
priori predeterminate dal legislatore. Non sussiste alcun contrasto con il
principio
di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali, previsto all'art.
25 Cost.,
in quanto l'enunciazione della condotta del reato, pur descritta
genericamente,
consente al giudice, avuto riguardo anche alla finalità di incriminazione ed
al contesto
ordinamentale in cui si colloca, di stabilire con precisione il significato
delle
parole, che isolatamente considerate potrebbero anche apparire non
specifiche,
ed al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente
chiara ed
immediata del valore precettivo di essa.
Né è legittimo fare ricorso all'interpretazione analogica con le modalità
indicate
da ciascun ricorrente, poiché è sufficiente utilizzare il criterio di
interpretazione
letterale per attribuire alla norma un significato univoco.
4.2. Occorre ricordare inoltre che il nuovo testo dell'art. 55-quater che
tratta del licenziamento disciplinare, precisa al comma 1-bis, con una
integrazione
effettuata con D.lgs. n. 116 del 2016, che costituisce falsa attestazione
della presenza
in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche
avvalendosi
di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno
l'amministrazione
circa il rispetto dell'orario di lavoro.
La fattispecie disciplinare di
fonte
legale si realizza, dunque, non solo nel caso di alterazione/manomissione
del sistema,
ma in tutti i casi in cui la timbratura, o altro sistema di registrazione
della
presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il lavoratore è
rimasto in
ufficio durante l'intervallo temporale compreso tra le
timbrature/registrazioni in
entrata ed in uscita.
Sul punto, si è espressa la giurisprudenza di
legittimità in
sede civile (Sez. lav., n. 24574 del 01/12/2016) precisando che a
prescindere
dall'intervento riformatore dell'art. 55-quater cit., la ricostruzione
innanzi effettuata
era, comunque, evincibile dal tenore letterale della disposizione, dal quale
non si ricava alcun elemento che consenta di affermare che, invece, nel
passato
la condotta tipizzata fosse individuabile nei soli casi di alterazione
intesa come
manomissione del sistema di rilevazione delle presenze (Cass. Civ. n.
17637/2016,
17259/2016; Cass. Civ. Sez. lav., n. 257508 del 14/12/2016).
Pertanto, la formulazione del Dlgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, comma
1, lett. a), ed anche la sua "ratto" (potenziamento del livello di efficienza
degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività e
di assenteismo), inducono
ad affermare che la registrazione effettuata attraverso l'utilizzo del
sistema
di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa
solo se
nell'intervallo compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il
lavoratore è
effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente
attestata nei
casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore
è presente
in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura
in
uscita.
Ed infatti, secondo consolidata giurisprudenza, il delitto previsto
dall'art.
55-quinquies si consuma con la realizzazione da parte dei pubblici
dipendenti di
un comportamento fraudolento consistente nell'irregolare utilizzo dei
sistemi di
rilevazione delle presenze (Sez. III, n. 47043 del 27/10/2015), poiché in
ragione
della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino
elettronico assume,
qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di quella attestazione, è
di per sé
idonea a trarre in inganno l'amministrazione presso la quale presta servizio
in
merito alle circostanze di fatto che quella attestazione è intesa a
dimostrare, ossia
la presenza del dipendente sul luogo di lavoro.
4.3. Peraltro, come già correttamente chiarito dal Tribunale, anche se nel
caso in esame non è stato contestato dalla Procura della Repubblica il reato
di cui
all'art. 640 c.p., è configurabile il concorso materiale tra il reato di
truffa aggravata
e quello di false attestazioni o certificazioni previsto dall'art.
55-quinquies (sul
rapporto tra l'art. 640 cpv. c.p. e il D.lgs. n. 165 del 2001, art.
55- quinquies: Sez.
III, n. 47043 del 27/10/2015; Id. n. 45696 del 27/10/2015; Id. n. 45698 del
27/10/2015; Id., n. 45947 del 10/10/2019).
In sintesi, è stato sottolineato
che
l'illecito descritto al D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies,
diversamente dalla
truffa, si consuma con la mera falsa attestazione da parte del dipendente
pubblico
della presenza in servizio attraverso un'alterazione dei sistemi di
rilevamento delle
presenze. Il fine perseguito dalla norma in esame è evidentemente quello di
prevenire
o contrastare, nell'interesse della funzionalità dell'ufficio pubblico, le
condotte
assenteistiche.
Il comma 2 del medesimo articolo disciplina invece la responsabilità
amministrativa
e civile del pubblico dipendente: egli sarà obbligato a tenere indenne la
P.A. dal danno derivante dalla corresponsione della retribuzione per i
periodi per i
quali sia stata accertata la mancata prestazione, nonché a risarcire anche
il danno
non patrimoniale (ad es. quello all'immagine subito dall'amministrazione
stessa).
Appare evidente come il comportamento fraudolento del dipendente, il quale
si sia concretizzato nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione
delle presenze, possa
costituire prova della mancata erogazione della prestazione lavorativa.
Il legislatore quindi pone l'attenzione sulle modalità esplicative del
comportamento
illecito, non invece sulle conseguenze da esso in concreto scaturenti, ossia
l'induzione in errore della P.A. e/o il profitto ingiusto conseguito
dall'agente i
quali, pertanto, non possono essere ritenuti elementi costitutivi della
fattispecie di
cui all'art. 55-quinquies prefato.
...
10. Vanno trattati congiuntamente
anche il secondo motivo del Ca. e
il secondo motivo del Se., in quanto entrambi afferiscono al tema del
mancato
riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p., motivi,
come
anticipato, da ritenersi invece fondati.
10.1. Una recente pronuncia di questa Corte ha affrontato la questione della
sussistenza del reato nei casi di lieve entità della violazione.
È stato affermato che la clausola generale di "non punibilità per
particolare
tenuità del fatto" prevista dall'art. 131-bis c.p. è applicabile solamente
nei casi nei
quali la condotta di allontanamento fraudolento dal posto di lavoro sia
stata del
tutto episodica e, comunque, l'offesa sia di particolare tenuità (Sez. II,
n. 38997
del 27/08/2018).
In tutti gli altri casi nei quali vi sia abitualità o
reiterazione del
comportamento, anche se di lieve entità, non è applicabile la clausola di
non punibilità.
In sostanza, in presenza di un unico episodio e di effetti limitati è
possibile
applicare l'esimente mentre nel caso di episodi ripetuti, anche di lieve
entità, è
configurabile e sanzionabile la condotta con l'applicazione della pena
prevista per
il delitto di "false attestazioni o certificazioni".
Si rammenta poi che l'art. 131-bis c.p. stabilisce che la punibilità è
esclusa
quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del
pericolo,
valutate ai sensi dell'art. 133 c.p., comma 1, l'offesa è di particolare
tenuità e il comportamento risulta non abituale. Sul punto, deve richiamarsi
la giurisprudenza
di questa Corte in base alla quale la causa di esclusione della punibilità
per particolare
tenuità del fatto non può essere applicata ai reati necessariamente abituali
ed a quelli eventualmente abituali che siano stati posti in essere mediante
reiterazione
della condotta tipica (Sez. III, n. 30134 del 05/04/2017), in quanto viene
a configurarsi una ipotesi di "comportamento abituale" ostativa al
riconoscimento
del beneficio (Sez. VI, n. 18192 del 20/03/2019).
Tuttavia, in ipotesi di
reiterazione
non sono mancate decisioni nelle quali l'applicabilità dell'art. 131-bis
c.p. è
stata fondata sulla lieve entità delle singole condotte, isolatamente
considerate.
Tale soluzione poggia sulla mancata ripetizione nell'articolo summenzionato
dell'inciso "anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di lieve
entità".
In sostanza, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la possibilità,
in caso di
"reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate", di
applicare
l'art. 131-bis c.p., all'esito di una valutazione di particolare tenuità
delle singole
condotte o dei singoli fatti (Sez. III, n. 38849 del 5/04/2017).
Per il reato continuato, similmente, è stato richiesto che gli illeciti non
siano
espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine, dovendo essere
soppesata
l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali gravità del
reato, capacità
a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della
violazione,
numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta
antecedente, contemporanea
o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni,
anche indirette, sottese alla condotta (Sez. II, n. 41011 del 6/06/2018).
Si è chiarito, peraltro, che per escludere la causa di non punibilità per
particolare
tenuità del fatto è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto
dell'assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall'art. 131-bis
c.p. ritenuto,
evidentemente, decisivo (Sez. III, n. 34151 del 18/06/2018; Sez. VI, n. 55107
del 08/11/2018) secondo cui il giudizio sulla tenuità dell'offesa dev'essere
effettuato
con riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., comma 1, ma non è
necessaria la
disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente
l'indicazione
di quelli ritenuti rilevanti (Sez. II, n. 25234 del 14/05/2019).
...
12. Può quindi esaminarsi il residuo motivo di ricorso proposto nell'interesse
del Ca..
12.1. Si tratta del terzo motivo, che si appalesa inammissibile.
Quanto alla ritenuta ricorrenza della circostanza aggravante di cui all'art.
61 c.p., n. 9, giova precisare che la condotta del Ca., ovvero
l'allontanarsi dal
luogo di lavoro omettendo di timbrare il badge all'uscita, integra la
violazione dei
doveri inerenti al pubblico servizio (Sez. V n. 44689 del 03/06/2005; Sez. II,
n. 22972 del 16/02/2018).
Peraltro, in adesione ai principi sanciti dalla
citata pronuncia
n. 44689/2005, nel momento in cui detto dipendente timbra il cartellino di
presenza lavorativa, pur rimanendo parte di un rapporto pubblico di
servizio, agisce
come privato-lavoratore e fa divenire irrilevante la mansione concretamente
esercitata. Tuttavia, si legge in motivazione, la qualità di privato di
ciascun dipendente,
non ha fatto venir meno l'aggravante dell'art. 61 c.p., n. 9 in quanto, la
condotta tenuta (nella specie smarcamento del badge proprio ed altrui con
finalità
fraudolente per far risultare una presenza del soggetto sul luogo di lavoro
in realtà
inesistente), ai fini della configurazione del reato in contestazione,
risulta essere
stata originata e favorita dal contesto lavorativo di appartenenza e in
"palese violazione
di precise direttive superiori".
La medesima condotta ha comunque integrato
la violazione, da parte del lavoratore, di un dovere inerente il pubblico
servizio,
la cui qualità pubblica rimane immanente alla figura del soggetto-lavoratore
indipendentemente dalle funzioni concretamente esercitate dallo stesso.
Del resto, si è affermato che l'aggravante di aver commesso il fatto con
abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica
funzione o ad
un pubblico servizio è configurabile anche quando il pubblico ufficiale
abbia agito
al di fuori dell'ambito delle sue funzioni, essendo sufficiente che la sua
qualità
abbia comunque facilitato la commissione del reato (Sez. V, n. 50586 del
07/11/2013) e non essendo necessaria l'esistenza di un nesso funzionale tra
tali
poteri o doveri ed il compimento del reato (ex plurimis, Sez. II, n. 20870
del
30/04/2009; Sez. V, n. 50586 del 07/11/2013; Id. n. 13057 del 28/10/2015; Sez.
III, n. 24979 del 22/12/2017; Sez. V, n. 9102 del 16/10/2019; Sez. III, n. 17386
del
28/01/2021).
Inoltre, tra le circostanze concernenti le "qualità personali" del colpevole
rientra certamente quella dell'aver commesso il fatto con abuso dei poteri
inerenti
a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, di cui all'art. 61 c.p.,
n. 9, che é
di natura oggettiva, in quanto non si applica a taluno perché pubblico
ufficiale, ma
perché ha abusato dei propri poteri, e, quindi, riguarda una modalità
dell'azione,
con la conseguenza che la stessa si comunica ad eventuali concorrenti, ai
sensi
dell'art. 118 c.p. (Sez. VI, n. 53687 del 25/11/2014).
12.2. Ciò precisato, il maggior disvalore penale del reato in tal modo
commesso
attiene al vulnus arrecato alla funzione della quale il pubblico ufficiale
ha
abusato, ovvero i cui doveri ha violato, con lesione del sottostante
rapporto pubblicistico:
si tutela, cioè, il corretto svolgimento della pubblica funzione.
In ogni caso, il motivo di impugnazione sollevato dal Caterino non risulta
essere stato proposto con i motivi di appello, con la conseguenza che la
doglianza,
non essendo consentita, non può essere sollevata per la prima volta nel
giudizio
di legittimità.
...
13.2. La condotta illecita del dipendente, come è noto, presenta anche
significativi
riflessi patrimoniali.
Tuttavia, oltre al danno patrimoniale riferito alle retribuzioni
indebitamente
erogate, le assenze ingiustificate, oltretutto poste in essere con condotte
fraudolente
di alterazione dei mezzi di rilevazione delle presenze, creano
all'Amministrazione
un ulteriore danno, dato dal discredito conseguente al fatto illecito che
investe
l'autorevolezza e la credibilità dell'Amministrazione Pubblica, in generale,
e
dell'Ente interessato. Pertanto, il Legislatore del 2009 ha riconosciuto che
l'attestazione
falsa di presenza in servizio lede l'immagine dell'Amministrazione ed ha
determinato la misura minima del risarcimento che è indipendente dalla
gravità o
dalla reiterazione della condotta.
La giurisprudenza contabile ha rilevato
che l'art.
55-quinquies, D.lgs. n. 165/2001 ha introdotto una peculiare tipologia di
danno
all'immagine e, parimenti, una specifica tipizzazione del danno patrimoniale
diretta
a determinare l'importo della lesione erariale, consistente nella condotta
del dipendente
pubblico che abbia attestato falsamente la propria presenza nel luogo di
lavoro o, altrimenti, che abbia occultato l'interruzione della prestazione
attraverso
il mancato o illecito utilizzo dei sistemi di attestazione della presenza in
servizio
(Corte dei conti, Sez. giurisd. Basilicata, n. 8 del 06/03/2019; Corte dei
conti, Sez.
giurisd. Abruzzo, n. 110 del 06/09/2018).
Si è precisato che il legislatore ha inteso
prevedere un diverso e più rigoroso trattamento contro il fenomeno
dell'assenteismo
pubblico, fissando espressamente il principio per cui le condotte cosiddette
assenteistiche sono causa di lesione all'immagine" (Corte dei conti, n. 163
del
17/05/2018).
In proposito, la nozione di danno all'immagine deve essere
considerata
unitaria e, in ogni caso, espressiva di un'effettiva compromissione della
reputazione
dell'Ente danneggiato, ipotizzabile solo in presenza di una propagazione di
notizie da cui sia potuto derivare uno scadimento dell'opinione dei
consociati in
merito alla correttezza dell'operato delle Pubbliche Amministrazioni.
Ne consegue che la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla P.A. in
conseguenza della condotta illecita accertata trova proprio fondamento
nell'art.
55-quinquies, comma 2 sopra citato, in forza del quale "Nei casi di cui
al comma
1, il lavoratore, ferme la responsabilità penale e disciplinare e le
relative sanzioni,
è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto
a titolo
di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata
prestazione, nonché
il danno d'immagine di cui all'art. 55-quater, comma 3-quater".
Avendo il ricorrente commesso l'illecito di cui all'art. 55-quinquies, il
medesimo
è stato legittimamente condannato al risarcimento dei danni cagionati alla
P.A., essendo stato accertato che si era allontanato dal luogo del lavoro
omettendo
di timbrare il badge all'uscita (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.07.2021 n.
29674). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Troppe
pause caffè? È truffa continuata ma il reato è impunito se il danno alla Pa
è lieve.
Particolare tenuità del fatto applicabile anche al reato continuato, se il
pregiudizio, da calcolare in base allo stipendio, non è rilevante e manca
una propensione al crimine da parte degli amanti del break al bar.
Lo stipendio basso evita agli impiegati della pubblica amministrazione,
habitué della pausa caffè al bar, di essere puniti per truffa continuata. A
far scattare, malgrado la continuità, la possibilità di applicare la norma
sulla particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis del Codice penale) il
danno lieve provocato e la scarsa propensione al crimine.
Nel caso esaminato
il reato era prescritto, ma la Cassazione (Sez. II penale,
sentenza 31.12.2020 n. 37913) analizza comunque la condotta
prendendo le distanze dalla decisione della Corte d’appello che aveva
condannato per truffa continuata alcuni impiegati di una prefettura.
Le violazioni ripetute
Ai patiti del coffee break in un bar di fronte al luogo di lavoro, era stata
contestata un’assenza di circa 16 ore per un totale di circa 140 euro,
calcolati in base alla retribuzione degli impiegati che uscivano senza
passare il badge. Per la Suprema corte la sentenza della Corte d’Appello era
contraddittoria per più ragioni: gli episodi erano stati contestati come
singoli fatti di reato però era stata affermata la continuazione. In più era
stata negata la particolare tenuità del fatto perché le condotte, in quanto
reiterate, potevano essere definite abituali. Circostanza questa che, ad
avviso dei giudici territoriali, avrebbe impedito di riconoscere la non
punibilità.
L’apprezzabilità del danno
Per quanto riguarda l’apprezzabilità del danno, da tarare sullo stipendio,
la Suprema corte ricorda che la truffa si doveva ritenere consumata al
momento della percezione della retribuzione, quindi gli episodi andavano
spalmati su più mensilità. Sbagliato anche il presupposto in base al quale
era stato negato il beneficio previsto dall’articolo 131-bis. Secondo la
giurisprudenza della Suprema corte più recente, infatti, la continuità tra i
reati non rappresenta più, in astratto, un ostacolo insormontabile.
Il
giudice deve valutare se la condotta sia la manifestazione di una situazione
episodica, se la lesione dell’interesse tutelato è minimale, oltre alla
gravità del reato e alla capacità delinquenziale di chi lo commette.
Considerazioni che giocano a favore dei ricorrenti, la cui ammissibilità del
ricorso consente di affermare anche la prescrizione del reato.
Anche nella
sua complessità il danno era tenue, malgrado il Pm avesse fissato la soglia
massima di “tolleranza” in 50 euro, e certo la caratura criminale dei
patiti della moka non era un elemento che li qualificava.
Visto il metro utilizzato per calcolare il danno magari con le pause caffè
reiterate qualche rischio in più lo possono correre i dirigenti che hanno un
stipendio più pesante
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.01.2021). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: È
truffa ai danni dello Stato l’allontanamento arbitrario dal posto di lavoro
per la pausa caffè.
Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la sentenza
con cui la Corte d’appello, confermando il giudizio di responsabilità penale
nei confronti di quattro impiegati di una Prefettura per il reato di truffa
ai danni dello Stato, la Corte di Cassazione –nel ritenere non
manifestamente infondati i motivi di ricorso proposti dagli imputati- ha
dichiarato estinto per prescrizione il reato ascritto a ciascuno degli
impiegati, ribadendo che nell'ipotesi di truffa, consistente nella
fraudolenta percezione di emolumenti mensili, il reato si consuma all'atto
della riscossione e non quando, per effetto della frode, viene
illegittimamente a maturazione il diritto alla riscossione.
---------------
2.1.1 Partendo dal ricorso proposto nell'interesse del Fl., va rilevato, in
primo luogo, come non possa ritenersi manifestamente infondato il primo
motivo con cui il ricorrente ha lamentato violazione di legge e vizio di
motivazione sul profilo della "apprezzabilità" del pregiudizio patrimoniale
cagionato dalla propria condotta al datore di lavoro; a tal proposito, non
diversamente da quanto aveva segnalato con l'atto di appello, la difesa
rileva come la contestazione avesse avuto ad oggetto una serie di episodi di
allontanamento dal posto di lavoro della durata di pochi minuti ciascuno
connessi alla "pausa caffè" da consumare presso il bar antistante la
Prefettura e per un tempo stimato complessivamente in 16 ore corrispondenti
a 140 Euro di retribuzione; aggiunge che i singoli episodi erano stati
contestati come singoli fatti di reato mentre la truffa avrebbe dovuto
semmai ritenersi consumata al momento della percezione della retribuzione
mensile (comprensiva della quota in ipotesi non dovuta) e, nel caso di
specie, corrispondenti alla percezione delle cinque mensilità interessate
nell'ambito delle quali i singoli allontanamenti avrebbero dovuto essere
sommati; di qui, secondo il ricorrente, la contraddittorietà della
motivazione che, da un lato, ha considerato i singoli allontanamenti come
singole ipotesi di reato per poi parametrare il danno patrimoniale subito
dalla PA in quello complessivamente considerato non tenendo conto, invece,
che esso avrebbe dovuto essere stimato in una media mensile di Euro 28,00
mentre ogni singolo allontanamento, sulla scorta della retribuzione oraria
percepita, sarebbe stato corrispondente ad un importo di Euro 3,00.
Ebbene, i fatti sono stati considerati effettivamente in termini di truffa "continuata"
e, come tali, sanzionati dal Tribunale che aveva operato un doppio aumento
avendo ritenuto la continuazione con il diverso reato di cui all'art.
55-quinquies del D.Lg.vo 165 del 2001 ma, anche, la continuazione "interna"
tra i singoli episodi.
A fronte dei rilievi difensivi, la Corte di Appello (cfr., pag. 113 della
sentenza impugnata) ha sostenuto che la S.C., quando ha parlato della
necessaria esistenza di un danno "apprezzabile", non ha in realtà
individuato una "soglia" di punibilità né, a suo avviso, tale poteva
essere ritenuta la "soglia" utilizzata dal PM per selezionare le
posizioni da archiviare e che era stata fissata in 10 Euro; fatta questa
premessa, ha chiarito che "... un danno non apprezzabile può essere
ritenuto nei casi di assenza francamente limitate al massimo nel complesso
ad alcun ore, indicativamente pari ad una retribuzione inferiore ai 50 Euro"
(cfr., ivi).
In tal modo, perciò, da un lato ha valutato le assenze contestate come
singole ipotesi di reato salvo, poi, quantificare il pregiudizio
patrimoniale arrecato alla P.A. "accorpando" e "cumulando"
tutte le assenza per ciascuno degli imputati nell'intero arco di tempo
vagliato nel corso delle indagini e considerato nella imputazione e, perciò,
superiore al limite indicato.
Il motivo di ricorso, pertanto, non può certamente essere considerato "manifestamente
infondato" meritando considerazione anche alla luce del richiamato
orientamento di questa stessa Corte secondo cui nell'ipotesi di truffa,
consistente nella fraudolenta percezione di emolumenti mensili, il reato si
consuma all'atto della riscossione e non quando, per effetto della frode,
viene illegittimamente a maturazione il diritto alla riscossione (cfr.,
Cass. Pen., 5, 30.05.1985 n. 8.296, Burolo).
2.1.2 Né, del pari, manifestamente infondato può ritenersi il secondo
motivo del ricorso del Fl. con cui la difesa del ricorrente denunzia
violazione di legge con riguardo al disposto di cui all'art. 131-bis cod.
pen..
Rileva, infatti, come la Corte di Appello abbia respinto la richiesta
difensiva ritenendo che si fosse in presenza di condotte reiterate e
pertanto abituali e, in particolare, sulla scorta di un precedente non
conferente al caso di specie segnalando inoltre, l'esistenza, sul punto, di
un contrasto in giurisprudenza sulla possibilità di applicazione della causa
di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen.
Ebbene, la Corte di Appello, replicando a tutti gli imputati che avevano
avanzato richiesta di applicazione della causa di non punibilità di cui
all'art. 131-bis cod. pen., ha replicato (cfr., pagg. 138-139 della sentenza
impugnata) sostenendo di dover condividere la decisione del Tribunale "poiché
in tutti i casi trattati ci si trova di fronte a condotte reiterate che
possono ben essere definite abituali (...)".
La motivazione della sentenza si lega, in realtà, alla questione esaminata
in precedenza e, in particolare, alla qualificazione dei singoli episodi
come singole e specifiche ipotesi di reato tra le quali è stato ravvisato il
vincolo della continuazione che, secondo alcune decisioni di questa Corte,
non consentirebbe di ritenere la causa di non punibilità in esame per
essersi in presenza di una condotta "abituale" (cfr., Cass. Pen., 5,
14.11.2016 n. 4.852, De Marco; Cass. Pen., 2, 15.11.2016 n. 1, Cattaneo;
Cass. Pen., 2, 05.04.2017 n. 28341, Modon; Cass. Pen., 5, 15.05.2017 n.
48352, PG in proc. Mogoreanu; Cass. Pen., 1, 24.10.2017 n. 55450, Greco;
Cass. Pen., 6, 13.12.2017 n. 3353, Lesmo ed altro).
Quest'ultima affermazione, nella sua assolutezza, è certamente discutibile
alla luce del più recente e condivisibile orientamento della Corte secondo
cui la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del
fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. può ben essere ritenuta anche in
presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, purché non
espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine (cfr., Cass. Pen., 2,
06.06.2018 n. 41011, Ba Elhadji, in cui la Corte ha precisato che occorre
soppesare l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali
gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari,
durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge
violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al
reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni -anche indirette-
sottese alla condotta; conf., Cass. Pen., 2, 07.02.2018 n. 9495, PG in proc.
Grasso; Cass. Pen., 5. 26.03.2018 n. 32626, P.; Cass. Pen., 4, 11.12.2018 n.
4649, PG in proc. Xhafa; Cass. Pen., 2, 10.09.2019 n. 42579, D'Ambrosio;
Cass. Pen., 4, 13.11.2019 n. 10111, PG in proc. De Angelis; Cass. Pen., 2,
27.01.2020 n. 11591, T.)
In altri termini, si è affermato il principio per cui, di per sé solo, il
fatto che il reato per il quale si chieda il riconoscimento della causa di
non punibilità sia stato posto in continuazione con altri non osta, in
astratto, alla operatività dell'istituto dovendosi tuttavia valutare, anche
alla luce del suo inserimento in un contesto più articolato, se la condotta
in esame sia espressione di una situazione episodica, se la lesione
all'interesse tutelato sia comunque minimale e, in definitiva, se il "fatto"
nella sua complessità, sia meritevole di un apprezzamento in termini di
speciale tenuità.
Va ricordato che il giudizio sulla tenuità del fatto, quale presupposto per
la applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod.
pen., richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità
della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo
comma, (quindi sotto il profilo della oggettività della condotta) cod. pen.,
delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile
e dell'entità del danno o del pericolo (cfr., Cass. SS.UU., 25.02.2016 n.
13681, Tushaj); per altro verso, si è chiarito che, pur dovendosi far
riferimento agli indici di cui all'art. 133 cod. pen., non è necessaria la
disamina di tutti gli elementi di valutazione ivi previsti, essendo
sufficiente l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti (cfr., Cass. Pen., 6,
08.11.2018 n. 55107, Milone) e che è da ritenersi adeguata la motivazione
che dia conto dell'assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti
dall'art. 131-bis ritenuto, in quanto giudicato, evidentemente, decisivo (cfr.,
Cass. Pen., 3, 18.06.2018 n. 34.151, Foglietta).
Da ultimo, si è pure chiarito che la motivazione con la quale si neghi la
applicazione della causa di non punibilità può risultare anche
implicitamente dall'argomentazione con la quale il giudice d'appello abbia
considerato gli indici di gravità oggettiva del reato e il grado di
colpevolezza dell'imputato, alla stregua dell'art. 133 cod. pen., per
stabilire la congruità del trattamento sanzionatorio irrogato dal giudice di
primo grado (cfr., Cass. Pen., 5, 14.12.2018 n. 15658, D.; Cass. Pen., 5,
08.03.2017 n. 24780, Tempera, in cui la Corte ha ritenuto infondato il
motivo di ricorso relativo all'assenza di motivazione in ordine alla causa
di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., ravvisando nel
passaggio della motivazione della sentenza della corte di appello relativo
alla sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 1, cod. pen., che
l'appellante chiedeva di escludere, un'implicita esclusione della
particolare tenuità del fatto; conf., ancora, Cass. Pen., 3, 11.10.2016 n.
48317, Scopazzo).
Ecco, allora, che la motivazione della Corte di Appello può effettivamente
prestarsi a rilievi di inadeguatezza che non possono di certo ritenersi
manifestamente infondati (Corte di Cassazione, Sez. II penale,
sentenza 31.12.2020 n. 37913). |
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Sulla possibilità, o meno, di monetizzare le ferie
nel Pubblico Impiego. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Godimento
delle ferie dipendente da causa non imputabile al lavoratore.
L’istituto della c.d. monetizzazione delle ferie è stato sostanzialmente
abolito o quanto meno fortemente ridimensionato per effetto dell’art. 5, co.
8, del d.l. n. 95/2012, convertito con legge n. 135/2012, in forza del quale
le ferie, i riposi ed i permessi nel settore del lavoro pubblico sono
obbligatoriamente goduti secondo quanto stabilito dai rispettivi
ordinamenti, con divieto di corresponsione di «trattamenti economici
sostitutivi».
Il carattere tutto sommato eccezionale e residuale della monetizzazione
è stato ribadito sia dalla prassi amministrativa sia dalla
giurisprudenza ordinaria e da quella costituzionale.
---------------
Il gravame non appare fondato, per le ragioni che seguono.
2.1 Il sig. Ve. cessava dal servizio presso la Squadra Mobile di Sondrio a
far tempo dal 15.01.2018 (cfr. il doc. 1 del resistente) e già in precedenza
depositava una domanda di congedo ordinario per 123 giorni consecutivi, che
non era accolta dall’Amministrazione, vista la lunga durata del periodo (cfr.
sul punto il doc. 3 del resistente).
In seguito presentava un’istanza di monetizzazione per un numero più ridotto
di giorni di congedo ordinario, che era respinta con la già citata nota
della Prefettura di Sondrio del 18.04.2019 (si veda il doc. 3 del
resistente) che in maniera compiuta esponeva gli argomenti ostativi alla
monetizzazione richiesta, vale a dire l’accumulo dei giorni non fruiti in
oltre vent’anni di servizio in luogo del graduale smaltimento dei medesimi,
la presentazione di una domanda di dimissioni volontarie prima di avere
goduto dell’intero congedo ordinario, oltre all’assenza di documentate
esigenze di servizio o di altre situazioni straordinarie tali da rendere
impossibile la fruizione delle ferie.
2.2 Sulla c.d. monetizzazione delle ferie preme evidenziare che l’istituto è
stato sostanzialmente abolito o quanto meno fortemente ridimensionato per
effetto dell’art. 5, comma 8, del DL n. 95/2012, convertito con legge n.
135/2012, in forza del quale le ferie, i riposi ed i permessi nel settore
del lavoro pubblico sono obbligatoriamente goduti secondo quanto stabilito
dai rispettivi ordinamenti, con divieto di corresponsione di «trattamenti
economici sostitutivi».
Il carattere tutto sommato eccezionale e residuale della monetizzazione è
stato ribadito sia dalla prassi amministrativa (si veda la Circolare del
Ministero dell’Intero prot. 333-G/I/Sett. 2°/mco/N°12/10) sia dalla
giurisprudenza ordinaria (cfr. Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza
n. 15652/2018) e da quella costituzionale (si veda Corte Costituzionale,
sentenza n. 95/2016, che ha ritenuto costituzionalmente legittima la
previsione del succitato art. 5, comma 8, del DL n. 95/2012, riconoscendo al
lavoratore il diritto a un’indennità soltanto in caso di mancato godimento
delle ferie per causa a lui non imputabile).
Sul punto sia consentito altresì il richiamo alla recentissima sentenza del
TAR Lazio, Roma, Sezione I-quater n. 3426/2021, nella quale si afferma che
l’obbligo di legge (ex art. 5, comma 8, del DL n. 95/2012) di godere delle
ferie senza alcun trattamento economico sostitutivo «…mira a “reprimere il
ricorso incontrollato alla “monetizzazione” delle ferie non godute.
Affiancata ad altre misure di contenimento della spesa, la disciplina in
questione mira a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle
ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e
favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro. In
questo contesto si inquadra il divieto rigoroso di corrispondere trattamenti
economici sostitutivi, volto a contrastare gli abusi, senza arrecare
pregiudizio al lavoratore incolpevole” (Corte cost., n. 95 del 2016)».
2.3 Nel caso di specie il sig. Ve. presentava domanda di dimissioni (cfr. il
doc. 1 del resistente), per cui cessava dal servizio volontariamente e non
per fatti sopravvenuti ed imprevedibili, tali da impedire la programmazione
e l’utilizzo delle ferie residue prima del pensionamento.
Quanto alla richiesta di congedo del 05.06.2017 (cfr. il doc. 3 del ricorrente
e il doc. 2 del resistente) la stessa aveva ad oggetto un periodo di ben 123
giorni consecutivi –come già sopra ricordato (cfr. il doc. 6 del ricorrente
e il doc. 3 del resistente)– e non poteva certo essere accolta, a fronte di
un così lungo e continuativo periodo di assenza.
Inoltre, dall’esame del prospetto delle ferie redatto dalla Questura di
Sondrio nel mese di aprile 2020 (cfr. il doc. 4 del resistente), risulta che
l’esponente ha potuto godere fra il 2015 ed il 2018 di diversi periodi di
ferie, talora di una sola giornata ma anche per tempi più lunghi, per cui
non appare dimostrato un presunto atteggiamento ostativo dell’Ufficio, che
avrebbe impedito la fruizione del congedo ordinario.
Si badi che le ferie furono concesse anche dopo che, nel mese di giugno
2017, era stata respinta la più volte citata richiesta di un periodo di
congedo di 123 giorni, a conferma della volontà dell’Amministrazione di
consentire una ordinata fruizione del residuo tempo feriale, nel rispetto
degli accordi sindacali di settore (si vedano, ad esempio, l’art. 14 del DPR
n. 395/1995 e gli articoli 18 e 55 del DPR n. 254/1999).
Non vi è quindi alcuna prova concreta dell’impossibilità di mancato
godimento delle ferie per fatto non imputabile al sig. Verga.
Il ricorso in epigrafe deve quindi interamente rigettarsi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 13.05.2021 n. 1186 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Divieto di monetizzazione delle ferie e cessazione del rapporto di lavoro.
Nel rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il
mero fatto del mancato godimento delle ferie non dà titolo ad un
corrispondente ristoro economico: vige, cioè, il divieto di monetizzazione
delle ferie maturate e non godute, anche nei casi di cessazione del rapporto
di lavoro, con conseguente disapplicazione delle clausole contrattuali più
favorevoli per il dipendente
(CORTE di Appello di Roma, Sez. I, sentenza 06.04.2021 n. 1383 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ferie, riposi e permessi non fruiti nei termini.
In base all’art. 5, comma 8, della legge 07.08.2012 n. 135 le ferie, i
riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica
dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche sono obbligatoriamente fruiti
secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in
nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi, anche
nel caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni,
risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età.
Il divieto di
corresponsione dell’indennità sostitutiva non risulta, infatti, applicabile
nell’ipotesi in cui il lavoratore non abbia potuto godere delle ferie per
malattia o per altra causa non imputabile.
---------------
Il ricorrente, militare transitato nei ruoli civili per ragioni di salute,
si duole del fatto che l’Amministrazione intimata abbia negato il suo
diritto a percepire l’indennità sostitutiva della licenza ordinaria di cui
egli non ha potuto fruire in corso di malattia per gli anni 2013, 2014 e
2015.
A seguito del decesso del Sig. -OMISSIS- il ricorso è stato riassunto dalla
Sig.ra -OMISSIS- in proprio e anche in qualità di genitore del figlio
minorenne -OMISSIS-, nonché per la Sig.ra -OMISSIS- in qualità di eredi.
Il Ministero fonda la sua decisione sull’art. 5, comma 8, della legge
07.08.2012 n. 135 in base al quale le ferie, i riposi ed i permessi
spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle
amministrazioni pubbliche sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto
previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla
corresponsione di trattamenti economici sostitutivi anche nel caso di
cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione,
pensionamento e raggiungimento del limite di età.
La predetta disposizione, sulla scorta dei pronunciamenti delle corti
superiori nazionali e sovranazionali, deve, tuttavia interpretarsi nel senso
che il divieto di corresponsione dell’indennità sostitutiva non risulta
applicabile tutte le volte che, come accaduto nella specie, il lavoratore
non abbia potuto fruire quando il lavoratore non abbia potuto godere delle
ferie per malattia o per altra causa non imputabile.
Ciò, in particolare, è quanto, dopo ampia disamina, ha di recente stabilito
in sede di ricorso straordinario la I Sezione del Consiglio di Stato con il
parere n. 154 del 20/01/2020 che il Collegio condivide soprattutto in merito
alla necessità di non porre l’ordinamento nazionale in contrasto con quanto
stabilito dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza in causa 341/15 del
20/07/2016 che ha fatto applicazione dell'articolo 7, paragrafo 2, della
direttiva 2003/88 in base al quale l’inderogabile diritto alle ferie
retribuite è surrogato da una indennità finanziaria tutte le volte che il
lavoratore per causa a lui non imputabile non riesca a beneficarne.
Il ricorso deve essere, quindi, accolto con conseguente obbligo del
Ministero di erogare l’indennità sostitutiva richiesta
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 06.04.2021 n. 477 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Diritto
alla monetizzazione delle ferie non godute.
Il diritto alla monetizzazione del congedo ordinario (non fruito) matura
ogni qualvolta il dipendente non ne abbia fruito (ovvero non abbia potuto
disporre e godere delle sue ferie) a cagione di obiettive esigenze di
servizio e comunque per cause da lui non dipendenti o a lui non imputabili.
Quindi, il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8,
d.l. 06.07.2012 n. 95 va interpretato nel senso che tale disciplina non
pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano
corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché
correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del
rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento,
raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare
per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le
preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché
la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso
incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli
abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie,
per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire
comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare
pregiudizio al lavoratore incolpevole.
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Il ricorso è fondato.
La monetizzazione delle ferie non godute è stata, di recente, oggetto di
intervento legislativo relativamente recente atto a vietare l’applicazione
dell’istituto in avvenire per esigenze di carattere finanziario.
L’art. 5, comma 8, del d.l. 95 del 2012, convertito con modificazioni dalla
legge 07.08.2012, n. 135, prevede che “Le ferie, i riposi ed i permessi
spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di
statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge
31.12.2009, n. 196, nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la
Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), sono
obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti
e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti
economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di
cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione,
pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni
normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a
decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto. La violazione della
presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme
indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed
amministrativa per il dirigente responsabile. Il presente comma non si
applica al personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario
supplente breve e saltuario o docente con contratto fino al termine delle
lezioni o delle attività didattiche, limitatamente alla differenza tra i
giorni di ferie spettanti e quelli in cui è consentito al personale in
questione di fruire delle ferie.“
La giurisprudenza amministrativa ha, tuttavia, inteso la norma sopra citata
nel senso che “Il diritto alla monetizzazione del congedo ordinario (non
fruito) matura ogni qualvolta il dipendente non ne abbia fruito (ovvero non
abbia potuto disporre e di godere delle sue ferie) a cagione di obiettive
esigenze di servizio e comunque per cause da lui non dipendenti o a lui non
imputabili. Quindi, il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all'art.
5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95 va interpretato nel senso che tale
disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si
possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi,
giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del
rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento,
raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare
per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le
preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché
la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso
incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli
abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie,
per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire
comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare
pregiudizio al lavoratore incolpevole” (TAR Roma, (Lazio) sez. I,
10/02/2020, n. 1712).
Nel caso di specie, il ricorrente, pur avendo manifestato in maniera
inequivocabile la volontà di usufruire del residuo periodo di ferie per
l’anno 2013, non è stato materialmente posto nella condizione di
beneficiarne. Tanto è accaduto perché, in maniera inaspettata, il ricorrente
è stato portato a conoscenza, solo in data 10.12.2013, dell’abbassamento
delle note caratteristiche, circostanza che ha determinato il suo
collocamento obbligatorio in congedo.
La mancata fruizione dei 36 giorni di ferie è pertanto dipesa da un evento
non imputabile a colpa del dipendente. In presenza di queste circostanze, il
diniego opposto dall’amministrazione alla monetizzazione del congedo
ordinario non fruito è connotato da illegittimità non essendosi tenuto conto
della non imputabilità della mancata fruizione del congedo ordinario da
parte del ricorrente.
Alla stregua delle argomentazioni che precedono, il ricorso è accolto; ne
consegue l’annullamento del provvedimento impugnato e l’accertamento del
diritto del ricorrente (dei suo eredi) a conseguire la monetizzazione di 36
giorni di ferie non godute relativamente all’anno 2013 (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 24.02.2021 n. 326 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Bilanciamento
tra esigenze di pari rango.
Nel rapporto di lavoro pubblico, la limitazione dell’irrinunciabile
diritto costituzionale alle ferie con il divieto di
pagamento della retribuzione corrispondente alle ferie non
godute, può operare solo nei limiti del bilanciamento tra
esigenze di pari rango, ossia se la parte datoriale abbia
messo il lavoratore in condizione di fruirne; solo in tal
caso il legislatore può legittimamente stabilire, per fictio
iuris, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione perché
l’obbligato ha offerto la prestazione ed il creditore è in
mora nel riceverla
(TRIBUNALE di Piacenza, Sez. lav., sentenza 20.08.2020 n.
6 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
divieto di monetizzazione delle ferie non godute.
Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute non può trovare
applicazione ove il godimento di dette ferie sia stato impedito da uno stato
di malattia o da altra causa oggettivamente non imputabile al lavoratore.
In tal modo, è stato riconosciuto al lavoratore il diritto di beneficiare di
un’indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche
quando la normativa settoriale formuli esplicitamente un divieto in tal
senso, in questo modo garantendo il diritto alle ferie, come riconosciuto
dalla Costituzione e dalle più importanti fonti internazionali ed europee.
---------------
Nel merito il ricorso è fondato e va accolto.
Ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, recepito dall’art. 2109 c.c., il
lavoratore ha diritto a godere di un periodo annuale di ferie retribuite,
per reintegrare le energie psicofisiche spese nell’espletamento della
prestazione lavorativa.
Si tratta di un diritto irrinunciabile e dunque, in linea generale, non
monetizzabile.
In attuazione di tale principio, infatti, l’art. 47, co. 7, del D.P.R.
31.07.1995 n. 395 dispone che “la licenza ordinaria è un diritto
irrinunciabile e non è monetizzabile”. L’art. 55 del D.P.R. 16.03.1999
n. 254 prevede altresì, al comma 1, che: “La disciplina dell'articolo 14,
comma 14, del decreto del Presidente della Repubblica p. 395 del 1995 è
estesa al personale dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di
finanza.” e, al successivo comma 2, che: “al pagamento sostitutivo,
oltre che nei casi previsti dal comma 1, si procede anche quando la licenza
ordinaria non sia stata fruita per decesso o per cessazione dal servizio per
infermità”.
Da ultimo è intervenuto l’art. 5, co. 8, del d.l. 06.07.2020 -OMISSIS- n.
95, convertito in legge 07.08.2020 -OMISSIS- n. 135, il quale ha ribadito il
divieto assoluto di monetizzazione delle ferie, dei riposi e dei permessi
spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale delle P.A., da
applicarsi anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità,
dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite d’età.
Il descritto quadro normativo, con riferimento alla spettanza del compenso
sostitutivo della licenza in ipotesi di cessazione dal servizio, è stato
effettivamente interpretato da una parte della giurisprudenza più risalente,
come richiama l’amministrazione resistente, nel senso che “il diritto al
compenso sostitutivo … implica comunque una situazione oggettiva di
impossibilità di fruire in altro periodo delle ferie” nel mentre “dirimente
in senso ostativo all'accoglimento della domanda del compenso sostitutivo si
rivela … il fatto che il richiedente sia stato collocato in quiescenza a
domanda, costituendo … la sua libera scelta la causa prima dell'interruzione
del rapporto di impiego, scelta che ha impedito all'Amministrazione di
consentirgli di fruire in altro periodo delle ferie residue” (TAR
Sicilia Catania, Sez. III, 25.05.2016 n. 1399; nello stesso senso TAR Puglia
Lecce, Sez. II, 21.05.2018 n. 847).
In tempi più recenti, tuttavia, si è registrata un’evoluzione
giurisprudenziale, alla quale il Collegio ritiene di aderire, anche alla
luce degli interventi della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea.
In particolare, la Corte costituzionale, con sentenza n. 95/2016, ha
rilevato che:
- la prassi amministrativa e la magistratura contabile
convergono nell’escludere dall’àmbito applicativo del divieto le vicende
estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la volontà del
lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro; questa
interpretazione si colloca, peraltro, nel solco tracciato dalle pronunce
della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, che riconoscono al
lavoratore il diritto di beneficiare di un’indennità per le ferie non godute
per causa a lui non imputabile, anche quando difetti una previsione
negoziale esplicita che consacri tale diritto, ovvero quando la normativa
settoriale formuli il divieto di “monetizzare” le ferie; così
correttamente interpretata, la disciplina impugnata non pregiudica il
diritto alle ferie, come garantito dalla Carta fondamentale, dalle fonti
internazionali e da quelle europee;
- il diritto alle ferie, riconosciuto a ogni lavoratore, senza
distinzioni di sorta, mira a reintegrare le energie psico-fisiche del
lavoratore e a consentirgli lo svolgimento di attività ricreative e
culturali, nell’ottica di un equilibrato «contemperamento delle esigenze
dell’impresa e degli interessi del lavoratore»; la giurisprudenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea ha rafforzato i connotati di questo
diritto fondamentale del lavoratore e ne ha ribadito la natura inderogabile,
in quanto finalizzato a «una tutela efficace della sua sicurezza e della
sua salute»;
- la garanzia di un effettivo godimento delle ferie traspare,
secondo prospettive convergenti, dalla giurisprudenza costituzionale e da
quella europea; tale diritto inderogabile sarebbe violato se la cessazione
dal servizio vanificasse, senza alcuna compensazione economica, il godimento
delle ferie compromesso dalla malattia o da altra causa non imputabile al
lavoratore;
- non si può ritenere, pertanto, che una normativa settoriale,
introdotta al precipuo scopo di arginare un possibile uso distorto della “monetizzazione”,
si ponga in antitesi con principi ormai radicati nell’esperienza giuridica
italiana ed europea.
In sostanza, la Corte –con una sentenza interpretativa di rigetto– ha
ritenuto che il divieto di monetizzazione non può trovare applicazione ove
il godimento delle ferie sia stato impedito da uno stato di malattia o da
altra causa oggettivamente non imputabile al lavoratore.
In tal modo è stato riconosciuto al lavoratore il diritto di beneficiare di
un'indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche
quando la normativa settoriale formuli esplicitamente un divieto in tal
senso, in questo modo garantendo il diritto alle ferie, come riconosciuto
dalla Costituzione e dalle più importanti fonti internazionali ed europee.
A livello comunitario, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, in ordine
all'interpretazione della Direttiva n. 2003/88/CE e al suo recepimento da
parte degli Ordinamenti interni, ha rilevato come il legislatore
comunitario, nel prevedere comunque l'erogazione dell'indennità dovuta per
ferie non godute alla cessazione del rapporto lavorativo, abbia considerato
del tutto irrilevante il motivo per cui il rapporto di lavoro si sia risolto
(sentenza C-341-15 del 20/07/2016).
In conformità ai riportati principi di diritto, la più recente
giurisprudenza di merito ha ritenuto che nel caso in cui il “rapporto di
lavoro è cessato a causa della domanda di pensionamento, al lavoratore
spetta la relativa indennità per ferie annuali non godute. Ciò perché le
ferie sono state maturate ma il lavoratore, per via del collocamento in
pensione, non è stato in grado di usufruirne in misura piena prima della
fine del rapporto”, con la precisazione che non “può riversarsi
sull'interessato l'onere di chiedere la postergazione del già decretato
stato di quiescenza. Semmai … avrebbe dovuto essere la stessa
Amministrazione a prorogare d'ufficio la decorrenza del collocamento in
quiescenza, per consentire al ricorrente di godere del congedo ordinario
quale diritto inviolabile del lavoratore” (Tar Calabria Catanzaro,
03.03.2020, n. 511, Tar Bologna, Sez. I, 13.06.2019 n. 535, Tar Sicilia,
Palermo, Sez. I, 28.08.2018 n. 1850).
Più di recente, il Consiglio di Stato (Sez. I, parere n. 154 del 20.01.2020)
ha anzitutto rilevato che “la circostanza che un lavoratore ponga fine,
di sua iniziativa, al proprio rapporto di lavoro, non ha nessuna incidenza
sul suo diritto a percepire, se del caso, un’indennità finanziaria per le
ferie annuali retribuite di cui non ha potuto usufruire prima della
cessazione del rapporto di lavoro”.
Sempre nel medesimo parere è stato osservato che “alla luce dell’evoluzione
del quadro interpretativo sopra delineato e, in particolare,
dell’orientamento del giudice eurounitario, questa Sezione, con il recente
parere n. 86/2018, ha ritenuto che il diritto al congedo ordinario maturato
nel periodo di aspettativa per infermità include automaticamente il diritto
al compenso sostitutivo, ancorché il dipendente sia cessato dal servizio “a
domanda”. Questa interpretazione è stata ribadita con il parere di
questa Sezione n. 2424/2018. Tale è anche l’orientamento dei Tribunali
amministrativi regionali (TAR Sicilia-Palermo n. 1850/2018; TAR Puglia-Lecce
n. 431/2018; TAR Calabria-Reggio Calabria n. 264/2018; TAR Emilia Romagna,
Bologna n. 535/2019; TAR Molise n. 3/2020).
Da quanto sopra scaturiscono i presupposti per l’accoglimento del ricorso,
con riferimento all’an della spettanza.
In ordine al quantum, in assenza di specifica contestazione sul punto da
parte dell’amministrazione resistente ci si riporta al prospetto agli atti,
redatto dal comandante del nucleo di polizia tributaria di Vibo Valentia in
data 09.10.2020 -OMISSIS- (prot. n. 324082/12), da cui risulta la spettanza
di n. 76 giorni di licenza non fruita (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 11.05.2020 n. 4898 - massima tratta da www.laleggepertutti.it -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La cessazione del rapporto di lavoro.
Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute, alla luce della
sentenza della Corte Cost. 06.05.2016 n. 95, è correlato a fattispecie in
cui la cessazione del rapporto di lavoro sia riconducibile ad una scelta o a
un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o a eventi
(mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque
consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il
necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro
con le preferenze manifestate dal lavoratore.
Esulano, invece, dall’ambito
di applicazione di tale divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro
non imputabili alla volontà delle parti.
---------------
2. Devono essere brevemente tratteggiati il quadro normativo di riferimento
e i principi giurisprudenziali elaborati in subjecta materia.
2.1. Le modalità di godimento delle ferie annuali continuano ad essere
disciplinate, per il personale di magistratura ordinaria, dalle disposizioni
previste dall'art. 36 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, nonché da quelle
dell'art. 15 della legge 11.07.1980, n. 312 (la cui applicabilità ai
magistrati ordinari discende dalla norma di rinvio contenuta nell'art. 276
dell'Ordinamento Giudiziario) laddove recitano, rispettivamente: "il
godimento del congedo entro l'anno può essere rinviato o interrotto per
eccezionali esigenze di servizio; in tal caso l'impiegato ha diritto al
cumulo dei congedi entro il primo semestre dell'anno successivo" e: "il
congedo ordinario è stabilito in trenta giorni lavorativi da fruirsi
irrinunciabilmente nel corso dello stesso anno solare in non più di due
soluzioni, salvo eventuali motivate esigenze di servizio, nel qual caso
l’impiegato ha diritto al cumulo dei congedi entro il primo semestre
dell'anno successivo”.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, in data 20.12.2001, nel
rispondere ad un quesito e con riferimento a precedenti circolari adottate
in materia, ha ribadito l'applicabilità ai magistrati dell'art. 15 della L.
n. 312/1980 ed ha precisato che "normalmente il congedo ordinario deve
essere goduto continuativamente in coincidenza con il periodo feriale" ma
che "per ragioni di servizio è tuttavia possibile una diversa distribuzione,
da parte dei capi degli uffici, del periodo di congedo durante l'anno come
già stabilito da risoluzioni del C.S.M con la possibilità di recupero nel
semestre dell'anno successivo".
Inoltre ha affermato che "il termine posto
dall'art. 15 della legge n. 312/1980 e dall'art. 36 del D.P.R. n. 3/1957
‘entro il primo semestre dell'anno successivo’ è da intendersi come
perentorio e non superabile e che il magistrato, essendo irrinunciabile il
diritto alle ferie, ha il dovere di goderlo entro il detto limite",
ammettendo soltanto che, per ragioni di oggettiva impossibilità, il
magistrato possa fruire delle ferie immediatamente dopo la cessazione della
causa ostativa, eventualmente superando, in via di eccezione, il termine del
primo semestre dell'anno successivo.
Riguardo, poi, ai criteri che devono presiedere alla certificazione delle
esigenze di servizio, comprovanti la necessità di rinvio della fruizione del
congedo ordinario, l'Amministrazione continua a fare sempre riferimento alle
disposizioni contenute nelle circolari AG/EC/4014 del 06.08.1998 e
AG/EC/3730 del 16.06.2000 a firma del Direttore Generale
dell'Organizzazione Giudiziaria e degli Affari Generali, diramate a tutti i
Capi degli Uffici, ove, a precisazione delle su citate statuizioni
normative, si sottolinea che, per quanto concerne l'attestazione della
sussistenza delle esigenze di servizio che comportino il rinvio al congedo
ordinario, è necessario che le stesse siano adeguatamente certificate, sia
sotto il profilo formale sia sotto quello sostanziale, aggiungendo, altresì,
che non sono ritenute adeguate le certificazioni generiche e di stile,
richiedendosi invece la documentata indicazione, volta per volta, di
puntuali riferimenti a situazioni e circostanze che possano essere idonee
allo scopo.
Inoltre, con la seconda circolare citata, l'Amministrazione richiede che i
magistrati debbano predisporre, tempestivamente, le singole richieste di
ferie, anche in presenza di probabili esigenze di ufficio che ne potrebbero
giustificare il diniego e che è compito dei Capi degli Uffici,
eventualmente, rigettare la richiesta mediante la redazione di un
provvedimento che deve indicare specificatamente e dettagliatamente le
ragioni di detto diniego.
Successivamente, nella delibera adottata nella seduta del 14.07.2010 e
nelle circolari datate 30.07.2010 e 21.04.2011, quest'ultima
modificata mediante risoluzione del 20.04.2016 e relazione introduttiva
del 26.03.2015, il Consiglio Superiore della Magistratura è ritornato
nuovamente sul tema, e nel ribadire e sintetizzare quanto già in precedenza
affermato in tema di godimento delle ferie da parte dei magistrati, afferma
nuovamente che, del tutto eccezionalmente, le ferie non godute possono
essere recuperate oltre il primo semestre dell'anno successivo rispetto a
quello di riferimento, purché sia dimostrata la ricorrenza in concreto di
condizioni ostative al rispetto del termine de quo; inoltre, detta una
disciplina secondaria in tema di programmazione delle ferie e di piani di
recupero delle ferie residue, ma sempre nel rispetto delle disposizioni su
citate.
2.2. Nelle more è stato emanato il D.L. 06.07.2012 n. 95 (entrato in
vigore il 07.07.2012) convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012 n. 135, il cui art. 5, comma 8, ha disposto che “le ferie, i riposi ed
i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle
amministrazioni pubbliche … sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto
previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla
corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente
disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro
per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del
limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più
favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall'entrata in vigore
del presente decreto…”.
2.3. Detta norma è stata oggetto di interpretazione da parte della
giurisprudenza nazionale ed europea, nei termini di seguito tratteggiati.
2.3.1. Con sentenza della Sezione X del 20.07.2016 (causa C. 341/15) la
Corte di Giustizia ha affermato che l'articolo 7, paragrafo 2, della
direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che:
- esso osta a una
normativa nazionale che priva del diritto all'indennità finanziaria per
ferie annuali retribuite non godute il lavoratore il cui rapporto di lavoro
sia cessato a seguito della sua domanda di pensionamento e che non sia stato
in grado di usufruire di tutte le ferie prima della fine di tale rapporto di
lavoro;
- un lavoratore ha diritto, al momento del pensionamento,
all'indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute per il
fatto di non aver esercitato le sue funzioni per malattia;
- un lavoratore
il cui rapporto di lavoro sia cessato e che, in forza di un accordo concluso
con il suo datore di lavoro, pur continuando a percepire il proprio
stipendio, fosse tenuto a non presentarsi sul posto di lavoro per un periodo
determinato antecedente il suo pensionamento, non ha diritto all'indennità
finanziaria per ferie annuali retribuite non godute durante tale periodo,
salvo che egli non abbia potuto usufruire di tali ferie a causa di una
malattia;
- spetta, da un lato, agli Stati membri decidere se concedere ai
lavoratori ferie retribuite supplementari che si sommano alle ferie annuali
retribuite minime di quattro settimane previste dall'articolo 7 della
direttiva 2003/88.
In tale ipotesi, gli Stati membri possono prevedere di
concedere al lavoratore che, a causa di una malattia, non abbia potuto
usufruire di tutte le ferie annuali retribuite supplementari prima della
fine del suo rapporto di lavoro, un diritto all'indennità finanziaria
corrispondente a tale periodo supplementare. Spetta, dall'altro lato, agli
Stati membri stabilire le condizioni di tale concessione.
2.3.2. La Corte Costituzionale con la pronuncia interpretativa di rigetto n.
95 del 06.05.2016, ha escluso l'illegittimità costituzionale della norma
in parola, affermando che la stessa va interpretata nel senso che debba
esser sempre riconosciuta la "compensazione economica" allorquando il
godimento delle ferie sia “compromesso dalla malattia o da altra causa non
imputabile al lavoratore".
2.3.3. Sul tema della monetizzazione delle ferie il Consiglio di Stato ha
affermato che "il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute dal
pubblico dipendente, anche in mancanza di una norma espressa che preveda la
relativa indennità, discende direttamente dallo stesso mancato godimento
delle ferie, in armonia con l'art. 36 Cost., quando sia certo che tale
vicenda non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a
lui comunque imputabile, e dunque anche in caso di cessazione dal servizio
per infermità; ciò in quanto il carattere indisponibile del diritto alle
ferie non esclude l'obbligo della stessa Amministrazione di corrispondere il
predetto compenso per le prestazioni effettivamente rese, non essendo logico
far discendere da una violazione imputabile all'Amministrazione il venir
meno del diritto all'equivalente pecuniario della prestazione effettuata;
analoga conclusione deve trarsi ove le ferie non siano state fruite per
cessazione dal servizio per infermità" (Cons. Stato, Sez. IV, 13.03.2018,
n. 1580).
Da tale carattere di indisponibilità e irrinunciabilità discende il diritto
al compenso sostitutivo, ogni qual volta la fruibilità del congedo stesso
sia oggettivamente esclusa per causa indipendente dalla volontà del
lavoratore o per fatto specifico della P.A. datrice di lavoro (in materia,
TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 25.06.2015, TAR Sardegna, 13.02.2013 n. 116; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II,
03.05.2011 n.
598; Cons. Stato, Sez. IV, 24.02.2009 n. 1084).
Il diritto alla monetizzazione del congedo ordinario (non fruito) matura
ogniqualvolta il dipendente non ne abbia potuto usufruire (ovvero non abbia
potuto disporre e godere delle sue ferie) a cagione di obiettive esigenze di
servizio o comunque per cause da lui non dipendenti o a lui non imputabili (Cons.
Stato, Sez. III, 21.03.2016 n. 1138).
Quindi il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8,
D.L. 06.07.2012 n. 95 va interpretato nel senso che tale disciplina non
pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano
corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché
correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del
rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento,
raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare
per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le
preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché
la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso
incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli
abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie,
per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire
comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare
pregiudizio al lavoratore incolpevole (TAR Emilia Romagna, Parma, 17.01.2017, n. 14; v. anche TAR Friuli Venezia Giulia, 11.07.2018,
n. 247).
2.3.4. E, per il pubblico impiego contrattualizzato, la giurisprudenza del
giudice del lavoro è costante nell'affermare che in tema di pubblico impiego
e monetizzazione delle ferie non fruite, sussiste il diritto del ricorrente
al pagamento delle ferie e dei riposi non goduti, quando lo stesso abbia
provato di essere lavoratore in malattia. Difatti, l'art. 5, comma 8, D.L.
95/2012 deve essere interpretato nel senso che il divieto di monetizzazione
delle ferie residue non si applica nel caso in cui il dipendente non sia
stato nella possibilità di fruire delle stesse a causa di malattia (ex multis: Trib. Taranto sez. lav., 17.10.2019, n. 3418; Trib. La Spezia,
sez. lav., 03.11.2018, n. 282; Trib. Torino, sez. lav., 22.12.2016, n. 1861).
3. Alla luce di quanto precede il ricorso non può essere accolto
(TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 10.02.2020 n. 1712 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Monetizzazione delle ferie nel pubblico impiego: ammissibilità.
La monetizzazione delle ferie, nel pubblico impiego, è consentita solo in
quei casi in cui il diritto alle stesse sia compromesso da cause non
imputabili al lavoratore quali la malattia, essendo legittimo il divieto di
monetizzazione delle stesse in tutti gli altri casi (nella specie il
lavoratore ha rassegnato le proprie dimissioni con l’intento di godere della
pensione, anche se poi ciò non si è verificato, pertanto ben avrebbe potuto,
preventivando la data di cessazione del rapporto, godere delle ferie
residue)
(TRIBUNALE di Taranto, Sez. lav., sentenza 17.10.2019 n. 3418 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Divieto di monetizzazione delle ferie non godute: può considerarsi assoluto?
Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute non può considerarsi
assoluto, nel senso di proibire radicalmente il pagamento del compenso
sostitutivo, pertanto, a fronte di evidenti impossibilità al godimento delle
ferie non attribuibili in alcun modo alla volontà del lavoratore (nella
specie il lavoratore ha tempestivamente comunicato al datore di lavoro il
proprio recesso dal rapporto di lavoro per collocamento in quiescenza e il
datore di lavoro ha comunicato al dipendente la necessità della fruizione
delle ferie residue in costanza del rapporto di lavoro, stante
l’impossibilità della loro monetizzazione, il dipendente non ha potuto
usufruire dei n. 15 giorni di ferie residue nel mese di dicembre e di
gennaio 2015, come inizialmente convenuto tra le parti, a causa di
contestuale richiesta di fruizione di ferie da parte di molti altri
dipendenti, per cui il contemperamento delle esigenze di assicurare la
continuità del servizio e di garantire il recupero delle energie del
dipendente possa risolversi in un aprioristico riconoscimento della
prevalenza delle prima e rendere intempestiva qualsiasi istanza, anche
presentata con ampio anticipo, da parte del lavoratore, ai fini della
conservazione del di lui diritto), il divieto di corrispondere un compenso
sostitutivo configura un comportamento censurabile, non essendo logico far
derivare da una violazione dell’ art. 36 della Costituzione imputabile alla
pubblica amministrazione. il venir meno del diritto all’equivalente
pecuniario di una prestazione comunque effettuata
(TRIBUNALE di Teramo, Sez. lav., sentenza 16.10.2019 n. 514 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
diritto alle ferie.
Il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8, d.l.
06.07.2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, l. 07.08.2012 n. 135, va interpretato nel senso che
tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove
prevede che non si possano corrispondere in nessun caso
trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il
contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del
rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un
comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad
eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti
di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la
fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di
lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in
merito ai periodi di riposo.
Ciò al fine specifico di reprimere il ricorso incontrollato
alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone
gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento
effettivo delle ferie, per incentivare una razionale
programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti
virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro.
---------------
Come risulta dalla esposizione in fatto, la questione
giuridica sottoposta all’attenzione del Collegio verte su un
unico punto. Si tratta di comprendere se sia dovuta la
monetizzazione del periodo di ferie non goduto nel caso in
cui il mancato godimento sia dipeso da assenza continuativa
del dipendente dovuta a malattia.
L’amministrazione intimata, in sintesi, difende la
correttezza del diniego opposto affermando di avere
liquidato il compenso sostitutivo in favore del ricorrente,
facendo corretta applicazione della disciplina di
riferimento e, segnatamente, dell’art. 14 d.P.R. 31.07.1995,
n. 395, dell’art. 18 d.P.R. 16.03.1999 n. 254 e dell’art. 11
d.P.R. 11.09.2007, n. 170.
Il ricorrente contesta, argomentando con ampi svolgimenti,
l’interpretazione e l’applicazione che l’amministrazione ha
fornito delle sopra citate disposizioni.
In particolare, nella memoria depositata il giorno
11.01.2019, in vista dell’udienza pubblica, la difesa del
ricorrente afferma, in sintesi, che ciascuna delle
disposizioni richiamate dall’amministrazione, in assenza di
una lettura costituzionalmente orientata, collide con il
principio della indisponibilità del diritto alle ferie
sancito nell'art. 36, ultimo comma, della Costituzione.
Il precetto costituzionale, secondo il ricorrente, deve
essere inteso nel senso che ove il lavoratore abbia prestato
ininterrottamente la propria opera nel periodo di
riferimento delle ferie, il compenso sostitutivo delle
stesse spetta in ogni caso, a nulla rilevando l’esistenza di
disposizioni che concedano, limitino o escludano il diritto
all’equivalente pecuniario.
La pretesa del ricorrente è fondata.
Alcune premesse di carattere generale.
Il diritto costituzionale indisponibile ad un periodo
annuale di ferie retribuito, connotato, al pari del diritto
al riposo settimanale, dal requisito dell'irrinunciabilità,
rinviene il proprio fondamento giuridico tanto
nell'interesse, meramente privatistico, comune ad entrambe
le parti del rapporto, di conservare le energie fisiche del
lavoratore al fine di una più razionale utilizzazione delle
stesse, quanto nell'interesse, eminentemente pubblico, alla
tutela della persona del lavoratore.
La dottrina, in modo unanime, ha da tempo affermato che nel
caso delle ferie annuali risultano prevalenti proprio gli
interessi etico-sociali rispetto a quelli fisiologici, cui
sono, invece, essenzialmente preordinate le altre pause, di
minore durata e di maggiore frequenza.
In materia di ferie, l'intervento della Corte costituzionale
è stato ripetuto e sempre molto incisivo nel riservare una
tutela particolarmente intensa al diritto al riposo feriale,
attraverso un consolidato filone giurisprudenziale che parte
dal 1963 (con la celebre sentenza n. 66) per arrivare alla
storica sentenza n. 158 del 2001 che ha affermato che la
garanzia costituzionale del riposo annuale, espressamente
sancita nel 3° comma dell'art. 36 della Costituzione, non
consente deroghe e va per ciò assicurata ad ogni lavoratore
senza distinzione di sorta.
Anche la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea
ha sancito, al paragrafo 2 dell'art. 31, il diritto del
lavoratore a una limitazione della durata massima del lavoro
e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie
annuali retribuite, utilizzando una formula che riprende
quasi letteralmente quella contenuta nelle Costituzioni
italiana e portoghese.
Venendo alla questione della monetizzazione delle ferie
occorre rilevare che ha avuto modo di pronunciarsi
recentemente il Consiglio di Stato affermando che “il
diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute dal
pubblico dipendente, anche in mancanza di una norma espressa
che preveda la relativa indennità, discende direttamente
dallo stesso mancato godimento delle ferie, in armonia con
l'art. 36 Cost., quando sia certo che tale vicenda non sia
stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a
lui comunque imputabile, e dunque anche in caso di
cessazione dal servizio per infermità; ciò in quanto il
carattere indisponibile del diritto alle ferie non esclude
l'obbligo della stessa Amministrazione di corrispondere il
predetto compenso per le prestazioni effettivamente rese,
non essendo logico far discendere da una violazione
imputabile all'Amministrazione il venir meno del diritto
all'equivalente pecuniario della prestazione effettuata;
analoga conclusione deve trarsi ove le ferie non siano state
fruite per cessazione dal servizio per infermità”
(Consiglio di Stato sez. IV, 13.03.2018, n. 1580).
In definitiva, il mancato godimento delle ferie, non
imputabile all'interessato, non preclude di suo l'insorgenza
del diritto alla percezione del compenso sostitutivo. Si
tratta, infatti, di un diritto che per sua natura prescinde
dal sinallagma prestazione lavorativa-retribuzione che
governa il rapporto di lavoro subordinato e non riceve,
quindi, compressione in presenza di altra causa esonerativa
dall'effettività del servizio.
Da tale carattere di indisponibilità e irrinunciabilità
discende il diritto al compenso sostitutivo, ogni qual volta
la fruibilità del congedo stesso sia oggettivamente esclusa
per causa indipendente dalla volontà del lavoratore o per
fatto specifico della P.A. datrice di lavoro (in materia,
Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 25.06.2015, Tar Sardegna
13.02.2013 n. 116; Tar Calabria, Catanzaro, sez. II,
03.05.2011 n. 598; Consiglio di Stato, sez. IV, 24.02.2009
n. 1084).
La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di
pronunciarsi anche sulla portata del divieto di
monetizzazione delle ferie di cui all'art. 5, comma 8, d.l.
06.07.2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall'art. 1,
comma 1, l. 07.08.2012 n. 135.
Esso va interpretato nel senso che tale disciplina non
pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si
possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici
sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a
fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è
riconducibile a una scelta o a un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità,
pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che
comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione
delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle
scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze
manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo,
sicché la norma in parola va interpretata come diretta a
reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle
ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare
la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per
incentivare una razionale programmazione del periodo feriale
e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto
di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore
incolpevole (Tar Emilia Romagna, Parma sez. I, 17.01.2017,
n. 14).
E, per il pubblico impiego contrattualizzato, la
giurisprudenza del giudice del lavoro è costante
nell’affermare che in tema di pubblico impiego e
monetizzazione delle ferie non fruite, sussiste il diritto
del ricorrente al pagamento delle ferie e dei riposi non
goduti quando lo stesso abbia provato di essere lavoratore
in malattia. Difatti, l'art. 5, comma 8, d.l. 95/2012 deve
essere interpretato nel senso che il divieto di
monetizzazione delle ferie residue non si applica nel caso
in cui il dipendente non sia stato nella possibilità di
fruire delle stesse a causa di malattia (ex multis,
Tribunale Torino sezione lavoro, 22.12.2016, n. 1861).
In conclusione, il ricorso deve essere accolto con
conseguente annullamento dell'atto impugnato, nella parte in
cui è stato negato il compenso sostitutivo per i giorni di
congedo ordinario non fruito negli anni 2013 e precedenti e
2014, e conseguente condanna dell'Amministrazione al
pagamento del compenso sostitutivo (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 08.03.2019 n. 211 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it - link a
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mancato godimento delle ferie imputabile alla volontà del lavoratore.
Vige il divieto di monetizzazione delle ferie nel Pubblico Impiego nei
soli casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una
scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, licenziamento
disciplinare, mancato superamento del periodo di prova) o ad eventi
(mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età) che comunque
consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie residue e di
attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore
di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo
di godimento delle ferie
(TRIBUNALE di Foggia, Sez. lav., sentenza 12.02.2019 n. 5193 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Controversie di lavoro e divieto di monetizzazione delle ferie.
In tema di controversie di lavoro, il divieto di monetizzazione delle
ferie maturate e non godute non trova applicazione con riferimento alle
ferie non godute relative al periodo ancora pendente al momento della
risoluzione del rapporto
(CORTE di Appello di Roma. Sez. lav., sentenza 20.09.2018, n. 3231 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ambito di operatività del divieto di monetizzazione delle ferie non godute.
L’art. 5, comma 8, d.l. n. 95 del 2012, convertito con modificazioni nella
l. n. 135 del 2012, introduce il divieto di monetizzazione delle ferie non
godute in tutti i casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro è
riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni,
risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento di limiti
di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle
ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative
del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito
ai periodi di riposo.
---------------
Rilevato che:
- il ricorso è infondato, anche a prescindere dalle eccezioni di
irricevibilità e, in particolare, di inammissibilità, esposte dalla difesa
erariale in relazione alla mancata impugnazione dei provvedimenti di rigetto
di cui alle note del 04.04.2012 e del 12.04.2013 (all. 6 ed 8 – ricorrente),
in ragione della affermata violazione dell’art. 34, comma 2, c.p.a., in
quanto non sarebbe possibile proporre la sola azione di accertamento
allorché essa presupponga la rimozione del formale diniego opposto
-OMISSIS-;
- ai sensi dell’art. 5, comma 8, D.L. n. 95 del 2012, conv. con
mod. nella L. n. 135 del 2012, “le ferie, i riposi ed i permessi
spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di
statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31
dicembre 2009, n. 196, nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la
Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), sono
obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti
e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti
economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di
cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione,
pensionamento e raggiungimento del limite di età”;
- in linea con l’indirizzo già espresso da questo Tribunale (cfr.
n. 228 del 2018), la disposizione introduce il divieto di monetizzazione
delle ferie non godute in tutti i casi “in cui la cessazione del rapporto
di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore
(dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento,
raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare
per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le
preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo”
(così TAR Emilia Romagna, Parma, n. 14 del 2017; cfr. inoltre C. Cost.,
sentenza n. 214 del 2016);
- nel caso di specie, il collocamento in posizione di esonero è
avvenuto sulla base della volontaria richiesta del ricorrente, inoltrata in
data 17.01.2011, quando lo stesso, come deve desumersi dal foglio
matricolare, risultava ancora in servizio attivo, condizione quest’ultima
venuta a cessare soltanto a decorrere dal 25.03.2011, a seguito del
collocamento in aspettativa -OMISSIS- non dipendente da causa di servizio;
- la mancata fruizione delle ferie deve essere ricondotta alla
scelta -OMISSIS- di essere collocato in posizione di esonero e alla
implicita accettazione degli effetti, senz’altro prevedibili e, a ben
vedere, evitabili, che tale scelta avrebbe potuto determinare sulla futura
gestione del rapporto lavorativo;
- trova quindi piena applicazione il divieto di erogazione di
trattamenti economici intesi a sostituire le ferie (non altrimenti godute),
ai sensi del citato art. 5, comma 8, D.L. n. 95 del 2012, atteso che la
domanda di collocamento in posizione di esonero risulta riconducibile alla
formale richiesta del ricorrente, peraltro formulata in epoca precedente al
periodo di aspettativa per infermità;
- la domanda deve essere pertanto rigettata, con piena conferma
dell’operato dell’Amministrazione
(TAR Friuli-Venezia Giulia,
sentenza 11.07.2018 n. 247 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Divieto di monetizzazione delle ferie: interpretazione.
Il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8, d.l.
06.07.2012 n. 95, conv., con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, l. 07.08.2012 n. 135, va interpretato nel senso che tale disciplina non
pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano
corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché
correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del
rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento,
raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare
per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le
preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché
la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso
incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli
abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie,
per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire
comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare
pregiudizio al lavoratore incolpevole.
(Nella fattispecie, ad avviso del Collegio, le ferie residue del 2013 di cui
il ricorrente chiedeva la monetizzazione non rientravano nell’ipotesi di
deroga di cui alla Circolare richiamata dal ricorrente, in quanto esse si
riferivano ai soli casi in cui la fruizione fosse stata impedita dalla
anomala e non prevedibile conclusione del rapporto e tale circostanza non
ricorreva nel caso di specie, nel quale il ricorrente era stato collocato
prima in aspettativa ex art. 12, comma 3, d.P.R. n. 170 del 2007, poi
riammesso in servizio ed, infine collocato in quiescenza, senza che
risultasse una denegata richiesta di ferie nel 2013 o nel 2014).
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Il ricorso è infondato.
Il ricorrente impugna il diniego di monetizzazione delle ferie residue del
2013 e del 2014, motivato sulla scorta del divieto di cui all’art. 5, comma
8, del decreto legge 95/2012 per le ferie residue 2013 e dalla previsione di
cui all’art. 12, comma 3, del d.p.r. 170/2007 in forza della quale durante
il periodo di aspettativa ivi prevista non si maturano ferie.
Per quanto riguarda le ferie del 2013 il ricorrente sostiene che esse non
sono state fruite per inderogabili esigenze di servizio.
La circostanza, tuttavia, non è provata, soprattutto tenuto conto della
richiesta di congedo 2013 autorizzata nel 2014 per tutti e 15 i giorni
richiesti. Non vi è pertanto prova che il ricorrente non abbia fruito del
residuo ferie 2013 nel 2014 per motivi a lui non imputabili.
Dalla documentazione fornita, infatti, non si evince una richiesta di
fruizione di ferie residue del 2013 rigettata per improcrastinabili esigenze
di servizio.
Di contro l’Amministrazione ha prodotto la richiesta di fruizione di 15
giorni di congedo straordinario 2013, autorizzato dal 15 al 31.01.2014, la
fruizione di 5 giorni di recupero e di 4 giorni ex legge 937/1977 nel 2013,
oltre ai 15 giorni di congedo straordinario per cure termali a decorrere dal
17/10/2013.
A ciò si aggiunga il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art.
5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95 convertito, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, L. 07.08.2012 n. 135, in relazione al quale la Corte
Costituzionale, con la sentenza n. 95 del 06.05.2016, ha ritenuto non
fondata la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli
artt. 3, 36, commi 1 e 3, e 117, comma 1, Cost., ed all’art. 7 della
direttiva C.E. 04.11.2003 n. 88.
Il giudice delle leggi ha ritenuto che tale disciplina non pregiudichi il
diritto alle ferie, ove prevede che non si possano corrispondere «in
nessun caso» trattamenti economici sostitutivi, statuendo che “il
legislatore correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione
del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento,
raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare
per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le
preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo”.
Afferma la Corte che “la norma si prefigge di reprimere il ricorso
incontrollato alla “monetizzazione” delle ferie non godute, contrastandone
gli abusi, e di riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle
ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e
favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza
arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole. Del resto, la prassi
amministrativa e la magistratura contabile convergono nell'escludere
dall'ambito applicativo del divieto le vicende estintive del rapporto di
lavoro che non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità
organizzativa del datore di lavoro; e la giurisprudenza di legittimità,
ordinaria e amministrativa, riconosce al lavoratore il diritto ad
un'indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche
quando difetti un'esplicita previsione negoziale in tal senso, ovvero quando
la normativa settoriale formuli il divieto di “monetizzazione”. Così
correttamente interpretata, la disciplina de qua non pregiudica
l'inderogabile diritto alle ferie, garantito da radicati principi espressi
dalla Carta fondamentale nonché da fonti internazionali ed europee”.
Né le ferie residue del 2013 rientrano nell’ipotesi di deroga di cui alla
Circolare richiamata dal ricorrente, in quanto esse si riferiscono ai soli
casi in cui la fruizione sia impedita dalla anomala e non prevedibile
conclusione del rapporto.
Tale circostanza non ricorre nel caso di specie, nel quale il ricorrente è
stato collocato prima in aspettativa ex art. 12, comma 3, del d.p.r.
170/2007, poi riammesso in servizio ed, infine collocato in quiescenza,
senza che risulti una denegata richiesta di ferie nel 2013 o nel 2014 (nei
mesi esclusi dal collocamento in aspettativa, in attesa di pronuncia sulla
richiesta di dipendenza da causa di servizio della propria infermità -
gennaio e febbraio 2014).
Diverso è infatti il caso di impossibilità di fruizione per causa non
imputabile al lavoratore, per il quale l'art. 7 della direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio 04.11.2003 n. 88, concernente taluni
aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, deve essere interpretato
nel senso che osta a legislazioni o prassi nazionali le quali prevedono che,
in caso di decesso del lavoratore, il diritto alle ferie annuali retribuite
si estingue senza dare diritto ad un'indennità finanziaria a titolo delle
ferie non godute (la quale quindi si trasmette per via successoria) (così
Corte C.E. 118 - 12.06.2014).
Per quanto riguarda la maturazione delle ferie durante il collocamento in
aspettativa in attesa di pronuncia sulla istanza di riconoscimento della
infermità denunciata da causa di servizio, l’art. 12, comma 3, del dpr
170/2007, disciplina questa particolare aspettativa prevedendo che:
“Il personale giudicato permanentemente non idoneo al servizio in modo
parziale permane ovvero è collocato in aspettativa fino alla pronuncia sul
riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della lesione o
infermità che ha causato la predetta non idoneità anche oltre i limiti
massimi previsti dalla normativa in vigore. Fatte salve le disposizioni che
prevedono un trattamento più favorevole, durante l'aspettativa per
infermità, sino alla pronuncia sul riconoscimento della dipendenza da causa
di servizio della lesione subita o della infermità contratta, competono gli
emolumenti di carattere fisso e continuativo in misura intera. Nel caso in
cui non venga riconosciuta la dipendenza da causa di servizio e non vengano
attivate le procedure di transito in altri ruoli della stessa
amministrazione o in altre amministrazioni, previste dal decreto del
Presidente della Repubblica 24.04.1982, n. 339 e dal decreto legislativo
30.10.1992, n. 443, sono ripetibili la metà delle somme corrisposte dal
tredicesimo al diciottesimo mese continuativo di aspettativa e tutte le
somme corrisposte oltre il diciottesimo mese continuativo di aspettativa.
Non si dà luogo alla ripetizione qualora la pronuncia sul riconoscimento
della causa di servizio intervenga oltre il ventiquattresimo mese dalla data
del collocamento in aspettativa. Tale periodo di aspettativa non si cumula
con gli altri periodi di aspettativa fruiti ad altro titolo ai fini del
raggiungimento del predetto limite massimo”.
L’aspettativa in discorso, per quanto contenuto nella disposizione sopra
riportata, ha un particolare regime che non è assimilabile a quella per
infermità, come ritiene la difesa del ricorrente, e ciò è confermato, tra
l’altro, anche dalla non cumulatività di detta aspettativa con altri periodi
di aspettativa fruiti ad altro titolo, oltre che dal regime di ripetibilità
delle somme corrisposte.
Essa, inoltre, non rientra nelle tassative ipotesi contemplate dall’art. 18,
comma 1 e dall’art. 14, comma 14, del d.p.r. 254/99 per le quali, in base al
rinvio contenuto nell’art. 11, comma 4, del d.P.R. n. 170/2007, si può
procedere “al pagamento sostitutivo del congedo ordinario”.
Per quanto detto non attiene alla vicenda in discorso la pronuncia della
Corte di Giustizia UE del 20.07.2016 C-341/15, prodotta in udienza dalla
difesa di parte ricorrente, ove si riferisce ad impossibilità di fruire
delle ferie per malattia.
Il ricorrente, peraltro, a differenza del collega menzionato nella nota del
18/11/2014, non è stato dispensato dal servizio per inabilità fisica, bensì
riammesso in servizio per essere utilizzato in servizi interni con le
prescrizioni previste dalla C.M.O. in quanto riconosciuto solo parzialmente
non idoneo al servizio.
Per quanto sopra osservato il ricorso va respinto, poiché infondato
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 17.01.2017 n. 14 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Monetizzazione delle ferie nel pubblico impiego: divieto.
In tema di pubblico impiego e monetizzazione delle ferie non fruite,
sussiste il diritto del ricorrente al pagamento delle ferie e dei riposi non
goduti quando lo stesso abbia provato di essere lavoratore in malattia.
Difatti, l’art. 5, comma 8, d.l. 95/2012 deve essere interpretato nel senso
che il divieto di monetizzazione delle ferie residue non si applica nel caso
in cui il dipendente non sia stato nella possibilità di fruire delle stesse
a causa di malattia
(TRIBUNALE di Torino, Sez. lav., sentenza 22.12.2016 n. 1861 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
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Sulla responsabilità da mancata o cattiva
manutenzione delle strade comunali... |
PATRIMONIO: Danni causati all’auto da una buca.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai
sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei sinistri
riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità
per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza
la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà
tener conto che quanto più questo e suscettibile di essere previsto e
superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato,
tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del
danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile
all’ente e l’evento dannoso.
(Nella specie, la Corte ha ritenuto non operante la presunzione di
responsabilità a carico dell’ente ex art. 2051 c.c., in un caso di sinistro
stradale causato da una buca presente su una strada di solito usata da mezzi
agricoli, atteso che le condizioni della strada avrebbero richiesto una
maggiore prudenza alla guida)
(Corte di
Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 03.02.2021 n. 2525
- massima tratta da www.laleggepertutti.it).
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ORDINANZA
I due motivi all'esame non censurano
adeguatamente la motivazione della sentenza d'appello impugnata, che è,
peraltro, coerente con l'orientamento in materia di questa Corte (oramai
risalente e del quale non constano significative evoluzioni, sì veda Cass.
n. 23919 del 22/10/2013 Rv. 629108 - 01): «L'ente proprietario d'una
strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell'art. 2031 cod. civ.,
per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di
pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa,
salvo che si accerti la concreta possibilità per l'utente danneggiato di
percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più
questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l'adozione di
normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della
vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il
nesso eziologico tra la condotta attribuibile all'ente e l'evento dannoso.
(Nella specie, la S.C. ha ritenuto che non operasse la presunzione di
responsabilità a carico dell'ente ex art. 2031 cod. civ., in un caso di
sinistro stradale causato da una buca presente sul manto stradale, atteso
che il conducente danneggiato era a conoscenza dell'esistenza delle buche,
per cui avrebbe dovuto tenere un comportamento idoneo ad evitarle).». |
PATRIMONIO: Responsabilità da cattiva manutenzione delle pubbliche strade.
La responsabilità da cose in custodia presuppone che il soggetto al quale
sia imputata sia in grado di esplicare riguardo alla cosa stessa un potere
di sorveglianza, di modifica dello stato dei luoghi ed esclusione che altri
vi apportino modifiche.
Quindi, per le strade aperte al traffico è
configurabile la responsabilità dell’ente pubblico, a meno che questi non
dimostri di non aver potuto fare nulla per evitare il danno e l’ente
proprietario non può fare nulla solo quando la situazione che provoca il
danno si determina non come conseguenza di un precedente difetto di
diligenza nella sorveglianza della strada, ma in maniera improvvisa, atteso
che solo quest’ultima, al pari dell’eventuale colpa esclusiva del
danneggiato in ordine al verificarsi del fatto, integra il fortuito, quale
scriminante della responsabilità del custode.
In sintesi, agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico
transito è sempre applicabile l’art. 2051 c.c. in riferimento alle
situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada, indipendentemente dalla sua estensione e la
responsabilità può essere esclusa dal fortuito, individuabile questo in
relazione a quelle situazioni di pericolo provocate dagli stessi utenti,
ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello
stato della cosa che, nel caso di specie, non è dato individuare
(TRIBUNALE di Benevento, sentenza 07.01.2021 n. 10 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: La percepibilità del pericolo occulto.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai
sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri
riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità
per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza
la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà
tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e
superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato,
tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del
danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile
all’ente e l’evento dannoso.
Ne deriva che la possibilità per il danneggiato
di percepire agevolmente l’esistenza di una situazione di pericolo incide
sulla concreta configurabilità del nesso eziologico fra la cosa ed il danno
e pone in risalto il comportamento colposo del danneggiato
(TRIBUNALE di L’Aquila, sentenza 29.10.2020 n. 481 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: Condotta incauta del danneggiato e prova liberatoria per il custode.
La concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere
con l’ordinaria diligenza un’anomalia stradale, vale ad escludere la
configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità ex art. 2051
c.c. della p.a. per difetto di manutenzione della strada pubblica (nel caso
specifico la Corte ha confermato la sentenza di primo grado che, in un caso
di caduta di pedone dovuta a buca, aveva escluso l’imprevedibilità e
l’invisibilità dell’alterazione del fondo stradale, sia soggettiva che
oggettiva, sia in ragione delle dimensioni della buca –cm. 20 di profondità
e cm. 30 di diametro-, sia della sua localizzazione, in quanto la buca pur
essendo prossima al marciapiede si trovava ad una distanza tale da essere
ben visibile, nonostante il dislivello della banchina, sia delle condizioni
meteorologiche – primo pomeriggio di una giornata di agosto con buone
condizioni di visibilità, non piovosa)
(Corte di Appello Roma, Sez. I, sentenza 24.08.2020 n. 4003 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: Danni per difetto di manutenzione del demanio stradale.
Le violazioni del codice della strada ad opera del danneggiato non sono tali
da interrompere il nesso eziologico fra il difetto di manutenzione del
demanio stradale da parte dell’ente locale e l’evento stesso, ma assumono
rilevanza ai fini del riconoscimento di un concorso di colpa del danneggiato
idoneo a diminuire, in proporzione dell’incidenza causale, la responsabilità
del danneggiante.
(Nella specie: il danneggiato è caduto dalla bicicletta a causa di una buca
situata sul manto stradale ed ha inciso il fatto che il sinistro è avvenuto
in pieno giorno, su un tratto di strada rettilineo e con asfalto asciutto in
quanto si tratta di circostanze che inducono a ritenere che, usando la
dovuta diligenza il danneggiato si sarebbe verosimilmente accorto della
presenza della buca sulla strada e avrebbe potuto limitare la velocità alla
quale procedeva sulla sua bicicletta, riducendo così l’entità delle lesioni
riportate a seguito della caduta, per tali motivi la responsabilità del
danneggiato ha inciso nella misura del 30%)
(TRIBUNALE di Firenze, Sez. II, sentenza 04.07.2020 n. 1570 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: Responsabilità della PA: quando è esclusa?
In tema di danno da insidia stradale, la concreta possibilità per l’utente
danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione
di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e
della conseguente responsabilità della Pubblica Amministrazione per difetto
di manutenzione della strada pubblica, dato che quanto più la situazione di
pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione
di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più incidente deve
considerarsi l’efficienza del comportamento imprudente del medesimo nel
dinamismo causale del danno, sino a rendere possibile che detto
comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso
(TRIBUNALE di Brindisi, sentenza 19.05.2020 n. 629 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: Sinistri su strada aperta al pubblico transito.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai
sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri
riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità
per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza
la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più
questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di
normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della
vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il
nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso
(TRIBUNALE di Cosenza, Sez. I, sentenza 20.01.2020 n. 127 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: L’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito.
In tema di responsabilità civile, l’ente proprietario di una strada aperta
al pubblico transito risponde, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di
manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse
alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti
la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere
con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo e, nel compiere tale
ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è
suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali
cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima
incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso
eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso
(TRIBUNALE di Nocera Inferiore, Sez. II, sentenza 02.10.2019 n. 1116
- massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia.
La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia non si
applica agli enti pubblici per danni subiti dagli utenti di beni demaniali
ogni volta che sul bene demaniale, per le sue caratteristiche, non sia
possibile esercitare la custodia, intesa quale potere di fatto sul bene
stesso. L’estensione del bene demaniale e l’utilizzazione generale e diretta
dello stesso da parte di terzi sono solo figure sintomatiche
dell’impossibilità della custodia da parte della Pubblica Amministrazione,
mentre elemento sintomatico della possibilità di custodia del demanio
stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è stato
causato un danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso
Comune, pur dovendo dette circostanze, proprio perché solo sintomatiche,
essere sottoposte al vaglio in concreto da parte del giudice di merito
(TRIBUNALE di Torre Annunziata, sentenza 02.07.2019 n. 1701 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: Responsabilità dell’ente pubblico.
L’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito risponde, ai
sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei sinistri
riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità
per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza
la situazione di pericolo.
Infatti, nella materia de qua sussiste una
presunzione di responsabilità dell’ente proprietario di una strada aperta al
pubblico transito, ai sensi dell’art. 2051 c.c., relativamente ai sinistri
riconducibili alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla
struttura o alle pertinenze della strada stessa, indipendentemente dalla sua
estensione, essendo tale responsabilità esclusa solo dal caso fortuito, che
può consistere sia in una alterazione dello stato dei luoghi imprevista,
imprevedibile e non tempestivamente eliminabile o segnalabile ai conducenti
nemmeno con l’uso dell’ordinaria diligenza, sia nella condotta della stessa
vittima, ricollegabile all’omissione delle normali cautele esigibili in
situazioni analoghe
(TRIBUNALE di Nocera Inferiore, Sez. II, sentenza 04.04.2019 n. 462 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: Danni da insidia stradale.
In tema di responsabilità da insidia stradale, la collocazione del bene
demaniale all’interno del perimetro urbano delimitato dallo stesso comune è
elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene, dal cui difetto
di manutenzione è derivato il danno, sicché non può revocarsi in dubbio che
l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume
responsabile, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle
situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura ed alla
conformazione della strada e delle sue pertinenze, indipendentemente dalla
loro riconducibilità a scelte discrezionali della P.A.
(Corte di Appello Bari, Sez. III, sentenza 14.03.2019 n. 653 -
massima da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: Risarcibilità danno ingiusto.
Premesso che la norma primaria sulla responsabilità aquiliana definisce
l’area della risarcibilità con una clausola generale espressa dalla formula
“danno ingiusto”, in forza della quale è risarcibile il danno che ha le
caratteristiche dell’ingiustizia, cioè il danno arrecato non iure, che è
ravvisabile nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione,
quindi derivante da un comportamento non giustificato da altra norma, che si
risolva nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, consegue
che il mancato guadagno dell’imprenditore per le difficoltà (o
l’impossibilità) di accesso della clientela al proprio esercizio commerciale
in conseguenza del protrarsi dei lavori di manutenzione di una strada
pubblica, la cui causa venga indicata dal privato nella inadeguata
valutazione da parte dell’ente proprietario della complessità delle opere,
per l’omesso espletamento delle opportune indagini e verifiche tecniche, non
può collegarsi eziologicamente ad un’attività illecita della pubblica
amministrazione, non essendo ipotizzabile in via generale una regola che
imponga a questa di fissare preventivamente i tempi di esecuzione dei lavori
su beni pubblici ad essa appartenenti, la programmazione e la progettazione
dei quali rientra nella insindacabile discrezionalità dell’amministrazione
stessa
(TRIBUNALE di Lecce, Sez. I, sentenza 04.03.2019 n. 782 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: Insidia
stradale: la prevedibilità del pericolo occulto.
La concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere
con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad
escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità
della P.A. per difetto di manutenzione della strada pubblica
(Corte di Appello Firenze, Sez. II, sentenza 03.10.2018 n. 2308 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: Sinistri stradali in centri urbani.
L’appartenenza del bene al demanio o al patrimonio della pubblica
amministrazione e il suo uso diretto da parte di un numero rilevantissimo di
utenti sono solo indici sintomatici dell’impossibilità di evitare
l’insorgenza di situazioni di pericolo in un bene, ma non la attestano in
modo automatico, sicché l’art. 2051 c.c., trova applicazione ogni qualvolta
nel caso concreto non sia ravvisabile soggettiva impossibilità di un
esercizio del potere di controllo dell’ente sul bene in custodia,
determinata appunto dal suo uso generale da parte dei terzi e della sua
notevole estensione.
In quest’ottica, relativamente ai sinistri avvenuti sulle strade dei centri
urbani, l’elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene del
demanio stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è
causato il danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso
Comune
(TRIBUNALE di Torre Annunziata, sentenza 17.05.2018 n. 1202 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: Responsabilità della PA per difetto di manutenzione della strada pubblica.
In tema di responsabilità da cose in custodia con riferimento alle strade,
il grado di diligenza che è preteso dall’utente della strada è direttamente
proporzionale all’evidenza ed all’entità delle sconnessioni o dei dissesti
percepibili.
In tema di danno da insidia stradale, la concreta possibilità
per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza
la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità
dell’insidia e della conseguente responsabilità della Pubblica
Amministrazione per difetto di manutenzione della strada pubblica, dato che
quanto più la situazione di pericolo è suscettibile di essere prevista e
superata attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato,
tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza del comportamento
imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, sino a rendere
possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto
ed evento dannoso
(TRIBUNALE di Lecce, sentenza 19.02.2018 n. 597 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO:
La conoscenza da parte dell’utente dello stato di pericolo.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai
sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei
sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse
alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo
che si accerti la concreta possibilità per l’utente
danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria
diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto
che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e
superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte
del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima
incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere
il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e
l’evento dannoso (nella specie, relativa ad un sinistro
provocato da una buca, l’utente era a conoscenza della
presenza del pericolo e avrebbe potuto evitarlo)
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 26.09.2017 n. 22419 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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ORDINANZA
Il ricorso -con il quale si censura, in sostanza, la violazione
dell'art. 2051 cod. civ. e l'omesso esame di un fatto
decisivo- è inammissibile.
La decisione è conforme all' orientamento di questa corte
secondo cui l'ente proprietario d'una strada aperta al
pubblico transito risponde ai sensi dell'art. 2051 cod. civ.,
per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a
situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la
concreta possibilità per l'utente danneggiato di percepire o
prevedere con l'ordinaria diligenza la situazione di
pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto
che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e
superato attraverso l'adozione di normali cautele da parte
del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima
incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere
il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all'ente e
l'evento dannoso (Sez. 3, Sentenza n. 23919 del 22/10/2013,
Rv. 629108; nella specie, la Corte ha ritenuto non operante
la presunzione di responsabilità a carico dell'ente ex art.
2051 cod. civ., in un caso di sinistro stradale causato da
una buca presente sul manto stradale, atteso che il
conducente danneggiato era a conoscenza dell'esistenza delle
buche, per cui avrebbe dovuto tenere un comportamento idoneo
ad evitarle).
Nella specie i giudici di merito hanno accertato che la Re.
conosceva l'esistenza della buca e, in generale, lo stato di
cattiva manutenzione della strada in cui si è verificato il
sinistro. Pertanto, l'ordinaria diligenza avrebbe dovuto
sconsigliare alla ricorrente di uscire di notte, in
condizioni di scarsa visibilità, per far passeggiare il cane
proprio in quel punto. Tale condotta è idonea a interrompere
il nesso eziologico fra la condotta attribuibile al Comune
di Scandicci e il danno patito dalla Renna. In conclusione,
il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e le spese
del giudizio di legittimità vanno poste a carico del
ricorrente, ai sensi dell'art. 385, comma primo, cod. proc.
civ., nella misura indicata nel dispositivo. |
PATRIMONIO: La
possibilità di prevedere la situazione di pericolo.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai
sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri
riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle
pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità
per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza
la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più
questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di
normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della
vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il
nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso
(TRIBUNALE di Parma, Sez. I, sentenza 04.09.2017 n. 1217 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
PATRIMONIO: Responsabilità
della PA per circolazione di pedoni e veicoli.
La P.A. è tenuta a garantire la circolazione dei veicoli e dei pedoni in
condizioni di sicurezza: a tale obbligo l’ente proprietario della strada
viene meno non solo quando non provvede alla manutenzione di quest’ultima,
ma anche quando il danno sia derivato dal difetto di manutenzione di aree
private destinate al pubblico transito atteso che è comunque obbligo
dell’ente verificare che lo stato dei luoghi consenta la circolazione dei
veicoli e dei pedoni in totale sicurezza.
(Nel caso in esame veniva riconosciuta la sussistenza della responsabilità
per colpa presunta del Comune che non aveva predisposto le dovute attività
di manutenzione in un tratto stradale privato adibito alla circolazione
pubblica in cui era rovinosamente caduto un soggetto).
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E' in colpa la pubblica amministrazione la quale:
- né provveda alla manutenzione o messa in sicurezza delle aree,
anche di proprietà privata, latistanti le vie pubbliche, quando da esse
possa derivare pericolo per gli utenti della strada,
- né provveda ad inibirne l'uso generalizzato.
Ne consegue che, nel caso di danni causati da difettosa manutenzione d'una
strada, la natura privata di questa non è di per sé sufficiente ad escludere
la responsabilità dell'amministrazione comunale, se per la destinazione
dell'area o perle sue condizioni oggettive, l'amministrazione era tenuta
alla sua manutenzione..
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6. Col terzo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che, anche ad
ammettere che il luogo del sinistro fosse di proprietà privata, esso era
nondimeno di uso pubblico, sicché l'amministrane comunale aveva comunque
l'obbligo di provvedere Lilla sua manutenzione. Pertanto, non tenendo conto
della colpa scaturente dalla violazione di quest'obbligo, la sentenza
impugnata avrebbe violato gli artt. 2 d.lgs. 285/1992 e 22, comma 3, l.
2248/1865.
Il motivo è fondato.
Questa Corte ha già più volte stabilito che l'amministrazione comunale è
tenuta a garantire la circolazione dei veicoli e dei pedoni in condizioni di
sicurezza: ed a tale obbligo l'ente proprietario della strada viene meno non
solo quando non provvede alla manutenzione di quest'ultima, ma anche quando
il danno sia derivato dal difetto di di manutenzione di aree limitrofi alla
strada, atteso che è comunque obbligo dell'ente verificare che lo stato dei
luoghi consenta la circolazione dei veicoli e dei pedoni in totale sicurezza
(Sez. 3, Sentenza n. 23362 del 11/11/2011, Rv. 620314).
Infatti il Comune il quale consenta alla collettività l'utilizzazione, per
pubblico transito, di un'area di proprietà privata, si assume l'obbligo di
accertarsi che la manutenzione dell'area e dei relativi manufatti non sia
trascurata.
Ne consegue che l'inosservanza di tale dovere di sorveglianza, che
costituisce un obbligo primario della P.A., per il principio del
neminem laedere, integra gli estremi della colpa e determina la
responsabilità per il danno cagionato all'utente dell'area, non rilevando
che l'obbligo della manutenzione incomba sul proprietario dell'area medesima
(Sez. 3, sentenza n. 7 del 04/01/2010, Rv. 610958).
...
4.3. La memoria depositata dal Comune di San Giovanni Rotondo deduce
altresì, quanto al merito dell'impugnazione, che:
- il giudice di merito non ha mai accertato se la strada ove
avvenne il fatto fosse di uso pubblico o meno;
- il relativo accertamento costituisce oggetto di un apprezzamento
di fatto;
- conseguentemente, esso non è censurabile in sede di legittimità.
Tali deduzioni sono in tesi corrette, ma non pertinenti rispetto al presente
giudizio: esse, pertanto, non consentono di rigettare il ricorso.
1,a Corte d'appello di Bari, infatti, ha rigettato la domanda sul
presupposto che la vittima patì lesioni cadendo su una strada di proprietà
privata.
I ricorrenti hanno impugnato tale statuizione, deducendo che il Comune ha il
dovere di vigilare e manutenere anche le are private aperte al pubblico
transito di veicoli e pedoni.
Tale deduzione è sostanzialmente corretta, per le ragioni già indicate dalla
relazione preliminare, e sopra trascritte.
Ne consegue che oggetto del terzo motivo di ricorso non è una
quaestio facti (la proprietà privata o pubblica di un'area), ma una
quaestio juris (stabilire se l'obbligo di custodia gravante
sull'amministrazione locale si estenda alle aree aperte al pubblico transito
ma di proprietà privata).
4.4. Il ricorso deve quindi essere accolto limitatamente al terzo motivo.
Il giudice di rinvio, nel riesaminare la domanda, si atterrà al seguente
principio di diritto: 'E' in
colpa la pubblica amministrazione la quale né provveda alla manutenzione o
messa in sicurezza delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le vie
pubbliche, quando da esse possa derivare pericolo per gli utenti della
strada, né provveda ad inibirne l'uso generalizzato. Ne consegue che, nel
caso di danni causati da difettosa manutenzione d'una strada, la natura
privata di questa non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità
dell'amministrazione comunale, se per la destinazione dell'area o perle sue
condizioni oggettive, l'amministrazione era tenuta alla sua manutenzione"
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
sentenza 07.02.2017 n. 3216). |
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In materia
di "gazebo"... |
EDILIZIA PRIVATA: In materia di realizzazione di
gazebo la giurisprudenza ormai prevalente
ritiene che:
- per ‘gazebo’ si intende, nella sua configurazione tipica, una
struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte
superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro
battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da
tende facilmente rimuovibili. Spesso il gazebo è utilizzato per
l'allestimento di eventi all’aperto, anche sul suolo pubblico, e in questi
casi è considerata una struttura temporanea. In altri casi il gazebo è
realizzato in modo permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti
come giardini o ampi terrazzi;
- indubbiamente, in relazione ad alcune opere edilizie, normalmente
di limitata consistenza e di esiguo impatto sul territorio, come pergolati,
gazebo, tettoie, pensiline e pergotende, non è sempre agevole individuare il
limite entro il quale esse possono farsi rientrare nel regime dell'edilizia
libera o, invece, devono farsi ricadere nei casi di edilizia non libera per
i quali è richiesta una comunicazione all'amministrazione preposta alla
tutela del territorio o, addirittura, il rilascio di un permesso di
costruire;
- infatti, ad esempio, i gazebo che poggiano su piattaforme di
calcestruzzo non sono strutture precarie, ma sono funzionali a soddisfare
esigenze permanenti e vanno pertanto considerati come manufatti che alterano
lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico;
- nello specifico, la natura di opera precaria non si evince
dalla tipologia dei materiali utilizzati per la sua edificazione e, più in
generale, dalle caratteristiche costruttive e di ancoraggio al suolo della
stessa, quanto piuttosto da un elemento di tipo funzionale, dovendosi
verificare se la stessa sia o meno destinata al soddisfacimento di esigenze
durevoli, stabili e permanenti nel tempo;
- in sostanza, occorre avere riguardo all’uso cui il manufatto
è destinato, nel senso che, se le opere sono dirette al soddisfacimento di
esigenze stabili e permanenti, deve escludersi la natura precaria, a
prescindere dai materiali utilizzati e dalla tecnica costruttiva applicata;
- anche ritenendo, dunque, il carattere smontabile o facilmente
amovibile della struttura in ogni caso ai fini della qualificazione della
natura dell'opera come precaria deve farsi riferimento alla sua destinazione
e quindi, per mantenere il carattere di precarietà deve costituire un’opera
che non sia funzionale al soddisfacimento di esigenze stabili e durature nel
tempo;
- non conduce a conclusioni diverse la considerazione che la
struttura abbia carattere stagionale, in quanto "l'opera stagionale,
diversamente da quella precaria, non è destinata a soddisfare esigenze
contingenti ma ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi
dell'anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di costruire. Invero, il
carattere stagionale dell'uso non implica la provvisorietà dell'attività, né
di per sé la precarietà del manufatto ove la stessa si svolga, atteso che il
rinnovarsi dell'attività con frequenza stagionale è indicativo della
stabilità dell'attività e dell'opera a ciò destinata. Invero, la stagionalità dell'uso non esclude la destinazione del manufatto al
soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo, pur quando lo stesso venga
rimosso in determinati mesi dell'anno e successivamente, con cadenza
periodica predeterminata, nuovamente installato’”.
I medesimi principi sono stati recentemente ribaditi dalla giurisprudenza
della Sezione, laddove si è “precisato che ‘è fermo in giurisprudenza l’avviso per cui il
gazebo è una
struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte
superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro
battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da
tende facilmente rimovibili, che può essere realizzato perlopiù come
struttura temporanea’, con la
conseguenza che quel che distingue la natura precaria d’un gazebo, che lo
esonera dall'obbligo del possesso del p.d.c. non è solo la peculiare
leggerezza della struttura di esso, ma l’esser funzionale ad esigenze ed a
correlati usi specifici e temporalmente limitati, quindi giammai permanenti
nel tempo”.
Va da sé che quanto rilevato dalla giurisprudenza in ordine ai gazebo si
applichi –potrebbe dirsi a maggior ragione– con riferimento ai dehor, che
rispetto ai primi presentano di norma caratteristiche strutturali più
stabili e complesse.
Non è possibile, dunque, stabilire a priori ed univocamente se ai fini della
realizzazione di un dehor sia o meno necessario ottenere preventivamente uno
specifico permesso di costruire, dovendosi caso per caso operare una
specifica valutazione non soltanto sulla base della tipologia della
struttura, dei materiali in concreto utilizzati e del tipo di ancoraggio al
suolo, ma anche (e soprattutto) in ordine alla idoneità o meno del manufatto
al soddisfacimento di esigenze stabili e durature nel tempo, e questo al di
là del suo carattere stagionale o meno.
---------------
Quanto poi alla necessità o meno del preventivo permesso di costruire per la
realizzazione di un dehor (o gazebo) si osserva che, “in punto di diritto
(…):
- l’art. 10 d.P.R. 380/2001 (nel testo in vigore all’epoca dei
fatti) stabilisce che: ‘1. Costituiscono interventi di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di
costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di
ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia
che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli
edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi
nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché
gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili
sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42
e successive modificazioni. (…)’;
- l’art. 22, comma 1, del Testo unico edilizia dispone inoltre che:
‘Sono realizzabili mediante la segnalazione certificata di inizio di
attività di cui all'articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241, nonché in
conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente: a) gli interventi
di manutenzione straordinaria di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b),
qualora riguardino le parti strutturali dell'edificio; b) gli interventi di
restauro e di risanamento conservativo di cui all'articolo 3, comma 1,
lettera c), qualora riguardino le parti strutturali dell'edificio; c) gli
interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1,
lettera d), diversi da quelli indicati nell'articolo 10, comma 1, lettera c.
(…)’;
- l’art. 31 d.P.R. 380/2001, commi 1 e 2 (per quel che rileva nel
presente giudizio), dispone quindi che: ‘1. Sono interventi eseguiti in
totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la
realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per
caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello
oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i
limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o
parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile. 2. Il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata
l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal
medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi
dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la
rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene
acquisita di diritto, ai sensi del comma 3. (…)’;
- l’art. 3, punto e5), d.P.R. 380/2001 include tra le opere di
‘nuova costruzione’ ‘l'installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers,
case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di
lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che
siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi
in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti,
previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove
previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore’.
In materia di realizzazione di gazebo la giurisprudenza ormai prevalente
ritiene che:
- per ‘gazebo’ si intende, nella sua configurazione tipica, una
struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte
superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro
battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da
tende facilmente rimuovibili. Spesso il gazebo è utilizzato per
l'allestimento di eventi all’aperto, anche sul suolo pubblico, e in questi
casi è considerata una struttura temporanea. In altri casi il gazebo è
realizzato in modo permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti
come giardini o ampi terrazzi (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 25.01.2017 n.
306);
- indubbiamente, in relazione ad alcune opere edilizie, normalmente
di limitata consistenza e di esiguo impatto sul territorio, come pergolati,
gazebo, tettoie, pensiline e pergotende, non è sempre agevole individuare il
limite entro il quale esse possono farsi rientrare nel regime dell'edilizia
libera o, invece, devono farsi ricadere nei casi di edilizia non libera per
i quali è richiesta una comunicazione all'amministrazione preposta alla
tutela del territorio o, addirittura, il rilascio di un permesso di
costruire (in tal senso Cons. Stato, Sez. VI, 24.12.2018 n. 7221);
- infatti, ad esempio, i gazebo che poggiano su piattaforme di
calcestruzzo non sono strutture precarie, ma sono funzionali a soddisfare
esigenze permanenti e vanno pertanto considerati come manufatti che alterano
lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico (cfr.
sul punto, tra le molte, Cons. Stato, Sez. VI, 12.12.2012 n. 6382 e Sez. V,
01.12.2003 n. 7822);
- nello specifico, la natura di opera precaria non si evince dalla
tipologia dei materiali utilizzati per la sua edificazione e, più in
generale, dalle caratteristiche costruttive e di ancoraggio al suolo della
stessa, quanto piuttosto da un elemento di tipo funzionale, dovendosi
verificare se la stessa sia o meno destinata al soddisfacimento di esigenze
durevoli, stabili e permanenti nel tempo (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 30.10.2020 n. 6653);
- in sostanza, occorre avere riguardo all’uso cui il manufatto è
destinato, nel senso che, se le opere sono dirette al soddisfacimento di
esigenze stabili e permanenti, deve escludersi la natura precaria, a
prescindere dai materiali utilizzati e dalla tecnica costruttiva applicata (cfr.
Cons. Stato, Sez. II, 24.07.2020 n. 4726 e 19.03.2020 n. 1951 nonché Sez. VI, 11.01.2018 n. 150);
- anche ritenendo, dunque, il carattere smontabile o facilmente
amovibile della struttura in ogni caso ai fini della qualificazione della
natura dell'opera come precaria deve farsi riferimento alla sua destinazione
e quindi, per mantenere il carattere di precarietà deve costituire un’opera
che non sia funzionale al soddisfacimento di esigenze stabili e durature nel
tempo (cfr., ancora, Cons. Stato, Sez. VI, 03.06.2014 n. 2842);
- non conduce a conclusioni diverse la considerazione che la
struttura abbia carattere stagionale, in quanto "l'opera stagionale,
diversamente da quella precaria, non è destinata a soddisfare esigenze
contingenti ma ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi
dell'anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di costruire. Invero, il
carattere stagionale dell'uso non implica la provvisorietà dell'attività, né
di per sé la precarietà del manufatto ove la stessa si svolga, atteso che il
rinnovarsi dell'attività con frequenza stagionale è indicativo della
stabilità dell'attività e dell'opera a ciò destinata. Invero, la stagionalità dell'uso non esclude la destinazione del manufatto al
soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo, pur quando lo stesso venga
rimosso in determinati mesi dell'anno e successivamente, con cadenza
periodica predeterminata, nuovamente installato’ (cfr., in termini, Cons.
Stato, Sez. VI, 13.01.2020 n. 309)” (così Consiglio di Stato, Sez. VI,
n. 1203/2021).
I medesimi principi sono stati recentemente ribaditi dalla giurisprudenza
della Sezione, laddove si è “precisato che ‘è fermo in giurisprudenza (cfr.,
per tutti, Cons. St., IV, 04.09.2013 n. 4438; id., VI, 25.01.2017
n. 306; id., II, 03.09.2019 n. 6068) l’avviso per cui il gazebo è una
struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte
superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro
battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da
tende facilmente rimovibili, che può essere realizzato perlopiù come
struttura temporanea’ (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2365/2021), con la
conseguenza che quel che distingue la natura precaria d’un gazebo, che lo
esonera dall'obbligo del possesso del p.d.c. non è solo la peculiare
leggerezza della struttura di esso, ma l’esser funzionale ad esigenze ed a
correlati usi specifici e temporalmente limitati, quindi giammai permanenti
nel tempo” (Consiglio di Stato, Sez. I, n. 791/2021).
Va da sé che quanto rilevato dalla giurisprudenza in ordine ai gazebo si
applichi –potrebbe dirsi a maggior ragione– con riferimento ai dehor, che
rispetto ai primi presentano di norma caratteristiche strutturali più
stabili e complesse.
Non è possibile, dunque, stabilire a priori ed univocamente se ai fini della
realizzazione di un dehor sia o meno necessario ottenere preventivamente uno
specifico permesso di costruire, dovendosi caso per caso operare una
specifica valutazione non soltanto sulla base della tipologia della
struttura, dei materiali in concreto utilizzati e del tipo di ancoraggio al
suolo, ma anche (e soprattutto) in ordine alla idoneità o meno del manufatto
al soddisfacimento di esigenze stabili e durature nel tempo, e questo al di
là del suo carattere stagionale o meno
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 10.06.2021 n. 1022 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio osserva che il gazebo in questione non riveste
le caratteristiche fissate dalla giurisprudenza per consentire al
proprietario l’esonero dall’obbligo di ottenere il permesso di costruire,
che viene ammesso solo nell’ipotesi in cui sia verificabile la peculiare
leggerezza della struttura e la sua fruibilità per esigenze temporanee e
limitate nel tempo.
Questo Consiglio di Stato ha precisato che “è fermo in giurisprudenza l’avviso per cui il
gazebo è una
struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte
superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro
battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da
tende facilmente rimovibili, che può essere realizzato perlopiù come
struttura temporanea”, con la
conseguenza che quel che distingue la natura precaria d’un gazebo, che lo
esonera dall'obbligo del possesso del p.d.c. non è solo la peculiare
leggerezza della struttura di esso, ma l’esser funzionale ad esigenze ed a
correlati usi specifici e temporalmente limitati, quindi giammai permanenti
nel tempo, che, nel caso di specie, non ricorrono.
---------------
Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono l’illegittimità dell’ordinanza
di demolizione, che avrebbe ad oggetto un manufatto non rientrante nelle
ipotesi sanzionate dall’art. 31, T.U. edilizia, dal momento che il gazebo
sarebbe realizzabile previa presentazione di una mera d.i.a., la cui carenza
è sanzionabile ai sensi dell’art. 37, avendo la struttura natura
pertinenziale dell’appartamento sito al piano terra.
Anche tale doglianza è infondata.
L’ordinanza di rimozione è immune dai vizi denunciati anche con riferimento
a quanto stabilito dall’art. 2, lett. i), del p.r.g. del Comune di
Mercogliano, non impugnato, ai sensi del quale deve essere richiesto idoneo
titolo edilizio anche per attività di “costruzione, restauro, modifica,
demolizione e ricostruzione di: muri di cinta, cancellate, recinzioni
prospicienti spazi di uso pubblico, chioschi permanenti o provvisori”, tra i
quali si può certamente annoverare il gazebo in contestazione.
Dalla documentazione fotografica versata in atti, peraltro, è possibile
osservare che il manufatto in contestazione consiste in una struttura
ancorata al terreno tramite gettata di cemento e formata da quattro colonne
in marmo, sovrastate da una copertura in muratura.
Al riguardo, il Collegio osserva che l’opera in questione non riveste le
caratteristiche fissate dalla giurisprudenza per consentire al proprietario
l’esonero dall’obbligo di ottenere il permesso di costruire, che viene
ammesso solo nell’ipotesi in cui sia verificabile la peculiare leggerezza
della struttura e la sua fruibilità per esigenze temporanee e limitate nel
tempo.
Questo Consiglio di Stato ha precisato che “è fermo in giurisprudenza (cfr.,
per tutti, Cons. St., IV, 04.09.2013 n. 4438; id., VI, 25.01.2017
n. 306; id., II, 03.09.2019 n. 6068) l’avviso per cui il gazebo è una
struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte
superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro
battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da
tende facilmente rimovibili, che può essere realizzato perlopiù come
struttura temporanea” (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2365/2021), con la
conseguenza che quel che distingue la natura precaria d’un gazebo, che lo
esonera dall'obbligo del possesso del p.d.c. non è solo la peculiare
leggerezza della struttura di esso, ma l’esser funzionale ad esigenze ed a
correlati usi specifici e temporalmente limitati, quindi giammai permanenti
nel tempo, che, nel caso di specie, non ricorrono
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 28.04.2021 n. 791 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' fermo in giurisprudenza
l’avviso per cui il gazebo è una struttura leggera, non aderente ad altro
immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con
una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno
strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimovibili, che può
essere realizzato perlopiù come struttura temporanea.
Come si vede, quel che
distingue la natura precaria d’un gazebo, che lo esonera dall'obbligo del
possesso del PDC, non è solo la peculiare leggerezza della struttura di
esso, ma l’esser funzionale ad esigenze ed a correlati usi specifici e
temporalmente limitati, quindi giammai permanenti nel tempo.
---------------
7.
– Non a diversa conclusione ritiene il Collegio di pervenire con riferimento
alla natura del gazebo sito di fronte all’ingresso dell’esercizio
commerciale dell’appellante.
Già con la memoria del 21.10.2019 in primo grado, ella aveva precisato che
il gazebo esisteva in situ prima del 1967, con pari dimensione e
nella stessa posizione in cui si trova attualmente. Tale opera fu poi
adeguata con la SCIA n. 1766/2011, per esser poi rifatta nella sua attuale
consistenza, a seguito dei danni, compreso il disancoraggio, derivanti da un
evento atmosferico straordinario.
Ora, dall’unica fotografia rinvenibile nel PAT, a prima vista risalente alla metà degli anni ’60 del secolo scorso,
s’evince uno scorcio di gabbiotto metallico alquanto più basso dell’attuale
porta d’ingresso all’esercizio commerciale attoreo, sita a SX del portoncino
del fabbricato principale. Ma agli occhi del Collegio, in disparte l’obbligo
dell’appellante di dimostrare con serietà e rigore il tempo della
costruzione e le specifiche caratteristiche di essa (e non il contrario,
come dice, sbagliando, anzi contraddicendosi, l’appellante a pag. 11 del
ricorso in epigrafe), è comunque irrilevante che l’opera fosse lì da prima
del 1967, rilevandone piuttosto la sua sostituzione con quella oggetto della
SCIA del 2011 e, in particolare, le sue attuali consistenza e funzione.
Ebbene, è fermo in giurisprudenza (cfr., per tutti, Cons. St., IV,
04.09.2013 n. 4438; id., VI, 25.01.2017 n. 306; id., II,
03.09.2019 n. 6068)
l’avviso per cui il gazebo è una struttura leggera, non aderente ad altro
immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con
una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno
strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimovibili, che può
essere realizzato perlopiù come struttura temporanea. Come si vede, quel che
distingue la natura precaria d’un gazebo, che lo esonera dall'obbligo del
possesso del PDC, non è solo la peculiare leggerezza della struttura di
esso, ma l’esser funzionale ad esigenze ed a correlati usi specifici e
temporalmente limitati, quindi giammai permanenti nel tempo.
Ebbene, l’impugnata sentenza ha dato specifica contezza dell’impossibilità
d’assimilare l’opera realizzata dall’odierna appellante ad un gazebo
propriamente detto, per la definizione evincibile dai citati arresti invece
ad ospitare in maniera permanente gli avventori della struttura, in
ampliamento della superficie fruibile dell’esercizio commerciale gestito
dall’appellante. Né ella smentisce in fatto tali considerazioni, poiché ha
affermato nel ricorso al TAR che «… il gazebo veniva costruito con
struttura in legno prefabbricata, semovibile ed ancorata al suolo con
bulloni facilmente svitabili …», ossia elementi che ne escludono le
caratteristiche dell’effettiva precarietà ed un uso limitato nel tempo.
Tal ultimo argomento s’appalesa dirimente: a parte che la superficie
occupata dal gazebo non è inferiore a mq 20, in ogni caso l’area
d’intervento ricade in zona E–agricola di PRG. Ma il relativo R.E.C. non
ammette opere comunque infisse al suolo a distanza inferiore a m 20 dal
ciglio stradale e, poiché detto gazebo è funzionalmente infisso al suolo
sine die —soddisfacendo un’utilità di tipo economico non limitato ad un
dato periodo ed anch’essa, quindi, di fatto non precaria—, esso non può
restare in quel luogo ed in quelle dimensioni. Infatti, l’area non consente
alcuna edificazione ex novo, se non le ordinarie manutenzioni
conservative dello stabile già esistente (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.03.2021 n. 2365 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Cos’è
il gazebo?
Il gazebo (struttura a copertura di un’area, sorretta da
pali o pilastri (aperta sui lati) costituisce opera soggetta a permesso a
costruire tutte le volte che è destinata ad esigenze non temporanee, senza
che rilevi la sua facile amovibilità o il materiale dal quale è composto
(ligneo invece che in muratura).
---------------
Sebbene, al tempo di
realizzazione dell’abuso, la giurisprudenza non fosse univoca circa la
necessità di un permesso di costruire per la realizzazione di strutture
simili a quella di cui si discute (si vedano, a favore di questa soluzione
ex plurimis TAR Bolzano, 06/05/2005, n. 172; TAR Napoli, sez. IV,
15/09/2008, n. 10138; TAR Napoli, sez. IV, 12/01/2009, n. 68; Consiglio di
Stato, sez. VI, 12/12/2012, n. 6382; contra TAR Napoli, sez. IV,
19/01/2012, n. 238; TAR Brescia, sez. II, 07/04/2011, n. 526; TAR Roma, sez.
II, 13/10/2010, n. 32802), l’orientamento si è consolidato nel senso di
ritenere che il gazebo (struttura a copertura di un’area, sorretta da pali o
pilastri (aperta sui lati) costituisce opera soggetta a permesso a costruire
tutte le volte che è destinata ad esigenze non temporanee (TAR Lecce, sez.
I, 27/02/2020, n. 257; TAR Napoli, sez. VIII, 06/12/2019, n. 5733), senza
che rilevi la sua facile amovibilità o il materiale dal quale è composto
(ligneo invece che in muratura).
Nel caso di specie, come risulta con assoluta evidenza, il gazebo della
ricorrente è stato realizzato in area cortilizia, addossandolo all’angolo
della recinzione in muratura (che rende di fatto chiusi i due lati
corrispondenti) con una struttura che, sebbene in legno, è evidentemente
stabile, ovvero preordinata ad una esigenza permanente di copertura di una
porzione di tale area, con la conseguenza che non può predicarsene una
natura meramente temporanea (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 05.01.2021 n. 178 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gazebo:
quando occorre il permesso di costruire?
Con riferimento ai gazebo, si osserva che,
secondo la giurisprudenza prevalente, l'intervento edilizio che ha
comportato la sistemazione degli spazi esterni (viali pedonali e muretti di
perimetrazione, gazebo, pensiline), è annoverabile nel concetto di “nuova
costruzione” di cui all'art. 3, lett. e), d.P.R. n. 380/2001, che riguarda
ogni trasformazione urbanistica del territorio non rientrante nelle
categorie della manutenzione ordinaria e straordinaria, del restauro e
risanamento conservativo e della ristrutturazione edilizia, e che comprende
qualunque manufatto autonomo o modificativo di altro preesistente,
necessitante in base al successivo art. 10 del permesso a costruire e
sanzionabile, in sua mancanza, con la sanzione della demolizione ex art. 31.
Ancora, si rileva che i manufatti funzionali a soddisfare esigenze
permanenti, devono essere considerati come idonei ad alterare lo stato dei
luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, non rilevando la
precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e
l'assenza di opere murarie; ciò in quanto il manufatto non precario (es.:
gazebo o chiosco) non è utilizzato per fini contingenti, ma è destinato ad
un utilizzo reiterato nel tempo, in quanto opere realizzate per attività
stagionali. Deve pertanto rilevarsi come, ai fini dell'esonero dall'obbligo
del possesso del permesso di costruire, l'opera precaria deve essere
destinata ad un uso temporalmente limitato del bene, mentre la stagionalità
dell'uso non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di
esigenze permanenti nel tempo.
Infine, gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o
di altre strutture analoghe, quali i gazebo, che siano
comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie
di protezione o di riparo di spazi liberi, non possono ritenersi
installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono
di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle
parti dello stesso su cui vengono inserite.
Orbene, nel caso in esame, i gazebo presentano delle dimensioni
importanti (circa 20 mq complessivi) e, quindi, non tali da consentire che
l’opera possa essere ritenuta, in senso urbanistico, qualificata come
meramente accessoria al manufatto principale, di cui modifica la sagoma e i
prospetti. Né possono essere ritenuti “precari”, in quanto sono destinati a
garantire un’utilità stabile nel tempo.
---------------
4.3. Con riferimento, infine, ai due gazebo, si osserva che, secondo
la giurisprudenza prevalente dalla quale non si ravvisano ragioni per
discostarsi, l'intervento edilizio che ha comportato la sistemazione degli
spazi esterni (viali pedonali e muretti di perimetrazione, gazebo,
pensiline), è annoverabile nel concetto di “nuova costruzione” di cui
all'art. 3, lett. e), d.P.R. n. 380/2001, che riguarda ogni trasformazione
urbanistica del territorio non rientrante nelle categorie della manutenzione
ordinaria e straordinaria, del restauro e risanamento conservativo e della
ristrutturazione edilizia, e che comprende qualunque manufatto autonomo o
modificativo di altro preesistente, necessitante in base al successivo art.
10 del permesso a costruire e sanzionabile, in sua mancanza, con la sanzione
della demolizione ex art. 31 (TAR Napoli n. 5313/2018).
Ancora, si rileva che i manufatti funzionali a soddisfare esigenze
permanenti, devono essere considerati come idonei ad alterare lo stato dei
luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, non rilevando la
precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e
l'assenza di opere murarie; ciò in quanto il manufatto non precario (es.:
gazebo o chiosco) non è utilizzato per fini contingenti, ma è destinato ad
un utilizzo reiterato nel tempo, in quanto opere realizzate per attività
stagionali. Deve pertanto rilevarsi come, ai fini dell'esonero dall'obbligo
del possesso del permesso di costruire, l'opera precaria deve essere
destinata ad un uso temporalmente limitato del bene, mentre la stagionalità
dell'uso non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di
esigenze permanenti nel tempo (TAR Lecce n. 666/2019).
Infine, gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o
di altre strutture analoghe, quali i gazebo, che siano
comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie
di protezione o di riparo di spazi liberi, non possono ritenersi
installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono
di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle
parti dello stesso su cui vengono inserite.
Orbene, nel caso in esame, i gazebo presentano delle dimensioni
importanti (circa 20 mq complessivi) e, quindi, non tali da consentire che
l’opera possa essere ritenuta, in senso urbanistico, qualificata come
meramente accessoria al manufatto principale, di cui modifica la sagoma e i
prospetti. Né possono essere ritenuti “precari”, in quanto sono
destinati a garantire un’utilità stabile nel tempo.
Conseguentemente anche questa censura deve trovare accoglimento (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 27.02.2020 n. 257 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gazebo:
caratteristiche strutturali e funzionali.
Il gazebo, nella sua configurazione tipica, è una
struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte
superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro
battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da
tende facilmente rimuovibili.
Spesso il gazebo è utilizzato per l’allestimento di eventi all’aperto, anche
sul suolo pubblico, e in questi casi è considerata una struttura temporanea.
In altri casi, è realizzato in modo permanente per la migliore fruibilità di
spazi aperti come giardini o ampi terrazzi.
(Nel caso di specie, l’opera realizzata dal ricorrente non è stata
considerata un gazebo sia per la sua forma, che non è quella tipica del
gazebo, sia per i materiali utilizzati, che non sono tutti leggeri, e perché
la struttura realizzata in aderenza ad un preesistente immobile in muratura
risulta destinata ad ospitare in maniera permanente gli avventori della
struttura, con ampliamento della superficie fruibile dell’esercizio
commerciale gestito dalla ricorrente).
---------------
5.- E’ controversa nel presente giudizio la legittimità del provvedimento,
in epigrafe meglio specificato, recante ordine di rimessione in pristino
delle seguenti opere ritenute abusive dalla resistente amministrazione
comunale:
- “un gazebo ad est del fabbricato, in legno lamellare
costituito da travi e pilastri alti circa metri 3 e avente dimensioni in
pianta pari a 5 x 5 mt. circa”;
- “un porticato ad est del fabbricato, costituito da pilastri e
travi in legno lamellare di larghezza 2,40 mt. circa ed altezza variabile
tra i 2,65 mt. e i 3,45 mt.”;
- “un porticato a sud del fabbricato costituito da pilastri e
travi in legno lamellare di larghezza che varia tra 1,40 mt. e 2,70 mt ed
altezza variabile pari a 3,45 mt.”;
- “piccola tettoia in legno costituito da pilastri e travi,
posta a nord del fabbricato con dimensioni 2,40 mt. di lunghezza, 1,60 mt.
di larghezza ed altezza variabile tra i 2,15 mt. e 2,70 mt., realizzata a
copertura dei distributori automatici”.
8.- La tesi attorea risulta radicata alla circostanze che le opere in
questione, in particolare il gazebo, non necessitino di alcun titolo, o al
limite di un titolo diverso dal permesso di costruire, rientrando nella c.
d. edilizia libera (la stessa perizia tecnica, versata in atti,
sostanzialmente ripete, quanto esposto in ricorso, risultando quest’ultimo
sovrapponibile alla prima).
8.1.- La delibazione della doglianza attorea postula la disamina delle
caratteristiche specifiche della struttura (gazebo) in esame, con
particolare riferimento ai materiali utilizzati, alla rimovibilità degli
stessi, all’aderenza o meno al fabbricato principale (cfr. ad es. Consiglio
di Stato, sez. VI, 25.01.2017, n. 306).
8.2.- Orbene, la giurisprudenza amministrativa (ex multis Cons. St.
citata) è attestata nel ritenere che il gazebo, nella sua configurazione
tipica, è una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta
nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura
portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta
chiuso ai lati da tende facilmente rimuovibili. Spesso il gazebo è
utilizzato per l'allestimento di eventi all’aperto, anche sul suolo
pubblico, e in questi casi è considerata una struttura temporanea. In altri
casi il gazebo è realizzato in modo permanente per la migliore fruibilità di
spazi aperti come giardini o ampi terrazzi.
8.2.1.- Nella fattispecie l’opera realizzata dalla ricorrente non può
ritenersi assimilabile ad un gazebo per la sua forma, che non è quella
tipica di un gazebo, per i materiali utilizzati, che non sono tutti leggeri,
e perché la struttura è stata realizzata in aderenza ad un preesistente
immobile in muratura e risulta destinata ad ospitare in maniera permanente
gli avventori della struttura, con un ampliamento della superficie fruibile
dell’esercizio commerciale gestito dalla ricorrente (Bar/Tabacchi). E’ la
stessa parte ricorrente ad affermare in ricorso che “il gazebo veniva
costruito con struttura in legno prefabbricata, semovibile ed ancorata al
suolo con bulloni facilmente svitabili”, e cioè con elementi che
escludono le caratteristiche del gazebo (TAR Campania-Napoli,
Sez. VIII,
sentenza 06.12.2019 n. 5733 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il realizzato gazebo in legno occupa una superficie di mq.
25, è alto m. 3,00, ed è stato realizzato su di una platea in calcestruzzo
con annessi muri ornamentali, panchine in muratura, impianto elettrico e
idrico, elettrodomestici e banco-bar.
Sicché, il gazebo in questione non può per certo essere
ricondotto ad un’operazione di “sistemazione di spazi esterni”, a’
sensi dell’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ovvero di “ristrutturazione
edilizia”, posto che quest’ultima, coerentemente alla definizione che ne
è data all’art. 3, comma 1, lett. d), del medesimo d.P.R. 06.06.2001, n.
380, nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa, consisteva -per quanto
qui segnatamente interessa- negli “interventi rivolti a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono
portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”.
In linea di principio, infatti, i gazebo che poggiano su piattaforme di
calcestruzzo non sono strutture precarie (nella specie, come si è visto poc’anzi,
quanto realizzato sostanzia addirittura un vero e proprio bar all’aperto),
ma sono funzionali a soddisfare esigenze permanenti e vanno pertanto
considerati come manufatti che alterano lo stato dei luoghi, con un sicuro
incremento del carico urbanistico.
Oltre a tutto, la loro realizzazione determina, ove siano annessi –come nel
caso di specie- ad un’attività di vendita, di somministrazione e ricettiva,
l’incremento della superficie commerciale.
In dipendenza di ciò, pertanto, tale tipologia di intervento deve essere
realizzata mediante permesso di costruire (olim concessione edilizia) se
–sempre come nel caso di specie– non solo incrementa la superficie
commerciale ma trasforma comunque in modo rilevante una superficie per
l’innanzi adibita a giardino o ad attività agricola in uno spazio destinato
a soddisfare la non precaria esigenza di sistemare nel migliore dei modi la
propria clientela.
---------------
Tertium non datur.
Per inciso, la presenza nel fascicolo di causa relativo al primo grado di
giudizio di una relazione illustrativa depositata in data 19.11.2008 a cura
del patrocinio della stessa parte ivi ricorrente fa ragionevolmente
presumere che il Di Mo. abbia da ultimo optato proprio per tale possibilità,
progettando –tra l’altro– la realizzazione non più di una piscina
prefabbricata da contingentemente "trasformare” –al bisogno, per così
dire, “burocratico”– in una vasca per la raccolta delle acque
meteoriche, ma di “una piscina ludico-relax costituita da due vasche
poste a quote differenti in modo da creare un salto d’acqua” (cfr. ivi a
pag. 8: e ciò senza sottacere che la complessiva lettura del piano medesimo
offre la netta impressione che l’attuale appellante si sia con esso
discostato dall’originaria connotazione agricola dell’azienda privilegiando
un’attività marcatamente ricettiva se non addirittura ludico-ricreativa,
tanto da suscitare anche un dubbio non evanescente circa l’effettiva
permanenza, nella specie, di un suo effettivo interesse alla coltivazione
della presente causa).
Ad ogni buon conto, quindi, anche per il caso di specie va ribadito che
dalla realizzazione di opere edilizia in assenza del permesso di costruire,
discende –sempre e comunque– la sanzione della demolizione delle opere
medesime, a’ sensi dell’art. 31 del t.u. 06.06.2001, n. 380.,
Ma –soprattutto– va considerato che la realizzazione della piscina ora in
questione era ed è materialmente inibita sia dall’art. 21, comma 3, del
Regolamento edilizio del Comune di Napoli, che, con disposizione oltremodo
commendevole, fa divieto di completare le opere abusive realizzate nello
stesso suolo, sia dall’art. 24 della variante anzidetta, che al comma 2
dispone a sua volta nel senso che “nelle zone riportate nella tavola 12
con instabilità media e alta” –tra le quali rientra anche il sedime su
cui è stata eretta la piscina in questione- “è vietata la realizzazione
di qualsiasi tipo di costruzione”: disposizioni, anche queste, che
naturalmente implicano la necessità della demolizione del manufatto in
questione.
4.2.3. Non diversamente deve concludersi per il gazebo.
Giova evidenziare che tale manufatto in legno occupa una superficie di mq.
25, è alto m. 3,00, ed è stato realizzato su di una platea in calcestruzzo
con annessi muri ornamentali, panchine in muratura, impianto elettrico e
idrico, elettrodomestici e banco-bar.
L’appellante riconduce la realizzazione di tale gazebo ad un mero intervento
di “ristrutturazione edilizia” ai fini delle esigenze delle “abitazioni
agricole”, ovvero “della realizzazione di attività agricole e di
produzione e commercio dei prodotti agricoli all’origine e relative funzioni
di servizio”, o –ancora- delle “attività ricettive di tipo
agrituristico e relative funzioni di servizio”, tutte invero
astrattamente assentibili a’ sensi del combinato disposto degli artt. 39,
comma 6, e 21, comma 1, lett. b), delle norme tecniche di attuazione della
variante al Piano regolatore generale del Comune di Napoli.
Tuttavia la realizzazione del gazebo in questione non può per certo essere
ricondotta ad un’operazione di “sistemazione di spazi esterni”, a’
sensi dell’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ovvero di “ristrutturazione
edilizia”, posto che quest’ultima, coerentemente alla definizione che ne
è data all’art. 3, comma 1, lett. d), del medesimo d.P.R. 06.06.2001, n.
380, nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa, consisteva -per quanto
qui segnatamente interessa- negli “interventi rivolti a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono
portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”.
In linea di principio, infatti, i gazebo che poggiano su piattaforme di
calcestruzzo non sono strutture precarie (nella specie, come si è visto poc’anzi,
quanto realizzato sostanzia addirittura un vero e proprio bar all’aperto),
ma sono funzionali a soddisfare esigenze permanenti e vanno pertanto
considerati come manufatti che alterano lo stato dei luoghi, con un sicuro
incremento del carico urbanistico (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez.
VI, 12.12.2012, n. 6382 e Sez. V, 01.12.2003, n. 7822).
Oltre a tutto, la loro realizzazione determina, ove siano annessi –come nel
caso di specie- ad un’attività di vendita, di somministrazione e ricettiva,
l’incremento della superficie commerciale (così, ad es., la sentenza di
Cons. Stato, Sez. V, n. 7822 del 2003).
In dipendenza di ciò, pertanto, tale tipologia di intervento deve essere
realizzata mediante permesso di costruire (olim concessione edilizia)
se –sempre come nel caso di specie– non solo incrementa la superficie
commerciale ma trasforma comunque in modo rilevante una superficie per
l’innanzi adibita a giardino o ad attività agricola in uno spazio destinato
a soddisfare la non precaria esigenza di sistemare nel migliore dei modi la
propria clientela (così, ad es., non solo la già citata sentenza di Cons.
Stato, Sez. V, n. 7822 del 2003, e –ancora– Cons. Stato, Sez. V, 27.01.2003,
n. 419 e 11.02.2003, n. 696, rese per omologhe fattispecie)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 03.09.2019 n. 6068 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gazebo
funzionale a soddisfare esigenze permanenti.
Nelle ipotesi in cui il gazebo costituisca una struttura
funzionale a soddisfare esigenze permanenti, va considerato come manufatto
in grado di alterare lo stato dei luoghi, con riflessi non solo per il
profilo urbanistico ma anche per quello paesaggistico-ambientale.
Ad avviso di costante e condivisa giurisprudenza, un’opera può essere
qualificata come precaria ove sia destinata ad essere rimossa non appena
siano venuti meno i bisogni, meramente occasionali, che ne hanno determinato
l’installazione, viceversa, ove la costruzione sia precostituita al
soddisfacimento di interessi stabili e permanenti, come accade nell’ipotesi
in esame, viene meno il requisito della precarietà
---------------
2.- Le censure non convincono il Collegio ed il ricorso è infondato.
2.1.- Diversamente dagli assunti del ricorrente, sia il gazebo sia il
capannone, per le caratteristiche costruttive, unite alla zona in cui sono
state erette (E1 agricola normale), peraltro in area vincolata ai sensi del
d.lgs. 42/2004, sono opere che avrebbero richiesto il permesso di costruire
unitamente all’autorizzazione paesaggistica.
Il gazebo descritto nel provvedimento impugnato rientra tra le opere “prive
dei connotati della precarietà e dell’amovibilità”.
Ed invero, nelle ipotesi in cui il gazebo costituisca una struttura
funzionale a soddisfare esigenze permanenti, va considerato come manufatto
in grado di alterare lo stato dei luoghi, con riflessi non solo per il
profilo urbanistico ma anche per quello paesaggistico-ambientale.
Ad avviso di costante e condivisa giurisprudenza, un’opera può essere
qualificata come precaria ove sia destinata ad essere rimossa non appena
siano venuti meno i bisogni, meramente occasionali, che ne hanno determinato
l’installazione, viceversa, ove la costruzione sia precostituita al
soddisfacimento di interessi stabili e permanenti, come accade nell’ipotesi
in esame, viene meno il requisito della precarietà (cfr. ex multis, TAR
Firenze. Sez. III, 17.04.2018, n. 556).
Le riproduzioni fotografiche allegate alla memoria di costituzione del
comune lasciano pochi dubbi sulle caratteristiche del gazebo, il quale si
palesa per essere una struttura solida, con tetto a spiovente, copertura in
coppi, grondaia per il convogliamento dell’acqua pluviale e sottostanti
travi in legno, tutti elementi che la rendono una struttura solida ed
affatto provvisoria (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 01.04.2019 n. 1783 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Decadenza
della concessione del gazebo aperto: è legittima?
È legittima (anzi, rappresenta un atto vincolato) la
decadenza della concessione se invece di un gazebo aperto è stata realizzata
una struttura chiusa di dimensioni peraltro più ampie di quelle assentite.
Ai fini della verifica del comportamento del concessionario nell’uso del
titolo abilitativo, infatti, rilevano non solo gli aspetti relativi
all’ampiezza della superficie occupata ma anche quelli relativi alla natura
e consistenza dell’opera edilizia sulla stessa realizzata.
Il concessionario, pertanto, viola gli obblighi nascenti dal titolo
abilitativo relativo all’utilizzo del suolo pubblico e, dunque, non ne
rispetta i limiti, non solo se occupa un’estensione maggiore di quella
autorizzata, ma anche quando realizza sulla stessa un’opera diversa rispetto
a quella assentita, risultando l’autorizzazione all’occupazione del suolo
pubblico essere stata concessa espressamente per la collocazione su di esso
di tale manufatto (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.03.2019 n. 2028 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gazebo
con coperture di vetri.
La costruzione di un gazebo in legno con coperture di
vetri senza permesso di costruire integra il reato edilizio (nel caso di
specie, era stato costruito su un balcone in aderenza con il confine del
vicino) (TRIBUNALE di Chieti,
sentenza 15.11.2018 n. 1204 - massima
tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento al caso
di specie, pur nella consapevolezza della mancanza
di un orientamento giurisdizionale univoco, la Sezione ritiene che, come si
evince anche dal materiale fotografico in atti, il gazebo configuri una
struttura leggera, non ancorata al suolo con bulloni o cemento, agevolmente
rimuovibile al termine della stagione estiva, aperta su tutti i lati e di
modestissime dimensioni senza alcuna incidenza sulla capacità insediativa.
Funge, pertanto, da mero arredo per spazi esterni senza creare incremento
volumetrico dell’esistente o nuove superfici utili.
In merito, il Consiglio di Stato ha avuto modo più volte di precisare, ad
esempio, che il manufatto aperto su tre lati, che non sviluppa cubatura e
non rientra tra gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio, costituisce opera pertinenziale e non necessita di permesso di
costruire.
In particolare, è stata esclusa la preventiva acquisizione del titolo
abilitativo per l’istallazione di una tettoia costituita da struttura
leggera e amovibile, se questa:
- resta nei limiti di una "struttura di arredo” installata su
pareti esterne dell’unità immobiliare di cui è ad esclusivo servizio;
- è caratterizzata da elementi in metallo o in legno, ed è aperta
su più lati con una copertura anche retrattile di tela, di plastica, di
pellicola trasparente, di stuoie in canna o bambù;
- è priva di opere murarie e di pareti chiuse di qualsiasi genere o
tetti di tegole;
- è costituita da elementi leggeri, assemblati tra loro, tali da
rendere possibile la loro rimozione previo smontaggio e non demolizione.
In tali ipotesi l’installazione sul lastrico degli edifici in città di
gazebi, tende o pergolati a pareti variabili è, infatti, inidonea a
modificare la destinazione d’uso degli spazi esterni interessati, e non
comporta aumenti di volume.
Tali strutture accessorie non necessitano di nulla-osta in quanto, per la
facile e completa rimovibilità e per l’assenza di tamponature verticali, non
configurano un aumento del volume e della superficie coperta, non danno
luogo alla creazione o modificazione di un organismo edilizio, non producono
alterazione architettonica del prospetto o della sagoma dell’edificio cui
sono connesse e comunque sono inidonee a modificare la destinazione d’uso
degli spazi esterni interessati.
---------------
1. La ricorrente ritiene che le opere realizzate non siano ascrivibili alla
categoria delle “costruzioni” per caratteristiche dei materiali, tipologia e
funzione. Evidenzia, al riguardo, che il provvedimento finale è supportato
da argomenti nuovi, non anticipati dalla comunicazione del procedimento
amministrativo dell’11.12.2008; in particolare, lamenta che, con quest’ultima comunicazione, l’amministrazione richiama per la prima volta il
difetto della creazione di una superficie coperta e la necessità di verifica
in ordine alla superficie permeabile, rispetto alla pavimentazione in
piastrelle forate di polipropilene in contrasto, rispettivamente, con
l’articolo pr7 del piano delle regole e con l’articolo 3 del regolamento
locale di igiene.
Sostiene, infine, che il gazebo e le piastrelle forate in polipropilene non
possono rientrare nella categoria delle nuove costruzioni in quanto il
gazebo funge da mero arredo per spazi esterni, presenta modeste dimensioni
ed è aperto su tutti i lati, oltre a risultare facilmente smontabile e
rimovibile.
2. Il ricorso è fondato.
In materia edilizia, come principio generale, è necessario il previo
rilascio di un adeguato titolo edilizio per realizzare ogni alterazione
dello stato dei luoghi ed ogni struttura volta a soddisfare esigenze di
carattere durevole, a prescindere dalla tecnica e dai materiali impiegati
per la realizzazione della struttura; pertanto, nella nozione di “nuova
costruzione” deve essere ricondotto qualsiasi manufatto non completamente
interrato avente i requisiti della solidità e della immobilizzazione al
suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad una
preesistente fabbrica (ad esempio, casa prefabbricata, baracca in lamiera
ondulata, capanna in legno ad uso ricovero animali o deposito attrezzi
agricoli).
Ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.5), del D.P.R. n. 380 del 06.06.2001, sono da considerarsi nuove costruzioni, comportanti la trasformazione
edilizia e urbanistica del territorio, "l'installazione di manufatti
leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad
eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta
e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo
urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle
normative regionali di settore".
Tale principio subisce eccezioni per le attività libere indicate nell'art. 6
T.U. 06.06.2001 n. 380, recante il T.U. delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia.
Detta disposizione prevede che, fatte salve le prescrizioni degli strumenti
urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di
settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia, in
particolare delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio,
igienico-sanitarie ecc. alcuni interventi specificamente individuati possono
essere effettuati senza nessun titolo abilitativo. Al secondo comma prevede
che, nel rispetto dei medesimi presupposti di cui al comma 1, previa
comunicazione all’amministrazione comunale, anche per via telematica,
dell’inizio dei lavori, possono essere eseguiti senza alcun titolo
abilitativo alcuni interventi tra cui “le opere dirette a soddisfare
obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente
rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non
superiore a novanta giorni”.
A prescindere dalla natura esemplificativa o tassativa che si voglia
riconoscere alle indicazioni legislative, va osservato che il testo
normativo comprende voci di per sé abbastanza generiche, tali da poter
riguardare anche opere non espressamente nominate. Proprio per l’incertezza
circa l’esatta perimetrazione delle opere “libere” è stato operato un doppio
intervento. Il primo, di carattere integrativo, con il d.lgs. 25.11.2016 n. 222; il secondo, di natura esemplificativa, attuato con il D.M.
02.03.2018 (approvazione del glossario contenente l'elenco non esaustivo
delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia
libera, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 25.11.2016, n. 222).
In ogni caso, in via generale, non possono essere considerate “nuove
costruzioni” le strutture dirette a soddisfare esigenze meramente
temporanee, non determinandosi una trasformazione irreversibile o permanente
del territorio su cui insistono, a prescindere dai materiali usati.
Con riferimento al caso specifico, pur nella consapevolezza della mancanza
di un orientamento giurisdizionale univoco, la Sezione ritiene che, come si
evince anche dal materiale fotografico in atti, il gazebo configuri una
struttura leggera, non ancorata al suolo con bulloni o cemento, agevolmente
rimuovibile al termine della stagione estiva, aperta su tutti i lati e di
modestissime dimensioni senza alcuna incidenza sulla capacità insediativa.
Funge, pertanto, da mero arredo per spazi esterni senza creare incremento
volumetrico dell’esistente o nuove superfici utili.
In merito, il Consiglio di Stato ha avuto modo più volte di precisare, ad
esempio, che il manufatto aperto su tre lati, che non sviluppa cubatura e
non rientra tra gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio, costituisce opera pertinenziale e non necessita di permesso di
costruire (Consiglio di Stato, sez. VI, sent. n. 320 del 2015).
In particolare, è stata esclusa la preventiva acquisizione del titolo
abilitativo per l’istallazione di una tettoia costituita da struttura
leggera e amovibile, se questa:
- resta nei limiti di una "struttura di arredo” installata su
pareti esterne dell’unità immobiliare di cui è ad esclusivo servizio;
- è caratterizzata da elementi in metallo o in legno, ed è aperta
su più lati con una copertura anche retrattile di tela, di plastica, di
pellicola trasparente, di stuoie in canna o bambù;
- è priva di opere murarie e di pareti chiuse di qualsiasi genere o
tetti di tegole;
- è costituita da elementi leggeri, assemblati tra loro, tali da
rendere possibile la loro rimozione previo smontaggio e non demolizione.
In tali ipotesi l’installazione sul lastrico degli edifici in città di
gazebi, tende o pergolati a pareti variabili è, infatti, inidonea a
modificare la destinazione d’uso degli spazi esterni interessati, e non
comporta aumenti di volume (Consiglio di Stato, VI sezione, sent. 11.04.2014 n. 1777).
Tali strutture accessorie non necessitano di nulla-osta in quanto, per la
facile e completa rimovibilità e per l’assenza di tamponature verticali, non
configurano un aumento del volume e della superficie coperta, non danno
luogo alla creazione o modificazione di un organismo edilizio, non producono
alterazione architettonica del prospetto o della sagoma dell’edificio cui
sono connesse e comunque sono inidonee a modificare la destinazione d’uso
degli spazi esterni interessati (Consiglio di Stato, sezione, VI sentenza,
sent. 21.01.2015 n. 171).
Il gazebo, nelle dimensioni risultanti dagli atti e dall’esame del materiale
fotografico disponibile non si pone, infine, neanche in contrasto con le
norme che violano il tessuto storico urbano (in particolare con l’art. 27,
lett. e), della legge regionale Lombardia 11.03.2005, n. 12) atteso che
risulta posizionato sul retro dell’edificio immediatamente adiacente, cioè
in zona non visibile e circondato da un muro di notevole altezza da cui
fuoriesce soltanto una modesta punta di copertura telata bianca, escludendo
qualsiasi impatto visivo.
In conclusione, il gazebo secondo gli elementi risultanti in atti, tenuto
conto delle caratteristiche e della sua funzione, non configura l’ipotesi
della costruzione sia sotto il profilo strutturale (in considerazione dei
materiali usati, dell’agevole smontaggio, delle modeste dimensioni e
dell’apertura su quattro lati) né sotto il profilo funzionale in quanto non
attua una trasformazione urbanistica edilizia del territorio, con perdurante
modifica dello stato dei luoghi.
Rileva, al riguardo la voce di cui all’art. 6 comma 1, lett. e)-quinquies,
del d.P.R. n. 380/2001 che considera opere di edilizia libera gli “elementi
di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”, concetto nel quale può
sicuramente rientrare un gazebo dalle caratteristiche innanzi richiamate.
Sebbene tale norma sia stata introdotta dall’art. 3 del d.lgs. 25.11.2016
n. 222, deve considerarsi applicabile anche alle costruzioni precedenti,
come quella per cui è causa.
Per completezza la Sezione evidenzia che il richiamato D.M. 02.03.2018, al
n. 44 dell’allegato 1, prevede espressamente che rientrano tra le opere
edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera il “gazebo di
limitate dimensioni e non stabilmente infisso al suolo”.
Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere accolto
con conseguente annullamento dell’atto impugnato
(Consiglio d Stato, Sez. I,
parere 08.10.2018 n. 2292 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Costruzione di un gazebo in zona sismica.
Risponde dei reati di cui all’art. 44, lett. b), e artt. 88, 93, 95, DPR
380/2001, e di cui all’art. 2, L.Reg. 07.01.1983, n. 9, colui che, in
zona sismica, omettendo di depositare prima dell’inizio dei lavori gli atti
progettuali presso l’Ufficio del Genio Civile competente, realizzi, in
assenza del permesso di costruire, ma depositando soltanto una DIA, un
gazebo in legno delle dimensioni di 36 mq.
(TRIBUNALE di Napoli, Sez. I, sentenza 03.10.2018 n. 10908 - massima
tratta da www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di gazebo non precari
I gazebo non precari, in quanto funzionali a soddisfare esigenze permanenti,
sono a tutti gli effetti manufatti in grado di alterare lo stato dei luoghi,
con incremento del carico urbanistico.
Non rileva la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie,
posto che la struttura è deputata non ad un utilizzo transitorio ma per
soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere
continuativo e non stagionale dell’attività svolta.
---------------
2.1.- Infondato è il primo motivo.
Contrariamente alle affermazioni della società ricorrente, gli interventi
compiuti senza titolo non si sono limitati a semplici opere interne.
Dagli atti di causa, emerge che il gazebo, posto all’esterno sulla parte
frontale dell'immobile, è stato realizzato con struttura mista -legno
lamellare, copertura con teli in plastica- e pavimentato in gres, materiale
diverso rispetto alle indicazioni contenute nell'autorizzazione
paesaggistica, richiesta dalla società ricorrente. Ed infatti, la
Soprintendenza, con provvedimento prot. n. 18465 del 22.07.2014, aveva
rilasciato parere favorevole per la costruzione di un gazebo, a condizione
che la pavimentazione delle aree impegnate dalle strutture di ombreggiamento
fosse realizzata in legno, allo scopo di garantire la necessaria omogenea ed
intera reversibilità dell'impianto.
Il diverso materiale impiegato trasforma il gazebo in una struttura
sostanzialmente stabile e non rimovibile.
Sul punto, condivisa giurisprudenza ha anche chiarito che i gazebo non
precari in quanto funzionali a soddisfare esigenze permanenti, sono a tutti
gli effetti manufatti in grado di alterare lo stato dei luoghi, con
incremento del carico urbanistico. Non rileva la rimovibilità della
struttura e l'assenza di opere murarie, posto che la struttura è deputata
non ad un utilizzo transitorio ma per soddisfare esigenze durature nel tempo
e rafforzate dal carattere continuativo e non stagionale dell'attività
svolta (ex multis, Tar Perugia, sez. I, 16.02.2015, n. 81) (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 05.06.2018 n. 3693
- massima
tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Temporaneità della destinazione del gazebo.
Il gazebo è un’opera che, in base alle caratteristiche costruttive, può
sottostare a diversi regimi edilizi ed essere inquadrato tra le attività
libere, ove del tutto temporaneo e rimovibile, nonché rimosso in tempi
brevi; ovvero soggetto a permesso a costruire o alla Dia quando non presenti
dette caratteristiche.
La temporaneità della destinazione, nello specifico, non può essere desunta
dalla soggettiva destinazione dell’opera data dal costruttore o
dall’installatore, ma va ricollegata a un uso realmente precario o
temporaneo, per fini specifici e cronologicamente delimitabili.
Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto integrato il reato ex art. 44,
lett. b), del Dpr 380/2001 in quanto si trattava di una struttura a capanna
in legno di 4 x 2,70 metri, disposta per uso stabile e indeterminato, per
far fronte a duraturi interessi della famiglia anche se caratterizzati da
frequenze d’uso diverse in relazione ai vari periodi dell’anno
(TRIBUNALE di Firenze, Sez. III, sentenza 22.05.2018 n. 2091 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gazebo realizzato su platea in cemento: costituisce opera precaria?
Il gazebo non è un’opera precaria priva di rilevanza urbanistica, qualora si
tratti di struttura in tubi di ferro infissi in una platea di cemento
cementati al suolo e copertura in plastica.
Tali caratteristiche, le quali
valgono ad escludere l’ascrivibilità all’opera precaria, inducono a
qualificare il manufatto come urbanisticamente rilevante e soggetto a
permesso di costruire, con la conseguenza che la sua realizzazione abusiva è
sanzionabile con l’ordine di demolizione.
In proposito è pacifico l’orientamento della giurisprudenza secondo cui i
gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno
considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento
del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del
manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie,
posto che il gazebo non precario non è deputato ad un uso per fini
contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature
nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale
dell'attività svolta.
---------------
5. Con il quinto e sesto motivo si lamenta che il
provvedimento di diniego ponga a fondamento anche l’assenza di
autorizzazione all’utilizzo del passo carrabile, dovendo atteso che il
rilascio della sanatoria presuppone il solo rispetto delle norme
urbanistiche e non di quelle in materia di occupazione di aree e spazi
pubblici.
L’affermazione, finalizzata a far assumere rilevanza a tale aspetto del
tutto secondario del provvedimento, non può essere condivisa.
5.1. Invero il diniego avversato è fondato sulla mancanza del requisito
della doppia conformità urbanistica e il provvedimento impugnato menziona
per mera completezza d’argomentazione anche l’assenza dell’autorizzazione ai
passi carrabili “fermo restando i contrasti sopra indicati” e dunque
assumendo che la sanatoria veniva respinta per ragioni urbanistiche e non
per altre motivazioni.
5.2. Ci si duole, altresì, dell’ultimo capoverso della parte motiva
dell’atto avversato, ovvero quello inerente alla non sanabilità dei piccoli
manufatti presenti sull’area, e in particolare del gazebo; e ciò sia perché
la sanatoria non comprendeva il gazebo sia perché lo stesso sarebbe opera
precaria, non soggetta né a titolo edilizio, né alle norme in materia di
distanza dagli edifici né al preventivo deposito della pratica al Genio
civile.
Come rilevato dalla difesa del Comune la censura, sul punto, si palesa
inammissibile per difetto di interesse.
Infatti, se il gazebo non rientra fra le opere che la ricorrente aveva
interesse a sanare (prevedendosene nella relazione tecnica allegata alla
domanda di sanatoria lo smantellamento) pare evidente che non vi sia
interesse a contestare tale profilo del provvedimento.
Peraltro, non può ritenersi che il gazebo sia un’opera precaria e perciò
priva di rilevanza urbanistica, risultando dal verbale della Polizia
municipale che in realtà si tratta di un manufatto con struttura in tubi di
ferro ed infissi in una platea di cemento cementati al suolo e copertura in
plastica trattandosi perciò di un manufatto urbanisticamente rilevante e
soggetto a permesso di costruire.
5.3. In proposito è pacifico l’orientamento della giurisprudenza secondo cui
i gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno
considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento
del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del
manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie,
posto che il gazebo non precario non è deputato ad un uso per fini
contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature
nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale
dell'attività svolta (tra le tante, TAR Molise, 21.09.2016 n. 353; TAR
Lazio, sez. I, 21.09.2016 n. 9881, TAR Umbria, 16.02.2015 n. 81).
...
11. Con il sesto motivo la ricorrente lamenta che l’ordinanza di
demolizione abbia riguardato anche il “gazebo” adibito a “rimessa
di attrezzature”, trattandosi di manufatto di piccole dimensioni (mq.
24) in struttura metallica leggera, senza parti in muratura, con copertura
in plastica e, quindi, in materiale non rigido né durevole, come tale privo
di rilevanza edilizia.
La censura è infondata.
Si è già rilevato, analizzando il quinto motivo del ricorso principale, che
non può ritenersi che il gazebo costituisca un’opera precaria priva di
rilevanza urbanistica, trattandosi in realtà di un manufatto con struttura
in tubi di ferro ed infissi in una platea di cemento cementati al suolo e
copertura in plastica e quindi di un manufatto urbanisticamente rilevante e
soggetto a permesso di costruire.
In ogni caso è pacifico che i gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare
esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei
luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la
precarietà strutturale del manufatto (peraltro non rilevabile nella
fattispecie), la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie,
posto che il gazebo non precario non è deputato ad un suo uso per fini
contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature
nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale
dell'attività svolta (Cons. St., sez. IV, 04.04.2013, n. 4438; id., sez. VI,
03.06.2014, n. 2842) (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 17.04.2018 n. 556 - massima
tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Manufatti non precari idonei ad alterare lo stato dei luoghi.
In tema di diniego della domanda di autorizzazione edilizia e di ingiunzione
di demolizione di manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze
permanenti, va osservato che essi devono essere considerati come idonei ad
alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico
urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la
rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il
manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso
per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere
reiterato nel tempo in quanto stagionale.
Infatti, la precarietà dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del
permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del
bene e non la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del
manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma
permanenti nel tempo.
---------------
1. Con istanza del 05.05.2013 la signora An.Ma.Ma. ha chiesto al Sindaco di
Mangone di essere autorizzata all’installazione stagionale di un gazebo
rimovibile con telo plastificato.
Con nota del 12.06.2003 il Responsabile del Servizio presso l’Ufficio
Tecnico del Comune di Mangone ha comunicato alla ricorrente il “diniego
della domanda di autorizzazione edilizia”, ritenuta in contrasto con
l’art. 8, lett. d), del Piano di fabbricazione del Comune di Magone, in
quanto non rispettosa delle distanze dai confini e dalle strade.
Nonostante tale diniego, l’odierna ricorrente ha ugualmente effettuato il
montaggio del gazebo nella proprietà privata del suocero Cr.Ma..
2. In data 03.07.2003 è stata notificata al Cr. ordinanza di
ingiunzione-demolizione della tendostruttura, in quanto realizzata
abusivamente, in assenza della prescritta autorizzazione edilizia.
Con il ricorso in epigrafe i ricorrenti hanno l’annullamento del
provvedimenti, per i vizi di violazione di legge, con riferimento all’art.
8, lett. d), del Piano di fabbricazione del Comune di Mangone e all’art. 10
della L. 47/1985, nonché per eccesso di potere per presupposto erroneo,
travisamento del fatto e illogicità.
Il gazebo in questione non sarebbe una costruzione, trattandosi di struttura
precaria e facilmente smontabile. Non sarebbe stato, pertanto, necessario un
provvedimento autorizzativo, che, tuttavia, è stato negato.
...
7. Il ricorso principale è infondato e deve essere rigettato.
Riguardo ai caratteri del gazebo in questione, esteso circa 110 mq, il
Collegio ritiene di richiamare l’orientamento –da quale non si rinvengono
elementi per discostarsi– secondo cui i manufatti non precari, ma funzionali
a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare
lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a
nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità
della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non
precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini
contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel
tempo in quanto stagionale.
Si è condivisibilmente osservato al riguardo che la precarietà dell’opera,
che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un
uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità,
la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di
esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo (in tal
senso: Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; Cons. Stato, IV, 22.12.2007, n.
6615).
Sotto tale aspetto, il Collegio ritiene che per le sue caratteristiche
tipologiche e funzionali, nonché in considerazione del regime temporale
della relativa utilizzazione il manufatto per cui è causa sia riconducibile
alle previsioni di cui alla lettera e.5) del comma 1 dell’articolo 3 d.P.R.
n. 380 del 2001, a tenore del quale sono comunque da considerarsi nuove
costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di
strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di
lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano
diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
Al riguardo, giova qui richiamare il condiviso orientamento secondo cui non
possono comunque essere considerati manufatti destinati a soddisfare
esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante
nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante (Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; id,
VI, 12.02.2011, n. 986; id., V, 12.12.2009, n. 7789;. id., V, 24.02.2003, n.
986; id., V, 24.02.1996, n. 226).
Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità dell’installazione del
manufatto per cui è causa (destinato ad occupare circa 110 mq.) conferisca
al manufatto nel suo complesso il carattere di “temporaneità”, atteso
il carattere ontologicamente “non temporaneo” di una struttura
destinata all’esercizio di un’attività commerciale e di somministrazione (in
tal senso: Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; Cons. Stato, IV,
23.07.2009, n. 4673).
Tanto premesso, deve ritenersi legittimo l’operato dell’Amministrazione
intimata che ha correttamente configurato come costruzione il manufatto in
oggetto e ha, pertanto, negato il titolo abilitativo in quanto l’opera non
era conforme al Programma di fabbricazione del Comune per il mancato
rispetto delle distanze dei confini e delle strade.
Alla legittimità del diniego dell’autorizzazione consegue la legittimità
dell’ordinanza di demolizione impugnata in quanto l’opera è stata eseguita
in assenza della prescritta concessione edilizia (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 13.03.2017 n. 409 - massima
tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gazebo permanenti: è necessario il permesso di costruire?
I gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno
considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento
del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del
manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie,
posto che il gazebo non precario non è deputato ad un uso per fini
contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature
nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale
dell’attività svolta.
In effetti la «precarietà» dell’opera, che esonera
dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso
specifico e temporalmente limitato del bene, e non la sua stagionalità, la
quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di
esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali per
cui lo stesso è riconducibile nell’ipotesi prevista alla lett. e.5) del
comma 1 dell’art. 3 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, che include tra le nuove
costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di
strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di
lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee.
---------------
Non implica precarietà dell'opera, ai fini autorizzativi e dell'esenzione
dal permesso di costruire, il carattere stagionale di essa, quando la stessa
è destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel
tempo della sua funzione (non sono infatti manufatti destinati a soddisfare
esigenze meramente temporanee quelli destinati ad un'utilizzazione
perdurante nel tempo, sicché l'alterazione non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante), anche se con la reiterazione della
presenza del manufatto di anno in anno nella sola buona stagione.
---------------
Il ricorso è infondato.
Si verte al cospetto di un gazebo che richiedeva il permesso di costruire
avendo dimensioni significative di ml. 5,00 x 3,00, per un totale di 15 mq.,
con altezza di ml. 2,50 circa, e posto sul confine di proprietà, a distanza
non regolamentare e come tale idoneo a ridurre la visuale e la luminosità
delle abitazioni limitrofe con affaccio sulla corte dove è stato posto, come
peraltro contestato da proprietario confinante che ha segnalato l’abuso
edilizio.
Diversamente da quanto allegato dalla ricorrente, è stata realizzata una
vera e propria casetta chiusa, sui diversi lati, con pannelli di legno (o
comunque in profili di PLET-plastica riciclata eterogenea) pieni nella parte
inferiore e grigliati in quella superiore e munita di telo di copertura,
come tale idonea a creare un volume edilizio di indubbio impatto anche per
le caratteristiche della corte edilizia dove è stato collocato, secondo
quanto chiaramente evincibile dalla documentazione fotografica allegata al
verbale del Comando della Polizia Municipale del 04.03.2009 in atti.
Si tratta, in particolare, di un manufatto leggero per il quale è richiesto
il permesso di costruire, di cui all’art. 10 del DPR n. 380/2001, in forza
del disposto di cui all’art. 3, comma 1, lettera e.5) -secondo quanto
espressamente contestato con il verbale della polizia municipale del
04.03.2009 richiamato nella ordinanza impugnata- essendo privo del carattere
della temporaneità in quanto stabilmente destinato ad attività al servizio
della abitazione principale (quale locale di servizio, deposito, adibito
allo svago o di vero e proprio “salotto all’aperto”, secondo quanto
riferito dalla stessa ricorrente con la relazione tecnica di parte in atti).
L’assenza del requisito della temporaneità si desume, in particolare, dalla
sua non facile amovibilità di cui la solida struttura in legno ne è indice
certamente grave e preciso, tant’è che la stessa relazione tecnica di parte,
nel descrivere le caratteristiche costruttive del manufatto, parla di
elementi autoportanti bullonati tra loro costituiti da pannelli verticali e
da “travi perimetrali, orizzontali e centrali di copertura”.
In presenza di simili caratteristiche costruttive, oggettivamente
incompatibili con il parametro legale della temporaneità, a nulla vale
opporre che la struttura non sarebbe ancorata ma solo poggiata a terra.
La giurisprudenza prevalente ritiene che i gazebo non precari, ma funzionali
a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo
stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla
rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della
struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non
è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo
per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere
permanente e non stagionale dell'attività svolta (in termini Cons. Stato,
Sez. IV, 04.04.2013, n. 4438; Sez. VI, 03.06.2014, n. 2842; TAR Perugia,
16.02.2015, n. 81).
In tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera dall'obbligo
del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e
temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità, la quale non
esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non
eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali per cui lo stesso è
riconducibile nell'ipotesi prevista alla lett. e.5) del comma 1 dell'art. 3
d.P.R. n. 380 del 2001, che include tra le nuove costruzioni le
installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure
come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee” (Cons. Stato, Sez. VI, 03.06.2014, n.
2842).
E’ stato ancora precisato che “Non implica precarietà dell'opera, ai fini
autorizzativi e dell'esenzione dal permesso di costruire, il carattere
stagionale di essa, quando la stessa è destinata a soddisfare bisogni non
provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (non sono
infatti manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee
quelli destinati ad un'utilizzazione perdurante nel tempo, sicché
l'alterazione non può essere considerata temporanea, precaria o
irrilevante), anche se con la reiterazione della presenza del manufatto di
anno in anno nella sola buona stagione” (Cfr. Cons. Stato, VI,
01.12.2014, n. 5934).
Nel caso di specie il requisito della temporaneità manca sia dal punto di
vista strutturale, stante la non facile amovibilità del manufatto, sia da
quello funzionale stante la sua idoneità ad assolvere in modo duraturo nel
tempo una molteplicità di funzioni a servizio dell’abitazione principale.
Alla luce delle motivazioni che precedono il ricorso deve pertanto essere
respinto, non potendo giovare alla ricorrente neppure il richiamo alla
sentenza di questo TAR n. 66/2014 con la quale la necessità del preventivo
rilascio del permesso di costruire è stata esclusa in presenza di una
struttura in legno “aperta sui lati”, per di più “rientrante nella
previsione del progetto di cui alla concessione edilizia n. 278/1983” e
quindi munita di titolo edilizio autorizzatorio (TAR
Molise,
sentenza 21.09.2016 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gazebo
in legno.
Integra il reato di cui all’art. 44, lett. b), t.u. n. 380/2001 la costruzione
nell’area cortilizia di gazebo in legno, fissi in terra ed inamovibili,
trattandosi di ampliamento soggetto a permesso di costruire
(TRIBUNALE di Roma, Sez. VI, sentenza 01.03.2016 n. 3216 - massima
tratta da www.laleggepertutti.it). |
aggiornamento al
24.08.2021 |
|
Commissione Comunale per il Paesaggio:
la nomina dei
relativi componenti
(per essere legittima)
necessita di una preventiva
valutazione comparativa dei curricula dei
vari candidati concludendo il procedimento
amministrativo con un provvedimento espresso
(id est, deliberazione di G.C.) adeguatamente
motivato in ordine alle ragioni della preferenza accordata ai candidati
prescelti rispetto a quelli pretermessi. |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittima la deliberazione di Giunta Comunale che nomina i componenti
della Commissione comunale per il paesaggio senza aver preliminarmente
operato (e dato conto nel dispositivo) l'obbligatoria “comparazione dei
curricula delle candidature presentate” prescritta dai criteri regionali
e, più in generale, imposta da principi generali del procedimento
amministrativo (art. 3 L. 241/1990).
La delibera comunale impugnata ha affidato la scelta dei
tre componenti della Commissione alla seguente, testuale motivazione: “Ritenuto
pertanto di procedere alla scelta di n. 3 esperti in materia ambientale
paesaggistica, sulla base dei curriculum e della documentazione presentata,
dai quali è desumibile, oltre che il possesso del titolo di studio
richiesto, anche qualificata esperienza pregressa nella tutela del paesaggio
(…)”.
In sostanza, la giunta comunale si è limitata a dare atto che i tre
componenti nominati erano risultati in possesso dei requisiti richiesti dal
bando, ma ha omesso del tutto di effettuare la “comparazione dei
curricula delle candidature presentate” prescritta dai criteri regionali e, più in generale, imposta da principi generali
del procedimento amministrativo (art. 3 L. 241/1990).
La necessità di una valutazione comparativa dei profili dei vari
candidati e di una adeguata motivazione in ordine alla scelta effettuata è
stata affermata dalla giurisprudenza amministrativa persino in relazione
alla designazione degli organi di vertice dell’Amministrazione, notoriamente
effettuata con criteri eminentemente fiduciari basati sull’intuitus
personae e attraverso atti di alta amministrazione connotati da
amplissima discrezionalità; è stato affermato, al riguardo, che:
- “Se pure, in linea generale, le designazioni degli organi di vertice
delle Amministrazioni si configurano come provvedimenti da adottare in base
a criteri eminentemente fiduciari, riconducibili nell'ambito degli atti di
alta amministrazione, in quanto sono espressione della potestà di indirizzo
e di governo delle autorità preposte alle Amministrazioni stesse, si deve
osservare nondimeno che il singolo provvedimento di nomina deve esporre le
ragioni che hanno condotto alla nomina di uno di essi, comportando una
scelta nell'ambito di una categoria di determinati soggetti in possesso di
titoli specifici. In altre parole, la motivazione della scelta -sia pure
effettuata latamente "intuitu personae"- deve comunque ancorarsi all'esito
di un apprezzamento complessivo del candidato, in modo che possa dimostrarsi
la ragionevolezza della scelta effettuata che non può logicamente esaurirsi
nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti
dalla legge ma che importa articolate, delicate e talvolta addirittura
sfumate valutazioni sulla stessa personalità dei candidati, sulle loro
capacità organizzative, sul loro prestigio personale e sul prestigio che
eventualmente hanno già conferito agli uffici precedentemente ricoperti e
che astrattamente sono in grado di assicurare a quello da ricoprire".
Se la necessità di una penetrante motivazione è stata affermata, in
giurisprudenza, per la scelta degli organi di vertice dell'Amministrazione, a fortiori la stessa deve ritenersi imprescindibile allorquando si
tratti di nominare gli esperti di una commissione tecnica che s'inserisce,
sia pur con criteri d'elevata professionalità e competenza, nell'ambito
dell'esercizio delle ordinarie funzioni amministrative attribuite all'ente
locale nello specifico settore della tutela del paesaggio.
In buona sostanza, se persino gli atti di alta amministrazione a valenza
fiduciaria non possono essere ritenuti avulsi dal rispetto dell'obbligo di
una motivazione, congruente con la natura degli atti medesimi, e se non
residua, quindi, più alcuno spazio per i provvedimenti amministrativi cd. a
motivo libero (id est, espressione di discrezionalità assoluta), ne consegue
che ogni qual volta, come nella specie, si tratti d'effettuare una scelta
tra più candidati, ognuno dei quali dotato di specifiche competenze ed
attitudini a ricoprire l'incarico (come emergenti dai rispettivi curricula)
-incarico, si ripete, compreso nell'ambito delle ordinarie attribuzioni
dell'ente locale, sia pur di natura settoriale- non può prescindersi, a
maggior ragione, da una motivazione, di tipo analitico-comparativo, tendente
all'emersione delle ragioni della scelta di uno o più candidati in
questione, e dalla quale, in particolare, s'evincano le ragioni per le quali
i medesimi siano stati considerati i più adatti a rivestire la medesima
carica
---------------
Nel caso di specie, la valutazione comparativa dei curricula dei cinque
candidati è mancata del tutto o, quantomeno, la stessa -ove mai effettuata-
non è stata evidenziata in motivazione, tant’è che la stessa difesa del
Comune ha ammesso trattarsi di una motivazione “criptica”.
Una motivazione criptica è di per sé una motivazione illegittima perché
contraddice la funzione essenziale attribuitale dall’ordinamento, che è
quella di indicare (in modo comprensibile) “i presupposti di fatto e le
ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione,
in relazione alle risultanze dell'istruttoria” (art. 3 L. 241/1990).
Trattandosi di un principio generale applicabile nei più disparati
settori in cui si esplica l’azione amministrativa, appare del tutto
irrilevante la circostanza, dedotta dalla difesa del Comune, che nel caso di
specie non si sia trattato di una gara d’appalto o di un concorso
preordinato all’assunzione di un dipendente del Comune; tanto più che, nel
caso della nomina della commissione locale per il paesaggio, la necessità di
una “comparazione dei curricula delle candidature presentate” è stata
esplicitata dalla giunta regionale all’atto di dettare, con citata la D.G.R.
06.08.2008 n. 8/7977, i “criteri per la verifica, nei soggetti delegati
all’esercizio della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio, della
sussistenza dei requisiti di organizzazione e di competenza tecnico
scientifica”.
---------------
Circa la
dedotta violazione del principio di rotazione, sul rilievo che due dei tre
componenti nominati siedono nella medesima commissione rispettivamente da
oltre 20 anni e da oltre 10 anni richiamando i principi affermati nel Piano
Nazionale Anticorruzione 2016 approvato dall’ANAC con delibera n. 831 del
03.08.2016, va detto che il Piano Nazionale Anticorruzione è “atto generale di indirizzo”
rivolto a tutte le amministrazioni che adottano i PTPC (Piani Triennali per
la Prevenzione della Corruzione), soggetti a vigilanza dell’ANAC, che
all’occorrenza può adottare raccomandazioni o ordini nei confronti di
singole amministrazioni.
La rotazione del personale è uno dei criteri organizzativi previsti per
prevenire la corruzione, ma è riferita alle modalità di impiego dei “dipendenti”
e del “personale”; si tratta, in ogni caso, di un criterio
organizzativo “di indirizzo”, e cioè tendenziale e non vincolante,
che di massima non è applicabile a quei ruoli tecnici che, come nel caso
della Commissione locale per il Paesaggio, vengano affidati a soggetti
esterni all’amministrazione, selezionati sulla base di criteri di capacità
tecnica e all’esito di valutazione comparativa di merito; in tal caso,
infatti, la selezione comparativa effettuata dall’amministrazione sulla base
di criteri predeterminati dovrebbe essere sufficiente garanzia di
imparzialità della nomina.
Peraltro, nel caso in cui, all’esito della selezione comparativa dei vari
candidati, l’amministrazione si trovi ad aver valutato più candidati in modo
sostanzialmente equipollente e paritetico, e debba operare una scelta tra i
medesimi, principi generali di buona amministrazione e di imparzialità
possono rendere opportuno che la scelta tra i candidati sia effettuata
attribuendo motivata e favorevole rilevanza anche alla circostanza che uno
di questi non abbia mai svolto quella specifica funzione presso il Comune
procedente, rispetto ai componenti uscenti della commissione oggetto di
selezione, soprattutto se questi ultimi ne abbiano fatto parte per un lungo
periodo.
---------------
... per l'annullamento:
- della delibera della giunta comunale di Paratico n. 107 del
17.09.2019 avente ad oggetto “nomina della commissione per il paesaggio e per
la qualità urbana ai sensi dell’articolo 148 del d.lvo 42/2004 e
dell’articolo 81 della L.R. 12 del 2005”, affissa all’albo pretorio per 15
giorni consecutivi a partire dal 30.09.2019;
- ove e per quanto occorra, dell’avviso pubblico del 12.08.2019, per
la presentazione delle candidature;
- occorrendo, del regolamento della Commissione del Paesaggio del
Comune di Paratico approvato con delibera di consiglio comunale n. 30 del
29.09.2009;
...
FATTO
1. Con Avviso del 12.08.2019, il Comune di Paratico (BS) indiceva una
selezione pubblica finalizzata alla formazione di un elenco di candidati in
possesso dei prescritti requisiti, da cui attingere per la nomina della
Commissione comunale del Paesaggio e per la Tutela della qualità urbana.
1.1. In particolare, in conformità ai criteri disciplinati dall’Allegato 1
alla D.G.R. 06.08.2008 n. 8/7977 e dall’art. 2 del Regolamento comunale
della Commissione per il Paesaggio (approvato con delibera consiliare n. 30
del 29.09.2009), l’Avviso prevedeva che la Commissione sarebbe stata
composta da tre membri, in possesso dei seguenti requisiti:
“- un presidente: soggetto in possesso di laurea e abilitazione
all’esercizio della professione oltre ad aver maturato una qualificata
esperienza, come libero professionista o in qualità di pubblico dipendente
nell’ambito della tutela e valorizzazione dei beni paesistici;
- due componenti: soggetti in possesso di diploma universitario o
laurea o diploma di scuola media superiore in una materia attinente l’uso,
la pianificazione e la gestione del territorio e del paesaggio, la
progettazione edilizia e urbanistica, la tutela dei beni architettonici e
culturali, le scienze geologiche, naturali, geografiche e ambientali; i
soggetti dovranno altresì aver maturato una qualificata esperienza, almeno
triennale se laureati, e almeno quinquennale se diplomati nell’ambito della
libera professione o in qualità di pubblico dipendente, in una delle materie
sopra indicate”.
1.2. Inoltre, l’Avviso prevedeva, tra l’altro:
- che gli interessati avrebbero dovuto allegare alla domanda di
partecipazione il proprio curriculum professionale;
- che la nomina della commissione sarebbe stata effettuata dalla
giunta comunale dopo aver valutato le candidature complete di tutta la
documentazione;
- che l’incarico sarebbe stato “gratuito”, non essendo previsti
“compensi, gettoni di presenza né rimborsi spese”.
2. Entro il termine del 16.09.2019 previsto dall’Avviso, erano
presentate cinque domande di partecipazione, ciascuna corredata dal relativo
curriculum professionale, da parte dei seguenti candidati:
- arch. Fe.Gu.Lu.; - arch. Mi.Gi.; - arch. Fa.Di.; - ing. Za.Lo.; - ing. Za.El..
3. All’esito della valutazione delle domande e dei curricula dei candidati,
la giunta comunale, con delibera n. 107 del 17.09.2019, stabiliva di
nominare quali membri della Commissione per il Paesaggio i candidati:
- arch. Fa.Di., in qualità di “esperto con funzione di
Presidente”;
- arch. Mi.Gi., in qualità di “esperto”;
- arch. Fe.Gu.Lu., in qualità “esperto”.
4. La delibera, dopo aver richiamato la normativa applicabile e gli atti di
gara, così motivava la scelta dei tre componenti: “Ritenuto pertanto di
procedere alla scelta di n. 3 esperti in materia ambientale paesaggistica,
sulla base dei curriculum e della documentazione presentata, dai quali è
desumibile, oltre che il possesso del titolo di studio richiesto, anche
qualificata esperienza pregressa nella tutela del paesaggio (…)”.
5. Con ricorso notificato il 12.12.2019 e ritualmente depositato,
l’ing. El.Za. impugnava la predetta delibera di giunta e, occorrendo,
gli ulteriori atti della selezione pubblica, e ne chiedeva l’annullamento
sulla base di tre motivi, con i quali lamentava, in sintesi:
5.1) il difetto di motivazione della delibera di nomina;
5.2) la sussistenza di una stabile, potenziale, situazione di
conflitto di interessi, o comunque l’assenza di una situazione di
imparzialità in capo al Presidente arch. Fa., nonché l’assenza dei
requisiti soggettivi in capo all’arch. Mi.;
5.3) la violazione del principio di rotazione.
6. Il Comune di Paratico si costituiva in giudizio depositando
documentazione e resistendo al ricorso con memoria difensiva, eccependo
preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per la mancata impugnazione
del decreto regionale 10.10.2019, approvativo della Commissione per il
Paesaggio; in subordine, nel merito, contestando la fondatezza del ricorso e
chiedendone il rigetto.
7. Non si costituivano, invece, i controinteressati arch. Fa.Di.,
arch. Mi.Gi. e arch. Fe.Gu.Lu., ritualmente intimati con
atti portati alla notifica il 12.12.2019 e ricevuti il 17.12.2019.
8. All’udienza pubblica del 14.04.2021, in prossimità della quale la
difesa di parte ricorrente depositava una memoria di replica nel termine di
rito, la causa era trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. E’ opportuno preliminarmente ricostruire il quadro normativo in cui si
inquadra la vicenda in esame.
1.1. L’istituzione delle commissioni per il paesaggio, quali organismi
consultivi di supporto agli enti esercenti le funzioni delegate in materia
di autorizzazione paesaggistica, è stata prevista dall’art. 148, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004, in forza del quale “Le regioni promuovono l'istituzione
e disciplinano il funzionamento delle commissioni per il paesaggio di
supporto ai soggetti ai quali sono delegate le competenze in materia di
autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell'articolo 146, comma 6”. Il comma
2 della stessa norma precisa che “Le commissioni sono composte da soggetti
con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del
paesaggio”.
1.2. I predetti principi sono stati dettagliati, in ambito locale, dalla
normativa regionale lombarda, e in particolare dalla L.R. 11.03.2005 n.
12, la quale:
- all’art. 81, comma 1, ha previsto che “ogni ente locale titolare,
ai sensi dell’art. 80, di funzioni amministrative riguardanti
l’autorizzazione paesaggistica e l’irrogazione delle relative sanzioni,
istituisce e disciplina una commissione per il paesaggio, avente i requisiti
di organizzazione e di competenza tecnico-scientifica dettati dalla Giunta
regionale”;
- all’art. 80, comma 9, ha previsto che “L’esercizio delle funzioni
[in materia di autorizzazione paesaggistica] possono essere esercitate
solamente dai comuni […] per i quali la Regione abbia verificato la
sussistenza dei requisiti di organizzazione e di competenza
tecnico-scientifica ai sensi del D.Lgs. 42/2004”.
1.3. I “requisiti di organizzazione e di competenza tecnico-scientifica” di
cui al predetto art. 81, comma 1, della L.R. n. 12/2005 sono stati definiti
dalla giunta regionale lombarda con D.G.R. 06.08.2008 n. 8/7977; in
particolare, nell’Allegato 1 a tale D.G.R. si prevede (per quel che rileva):
- che nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, la
commissione è composta da un numero minimo di 3 componenti;
- che “Il Presidente della Commissione dovrà essere in possesso di
laurea e di abilitazione all’esercizio della professione ed aver maturato
una qualificata esperienza, come libero professionista o in qualità di
pubblico dipendente, nell’ambito della tutela e valorizzazione dei beni
paesaggistici”;
- che “I componenti devono essere scelti tra i candidati che siano
in possesso di diploma universitario o laurea o diploma di scuola media
superiore in una materia attinente l’uso, la pianificazione e la gestione
del territorio e del paesaggio, la progettazione edilizia e urbanistica, la
tutela dei beni architettonici e culturali, le scienze geologiche, naturali,
geografiche ed ambientali”;
- che i medesimi, inoltre, “devono altresì aver maturato una
qualificata esperienza, almeno triennale se laureati ed almeno quinquennale
se diplomati, nell’ambito della libera professione o in qualità di pubblico
dipendente, in una delle materie sopra indicate e con riferimento alla
tipologia delle funzioni paesaggistiche attribuite all’Ente locale al quale
si presenta la candidatura”;
- che i componenti della commissione sono nominati “a seguito di
comparazione dei curricula delle candidature presentate” e che “il
provvedimento di nomina dovrà dare atto della congruenza dei titoli
posseduti dai candidati prescelti rispetto a quanto previsto dai presenti
criteri”;
- che, infine, la Regione –a cui gli enti locali trasmettono la
documentazione relativa alla istituzione, disciplina e nomina della
commissione per il paesaggio– “provvede alla valutazione della
documentazione trasmessa al fine di verificarne la rispondenza ai presenti
criteri”;
- che tale verifica “potrà comportare anche controlli a campione
relativamente all’attività svolta ed alle modalità utilizzate dall’ente
locale per la istituzione e nomina della Commissione per il paesaggio,
nonché relativamente alla conformità dei criteri utilizzati per la
costituzione/individuazione della struttura tecnica o della specifica
professionalità per lo svolgimento delle attività di istruttoria
tecnico-amministrativa”;
- che, all’esito di tale verifica, “sarà predisposto l’elenco degli
Enti riconosciuti idonei all’esercizio della funzione autorizzatoria in
materia di paesaggio”, elenco “approvato con specifico provvedimento del
direttore generale della D.G. Territorio e Urbanistica” e quindi pubblicato
sul BURL e sul sito ufficiale della regione.
1.4. In ossequio ai criteri dettati dalla giunta regionale, il Comune di
Paratico si è dotato di un proprio “Regolamento Commissione per il
Paesaggio”, approvato con delibera consiliare n. 30 del 29.09.2009,
il quale, all’art. 2, disciplina la composizione della commissione e i
requisiti soggettivi dei suoi componenti, riproducendo pedissequamente (e
letteralmente) i criteri regionali, precisando che il possesso dei requisiti
deve risultare dal curriculum individuale di ciascun candidato.
1.5. Analogamente, i medesimi requisiti sono stati riprodotti e richiesti
nell’Avviso relativo alla selezione oggetto del presente giudizio.
2. Venendo quindi all’esame del caso di specie, va affrontata in primo luogo
l’eccezione preliminare formulata dalla difesa del Comune, secondo cui il
ricorso sarebbe inammissibile per la mancata impugnazione del decreto
regionale n. 14557 del 10.10.2019, con cui la Regione Lombardia ha
approvato l’istituzione della Commissione per il Paesaggio del Comune di Paratico.
2.1. L’eccezione, osserva il Collegio, non può essere condivisa dal momento
che la Regione si è limitata a verificare, ai sensi dell’art. 80, comma 9, L.R. n. 12/2005, che la Commissione fosse stata nominata nel rispetto dei
“requisiti di organizzazione e di competenza tecnico-scientifica” prescritti
dal d.lgs. 42/2004, ma non è entrata nel merito delle valutazioni svolte
dall’amministrazione comunale in ordine alla scelta dei singoli componenti.
2.2. Di conseguenza, un eventuale annullamento del provvedimento comunale di
nomina della commissione avrebbe effetti automaticamente caducanti, in parte
qua, anche sul Decreto del Direttore Generale Territorio e Protezione civile
della Regione Lombardia n. 14557 del 10.10.2019, concernente il
“Settimo aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche”.
3. Passando all’esame del merito, con il primo motivo la parte
ricorrente ha lamentato il difetto di motivazione del provvedimento
impugnato, in ragione del fatto che la giunta comunale si sarebbe limitata a
dare atto del possesso, da parte dei tre soggetti nominati, dei requisiti
soggettivi previsti dal bando, senza svolgere alcuna valutazione comparativa
dei curricula allegati da tutti e cinque i candidati, come peraltro
prescritto dai predetti criteri regionali di cui alla D.G.R. 06.08.2008
n. 8/7977, nella parte in cui prevedono che i componenti della commissione
sono nominati “a seguito di comparazione dei curricula delle candidature
presentate” e come prescritto da principi generali del procedimento
amministrativo.
La difesa comunale ha contestato la fondatezza della censura, rilevando che
motivazione del provvedimento, per quanto “criptica”, sarebbe nondimeno
adeguata, atteso il riferimento testuale in essa contenuto alla valutazione
dei curricula e della documentazione presentata dai candidati, in conformità
ai criteri predeterminati, tenuto anche conto che nella specie non si tratta
di un gara finalizzata alla stipula di un contratto di appalto né di una
procedura concorsuale finalizzata all’assunzione di un dipendente pubblico.
La difesa comunale è poi passata ad analizzare, in concreto, i curricula dei
cinque candidati e a compararne i profili professionali ed esperienziali,
evidenziando in particolare l’assenza in capo alla ricorrente di una
specifica esperienza in materia di progettazione, direzione lavori,
componente di commissioni edilizie e/o del paesaggio, a differenza dei tre
soggetti selezionati.
4. Il Collegio ritiene che gli argomenti addotti dalla difesa comunale non
siano convincenti e che la censura di parte ricorrente sia fondata.
4.1. La delibera comunale impugnata, infatti, ha affidato la scelta dei tre
componenti della Commissione alla seguente, testuale motivazione: “Ritenuto
pertanto di procedere alla scelta di n. 3 esperti in materia ambientale
paesaggistica, sulla base dei curriculum e della documentazione presentata,
dai quali è desumibile, oltre che il possesso del titolo di studio
richiesto, anche qualificata esperienza pregressa nella tutela del paesaggio
(…)”.
4.2. In sostanza, la giunta comunale si è limitata a dare atto che i tre
componenti nominati erano risultati in possesso dei requisiti richiesti dal
bando, ma ha omesso del tutto di effettuare la “comparazione dei
curricula delle candidature presentate” prescritta dai criteri regionali
di cui alla citata D.G.R. e, più in generale, imposta da principi generali
del procedimento amministrativo (art. 3 L. 241/1990).
4.3. La necessità di una valutazione comparativa dei profili dei vari
candidati e di una adeguata motivazione in ordine alla scelta effettuata è
stata affermata dalla giurisprudenza amministrativa persino in relazione
alla designazione degli organi di vertice dell’Amministrazione, notoriamente
effettuata con criteri eminentemente fiduciari basati sull’intuitus
personae e attraverso atti di alta amministrazione connotati da
amplissima discrezionalità; è stato affermato, al riguardo, che:
- “Se pure, in linea generale, le designazioni degli organi di vertice
delle Amministrazioni si configurano come provvedimenti da adottare in base
a criteri eminentemente fiduciari, riconducibili nell'ambito degli atti di
alta amministrazione, in quanto sono espressione della potestà di indirizzo
e di governo delle autorità preposte alle Amministrazioni stesse, si deve
osservare nondimeno che il singolo provvedimento di nomina deve esporre le
ragioni che hanno condotto alla nomina di uno di essi, comportando una
scelta nell'ambito di una categoria di determinati soggetti in possesso di
titoli specifici. In altre parole, la motivazione della scelta -sia pure
effettuata latamente "intuitu personae"- deve comunque ancorarsi all'esito
di un apprezzamento complessivo del candidato, in modo che possa dimostrarsi
la ragionevolezza della scelta effettuata che non può logicamente esaurirsi
nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti
dalla legge ma che importa articolate, delicate e talvolta addirittura
sfumate valutazioni sulla stessa personalità dei candidati, sulle loro
capacità organizzative, sul loro prestigio personale e sul prestigio che
eventualmente hanno già conferito agli uffici precedentemente ricoperti e
che astrattamente sono in grado di assicurare a quello da ricoprire"
(TAR Salerno, sez. II, 18.03.2019 n. 406; TAR Lazio-Roma, Sez. I,
05/03/2012, n. 2223; conf. Cons. Stato, sez. V, 15.11.2016, n. 4718).
4.4. Se la necessità di una penetrante motivazione è stata affermata, in
giurisprudenza, per la scelta degli organi di vertice dell'Amministrazione,
a fortiori la stessa deve ritenersi imprescindibile allorquando si
tratti di nominare gli esperti di una commissione tecnica che s'inserisce,
sia pur con criteri d'elevata professionalità e competenza, nell'ambito
dell'esercizio delle ordinarie funzioni amministrative attribuite all'ente
locale nello specifico settore della tutela del paesaggio; in sostanza, se persino gli atti di alta amministrazione a valenza
fiduciaria non possono essere ritenuti avulsi dal rispetto dell'obbligo di
una motivazione, congruente con la natura degli atti medesimi, e se non
residua, quindi, più alcuno spazio per i provvedimenti amministrativi cd. a
motivo libero (id est, espressione di discrezionalità assoluta), ne consegue
che ogni qual volta, come nella specie, si tratti d'effettuare una scelta
tra più candidati, ognuno dei quali dotato di specifiche competenze ed
attitudini a ricoprire l'incarico (come emergenti dai rispettivi curricula)
-incarico, si ripete, compreso nell'ambito delle ordinarie attribuzioni
dell'ente locale, sia pur di natura settoriale- non può prescindersi, a
maggior ragione, da una motivazione, di tipo analitico-comparativo, tendente
all'emersione delle ragioni della scelta di uno o più candidati in
questione, e dalla quale, in particolare, s'evincano le ragioni per le quali
i medesimi siano stati considerati i più adatti a rivestire la medesima
carica (in tal senso, cfr. TAR Salerno, sez. II, 18.03.2019 n. 406).
4.5. Nel caso di specie, la valutazione comparativa dei curricula dei cinque
candidati è mancata del tutto, o quantomeno la stessa, ove mai effettuata,
non è stata evidenziata in motivazione, tant’è che la stessa difesa del
Comune ha ammesso trattarsi di una motivazione “criptica”.
4.6. Una motivazione criptica è di per sé una motivazione illegittima perché
contraddice la funzione essenziale attribuitale dall’ordinamento, che è
quella di indicare (in modo comprensibile) “i presupposti di fatto e le
ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione,
in relazione alle risultanze dell'istruttoria” (art. 3 L. 241/1990).
4.7. Trattandosi di un principio generale applicabile nei più disparati
settori in cui si esplica l’azione amministrativa, appare del tutto
irrilevante la circostanza, dedotta dalla difesa del Comune, che nel caso di
specie non si sia trattato di una gara d’appalto o di un concorso
preordinato all’assunzione di un dipendente del Comune; tanto più che, nel
caso della nomina della commissione locale per il paesaggio, la necessità di
una “comparazione dei curricula delle candidature presentate” è stata
esplicitata dalla giunta regionale all’atto di dettare, con citata la D.G.R.
06.08.2008 n. 8/7977, i “criteri per la verifica, nei soggetti delegati
all’esercizio della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio, della
sussistenza dei requisiti di organizzazione e di competenza tecnico
scientifica”.
4.8. Gli ulteriori argomenti addotti dalla difesa comunale (in particolare
in relazione all’asserita assenza in capo alla ricorrente di specifica
esperienza in materia di progettazione, direzione lavori, componente di
commissioni edilizie e/o del paesaggio, a differenza dei tre soggetti
selezionati) costituiscono motivazione postuma del provvedimento, che va
dichiarata inammissibile sulla scorta di noti principi giurisprudenziali
(TAR Milano, sez. II, 11/02/2021, n. 388; Consiglio di Stato, sez. III,
29/09/2020, n. 5719).
5. Con il secondo motivo, la parte ricorrente ha dedotto
l’illegittimità del provvedimento impugnato in ragione della sussistenza di
una stabile, potenziale, situazione di conflitto di interessi, o comunque
l’assenza di una situazione di imparzialità del presidente arch. Fa.,
in ragione dei rapporti personali e professionali intercorrenti tra il
medesimo e l’arch. Ca., Responsabile del settore Edilizia e
Urbanistica del Comune di Paratico e titolare delle competenze in materia di
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica; inoltre, ha dedotto l’assenza
dei requisiti in capo all’arch. Mi., in quanto titolare di uno studio
professionale ma cancellato dall’Ordine degli Architetti di Brescia e in
quanto tale privo di “abilitazione all’esercizio della professione”,
prescritta quale requisito di partecipazione sia dall’Avviso di selezione
che dai criteri regionali.
Il Collegio osserva che la censura non può essere condivisa.
5.1. La situazione di conflitto di interessi, anche solo potenziale, in capo
al presidente della commissione arch. Fa. viene desunta da parte
ricorrente dalla circostanza che, in un altro comune (Erbusco), egli
ricoprirebbe, quale Responsabile dell’Area Tecnica, una posizione
subordinata rispetto al sindaco arch. Ca., ossia rispetto alla stessa
persona che, nel Comune di Paratico, ricopre il ruolo di Responsabile del
Settore Edilizia e Urbanistica e che, in quanto tale, è deputata
all’adozione degli atti di autorizzazione paesaggistica.
5.2. L’argomento, osserva il Collegio, non può essere condiviso, dal momento
che nel Comune di Erbusco l’arch. Fa. non ricopre alcun ruolo
subordinato rispetto al sindaco all’arch. Ca., svolgendo invece
funzioni di responsabilità gestionale in situazione di piena autonomia
rispetto all’organo politico, secondo principi generali evincibili dall’art.
107 del d.lgs. 267/2000.
5.3. Non appare quindi ipotizzabile, se non sulla base di mere congetture
giuridicamente irrilevanti, alcun rapporto di soggezione del primo nei
confronti del secondo, che possa far dubitare dell’imparzialità dell’arch.
Fa. nell’esercizio delle funzioni di presidente della Commissione
locale per il Paesaggio di Paratico; tanto più che, secondo la
giurisprudenza, l’esistenza di una situazione di conflitto di interessi
degli amministratori pubblici deve essere provata in concreto con
riferimento a situazioni specifiche, dimostrando la sussistenza di un nesso
teleologico tra il contenuto del singolo provvedimento e l’interesse
personale dell’amministratore, mentre invece nel caso di specie essa viene
predicata in astratto e sulla base di presupposti del tutto ipotetici e
indimostrati.
5.4. Quanto all’arch. Mi., è sufficiente osservare che l’abilitazione
all’esercizio della professione è stata richiesta dall’Avviso di selezione,
conformemente ai criteri regionali, quale requisito per la nomina come
“presidente” della commissione e non per la nomina quale semplice
“componente esperto” (qual è il Mi.).
6. Infine, con il terzo motivo la parte ricorrente ha dedotto la
violazione del principio di rotazione, sul rilievo che due dei tre
componenti nominati (l’arch. Fa. e l’arch. Mi.) siedono nella
medesima commissione rispettivamente da oltre 20 anni e da oltre 10 anni; ha
richiamato i principi affermati nel Piano Nazionale Anticorruzione 2016
approvato dall’ANAC con delibera n. 831 del 03.08.2016.
6.1. La difesa comunale ha replicato che tale principio troverebbe
applicazione soltanto in tema di affidamenti di contratti e non in tema di
esercizio di funzioni (non retribuite) come quelle per cui è causa.
6.2. Il Collegio osserva che la censura è fondata negli stretti limiti qui
di seguito precisati.
Il Piano Nazionale Anticorruzione è “atto generale di indirizzo”
rivolto a tutte le amministrazioni che adottano i PTPC (Piani Triennali per
la Prevenzione della Corruzione), soggetti a vigilanza dell’ANAC, che
all’occorrenza può adottare raccomandazioni o ordini nei confronti di
singole amministrazioni.
La rotazione del personale è uno dei criteri organizzativi previsti per
prevenire la corruzione, ma è riferita alle modalità di impiego dei “dipendenti”
e del “personale”; si tratta, in ogni caso, di un criterio
organizzativo “di indirizzo”, e cioè tendenziale e non vincolante,
che di massima non è applicabile a quei ruoli tecnici che, come nel caso
della Commissione locale per il Paesaggio, vengano affidati a soggetti
esterni all’amministrazione, selezionati sulla base di criteri di capacità
tecnica e all’esito di valutazione comparativa di merito; in tal caso,
infatti, la selezione comparativa effettuata dall’amministrazione sulla base
di criteri predeterminati dovrebbe essere sufficiente garanzia di
imparzialità della nomina.
Peraltro, nel caso in cui, all’esito della selezione comparativa dei vari
candidati, l’amministrazione si trovi ad aver valutato più candidati in modo
sostanzialmente equipollente e paritetico, e debba operare una scelta tra i
medesimi, principi generali di buona amministrazione e di imparzialità
possono rendere opportuno che la scelta tra i candidati sia effettuata
attribuendo motivata e favorevole rilevanza anche alla circostanza che uno
di questi non abbia mai svolto quella specifica funzione presso il Comune
procedente, rispetto ai componenti uscenti della commissione oggetto di
selezione, soprattutto se questi ultimi ne abbiano fatto parte per un lungo
periodo.
7. In definitiva, alla luce delle considerazioni di cui sopra, il ricorso è
fondato e va accolto nei sensi e nei limiti sopra specificati, con il
conseguente annullamento della delibera della giunta comunale di Paratico n.
107 del 17.09.2019.
7.1. Per l’effetto, in esecuzione della presente sentenza, la giunta
comunale di Paratico procederà, nel termine di giorni 30 (trenta) dalla
comunicazione del presente provvedimento, a rinnovare la nomina dei
componenti della Commissione locale per il Paesaggio attraverso una
valutazione comparativa dei curricula dei cinque candidati,
concludendo tale procedimento con un provvedimento espresso adeguatamente
motivato in ordine alle ragioni della preferenza accordata ai candidati
prescelti rispetto a quelli pretermessi, conformandosi alle precedenti
statuizioni
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 06.05.2021 n. 410 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Sull'annullamento della
designazione a componente esperto della Commissione locale
per il paesaggio nella materia della “legislazione dei beni culturali”
per difetto di motivazione.
I motivi di appello non possono essere
accolti alla luce dei principi affermati dalla
giurisprudenza che il Collegio condivide e a cui intende
dare continuità.
È stato, infatti, affermato al riguardo (cfr. Cons. di
Stato, 15.11.2016, n. 4718, relativo alla nomina del
difensore civico regionale) che la fiduciarietà connotante
il provvedimento di nomina “è caratteristica che non
dispensa l’amministrazione procedente dall’obbligo di
esplicitare le ragioni che l’hanno indotta a privilegiare,
tra più candidati, un aspirante rispetto agli altri”. È
stato altresì statuito che, seppur non occorra “una rigorosa
comparazione tra i requisiti dei singoli candidati, con
conseguente motivazione puntuale e specifica, come se si
trattasse di un procedimento concorsuale”, il provvedimento
di nomina deve comunque “dar conto del fatto che i
differenti requisiti di competenza, esperienza e
professionalità siano stati valutati in relazione al fine da
perseguire”.
In quella fattispecie, analoga a quella del presente
giudizio, fu ritenuto perciò fondato il motivo con cui si
allegava l’inadeguatezza motivazionale del decreto impugnato
“nella prospettiva della mancata “comparazione” (in senso atecnico) tra i requisiti di competenza, esperienza e
professionalità posseduti” dai candidati, limitandosi il
provvedimento alla mera enunciazione del curriculum del
nominato, recante peraltro titoli almeno in parte
contestati, poiché il provvedimento di nomina nemmeno
consentiva “una sommaria raffrontabilità dei requisiti di
competenza giuridico-amministrativa dei candidati alla
carica”.
---------------
Come bene ritenuto dal primo giudice, la delibera gravata
difetta di qualsivoglia motivazione, a sostegno della
designazione del controinteressato, quale esperto in
“legislazione dei beni culturali”.
Al riguardo osserva il Collegio che il profilo della
valutazione tra i candidati discende dalle previsioni
legislative applicabili, per le quali le Commissioni Locali
per il Paesaggio -che trovano il proprio fondamento
normativo nell’art. 9 della Costituzione (a mente del quale
“la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e
artistico della Nazione”)– “sono composte da soggetti con
particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella
tutela del paesaggio” (art. 148, comma 2, D.Lgs. n. 42 del
2004 Codice dei beni culturali e del paesaggio).
Ed infatti, in primo luogo, l’art. 146, comma 6, D.Lgs. n.
42 del 2004 dello stesso Codice, nel prevedere la delega ai
Comuni dell’esercizio del potere e della funzione
autorizzatoria in materia di paesaggio, precisa che ciò può
avvenire “purché gli Enti destinatari della delega
dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato
livello di competenze tecnico-scientifiche, nonché di
garantire la differenziazione tra attività di tutela
paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in
materia urbanistico-edilizia.”.
Dal canto suo, la legge regionale Campania 23.02.1982,
n. 10 (recante direttive per l’esercizio delle funzioni
amministrative sub delegate dalla Regione ai Comuni),
richiamata dall’appellante, all’Allegato I, prevede che
l'Ente sub-delegato in materia provvede alla costituzione di
un organismo tecnico-amministrativo “tra esperti in materia
urbanistica, beni ambientali, storia dell'arte, geografia,
discipline agricolo-forestali, naturalistiche, storiche,
pittoriche ed arti figurative e legislazione beni
culturali”.
Non pare poi superfluo rammentare che l’art. 3, comma 2, del
Regolamento della Commissione locale per il paesaggio
richiama per la nomina dei componenti la Commissione la
“procedura ad evidenza pubblica” (avviata a mezzo di
specifico avviso di selezione, da pubblicizzarsi con le
modalità e le forme ivi indicate), ribadendo altresì al
precedente comma 1 che i membri che la compongono devono
essere scelti e nominati tra soggetti esperti “con
particolare, pluriennale e qualificate esperienza nelle
suddette specifiche materie, maturate nell’ambito della
libera professione o in qualità di pubblico dipendente” ed
“in modo da coprire tutte le competenze e professionalità,
come richiesto dalle norme di legge”. Inoltre, il bando ha
stabilito pure che: “Compete alla Commissione Straordinaria
… la nomina dei cinque componenti esperti scelti sulla base
del proprio curriculum da allegare al provvedimento
deliberativo”, precisando che ai fini della nomina, valgono
titoli preferenziali, tra cui l’essere esperti in
“legislazione dei beni culturali”.
---------------
Nessuno degli assunti del Comune appellante, ritiene il
Collegio, può essere condiviso.
Rileva infatti la violazione delle disposizioni sia di legge
(nazionale e regionale), intese ad assicurare le giuste
professionalità (“soggetti con particolare, pluriennale e
qualificata esperienza nella tutela del paesaggio” ex art.
148 D.Lgs. n. 42/2004), sia di quelle dettate dal
Regolamento interno e dall’Avviso pubblico, protese a
garantire che, in sede di “vaglio delle candidature”, si
faccia in modo che le competenze e professionalità nella
Commissione Locale Paesaggio “siano armonicamente
equilibrate per garantire una interdisciplinarietà come
previsto dalla LR 10/1982 e dalla circolare regionale” (cfr.:
Regolamento e Avviso pubblico).
Alla luce della su indicata normativa applicabile, sono
dunque corrette e meritano conferma le statuizioni di prime
cure che, sulla base di una puntuale analisi del testo della
delibera impugnata, hanno rilevato come “la designazione
dell’esperto nella materia di interesse è stata compiuta senza l’esplicitazione
della benché minima giustificazione, circa la sua idoneità a
ricoprire l’incarico in questione, nonché senza alcuna
valutazione delle sue specifiche competenze, ovvero delle
professionalità acquisite, quali ricavabili dal curriculum
presentato, e, ancora, senza l’espressione d’alcun giudizio,
di tipo analitico–comparativo, rispetto ai curricula ed
alle specifiche competenze e professionalità degli altri
professionisti che, come il ricorrente, avevano manifestato
il loro interesse, a rivestire la carica di componente della
Commissione Locale per il Paesaggio, in qualità di esperti
in “legislazione dei beni culturali”.
Ritiene il Collegio che un tale modo di operare si
ponga in contrasto con l’obbligo generale di motivazione
degli atti amministrativi, sancito dall’art. 3 della l. 07.08.1990, n. 241, che, al comma 2, introduce un’espressa
eccezione alla necessità della motivazione per i soli atti
normativi e per quelli a contenuto generale; per il resto la
motivazione è requisito indispensabile di ogni atto
amministrativo, quale fattore di esternazione dell’iter
logico delle determinazioni assunte dall’Amministrazione in
esercizio di poteri discrezionali, ai fini della tutela in
giustizia.
Su queste premesse, correttamente il primo giudice ha
concluso che il singolo provvedimento di nomina, anche se
adottato in base a criteri eminentemente fiduciari, deve
esporre le ragioni che hanno condotto alla nomina di uno di
essi, comportando una scelta nell'ambito di una categoria di
determinati soggetti in possesso di titoli specifici. La
motivazione della scelta -sia pure effettuata latamente "intuitu
personae"- deve comunque ancorarsi all'esito di un
apprezzamento complessivo del candidato, in modo che possa
dimostrarsene la ragionevolezza: tale scelta non può, per il
vero, esaurirsi nel mero riscontro da parte dei singoli
candidati dei requisiti prescritti dalla legge; essa importa
articolate e talvolta complesse valutazioni sulla stessa
personalità dei candidati, sulle loro capacità
organizzative, sul loro prestigio personale (che hanno già
conferito agli uffici precedentemente ricoperti e che sono
in grado di assicurare a quello da ricoprire). Pertanto,
come chiarito dalla giurisprudenza in tema di nomina di
funzionari onorari, il provvedimento di nomina deve dar
conto del fatto che i differenti requisiti di competenza,
esperienza e professionalità siano stati valutati in
relazione al fine da perseguire.
In definitiva, sono corrette e condivisibili le
statuizioni della sentenza laddove evidenzia che –se anche
per gli atti di alta amministrazione a valenza fiduciaria
non è affatto escluso l'obbligo di motivazione appropriato e
coerente alla natura degli atti medesimi- tanto più non
può prescindersi da una motivazione, di tipo analitico–comparativo, dalla quale s’evincano le ragioni della
maggiore idoneità del designato a rivestire la carica ogni
qual volta, come nella specie, si tratti d’effettuare una
scelta tra più candidati, ognuno dei quali dotato di
specifiche competenze e attitudini a ricoprire l’incarico
cui aspira, compreso nell’ambito delle ordinarie
attribuzioni dell’ente locale. Come precisato in
giurisprudenza, infatti, anche nel caso in esame trova
spazio una tipica fase procedimentale amministrativa, volta
alla “verifica dell’esperienza e della capacità
professionale” di coloro che hanno ritenuto di dover
rispondere all’avviso pubblico, destinata a sfociare in una
scelta motivata della persona da designare.
L’eccepita infondatezza della censura di difetto di
motivazione non può allora nemmeno farsi discendere, come
sostiene il Comune, dalla precisazione, contenuta
nell’avviso pubblico, “che non veniva indetta alcuna
procedura concorsuale, para-concorsuale, gara di appalto o
trattativa privata” e che, di conseguenza, “non sarebbe
stata stilata alcuna graduatoria, né attribuiti punteggi o
classificazioni di merito”, né ancora dalla considerazione
che il richiesto “curriculum vitae” aveva “il solo scopo di
manifestare la disponibilità all’assunzione della nomina”:
le suddette precisazioni, ritiene il Collegio, non possono
incidere, in alcun modo, sulla necessità, sopra evidenziata,
di rispettare, comunque, il generale canone della
motivazione degli atti amministrativi.
Del resto, la precisazione contenuta nell’avviso pubblico è
anche intrinsecamente contraddittoria: vi era specificato
che il curriculum vitae aveva il fine di verificare, nei
candidati, “il possesso delle condizioni richieste”,
espressione che di suo implica l’effettuazione di un’analisi
dei curricula medesimi, tendente a verificare l’idoneità dei
candidati a svolgere le funzioni connesse all’espletamento
dell’incarico.
È altresì destituita di fondamento, oltre che
irrilevante per le ragioni anzidette, l’argomento
concernente l’asserita acquiescenza che il candidato odierno
avrebbe prestato alle disposizioni in parte qua del bando
nella manifestazione d’interesse all’assunzione
dell’incarico: a prescindere dall’impossibilità di opinare
alcuna interferenza della precisazione suddetta sull’obbligo
generale di motivazione di cui all’art. 3 della l. 241/1990,
l’originario ricorrente ha comunque specificamente impugnato
le disposizioni del bando in parola sia per violazione
dell’obbligo generale di motivazione sia con riferimento
all’art. 3 del citato Regolamento che per la nomina della
Commissione locale per il paesaggio prevede la “procedura ad
evidenza pubblica”.
In definitiva, per le ragioni esposte anche
l’effettuazione di un’adeguata istruttoria da parte della
Commissione straordinaria rimane confinata a mera
affermazione di principio, come pure infondata è la tesi del
Comune appellante secondo cui il giudizio formulato dalla
Commissione Straordinaria “avrebbe comportato una
valutazione essenzialmente qualitativa della preparazione
dei candidati”.
Ne segue che non è decisiva la modalità del voto (richiamata
col primo motivo di gravame) che non può di suo
elidere i criteri di trasparenza e di adeguatezza della
scelta rispetto ai parametri stabiliti ex lege e ripetuti, a
monte della procedura, dal Comune di Scafati nei propri atti
e parimenti è infondato anche il secondo motivo di appello
sulla insidacabilità da parte del giudice amministrativo
della nomina dei componenti della Commissione locale per il
paesaggio. Al riguardo si osserva che, se, per un verso, non
può prescindersi dalla comparazione tra le professionalità
degli interessati, previo accertamento dei requisiti
richiesti, e dalla conseguente motivazione della
designazione effettuata tra le plurime candidature, per
altro verso, per la giurisprudenza, il giudice
amministrativo può legittimamente sindacare le valutazioni
tecnico-discrezionali della Pubblica Amministrazione se
viziate da eccesso di potere per difetto di motivazione
---------------
... per la riforma della
sentenza 18.03.2019 n. 406
del Tribunale amministrativo regionale per la Campania -
Sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda), resa tra le
parti;
...
5. - L’appello è infondato e va respinto.
6. - L’appello dell’Amministrazione comunale contesta la
sentenza che ha annullato la designazione a componente
esperto della Commissione locale per il paesaggio nella
materia della “legislazione dei beni culturali” per difetto
di motivazione.
7. - L’ente, con l’avviso pubblico del 09.10.2018, aveva
indicato le modalità di svolgimento della procedura di
nomina degli esperti, nel rispetto delle norme di legge (il d.lgs. n. 42 del 2004; le leggi regionali della Campania 22.12.2004, n. 16 “Norme sul governo del territorio” e 23.02.1982, n. 10 “Indirizzi programmatici e direttive
fondamentali per l’esercizio delle deleghe ai sensi
dell’art. 1 della L.R. 65/1981”), nonché dei principi
costituzionali di trasparenza e legalità.
7.1. Nell’avviso pubblico il Comune aveva chiesto una
manifestazione d’interesse, ai fini della nomina a
componente della Commissione; e precisava che non veniva
indetta alcuna procedura concorsuale, para-concorsuale, gara
di appalto o trattativa privata; di conseguenza non sarebbe
stata stilata una graduatoria, né attribuiti punteggi o
classificazioni di merito, avendo il curriculum vitae il
solo scopo di “manifestare la disponibilità all’assunzione
della nomina, il possesso delle condizioni richieste e la
conoscibilità dei soggetti disponibili ad assumere
l’incarico”.
7.2. A tali regole l’appellato avrebbe prestato
acquiescenza, dichiarando nella manifestazione d’interesse
di aver preso visione integrale e acquisito piena conoscenza
dell’avviso pubblico.
7.3. Il Comune, con il primo motivo di appello, evidenzia
che la delibera è stata adottata ai sensi dell’art. 43 del
Regolamento delle Adunanze consiliari del Comune di Scafati,
approvato con deliberazione di Consiglio Comunale n. 60 del
29.10.2012 (e richiamato altresì dallo Statuto
Comunale), a mente del quale “Le votazioni relative a nomine
di rappresentanti del Comune, di competenza del Consiglio
Comunale, in commissioni, enti, Società od Istituzioni,
avverranno a scrutinio segreto”. Per il Comune ne deriva che
non poteva essere svolta una comparazione tra le
candidature, dovendo la scelta degli esperti avvenire, con
voto limitato della Commissione straordinaria (con i poteri
del Consiglio Comunale), ovvero in seguito alla votazione di
un solo membro tra tutti i profili pervenuti.
7.4. La sentenza poi non avrebbe considerato che la delibera
manifesta un’attività amministrativa di natura
discrezionale: l’atto di nomina a componente della
Commissione locale per il paesaggio è di sola competenza
dell’organo deliberativo dell’ente locale (la Commissione
straordinaria nominata ai sensi dell'art. 144 del d.lgs. n.
267 del 2000, con i poteri del Consiglio comunale), che può
assolvere all'obbligo di motivazione sulla base di ampie
valutazioni di opportunità.
7.5. Per il Comune, difettano poi i sintomi dell’eccesso di
potere circa le valutazioni tecnico-discrezionali
(valutazioni qualitative della preparazione dei candidati) e
la sentenza fuoriesce dai limiti della giurisdizione, contro
il principio di separazione dei poteri.
7.6. La sentenza poi, per il Comune, riporta orientamenti
(in materia di atti di alta amministrazione a valenza
fiduciaria) relativi a fattispecie estranee.
7.7. Il Comune aggiunge, infine, che sussisterebbe comunque
una motivazione sostanziale dell’atto impugnato: al
riguardo, rammenta l’appellante, la giurisprudenza ha
chiarito che l’obbligo di motivazione -da intendersi in
senso non meramente formale, ma funzionale- è rispettato se
l'atto reca l'esternazione del percorso logico-giuridico
seguito dall'amministrazione per giungere alla decisione
adottata e il destinatario è in grado di comprenderne le
ragioni e, conseguentemente, di utilmente accedere alla
tutela giurisdizionale, in conformità ai principi di cui
agli artt. 24 e 113 Cost.
8. I motivi di appello così sintetizzati non possono essere
accolti alla luce dei principi affermati dalla
giurisprudenza che il Collegio condivide e a cui intende
dare continuità.
8.1. È stato, infatti, affermato al riguardo (cfr. Cons. di
Stato, 15.11.2016, n. 4718, relativo alla nomina del
difensore civico regionale) che la fiduciarietà connotante
il provvedimento di nomina “è caratteristica che non
dispensa l’amministrazione procedente dall’obbligo di
esplicitare le ragioni che l’hanno indotta a privilegiare,
tra più candidati, un aspirante rispetto agli altri”. È
stato altresì statuito che, seppur non occorra “una rigorosa
comparazione tra i requisiti dei singoli candidati, con
conseguente motivazione puntuale e specifica, come se si
trattasse di un procedimento concorsuale”, il provvedimento
di nomina deve comunque “dar conto del fatto che i
differenti requisiti di competenza, esperienza e
professionalità siano stati valutati in relazione al fine da
perseguire”.
In quella fattispecie, analoga a quella del presente
giudizio, fu ritenuto perciò fondato il motivo con cui si
allegava l’inadeguatezza motivazionale del decreto impugnato
“nella prospettiva della mancata “comparazione” (in senso atecnico) tra i requisiti di competenza, esperienza e
professionalità posseduti” dai candidati, limitandosi il
provvedimento alla mera enunciazione del curriculum del
nominato, recante peraltro titoli almeno in parte
contestati, poiché il provvedimento di nomina nemmeno
consentiva “una sommaria raffrontabilità dei requisiti di
competenza giuridico-amministrativa dei candidati alla
carica”.
8.2. E questo è il caso di specie.
Come bene ritenuto dal primo giudice la delibera gravata
difetta di qualsivoglia motivazione, a sostegno della
designazione del controinteressato, quale esperto in
“legislazione dei beni culturali”.
8.3. Al riguardo osserva il Collegio che il profilo della
valutazione tra i candidati discende dalle previsioni
legislative applicabili, per le quali le Commissioni Locali
per il Paesaggio -che trovano il proprio fondamento
normativo nell’art. 9 della Costituzione (a mente del quale
“la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e
artistico della Nazione”)– “sono composte da soggetti con
particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella
tutela del paesaggio” (art. 148, comma 2, D.Lgs. n. 42 del
2004 Codice dei beni culturali e del paesaggio).
Ed infatti, in primo luogo, l’art. 146, comma 6, D.Lgs. n.
42 del 2004 dello stesso Codice, nel prevedere la delega ai
Comuni dell’esercizio del potere e della funzione
autorizzatoria in materia di paesaggio, precisa che ciò può
avvenire “purché gli Enti destinatari della delega
dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato
livello di competenze tecnico-scientifiche, nonché di
garantire la differenziazione tra attività di tutela
paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in
materia urbanistico-edilizia.”.
Dal canto suo, la legge regionale Campania 23.02.1982,
n. 10 (recante direttive per l’esercizio delle funzioni
amministrative sub delegate dalla Regione ai Comuni),
richiamata dall’appellante, all’ Allegato I, prevede che
l'Ente sub-delegato in materia provvede alla costituzione di
un organismo tecnico-amministrativo “tra esperti in materia
urbanistica, beni ambientali, storia dell'arte, geografia,
discipline agricolo-forestali, naturalistiche, storiche,
pittoriche ed arti figurative e legislazione beni
culturali”.
Non pare poi superfluo rammentare che l’art. 3, comma 2, del
Regolamento della Commissione locale per il paesaggio
richiama per la nomina dei componenti la Commissione la
“procedura ad evidenza pubblica” (avviata a mezzo di
specifico avviso di selezione, da pubblicizzarsi con le
modalità e le forme ivi indicate), ribadendo altresì al
precedente comma 1 che i membri che la compongono devono
essere scelti e nominati tra soggetti esperti “con
particolare, pluriennale e qualificate esperienza nelle
suddette specifiche materie, maturate nell’ambito della
libera professione o in qualità di pubblico dipendente” ed
“in modo da coprire tutte le competenze e professionalità,
come richiesto dalle norme di legge”. Inoltre, il bando ha
stabilito pure che: “Compete alla Commissione Straordinaria
… la nomina dei cinque componenti esperti scelti sulla base
del proprio curriculum da allegare al provvedimento
deliberativo”, precisando che ai fini della nomina, valgono
titoli preferenziali, tra cui l’essere esperti in
“legislazione dei beni culturali”.
8.4. Tanto premesso, nessuno degli assunti del Comune
appellante, ritiene il Collegio, può essere condiviso.
Rileva infatti la violazione delle disposizioni sia di legge
(nazionale e regionale), intese ad assicurare le giuste
professionalità (“soggetti con particolare, pluriennale e
qualificata esperienza nella tutela del paesaggio” ex art.
148 D.Lgs. n. 42/2004), sia di quelle dettate dal
Regolamento interno e dall’Avviso pubblico, protese a
garantire che, in sede di “vaglio delle candidature”, si
faccia in modo che le competenze e professionalità nella
Commissione Locale Paesaggio “siano armonicamente
equilibrate per garantire una interdisciplinarietà come
previsto dalla LR 10/1982 e dalla circolare regionale” (cfr.:
Regolamento e Avviso pubblico).
Alla luce della su indicata normativa applicabile, sono
dunque corrette e meritano conferma le statuizioni di prime
cure che, sulla base di una puntuale analisi del testo della
delibera impugnata, hanno rilevato come “la designazione
dell’esperto nella materia di interesse è stata compiuta,
dalla Commissione Straordinaria, senza l’esplicitazione
della benché minima giustificazione, circa la sua idoneità a
ricoprire l’incarico in questione, nonché senza alcuna
valutazione delle sue specifiche competenze, ovvero delle
professionalità acquisite, quali ricavabili dal curriculum
presentato, e, ancora, senza l’espressione d’alcun giudizio,
di tipo analitico–comparativo, rispetto ai curricula ed
alle specifiche competenze e professionalità degli altri
professionisti che, come il ricorrente, avevano manifestato
il loro interesse, a rivestire la carica di componente della
Commissione Locale per il Paesaggio, in qualità di esperti
in “legislazione dei beni culturali” (in totale, come si
ricava dall’elenco, contenuto nella proposta di
deliberazione de qua, sette professionisti, compresi il
ricorrente e il controinteressato)”.
8.5. Ritiene il Collegio che un tale modo di operare si
ponga in contrasto con l’obbligo generale di motivazione
degli atti amministrativi, sancito dall’art. 3 della l. 07.08.1990, n. 241, che, al comma 2, introduce un’espressa
eccezione alla necessità della motivazione per i soli atti
normativi e per quelli a contenuto generale; per il resto la
motivazione è requisito indispensabile di ogni atto
amministrativo, quale fattore di esternazione dell’iter
logico delle determinazioni assunte dall’Amministrazione in
esercizio di poteri discrezionali, ai fini della tutela in
giustizia.
8.5.1. Su queste premesse, correttamente il primo giudice ha
concluso che il singolo provvedimento di nomina, anche se
adottato in base a criteri eminentemente fiduciari, deve
esporre le ragioni che hanno condotto alla nomina di uno di
essi, comportando una scelta nell'ambito di una categoria di
determinati soggetti in possesso di titoli specifici. La
motivazione della scelta -sia pure effettuata latamente "intuitu
personae"- deve comunque ancorarsi all'esito di un
apprezzamento complessivo del candidato, in modo che possa
dimostrarsene la ragionevolezza: tale scelta non può, per il
vero, esaurirsi nel mero riscontro da parte dei singoli
candidati dei requisiti prescritti dalla legge; essa importa
articolate e talvolta complesse valutazioni sulla stessa
personalità dei candidati, sulle loro capacità
organizzative, sul loro prestigio personale (che hanno già
conferito agli uffici precedentemente ricoperti e che sono
in grado di assicurare a quello da ricoprire). Pertanto,
come chiarito dalla giurisprudenza in tema di nomina di
funzionari onorari, il provvedimento di nomina deve dar
conto del fatto che i differenti requisiti di competenza,
esperienza e professionalità siano stati valutati in
relazione al fine da perseguire.
8.6. In definitiva, sono corrette e condivisibili le
statuizioni della sentenza laddove evidenzia che –se anche
per gli atti di alta amministrazione a valenza fiduciaria
non è affatto escluso l'obbligo di motivazione appropriato e
coerente alla natura degli atti medesimi (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. VI, 19.10.2009, n. 6388)- tanto più non
può prescindersi da una motivazione, di tipo analitico–comparativo, dalla quale s’evincano le ragioni della
maggiore idoneità del designato a rivestire la carica ogni
qual volta, come nella specie, si tratti d’effettuare una
scelta tra più candidati, ognuno dei quali dotato di
specifiche competenze e attitudini a ricoprire l’incarico
cui aspira, compreso nell’ambito delle ordinarie
attribuzioni dell’ente locale. Come precisato in
giurisprudenza, infatti, anche nel caso in esame trova
spazio una tipica fase procedimentale amministrativa, volta
alla “verifica dell’esperienza e della capacità
professionale” di coloro che hanno ritenuto di dover
rispondere all’avviso pubblico, destinata a sfociare in una
scelta motivata della persona da designare.
8.7. L’eccepita infondatezza della censura di difetto di
motivazione non può allora nemmeno farsi discendere, come
sostiene il Comune, dalla precisazione, contenuta
nell’avviso pubblico, “che non veniva indetta alcuna
procedura concorsuale, para concorsuale, gara di appalto o
trattativa privata” e che, di conseguenza, “non sarebbe
stata stilata alcuna graduatoria, né attribuiti punteggi o
classificazioni di merito”, né ancora dalla considerazione
che il richiesto “curriculum vitae” aveva “il solo scopo di
manifestare la disponibilità all’assunzione della nomina”:
le suddette precisazioni, ritiene il Collegio, non possono
incidere, in alcun modo, sulla necessità, sopra evidenziata,
di rispettare, comunque, il generale canone della
motivazione degli atti amministrativi.
Del resto, la precisazione contenuta nell’avviso pubblico è
anche intrinsecamente contraddittoria: vi era specificato
che il curriculum vitae aveva il fine di verificare, nei
candidati, “il possesso delle condizioni richieste”,
espressione che di suo implica l’effettuazione di un’analisi
dei curricula medesimi, tendente a verificare l’idoneità dei
candidati a svolgere le funzioni connesse all’espletamento
dell’incarico.
8.7.1. È altresì destituita di fondamento, oltre che
irrilevante per le ragioni anzidette, l’argomento
concernente l’asserita acquiescenza che il candidato odierno
avrebbe prestato alle disposizioni in parte qua del bando
nella manifestazione d’interesse all’assunzione
dell’incarico: a prescindere dall’impossibilità di opinare
alcuna interferenza della precisazione suddetta sull’obbligo
generale di motivazione di cui all’art. 3 della l. 241/1990,
l’originario ricorrente ha comunque specificamente impugnato
le disposizioni del bando in parola sia per violazione
dell’obbligo generale di motivazione sia con riferimento
all’art. 3 del citato Regolamento che per la nomina della
Commissione locale per il paesaggio prevede la “procedura ad
evidenza pubblica”.
8.8. In definitiva, per le ragioni esposte anche
l’effettuazione di un’adeguata istruttoria da parte della
Commissione straordinaria rimane confinata a mera
affermazione di principio, come pure infondata è la tesi del
Comune appellante secondo cui il giudizio formulato dalla
Commissione Straordinaria “avrebbe comportato una
valutazione essenzialmente qualitativa della preparazione
dei candidati”.
8.9. Ne segue che non è decisiva la modalità del voto
(richiamata col primo motivo di gravame) che non può di suo
elidere i criteri di trasparenza e di adeguatezza della
scelta rispetto ai parametri stabiliti ex lege e ripetuti, a
monte della procedura, dal Comune di Scafati nei propri atti
e parimenti è infondato anche il secondo motivo di appello
sulla insidacabilità da parte del giudice amministrativo
della nomina dei componenti della Commissione locale per il
paesaggio. Al riguardo si osserva che, se, per un verso, non
può prescindersi dalla comparazione tra le professionalità
degli interessati, previo accertamento dei requisiti
richiesti, e dalla conseguente motivazione della
designazione effettuata tra le plurime candidature, per
altro verso, per la giurisprudenza, il giudice
amministrativo può legittimamente sindacare le valutazioni
tecnico-discrezionali della Pubblica Amministrazione se
viziate da eccesso di potere per difetto di motivazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.04.2021 n. 3119 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
nomina dell’esperto in “legislazione
dei beni culturali” in seno alla "Commissione
Locale per il Paesaggio" avvenuta senza
la benché minima comparazione tra le varie
candidature pervenute.
La designazione del controinteressato, quale
esperto in "legislazione dei beni culturali", è stata
compiuta
senza l’esplicitazione della benché minima
giustificazione, circa la sua idoneità a
ricoprire l’incarico in questione, nonché
senza alcuna valutazione delle sue
specifiche competenze, ovvero delle
professionalità acquisite, quali ricavabili
dal curriculum presentato, e, ancora, senza
l’espressione d’alcun giudizio, di tipo
analitico–comparativo, rispetto ai
curricula ed alle specifiche competenze
e professionalità degli altri professionisti
che, come il ricorrente, avevano manifestato
il loro interesse, a rivestire la carica di
componente della Commissione Locale per il
Paesaggio, in qualità di esperti in “legislazione
dei beni culturali”.
Un tale modo di operare, tuttavia, si pone,
ad avviso del Collegio, in netto contrasto
con l’obbligo generale di motivazione degli
atti amministrativi, sancito dall’art. 3
della l. 241/1990, obbligo cui l’atto in
questione, espressione di una scelta,
esercitata dalla predetta Commissione nel
contesto di poteri amministrativi ordinari,
per quanto settoriali, non poteva
evidentemente sottrarsi.
Viene in rilievo, a conforto di quanto sopra
argomentato, la giurisprudenza seguente: “Se
pure, in linea generale, le designazioni
degli organi di vertice delle
Amministrazioni si configurano come
provvedimenti da adottare in base a criteri
eminentemente fiduciari, riconducibili
nell'ambito degli atti di alta
amministrazione, in quanto sono espressione
della potestà di indirizzo e di governo
delle autorità preposte alle Amministrazioni
stesse, si deve osservare nondimeno che il
singolo provvedimento di nomina deve esporre
le ragioni che hanno condotto alla nomina di
uno di essi, comportando una scelta
nell'ambito di una categoria di determinati
soggetti in possesso di titoli specifici. In
altre parole, la motivazione della scelta
-sia pure effettuata latamente "intuitu
personae"- deve comunque ancorarsi all'esito
di un apprezzamento complessivo del
candidato, in modo che possa dimostrarsi la
ragionevolezza della scelta effettuata che
non può logicamente esaurirsi nel mero
riscontro da parte dei singoli candidati dei
requisiti prescritti dalla legge ma che
importa articolate, delicate e talvolta
addirittura sfumate valutazioni sulla stessa
personalità dei candidati, sulle loro
capacità organizzative, sul loro prestigio
personale e sul prestigio che eventualmente
hanno già conferito agli uffici
precedentemente ricoperti e che
astrattamente sono in grado di assicurare a
quello da ricoprire”.
E se la necessità di una penetrante
motivazione è stata affermata, in
giurisprudenza, per la scelta degli organi
di vertice dell’Amministrazione, a
fortiori la stessa è imprescindibile,
allorquando si tratti di nominare gli
esperti di una commissione che s’inserisce,
sia pur con criteri d’elevata
professionalità e competenza, nell’ambito
dell’esercizio delle ordinarie funzioni
amministrative, attribuite all’ente locale,
nello specifico settore della tutela del
paesaggio.
Si tenga presente, altresì, l’ulteriore
massima che segue: “Alla luce dell'art.
3, comma 2, l. 07.08.1990, n. 241 (che
introduce una espressa eccezione alla
necessità della motivazione per i soli atti
normativi e per quelli a contenuto
generale), la motivazione è requisito
indispensabile di ogni atto amministrativo,
ivi compresi quelli consistenti in
manifestazioni di giudizio interni a
procedimenti concorsuali o para-concorsuali,
nell’ambito dei quali, anzi, la motivazione
svolge un precipuo ruolo pregnante, quale
fattore di esternazione dell’iter logico
delle determinazioni assunte dalle
commissioni esaminatrici in esercizio
dell’amplissima discrezionalità loro
riconosciuta, ai fini dell’esercizio del
diritto di difesa in giudizio. Di
conseguenza anche per gli atti di alta
amministrazione a valenza fiduciaria non è
affatto escluso l'obbligo di motivazione,
essendo chiuso nel sistema, dopo l'entrata
in vigore della l. n. 241 del 1990, ogni
spazio per la categoria dei provvedimenti
amministrativi c.d. a motivo libero. Anche
allorché, quindi, si debbano adottare atti
di nomina di tipo fiduciario,
l'Amministrazione deve indicare le qualità
professionali sulla base delle quali ha
ritenuto il soggetto più adatto rispetto
agli obiettivi programmati, dimostrando di
aver compiuto un'attenta e seria valutazione
del possesso dei requisiti prescritti in
capo al soggetto prescelto, sì che risulti
la ragionevolezza della scelta”.
In sostanza, se persino “gli atti di alta
amministrazione a valenza fiduciaria”
non possono essere ritenuti avulsi dal
rispetto dell’obbligo di una motivazione,
congruente con la natura degli atti
medesimi, e se non residua, quindi, più
alcuno spazio per i provvedimenti
amministrativi, cd. a motivo libero (id
est, espressione di discrezionalità
assoluta), ne consegue che ogni qual volta,
come nella specie, si tratti d’effettuare
una scelta tra più candidati, ognuno dei
quali dotato di specifiche competenze ed
attitudini a ricoprire l’incarico, cui
aspira (come emergenti dai rispettivi
curricula) –incarico, si ripete,
compreso nell’ambito delle ordinarie
attribuzioni dell’ente locale, sia pur di
natura settoriale– non può prescindersi, a
maggior ragione, da una motivazione, di tipo
analitico–comparativo, tendente
all’emersione delle ragioni della scelta di
uno soltanto dei candidati in questione, e
dalla quale, in particolare, s’evincano le
ragioni per le quali lo stesso sia
considerato il più adatto a rivestire la
medesima carica.
---------------
Il Comune, costituitosi in giudizio, eccepisce
l’inammissibilità e, comunque, sostiene
l’infondatezza delle censure attoree, posto
che:
- nell’avviso pubblico,
con il quale l’ente aveva chiesto una
manifestazione d’interesse, ai fini della
nomina a componente della Commissione Locale
per il Paesaggio, nel rispetto del D.Lgs.
42/2004 e delle leggi regionali n. 16/2004 e
10/1982, era precisato che non veniva
indetta alcuna procedura concorsuale, para-concorsuale, gara di appalto o trattativa
privata e di conseguenza non sarebbe stata
stilata alcuna graduatoria, né attribuiti
punteggi o classificazioni di merito e che
il richiesto curriculum vitae aveva “il
solo scopo di manifestare la disponibilità
all’assunzione della nomina, il possesso
delle condizioni richieste e la
conoscibilità dei soggetti disponibili ad
assumere l’incarico”; inoltre,
- nella
domanda di manifestazione d’interesse,
presentata e sottoscritta dal ricorrente, si
leggeva testualmente: “(...) di aver
preso visione integrale e acquisito piena
conoscenza dell’avviso pubblico esplorativo
per la presentazione delle candidature per
selezione dei componenti della Commissione
Locale per il paesaggio ed in particolare
per quanto concerne la disciplina della
composizione, durata, attribuzioni e
funzionamento della Commissione e della
determinazione stessa per quanto concerne le
modalità e i criteri di selezione delle
candidature, con accettazione delle
condizioni ed impegni conseguenti (…)”.
Invero, la censura de qua non può affatto
reputarsi inammissibile.
In particolare, l’eccepita inammissibilità
non può farsi discendere dalla precisazione,
contenuta nell’avviso pubblico, “che non veniva indetta
alcuna procedura concorsuale, para
concorsuale, gara di appalto o trattativa
privata” e che, di conseguenza, “non
sarebbe stata stilata alcuna graduatoria, né
attribuiti punteggi o classificazioni di
merito”, laddove il richiesto “curriculum
vitae” aveva “il solo scopo di
manifestare la disponibilità all’assunzione
della nomina, il possesso delle condizioni
richieste e la conoscibilità dei soggetti
disponibili ad assumere l’incarico”.
Ciò, in quanto la suddetta precisazione non
può incidere, in alcun modo, sulla
necessità, sopra evidenziata, di rispettare,
comunque, il generale canone della
motivazione degli atti amministrativi, ogni
qual volta si tratti di effettuare una
selezione tra più aspiranti al medesimo
incarico, per quanto fiduciario; del resto,
la stessa precisazione è anche intimamente
contraddittoria, nella misura in cui viene
ivi specificato che il curriculum vitae
tendeva al fine di verificare –nei
candidati– “il possesso delle condizioni
richieste”, espressione circa la quale
non possono sorgere equivoci e che, di per
se stessa, implica l’effettuazione di
un’analisi dei curricula medesimi,
tendente a controllare l’idoneità dei
candidati a svolgere le funzioni, connesse
all’espletamento dell’incarico.
Come precisato in giurisprudenza, infatti,
anche nel caso in esame trova spazio una
tipica fase procedimentale amministrativa,
volta alla “verifica dell’esperienza e
della capacità professionale” di coloro
che hanno ritenuto di dover rispondere
all’avviso pubblico, destinata a sfociare in
una scelta motivata della persona da
designare.
Ne deriva l’irrilevanza
della circostanza per cui, nella
manifestazione d’interesse, presentata dal
ricorrente, si leggeva: “(...) di aver
preso visione integrale e acquisito piena
conoscenza dell’avviso pubblico esplorativo
per la presentazione delle candidature per
selezione dei componenti della Commissione
Locale per il paesaggio”, e ciò proprio
per le ragioni, dianzi esposte,
dell’assoluta non interferenza della
precisazione suddetta, con la disciplina
generale, dettata dall’art. 3 della l.
241/1990.
Pertanto la convinzione, espressa dalla sua
difesa del ricorrente, che il Comune avesse
adottato l’atto gravato “solo a seguito
di un’adeguata istruttoria, mediante l’esame
e la verifica dei curricula inviati, dai
quali certamente ha potuto verificare
l’idoneità dei partecipanti”, assume
piuttosto la valenza di un atto fideistico,
posto che l’effettuazione di tale adeguata
istruttoria non si ricava affatto, dagli
atti a disposizione del Collegio.
---------------
... per l’annullamento, previa sospensione:
A) della deliberazione della Commissione Straordinaria del Comune
di Scafati n. 123 del 13.12.2018,
successivamente conosciuta, nella parte in
cui reca la nomina del componente esperto in
“Legislazione Beni Culturali”;
B) ove e per quanto occorra, dell’avviso pubblico prot. n. 53968
del 09.10.2018, per la presentazione delle
candidature;
C) di tutti gli atti demandati, in base alla delibera di cui sopra
sub A), al Responsabile del Settore V, ove
intervenuti e comunque mai comunicati né
altrimenti conosciuti;
...
Il ricorrente, premesso che:
- il Comune di Scafati, con atto prot. n. 53968 del 09.10.2018,
pubblicava l’avviso “Candidature per la
nomina dei membri della Commissione Locale
per il Paesaggio” per 5 esperti nelle
seguenti materie “a. beni ambientali; b.
storia dell’arte, discipline pittoriche ed
arti figurative; c. discipline agricole,
forestali e naturalistiche; d. discipline
storiche; e. legislazione dei beni culturali.”;
- l’avviso disponeva che la nomina dei componenti sarebbe avvenuta,
da parte della Commissione Straordinaria,
con i poteri del Consiglio comunale, sulla
base del curriculum presentato, prevedendo,
tra l’altro, dei titoli preferenziali
riferiti a: - professionisti iscritti agli
Albi professionali; - professori,
ricercatori e/o esperti in determinate
materie tra cui “beni ambientali”, “beni
culturali” e “legislazione dei beni
culturali ambientali e paesaggistici”; -
dipendenti pubblici responsabili di una
struttura organizzativa per non meno di 3
anni in materia paesaggistica e ambientale;
- essendo in possesso dei requisiti prescritti, presentava la
propria candidatura il 15.10.2018 (prot. n.
55350), per esperto in “legislazione dei
beni culturali”, allegando la
documentazione richiesta, tra cui il
curriculum vitae, ed indicando, come
prescritto dall’avviso di partecipazione,
quali titoli preferenziali: a) l’iscrizione
all’Ordine degli Avvocati, b) la nomina di
esperto di “legislazione dei beni
culturali” nella CLP presso il Comune di
Battipaglia, c) gli studi in diritto e
legislazione ambientale per il diploma
post-laurea presso la Scuola di
specializzazione in “Diritto
amministrativo e Scienza
dell’Amministrazione” dell’Università
Federico II di Napoli;
- a seguito della delibera della Commissione Straordinaria n. 123
del 13.12.2018, di nomina dei 5 componenti
della CLP, con istanza ex l. n. 241/1990 del
18.12.2018, chiedeva di avere copia: 1)
dell’istanza di ammissione alla procedura,
in una a tutti i documenti in essa allegati,
del componente della CLP nominato quale
esperto in “legislazione dei beni
culturali”; 2) di tutti gli atti
afferenti la valutazione comparativa
all’uopo effettuata, ivi compresi quelli
istruttori;
tanto premesso, e a seguito dell’accesso
agli atti, in data 22.01.2019, riteneva che
la delibera impugnata fosse palesemente
illegittima, per i seguenti motivi:
I) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI
ARTT. 146 E 148 D.LGS. 22.01.2004, N. 42; 3
DEL REGOLAMENTO PER LA COMMISSIONE LOCALE
PER IL PAESAGGIO DEL COMUNE DI SCAFATI; 3,
L. 07.08.1990 N. 241, 9 E 97 COST., 1 E SS.
ALLEGATO 1 L.R.C. 23.02.1982, n. 10. ECCESSO
DI POTERE PER CARENZA ASSOLUTA DI
ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE, VIOLAZIONE DEL
GIUSTO PROCEDIMENTO, ILLOGICITÀ E
TRAVISAMENTO. SVIAMENTO:
● dalla documentazione acquisita in sede di accesso, che esibiva,
risultava che la nomina dell’esperto in “legislazione
dei beni culturali” era avvenuta, senza
la benché minima comparazione tra le varie
candidature pervenute; infatti, agli atti
della pratica, mostrata in visione, risulta
la sola delibera impugnata, che non reca
alcuna ragione della scelta compiuta,
sebbene nella materia prescelta dal
ricorrente fossero state presentate 5
candidature; che, essendo noto l’avviso del
G.A. secondo cui, anche in caso di nomina di
componenti onorari, la procedura non si
sottrae ad un’indefettibile comparazione tra
i vari candidati, sulla scorta del
rispettivo bagaglio professionale e di
esternazione della motivazione circa la
scelta, in concreto, effettuata (citava
giurisprudenza a sostegno);
● si presentava, quindi, del tutto recessivo il “dato atto”,
contenuto nella delibera impugnata, secondo
cui l’avviso pubblico –che comunque
impugnava– era finalizzato al solo scopo di
“manifestare la disponibilità
all’assunzione della nomina, il possesso dei
requisiti, non essendo stata posta in essere
alcuna procedura concorsuale,
para-concorsuale, gara d’appalto o di
graduatoria, attribuzione di punteggi o
altre classificazioni di merito”, atteso
che tale assunto non poteva assorbire
–qualora inteso in termini di
discrezionalità assoluta– l’onere, gravante
sulla P.A., di dare contezza della scelta,
in concreto effettuata;
● appariva, del resto, evidente anche il contrasto con il Regolamento
che, all’art. 3, richiama per la nomina
della C.L.P. la “procedura ad evidenza
pubblica” (era citata ulteriore
giurisprudenza, a conforto);
● per quanto riguardava poi, in particolare, il professionista
prescelto, “questi oltre a non aver
indicato alcun titolo preferenziale, dal suo
curriculum si evince che è sostanzialmente
versato nel settore edilizio e delle opere
pubbliche, non offrendo alcun apprezzabile
elemento di esperienza e/o valutazione
nell’ambito della disciplina, per la quale
ha proposto la candidatura, e più in
generale, nella materia paesaggistica”;
parimenti dicasi con riferimento agli
incarichi assolti dal medesimo presso le
PP.AA., quale componente di Commissioni
edilizie ordinarie o di quelle ex l. n.
219/1981;
● pure, la delega della funzione autorizzatoria nella materia
paesaggistica, ex art. 146, c. VI, D.Lgs. n.
42/2004, è espressamente condizionata alla
circostanza che “(…) gli enti destinatari
della delega dispongano di strutture in
grado di assicurare un adeguato livello di
competenze tecnico-scientifiche nonché di
garantire la differenziazione tra attività
di tutela paesaggistica ed esercizio di
funzioni amministrative in materia
urbanistico-edilizia”; e il ricorrente
aveva, appunto, indicato e documentato sia i
titoli preferenziali, sia il suo bagaglio
professionale, versato nell’ambito sia della
disciplina per la quale ha chiesto la nomina
per la C.L.P., sia del più ampio settore
giuridico-amministrativo in cui è
naturalmente attratta la disciplina in
parola; del resto, la disciplina, prescelta
per la candidatura era la “Legislazione
Beni Culturali”, la quale “appare
propria del settore giuridico piuttosto che
di quello tecnico-ingegneristico”,
sicché, a fortiori, la scelta operata
non poteva essere condivisa;
● veniva pertanto in rilievo “la violazione delle disposizioni sia
di legge (nazionale e regionale), intese ad
assicurare le giuste professionalità
(“soggetti con particolare, pluriennale e
qualificata esperienza nella tutela del
paesaggio”, ex art. 148 D.Lgs. n. 42/2004),
sia di quelle dettate dal Regolamento
interno e dall’Avviso pubblico, che ripetono
pedissequamente dalle prime, intese “a
garantire che, in sede di “vaglio delle
candidature”, le competenze e
professionalità nella C.L.P. “sono
armonicamente equilibrate per garantire una
interdisciplinarietà come previsto dalla LR
10/1982 e dalla circolare regionale” (cfr.
Regolamento e Avviso pubblico)”.
Si costituiva in giudizio il Comune di
Scafati, con memoria in cui eccepiva
l’inammissibilità e, comunque, sosteneva
l’infondatezza delle censure attoree, posto
che nell’avviso pubblico del 09.10.2018,
con il quale l’ente aveva chiesto una
manifestazione d’interesse, ai fini della
nomina a componente della Commissione Locale
per il Paesaggio, nel rispetto del D.Lgs.
42/2004 e delle leggi regionali n. 16/2004 e
10/1982, era precisato che non veniva
indetta alcuna procedura concorsuale, para-concorsuale, gara di appalto o trattativa
privata e di conseguenza non sarebbe stata
stilata alcuna graduatoria, né attribuiti
punteggi o classificazioni di merito e che
il richiesto curriculum vitae aveva “il
solo scopo di manifestare la disponibilità
all’assunzione della nomina, il possesso
delle condizioni richieste e la
conoscibilità dei soggetti disponibili ad
assumere l’incarico”; inoltre, nella
domanda di manifestazione d’interesse,
presentata e sottoscritta dal ricorrente, si
leggeva testualmente: “(...) di aver
preso visione integrale e acquisito piena
conoscenza dell’avviso pubblico esplorativo
per la presentazione delle candidature per
selezione dei componenti della Commissione
Locale per il paesaggio ed in particolare
per quanto concerne la disciplina della
composizione, durata, attribuzioni e
funzionamento della Commissione e della
determinazione stessa per quanto concerne le
modalità e i criteri di selezione delle
candidature, con accettazione delle
condizioni ed impegni conseguenti (…)”;
era, quindi, “evidente che il Comune di
Scafati, solo a seguito di un’adeguata
istruttoria, mediante l’esame e la verifica
dei curricula inviati, dai quali certamente
ha potuto verificare l’idoneità dei
partecipanti, e nel pieno dei propri poteri
discrezionali ha adottato l’atto gravato”.
...
Fondata e dirimente, con assorbimento delle
ulteriori doglianze, si presenta, in
particolare, la censura, impingente nel
difetto di qualsivoglia motivazione, a
sostegno della designazione del
controinteressato, quale esperto in
“legislazione dei beni culturali”.
Se si scorre, infatti, il testo della
deliberazione della Commissione
Straordinaria del Comune di Scafati, oggetto
di gravame, s’apprende che la stessa
Commissione, agente con i poteri del
Consiglio Comunale, “Dato atto (…) che
alla scadenza dell’avviso pubblico, sulla
scorta delle candidature pervenute,
l’ufficio tecnico ha compiuto l’istruttoria
delle domande ad ha predisposto l’elenco
sulla base dei titoli dichiarati da ciascun
partecipante distinti per categorie, come
segue (omissis)”; “Ritenuto dover
nominare i componenti della Commissione
Locale per il Paesaggio con le modalità di
cui alla citata Legge Regionale n. 10/1982 e
come chiarito dalla Circolare esplicativa
della Regione Campania prot. 2011.0602279
del 02.08.2011”, proponeva di deliberare
“per le motivazioni di cui in premessa,
parte integrante e sostanziale della
seguente proposta di delibera;
a) la costituzione della nuova Commissione Locale del Paesaggio, in
sostituzione della precedente decaduta,
secondo la composizione e i Criteri dettati
dall’allegato I della L.R. 10/1982, la quale
stabilisce, tra l’altro, la nomina di cinque
membri esperti esterni in materia
urbanistica, beni ambientali, storia
dell’arte, geografia, discipline
agricolo–forestali, naturalistiche,
storiche, pittoriche ed arti figurative e
legislazione beni culturali, e, per
l’effetto,
b) la nomina dei componenti della Commissione Locale per il
Paesaggio, con le modalità di cui alla
citata Legge Regionale n. 10/1982 e come
chiarito dalla Circolare esplicativa della
Regione Campania prot. 2011,0602279 del
02.08.2011, tra i soggetti ammessi alla
procedura indicati in premessa”;
quindi, sulla scorta di tale proposta, la
Commissione medesima, sempre agente con i
poteri del C.C., approvava la detta proposta
di deliberazione (…) e per l’effetto
nominava componenti della Commissione Locale
per il Paesaggio, prevista dall’art. 148 del
d.lgs. 42/2004 e ss. mm. ii., i seguenti
professionisti esterni, ciascuno esperto
nella materia, a fianco, riportata: (…) ing.
Fr.Co.Ci. – esperto in materia “Legislazione
Beni Culturali” (…).
Come può agevolmente notarsi, la
designazione del controinteressato, quale
esperto nella prefata materia, è stata
compiuta, dalla Commissione Straordinaria,
senza l’esplicitazione della benché minima
giustificazione, circa la sua idoneità a
ricoprire l’incarico in questione, nonché
senza alcuna valutazione delle sue
specifiche competenze, ovvero delle
professionalità acquisite, quali ricavabili
dal curriculum presentato, e, ancora, senza
l’espressione d’alcun giudizio, di tipo
analitico–comparativo, rispetto ai
curricula ed alle specifiche competenze
e professionalità degli altri professionisti
che, come il ricorrente, avevano manifestato
il loro interesse, a rivestire la carica di
componente della Commissione Locale per il
Paesaggio, in qualità di esperti in “legislazione
dei beni culturali” (in totale, come si
ricava dall’elenco, contenuto nella proposta
di deliberazione de qua, sette
professionisti, compresi il ricorrente e il
controinteressato).
Un tale modo di operare, tuttavia, si pone,
ad avviso del Collegio, in netto contrasto
con l’obbligo generale di motivazione degli
atti amministrativi, sancito dall’art. 3
della l. 241/1990, obbligo cui l’atto in
questione, espressione di una scelta,
esercitata dalla predetta Commissione nel
contesto di poteri amministrativi ordinari,
per quanto settoriali, non poteva
evidentemente sottrarsi.
Viene in rilievo, a conforto di quanto sopra
argomentato, la giurisprudenza seguente: “Se
pure, in linea generale, le designazioni
degli organi di vertice delle
Amministrazioni si configurano come
provvedimenti da adottare in base a criteri
eminentemente fiduciari, riconducibili
nell'ambito degli atti di alta
amministrazione, in quanto sono espressione
della potestà di indirizzo e di governo
delle autorità preposte alle Amministrazioni
stesse, si deve osservare nondimeno che il
singolo provvedimento di nomina deve esporre
le ragioni che hanno condotto alla nomina di
uno di essi, comportando una scelta
nell'ambito di una categoria di determinati
soggetti in possesso di titoli specifici. In
altre parole, la motivazione della scelta
-sia pure effettuata latamente "intuitu
personae"- deve comunque ancorarsi all'esito
di un apprezzamento complessivo del
candidato, in modo che possa dimostrarsi la
ragionevolezza della scelta effettuata che
non può logicamente esaurirsi nel mero
riscontro da parte dei singoli candidati dei
requisiti prescritti dalla legge ma che
importa articolate, delicate e talvolta
addirittura sfumate valutazioni sulla stessa
personalità dei candidati, sulle loro
capacità organizzative, sul loro prestigio
personale e sul prestigio che eventualmente
hanno già conferito agli uffici
precedentemente ricoperti e che
astrattamente sono in grado di assicurare a
quello da ricoprire” (TAR Lazio–Roma,
Sez. I, 05/03/2012, n. 2223).
E se la necessità di una penetrante
motivazione è stata affermata, in
giurisprudenza, per la scelta degli organi
di vertice dell’Amministrazione, a
fortiori la stessa è imprescindibile,
allorquando si tratti di nominare gli
esperti di una commissione che s’inserisce,
sia pur con criteri d’elevata
professionalità e competenza, nell’ambito
dell’esercizio delle ordinarie funzioni
amministrative, attribuite all’ente locale,
nello specifico settore della tutela del
paesaggio.
Si tenga presente, altresì, l’ulteriore
massima che segue: “Alla luce dell'art.
3, comma 2, l. 07.08.1990, n. 241 (che
introduce una espressa eccezione alla
necessità della motivazione per i soli atti
normativi e per quelli a contenuto
generale), la motivazione è requisito
indispensabile di ogni atto amministrativo,
ivi compresi quelli consistenti in
manifestazioni di giudizio interni a
procedimenti concorsuali o para-concorsuali,
nell’ambito dei quali, anzi, la motivazione
svolge un precipuo ruolo pregnante, quale
fattore di esternazione dell’iter logico
delle determinazioni assunte dalle
commissioni esaminatrici in esercizio
dell’amplissima discrezionalità loro
riconosciuta, ai fini dell’esercizio del
diritto di difesa in giudizio. Di
conseguenza anche per gli atti di alta
amministrazione a valenza fiduciaria non è
affatto escluso l'obbligo di motivazione,
essendo chiuso nel sistema, dopo l'entrata
in vigore della l. n. 241 del 1990, ogni
spazio per la categoria dei provvedimenti
amministrativi c.d. a motivo libero. Anche
allorché, quindi, si debbano adottare atti
di nomina di tipo fiduciario,
l'Amministrazione deve indicare le qualità
professionali sulla base delle quali ha
ritenuto il soggetto più adatto rispetto
agli obiettivi programmati, dimostrando di
aver compiuto un'attenta e seria valutazione
del possesso dei requisiti prescritti in
capo al soggetto prescelto, sì che risulti
la ragionevolezza della scelta” (TAR
Lazio–Roma, Sez. I, 08/09/2014, n. 9505;
conformi: TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I,
18.01.2016, n. 15; Consiglio di Stato, Sez.
VI, 19.10.2009, n. 6388).
In sostanza, se persino “gli atti di alta
amministrazione a valenza fiduciaria”
non possono essere ritenuti avulsi dal
rispetto dell’obbligo di una motivazione,
congruente con la natura degli atti
medesimi, e se non residua, quindi, più
alcuno spazio per i provvedimenti
amministrativi, cd. a motivo libero (id
est, espressione di discrezionalità
assoluta), ne consegue che ogni qual volta,
come nella specie, si tratti d’effettuare
una scelta tra più candidati, ognuno dei
quali dotato di specifiche competenze ed
attitudini a ricoprire l’incarico, cui
aspira (come emergenti dai rispettivi
curricula) –incarico, si ripete,
compreso nell’ambito delle ordinarie
attribuzioni dell’ente locale, sia pur di
natura settoriale– non può prescindersi, a
maggior ragione, da una motivazione, di tipo
analitico–comparativo, tendente
all’emersione delle ragioni della scelta di
uno soltanto dei candidati in questione, e
dalla quale, in particolare, s’evincano le
ragioni per le quali lo stesso sia
considerato il più adatto a rivestire la
medesima carica.
Ne deriva che la censura, esposta in
ricorso, non può affatto reputarsi
inammissibile, come eccepito dalla difesa
del Comune di Scafati, nella memoria in
atti.
In particolare, l’eccepita inammissibilità
non può farsi discendere dalla precisazione,
contenuta nell’avviso pubblico, prot. 53968
del 09.10.2018, “che non veniva indetta
alcuna procedura concorsuale, para
concorsuale, gara di appalto o trattativa
privata” e che, di conseguenza, “non
sarebbe stata stilata alcuna graduatoria, né
attribuiti punteggi o classificazioni di
merito”, laddove il richiesto “curriculum
vitae” aveva “il solo scopo di
manifestare la disponibilità all’assunzione
della nomina, il possesso delle condizioni
richieste e la conoscibilità dei soggetti
disponibili ad assumere l’incarico”.
Ciò, in quanto la suddetta precisazione non
può incidere, in alcun modo, sulla
necessità, sopra evidenziata, di rispettare,
comunque, il generale canone della
motivazione degli atti amministrativi, ogni
qual volta si tratti di effettuare una
selezione tra più aspiranti al medesimo
incarico, per quanto fiduciario; del resto,
la stessa precisazione è anche intimamente
contraddittoria, nella misura in cui viene
ivi specificato che il curriculum vitae
tendeva al fine di verificare –nei
candidati– “il possesso delle condizioni
richieste”, espressione circa la quale
non possono sorgere equivoci e che, di per
se stessa, implica l’effettuazione di
un’analisi dei curricula medesimi,
tendente a controllare l’idoneità dei
candidati a svolgere le funzioni, connesse
all’espletamento dell’incarico.
Come precisato in giurisprudenza, infatti,
anche nel caso in esame trova spazio una
tipica fase procedimentale amministrativa,
volta alla “verifica dell’esperienza e
della capacità professionale” di coloro
che hanno ritenuto di dover rispondere
all’avviso pubblico, destinata a sfociare in
una scelta motivata della persona da
designare.
Ne deriva l’irrilevanza –ai fini del
giudizio circa l’ammissibilità del gravame–
della circostanza per cui, nella
manifestazione d’interesse, presentata dal
ricorrente, si leggeva: “(...) di aver
preso visione integrale e acquisito piena
conoscenza dell’avviso pubblico esplorativo
per la presentazione delle candidature per
selezione dei componenti della Commissione
Locale per il paesaggio”, e ciò proprio
per le ragioni, dianzi esposte,
dell’assoluta non interferenza della
precisazione suddetta, con la disciplina
generale, dettata dall’art. 3 della l.
241/1990.
Pertanto la convinzione, espressa dalla sua
difesa, che il Comune di Scafati avesse
adottato l’atto gravato “solo a seguito
di un’adeguata istruttoria, mediante l’esame
e la verifica dei curricula inviati, dai
quali certamente ha potuto verificare
l’idoneità dei partecipanti”, assume
piuttosto la valenza di un atto fideistico,
posto che l’effettuazione di tale adeguata
istruttoria non si ricava affatto, dagli
atti a disposizione del Collegio
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 18.03.2019 n. 406 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Al riguardo si legga anche:
●
Nomina dell’esperto nella Commissione locale
per il Paesaggio: motivazione e comparazione
dei candidati (01.05.2019
- link a www.mauriziolucca.com).
...
La II sez. Salerno del TAR Campania, con la
sentenza n. 406 del 18.03.2019, interviene
nel definire la procedura per individuare
l’esperto in “Legislazione Beni Culturali”,
a seguito di avviso pubblico su
presentazione di appositi titoli
professionali ed anche preferenziali, quali
quelli riferiti alle materie dei beni
culturali, ambientali e paesaggistici o con
esperienza (per non meno di tre anni e nelle
stesse materie) in ambito della Pubblica
Amministrazione. (…continua). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Il provvedimento di nomina
del difensore civico si fonda su di un
rapporto di carattere fiduciario ma ciò non dispensa l’amministrazione
procedente dall’obbligo di esplicitare le
ragioni che l’hanno indotta a privilegiare,
tra più candidati, un aspirante rispetto
agli altri.
Fondato è il motivo con
cui si allega l’inadeguatezza motivazionale
del decreto impugnato nella prospettiva
della mancata “comparazione” (in senso atecnico) tra i requisiti di competenza,
esperienza e professionalità posseduti dal
dott. Bi. e dal dott. Fo.,
limitandosi il provvedimento alla mera
enunciazione del curriculum del nominato,
recante peraltro titoli almeno in parte
contestati ex adverso.
Osserva il Collegio che il profilo della
valutazione tra i candidati discende dalle
previsioni legislative applicabili, per le
quali le nomine a pubblici incarichi di
competenza della Regione Campania sono
effettuate con riferimento ai “requisiti
di competenza, esperienza e professionalità
dei candidati prescelti in relazione ai fini
ed agli indirizzi da perseguire negli Enti”
(art. 1, comma 1, l.r. n. 17 del 1996), e
che il difensore civico «deve essere
scelto fra persone munite di peculiare
competenza giuridico-amministrativa»
(art. 8 l.r. n. 23 del 1978).
Il decreto impugnato nemmeno consente una
sommaria raffrontabilità dei requisiti di
competenza giuridico-amministrativa dei
candidati alla carica di difensore civico
regionale.
E’ pur vero che il provvedimento di nomina
del difensore civico si fonda su di un
rapporto di carattere fiduciario, ma è
caratteristica che non dispensa, come
afferma la giurisprudenza, l’amministrazione
procedente dall’obbligo di esplicitare le
ragioni che l’hanno indotta a privilegiare,
tra più candidati, un aspirante rispetto
agli altri.
In altri termini, non occorre una rigorosa
comparazione tra i requisiti dei singoli
candidati, con conseguente motivazione
puntuale e specifica, come se si trattasse
di un procedimento concorsuale: il
provvedimento di nomina piuttosto deve dar
conto del fatto che i differenti requisiti
di competenza, esperienza e professionalità
siano stati valutati in relazione al fine da
perseguire.
---------------
1.- Il dott. Fo.Gi. chiede l’ottemperanza
della sentenza di questa V Sezione
17.02.2015, n. 807 (con declaratoria della
nullità del d.P.C.R. della Campania n. 25
del 09.03.2015, asseritamente adottato in
violazione del giudicato) di accoglimento
dell’appello esperito dalle controparti
avverso la sentenza del Tribunale
amministrativo regionale per la Campania,
sez. I, n. 985 del 2014, cui è conseguito
l’esame dei motivi dichiarati assorbiti in
primo grado, e l’accoglimento del ricorso di
primo grado, proposto dall’esponente, con
conseguente annullamento (sotto altro
profilo) del decreto (n. 81 del 26.03.2013)
di nomina del dott. Bi. a difensore civico
regionale.
2. – Egli allega che, nonostante la portata
della sentenza, la Regione Campania, con il
d.P.C.R. n. 25 del 09.03.2015, ha inteso
nominare nuovamente il dott. Bi. quale
difensore civico.
A sostegno del ricorso egli deduce tre
motivi di diritto, incentrati sul difetto di
motivazione del decreto di nomina (i
requisiti del candidato avrebbero dovuto
essere motivati in relazione alla
peculiarità della competenza richiesta dalla
l.r. n. 23 del 1978, e sarebbe stata
necessaria una comparazione tra i requisiti
posseduti dal dott. Bi. e quelli del dott.
Fo.), sul difetto di istruttoria (non avendo
l’Amministrazione verificato l’assenza, in
capo al dott. Bi., dei requisiti curriculari
dichiarati nella domanda di partecipazione),
nonché sulla irragionevolezza della scelta
(stante la non comparabilità tra i requisiti
del nominato e quelli specifici del dott.
Fo.).
Il dott. Fo. ha chiesto altresì il
risarcimento del danno da ritardo nella
nomina a difensore civico regionale.
3. - Con successivo atto, depositato in data
07.04.2016, il dott. Fo. ha riassunto il
giudizio di ottemperanza a seguito
dell’ordinanza del Tribunale amministrativo
regionale per la Campania, sez. I, 07.03.2016, n. 1205 che ha dichiarato la propria
incompetenza sul ricorso dal medesimo
proposto avverso il d.P.C.R. n. 25 del
09.03.2015, di nomina, come già esposto, a
difensore civico della Regione Campania del
dott. Bi.Fr., in favore del Consiglio di
Stato in sede di ottemperanza. Con tale
ricorso, mediante il quale si chiede anche
l’annullamento del provvedimento impugnato,
vengono svolte censure sovrapponibili a
quelle contenute nell’atto introduttivo, con
articolazione di ulteriori doglianze,
mediante le quali viene dedotto il vizio di
incompetenza, nell’assunto che questa
appartenga (ai sensi dell’art. 6 della l.r.
Campania n. 23 del 1978) al Consiglio
regionale e non già al Presidente del
medesimo, nonché la violazione dell’art. 6
del d.l. 24.06.2014, n. 90, nella
considerazione che il dott. Bi. è stato
collocato in quiescenza (con il grado di
tenente colonnello dell’Aereonautica),
ragione per cui è precluso dalla norma da
ultimo indicata conferirgli l’incarico di
difensore civico.
4. - Si è costituito in resistenza il dott.
Bi. eccependo l’inammissibilità e comunque
l’infondatezza del ricorso.
...
1.- Rileva anzitutto il Collegio che il
provvedimento del Presidente del Consiglio
regionale della Campania n. 25 in data
09.03.2015 non può ritenersi nullo per
violazione del giudicato di cui alla
sentenza n. 807 del 2015 di questa Sezione.
I limiti oggettivi del giudicato vanno
infatti rinvenuti nell’accertamento della
«radicale assenza di motivazione capace di
giustificare la scelta del Bi. quale
difensore civico. Premesso, infatti, che i
canoni di buon andamento, di trasparenza e
di imparzialità dell’azione amministrativa,
attuati dalla legge 07.08.1990, n. 241,
impongono un’adeguata motivazione anche ad
atti di alta amministrazione di carattere
fiduciario, si deve rimarcare che, nel caso
di specie, l’atto finale e gli atti procedimentali a monte non recano alcuna
indicazione delle ragioni della scelta del
candidato nominato alla stregua della
complessiva valutazione dei requisiti
posseduti in relazione alle mansioni da
svolgere, così rendendo impossibile la
decifrazione dell’iter logico seguito al
fine di pervenire alla soluzione
contestata».
Come noto, la conformazione al giudicato da
parte dell’Amministrazione, al cospetto di
un annullamento giurisdizionale per difetto
di motivazione, conserva uno spazio assai
ampio per il riesercizio dell’attività
amministrativa e valutativa; ciò significa
che se l’Amministrazione elimina il vizio
motivazionale ma adotta un provvedimento
ugualmente non satisfattivo della pretesa,
si ha violazione od elusione del giudicato
solamente allorché l’attività asseritamente
esecutiva dell’Amministrazione risulti
contrassegnata da uno sviamento manifesto,
diretto ad aggirare le prescrizioni
stabilite con il giudicato; diversamente,
viene in rilievo non già una violazione/elusione
del giudicato, ma un’eventuale nuova
illegittimità (in termini, ex multis,
Cons. Stato, VI, 08.04.2016, n. 1402; IV,
18.03.2011, n. 1692).
L’impugnato decreto n. 25 in data 09.03.2015
espone il ragionamento logico-giuridico
sottostante alla decisione di nomina,
riconsiderando la posizione del dott.
Bi., del quale viene, all’esito,
confermata la nomina a difensore civico
regionale.
Deve dunque respingersi l’azione di
ottemperanza al giudicato.
2. - Procedendo alla disamina dell’azione di
annullamento, occorre anzitutto precisare
che non occorre disporre la conversione
dell’azione ai sensi dell’art. 32 Cod. proc.
amm. e secondo le coordinate ermeneutiche di
Cons. Stato, Ad. plen., 15.01.2013, n. 2,
avendo l’appellante già provveduto alla
riassunzione del ricorso a seguito del
provvedimento declinatorio della competenza
da parte del Tribunale amministrativo
regionale della Campania n. 1206 del 2016.
Ciò premesso, con il primo motivo viene
dedotta l’incompetenza del presidente del
Consiglio regionale a provvedere alla nomina
del difensore civico, tale potere spettando
al Consiglio regionale ai sensi dell’art. 3
(Competenze), comma 3, lett. b), l.r.
07.08.1996 n. 17 (Nuove norme per la
disciplina delle nomine e delle designazioni
di competenza della Regione Campania), come
novellata dall’art. 2 della l.r. 13.02.2014,
n. 7.
Il motivo è fondato, quanto meno sotto il
profilo del difetto di motivazione.
Il provvedimento impugnato individua
solamente “motivi di urgenza conseguenti
alla perdurante vacanza dell’ufficio del
difensore civico regionale” che
imporrebbero l’esercizio dei poteri
sostitutivi di cui all’art. 10, comma 2,
l.r. n. 17 del 1996, tenendo conto della
rilevanza sociale della funzione del
difensore civico e del fatto che tali poteri
sarebbero già stati esercitati nel corso del
procedimento.
Sennonché l’invocata disposizione dell’art.
10, comma 2, ha un ambito di operatività
determinato, parametrato alla scadenza della
legislatura (consiliatura) e alle nomine o
designazioni che rivestono carattere di
indifferibilità ed urgenza od al parziale
rinnovo di organi, rispetto ai quali la
mancanza di uno o più componenti impedisca
il funzionamento.
Nel caso di specie non vi è alcun
riferimento alla cornice temporale di fine
consiliatura; inoltre il carattere di
indifferibilità ed urgenza della nomina
viene fatto discendere dalla mera rilevanza
sociale della funzione.
3. - Analogamente fondato è il motivo con
cui si allega l’inadeguatezza motivazionale
del decreto impugnato nella prospettiva
della mancata “comparazione” (in senso atecnico) tra i requisiti di competenza,
esperienza e professionalità posseduti dal
dott. Bi. e dal dott. Fo.,
limitandosi il provvedimento alla mera
enunciazione del curriculum del nominato,
recante peraltro titoli almeno in parte
contestati ex adverso.
Osserva il Collegio che il profilo della
valutazione tra i candidati discende dalle
previsioni legislative applicabili, per le
quali le nomine a pubblici incarichi di
competenza della Regione Campania sono
effettuate con riferimento ai “requisiti
di competenza, esperienza e professionalità
dei candidati prescelti in relazione ai fini
ed agli indirizzi da perseguire negli Enti”
(art. 1, comma 1, l.r. n. 17 del 1996), e
che il difensore civico «deve essere
scelto fra persone munite di peculiare
competenza giuridico-amministrativa»
(art. 8 l.r. n. 23 del 1978).
Il decreto impugnato nemmeno consente una
sommaria raffrontabilità dei requisiti di
competenza giuridico-amministrativa dei
candidati alla carica di difensore civico
regionale.
E’ pur vero che il provvedimento di nomina
del difensore civico si fonda su di un
rapporto di carattere fiduciario, ma è
caratteristica che non dispensa, come
afferma la giurisprudenza, l’amministrazione
procedente dall’obbligo di esplicitare le
ragioni che l’hanno indotta a privilegiare,
tra più candidati, un aspirante rispetto
agli altri.
In altri termini, non occorre una rigorosa
comparazione tra i requisiti dei singoli
candidati, con conseguente motivazione
puntuale e specifica, come se si trattasse
di un procedimento concorsuale: il
provvedimento di nomina piuttosto deve dar
conto del fatto che i differenti requisiti
di competenza, esperienza e professionalità
siano stati valutati in relazione al fine da
perseguire.
Tale esigenza appare tanto più evidente nel
caso in esame, dove la nomina è stata fatta
con provvedimento presidenziale,
nell’esercizio di un potere sostitutivo, non
già dall’organo assembleare attraverso un
meccanismo di tipo elettorale (anche in tale
evenienza è comunque necessaria una prima
fase di verifica idoneativa o, se si vuole,
di prequalifica dei candidati).
4. - L’accoglimento dei motivi esaminati
conduce di per sé all’annullamento del
provvedimento gravato.
Peraltro, per completezza, vale esaminare
anche la quarta censura con cui il
ricorrente deduce la violazione dell’art. 6
(Divieto di incarichi dirigenziali a
soggetti in quiescenza) d.l. 24.06.2014, n.
90 (Misure urgenti per la semplificazione e
la trasparenza amministrativa e per
l'efficienza degli uffici giudiziari),
convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114,
posto che, essendo il dott. Bi. stato
collocato in quiescenza (con il grado di
tenente colonnello), non può attualmente
conseguire l’incarico di difensore civico
regionale.
Anche tale motivo merita condivisione.
Detta norma fa divieto alle amministrazioni
pubbliche di attribuire incarichi di studio
e di consulenza a soggetti già lavoratori
privati o pubblici collocati in quiescenza;
analogamente vieta loro di conferire ai
medesimi incarichi dirigenziali o direttivi
o cariche in organi di governo delle
amministrazioni. Tali incarichi sono
consentiti solamente a titolo gratuito, e
per un periodo non superiore ad un anno.
Non si vedono ragioni per cui la norma, la
cui ratio è evidentemente di favorire
l’occupazione giovanile, non sia riferibile
anche alla nomina a difensore civico
regionale. Non ha rilievo la circostanza che
i tratti di un incarico onorario, perché si
tratta di distinzione non contemplata dalla
legge. Del resto una tale figura è comunque
caratterizzata da un rapporto di ufficio con
attribuzione di funzioni pubbliche, seppure
in assenza di un rapporto di lavoro: ma
questo non risulta necessario presupposto
degli incarichi e collaborazioni cui si
riferisce l’art. 6 del d.l. n. 90 del 2014.
Anche il funzionario onorario fruisce di
indennità e la sua attività non è
ascrivibile nell’ambito di un rapporto a
titolo gratuito, di durata peraltro
superiore all’anno.
5. - In conclusione, alla stregua di quanto
esposto, il ricorso va accolto nei termini
di cui in motivazione con conseguente
annullamento dell’impugnato provvedimento di
nomina.
Va invece disattesa la domanda di
risarcimento del danno da ritardo perché la
pronuncia di annullamento non contiene un
accertamento in ordine alla spettanza del
bene della vita coinvolto dal provvedimento
impugnato (Cons. Stato, V, 10.02.2015,
n. 675). Un siffatto accertamento è
necessario anche per il riconoscimento del
danno da ritardo, il quale non può restare
avulso da una valutazione di merito sulla
spettanza del bene sostanziale della vita, e
va quindi subordinato anche alla
dimostrazione che l’aspirazione del
provvedimento è comunque destinata a un
esito favorevole (in termini, da ultimo, Cons. Stato, V, 22.09.2016, n. 3920)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.11.2016 n. 4718 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
nomina della commissione per il paesaggio.
La giurisprudenza
amministrativa ha avuto modo di precisare,
più volte, come gli ordini professionali
siano legittimati a difendere in sede
giurisdizionale gli interessi della
categoria dei soggetti di cui abbiano la
rappresentanza istituzionale, sia quando si
assumano violate le norme poste a tutela
della professione, sia quando si tratti di
conseguire determinati vantaggi, sia pure di
carattere puramente strumentale,
giuridicamente riferibili alla intera
categoria, ed anche nell’ipotesi in cui
possa ipotizzarsi astrattamente un conflitto
di interessi tra gli ordini ed i singoli
professionisti beneficiari dell’atto
impugnato, che l’Ordine assume invece essere
lesivo dell’interesse istituzionale della
categoria.
Quanto al supposto conflitto di interessi,
poi, l’eccezione non ha parimenti pregio ove
si consideri che la ricorrenza di tale
conflitto va scrutinata in relazione
all’interesse astrattamente perseguito, non
essendo rilevante il fatto che tale
conflitto ricorra in concreto con alcuni
professionisti od associati.
Nel caso di specie, l’Ordine degli
Architetti Pianificatori Paesaggisti e
Conservatori della Provincia di Salerno,
come esattamente è stato rilevato, include
ex art. 15 dpr n. 380/2001, gli architetti,
i paesaggisti, i pianificatori territoriali
ed i conservatori dei beni architettonici ed
ambientali, cioè figure professionali con
specifiche competenze in materia di
progettazione relativa a beni vincolati e
tutelati paesaggisticamente, ed ha pertanto,
un interesse qualificato alla corretta
attuazione della norma che riserva la scelta
dei membri tra esperti di beni ambientali,
storia dell’Arte, discipline
agricolo-forestale, naturalistica, storiche,
pittoriche, arti figurative e legislazione
dei beni culturali.
---------------
Il requisito dell’esperienza nelle
specifiche materie risulta elemento
necessario ed indispensabile nonché
funzionale a costituire una struttura
specialistica in grado di esprimere, a
livello comunale, una soglia sufficiente di
competenze tecnico-scientifiche integrate
idonee a garantire una valutazione separata
degli aspetti paesaggistici da quelli
urbanistico-edilizi; requisito che
necessariamente deve essere garantito,
quanto meno, anche da un curriculum recante
esplicitazione delle competenze comunque
acquisite, nei settori indicati.
Altresì, “l’esperienza acquisita in impieghi
pubblici, anche di elevata responsabilità,
nel campo -ad esempio- dell’urbanistica,
della protezione ambientale o della
salvaguardia dei beni culturali può avere
sicuramente un valore qualificante pari a
quello del libero professionista, atteso che
la possibilità di nominare anche componenti,
provvisti di curriculum prevalentemente
costituito da pubblici incarichi, consente
di acquisire quelle esperienze e competenze
interdisciplinari necessarie ad arricchire
il livello tecnico-specialistico richiesto
ai componenti della Commissione”.
---------------
... per l'annullamento:
- della delibera del consiglio comunale n. 16/2011 del 02.08.2011 con
la quale si è proceduto alla nomina dei
membri della commissione per il paesaggio,
di cui all’art. 148 d.lgs n. 42/2004 ed
allegato 1 alla l.r.c. 10/1982, in
violazione dell'obbligo di preventivo
accertamento della qualifica di "esperti"
in capo ai soggetti nominati;
- ove occorra, delle delibere del consiglio comunale di Corbara, n.
17/2011 e 22/2011, assunte nella seduta del
30.09.2011, con le quali nel rispondere alle
interrogazioni dei consiglieri, si
confermano implicitamente le nomine,
assumendo come non dovuta alcuna risposta
alla diffida inoltrata dall’Ordine
ricorrente con atto prot. n. 1265/F1-P1_g2
del 15.09.2011;
...
1.- Il ricorso è fondato alla stregua delle
considerazioni che seguono:
2.- E’ controversa nel presente giudizio la
legittimità del provvedimento, in epigrafe
meglio specificato, con il quale il Comune
di Corbara si è determinato alla
designazione dei membri della “Commissione
per il paesaggio” ex art. 148 d.lgs. n.
42/2004, con modalità ritenute assolutamente
illegittime dall’Ordine ricorrente e cioè
senza alcuna previa verifica dell’idoneità
degli stessi a ricoprire la carica di
componenti della citata commissione; in
particolare senza aver provveduto né alla
pubblicazione di un avviso per
l’acquisizione delle candidature, né ad
acquisire le candidature e neppure i
curricula degli interessati per
l’accertamento dei requisiti
tecnico-professionali richiesti dalla legge,
per cui i nominativi dei membri della
Commissione sarebbero emersi solo in sede di
scrutinio, senza alcuna indicazione in
ordine alla competenza specialistica di
ciascuno di essi e della relativa qualifica
professionale, il tutto in aperta violazione
del quadro normativo vigente, così come
esplicitato dalla nota dell’Assessore
regionale all’urbanistica prot. n. 942/SP
del 07.07.2011 e dalla circolare prot. n.
2011.0602279 del 02.08.2011, che rinviano
all’allegato 1 della l.r. n. 10/1982.
2.a.- La tesi attorea è contestata dalla
resistente amministrazione che, nelle
proprie difese, dopo aver eccepito
l’inammissibilità del ricorso per carenza di
legittimazione attiva del ricorrente Ordine,
che, nella specie, avrebbe agito in
potenziale conflitto d’interessi tra i
professionisti rappresentati, ridondando
l’azione proposta contro un proprio
iscritto, assume, nel merito, che l’intera
domanda sarebbe radicata a norme regionali
abrogate, quali, appunto, la l.r.c. n.
10/1982, laddove l’intera materia sarebbe,
all’attualità, disciplinata soltanto dalla
legge statale.
3.- Preliminarmente va respinta l’eccezione
di inammissibilità del ricorso per carenza
di legittimazione dell’Ordine degli
Architetti Pianificatori Paesaggisti e
Conservatori della Provincia di Salerno che,
nella prospettazione dell’amministrazione
comunale, sarebbe legittimato ad agire a
tutela degli interessi dell’intera categoria
professionale.
3.a.- Il rilievo non può essere condiviso.
Ed invero, la giurisprudenza amministrativa
(ex multis Cons. St. n. 2148 del
2011) ha avuto modo di precisare, più volte,
come gli ordini professionali siano
legittimati a difendere in sede
giurisdizionale gli interessi della
categoria dei soggetti di cui abbiano la
rappresentanza istituzionale, sia quando si
assumano violate le norme poste a tutela
della professione, sia quando si tratti di
conseguire determinati vantaggi, sia pure di
carattere puramente strumentale,
giuridicamente riferibili alla intera
categoria, ed anche nell’ipotesi in cui
possa ipotizzarsi astrattamente un conflitto
di interessi tra gli ordini ed i singoli
professionisti beneficiari dell’atto
impugnato, che l’Ordine assume invece essere
lesivo dell’interesse istituzionale della
categoria (cfr. Cons. St. Sez. V 18.12.2009,
n. 8404).
Quanto al supposto conflitto di interessi,
poi, l’eccezione non ha parimenti pregio ove
si consideri che la ricorrenza di tale
conflitto va scrutinata in relazione
all’interesse astrattamente perseguito, non
essendo rilevante il fatto che tale
conflitto ricorra in concreto con alcuni
professionisti od associati (Cons. St. Sez.
VI, 09.02.2009, n. 710).
Nel caso di specie, l’Ordine degli
Architetti Pianificatori Paesaggisti e
Conservatori della Provincia di Salerno,
come esattamente è stato rilevato, include
ex art. 15 dpr n. 380/2001, gli architetti,
i paesaggisti, i pianificatori territoriali
ed i conservatori dei beni architettonici ed
ambientali, cioè figure professionali con
specifiche competenze in materia di
progettazione relativa a beni vincolati e
tutelati paesaggisticamente, ed ha pertanto,
un interesse qualificato alla corretta
attuazione della norma che riserva la scelta
dei membri tra esperti di beni ambientali,
storia dell’Arte, discipline
agricolo-forestale, naturalistica, storiche,
pittoriche, arti figurative e legislazione
dei beni culturali.
4.- Sgombrato il campo dalla menzionata
eccezione, può addivenirsi alla delibazione
della questione di merito, muovendo dalla
ricostruzione del quadro normativo di
riferimento.
4.a.- L’art. 148 d.lgs. n. 42 del 2004,
(Codice dei beni culturali e del paesaggio)
rubricato “Commissioni locali per il
paesaggio” così recita: “Le Regioni
promuovono l’istituzione e disciplinano il
funzionamento delle commissioni per il
paesaggio di supporto ai soggetti ai quali
sono delegate le competenze in materia di
autorizzazioni paesaggistica, ai sensi
dell’articolo 146, comma 6.
Le commissioni …sono composte da soggetti
con particolare, pluriennale e qualificata
esperienza nella tutela del paesaggio”.
Nella Regione Campania, la materia de qua
ha trovato diacronicamente la sua disciplina
dapprima con l’allegato 1 della legge
regionale n. 10/1982 e successivamente con
l’art. 41 della legge regionale n. 16 del
2004, relativa al governo del territorio.
L’art. 41 della citata legge regionale
risultava, ratione temporis, così
formulato:
“1. I comuni, anche in forma associata,
si dotano di strutture, denominate sportelli
urbanistici, ai quali sono affidati i
seguenti compiti:
a) ricezione delle denunce di inizio attività, delle domande per il
rilascio di permessi di costruire e dei
provvedimenti e certificazioni in materia
edilizia;
b) acquisizione di pareri e nulla-osta di competenza di altre
amministrazioni;
c) rilascio dei permessi di costruire, dei certificati di agibilità
e della certificazione in materia edilizia.
Il rilascio di titoli abilitativi
all’attività edilizia avviene mediante un
unico atto comprensivo di autorizzazioni,
nulla-osta, pareri, assensi e di ogni altro
provvedimento di consenso, comunque
denominato, di competenza comunale;
d) adozione dei provvedimenti in materia di accesso ai documenti,
ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241;
e) cura dei rapporti tra l’amministrazione comunale, i privati e le
altre amministrazioni coinvolte nei
procedimenti preordinati all’adozione degli
atti di cui alla lettera c).
2. Nei comuni sprovvisti di commissione
edilizia, le funzioni consultive in materia
paesaggistico-ambientale, attribuite alla
commissione edilizia integrata comunale
dall’allegato alla legge regionale
23.02.1982, n. 10, “Direttive per
l'esercizio delle funzioni amministrative
subdelegate dalla regione Campania ai comuni
con legge regionale 01.09.1981, n. 65 -
Tutela dei beni ambientali”, sono esercitate
da un organo collegiale costituito dal
responsabile dell’ufficio che riveste
preminente competenza nella materia, con
funzioni di presidente, e da quattro esperti
designati dal consiglio comunale con voto
limitato.
3. Nei comuni provvisti di commissione
edilizia, i componenti esperti previsti
dall’allegato alla legge regionale n. 10/82,
sono designati dal consiglio comunale con
voto limitato.”
Oggi, con l’art. 4, comma 1, lett. m), della
legge regionale 05.01.2011 n. 1, la citata
previsione è stata riformulata, non solo con
la modifica del comma 1, che, allo stato, ha
il seguente tenore letterale “I comuni,
anche in forma associata, si dotano di
strutture, denominate sportelli unici per
l'edilizia, alle quali sono affidati i
compiti definiti dal regolamento di
attuazione di cui all'articolo 43-bis”,
ma soprattutto con l’abrogazione dei commi 2
e 3, relativi, rispettivamente, alla
commissione edilizia integrata ed all’organo
collegiale, nonché alla designazione da
parte del consiglio comunale dei componenti
esperti previsti dall’allegato alla legge
regionale n. 10/1982.
4.b.- Successivamente all’avvenuta
abrogazione dei commi 2 e 3 dell’art. 41 l.r. n. 10/1982, l’amministrazione regionale,
dapprima con la nota assessorile prot. n.
942/SP del 07.07.2011 e, poi con la
circolare esplicativa del 02.08.2011, ha
rimarcato, tra l’altro che:
- l’avvenuta abrogazione dei commi 2 e 3 dell’art. 41 della l.r. n.
16/2004 non modifica il regime della delega
già conferita ai Comuni della Campania,
inerente la funzione amministrativa attiva
regionale, volta al rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica;
- è vigente la disciplina di cui all’allegato alla L.R. n. 10/1982,
con le procedure ivi previste per la
istituzione della Commissione Edilizia
Comunale integrata (C.E.C.I.), unitamente
alle specifiche modalità di individuazione,
elezione dei relativi componenti, nonché
della durata della stessa;
- i comuni sprovvisti di commissione edilizia (C.E.) …per poter
continuare ad esercitare la funzione
regionale loro conferita devono istituire,
con deliberazione del consiglio comunale, la
commissione locale per il paesaggio (C.L.P.)
ex art. 148 del d.lgs 22.01.2004 e ss.mm.ii.,
costituita dal responsabile unico del
procedimento …nonché da cinque membri
esperti in materia di beni ambientali, così
come previsti dall’allegato alla L.R. n.
10/1982, con i medesimi criteri ivi
disposti, inerenti la relativa composizione,
nomina e durata.
4.c.- In merito a quanto innanzi riportato,
il Collegio ritiene di non aver obiezioni di
sorta, in specie per quanto attiene alla
immanenza della funzione attiva della
Regione nel rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, giusta indicazione emergente
ex multis dalla recente pronuncia del
Consiglio di Stato n. 2013 del 2012, in
ordine alla competenza ad emettere
autorizzazione paesaggistica, (con
riferimento al riparto di competenze fra
Stato ed Enti locali, di cui agli articoli
117 e seguenti della Costituzione). Con la
citata pronuncia, il Consiglio di Stato ha
ribadito l’attuale assetto delle competenze
in materia, escludendo che potesse
ritenersi, ex art. 96 T.U.E.L., radicato in
capo soltanto all’ente locale “il potere
di effettuare scelte che, nei termini appena
indicati, implicassero il trasferimento ad
un ufficio comunale della competenza ad
emettere autorizzazione paesaggistica,
trattandosi di competenza dello Stato, da
esercitare in concorso con la Regione
interessata o ad essa delegata, per ragioni
di tutela rilevanti per l’intera
collettività e, dunque, non affidabili a
valutazioni effettuate in ambito
strettamente locale" (Cons. St., sez.
VI, 25.05.1996, n. 717; Cons. St., sez. Atti
norm., 13.01.2003, n. 4804; cfr. anche, per
il principio, Corte Cost., 25.07.2011, n.
244).
4.d.- Ad avviso del Collegio neppure il
richiamo alla disciplina di cui all’allegato
alla legge regionale n. 10/1982 suscita
particolari perplessità e ciò anche a
prescindere dalla disamina dell’approccio
ermeneutico più corretto alla natura della
circolare in questione.
Ciò che preme rilevare è che, nella specie,
la Regione ha inteso ribadire le modalità
organizzative dell’organo consultivo alle
quali i Comuni, nell’esercizio della
sub-delega in materia di beni ambientali di
cui all’art. 1 l.r. 01.09.1981 n. 65, sono
tenuti a conformarsi.
Orbene, il citato allegato stabilisce che i
cinque membri sono “nominati dal
Consiglio comunale tra esperti di Beni
Ambientali, Storia dell’Arte, discipline
agricolo forestale, Naturalistica, Storiche,
Pittoriche, Arti figurative e Legislazione
Beni Culturali.
La delibera consiliare di nomina di detti
esperti che dovrà riportare l’annotazione,
per ciascuno di essi, della materia di cui è
esperto…dovrà essere rimessa, per
conoscenza, al Presidente della Giunta
regionale”.
4.e.- Emerge, dunque, dal quadro complessivo
sopra richiamato che il requisito
dell’esperienza nelle citate materie risulta
elemento necessario ed indispensabile nonché
funzionale a costituire una struttura
specialistica in grado di esprimere, a
livello comunale, una soglia sufficiente di
competenze tecnico-scientifiche integrate
idonee a garantire una valutazione separata
degli aspetti paesaggistici da quelli
urbanistico-edilizi; requisito che
necessariamente deve essere garantito,
quanto meno, anche da un curriculum
recante esplicitazione delle competenze
comunque acquisite, nei settori indicati
(vedi, in tale senso, anche Tar Puglia Lecce
n. 878 del 2011, dove si afferma che “l’esperienza
acquisita in impieghi pubblici, anche di
elevata responsabilità, nel campo -ad
esempio- dell’urbanistica, della protezione
ambientale o della salvaguardia dei beni
culturali può avere sicuramente un valore
qualificante pari a quello del libero
professionista, atteso che la possibilità di
nominare anche componenti, provvisti di
curriculum prevalentemente costituito da
pubblici incarichi, consente di acquisire
quelle esperienze e competenze
interdisciplinari necessarie ad arricchire
il livello tecnico-specialistico richiesto
ai componenti della Commissione”).
4.f.- Trasponendo le menzionate acquisizione
al caso in esame, risulta che la resistente
amministrazione ha espressamente richiamato
negli atti impugnati la legge regionale n.
10/1982 con il relativo allegato, nonché la
nota assessorile e la relativa circolare, di
talché non può assumere, in sede
giurisdizionale, a propria difesa,
l’inutilizzabilità dei suddetti
provvedimenti che, in sede amministrativa,
ha dimostrato di voler ergere a regola della
propria azione amministrativa (vedi ex
multis Tar Campania n. 1844 del 2012).
Risulta, altresì, che i nominativi dei
componenti sono emersi solo all’esito della
votazione, in carenza di qualunque
curriculum vitae, o altra indicazione,
utile a dimostrare il possesso dei
requisiti, per cui, l’organo di indirizzo
politico-amministrativo non è stato posto in
grado di annotare l’indicazione della
materia in cui ciascuno di essi deve
stimarsi esperto.
L’error in procedendo in cui è
incorsa l’amministrazione comunale non
risulta suscettibile di essere recuperato
neppure con le successive integrazioni
deliberative, i cui contenuti (vedi
dichiarazione del segretario comunale con la
quale si precisa che “i curricula dei
componenti della Commissione per il
Paesaggio… gli sono stati forniti soltanto
in via informale ed unicamente per procedere
all’identificazione dei membri nominati , ma
non costituiscono allegati alla delibera di
Consiglio comunale che ha provveduto alla
loro nomina”) rimarcano che la scelta
dei componenti della Commissione per il
Paesaggio è avvenuta in violazione del
giusto procedimento tratteggiato dalla
normativa regionale e relativi atti
applicativi richiamati nelle premesse degli
atti impugnati.
Per tutte le suesposte considerazioni, il
ricorso è fondato e va accolto con
l’annullamento degli atti impugnati
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 28.05.2012 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
proposta di nomina a componente di una
commissione è illegittima laddove inficiata
da una totale e assoluta carenza di
motivazione.
Come già ritenuto dal
giudice di appello, l’assenza di ogni e
qualunque motivazione nella proposta di
nomina non può trovare giustificazione nel
fatto che la proposta rientrasse nel novero
degli atti di alta amministrazione, atteso
che tale categoria di atti amministrativi
soggiace, comunque, alla disciplina generale
degli atti amministrativi per i quali non è
ipotizzabile, alla luce di quanto previsto
dagli artt. 24, 97 e 113 della Cost., alcun
vuoto di tutela giurisdizionale.
E invero, per gli atti di nomina
pacificamente si ritiene che “Se pure, in
linea generale, le designazioni degli organi
di vertice delle amministrazioni si
configurano come provvedimenti da adottare
in base a criteri eminentemente fiduciari,
riconducibili nell'ambito degli atti di
“alta amministrazione”, in quanto sono
espressione della potestà di indirizzo e di
governo delle autorità preposte alle
amministrazioni stesse; si deve osservare
nondimeno che il singolo provvedimento di
nomina deve esporre le ragioni che hanno
condotto alla nomina di uno di essi,
comportando una scelta nell'ambito di una
categoria di determinati soggetti in
possesso di titoli specifici.
In altre parole, la motivazione della scelta
–sia pure effettuata latamente "intuitu
personae"– deve comunque ancorarsi
all’esito di un apprezzamento complessivo
del candidato, in modo che possa dimostrarsi
la ragionevolezza della scelta effettuata
che non può logicamente esaurirsi nel mero
riscontro da parte dei singoli candidati dei
requisiti prescritti dalla legge ma che
importa articolate, delicate e talvolta
addirittura sfumate valutazioni sulla stessa
personalità dei candidati, sulle loro
capacità organizzative, sul loro prestigio
personale, e sul prestigio che eventualmente
hanno già conferito agli uffici
precedentemente ricoperti e che
astrattamente sono in grado di assicurare a
quello da ricoprire.
L'obbligo di motivazione a carico della p.a.
deriva inoltre dalla sussistenza, a fronte
della potestà esercitata, di posizioni
soggettive direttamente tutelate
dall'ordinamento; pertanto, anche tale atto
deve essere emanato sulla base di una
conoscenza adeguata dello stato dei fatti,
di un'esatta interpretazione della volontà
della legge e di un soppesamento delle
situazioni soggettive rilevanti”.
Deve ancora aggiungersi che, essendo gli
atti di alta amministrazione formalmente e
sostanzialmente atti amministrativi, essi
sono comunque soggetti all’obbligo di
motivazione, essendo chiuso nel sistema,
dopo l’entrata in vigore della legge n. 241
del 1990, ogni spazio per la categoria dei
provvedimenti amministrativi c.d. a motivo
libero, e posto che la connotazione di un
atto amministrativo come un atto di alta
amministrazione non vale di per sé ad
escludere l'onere di motivazione a carico
dell'Amministrazione.
In aggiunta alle superiori
considerazioni, è da ritenere che nel caso
in esame l'obbligo motivazionale si
imponesse con maggior rigore, dovendo la
motivazione assolvere all'obbligo di rendere
comunque trasparente ed imparziale la scelta
posta in essere dalla P.A., trattandosi di
nomina non preceduta da una qualche
procedura selettiva introdotta da un bando
di partecipazione che provvedesse a
specificare criteri e requisiti
astrattamente predeterminati dalla legge.
Le considerazioni svolte in ordine
all’obbligo di motivazione rendono evidente
il vizio invalidante in cui è incorsa
l’Amministrazione nella procedura di nomina
in contestazione, omettendo ogni motivazione tout court rispetto all’esercizio del potere
effettuato con la proposta, vizio nella
specie aggravato dalla circostanza che il
Ministero procedeva a rettificare la
originaria proposta, sostituendo il
nominativo originario con un altro, senza
motivare né in ordine alla estromissione del
primo soggetto, né in ordine alla scelta del
secondo.
E in una procedura di nomina quale quella
descritta al comma 6, dell’art. 2 del D.Lgs.
n. 261/1999, caratterizzata da una ben
amplia discrezionalità, il sindacato
giurisdizionale, che non può di certo essere
escluso pur dovendo rimanere circoscritto
all'accertamento estrinseco della
legittimità della nomina -cioè al riscontro
dell’esistenza dei presupposti e
dell’esistenza e congruità del nesso logico
di consequenzialità fra presupposti e
conclusione- intanto può svolgersi,
in quanto i criteri seguiti
dall'Amministrazione ai fini della scelta o,
comunque, le ragioni giustificatrici della
stessa, emergano dall’ordito motivazionale
dell’atto.
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1. L’avv. Ma.Fi., odierno esponente,
premette di essere un professionista con
un’amplissima e qualificata esperienza nel
settore della regolazione postale.
A decorrere dall’agosto 2004 è il Direttore
Generale della Direzione Generale per la
Regolamentazione del settore Postale,
istituita presso il Ministero dello Sviluppo
Economico quale Autorità di settore
designata ex lege (art. 2 del d.lgs
261/1999, ante modifiche introdotte dal d.lgs.
58/2011), a seguito della trasposizione
della Direttiva europea 97/67/CE.
Sempre dal 2004 l’odierno esponente è membro
effettivo e rappresentante nazionale in seno
al Comitato Direttiva Postale istituito
presso la Commissione Europea (Direttiva
96/67/CE) e rappresentante nazionale in seno
all’U.P.U., Unione Postale Universale,
operante in ambito O.N.U. per il settore
postale.
2. Con d.lgs n. 58 del 31.03.2011 –che ha
novellato il d.lgs. n. 261 del 22.7.1999- è
stata istituita in Italia l’Agenzia
Nazionale di Regolamentazione del Settore
Postale (di seguito, anche “ANSP” o
“Agenzia”) con funzioni di regolamentazione,
programmazione, controllo e vigilanza del
settore postale.
Ai sensi dell’art. 2, comma 6, del citato
Decreto Legislativo, come novellato, le
funzioni di programmazione, indirizzo
regolazione e controllo nelle materia di
competenza sono affidate ad un Collegio,
costituito da tre membri di cui uno con
funzione di presidente.
Quanto alla procedura di nomina dei
componenti del Collegio, si prevede che essi
siano nominati con decreto del Presidente
della Repubblica, previa deliberazione del
Consiglio dei Ministri, su proposta del
Ministro dello sviluppo economico, previo
parere favorevole delle competenti
Commissioni parlamentari e che “i membri del
Collegio sono scelti tra persone dotate di
indiscusse moralità e indipendenza, alta e
riconosciuta professionalità e competenza
nel settore”.
3. Tanto precisato, il Fi. rappresenta che,
con nota protocollo n. 9489 del 04.05.2011, il Ministro per lo sviluppo economico,
nell’indicare la terna di nominativi per la
designazione a componente del Collegio in
questione, insieme ad altri due nominativi
proponeva anche quello del ricorrente.
Tuttavia, lo stesso giorno il Ministro per
lo sviluppo economico modificava la proposta
sostituendo il suddetto nominativo con
quello dell' Avv. Fr.So. e pertanto la
proposta di composizione del Collegio veniva
riformulata nei mutati termini.
4. Sulla base di tale ultima proposta, il
Consiglio dei Ministri nella riunione n. 138
del 05.05.2011 attivava il procedimento per la
nomina dei componenti del Collegio de qua;
nomina questa che veniva, poi, formalizzata
nella seduta del 09.06.2011.
A seguito di ciò, il Presidente della
Repubblica, con proprio decreto del
14.06.2011, definitivamente disponeva la
nomina dei componenti, tra i quali non
figurava, dunque, l’avv. Fi..
5. Con il ricorso in epigrafe l’odierno
esponente impugna tutti gli atti del
procedimento, deducendone l’illegittimità, e
ne chiede l’annullamento nella parte in cui,
nella terna dei nominativi indicati per la
designazione a componente del Collegio in
questione, poi avvenuta con decreto
presidenziale del 14.06.2011, il ricorrente
è stato pretermesso e sostituito con l’Avv.
Fr.So., odierno controinteressato.
Afferma di avere interesse ad impugnare i
succitati provvedimenti in quanto in
possesso di tutti i requisiti richiesti
dalla legge per la nomina, essendo stato
originariamente contemplato e poi
immotivatamente estromesso.
6. Il ricorrente affida il gravame ad un
unico articolato motivo:
- violazione dell'art. 2, comma 6, del d.lgs. n. 261/1999 e s.m.i.
- violazione degli artt. 3 e 21-octies,
comma 1, della legge n. 241/1990 e s.m.i per
assoluta carenza motivazionale, violazione
ed eccesso di potere, carenza istruttoria,
perplessità dell’azione amministrativa,
violazione del principio di buon andamento,
irragionevolezza, ingiustizia manifesta.
Il contenuto “telegrafico” dell’impugnata
nota prot. n. 9619 del 04.05.2011 non consente
di comprendere per quale motivo il
ricorrente, in possesso di una qualificata e
duratura esperienza riconosciuta e maturata
proprio nel campo della regolamentazione del
settore postale, essendo stato dapprima
individuato ai fini della nomina in
questione, sia stato poi repentinamente
estromesso.
L’illegittimità degli atti impugnati emerge
ancor di più alla luce delle disposizioni
che disciplinano i requisiti richiesti per
la nomina, ed in particolare della
“riconosciuta professionalità e competenza
nel settore”, tutti posseduti dal
ricorrente.
La mutata scelta dell’Organo proponente non
appare inoltre giustificabile alla luce
della nomina effettuata in favore di altro
soggetto, meno titolato del ricorrente
quanto ad esperienza professionale nel
settore.
7. Nel presente giudizio si costituiva la
difesa erariale, in rappresentanza e difesa
della Presidenza della Repubblica, del
Senato della Repubblica, della Camera dei
Deputati, della Presidenza del Consiglio dei
Ministri e del Ministero dello Sviluppo
Economico, che chiedeva il rigetto del
gravame nel merito; in via preliminare, la
stessa eccepiva: il difetto assoluto di
giurisdizione, ai sensi dell’art. 7, comma
1, del c.p.a., per i pareri espressi dalle
Commissioni parlamentari sulle designazioni
effettuate dal Governo nella procedura di
nomina de qua; la carenza di interesse del
ricorrente i quale, in assenza di una
procedura concorsuale e di una commissione
esaminatrice, sarebbe portatore di un mero
interesse di fatto, che non lo abiliterebbe
a sindacare il merito di una scelta adottata
nel rispetto delle previste procedure.
8. Per resistere al ricorso in epigrafe si
costituiva, altresì, l’avv. Fr.So., che in
via pregiudiziale eccepiva l’inammissibilità
del ricorso sotto i seguenti profili:
- per difetto assoluto di giurisdizione, in quanto la nomina
gravata sarebbe un atto politico sottratto
al sindacato giurisdizionale e, ove pure
essa concretasse un atto di alta
amministrazione, non sarebbe scrutinabile
perché la scelta posta in essere dai
pubblici poteri attiene alla sfera del
merito e non potrebbe dunque essere
contestata;
- per carenza di interesse ad agire, atteso che il Fi. non
vanterebbe alcun interesse giuridicamente
tutelato in ordine alla nomina e, in caso di
accoglimento del ricorso, non otterrebbe
comunque il bene per cui agisce; lo stesso
soggetto non sarebbe titolare neanche di un
interesse diffuso, in quanto privo dei
requisiti di indipendenza richiesti dalla
legge ai fini dell’assunzione dell’incarico
in questione, esistendo un collegamento
molto stretto tra il ricorrente e l’organo
politico che ha il potere di proposizione
della nomina.
- per carenza di interesse ad agire, perché la proposta di nomina
si configurerebbe quale atto di natura
endoprocedimentale, privo di contenuto
provvedimentale e quindi sprovvisto di
efficacia lesiva immediata.
9. Con ordinanza n. 3075/2011 del 31.08.2011, la Sezione respingeva la domanda
incidentale di sospensione degli atti
impugnati; detti provvedimenti venivano poi
sospesi a seguito dell’appello cautelare
spiegato dal ricorrente, con ordinanza del
Consiglio di Stato n. 5144/2011 del 23.11.2011.
10. In pendenza del presente giudizio,
l’art. 21 del D.L. n. 201/2011 (conv. con
legge n. 214/2011) disponeva la soppressione
dell’Agenzia Nazionale di Regolamentazione
del Settore Postale e la sua incorporazione
all’Autorità Garante per le Comunicazioni.
11. A seguito del mutato quadro normativo,
con memoria depositata in data 21.01.2012 il controinteressato spiegava
un’ulteriore eccezione di inammissibilità (recte:
di improcedibilità) del ricorso per
sopravvenuta carenza di interesse ad agire
del ricorrente.
12. Con memoria del 06.02.2012
l’odierno deducente replicava manifestando
la persistenza dell’“interesse ad ottenere
una pronuncia giurisdizionale finalizzata ad
accertare ab imis l’illegittimità della
procedura amministrativa di nomina, anche in
applicazione del criterio della c.d.
soccombenza virtuale, e ciò sia ai futuri
fini risarcitori per il danno all’immagine
professionale, morale ed esistenziale
ingiustamente subito, ma anche ai fini delle
ripartizione delle spese di lite del
presente giudizio”.
...
3. Disattese dunque le eccezioni
pregiudiziali, può passarsi all’esame del
merito del gravame.
L’odierno deducente denuncia l’illegittimità
dei provvedimenti impugnati in quanto
affetti dal vizio di difetto di motivazione:
in particolare, egli lamenta che il laconico
contenuto della proposta di nomina, come
riformulata dopo la sostituzione del suo
nominativo con quello del So., odierno
controinteressato, non consentisse in alcun
modo di comprendere le ragioni della subita
estromissione, e ciò ancor più
inspiegabilmente a fronte di una qualificata
e duratura esperienza del ricorrente nel
campo della regolamentazione del settore
postale.
Né tale mutata scelta sarebbe giustificabile
alla luce della nomina effettuata in favore
del predetto soggetto, la cui esperienza
professionale nel settore, a dire del
ricorrente, risulterebbe inferiore a quella
propria.
3.1 Le censure, nella misura in cui sono
dirette a contestare il difetto di
motivazione degli atti gravati, sono
meritevoli di sicura adesione.
3.2 Come già ritenuto dal giudice di appello
con la su indicata ordinanza cautelare,
l’assenza di ogni e qualunque motivazione
nella proposta di nomina non poteva trovare
giustificazione nel fatto che la proposta
rientrasse nel novero degli atti di alta
amministrazione, atteso che tale categoria
di atti amministrativi soggiace comunque
alla disciplina generale degli atti
amministrativi, per i quali non è
ipotizzabile, alla luce di quanto previsto
dagli artt. 24, 97 e 113 della Cost., alcun
vuoto di tutela giurisdizionale.
3.3 E invero, per gli atti di nomina
pacificamente si ritiene che “Se pure, in
linea generale, le designazioni degli organi
di vertice delle amministrazioni si
configurano come provvedimenti da adottare
in base a criteri eminentemente fiduciari,
riconducibili nell'ambito degli atti di
“alta amministrazione”, in quanto sono
espressione della potestà di indirizzo e di
governo delle autorità preposte alle
amministrazioni stesse; si deve osservare
nondimeno che il singolo provvedimento di
nomina deve esporre le ragioni che hanno
condotto alla nomina di uno di essi,
comportando una scelta nell'ambito di una
categoria di determinati soggetti in
possesso di titoli specifici (cfr. Consiglio
Stato, sez. IV, 25.05.2005, n. 2706).
In altre parole, la motivazione della scelta
–sia pure effettuata latamente "intuitu
personae"– deve comunque ancorarsi
all’esito di un apprezzamento complessivo
del candidato, in modo che possa dimostrarsi
la ragionevolezza della scelta effettuata
che non può logicamente esaurirsi nel mero
riscontro da parte dei singoli candidati dei
requisiti prescritti dalla legge ma che
importa articolate, delicate e talvolta
addirittura sfumate valutazioni sulla stessa
personalità dei candidati, sulle loro
capacità organizzative, sul loro prestigio
personale, e sul prestigio che eventualmente
hanno già conferito agli uffici
precedentemente ricoperti e che
astrattamente sono in grado di assicurare a
quello da ricoprire.
L'obbligo di motivazione a carico della p.a.
deriva inoltre dalla sussistenza, a fronte
della potestà esercitata, di posizioni
soggettive direttamente tutelate
dall'ordinamento; pertanto, anche tale atto
deve essere emanato sulla base di una
conoscenza adeguata dello stato dei fatti,
di un'esatta interpretazione della volontà
della legge e di un soppesamento delle
situazioni soggettive rilevanti (cfr.
Consiglio Stato, sez. IV, 20.12.1996, n.
1304)” (così: Tar Lazio, Roma, III-quater,
22.01.2009, n. 517).
3.4 Deve ancora aggiungersi che, essendo gli
atti di alta amministrazione formalmente e
sostanzialmente atti amministrativi, essi
sono comunque soggetti all’obbligo di
motivazione, essendo chiuso nel sistema,
dopo l’entrata in vigore della legge n. 241
del 1990, ogni spazio per la categoria dei
provvedimenti amministrativi c.d. a motivo
libero, e posto che la connotazione di un
atto amministrativo come un atto di alta
amministrazione non vale di per sé ad
escludere l'onere di motivazione a carico
dell'Amministrazione (cfr. Tar Lazio, Roma,
II-ter, 28.05.2004, n. 5076).
3.5 In aggiunta alle superiori
considerazioni, è da ritenere che nel caso
in esame l'obbligo motivazionale si
imponesse con maggior rigore, dovendo la
motivazione assolvere all'obbligo di rendere
comunque trasparente ed imparziale la scelta
posta in essere dalla P.A., trattandosi di
nomina non preceduta da una qualche
procedura selettiva introdotta da un bando
di partecipazione che provvedesse a
specificare criteri e requisiti
astrattamente predeterminati dalla legge.
4. Le considerazioni svolte in ordine
all’obbligo di motivazione rendono evidente
il vizio invalidante in cui è incorsa
l’Amministrazione nella procedura di nomina
in contestazione, omettendo ogni motivazione
tout court rispetto all’esercizio del potere
effettuato con la proposta, vizio nella
specie aggravato dalla circostanza che il
Ministero procedeva a rettificare la
originaria proposta, sostituendo il
nominativo originario con un altro, senza
motivare né in ordine alla estromissione del
primo soggetto, né in ordine alla scelta del
secondo.
E in una procedura di nomina quale quella
descritta al comma 6, dell’art. 2 del D.Lgs.
n. 261/1999, caratterizzata da una ben amplia
discrezionalità, il sindacato
giurisdizionale, che non può di certo essere
escluso pur dovendo rimanere circoscritto
all'accertamento estrinseco della
legittimità della nomina -cioè al riscontro
dell’esistenza dei presupposti e
dell’esistenza e congruità del nesso logico
di consequenzialità fra presupposti e
conclusione (cfr. Consiglio Stato, sez. IV,
10.07.2007, n. 3893)- intanto può svolgersi,
in quanto i criteri seguiti
dall'Amministrazione ai fini della scelta o,
comunque, le ragioni giustificatrici della
stessa, emergano dall’ordito motivazionale
dell’atto.
5. La proposta di nomina gravata, di contro,
era inficiata da una totale e assoluta
carenza di motivazione, sotto tutti gli
anzidetti profili; essa risultava pertanto
illegittima e, per l’effetto, determinava
l’invalidità di tutti i successivi atti del
procedimento.
6. Per le ragioni complessivamente
illustrate il ricorso è dunque fondato e,
assorbita ogni altra deduzione ed eccezione,
deve essere accolto, con conseguente
annullamento degli atti impugnati
(TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 05.03.2012 n. 2223 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Ed altro ancora in materia... |
EDILIZIA PRIVATA: La
Commissione locale per il paesaggio svolge
valutazioni di tipo consultivo in materie
connotate da discrezionalità tecnica. Ne
consegue che il profilo della colorazione
politica non avrebbe, e non dovrebbe avere,
alcuna conseguenza sulle valutazioni
compiute dai singoli membri della C.L.P.
chiamati a fornire valutazioni e pareri
sulla esclusiva base della propria
professionalità, con conseguente natura
recessiva delle esigenze di tutela delle
minoranze consiliari.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione
degli effetti:
1. Della deliberazione del Consiglio Comunale di Casamicciola Terme
n. 36 del 08.10.2019, successivamente
pubblicata sull’Albo Pretorio del Comune,
con il quale è stata disposta la Nomina dei
5 Membri esperti della Commissione Locale
per il Paesaggio per il triennio dal
01/08/2019 al 31/07/2022, con la quale il
Consiglio Comunale ha deliberato i
componenti della Commissione Locale per il
Paesaggio ex art. 27 R.U.E.C;
2. Della proposta di Delibera di Consiglio Comunale n. 39 del
26.09.2019 con la quale è stato proposto al
Consiglio Comunale di Casamicciola di
deliberare la nomina dei 5 membri esperti
della Commissione Locale per il Paesaggio
per il triennio dal 01/08/2019 al
31/07/2019;
3. Dell’art. 27 del Regolamento Urbanistico Edilizio del Comune di
Casamicciola Terme rubricato "Commissione
locale per il Paesaggio", nella parte in cui
prevede che: "Ogni Consigliere Comunale
sceglie il nominativo dell'esperto, negli
elenchi ordinati per ciascuna materia a
seguito di procedura ad evidenza pubblica.
[…] Nel caso in cui non siano presentate
candidature per ciascuna delle cinque
materie, i consiglieri comunali nominano
direttamente gli esperti in tale materia,
procedendo in conformità alla legge
regionale 10 del 1982. Nel caso in cui i
Consiglieri Comunali esprimessero più
nominativi per una medesima materia, il
Consiglio Comunale nomina l'esperto che ha
registrato un numero maggiori di voti. In
caso di parità di voti verrà nominato
l'esperto più giovane".
...
Con ricorso notificato in data 09.12.2019 e depositato il
07.01.2020, l’ing.
Ma.Po. espone di aver partecipato
alla procedura selettiva indetta dal Comune
di Casamicciola Terme con avviso pubblico
del 04.07.2019 approvato con Determina
Dirigenziale n. 367 del 04.07.2019 e
successiva determina di rettifica n. 368 del
04.07.2019 a cui i professionisti, in
possesso degli specifici requisiti
prescritti dall’Allegato alla Legge
Regionale Campania n. 10/1982, sono stati
invitati a manifestare la propria
disponibilità alla nomina per la carica di
componente della Commissione Locale per il
Paesaggio (CLP) di cui all’art. 148 D.lgs.
42/2004.
Con Deliberazione n. 36 dell’08.10.2019
il Consiglio Comunale, ai sensi del
novellato art. 27 del Regolamento
Urbanistico Edilizio del Comune di Casamicciola Terme (RUEC) adottato nel mese
di giugno 2019, ha nominato i 5 Membri
esperti della CLP per il triennio dal 01.08.2019-31.07.2022, senza tuttavia
includere il ricorrente.
Compiuto l’accesso agli atti della procedura
l’ing. Po. verificava che ogni
Consigliere aveva potuto esprimere
preferenze per ogni singolo membro della CLP
in linea con la previsione del RUEC,
nonostante il parere negativo del Segretario
generale dell’ente locale secondo cui ogni
Consigliere comunale avrebbe potuto
esprimere una sola preferenza, sicché
avverso gli atti del procedimento in
discorso e la segnalata previsione del RUEC,
proponeva il ricorso introduttivo del
presente giudizio, affidando il gravame
all’unico articolato motivo che di seguito
si sintetizza: ...
...
Il motivo è infondato.
Invero l'Allegato I della legge Regione
Campania n. 10 del 23.02.1982 dispone
che: “Per la nomina dei membri esperti, che
non dovranno essere dipendenti o
Amministratori del Comune interessato, ogni
Consigliere può esprimere un solo
nominativo”; su questa previsione si è
innestato l'art. 41, comma 2, della legge
regionale 22.12.2004, n. 16 stabilendo
che: “Nei comuni sprovvisti di commissione
edilizia, le funzioni consultive in materia paesaggistico-ambientale, attribuite alla
commissione edilizia integrata comunale
dall'allegato alla legge regionale 23.02.1982, n. 10… sono esercitate da un
organo collegiale costituito dal
responsabile dell'ufficio che riveste
preminente competenza nella materia, con
funzioni di presidente, e da quattro esperti
designati dal Consiglio comunale con voto
limitato”; infine tale disposizione è stata
espressamente abrogata dall’art. 4, co. 1,
lett. m), della l.r. 05.01.2011, n. 1.
Occorre quindi stabilire se la prima delle
norme menzionate, quella di cui alla legge
regionale n. 10/1982 che limita ad una sola
preferenza il voto dei Consiglieri comunali
che eleggono i membri della CLP, sia o meno
ancora in vigore.
Deve in primo luogo ritenersi che la legge
regionale n. 16/2004 abbia effettivamente
abrogato la previsione sui meccanismi di
voto per la nomina dei membri della CLP di
cui alla legge regionale n. 10/1982 sia
sotto il profilo testuale sia sotto quello
sistematico.
Con riguardo al primo profilo rileva il
riferimento contenuto nella sopravvenuta
legge regionale n. 16/2004 in generale al
“voto limitato” che esprime, come la
precedente legge regionale n. 10/1982,
l’intendimento di garantire alle minoranze
consiliari la possibilità di esprimere uno o
più componenti della CPL; tuttavia a
differenza della precedente legge regionale,
la l.r. n. 16/2004 non indica uno specifico
meccanismo di rappresentanza delle
minoranze, atteso che il voto limitato può
concretamente realizzarsi attraverso diverse
modalità tra cui anche, ma non solo, quella
specificamente individuata dalla legge
regionale n. 10/1982.
Tale rapporto di
genere a specie fra le due norme non deve,
tuttavia, indurre a ritenere applicabile nel
caso di specie il principio per cui lex
posterior generalis non derogat priori
speciali (ex multis Cass. civ. Sez. V,
17.05.2017, n. 12302; Corte dei Conti,
Sezioni Riunite, 02.03.2018, n. 1), atteso
che la legge regionale n. 16/2004
costituisce verosimilmente il frutto di una
specifica scelta legislativa volta a
demandare ai Comuni una maggiore autonomia
nell’individuazione dello specifico sistema
di voto, in linea con la tendenza alla sussidiarietà e autonomia degli enti locali
impressa dalla legislazione nazionale
successiva alla legge regionale n. 10/1982.
Ne consegue quindi che tra le due
disposizioni è effettivamente riscontrabile
un rapporto di incompatibilità con
conseguente abrogazione della precedente
previsione più limitativa dell’autonomia
comunale.
Peraltro, sotto il profilo sistematico, la
legge regionale n. 16/2004 ha una portata
ampia, tendendo a porsi come unico testo di
riferimento per la disciplina edilizia e per
la relativa organizzazione delle istituzioni
locali coinvolte nei relativi procedimenti,
con ciò costituendo espressione della
volontà del Legislatore di introdurre un
testo omnicomprensivo e sostituivo delle
precedenti fonti.
Per gli stessi motivi non può nemmeno
predicarsi la riviviscenza della previsione
della l.r. n. 10/1982 a seguito
dell’abrogazione dell’art. 41, co. 1, lett.
m), della l.r. n. 16/2004, atteso che
secondo la giurisprudenza “l'abrogazione
della disposizione che modifica o
sostituisce quella precedente non comporta
la sua reviviscenza, tale effetto può
predicarsi in caso di abrogazione di una
disposizione che abbia come contenuto quello
di abrogare una disposizione precedente
sicché ciò che viene meno è proprio
l'effetto abrogativo” (Corte di
Cassazione, Sezioni Unite, 07.12.2007, n.
25551); ora, nel caso di specie, il predetto
art. 41, come rilevato, non si è limitato ad
abrogare la precedente disciplina sulla
nomina dei membri delle CLP ma ha introdotto
una disciplina incompatibile con quella
precedente. Né può ritenersi che
l’abrogazione della legge regionale del 2004
abbia determinato un vuoto normativo,
dovendosi in contrario ravvisare una
riespansione della regola generale per la
quale tutti i membri del consiglio comunale
esercitano pienamente il proprio diritto di
voto senza limitazioni, dovendosi infatti
ritenere che le regole sul voto limitato
costituiscano eccezione al principio della
piena rappresentanza dei singoli Consiglieri
comunali chiamati ad esprimere pienamente il
proprio voto.
Peraltro, a tali considerazioni deve
aggiungersi che la Commissione locale per il
paesaggio svolge valutazioni di tipo
consultivo in materie connotate da
discrezionalità tecnica, secondo quanto
dettagliato nell’allegato alla ripetuta
legge regionale n. 10/1982, in base alla
quale la commissione è investita dei
compiti:
a) di esprimere parere in merito alle materie di cui all'art. 82
del DPR n. 616 del 24.07.1977, non comprese
tra quelle sub-delegate ai Comuni ai sensi
del II Comma dell'art. 6 della legge
regionale 01.09.1981, n. 65;
b) di fornire consulenza in materia di Tutela dei Beni Ambientali,
Paesistici ed Architettonici e di uso di
edifici di particolare pregio e, comunque,
su tutte le questioni che l'Amministrazione
Comunitaria o Provinciale interessata
riterrà opportuno sottoporle.
Ne consegue che il profilo della colorazione
politica non avrebbe, e non dovrebbe avere,
alcuna conseguenza sulle valutazioni
compiute dai singoli membri della CLP
chiamati a fornire valutazioni e pareri
sulla esclusiva base della propria
professionalità, con conseguente natura
recessiva delle esigenze di tutela delle
minoranze consiliari (cfr. Tar Campania,
sez. I, 18.06.2019, n. 3359).
In definitiva il motivo di ricorso si
appalesa infondato e il ricorso deve essere
conseguentemente respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 26.03.2020 n. 1260 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
la possibilità di riconoscere un compenso
e/o un rimborso spese ai membri della
Commissione locale per il paesaggio prevista
dall’art. 148 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42
(Codice dei beni culturali e del paesaggio),
l’art. 183, comma 3, del D.Lgs. n. 42 del
2004 vieta la possibilità di erogare
compensi ai membri della Commissione locale
per il paesaggio, ai quali, tuttavia, è
possibile riconoscere un rimborso delle
spese documentate a condizione che
l’amministrazione interessata verifichi a
monte, sin dalla fase di programmazione, la
possibilità di coprire, in concreto, tali
spese con nuove entrate (ovvero risparmi di
spesa) derivanti dall’esercizio della
funzione delegata, di cui è parte integrante
e sostanziale la commissione locale per il
paesaggio.
In caso contrario, tali oneri non potranno
essere sostenuti, pena la violazione del
vincolo di invarianza finanziaria previsto
dal comma 3, del citato art. 183 del Codice.
---------------
Il Sindaco del Comune di Novara chiede
a questa Corte di pronunciarsi sulla
legittimità del riconoscimento di un
compenso e/o rimborso spese ai componenti
della Commissione locale per il paesaggio
(di seguito anche: Commissione).
Al riguardo l’Ente, nel richiamare la
normativa che disciplina il predetto organo,
precisa che, sino ad ora, non ha
riconosciuto alcun compenso ai componenti di
tale Commissione, anche se professionisti
esterni all’Ente.
...
Ciò posto, si evidenzia che il quesito
formulato dal Comune di Novara riguarda la
possibilità, o meno, di riconoscere un
compenso e/o un rimborso spese ai membri
della Commissione locale per l’ambiente
prevista dall’art. 148 del D.Lgs.
22.01.2004, n. 42 (c.d. “Codice dei beni
culturali e del paesaggio”, di seguito
anche: Codice), con la specificazione che di
tale organo vengono chiamati a far parte
anche professionisti esterni
all’Amministrazione.
La questione sorge dall’esigenza dell’Ente
di approvare un nuovo regolamento comunale
sulla Commissione locale per il paesaggio,
per cui viene evidenziato che, nel corso di
dibattiti intercorsi con gli Ordini
professionali (ed in particolare con
l’Ordine degli architetti) è stato eccepito
che “nel caso in cui i professionisti
[membri della Commissione – n.d.r.] fossero
esterni all’apparato pubblico, risulterebbe
ostativa alla tesi interpretativa del Comune
[ovvero della preclusione normativa al
riconoscimento di compensi – n.d.r.] la
regola generale imposta dai codici
deontologici degli ordini professionali di
appartenenza dei professionisti, secondo cui
è vietata la gratuità della prestazione,
salvo specifiche ipotesi motivate da ragioni
di ‘solidarietà’ ovvero ‘di apprendistato’,
non sussistenti nel caso in esame”.
Al riguardo l’Ente precisa poi che “stante
la peculiarità dei requisiti richiesti,
anche di natura specialistica, nella maggior
parte dei casi le Amministrazioni, al fine
di comporre le commissioni, si rivolgono a
soggetti esterni al comparto pubblico”.
Nel prosieguo, viene evidenziato che l’art.
183, comma 3, del Codice, mentre esclude
tassativamente la corresponsione di compensi
ai membri della Commissione anche sotto
forma di gettoni di presenza per la
partecipazione alle sedute, nulla dice in
relazione ad eventuali rimborsi spese,
sebbene la stessa norma specifichi che dalla
partecipazione alle Commissioni non devono
derivare nuovi o maggiori oneri a carico
della finanza pubblica.
In conclusione, l’Ente chiede se “sia
corretto, sotto l’aspetto della rispondenza
del dettato normativo, prevedere, nel
redigendo regolamento sulla Commissione
Locale del Paesaggio, il riconoscimento di
un compenso e/o di un rimborso spese, quest’ultimo
limitato a quei membri residenti fuori dal
territorio comunale, previa presentazione di
idonee pezze giustificative”.
2. Per la disamina della tematica oggetto
del parere richiesto dal Comune di Novara si
evidenzia, in primo luogo, che l’art. 146,
comma 6, del Codice dei beni culturali e del
paesaggio ha attribuito alla regione la
funzione autorizzatoria in materia di
paesaggio, specificando che tale funzione
viene svolta dalla regione avvalendosi di
propri uffici dotati di adeguate competenze
tecnico-scientifiche e idonee risorse
strumentali. Nel contempo, la medesima norma
prevede la possibilità per la regione di
delegare l’esercizio di tale funzione, con
riguardo ai rispettivi territori, a
province, a forme associative e di
cooperazione fra enti locali, agli enti
parco, ovvero ai comuni, “purché gli enti
destinatari della delega dispongano di
strutture in grado di assicurare un adeguato
livello di competenze tecnico-scientifiche
nonché di garantire la differenziazione tra
attività di tutela paesaggistica ed
esercizio di funzioni amministrative in
materia urbanistico-edilizia”.
Il comma 16 del medesimo articolo specifica
che “[d]all'attuazione del presente
articolo non devono derivare nuovi o
maggiori oneri a carico della finanza
pubblica”.
A sua volta, il primo ed il secondo comma
dell’art. 148 del Codice prevedono che “1.
Le regioni promuovono l'istituzione e
disciplinano il funzionamento delle
commissioni per il paesaggio di supporto ai
soggetti ai quali sono delegate le
competenze in materia di autorizzazione
paesaggistica, ai sensi dell'articolo 146,
comma 6.
2. Le commissioni sono composte da soggetti
con particolare, pluriennale e qualificata
esperienza nella tutela del paesaggio”.
In ultimo, il terzo comma dell’art. 183 del
Codice prevede che “[l]a partecipazione
alle commissioni previste dal presente
codice è assicurata nell'ambito dei compiti
istituzionali delle amministrazioni
interessate, non dà luogo alla
corresponsione di alcun compenso e,
comunque, da essa non derivano nuovi o
maggiori oneri a carico della finanza
pubblica”.
La Regione Piemonte ha disciplinato tale
materia con la legge regionale 01.12.2008,
n. 32 il cui articolo 3, secondo comma,
prevede che “[n]ei casi non elencati dal
comma 1 e per quelli di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 13.02.2017, n.
31 (Regolamento recante individuazione degli
interventi esclusi dall'autorizzazione
paesaggistica o sottoposti a procedura
autorizzatoria semplificata), il rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica è delegato
ai comuni o alle loro forme associative, che
si avvalgono, per la valutazione delle
istanze, delle competenze tecnico
scientifiche delle commissioni locali per il
paesaggio di cui all'articolo 4”.
Il predetto articolo 4, primo comma, prevede
che “[i] comuni o le loro forme
associative istituiscono, ai sensi
dell'articolo 148 del codice dei beni
culturali e del paesaggio, la commissione
locale per il paesaggio con competenze
tecnico scientifiche, incaricata di
esprimere i pareri previsti dall'articolo
148, comma 3, del codice dei beni culturali
e del paesaggio”.
Il secondo comma, invece, stabilisce che “[o]gni
commissione locale per il paesaggio è
composta da almeno tre componenti di
particolare, pluriennale e qualificata
esperienza, come definita con apposito
provvedimento della Giunta regionale, nella
tutela del paesaggio”, specificando poi
i titoli che devono possedere i membri di
tale organo collegiale.
Per completezza, si evidenzia che quest’ultimo
comma è stato modificato dall’art. 93, comma
1, della legge regionale 17.12.2018, n. 19
che ha sostanzialmente ampliato le
possibilità di formazione della commissione,
prevedendo come titolo ammesso, oltre a
specifici diplomi di laurea, anche il
diploma di scuola secondaria di secondo
grado attinente a determinate discipline,
unitamente all’iscrizione ad albi
professionali, ovvero ad una qualificata e
pluriennale esperienza nelle medesime
materie.
La Giunta regionale, con deliberazioni n.
34/10229 e n. 58/10313 del 2008, ha
indicato, tra l’altro, i requisiti dei
componenti della Commissione locale per il
paesaggio, con la specificazione che gli
stessi “devono essere scelti tra i
tecnici esterni all’amministrazione e
comunque non facenti parte dello Sportello
unico per l’edilizia” e l’ulteriore
indicazione che la scelta dei componenti “dovrà
tenere in considerazione, altresì,
dell’esperienza almeno triennale maturata
nell’ambito della libera professione o in
qualità di pubblico dipendente, nelle
specifiche materie”.
3. Sulla base del predetto quadro normativo
deve trovare soluzione il quesito posto dal
Comune di Novara per il quale occorre
distinguere l’argomento della
riconoscibilità di un compenso ai
membri della Commissione locale per il
paesaggio, da quello della riconoscibilità
di un mero rimborso spese.
Venendo al primo argomento, si ritiene che
sul punto il legislatore non abbia lasciato
alcun margine interpretativo sancendo
espressamente il divieto di corresponsione
di compensi ai membri della Commissione in
parola.
L’art. 183, comma 3, del Codice dei beni
culturali e del paesaggio “[l]a
partecipazione alle commissioni previste dal
presente codice […] non dà luogo alla
corresponsione di alcun compenso”, da
intendersi come qualsiasi forma di
remunerazione per l’attività svolta dai
membri dell’Organo. Divieto imposto per ogni
tipo di Commissione prevista dal Codice, tra
le quali vi è la Commissione locale per il
paesaggio disciplinata prevista dall’art.
148 del medesimo testo normativo.
Tale disposizione, peraltro, non pone alcuna
distinzione sulla base della provenienza dei
membri dell’Organo collegiale per cui il
portato normativo non cambia anche se la
regione ha previsto la possibilità che per
la composizione della Commissione ci si
possa rivolgere pure a professionisti
esterni dotati di specifiche competenze.
Rimane ad ogni modo fermo che la decisione
del professionista di far parte della
medesima Commissione rientra nella sua
autonoma determinazione. La gratuità della
prestazione, in tal caso, sarebbe
riconducibile ad un obbligo di legge e non
alla volontà del professionista,
nell’esercizio della quale lo stesso deve
attenersi agli obblighi deontologici.
A margine si ritiene opportuno precisare
che, nell’ipotesi in cui un Comune non
riesca a formare la Commissione in parola,
le funzioni amministrative in materia
paesaggistica sono esercitate dalla Regione.
Di concorde avviso è la Sezione regionale di
controllo per la Puglia che, con
parere 18.04.2012 n.
52, ha concluso che “la
partecipazione alle commissioni locali per
il paesaggio istituite in attuazione
dell’art. 148 del codice dell’art. 8 della
legge regionale pugliese n. 20 del 2009 è da
ritenersi onorifica”.
4. Per quanto concerne, invece, la
possibilità di riconoscere ai membri della
Commissione un rimborso spese si
evidenzia che il menzionato art. 183, comma
3, del Codice dei beni culturali e del
paesaggio non contiene un espresso divieto
come per i compensi.
La clausola di invarianza finanziaria ivi
contenuta, secondo cui dalla partecipazione
alle commissioni previste dal Codice “non
derivano nuovi o maggiori oneri a carico
della finanza pubblica”, infatti,
costituisce espressione dell’obbligo
previsto dall’art. 81, comma 3, della
Costituzione secondo cui “[o]gni legge
che importi nuovi o maggiori oneri provvede
ai mezzi per farvi fronte”.
Detta clausola, pertanto, impone la
neutralità dell’impatto degli oneri
derivanti dall’attuazione della norma in
termini di equilibrio economico-finanziario
complessivo.
In tal senso la Sezione regionale di
controllo per la Basilicata, con
parere 07.07.2016 n. 29
ha chiarito che “il comma 3, dell’art.
183 del Dlgs 42/2004, per come formulato,
non preclud[e] ‘in linea astratta’ il
rimborso delle spese di viaggio sostenute
dai componenti per la partecipazione alle
commissioni in riferimento, e ciò in quanto
l’articolato in questione non prevede uno
specifico divieto in tal senso, e, comunque,
tale divieto non può ritenersi compreso –per
via implicita– nel divieto di ‘corrispondere
alcun compenso’ sancito dal comma in
questione, in quanto non ne condivide i
medesimi presupposti ‘remunerativi o
compensativi’”.
Conseguentemente, la medesima Sezione
specifica che “alla luce del vincolo di
neutralità finanziaria sancito
dall’articolato in esame, gli oneri
derivanti dal ‘rimborso delle spese’
potranno essere legittimamente previsti e
sostenuti dall’amministrazione interessata
solo ed esclusivamente all’esito della
verifica ‘a monte’, sin dalla fase di
programmazione, della possibilità di
neutralizzare, in concreto, tali spese con
le nuove entrate (ovvero i risparmi di
spesa) derivanti dall’esercizio della
funzione delegata, di cui è parte integrante
e sostanziale la commissione locale per il
paesaggio in esame. In caso contrario, tali
oneri non potranno essere sostenuti, pena la
violazione del vincolo di invarianza
finanziaria” previsto dal comma 3, del
citato art. 183 del Codice.
Fermo restando tale imprescindibile verifica
circa la possibilità di neutralizzare la
spesa per concedere tali rimborsi, si
ritiene che i criteri e le modalità di
riconoscimento di tali rimborsi spese,
da sottoporre ad un rigoroso onere di
documentazione, dovranno trovare puntuale
disciplina nel redigendo regolamento
comunale sulla Commissione locale per il
paesaggio (Corte dei Conti, Sez. controllo
Piemonte,
parere
27.06.2019 n. 57). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
parere reso dalla Commissione per il
Paesaggio del Comune, così come dispone la
legge, è consultivo e, pertanto, non esplica
alcun effetto vincolante rispetto alle
valutazioni della Soprintendenza,
esaurendosi in una proposta, da qualificarsi
atto endoprocedimentale che viene inoltrato
alla Soprintendenza.
---------------
Con la sesta censura si deduce
l’illegittimità del provvedimento anche
perché viziato da una immotivata ed
infondata contraddittorietà con il parere
della Commissione Locale per il Paesaggio.
Al riguardo, parte ricorrente, dopo aver
sottolineato che l’art. 146 del D.L.vo
42/2004 prevede, ai fini del giudizio di
compatibilità paesaggistica un procedimento
articolato in due fasi, la prima di
competenza dell’Amministrazione deputata al
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica
(il Comune, quale ente delegato dalla
Regione Campania), e la seconda di
competenza della Soprintendenza che rende il
parere, deduce che la scansione procedimentale presuppone ed impone che il
parere soprintendentizio prenda in esame la
prima valutazione effettuata dal Comune e la
relativa proposta di provvedimento, per poi
confermarla o modificarla motivatamente e,
nella specie, tale onere istruttorio è stato
completamente pretermesso dalla
Soprintendenza.
La censura è priva di fondatezza.
Secondo parte ricorrente, a fronte di una
valutazione comunale espressa seguendo le
doverose coordinate valutative del giudizio
di compatibilità paesaggistica -ossia con
la descrizione dell’edificio e del contesto
paesaggistico in cui si colloca- la
Soprintendenza si è orientata per una
determinazione di segno completamente
opposto, senza tuttavia indicarne le
ragioni, atteso che l’enfatizzazione della
grandezza dell’immobile operata
dall’Autorità ministeriale non troverebbe
una giustificazione su un raffronto
obiettivo rispetto al contesto di
riferimento così come, allo stesso modo,
mancherebbe completamente la valutazione -dirimente- dell’eventuale impatto visivo e
panoramico (impatto tuttavia inesistente,
come accertato dal Comune). Ne deriverebbe
che l’esame compiuto dalla Soprintendenza,
oltre ad essere inficiato da un palese
difetto di istruttoria e di motivazione
(primo motivo di ricorso) è altresì viziato
perché è stato assunto in palese
ingiustificata contraddizione con la
valutazione comunale, svilendo completamente
la ratio della doppia fase valutativa della
scansione procedimentale prevista dall’art.
146, D.L.vo 42/2004.
In contrario deve preliminarmente rilevarsi
che il parere reso dalla Commissione per il
Paesaggio del Comune, così come dispone la
legge, è consultivo e, pertanto, non esplica
alcun effetto vincolante rispetto alle
valutazioni della Soprintendenza,
esaurendosi in una proposta, da qualificarsi
atto endoprocedimentale che viene inoltrato
alla Soprintendenza.
In ogni caso le ragioni di non compatibilità
del parere reso dalla Soprintendenza con il
parere dell’organo consultivo locale,
possono ritenersi in re ipsa con
l’espressione di un parere (se non
antitetico, anche soltanto) diverso rispetto
al primo, senza necessità di un’analitica
confutazione di quest’ultimo.
Ma, nel caso di specie la proposta
favorevole del Comune non può dirsi che non
sia stata contestata (anche) con
argomentazioni di merito, atteso che, a
fronte del parere favorevole espresso dal
Responsabile per il Paesaggio il quale
asserisce che “per dimensioni proporzioni e
tipologia, non contrasti con i valori paesaggistico-ambientale presenti al
contorno, non alterando lo skyline
dell’assetto percettivo, scenico o
panoramico, inserendosi, di fatto, in un
contesto già urbanizzato caratterizzato da
edilizia spontanea con medesime
caratteristiche tipologiche”, la resistente
Soprintendenza, dapprima ha chiarito che la
richiesta di condono è in palese contrasto
con l’art. 13 del Piano Paesaggistico, poi,
nel merito, ha osservato come l’opera consta
di: “una costruzione abnorme, una massa di
consistenti dimensioni con tipologia ambigua
fatta di vetrate continue, tonde e
rettilinee, di enormi terrazzi, di tettoie
abusive che, nell’insieme, contribuisce ad
alterar il già depauperato ambiente in cui è
inserito, che, come afferma lo stesso
Comune, è caratterizzato da costruzioni
spontanee (probabilmente anch’esse
abusive”).
Ne consegue la esaustività e prevalenza del
parere adottato dalla resistente
Soprintendenza e l’infondatezza della
censura, fermo restando che le valutazioni
espresse nel parere non sono suscettibili di
sindacato nel merito in sede di legittimità
innanzi al giudice amministrativo, salvo che
non emerga una manifesta ingiustizia o
irragionevolezza del giudizio manifestato
con l’atto impugnato
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.09.2018 n. 5317 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
partecipazione agli organi collegiali o monocratici operanti presso la pubblica
Amministrazione è da considerarsi onorifica
e può dare luogo esclusivamente al rimborso
delle spese sostenute, ove previsto dalla
normativa vigente, ed i gettoni di
presenza eventualmente erogati ai componenti
di tali organi non possono superare la
misura di 30 euro per seduta giornaliera.
---------------
La richiesta di parere in epigrafe
ha per oggetto l'art. 6, comma 1, del D.L.
31/05/2010, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 30/07/2010, n.
122, il quale ha disposto che la
partecipazione agli organi collegiali o
monocratici operanti presso la pubblica
Amministrazione è da considerarsi onorifica
e può dare luogo esclusivamente al rimborso
delle spese sostenute, ove previsto
dalla normativa vigente, e che i gettoni di
presenza eventualmente erogati ai componenti
di tali organi non possono superare la
misura di 30 euro per seduta giornaliera.
In particolare, il Sindaco del comune di
Castellana Grotte (BA) chiede se detta
disposizione si applichi anche alla
commissione locale per il paesaggio,
prevista dal 1° comma dell'art. 148 del
D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 nonché
dall'art. 8 della Legge Regionale n. 20 del
07.10.2009 ed istituita presso il Comune,
tenuto conto che il Consiglio comunale, in
sede di regolamento disciplinante il
funzionamento di tale organismo -approvato
nel 2010- ha previsto l’erogazione di un
gettone di presenza ai componenti della
suddetta commissione per la partecipazione
alle relative sedute in misura non inferiore
al gettone percepito dai consiglieri
comunali, che è comunque superiore ad € 30.
Ragion per cui chiede se la commissione
de qua “rientri nel novero degli organi
collegiali considerati onorifici”
soggetti alla riduzione di spesa che occupa.
...
La richiesta di parere che occupa
verte sulla inclusione o meno della
commissione per il paesaggio, prevista dal
1° comma dell'art. 148 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio) e dall’art. 8 della Legge
Regionale pugliese n. 20 del 7.10.2009, nel
campo di applicazione dell’art. 6, comma 1,
del d.l. 31.05.2010, n. 78, convertito
con modificazioni dalla legge 30.07.2010, n. 122. Tale previsione, al fine di
ridurre i costi degli apparati
amministrativi:
- stabilisce che la partecipazione agli organi collegiali di cui
all'articolo 68, comma 1, del decreto-legge
25.06.2008, n. 112, convertito con
modificazioni dalla legge 06.08.2008, n.
133 ha natura onorifica e può dar luogo
esclusivamente al rimborso delle spese
sostenute, ove previsto dalla normativa
vigente;
- fissa il tetto massimo in caso di eventuale erogazione di gettoni
di presenza, che non possono superare
l'importo di 30 euro per ogni seduta
giornaliera.
La stessa norma poi espressamente esonera
dalla previsione testé delineata le
commissioni che svolgono funzioni
giurisdizionali, gli organi previsti per
legge che operano presso il Ministero per
l'ambiente, e altre strutture testualmente
indicate dalla norma stessa.
È bene precisare che l’art. 68 del citato
decreto legge n. 112 del 2008 (rubricato
“Riduzione degli organismi collegiali e di
duplicazioni di strutture”), cui rinvia lo
stesso art. 6, comma 1 cit., si colloca a
sua volta nella scia dell'articolo 29 del
decreto-legge 04.07.2006, n. 223,
convertito, con modificazioni, dalla legge 04.08.2006, n. 248, il quale ha avviato un
percorso finalizzato al contenimento della
spesa di commissioni, comitati ed altri
organismi operanti presso le Amministrazioni
statali (e non statali, per evidenti ragioni
di coordinamento finanziario, in base al
successivo comma 3), disponendone il
riordino anche mediante la loro soppressione
o accorpamento e previa valutazione della
“perdurante utilità” degli stessi (comma
2-bis), il cui esito favorevole avrebbe
consentito di assoggettarli ad un regime di
proroga e dunque di sopravvivenza ad tempus.
L’art. 68 ha portato avanti tale percorso
anche al fine di realizzare, entro il
triennio 2009-2011, la graduale riduzione di
tali organismi fino al definitivo
trasferimento delle attività ad essi
demandate alle relative Amministrazioni, e
ha escluso ex lege dal regime di proroga
sopra indicato una serie di enti collegiali
aventi determinate caratteristiche, che
dunque dovevano essere assolutamente e
immediatamente soppressi.
In questo tessuto normativo si innesta
l'art. 6 del decreto-legge n. 78 del 2010,
il quale si propone di portarne a compimento
l’obiettivo, anche se mediante un meccanismo
che non incide più sull’obbligo di
eliminazione di tali organi, bensì sulla
natura della partecipazione agli stessi, che
diviene onorifica; ne consegue
l’impossibilità di erogare corrispettivi o
emolumenti comunque denominati che non siano
riconducibili al mero rimborso delle spese
sostenute (ove previsto dalla normativa
vigente); una parziale deroga a detto
divieto è posto dalla successiva parte della
disposizione, che in ogni caso fissa
nell'importo massimo di 30 euro a seduta
giornaliera la misura massima possibile
eventualmente erogabile.
In sostanza, le disposizioni su riportate
sono accomunate dalla medesima ratio del
raggiungimento dell’obiettivo di
contenimento delle spese degli organi
collegiali non indispensabili delle pp.AA.,
le quali sono evidentemente ritenute dal
legislatore una delle componenti su cui
incidere per ridurre la spesa pubblica.
3.1. Venendo al caso di specie, la
risoluzione della connessa questione
presuppone una breve indagine sulla natura e
sulle funzioni delle commissioni per il
paesaggio, previste dal 1° comma dell'art.
148 del codice dei beni culturali e del
paesaggio (nel prosieguo, per brevità,
“codice”), approvato con il sopra citato D.Lgs. n. 42 del 2004.
È bene premettere che il precedente art. 146
del codice prevede una particolare procedura
in materia di richiesta e di rilascio di
autorizzazione paesaggistica. Per quanto qui
occupa, va osservato che la funzione
autorizzatoria in materia di paesaggio
spetta alle regioni (comma 5), le quali la
esercitano o avvalendosi di propri uffici
ovvero delegandone l'esercizio –tra gli
altri- agli enti locali, purché questi
dispongano di strutture in grado di
assicurare un adeguato livello di competenze
tecnico-scientifiche nonché di garantire la
differenziazione tra l’ufficio che rilascia
il titolo abilitativo in materia
urbanistico-edilizia e quello preposto al
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica
(comma 6).
Non è superfluo osservare che il comma 16
dell’art. 146 citato dispone che
l’attuazione dello stesso articolo non deve
determinare nuovi o maggiori oneri a carico
della finanza pubblica, ragion per cui
un’eventuale delega di tali funzioni da
parte delle regioni agli altri enti
territoriali deve avvenire a costo zero.
Il successivo articolo 148 rimette alle
regioni la possibilità di prevedere, in caso
di delega, l'istituzione di commissioni per
il paesaggio (composte da esperti nella
materia della tutela del paesaggio), onde
supportare tecnicamente i soggetti ai quali
sono delegate le suddette competenze ai
sensi dell'articolo 146, sub specie di
espressione di pareri nel corso dei
procedimenti autorizzatori previsti dal
codice. Trattasi quindi di attività di
amministrazione consultiva di natura
endoprocedimentale non avente riflessi
diretti nella sfera giuridica dei terzi
richiedenti.
Per quanto riguarda la regione Puglia, la
legge regionale n. 20 del 07.10.2009,
recante “Norme per la pianificazione
paesaggistica”, contiene all’art. 7 la
delega ai comuni delle funzioni in materia
paesaggistica. Il successivo articolo 8
(“Commissioni locali per il paesaggio”)
stabilisce che “Gli enti delegati al
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica
istituiscono, preferibilmente in forma
associata, la commissione locale per il
paesaggio a norma dell’articolo 148 del d.lgs. 42/2004, che esprime parere nel
procedimento di rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica”.
Orbene, dall’esame di tali previsioni emerge
che nella regione Puglia l’istituzione delle
commissioni per il paesaggio è obbligatoria.
L’uso dell’indicativo presente da parte del
legislatore regionale ("istituiscono") è
sicuro indice, infatti, della prescrizione
di un obbligo ("devono istituire"),
piuttosto che dell’attribuzione di una
facoltà ("possono istituire"). Ne consegue
che in tale Regione lo stesso legislatore ha
effettuato, a monte, la valutazione della
indispensabilità di tale organo, valutazione
che può ritenersi non irragionevole in
quanto finalizzata a fornire un ausilio
tecnico agli uffici dei comuni delegati (tra
i quali ve ne sono innumerevoli di piccole
dimensioni) ai fini del rilascio di
un’autorizzazione in una materia che
richiede una particolare competenza
specialistica (si rammenta che in precedenza
tali competenze erano assorbite dalla
commissione edilizia, la cui istituzione è
ora meramente facoltativa giusto l’art. 4,
comma 2, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, recante
il “Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia
edilizia”).
Tuttavia, nonostante l’obbligatorietà, la
stessa norma che per prima ne ha previsto la
possibile istituzione (rimettendone la
decisione in tal senso alle regioni: art.
146 del codice), afferma in maniera netta
che l’eventuale istituzione di tali
organismi non deve comportare nuovi oneri
per la finanza pubblica.
Logico corollario, ad avviso della Sezione,
è che il citato art. 146 del codice, letto
in combinato disposto con l’art. 8 della l.r. n. 20 del 2009, con l’art. 6, comma 1,
del richiamato d.l. n. 78 del 2010 e con i
suoi antecedenti normativi, impone di
considerare le commissioni de quibus
soggette agli obiettivi di contenimento
della spesa imposti dal legislatore del
2010.
In conclusione, il Collegio reputa che la
partecipazione alle commissioni locali per
il paesaggio istituite in attuazione
dell’art. 148 del codice e dell’art. 8 della
legge regionale pugliese n. 20 del 2009 è da
ritenersi onorifica
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 18.04.2012 n.
52 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il regolamento adottato da un
Comune per la nomina dei componenti della
Commissione locale per il paesaggio,
prevista dall'art. 148, D.Lgs. n. 42/2004,
nella parte in cui, in modo ingiustificato e
quindi irragionevole, ha limitato la
candidatura degli aspiranti componenti ai
soli liberi professionisti proposti dai
rispettivi Ordini.
Il Comune, con
l’adozione del Regolamento per il
funzionamento della Commissione, ha previsto
che:
- i componenti della commissione, stabiliti in numero di tre,
devono aver maturato un’esperienza almeno
quinquennale esclusivamente nell’ambito
della libera professione (art. 2);
- la nomina dei tre esperti spetta al Consiglio Comunale sulla base
di un rendiconto del Dirigente competente,
che valuta tre terne di candidature proposte
rispettivamente dagli Ordini professionali
degli Architetti, degli Ingegneri, dei
Geologi ed Agronomi (art. 3).
In questa prospettiva, visto il quadro
normativo, risulta ingiustificata e quindi
irragionevole, la scelta discrezionale del
Comune di limitare la candidatura ai soli
liberi professionisti proposti dai
rispettivi Ordini, posto che una tale
limitazione restringe aprioristicamente il
campo delle scelte possibili e quindi delle
competenze e delle esperienze impiegabili
nell’attività della Commissione.
L’ordinamento legislativo vigente, sopra
richiamato, non prevede infatti una simile
discriminazione, stabilendo solo il
requisito della “qualificata esperienza”
funzionale a costituire una struttura
specialistica come la Commissione per il
paesaggio che, a livello comunale, consenta
di raggiunge una soglia sufficiente di
competenze tecnico-scientifiche integrate
idonee a garantire una valutazione separata
degli aspetti paesaggistici da quelli
urbanistico-edilizi; tale requisito appare
evidentemente garantito anche da un
curriculum svolto nel settore pubblico.
Inutilmente discriminatoria e immotivata
risulta dunque la distinzione tra liberi
professionisti e pubblici dipendenti, anche
alla luce delle richiamate indicazioni
regionali, atteso che l’esperienza acquisita
in impieghi pubblici, anche di elevata
responsabilità, nel campo -ad esempio-
dell’urbanistica, della protezione
ambientale o della salvaguardia dei beni
culturali può avere sicuramente un valore
qualificante pari a quello del libero
professionista, atteso che la possibilità di
nominare anche componenti, provvisti di
curriculum prevalentemente costituito da
pubblici incarichi, consente di acquisire
quelle esperienze e competenze
interdisciplinari necessarie ad arricchire
il livello tecnico-specialistico richiesto
ai componenti della Commissione.
Conseguentemente, nel rispetto del primario
interesse di garantire la pluralità della
rappresentanza nell’organo consultivo nei
termini indicati e al fine di assicurare una
composizione della commissione in cui
convergano molteplici e variegate esperienze
professionali, il Dirigente incaricato di
formulare la proposta al Consiglio comunale
non dovrà ritenersi vincolato dalla proposta
formulata dagli Ordini professionali.
---------------
1. Con il ricorso epigrafe originariamente
proposto l’Ing. Ru. ha impugnato la delibera
del Consiglio Comunale di Martina Franca con
cui è stata istituita e regolata la
Commissione locale per il paesaggio, organo
consultivo previsto dell’art. 148 D.lgs.
42/2004.
Con successivi motivi aggiunti ha poi
impugnato la nota comunale del 29.11.2010
con cui il Comune di Martina Franca gli ha
comunicato di non poter tener conto della
sua candidatura a componente della citata
Commissione.
1.1 - Con il ricorso originariamente
proposto vengono dedotte le seguenti
censure:
- violazione artt. 146 e 148 d.lgs. 42/2004 e art. 8 L. 20/2009,
violazione delibera GR 2273/2009, violazione
artt. 3 e 97 Cost.; violazione dei principi
di evidenza pubblica e favor
partecipationis, violazione art. 3 L.
241/1990, eccesso di potere;
- violazione art. 3 e 10-bis L. 241/1990, violazione della par
condicio, eccesso di potere.
1.2 - Con i motivi aggiunti si deduce:
- violazione artt. 146 e 148 d.lgs. 42/2004 e art. 8 L. 20/2009,
violazione delibera GR 2273/2009, violazione
L. 241/1990, eccesso di potere.
...
2. - Il gravame merita di essere accolto.
2.1 - Il ricorrente lamenta che le modalità
di nomina prescelte dal Comune
pregiudicherebbero irragionevolmente la
possibilità di accesso alla Commissione per
chi, come lui, ha acquisito un’esperienza
curriculare in qualità di pubblico
dipendente e non di libero professionista,.
Il motivo è fondato.
2.2 – Al riguardo il Collegio deve precisare
quanto segue:
- Con deliberazione del 27.09.2010 il Consiglio Comunale ha
istituito la Commissione locale per il
paesaggio e ne ha approvato il relativo
regolamento.
- La detta Commissione è prevista espressamente dall’art. 148
D.lgs. 42/2004, spettandole funzioni
consultive nel corso dei procedimenti di
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
- In merito alla composizione, l’art. 148 si limita a stabilire che
la Commissione deve essere composta “da
soggetti con particolare, pluriennale e
qualificata esperienza nella tutela del
paesaggio”, senza esprimere alcuna
limitazione o preferenza tra distinte
categorie professionali.
- La L.R. Puglia 20/2009 ha poi precisato che le Commissioni per il
paesaggio sono composte da “esperti in
possesso di diploma di laurea attinente alla
tutela paesaggistica, alla storia dell’arte
e dell’architettura, al restauro, al
recupero e al riuso dei beni architettonici
e culturali, alla progettazione urbanistica
e ambientale, alla pianificazione
territoriale, alle scienze agrarie o
forestali e alla gestione del patrimonio
naturale”.
- La Commissione per il paesaggio deve essere costituita
nell’ambito dei Comuni, in quanto soggetti
delegati al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, fermo comunque un potere di
vigilanza in capo all’ente regionale,
stabilito dalla legge statale (cfr. art. 148
D.lgs. 42/2004 “le Regioni promuovono
l'istituzione e disciplinano il
funzionamento delle commissioni per il
paesaggio di supporto ai soggetti ai quali
sono delegate le competenze in materia di
autorizzazione paesaggistica”) e
confermato implicitamente dalla legge
regionale (cfr. art. 8 LR 20/2009 “I
Comuni trasmettono alla Regione copia del
provvedimento istitutivo della commissione
locale per il paesaggio, delle nomine dei
singoli componenti e dei rispettivi
curricula”).
- In questo ambito la Regione Puglia, con Delibera G.R. n.
2273/2009 ha stabilito i requisiti minimi
obbligatori dei componenti della
Commissione, anche al fine di rendere
omogenea la competenza tecnico-scientifica
dei soggetti chiamati ad esprimersi sulle
proposte edilizie, nell’ambito delle
prerogative delegate; in quest’occasione si
è considerata parificata l’esperienza
acquisita come libero professionista a
quella di dipendente pubblico.
2.3 – Ciò posto si osserva che il Comune,
con l’adozione del Regolamento per il
funzionamento della Commissione ha invece
previsto che:
- i componenti della commissione, stabiliti in numero di tre,
devono aver maturato un’esperienza almeno
quinquennale esclusivamente nell’ambito
della libera professione (art. 2);
- la nomina dei tre esperti spetta al Consiglio Comunale sulla base
di un rendiconto del Dirigente competente,
che valuta tre terne di candidature proposte
rispettivamente dagli Ordini professionali
degli Architetti, degli Ingegneri, dei
Geologi ed Agronomi (art. 3).
2.4 - In questa prospettiva, visto il quadro
normativo, risulta ingiustificata e quindi
irragionevole, la scelta discrezionale del
Comune di Martina Franca di limitare la
candidatura ai soli liberi professionisti
proposti dai rispettivi Ordini, posto che
una tale limitazione restringe
aprioristicamente il campo delle scelte
possibili e quindi delle competenze e delle
esperienze impiegabili nell’attività della
Commissione.
L’ordinamento legislativo vigente, sopra
richiamato, non prevede infatti una simile
discriminazione, stabilendo solo il
requisito della “qualificata esperienza”
funzionale a costituire una struttura
specialistica come la Commissione per il
paesaggio che, a livello comunale, consenta
di raggiunge una soglia sufficiente di
competenze tecnico-scientifiche integrate
idonee a garantire una valutazione separata
degli aspetti paesaggistici da quelli
urbanistico-edilizi; tale requisito appare
evidentemente garantito anche da un
curriculum svolto nel settore pubblico.
Inutilmente discriminatoria e immotivata
risulta dunque la distinzione tra liberi
professionisti e pubblici dipendenti, anche
alla luce delle richiamate indicazioni
regionali, atteso che l’esperienza acquisita
in impieghi pubblici, anche di elevata
responsabilità, nel campo -ad esempio-
dell’urbanistica, della protezione
ambientale o della salvaguardia dei beni
culturali può avere sicuramente un valore
qualificante pari a quello del libero
professionista, atteso che la possibilità di
nominare anche componenti, provvisti di
curriculum prevalentemente costituito da
pubblici incarichi, consente di acquisire
quelle esperienze e competenze
interdisciplinari necessarie ad arricchire
il livello tecnico-specialistico richiesto
ai componenti della Commissione.
Conseguentemente, nel rispetto del primario
interesse di garantire la pluralità della
rappresentanza nell’organo consultivo nei
termini indicati e al fine di assicurare una
composizione della commissione in cui
convergano molteplici e variegate esperienze
professionali, il Dirigente incaricato di
formulare la proposta al Consiglio comunale
non dovrà ritenersi vincolato dalla proposta
formulata dagli Ordini professionali.
2.5 - Alla luce delle precedenti
considerazioni, la scelta di escludere
candidati con esperienza maturate in qualità
di pubblici impiegati risulta dunque
illegittima in quanto frutto di una scelta
normativa discrezionale ingiustificata e
irragionevole e quindi sindacabile sotto il
profilo dell’eccesso di potere.
3. - In conclusione, il ricorso
originariamente proposto e i motivi aggiunti
sono accolti nei termini di cui in
motivazione e, per l’effetto, sono annullati
gli atti impugnati. Assorbite le ulteriori
censure
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza
19.05.2011 n. 878 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
aggiornamento al
15.06.2021 |
|
I vari "ragioniere-capo comunale" farebbero
bene a non sottovalutare la questione:
il responsabile del servizio contabile ha un obbligo
di controllo effettivo sulla legittimità degli atti
comportanti l'impegno di spesa!! |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Una recente sentenza di Cassazione (Sez. VI penale,
sentenza 07.12.2020 n. 34776) ha confermato
che il visto contabile del responsabile finanziario non ha natura meramente
formale di copertura della spesa ma la normativa primaria prevede la
possibilità di opporsi alla liquidazione, espressione di un suo potere di
vigilanza e di legalità.
Si può chiarire l'espressione "potere di vigilanza e di legalità", cosa
vuole significare, in che consiste?
Si ritiene che dato il tenore della pronuncia della Corte di Cassazione
penale occorre soffermarsi sugli istituti che governano l'attività oggetto
della richiamata pronuncia.
Come evidenziato dalla sentenza, il Tuel prescrive che ogni Determinazione
dell'ente comunale che preveda un impegno di spesa da parte di quest'ultimo
devono essere svolti dei controlli fiscali e contabili in adempimento di
quanto previsto dal combinato disposto degli art. 49, comma 1 e 184, comma 4
del Testo Unico.
In particolare la giurisprudenza della corte Conti ha evidenziato che: "con
il "parere di regolarità contabile" il fine perseguito dal
legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del servizio di
ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio
dell'ente e, a tal fine, nell'esprimere tale parere egli dovrà tener conto,
in particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel
tempo degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità tecnica
rilasciato dal soggetto competente;
b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato dall'organo
proponente) della spesa alla previsione di bilancio annuale, ai programmi e
progetti del bilancio pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di
gestione" (Corte dei Conti Calabria Sez. giurisdiz.
sentenza 27.05.2019 n. 185).
In sostanza chi ricopre funzioni di responsabile del servizio finanziario
all'interno dell'ente locale, attraverso l'esercizio del potere di firma,
deve svolgere un controllo formale e sostanziale sugli ordinativi di
pagamento; ciò in ragione del fatto che "..... le procedure di spesa
previste dalla legge, oltre che dal regolamento di contabilità degli enti
locali, sono volte ad assicurare il buon fine del pagamento, cioè che la
somma indicata sul mandato sia accreditata al legittimo beneficiario, e che
il pagamento stesso sia inequivocabilmente ricondotto all'ambito di una
determinata procedura di spesa pubblica e quietanzato come tale" (Corte
dei Conti Piemonte Sez. giurisdiz.
sentenza 06.09.2016 n. 248).
In conclusione, quindi, il potere di vigilanza e legalità va letto nel senso
che il responsabile del servizio contabile ha un obbligo
di controllo effettivo sulla legittimità degli atti comportanti l'impegno di
spesa.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 49
- D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, 184
Riferimenti di giurisprudenza
Corte dei Conti Calabria Sez. giurisdiz. Delib., 27.05.2019, n. 185 - Corte
dei Conti Piemonte Sez. giurisdiz. Delib., 06.09.2016, n. 248 (17.12.2020
- tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
visto del responsabile finanziario salva il dirigente dal peculato.
La Cassazione salva il manager che si era autoliquidato
incentivi alla progettazione.
L'accusa di peculato al dirigente tecnico che si è autoliquidato incentivi
alla progettazione, in qualità di responsabile unico del procedimento, è
stata smentita dalla Corte di Cassazione - Sez. VI penale (sentenza 07.12.2020 n. 34776).
Quest'ultima, in riforma della sentenza di primo grado e del giudice
dell'appello, ha precisato che, il visto contabile del responsabile
finanziario, non ha natura meramente formale di copertura della spesa ma la
normativa primaria prevede la possibilità di opporsi alla liquidazione,
espressione di un suo potere di vigilanza e di legalità.
La vicenda
Un dirigente dei lavori pubblici è stato accusato di peculato per essersi
liquidato incentivi alla progettazione in qualità di responsabile unico del
procedimento, cui la normativa e il regolamento comunale ne impedivano
l'erogazione in caso di progettazione affidata all'esterno. L'illegittimità
della liquidazione, unitamente alla disponibilità delle somme, ha integrato
il reato di peculato secondo la sentenza di primo grado emessa dal Giudice
per l'udienza preliminare.
La Corte di appello, riformando la sentenza, ha invece sostenuto che, la
previsione regolamentare dell'inibizione degli incentivi al Responsabile
unico del procedimento, in caso di affidamento della progettazione esterna,
avrebbe dovuto essere disapplicata in quanto posta in violazione delle
disposizioni legislative all'epoca vigenti. Tuttavia, l'illegittimità
dell'erogazione e la conferma del reato di peculato discendevano da altre
due cause.
La prima in quanto l'illegittimità andrebbe circoscritta alla mancata
indicazione delle specifiche prestazioni e all'assenza di una percentuale di
ripartizione. La seconda causa discenderebbe dall'atto di
autoliquidazione non considerando rilevante il parere di regolarità
contabile del responsabile finanziario, trattandosi di parere reso su
controlli meramente formali volti alla sola verifica delle risorse
finanziarie disponibili.
Avverso la sentenza della Corte di appello ricorre il dirigente tecnico
evidenziando due errori commessi dai giudici di appello. Il primo in quanto
dalla documentazione depositata i due elementi censurati, sulle prestazioni
dei dipendenti e sulle percentuali, sono smentiti dalla documentazione
depositata. Il secondo errore è stato quello di giudicare irrilevante il
controllo da parte del responsabile finanziario che, lungi dal costituire un
controllo meramente formale, è obbligato da specifiche disposizioni
legislative (artt. 49 e 184 del Tuel) a un controllo effettivo sulla
legittimità degli atti comportanti l'impegno di spesa.
La decisione della Cassazione
Secondo i giudici di Piazza Cavour, al fine di poter confermare il reato di
peculato, deve assumere rilevanza la somma di denaro posta nella esclusiva
disponibilità del dirigente.
Nel caso di specie, pertanto, il nucleo centrare del reato si poggia, nel
verificare se i controlli intestati, dalle disposizioni legislative o
regolamentari, al responsabile finanziario siano o meno da considerare di
tipo meramente formali. Sul punto i giudici di appello hanno sostenuto che
le determinazioni adottate dall'imputato fossero da considerare meramente
formali, tesi questa non condivisa dalla Cassazione.
Infatti, il Testo Unico degli enti locali, impone l'espressione di un parere
tecnico necessario da parte del servizio interessato e uno congiunto del
servizio ragioneria (art. 49, comma 1) quando la proposta di deliberazione
comporti un impegno di spesa nonché l'espletamento di controlli effettivi e
di riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione
da parte del servizio finanziario dell'ente locale (art. 184, comma 4).
In altri termini, non si tratta di meri controlli finanziari quanto
piuttosto di controlli di natura sostanziali con la piena capacità del
responsabile finanziario di opporsi alla liquidazione della determina se
illegittima.
In conclusione, per la Cassazione difetta, ai fini di una piena
riconducibilità della condotta ascritta al ricorrente all'ipotesi di reato
di peculato, il requisito della cosiddetta disponibilità giuridica, con la
conseguenza che la sentenza della Corte di appello deve essere annullata
perché il fatto non costituisce reato
(articolo ItaliaOggi del 10.12.2020). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
delitto di peculato di cui all'art. 314 cod. pen., consiste
nell'appropriazione da parte del soggetto qualificato (pubblico ufficiale o
incaricato di pubblico servizio) di denaro o cosa mobile di proprietà altrui
(soggetto pubblico o privato) di cui abbia la disponibilità, materiale e/o
giuridica.
Appropriazione, inoltre, che s'invera tendenzialmente in assenza di
controlli esterni, situazione quest'ultima che facilita e consente una più
agevole interversione del possesso della res da parte dell'agente.
---------------
1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento in relazione al terzo
motivo di ricorso, comportando l'annullamento senza rinvio della
sentenza impugnata.
2. Il Collegio osserva preliminarmente come l'indubbia peculiarità della
fattispecie non possa far velo all'essenza del delitto di peculato di cui
all'art. 314 cod. pen., che consiste nell'appropriazione da parte del
soggetto qualificato (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio)
di denaro o cosa mobile di proprietà altrui (soggetto pubblico o privato,
sul tema v. per tutte Sez. 6, sent. n. 20132 del 11/03/2015, Varchetta, Rv.
263547 in fattispecie di appropriazione di denaro di privati da parte di
notaio) di cui abbia la disponibilità, materiale e/o giuridica;
appropriazione, inoltre, che s'invera tendenzialmente in assenza di
controlli esterni, situazione quest'ultima che facilita e consente una più
agevole interversione del possesso della res da parte dell'agente.
3. Una delle principali questioni postasi all'attenzione dei giudici di
merito ha, infatti, riguardato proprio la cd. disponibilità giuridica da
parte dell'imputato delle somme di denaro oggetto delle Determinazioni di
autoliquidazione del compenso, all'origine delle accuse formulate nei suoi
confronti.
Più in particolare è venuto in rilievo il tema dell'inserimento della
condotta di appropriazione in una più ampia ed articolata procedura,
richiedente l'intervento di vari soggetti, ragion per cui l'agente infedele,
al fine di ottenere il trasferimento della cosa o del denaro nella sua
materiale e personale disponibilità, deve:
a) ricorrere ad una condotta fraudolenta o ingannatrice che
determini il compimento di atti dispositivi la cui adozione compete a terzi;
b) interagire con altri soggetti, ciascuno dei quali chiamato a
svolgere una diversa funzione nell'ambito di un iter procedimentale
complesso.
E' noto come la giurisprudenza di questa Corte di legittimità abbia in
genere ravvisato nei casi riferibili all'ipotesi sub a) il delitto di
truffa (Sez. 6, sent. n. 31243 del 04/04/2014, PM in proc. Currao, Rv.
260505; Sez. 6, sent. n. 13559 del 11/07/2019, dep. 04/05/2020, Guercio, Rv.
278888), anche se non mancano decisioni di segno diverso (Sez. 6, sent. n.
10762 del 01/02/2018, Gambino, Rv. 272761 in fattispecie di peculato di
pubblico ufficiale, preposto all'organo competente alla istruttoria della
pratica e alla predisposizione del provvedimento finale, che, inducendo in
errore il consiglio di amministrazione di un ente sulla legittimità della
delibera di spesa, ne ottiene l'approvazione con conseguente erogazione a
taluni dipendenti di compensi di importo superiore al dovuto).
Per quelli riferibili all'ipotesi sub b) ha, invece, in genere ravvisato il
delitto di peculato, declinando in vario modo il concetto di 'disponibilità
giuridica' del denaro o della res (Sez. 6, sent. n. 43900 del
04/07/2018, Gaburri, Rv. 274683 in fattispecie di determina dirigenziale di
indebita liquidazione di incentivo, materialmente non erogato dall'imputato
ma a seguito del parere di conformità tecnica reso da altro pubblico
ufficiale; conf. Sez. 6, sent. n. 33254 del 19/05/2016, Caruso, Rv. 267525
ed altre non mass.).
Non sono mancate, tuttavia, pronunce di diverso tenore (Sez. 6 sent. n. 8018
del 26/02/2016, Vuozzo non mass. citata anche nella pronuncia impugnata, in
fattispecie di ravvisata sussistenza del delitto di abuso di ufficio),
anche se l'orientamento più rigoroso è stato riaffermato in relazione a
fattispecie caratterizzate da controlli successivi all'adozione dell'atto
amministrativo di natura puramente formale (Sez. 6, sent. n. 20666 del
08/04/2016, De Sena e altro, Rv. 268030) quando non proprio inesistenti (Sez.
6, sent. n. 49283 del 04/11/2015, Labate, Rv. 265704 riferita a contesto di
atti amministrativi di competenza dell'agente non sottoposti a controllo di
altre componenti dell'ufficio per effetto di consolidate prassi illecite o
sistematicamente neghittose).
3. Il nucleo dell'accusa mossa al ricorrente consiste, infatti, nell'essersi
attribuito autonomamente emolumenti retributivi che non gli competevano,
nella doppia veste di responsabile dei servizi tecnici del Comune di Siliqua
e di Direttore del Bacino n. 31, in violazione dell'art. 24 d.lgs. n. 165
del 2011 e del principio ivi codificato di cd. onnicomprensività della
retribuzione spettante ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni.
La Corte di merito ha, infatti, ritenuto che Me. esercitasse una funzione
sostanzialmente dirigenziale, pur dando atto che nell'ambito del Comune di
Siliqua espletava un ruolo impiegatizio non dirigenziale, per quanto con
funzioni apicali (pag. 18 sent.) e che il cd. Bacino n. 31 non avesse
autonomia giuridica rispetto ai Comuni che ne facevano parte per avere
sottoscritto la convenzione per la realizzazione della rete di gas metano
(pag. 19 sent.).
Il ricorrente era stato, infatti, nominato direttore del Bacino 31 e
Responsabile Unico del Procedimento al di fuori di qualsiasi procedura
concorsuale ovvero di pubblica selezione e solo perché responsabile tecnico
del Servizio LL.PP. e Tecnologico Manutentivo dell'Area Tecnica del Comune
di Siliqua, come anticipato ente capofila del Bacino.
Ma a prescindere dalle incertezze sul suo inquadramento professionale -è la
stessa sentenza a segnalare l'esistenza di una totale commistione di
incarichi e funzioni (pag. 22)- va rilevato come il punto nodale della
vicenda consista non tanto nella possibilità di individuare o meno in capo
al Me. una funzione amministrativa dirigenziale quanto nello stabilire se i
compiti aggiuntivi di Direttore del Bacino n. 31 e di Responsabile Unico del
Procedimento integrassero o meno il diritto ad emolumenti retributivi
ulteriori rispetto a quelli percepiti per i compiti espletati nell'ambito
del Comune di Siliqua.
E' sufficiente del resto apprezzare l'ampiezza delle argomentazioni svolte
dalla Corte di appello proprio sul tema della spettanza o meno al ricorrente
dei maggiori emolumenti oggetto delle Determinazioni incriminate (pagg.
22-26) per avere conferma dell'esattezza della superiore affermazione.
Il tema rimanda, però, nuovamente alle modalità con cui, secondo l'accusa,
si sarebbe inverata la condotta appropriativa e cioè mediante l'emissione
delle Determinazioni di impegno di spesa n. 16 e n. 17 del 2008 nonché
all'iter procedurale seguito da tali atti amministrativi in vista
dell'obiettivo di far incassare al ricorrente gli emolumenti auto liquidati.
Viene allora in rilievo il tema dei controlli che in forza dei già citati
artt.
49 e
184 d.lgs. n. 267 del
2000 TUEL nonché delle pertinenti previsioni del Regolamento di Contabilità
del Comune di Siliqua, dovevano intervenire a valle dell'emissione delle
Determinazioni incriminate, controlli la cui natura e la cui effettività
appaiono decisivi ai fini della sussistenza dell'elemento costitutivo della
cd. disponibilità giuridica del denaro oggetto di appropriazione.
L'argomento ha costituito oggetto del terzo motivo di ricorso, con
cui la difesa del ricorrente ha dedotto che la Corte di merito ha
erroneamente ritenuto che i visti di regolarità contabile e
copertura finanziaria apposti alle determinazioni di autoliquidazione
costituissero controlli meramente formali, ignorando, altresì, che gli artt.
49 e
184 d.lgs. n. 267 del 2000 oltre che le specifiche previsioni (artt.
33, 35, 36, 37 comma 6) del citato Regolamento di Contabilità comunale
integravano un controllo effettivo sulla legittimità degli atti comportanti
impegno di spesa.
4. Sul punto la Corte territoriale ha stabilito che le Determinazioni
adottate dall'imputato "furono sottoposte ad un mero visto di
regolarità contabile e copertura finanziaria, limitato alla
verifica della sussistenza e capienza del titolo di spesa, senza alcun
controllo di piena legalità e soprattutto senza che, per prassi invalsa al
Comune, vi fosse la concreta possibilità di opporre un rifiuto al visto
dell'atto, in presenza di una copertura, da parte della responsabile del
servizio" (pag. 29 sent.).
Il Collegio rileva che tale statuizione, condivisa con il giudice di primo
grado (pag. 9 sent.), riposa probabilmente su elementi informativi acquisiti
nel corso delle indagini, ma che non trovano particolare approfondimento
nella motivazione della sentenza.
Non è dato, infatti, meglio comprendere perché mai non vi fosse la
possibilità di esperire un controllo effettivo sulla legalità di quelle
Determinazioni e per quali ragioni fosse invalsa nel Comune di Siliqua la
prassi di procedere alla liquidazione alla sola condizione che vi fosse una
copertura finanziaria, a fronte delle precise e stringenti previsioni
di normativa primaria e regolamentare.
Il Testo Unico sugli Enti Locali d.lgs. n. 267 del 18.08.2000 impone per
contro l'espressione di un parere tecnico necessario da parte del
servizio interessato ed uno congiunto del servizio ragioneria (art.
49, comma 1) quando la proposta di deliberazione comporti un
impegno di spesa nonché l'espletamento di controlli effettivi e di riscontri
amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione da parte del
servizio finanziario dell'ente locale (art.
184, comma 4).
Corrispondenti previsioni sono contenute:
- nell'art. 33, comma 1, (Le proposte di deliberazione da
adottarsi dal Consiglio Comunale e dalla Giunta Comunale e /e determinazioni
dei Responsabili dei Servizi che comportano impegno di spesa sono trasmesse
al Servizio Affari Generali e Istituzionali per la relativa istruttoria e il
successivo inoltro al Servizio Economico-finanziario per il parere di
regolarità contabile e l'attestazione di copertura finanziaria) e comma
4 (In presenza di determinazioni che non appaiono regolari il
Responsabile dell'Area Contabile restituisce la pratica al responsabile del
servizio proponente con rapporto motivato),
- nell'art. 35, commi 1 e 2 (Qualsiasi atto che comporti spese a
carico del Comune è nullo di diritto se privo dell'attestazione della
relativa copertura finanziaria, da parte del Direttore Finanziario o suo
delegato. Il rilascio del visto presuppone, con riferimento alla regolarità
contabile, l'esame degli elementi di cui all'art. 36, comma 1, e riguardo
all'attestazione di copertura finanziaria: certifica l'effettiva
disponibilità dello stanziamento di bilancio; per gli impegni di spesa
correnti, rileva l'inesistenza di fatti o eventi pregiudizievoli degli
equilibri di bilancio (...);
- nell'art. 36, comma 1 (Il responsabile dell'Area Contabile
qualora la determinazione non presenti i requisiti di regolarità di cui al
comma precedente, nega il visto) e comma 2 (Per gli atti che
comportano impegni di spesa e che richiedono il parere di regolarità
contabile, quale dichiarazione di giudizio e atto di valutazione, questo
deve riguardare: a) la regolarità della documentazione; b) la corretta
imputazione al bilancio e la disponibilità del fondo iscritto sul relativo
intervento o capitolo; c) l'esistenza del presupposto dal quale sorge il
diritto dell'obbligazione; l'esistenza dell'impegno d spesa regolarmente
assunto; la conformità alle norme fiscali; f) il rispetto delle competenze
proprie dei soggetti dell'Ente; g) il rispetto dell'Ordinamento Contabile
degli Enti Locali e delle norme del presente Regolamento),
- nell'art. 37, comma 6 (Nel caso in cui si rilevino
irregolarità nell'atto di liquidazione o la non conformità rispetto all'atto
di impegno o l'insufficienza della disponibilità rispetto all'impegno
assunto, l'atto stesso viene restituito al Servizio proponente con
l'indicazione dei provvedimenti da promuovere per la regolarizzazione)
del Regolamento di Contabilità adottato dal Comune di Siliqua in data
19/01/2004 e allegato al ricorso.
Dato il contenuto di tali presidi normativi e regolamentari, risulta invero
arduo qualificarli momenti di controllo irrilevanti quando non inesistenti
esclusivamente sulla base di una non meglio precisata incapacità della
responsabile del servizio finanziario del Comune di Siliqua di opporsi alla
liquidazione delle Determinazioni emesse dall'imputato; tanto più che il
Comune di Siliqua doveva pur contare ai fini della regolarità formale e
dell'espletamento corrente dell'azione amministrativa sulla presenza di un
Segretario Generale, forse anch'egli venuto meno ai suoi compiti di
vigilanza, se fu, invece, la segnalazione alla Corte dei Conti in data
28/01/2013 da parte di un nuovo Segretario Generale a dare avvio al caso
(pag. 26 sent.).
In conclusione difetta, ai fini di una piena riconducibilità della condotta
ascritta al ricorrente all'ipotesi di reato di peculato, il requisito della
cd. disponibilità giuridica, impregiudicati i profilli di illegittimità
delle Determinazioni adottate in violazione di regole di contabilità
pubblica (pagg. 24-25 sentenza), di previsioni di contrattazione collettiva
(pagg. 27-28) o in contrasto con norme primarie di altra fonte (art. 24
d.lgs. n. 165 del 2001), che non spetta, tuttavia, a questa Corte di
Cassazione sindacare in questa sede processuale ma che non postulano
necessariamente la sussistenza del delitto di cui all'art. 314 cod. pen.
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 07.12.2020 n. 34776). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
visto di regolarità contabile (cfr. art. 183, co. 7, d.lgs. n.
267/2000) attestando la copertura finanziaria, attiene alla fase di
esecuzione della spesa e determina l’esecutività dei provvedimenti dei
responsabili dei servizi, differendo dal parere di regolarità contabile
(cfr. art. 49 d.lgs. cit.) che investe la legittimità delle deliberazioni.
---------------
Si appalesa fondata, invece, l’eccezione formulata dal dott. Sa., con
esclusione di qualsivoglia responsabilità in capo al medesimo, chiamato in
giudizio per avere apposto il visto di regolarità contabile sulla determina
n. 49 del 20.12.2012.
Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza contabile, invero, il
visto di regolarità contabile (cfr. art. 183, co. 7, d.lgs. n. 267/2000)
attestando la copertura finanziaria, attiene alla fase di esecuzione della
spesa e determina l’esecutività dei provvedimenti dei responsabili dei
servizi, differendo dal parere di regolarità contabile (cfr. art. 49
d.lgs. cit.) che investe la legittimità delle deliberazioni (ex multis,
C. conti, Sez. giur. Trentino A. Adige, 25.03.2010, n. 114)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Puglia,
sentenza 13.11.2019 n. 677). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Secondo
la giurisprudenza contabile prevalente, il parere del responsabile
finanziario è un vero e proprio parere di legittimità del provvedimento.
Va confutata l’argomentazione difensiva sulla base della
quale si assume che il visto apposto, sulla delibera in oggetto, avrebbe
come unico significato quello di copertura della spesa e non quello riferito
al controllo di legittimità della stessa.
Sul punto, richiama il Collegio, solo ai fini di una precisazione di
diritto, le specifiche norme contenute nella seconda parte del D.lgs.
267/2000, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (TUEL)
art. 149 e seguenti.
L’art. 151, enumerando i principi in materia di contabilità, al comma 4
prevede che: I provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano
impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio finanziario e
sono esecutivi con l’apposizione del visto di regolarità contabile
attestante la copertura finanziaria.
L’art. 153, comma 3, disciplina il servizio economico finanziario e per
quanto qui interessa individua il responsabile del servizio finanziario: il
responsabile del servizio finanziario di cui all’art. 151, comma 4, si
identifica con il responsabile del servizio o con i soggetti preposti alle
eventuali articolazioni previste dal regolamento di contabilità .
Ed il comma 5 prevede: il regolamento di contabilità disciplina le modalità
con le quali vengono resi i pareri di regolarità contabile sulle proposte di
deliberazione ed apposto il visto di regolarità contabile sulle
determinazioni dei soggetti abilitati. Il responsabile del servizio
finanziario effettua le attestazioni di copertura della spesa in relazione
alle disponibilità effettive esistenti negli stanziamenti di spesa………
L’art. 191, comma 1, prevede che: gli enti locali possono effettuare spese
solo se sussiste l’impegno contabile registrato sul competente intervento o
capitolo del bilancio di previsione e l’attestazione della copertura
finanziaria di cui all’art. 153, comma 5.
L’art. 184 del TUEL prevede: ……2. la liquidazione compete all’ufficio che ha
dato esecuzione al provvedimento di spesa ed è disposta sulla base della
documentazione necessaria a comprovare il diritto del creditore a seguito
del riscontro operato sulla regolarità della fornitura o della prestazione e
sulla rispondenza della stessa ai requisiti quantitativi e qualitativi, ai
termini o alle condizioni pattuite.
3. L’atto di liquidazione sottoscritto dal responsabile del
servizio proponente, con tutti i relativi documenti giustificativi ed i
riferimenti contabili è trasmesso al servizio finanziario per i conseguenti
adempimenti.
4. Il servizio finanziario effettua, secondo i principi e le
procedure di contabilità pubblica, i controlli ed i riscontri
amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione.
Dal quadro sin qui delineato non si può negare che la figura del
responsabile del servizio finanziario e di ragioneria abbia delle
prerogative funzionali di controllo sugli atti amministrativi che comportano
impegni di spesa; tale potere si esprime attraverso l’espressione dei
suddetti pareri, visti e attestazioni, per i quali ai sensi dell'art. 153
essi sono rilevanti ai fini della responsabilità amministrativa dei
funzionari che li hanno resi.
---------------
Con atto di citazione depositato in data 28.04.2016, la Procura regionale
presso la Sezione giurisdizionale per il Lazio ha convenuto in giudizio i
soggetti indicati in epigrafe, in qualità il primo di Dirigente
pro-tempore del Dipartimento attività economiche produttive, ora
sviluppo economico attività produttive, del Comune di Roma, il secondo nella
sua qualità di dirigente della Ragioneria generale del predetto comune, per
sentirli condannare al pagamento in favore di Roma capitale della somma di €
7.260,00 oltre rivalutazione monetaria, interessi legali e spese di
giustizia, per aver adottato e reso efficace con il relativo visto di
regolarità contabile, con colpa grave, la delibera n. 1523 del 06.06.2012
con la quale veniva affidato alla società Ze.Pr.cu. s.r.l. l’organizzazione
della presentazione della Guida enogastronomica edita dalla Ma.Ed. s.r.l..
...
Nel merito, ha contestato l’addebito di responsabilità connesso al visto di
regolarità contabile apposto dal convenuto alla delibera ritenuta foriera di
danno erariale, in quanto quel visto avrebbe un unico significato e, cioè,
indicare la copertura della spesa sul pertinente capitolo di bilancio ma non
la regolarità della documentazione posta a corredo dell’atto. Per tale
ragione, il Pr. esclude che l’eventuale esame dell’atto limitatamente a
questo profilo possa configurare la colpa grave per l’addebito di
responsabilità, in quanto questa condotta posta in essere non poteva
connettersi ad un evento dannoso inesistente proprio in presenza di
determinazioni di spesa già assunte dalla Giunta e poste in essere dal
dirigente responsabile dell’attività gestoria.
...
Passando, ora, all’esame del merito della questione, ritiene il Collegio
che, dall’esame degli atti acquisiti al fascicolo d’ufficio, la
deliberazione impugnata e ritenuta foriera di danno erariale si riferisce ad
un evento celebrativo nel quale doveva essere presentato il volume della
guida enogastronomica ma non fornito al pubblico, né tanto meno offerto
gratuitamente.
Sul punto, il Collegio, ferma restando l’insindacabilità del merito della
scelta discrezionale, non può non rilevare l’esorbitanza della spesa
compiuta per organizzare l’evento in questione che sarebbe stato meritevole
di attenzione da parte dell’attore che, invece, ha formulato la richiesta di
addebito motivandola per l’inesistenza della celebrazione dell’evento e,
quindi, sulla non debenza della prestazione dovuta a Ze. perché priva di
prestazione corrispettiva.
Infatti, pur essendo la relazione predisposta da Ze. s.r.l. non sottoscritta
in originale dal Rappresentante legale e quindi irregolare solo da un punto
di vista formale, tale elemento non consente di giungere a ritenere la
prestazione richiesta alla medesima come non effettuata. Altri elementi di
riscontro indicati a pag. 11 della memoria difensiva di Me., ma anche dalla
documentazione depositata in atti (contratto di servizio tra Comune di Roma
e Ze. s.r.l. approvato con delibera di Giunta n. 440 del dicembre 2011;
preventivo di spesa recapitato all’ente locale con dichiarazione di
congruità, invito alla partecipazione all’evento ad organi istituzionali
comunali, oltre a indicazioni sul web di cui la difesa in udienza ha
dichiarato l’esistenza), è stato dimostrato da parte del convenuto che la
manifestazione vi è stata e che all’organizzazione dell’evento promozionale
non possa non far seguito la corresponsione della remunerazione stabilita
con piena legittimità della delibera di spesa.
La legittimità della delibera di spesa rende altrettanto legittima
l’apposizione del visto di regolarità contabile che non ha solo valore
significativo dell’esistenza di copertura finanziaria.
Va, infatti, confutata l’argomentazione difensiva sulla base della quale si
assume che il visto apposto sulla delibera in oggetto avrebbe come unico
significato quello di copertura della spesa e non quello riferito al
controllo di legittimità della stessa.
Sul punto, richiama il Collegio, solo ai fini di una precisazione di
diritto, le specifiche norme contenute nella seconda parte del D.lgs.
267/2000, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (TUEL)
art. 149 e seguenti.
L’art. 151, enumerando i principi in materia di contabilità, al comma 4
prevede che: I provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano
impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio finanziario e
sono esecutivi con l’apposizione del visto di regolarità contabile
attestante la copertura finanziaria.
L’art. 153, comma 3, disciplina il servizio economico finanziario e per
quanto qui interessa individua il responsabile del servizio finanziario:
il responsabile del servizio finanziario di cui all’art. 151, comma 4, si
identifica con il responsabile del servizio o con i soggetti preposti alle
eventuali articolazioni previste dal regolamento di contabilità .
Ed il comma 5 prevede: il regolamento di contabilità disciplina le
modalità con le quali vengono resi i pareri di regolarità contabile sulle
proposte di deliberazione ed apposto il visto di regolarità contabile sulle
determinazioni dei soggetti abilitati. Il responsabile del servizio
finanziario effettua le attestazioni di copertura della spesa in relazione
alle disponibilità effettive esistenti negli stanziamenti di spesa………
L’art. 191, comma 1, prevede che: gli enti locali possono effettuare
spese solo se sussiste l’impegno contabile registrato sul competente
intervento o capitolo del bilancio di previsione e l’attestazione della
copertura finanziaria di cui all’art. 153, comma 5.
L’art. 184 del TUEL prevede: ……2. la liquidazione compete all’ufficio che
ha dato esecuzione al provvedimento di spesa ed è disposta sulla base della
documentazione necessaria a comprovare il diritto del creditore a seguito
del riscontro operato sulla regolarità della fornitura o della prestazione e
sulla rispondenza della stessa ai requisiti quantitativi e qualitativi, ai
termini o alle condizioni pattuite.
3. L’atto di liquidazione sottoscritto dal responsabile del
servizio proponente, con tutti i relativi documenti giustificativi ed i
riferimenti contabili è trasmesso al servizio finanziario per i conseguenti
adempimenti.
4. Il servizio finanziario effettua, secondo i principi e le
procedure di contabilità pubblica, i controlli ed i riscontri
amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione.
Dal quadro sin qui delineato non si può negare che la figura del
responsabile del servizio finanziario e di ragioneria abbia delle
prerogative funzionali di controllo sugli atti amministrativi che comportano
impegni di spesa; tale potere si esprime attraverso l’espressione dei
suddetti pareri, visti e attestazioni, per i quali ai sensi dell'art. 153
essi sono rilevanti ai fini della responsabilità amministrativa dei
funzionari che li hanno resi.
Perciò, le argomentazioni del convenuto Pr., responsabile del servizio
finanziario e di ragioneria del comune di Roma, ove egli afferma che il
visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria sulla
determinazione del responsabile del servizio interessato si limitava alla
sola verifica della copertura finanziaria, la corretta imputazione al
capitolo di spesa, alla competenza dell’organo che l’ha assunta, al rispetto
dei principi contabili ed alla completezza della documentazione, sono
infondate (in tal senso cfr. sezione Lazio n. 415/2009 ove viene affermato
che il controllo svolto dall’Ufficio di ragioneria non è un controllo
formale ma effettivo sulla azione amministrativa, con effetti impeditivi
alla declaratoria di legittimità dell’atto cui nella specie è seguita
l’emissione del mandato di pagamento) (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz.
Lazio,
sentenza 06.12.2016 n. 334). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
funzionario pubblico con funzioni di responsabile del servizio finanziario
di ente locale, soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti, che dia
corso, con la propria sottoscrizione, ad ordinativi di pagamento deve
svolgere un controllo formale e sostanziale sull'ordinativo medesimo.
La norma generale della contabilità pubblica recata
dall’art. 81, comma 3, del R.D. n. 2440/1923 (recante “Nuove disposizioni
sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello
Stato”), applicabile al personale degli enti locali stante il rinvio di cui
all’art. 93 TUEL, dispone, quanto alla responsabilità dei pubblici
funzionari ordinatori di spese e pagamenti, che “Gli ordinatori secondari di
spese pagabili in base a ruoli e ogni altro funzionario ordinatore di spese
e pagamenti, sono personalmente responsabili dell'esattezza della
liquidazione delle spese e dei relativi ordini di pagamento, come pure della
regolarità dei documenti e degli atti presentati dai creditori.”
In questa sede, la responsabilità della convenuta, quale funzionario
pubblico, nella specie con funzioni di responsabile del servizio finanziario
di ente locale, soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti, va
valutata alla luce di tale disciplina contabile, che dichiara responsabile
il funzionario che dia corso, con la propria sottoscrizione, ad ordinativi
di pagamento senza la previa verifica della esatta liquidazione e della
documentazione della spesa. Attraverso l'esercizio del potere di firma,
infatti, egli deve svolgere un controllo formale e sostanziale
sull'ordinativo medesimo.
L’art. 185 TUEL definisce ulteriormente i requisiti dell’ordinazione e del
pagamento delle spese, disponendo che: “1. L'ordinazione consiste nella
disposizione impartita, mediante il mandato di pagamento, al tesoriere
dell'ente locale di provvedere al pagamento delle spese.
2. Il mandato di pagamento è sottoscritto dal dipendente dell'ente
individuato dal regolamento di contabilità nel rispetto delle leggi vigenti
e contiene almeno i seguenti elementi: a) il numero progressivo del mandato
per esercizio finanziario; b) la data di emissione; c) l'intervento o il
capitolo per i servizi per conto di terzi sul quale la spesa è allocata e la
relativa disponibilità, distintamente per competenza o residui; d) la
codifica; e) l'indicazione del creditore e, se si tratta di persona diversa,
del soggetto tenuto a rilasciare quietanza, nonché, ove richiesto, il
relativo codice fiscale o la partita IVA; f) l'ammontare della somma dovuta
e la scadenza, qualora sia prevista dalla legge o sia stata concordata con
il creditore; g) la causale e gli estremi dell'atto esecutivo che legittima
l'erogazione della spesa; h) le eventuali modalità agevolative di pagamento
se richieste dal creditore; i) il rispetto degli eventuali vincoli di
destinazione.
3. Il mandato di pagamento è controllato, per quanto attiene alla
sussistenza dell'impegno e della liquidazione, dal servizio finanziario, che
provvede altresì alle operazioni di contabilizzazione e di trasmissione al
tesoriere.”
L’art. 184 TUEL precisa gli obblighi del responsabile del servizio
finanziario come segue: “Il servizio finanziario effettua, secondo i
principi e le procedure di contabilità pubblica, i controlli e i riscontri
amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione” (comma 4).
Il rispetto delle suddette procedure di spesa è da considerarsi essenziale
ai fini della legalità dell'azione amministrativa, pena la responsabilità
personale del funzionario.
Le procedure di spesa previste dalla legge, oltre che dal regolamento di
contabilità degli enti locali, sono volte ad assicurare il buon fine del
pagamento, cioè che la somma indicata sul mandato sia accreditata al
legittimo beneficiario, e che il pagamento stesso sia inequivocabilmente
ricondotto all'ambito di una determinata procedura di spesa pubblica e
quietanzato come tale.
---------------
2.1. Venendo al merito, va premesso che, la norma generale della contabilità
pubblica recata dall’art.
81, comma 3, del R.D. n. 2440/1923 (recante “Nuove
disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità
generale dello Stato”), applicabile al personale degli enti locali
stante il rinvio di cui all’art.
93 TUEL, dispone, quanto alla responsabilità dei pubblici
funzionari ordinatori di spese e pagamenti, che “Gli ordinatori secondari
di spese pagabili in base a ruoli e ogni altro funzionario ordinatore di
spese e pagamenti, sono personalmente responsabili dell'esattezza della
liquidazione delle spese e dei relativi ordini di pagamento, come pure della
regolarità dei documenti e degli atti presentati dai creditori.”
In questa sede, la responsabilità della convenuta, quale funzionario
pubblico, nella specie con funzioni di responsabile del servizio finanziario
di ente locale, soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti, va
valutata alla luce di tale disciplina contabile, che dichiara responsabile
il funzionario che dia corso, con la propria sottoscrizione, ad ordinativi
di pagamento senza la previa verifica della esatta liquidazione e della
documentazione della spesa. Attraverso l'esercizio del potere di firma,
infatti, egli deve svolgere un controllo formale e sostanziale
sull'ordinativo medesimo.
L’art.
185 TUEL definisce ulteriormente i requisiti dell’ordinazione e
del pagamento delle spese, disponendo che: “1. L'ordinazione consiste
nella disposizione impartita, mediante il mandato di pagamento, al tesoriere
dell'ente locale di provvedere al pagamento delle spese.
2. Il mandato di pagamento è sottoscritto dal dipendente dell'ente
individuato dal regolamento di contabilità nel rispetto delle leggi vigenti
e contiene almeno i seguenti elementi: a) il numero progressivo del mandato
per esercizio finanziario; b) la data di emissione; c) l'intervento o il
capitolo per i servizi per conto di terzi sul quale la spesa è allocata e la
relativa disponibilità, distintamente per competenza o residui; d) la
codifica; e) l'indicazione del creditore e, se si tratta di persona diversa,
del soggetto tenuto a rilasciare quietanza, nonché, ove richiesto, il
relativo codice fiscale o la partita IVA; f) l'ammontare della somma dovuta
e la scadenza, qualora sia prevista dalla legge o sia stata concordata con
il creditore; g) la causale e gli estremi dell'atto esecutivo che legittima
l'erogazione della spesa; h) le eventuali modalità agevolative di pagamento
se richieste dal creditore; i) il rispetto degli eventuali vincoli di
destinazione.
3. Il mandato di pagamento è controllato, per quanto attiene alla
sussistenza dell'impegno e della liquidazione, dal servizio finanziario, che
provvede altresì alle operazioni di contabilizzazione e di trasmissione al
tesoriere.”
L’art.
184 TUEL precisa gli obblighi del responsabile del servizio
finanziario come segue: “Il servizio finanziario effettua, secondo i
principi e le procedure di contabilità pubblica, i controlli e i riscontri
amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione” (comma
4).
Il rispetto delle suddette procedure di spesa è da considerarsi essenziale
ai fini della legalità dell'azione amministrativa, pena la responsabilità
personale del funzionario.
Le procedure di spesa previste dalla legge, oltre che dal regolamento di
contabilità degli enti locali, sono volte ad assicurare il buon fine del
pagamento, cioè che la somma indicata sul mandato sia accreditata al
legittimo beneficiario, e che il pagamento stesso sia inequivocabilmente
ricondotto all'ambito di una determinata procedura di spesa pubblica e
quietanzato come tale (cinquantaduemilatrecentoquarantadue/04) oltre rivalutazione
monetaria dalla scadenza di ogni singolo esercizio cui si riferiscono i
mandati sino alla data di pubblicazione della presente sentenza e interessi
legali da tale data al saldo effettivo (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Piemonte,
sentenza 06.09.2016 n. 248). |
aggiornamento al
31.05.2021 |
|
Anche alla stampa specializzata capita di "prendere
lucciole per lanterne":
la
realizzazione del "cappotto isolante" esterno
di un fabbricato esistente necessita della
preventiva "autorizzazione paesaggistica"
solamente
se l'immobile è un "bene paesaggistico" ex
art. 134 del d.lgs. n. 42/2004.
Non solo,
diversamente da quanto affermato dal MiC
(con la
circolare 04.03.2021 n. 4),
il suddetto
"cappotto isolante" rientra nella
voce B.5. (e non la voce B.3.)
del dpr n. 31/2017.
Poi, se è vero -come è vero- che un efficace "cappotto
isolante esterno" mediamente ha uno spessore di
10/12 cm. è di tutta evidenza che la fattispecie
de qua non possa essere annoverata nella voce
A.2. (cioè non
necessitante dell'autorizzazione paesaggistica)
poiché, di fatto, emergente dalla sagoma esistente.
Invero, tale voce A.2. così recita: |
A.2. interventi sui prospetti
o sulle coperture degli edifici, purché eseguiti nel rispetto degli
eventuali piani del colore vigenti nel comune e delle caratteristiche
architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture
esistenti, quali:
- rifacimento di intonaci, tinteggiature, rivestimenti esterni o
manti di copertura;
- opere di manutenzione di balconi, terrazze o scale esterne;
- integrazione o sostituzione di vetrine e dispositivi di
protezione delle attività economiche, di finiture esterne o manufatti quali
infissi, cornici, parapetti, lattonerie, lucernari, comignoli e simili;
- interventi di coibentazione volti a
migliorare l’efficienza energetica degli edifici che non
comportino la realizzazione di elementi o manufatti
emergenti dalla sagoma,
ivi compresi quelli eseguiti sulle falde di copertura.
Alle medesime condizioni non è altresì soggetta ad autorizzazione la
realizzazione o la modifica di aperture esterne o di finestre a tetto,
purché tali interventi non interessino i beni vincolati ai sensi del Codice,
art. 136, comma 1, lettere a), b) e c) limitatamente, per quest’ultima,
agli immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale,
ivi compresa l’edilizia rurale tradizionale, isolati o ricompresi nei centri
o nuclei storici; |
Sicché,
"In claris non fit interpretatio"!!
["Nell'applicare
la legge non si può ad essa attribuire altro senso
che quello fatto palese dal significato proprio
delle parole secondo la connessione di esse, e dalla
intenzione del legislatore." ... cfr.
art. 12 DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE o
disposizioni preliminari al codice civile (preleggi)] |
EDILIZIA PRIVATA:
Case ante 1945, cappotti con permessi paesaggistici. Anche senza
un vincolo specifico occorre il sì della Sovrintendenza. Gli architetti
preoccupati:
«Possiamo valutare noi l'impatto reale del lavoro».
Case
antiche, moderne, vecchie, belle o brutte, basta la data fatale: 1945, forse
perché dal momento della ricostruzione sono stati commessi i peggiori
obbrobri architettonici, che in qualche caso è meglio coprire con un bel
cappotto termico. Ma vai a capire.
La
circolare 04.03.2021 n. 4
del Mibact (si veda il sole 24 Ore di ieri) precisa comunque che agli
immobili «di edilizia storica», edificati in Italia prima del 1945,
non può essere automaticamente applicata l’esenzione dall’autorizzazione
paesaggistica semplificata (punto B3 dell’allegato B al Dpr 31/2017).
Le
conseguenze
La conseguenza pratica è che il 17,3% della popolazione italiana, che vive
in immobili precedenti al 1945 (dati Istat) si troverà per forza a
confrontarsi con l’autorizzazione paesaggistica (al cui interno esistono
diversi tipi di vincoli) nel caso intendesse percorrere l’accidentata strada
del superbonus.
Naturalmente la questione riguarda anche gli immobili costruiti
successivamente, se «alterino l’aspetto esteriore anche in termini di
finiture». Ma colpisce che nell’obbligo sparisca la distinzione tra
tutela diretta e indiretta, dato che i beni possono anche trovarsi distanti
dai primi, visto che l’unico criterio è la data di costruzione.
La pratica
In cosa consiste la «autorizzazione semplificata»? Occorre presentare
allo Sportello unico edilizia dell’ente locale una serie di documenti. Lo
Sportello attiva la conferenza di servizi semplificata inviando tutto alla
sovrintendenza, che ha 20 giorni per rispondere (se non risponde scatta il «silenzio
provvedimentale», qualcosa più del silenzio-assenso). Il procedimento
autorizzatorio semplificato si conclude con un provvedimento, adottato entro
il termine tassativo di sessanta giorni dal ricevimento della domanda.
Fabrizio Pistolesi, (Segretario del Consiglio nazionale degli arcitetti -
coordinatore Dipartimento semplificazione), esprime «La grande
preoccupazione che abbiamo riguardo a ciò che occorre fare per il 110%. La
burocrazia sta ostacolando molto la partenza del superbonus, su 1,2 milioni
di condomìni sono partiti in meno di 500. Mentre occorre efficientare il
nostro datato patrimonio edilizio, dal punto di vista energetico ma anche e
soprattutto sismico. Qualsiasi ulteriore adempimento è un vero problema. E
la semplificazione sulla Cila che sarà contenuta nel Dl Semplificazioni è
stata studiata da noi per sgravare gli Sportelli unici dalla massa di
richieste di accesso agli atti per la conformità edilizia. I tempi sono
infatti strettissimi, anche se si parla di proroghe».
Una proposta operativa
Pistolesi propone un’idea di razionalizzazione: «In quel contesto ci sono
sicuramente edifici degli degni di tutela, diciamo il 2-3%, ma anche
tantissima edilizia che non ha nessuna prerogativa per essere tutelata.
Quello che auspichiamo è che gli Ordini possano lavorare con le
Soprintendenze realizzando schede metodologiche di questi immobili (come è
avvenuto per il sisma nelle Marche) e in base a queste analisi il
professionista si assume la responsabilità di procedere, salvo controlli
successivi. Per tutti gli immobili ante 1945 potremmo così non gravare le
sovrintendenze di una massa di carta» (articolo
Il Sole 24 Ore dell'01.04.2021). |
EDILIZIA PRIVATA: Superbonus,
edifici ante 1945: stop al cappotto se non si passa prima dalla
soprintendenza. Stabilito in 20 giorni il termine per esprimere
l'autorizzazione semplificata.
Stop al cappotto se non si passa prima dalla soprintendenza, per tutti gli
edifici costruiti prima del 1945.
Secondo la
circolare 04.03.2021 n. 4, del
Ministero della Cultura, «le specifiche caratteristiche
tecnico-costruttive, definite caso per caso, possono comportare incrementi
di spessore anche significativi in funzione dello specifico materiale, della
soluzione tecnica prescelta e del grado di efficientamento termico richiesto
dall’intervento». Quindi, una valutazione caso per caso.
Lo spartiacque del 1945
Quasi mai gli interventi possano ritenersi sempre eseguibili «nel
rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfotipologiche, dei
materiali e delle finiture esistenti», soprattutto se riferiti a «immobili
di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa
l’edilizia rurale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici».
Anche se sono ammissibili gli interventi di manutenzione straordinaria a
condizione «che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore
degli edifìci» come stabilito dall’articolo 149 del Dlgs 42/2004, le
specifiche caratteristiche tecnico-costruttive sono definite caso per caso.
Diventa quindi obbligatorio il passaggio presso la soprintendenza per
edifici di edilizia storica così come definiti nella
circolare Mibact
42/2017, punto 6, realizzati sino al 1945, anno che costituisce «la
soglia cronologica a partire dalla quale può essere individuato il carattere
“contemporaneo” del patrimonio architettonico ed edilizio nazionale (anche
categorizzabile, secondo una nomenclatura anch’essa diffusa, quale
“patrimonio del secondo Novecento”): ciò sulla base della considerazione
dell’indubbia cesura, sia sotto il profilo delle tecnologie costruttive che
(e, forse, soprattutto) dei linguaggi architettonici, rinvenibile nella
produzione edilizia successiva alla data suddetta».
In breve
La
circolare Mic 4/2021 stabilisce in venti giorni il termine per esprimere
l’autorizzazione semplificata di cui al punto B3 dell’Allegato B del Dpr
31/2017. E la
circolare 23.10.2020 n. 45 Mibact ha del resto invitato gli uffici
all’attivazione delle misure organizzative necessarie al rilascio dei nulla
osta o dei pareri.
In conformità con quanto previsto al punto 6 della circolare 42/2017, la
sola fattispecie di immobili per la quale anche il rivestimento a “cappotto”
(con un accrescimento apprezzabile dello spessore murario e con modifica
significativa delle sue caratteristiche materiche) potrebbe essere
ricompresa tra gli interventi indicati alla voce A2 (in esenzione) è quella
riferita agli immobili realizzati dopo il 1945, purché non si alteri
l’aspetto esteriore anche per le finiture.
Maglie strette in Liguria
Le soprintendenze della Liguria avevano già diramato una nota (il
27 febbraio, recte
nota 17.02.2021 n.
2310 di prot.), dove si spiega che «In definitiva l’applicazione di “cappotti”
o intonaci con caratteristiche termoisolanti sulle strutture opache della
facciata influenti dal punto di vista termico appaiono in generale non
compatibili con le finalità di tutela fatta eccezione per gli edifici la cui
realizzazione risalga al periodo post-bellico e per casi per i quali potrà
essere svolta una verifica puntuale», ricordando però (in una successiva
nota del 16 marzo, recte
nota 15.03.2021) la possibilità di «interventi di lieve o lievissima
entità»
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.03.2021). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le sovrintendenze: edifici ante 1945 sotto esame prima dl
cappotto. Stop al cappotto se non si passa
prima dalla soprintendenza, per tutti gli edifici costruiti prima del 1945.
Stabilito in venti giorni il termine per esprimere l'autorizzazione
paesaggistica.
Secondo la
circolare 04.03.2021 n. 4
dei Beni culturali, «le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive,
definite caso per caso, possono comportare incrementi di spessore anche
significativi in funzione dello specifico materiale, della soluzione tecnica
prescelta e del grado di efficientamento termico richiesto dall'intervento».
Quindi, una valutazione caso per caso.
Lo spartiacque del 1945
Quasi mai gli interventi possano ritenersi sempre eseguibili «nel
rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei
materiali e delle finiture esistenti», soprattutto se riferiti a «immobili
di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa
l'edilizia rurale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici».
Anche se sono ammissibili gli
interventi di manutenzione straordinaria a condizione «che non alterino
lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici» come stabilito
dall'articolo 149 del Dlgs 42/2004, le specifiche caratteristiche
tecnico-costruttive sono definite caso per caso.
Diventa quindi
obbligatorio il passaggio presso la soprintendenza per edifici di edilizia
storica così come definiti nella
circolare Mibact 42/2017, punto 6, realizzati sino al 1945, anno che
costituisce «la soglia cronologica a partire dalla quale può essere
individuato il carattere "contemporaneo" del patrimonio architettonico ed
edilizio nazionale (anche categorizzabile, secondo una nomenclatura
anch'essa diffusa, quale "patrimonio del secondo Novecento"): ciò sulla base
della considerazione dell'indubbia cesura, sia sotto il profilo delle
tecnologie costruttive che (e, forse, soprattutto) dei linguaggi
architettonici, rinvenibile nella produzione edilizia successiva alla data
suddetta».
La
circolare 4/2021 Mibact stabilisce in venti giorni il termine per
esprimere l'autorizzazione semplificata di cui al punto B3 dell'Allegato B
del Dpr 31/2017. E la
circolare 23.10.2020 n. 45 Mibact ha del resto invitato
gli uffici all'attivazione delle misure organizzative necessarie al rilascio
dei nulla-osta o dei pareri.
In conformità con quanto previsto al punto 6 della
circolare 21.07.2017 n. 42, la sola fattispecie di immobili per
la quale anche il rivestimento a "cappotto" (con un accrescimento
apprezzabile dello spessore murario e con modifica significativa delle sue
caratteristiche materiche) potrebbe essere ricompresa tra gli interventi
indicati alla voce A2 (in esenzione) è quella riferita agli immobili
realizzati dopo il 1945, purché non si alteri l'aspetto esteriore anche per
le finiture.
Maglie strette in Liguria
Le soprintendenze della Liguria avevano già diramato una nota (il 27
febbraio, recte
nota 17.02.2021 n.
2310 di prot.), dove si spiega che «In definitiva
l'applicazione di "cappotti" o intonaci con caratteristiche termoisolanti
sulle strutture opache della facciata influenti dal punto di vista termico
appaiono in generale non compatibili con le finalità di tutela fatta
eccezione per gli edifici la cui realizzazione risalga al periodo
post-bellico e per casi peri quali potrà essere svolta una verifica puntuale»,
ricordando però (in una successiva nota del 16 marzo, recte
nota 15.03.2021)
la possibilità di «interventi di lieve o lievissima entità» (articolo
Il Sole 24 Ore del 31.03.2021). |
NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Disposizioni integrative alla Circolare n. 42 del 21.07.2017,
applicativa del DPR n. 31 del 2017. Linee di indirizzo "interventi
di coibentazione volti a migliorare l'efficienza energetica"
di cui alla voce A2 dell'allegato A, da effettuarsi su
edifici sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei Beni
Culturali e del Paesaggio, parte III in applicazione della
Legge n. 77 del 17.07.2020, art. 119 (MiC,
circolare 04.03.2021 n. 4).
---------------
La suddetta circolare è l'epilogo (intermedio) di pregressa
corrispondenza finalizzata ad avere chiarimenti in materia.
Segnatamente, nell'ordine:
1 -
Oggetto: Legge n. 77
del 17.07.2020, art. 119 (superbonus 110%). Indicazioni
attuative (MiBACT,
circolare 23.10.2020 n. 45).
2 - Oggetto: Linee di indirizzo per gli interventi su edifici
sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei Beni Culturali
Parte II e III, e sull’edificato con valore storico e
documentale ai fini dell’applicazione della Legge
27.12.2019, n. 160 (c.d. bonus facciate 90%) e Legge n. 77
del 17.07.2020, art. 119 (c.d. superbonus 110%) (MiBACT,
Soprintendenza Città Metropolitana di Genova e di La Spazia
congiuntamente alla Soprintendenza di Imperia e Savona,
nota 17.02.2021 n. 2310 di prot.).
3 - Oggetto: Riscontro alla nota 17.02.2021 n. 2310 di prot.
della
Soprintendenza Città Metropolitana di Genova e di La Spazia
congiuntamente alla Soprintendenza di Imperia e Savona
(Federazione Regionale degli Architetti Pianificatori
Paesaggisti e Conservatori della Liguria,
nota 12.03.2021 n. 1248 di prot.).
4 - Oggetto: Linee di indirizzo per gli interventi su edifici
sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei Beni Culturali
Parte II e III, e sull’edificato con valore storico e
documentale ai fini dell’applicazione della Legge
27.12.2019, n. 160 (c.d. bonus facciate 90%) e Legge n. 77
del 17.07.2020, art. 119 (c.d. superbonus 110%) -
Precisazioni in merito alla nota 2310 del 17.02.2021 (MiC,
Soprintendenza Città Metropolitana di Genova e di La Spazia
congiuntamente alla Soprintendenza di Imperia e Savona,
nota 15.03.2021).
---------------
Da ultimo, in argomento, si è aggiunta anche la
Soprintendenza di Brescia con una propria nota:
● Oggetto: Applicazione della Legge n. 160
del 27.12.2019 (c.d. bonus facciate 90%) e Legge n. 77 del
17.07.2020, art. 119 (c.d. superbonus 110%) negli ambiti
tutelati ai sensi del D.lgs. 42/2004 e patrimonio edilizio
diffuso di valore storico architettonico, storico artistico
e storico-testimoniale. Linee di indirizzo (MiC,
Soprintendenza per le province di Bergamo e Brescia,
nota 07.05.2021 n. 8143 di prot.),
nella cui nota si menzionano due altri documenti e cioè:
► Oggetto: Linee Guida per la valutazione e
riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale
allineate alle nuove Norme tecniche per le costruzioni (d.m.
14.01.2008) (MiBAC,
circolare 02.12.2010 n. 26) ... per maggiori
informazioni consulta anche la
pagina web dedicata del MiBACT;
►
G.U. 26.02.2011 n. 47,
suppl. ord. n. 54, "Valutazione e riduzione del rischio
sismico del patrimonio culturale con riferimento alle Norme
tecniche per le costruzioni di cui al decreto del Ministero
delle infrastrutture e dei trasporti del 14.01.2008" (Direttiva
P.C.M. 09.02.2011).
►
Linee di indirizzo per il miglioramento dell'efficienza
energetica nel patrimonio culturale -
Architettura, centri e nuclei storici ed urbani (MiBACT,
2015).
---------------
In origine (intermedia) si frappone anche un'ulteriore nota
del MiBACT in risposta ad un quesito della Regione Lazio:
— Oggetto: Inquadramento in senso al dpr
31/2017 degli interventi di efficientamento energetico
comportanti la realizzazione di un rivestimento "a cappotto"
sul fronte esterno degli edifici a fini di coibentazione
termica (MiBACT,
nota 24.12.2020 n. 37730 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
D.Lgs. 42/2004, art. 49, comma 3. Utilizzo ai fini
pubblicitari per le coperture dei ponteggi predisposti per
l'esecuzione di interventi di conservazione - Indicazioni
operative (MiBACT,
circolare 07.12.2020 n. 49). |
aggiornamento al
30.04.2021 (ore 23,59) |
|
Sembra ovvio ma, sottolinearlo, non lo è:
la tolleranza
edilizia del 2%,
ex
art. 34-bis, comma 1, dpr n. 380/2001,
è riferito alla singola unità immobiliare e
non al condominio nel suo complesso
(tanto per
esemplificare)
di dieci appartamenti!! |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
34-bis del DPR n. 380/2001, che stabilisce che “il mancato rispetto
dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di
ogni altro parametro delle singole unità abitative non costituisce
violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle
misure previste nel titolo abilitativo”, deve essere interpretato nel senso
di riferire la cd. “tolleranza di cantiere” del 2% delle misure programmate
soltanto alle singole unità abitative e, dunque, a ciascun appartamento e
non all’intero edificio nel suo complesso.
La suddetta interpretazione appare quella più corrispondente al dettato
letterale dell’art. 34-bis del DPR n. 380/2001 (che ha sostituito l’ultimo
comma dell’art. 34 previgente, all’interno del medesimo decreto) riferito,
appunto, alle “singole unità abitative” e, soprattutto, all’esigenza
sostanziale di garantire quanto più possibile la corretta esecuzione dei
progetti costruttivi autorizzati, con conseguente irrilevanza soltanto degli
scostamenti di lieve entità (2% della superficie del singolo appartamento),
inquadrabili nelle “tolleranze di cantiere”, e non di sensibili modifiche al
progetto approvato, che altrimenti potrebbero essere tanto più estese quanto
più grande risulti l’edificio complessivo.
...
Nell’ipotesi in questione, la tolleranza di cantiere non può superare la
misura di 1,5 mq e correttamente l’Amministrazione Comunale si è pronunciata
negativamente sulla SCIA, avendo accertato che le difformità
dell’appartamento all’interno 18 (esteso 75,85 mq), corrispondendo
all’avvenuta realizzazione di nuove superfici abitabili per mq 17,92,
sopravanzassero di gran lunga le suddette tolleranze massime.
In nessun caso la percentuale delle difformità stesse può essere calcolata
sulla superficie dell’intero fabbricato, Villino B, pari a 1458,91 mq.
L’interpretazione su esposta è supportata anche dalle più recenti pronunce
del Consiglio di Stato e non
risulta efficacemente smentita né dal riferimento della norma dell’art.
34-bis cit. al “titolo abilitativo” (che pur riguardando, se del caso, tutta
la costruzione, non può che contenere un preciso riferimento anche alle
singole unità immobiliari), né dalle argomentazioni contenute nelle più
risalenti decisioni giurisprudenziali, favorevoli ad una più estesa
liberalizzazione delle difformità da progetto, particolarmente rischiosa,
però, per il possibile pregiudizio arrecato all’interesse pubblico
urbanistico ed edilizio, in caso di fabbricati di grandi dimensioni.
---------------
Rilevato che:
- la ricorrente ha chiesto al Tribunale di annullare, previa
sospensione dell’efficacia, la determinazione dirigenziale di Roma Capitale
prot. CS n. 90661 del 02.12.2020 con cui era stato disposto l’annullamento
della SCIA prot. CS/82701/2020 del 03.11.2020, da essa presentata in
relazione all’appartamento sito in Roma, via ..., n. ..., scala B, piano 4,
int. 18, e tutti gli atti presupposti e consequenziali;
- a sostegno della sua domanda, la ricorrente ha dedotto:
a) di essere proprietaria di un complesso immobiliare sito in Roma, via ...
n. ..., composto da un fabbricato, indicato come “Villino A” e da un
altro edificio, denominato “Villino B”, realizzato in virtù di
licenza edilizia n. 821/1962 e licenza edilizia in variante n. 18/1964,
dichiarato agibile con certificati nn. 1489 e 1490 del 25.11.1965;
b) di aver verificato, nel corso dei controlli finalizzati alla dismissione
del proprio patrimonio immobiliare, che un appartamento del Villino B
(l’interno 18) presentava lievi difformità rispetto ai titoli edilizi
conseguiti al momento della costruzione e della variante, che però
apparivano risalenti all’epoca dell’edificazione;
c) di avere accertato che tali difformità consistevano nella avvenuta
realizzazione di nuove superfici abitabili di mq 17,92;
d) di aver presentato ai fini della regolarizzazione di esse, il 03.11.2020,
una SCIA, invocando l’applicazione dell’art. 34 bis del DPR n. 380/2001,
trattandosi di “tolleranze costruttive”, contenute entro il limite
del 2% delle misure previste nel titolo abitativo, da calcolarsi con
riguardo alla superficie non del singolo appartamento, ma dell’intero
fabbricato – Villino B (1.458,91 mq);
e) di aver ricevuto inaspettatamente la determina impugnata, nella quale
l’Amministrazione aveva sostenuto che il limite del 2% dovesse essere
calcolato non con riferimento alla superficie dell’intero edificio, ma con
riguardo a quella del singolo appartamento e che la SCIA fosse comunque
carente di alcuni documenti;
- alla luce di tali circostanze, la ricorrente ha formulato i
seguenti motivi:
1) violazione e falsa applicazione dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 380/2001,
erronea e falsa applicazione dell’art. 3 NTA del PRG di Roma Capitale,
2) violazione e falsa applicazione dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 380/2001
sotto altro profilo, violazione del giusto procedimento, violazione
dell’art. 6, lett. b), della l.n. 241/1990, irragionevolezza e sproporzione;
- si è costituita in giudizio Roma Capitale, chiedendo il rigetto
del ricorso, in quanto infondato;
- alla camera di consiglio del 03.03.2021, fissata per esame della
sospensiva, la causa è stata trattenuta in decisione ex art. 60 c.p.a.,
sussistendone i presupposti;
Ritenuto che:
- il ricorso non sia fondato e debba essere rigettato;
- l’art. 34-bis del DPR n. 380/2001, che stabilisce che “il
mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della
superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità abitative
non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per
cento delle misure previste nel titolo abilitativo”, debba essere
interpretato nel senso di riferire la cd. “tolleranza di cantiere”
del 2% delle misure programmate soltanto alle singole unità abitative e,
dunque, a ciascun appartamento e non all’intero edificio nel suo complesso,
come sostenuto dalla ricorrente;
- la suddetta interpretazione appaia quella più corrispondente al
dettato letterale dell’art. 34-bis del DPR n. 380/2001 (che ha sostituito
l’ultimo comma dell’art. 34 previgente, all’interno del medesimo decreto)
riferito, appunto, alle “singole unità abitative” e, soprattutto,
all’esigenza sostanziale di garantire quanto più possibile la corretta
esecuzione dei progetti costruttivi autorizzati, con conseguente irrilevanza
soltanto degli scostamenti di lieve entità (2% della superficie del singolo
appartamento), inquadrabili nelle “tolleranze di cantiere”, e non di
sensibili modifiche al progetto approvato, che altrimenti potrebbero essere
tanto più estese quanto più grande risulti l’edificio complessivo;
- nell’ipotesi in questione, la tolleranza di cantiere non potesse
superare la misura di 1,5 mq e correttamente l’Amministrazione Comunale si
sia pronunciata negativamente sulla SCIA, avendo accertato che le difformità
dell’appartamento all’interno 18 (esteso 75,85 mq), corrispondendo
all’avvenuta realizzazione di nuove superfici abitabili per mq 17,92,
sopravanzassero di gran lunga le suddette tolleranze massime;
- in nessun caso la percentuale delle difformità stesse potesse
essere calcolata sulla superficie dell’intero fabbricato, Villino B, pari a
1458,91 mq;
- l’interpretazione su esposta sia supportata anche dalle più
recenti pronunce del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., Sez. II, 07.01.2021
n. 230) e non risulti efficacemente smentita né dal riferimento della norma
dell’art. 34-bis cit. al “titolo abilitativo” (che pur riguardando,
se del caso, tutta la costruzione, non può che contenere un preciso
riferimento anche alle singole unità immobiliari), né dalle argomentazioni
contenute nelle più risalenti decisioni giurisprudenziali, favorevoli ad una
più estesa liberalizzazione delle difformità da progetto, particolarmente
rischiosa, però, per il possibile pregiudizio arrecato all’interesse
pubblico urbanistico ed edilizio, in caso di fabbricati di grandi
dimensioni;
- non meritevoli di accoglimento siano, infine, anche le ulteriori
doglianze espresse dalla ricorrente con riguardo all’art. 3 NTA del PRG,
che, ai fini dell’applicazione delle previsioni urbanistiche ed edilizie del
PRG, definisce in via generale i concetti di “unità edilizia” e di “unità
immobiliare”, e in rapporto al preteso difetto di motivazione del
provvedimento impugnato in relazione alla contestazione da parte
dell’Amministrazione della mancata allegazione alla SCIA dei “calcoli e
(dei) computi metrici previsti per la determinazione delle sanzioni da
applicare anche in riferimento alle difformità prospettiche degli infissi e
dei balconi oggetto di sanatoria”, delle “reversali relative al
pagamento dei Diritti di istruttoria” e di “prospetti, sezioni e
documentazione fotografica”, atti allo stato ancora mancanti e comunque
di secondaria rilevanza di fronte all’impossibilità di considerare gli
aumenti di superficie rilevati come “tolleranze di cantiere”;
- il ricorso debba essere, dunque, come anticipato, integralmente
respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 15.04.2021 n. 4413 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 34-bis del DPR n. 380/2001, che stabilisce che “il mancato
rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie
coperta e di ogni altro parametro delle singole unità abitative non
costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento
delle misure previste nel titolo abilitativo”, deve essere interpretato nel
senso di riferire la cd. “tolleranza di cantiere” del 2% delle misure
programmate soltanto alle singole unità abitative e, dunque, a ciascun
appartamento e non all’intero edificio nel suo complesso.
La suddetta interpretazione appare quella più corrispondente al
dettato letterale dell’art. 34-bis del DPR n. 380/2001 (che ha sostituito
l’ultimo comma dell’art. 34 previgente, all’interno del medesimo decreto)
riferito, appunto, alle “singole unità abitative” e, soprattutto,
all’esigenza sostanziale di garantire quanto più possibile la corretta
esecuzione dei progetti costruttivi autorizzati, con conseguente irrilevanza
soltanto degli scostamenti di lieve entità (2% della superficie del singolo
appartamento), inquadrabili nelle “tolleranze di cantiere”, e non di
sensibili modifiche al progetto approvato, che altrimenti potrebbero essere
tanto più estese quanto più grande risulti l’edificio complessivo.
...
Nell’ipotesi in questione, la tolleranza di cantiere non può
superare la misura di 1,7 mq e correttamente l’Amministrazione Comunale si
è pronunciata negativamente sulla SCIA, avendo accertato che le difformità
dell’appartamento all’interno 14 (esteso 89,10 mq), corrispondendo
all’avvenuta realizzazione di nuove superfici abitabili per mq 16,52,
sopravanzassero di gran lunga le suddette tolleranze massime.
In nessun caso la percentuale delle difformità stesse può essere calcolata
sulla superficie dell’intero fabbricato, villino A, pari a 1617,50 mq.
L'interpretazione su esposta è supportata anche dalle più recenti pronunce
del Consiglio di Stato e non risulta efficacemente smentita né dal riferimento della norma
dell’art. 34-bis cit. al “titolo abilitativo” (che pur riguardando, se del
caso, tutta la costruzione, non può che contenere un preciso riferimento
anche alle singole unità immobiliari), né dalle argomentazioni contenute
nelle più risalenti decisioni giurisprudenziali, favorevoli ad una più
estesa liberalizzazione delle difformità da progetto, particolarmente
rischiosa, però, per il possibile pregiudizio arrecato all’interesse
pubblico urbanistico ed edilizio, in caso di fabbricati di grandi
dimensioni.
---------------
Rilevato che:
- la ricorrente ha chiesto al Tribunale di annullare, previa
sospensione dell’efficacia, la determinazione dirigenziale di Roma Capitale
prot. CS n. 90657 del 02.12.2020 con cui era stato disposto l’annullamento
della SCIA prot. CS/82691/2020 del 03.11.2020, da essa presentata in
relazione all’appartamento sito in Roma, alla via ..., n. ..., scala A,
piano 4, int. 14, e tutti gli atti presupposti e consequenziali;
- a sostegno della sua domanda, la ricorrente ha dedotto:
a) di essere proprietaria di un complesso immobiliare sito in Roma, via ...
n. ..., composto da un fabbricato, indicato come “Villino A” e da un
altro edificio, denominato “Villino B”, realizzato in virtù di
licenza edilizia n. 821/1962 e licenza edilizia in variante n. 18/1964,
dichiarato agibile con certificati nn. 1489 e 1490 del 25.11.1965;
b) di aver verificato, nel corso dei controlli finalizzati alla dismissione
del proprio patrimonio immobiliare, che un appartamento del Villino A
(l’interno 14) presentava lievi difformità rispetto ai titoli edilizi
conseguiti al momento della costruzione e della variante, che però
apparivano risalenti all’epoca dell’edificazione;
c) di avere accertato che tali difformità consistevano nella avvenuta
realizzazione di nuove superfici abitabili di mq 16,52;
d) di aver presentato ai fini della regolarizzazione di esse, il 03.11.2020,
una SCIA, invocando l’applicazione dell’art. 34-bis del DPR n. 380/2001,
trattandosi di “tolleranze costruttive”, contenute entro il limite
del 2% delle misure previste nel titolo abitativo( pari a mq 32,35) perché
da calcolarsi con riguardo alla superficie non del singolo appartamento, ma
dell’intero fabbricato – Villino A (di complessivi 1.617,50 mq);
e) di aver ricevuto inaspettatamente la determina impugnata, nella quale
l’Amministrazione aveva sostenuto che il limite del 2% dovesse essere
calcolato non con riferimento alla superficie dell’intero edificio, ma con
riguardo a quella del singolo appartamento e che la SCIA fosse comunque
carente di alcuni documenti;
- alla luce di tali circostanze, la ricorrente ha formulato i
seguenti motivi:
1) violazione e falsa applicazione dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 380/2001,
erronea e falsa applicazione dell’art. 3 NTA del PRG di Roma Capitale,
2) violazione e falsa applicazione dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 380/2001
sotto altro profilo, violazione del giusto procedimento, violazione
dell’art. 6, lett. b), della l.n. 241/1990, irragionevolezza e sproporzione;
- si è costituita in giudizio Roma Capitale, chiedendo il rigetto
del ricorso, in quanto infondato;
- alla camera di consiglio del 03.03.2021, fissata per esame della
sospensiva, la causa è stata trattenuta in decisione ex art. 60 c.p.a.,
sussistendone i presupposti;
Ritenuto che:
- il ricorso non sia fondato e debba essere rigettato;
- l’art. 34-bis del DPR n. 380/2001, che stabilisce che “il
mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della
superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità abitative
non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per
cento delle misure previste nel titolo abilitativo”, debba essere
interpretato nel senso di riferire la cd. “tolleranza di cantiere”
del 2% delle misure programmate soltanto alle singole unità abitative e,
dunque, a ciascun appartamento e non all’intero edificio nel suo complesso,
come sostenuto dalla ricorrente;
- la suddetta interpretazione appaia quella più corrispondente al
dettato letterale dell’art. 34-bis del DPR n. 380/2001 (che ha sostituito
l’ultimo comma dell’art. 34 previgente, all’interno del medesimo decreto)
riferito, appunto, alle “singole unità abitative” e, soprattutto,
all’esigenza sostanziale di garantire quanto più possibile la corretta
esecuzione dei progetti costruttivi autorizzati, con conseguente irrilevanza
soltanto degli scostamenti di lieve entità (2% della superficie del singolo
appartamento), inquadrabili nelle “tolleranze di cantiere”, e non di
sensibili modifiche al progetto approvato, che altrimenti potrebbero essere
tanto più estese quanto più grande risulti l’edificio complessivo;
- nell’ipotesi in questione, la tolleranza di cantiere non potesse
superare la misura di 1,7 mq e correttamente l’Amministrazione Comunale si
sia pronunciata negativamente sulla SCIA, avendo accertato che le difformità
dell’appartamento all’interno 14 (esteso 89,10 mq), corrispondendo
all’avvenuta realizzazione di nuove superfici abitabili per mq 16,52,
sopravanzassero di gran lunga le suddette tolleranze massime;
- in nessun caso la percentuale delle difformità stesse potesse
essere calcolata sulla superficie dell’intero fabbricato, villino A, pari a
1617,50 mq;
- l’interpretazione suesposta sia supportata anche dalle più
recenti pronunce del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., Sez. II, 07.01.2021
n. 230) e non risulti efficacemente smentita né dal riferimento della norma
dell’art. 34-bis cit. al “titolo abilitativo” (che pur riguardando,
se del caso, tutta la costruzione, non può che contenere un preciso
riferimento anche alle singole unità immobiliari), né dalle argomentazioni
contenute nelle più risalenti decisioni giurisprudenziali, favorevoli ad una
più estesa liberalizzazione delle difformità da progetto, particolarmente
rischiosa, però, per il possibile pregiudizio arrecato all’interesse
pubblico urbanistico ed edilizio, in caso di fabbricati di grandi
dimensioni;
- non meritevoli di accoglimento siano, infine, anche le ulteriori
doglianze espresse dalla ricorrente con riguardo all’art. 3 NTA del PRG,
che, ai fini dell’applicazione delle previsioni urbanistiche ed edilizie del
PRG, definisce in via generale i concetti di “unità edilizia” e di “unità
immobiliare”, e in rapporto al preteso difetto di motivazione del
provvedimento impugnato in relazione alla contestazione da parte
dell’Amministrazione della mancata allegazione alla SCIA dei “calcoli e
(dei) computi metrici previsti per la determinazione delle sanzioni da
applicare anche in riferimento alle difformità prospettiche degli infissi e
dei balconi oggetto di sanatoria”, delle “reversali relative al
pagamento dei Diritti di istruttoria” e di “prospetti, sezioni e
documentazione fotografica”, atti allo stato ancora mancanti e comunque
di secondaria rilevanza di fronte all’impossibilità di considerare gli
aumenti di superficie rilevati come “tolleranze di cantiere”;
- il ricorso debba essere, dunque, come anticipato, integralmente respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 15.04.2021 n. 4412 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Attualmente
l’art. 34-bis d.p.r. n. 380/2001 in tema di “Tolleranze
costruttive” (introdotto dall’art. 10, comma 1, lett. p),
decreto-legge n. 76/2020, convertito, con modificazioni,
dalla legge n. 120/2020) prevede:
«1. Il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi,
della cubatura, della superficie coperta e di
ogni altro parametro delle singole unità immobiliari
non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il
limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo
abilitativo.
(omissis)».
Ebbene, per
la parziale difformità, proprio la disposizione suddetta
contempla una tollerabilità compresa entro la soglia del 2%
del volume complessivo della
singola unità immobiliare.
---------------
4.5. - Con l’ultimo motivo di
censura la ricorrente deduce l’illegittimità del gravato
provvedimento per violazione del decreto-legge n. 70/2011,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106/2011 e
dell’art. 34 d.p.r. n. 380/2001 e per falsa/mancata
applicazione del suddetto art. 34, l’eccesso di potere per
errore e falsità dei presupposti per l’assunta
inquadrabilità dell’illecito oggetto del provvedimento
impugnato nell’ambito di applicazione dell’art. 34, comma
2-ter, d.p.r. n. 380/2001.
Il motivo è infondato.
La ricorrente richiama la disciplina dettata in relazione
alla c.d. “tolleranza costruttiva” dall’art. 5, comma
2, lett. a), n. 5), decreto legge n. 70/2011, convertito,
con modificazioni, nella n. 106/2011, che consente uno
scostamento fino al 2 per cento tra l’opera che viene
realizzata e il progetto che l’aveva prevista, soglia al di
sotto della quale viene esclusa la sussistenza della c.d. “parziale
difformità” e cioè la fattispecie abusiva riscontrata
nell’unità immobiliare della stessa -OMISSIS-.
In particolare la deducente invoca il comma 2-ter dell’art.
34 d.p.r. n. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia)
(introdotto per l’appunto dal citato decreto-legge n.
70/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n.
106/2011, ma oggi abrogato dall’art. 10, comma 1, lett. o),
decreto-legge n. 76/2020, convertito, con modificazioni,
dalla legge n. 120/2020) a mente del quale “Ai fini
dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale
difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni
di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non
eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle
misure progettuali”.
Attualmente l’art. 34-bis d.p.r. n. 380/2001 in tema di “Tolleranze
costruttive” (introdotto dall’art. 10, comma 1, lett.
p), decreto-legge n. 76/2020, convertito, con modificazioni,
dalla legge n. 120/2020) prevede:
«1. Il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della
cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro
delle singole unità immobiliari non costituisce violazione
edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle
misure previste nel titolo abilitativo.
2. Fuori dai casi di cui al comma 1, limitatamente agli immobili
non sottoposti a tutela ai sensi del decreto legislativo
22.01.2004, n. 42, costituiscono inoltre tolleranze
esecutive le irregolarità geometriche e le modifiche alle
finiture degli edifici di minima entità, nonché la diversa
collocazione di impianti e opere interne, eseguite durante i
lavori per l’attuazione di titoli abilitativi edilizi, a
condizione che non comportino violazione della disciplina
urbanistica ed edilizia e non pregiudichino l’agibilità
dell’immobile.
3. Le tolleranze esecutive di cui ai commi 1 e 2 realizzate nel
corso di precedenti interventi edilizi, non costituendo
violazioni edilizie, sono dichiarate dal tecnico abilitato,
ai fini dell’attestazione dello stato legittimo degli
immobili, nella modulistica relativa a nuove istanze,
comunicazioni e segnalazioni edilizie ovvero con apposita
dichiarazione asseverata allegata agli atti aventi per
oggetto trasferimento o costituzione, ovvero scioglimento
della comunione, di diritti reali.».
In virtù di tale disposizione (i.e. vecchio art. 34,
comma 2-ter, d.p.r. n. 380/2001 e nuovo art. 34-bis d.p.r.
n. 380/2001) e “considerando che la cubatura espressa
dall’intero appartamento a primo piano, come rilevato dal
funzionario del Comune è pari a mc. 995 e rilevato che il 2%
di tale cubatura è pari a mc. 19,90, laddove la cubatura del
cavedio (della superficie di mt. 1,50 x 2,95) è pari a mc.
16”, la -OMISSIS- assume che sarebbe “di tutta
evidenza che si è al di sotto della soglia del 2% della
cubatura totale espressa dall’appartamento” e che,
quindi, si sarebbe in presenza di uno scostamento
tollerabile e non sanzionabile (cfr. pagg. 25 e 26 dell’atto
introduttivo).
Tuttavia, rileva questo Giudice che l’errore in cui incorre
la ricorrente è quello di riferire la cubatura accertata dal
funzionario del Comune in complessivi mc. 995 al solo
appartamento di primo piano laddove, invece, tale misura è
riferita a quella complessiva (piano rialzato e primo
piano), con la conseguenza che il volume riferito ad un solo
piano (ovvero alla singola unità immobiliare cui si
riferisce la norma) è pari alla metà di mc. 995 e, quindi, a
mc. 497,50.
Quest’ultimo dato (mc. 497,50) è il volume dell’appartamento
sulla cui base va calcolato il superamento o meno della
soglia di tollerabilità prevista dal legislatore (vecchio
art. 34, comma 2-ter, d.p.r. n. 380/2001 e nuovo art. 34-bis
d.p.r. n. 380/2001) per la sussistenza o meno delle c.d. “difformità
parziali”/“tolleranza costruttiva”.
Ne consegue che, rispetto ad un volume dell’unità
immobiliare della ricorrente di mc. 497,50, il volume del
vano realizzato nel pozzo luce in difformità dal progetto
assentito, pari come si è detto a mc. 16,00, eccede la
soglia del 2% del volume totale (pari a mc. 9,95) richiesto
dalla norma invocata dalla stessa istante per affermare la
tollerabilità e non sanzionabilità dell’abuso contestato.
Al fine di sgomberare il campo da ogni dubbio si riporta il
testo della relazione tecnica di sopralluogo nella parte
relativa alla descrizione della tipologia dell’abuso
riscontrato (pag. 2): «… Dall’esame degli elaborati
grafici allegati ai titoli abilitativi rilasciati è
possibile rilevare che la volumetria dell’edificio è pari a
circa mc. 995 […].
Di conseguenza, quindi, considerato che il pozzo luce ha
dimensioni di mt. 1,50 x 2,95 e sviluppa una cubatura pari a
circa mc. 16,00 e che, pertanto, tale volumetria è
nettamente inferiore a quella massima pari a mc. 99,50,
l’intervento non è da intendersi come variazione essenziale
ma come parziale difformità. …».
Ebbene, per la parziale difformità, proprio le disposizioni
invocate dalla -OMISSIS- contemplano una tollerabilità
compresa entro la soglia del 2% del volume complessivo della
singola unità immobiliare e, quindi, essendo il volume del
solo primo piano pari alla metà di mc. 995,00 (ovvero mc.
497,50), l’aumento di volume conseguito alla chiusura del
pozzo luce (pari a mc. 16,00) eccede la soglia di tolleranza
del 2% del volume della singola unità immobiliare pari nella
specie a mc. 9,95.
A ciò si aggiunga, comunque, che la chiusura del pozzo luce
ha creato un volume edilizio non ricompreso nel progetto
assentito, dotato di autonoma utilizzabilità e come tale
illegittimo.
Ne deriva l’infondatezza anche di detto motivo di gravame
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 01.04.2021 n. 563 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
corretto ritenere che la “tolleranza di cantiere”, tale da escludere l’abusività
dell’intervento, vada posta in relazione con la porzione di immobile cui
esso accede e non, come proposto dall’appellato, con la superficie
dell’intero palazzo.
---------------
In proposito è fondata la censura d’appello la quale -conformemente al
controricorso prodotto in primo grado avverso i motivi aggiunti- rileva che
quando il Comune ebbe a rilasciare il suddetto titolo abilitativo n.
-OMISSIS- annullato in autotutela dava per assodato che l’edificio fosse
effettivamente corrispondente ai titoli edilizi in precedenza rilasciati (la
concessione edilizia n. -OMISSIS- per la ristrutturazione e l’ampliamento ai
sensi della legge n. 166/2002; e in particolare il permesso di costruire in
variante ed in sanatoria n. -OMISSIS-); e che invece questo presupposto,
alla base dell’annullato provvedimento n. -OMISSIS-, si è poi rivelato
insussistente perché le misurazioni sulle quali si fondavano i suddetti
precedenti assensi edilizi n. -OMISSIS- non erano state fedelmente riportate
dall’interessato, sì da escluderne l’affidamento; affidamento invece
allegato dal primo giudice nel prospettare in proposito la carenza della
motivazione e la carenza della comparazione degli interessi del privato con
l’interesse pubblico, presupposti tali da giustificare l’autotutela da parte
del Comune.
Invero lo stesso appellato –pur rilevando: la non essenzialità delle
difformità riscontrate, ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
che afferma le difformità perfettamente regolarizzabili prima della
definitiva chiusura dei lavori; l’inconferenza del riferimento fatto
dall’Amministrazione all’art. 85 della legge regionale n. 15/2004; la non
correttezza delle misurazioni prese a riferimento dal Comune- ammette che
queste difformità vi sono state.
Ed esse appaiono tali da giustificare l’autotutela del Comune.
In particolare l’appellato, dopo aver fornito propri dati sulle difformità
non prospettate al Comune nelle richieste degli assensi edilizi poi
ottenuti, afferma espressamente: “Anche a voler calcolare la volumetria
complessiva dei locali sottotetto abitativi, si ottiene un maggior volume
pari a mc. -OMISSIS-, corrispondente al 2,27% della volumetria complessiva
del fabbricato di circa mc. -OMISSIS-”; e rileva che ciò rispetterebbe,
come altre misurazioni lineari pure esposte dal medesimo appellato, la
prevista “tolleranza di cantiere” del 3%.
Ma un simile incremento volumetrico risulta notevole; e, riguardando la “volumetria
complessiva dei locali sottotetto abitativi”, concerne una ben
individuata parte dell’immobile, avente propria specifica connotazione (i
sottotetti da recuperare ad uso abitativo).
Sicché in proposito viene in rilievo la previsione, relativa agli abusi in
volumetria, del precedente articolo 6 (“Totale difformità”) della
stessa legge regionale n. 52/1989, la quale indica alla lettera b) come in
totale difformità anche i “volumi edilizi che, pur rientranti nei limiti
stabiliti dal richiamato primo comma del precedente art. 5, comportino la
realizzazione di un organismo edilizio, o parte di esso, con specifica
rilevanza ed autonoma utilizzazione, rispetto a quello oggetto della
concessione”.
In quest’ottica è corretto ritenere che la “tolleranza di cantiere”
tale da escludere l’abusività dell’intervento, va posta in relazione con la
porzione di immobile cui esso accede, e non, come proposto dall’appellato,
con la superficie dell’intero palazzo (confr. Cons. Stato, Sez. IV,
22.01.2018, n. 405). E da un simile più corretto raffronto la mancata
prospettazione nelle istanze edilizie di volumetria aggiuntiva per metri
cubi -OMISSIS- appare non “tolleranza di cantiere” ma notevole
infedeltà
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 07.01.2021 n. 230 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
limite del 2 per cento contenuto nel comma 1 dell'art. 32 della l. n.
47/1985 deve ovviamente essere rapportato (non già all’intero complesso
immobiliare ma) al singolo plesso sul quale insiste.
La disposizione di cui al primo comma dell’art. 32 su richiamato, si fonda
su un concetto (quello di tolleranza di cantiere) che sopravvive nella
vigente legislazione: ma la percentuale su cui misurare lo scostamento o, se
si vuole, la abusività dell’intervento, va posta in relazione con la
porzione di immobile cui esso accede, e non con la superficie dell’intero
palazzo.
E' ovvio che il limite del 2% vada riferito alla singola unità immobiliare
cui l’abuso accede.
---------------
10.5. Prima di esporre l’opinione del Collegio, sul punto, occorre dare
conto della obiezione delle parti appellate (pag. 15 della memoria
depositata il 18.09.2017, punto 4.4.1.) secondo la quale, tenuto conto che
soltanto in sparuti casi e di minimo impatto v’era stato un incremento di
volumetria, ovvero di superficie utile, neppure, in realtà, sarebbe stato
necessario acquisire il parere della Soprintendenza. E ciò in forza del
disposto di cui all’ultima parte del comma 1 dell’art. 32 della legge n. 47
del 28.02.1985 (“1. Fatte salve le fattispecie previste dall'articolo 33,
il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite
su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle
amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso. Qualora tale parere
non venga formulato dalle suddette amministrazioni entro centottanta giorni
dalla data di ricevimento della richiesta di parere, il richiedente può
impugnare il silenzio-rifiuto. Il rilascio del titolo abilitativo edilizio
estingue anche il reato per la violazione del vincolo. Il parere non è
richiesto quando si tratti di violazioni riguardanti l'altezza, i distacchi,
la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle
misure prescritte.”).
10.5.1. Sostengono, in sintesi, le parti appellate che in considerazione
della circostanza che gli incrementi abusivi “sanati” non raggiungono
il 2 per cento dell’immobile, neppure sarebbe stato necessario chiedere il
prescritto parere.
10.5.2. E’ evidente che lo scrutinio di tale eccezione è logicamente
prioritario: ciò, in quanto tale tesi -ove accolta- spiegherebbe portata
assorbente rispetto all’ulteriore argomento difensivo (secondo il quale il
parere era fornito di motivazione adeguata alla comunque modestissima
tipologia degli abusi, ed alla circostanza che comunque l’immobile avrebbe
dovuto essere demolito, dovendosene salvaguardare soltanto la facciata): ove
infatti il parere non fosse stato dovuto (pur essendo stato reso dalla
Soprintendenza) ogni vizio eventuale del medesimo non potrebbe condurre alla
declaratoria di illegittimità del titolo abilitativo edilizio cui esso “accede”
e del quale è condizione legittimante.
10.6. Il Collegio ritiene che tale pur arguta obiezione non meriti
accoglimento, sia perché collidente con elementi di fatto, che perché non
persuasiva in diritto, in quanto:
a) sotto il profilo fattuale, vi sono almeno 3 casi (“gruppo 3”
nella elencazione contenuta nell’elaborato di consulenza della parte
appellata a firma degli architetti Br. e Pi., pag. 5) che riguardano la
realizzazione di interventi incidenti sull’esterno, due dei quali anche sul
prospetto, e quindi si è al di fuori del perimetro normativo su indicato;
b) sotto il profilo giuridico, il limite del 2 per cento contenuto
nella richiamata disposizione, deve ovviamente essere rapportato (non già
all’intero complesso immobiliare ma) al singolo plesso sul quale insiste;
c) la “singolarità” dell’odierno procedimento, riposante in
una valutazione cumulativa di più abusi, di differente tipologia, insistenti
in parti distinte dell’immobile, realizzati in epoca diversa, e da soggetti
diversi, non può essere “unificata” al fine di ritenere che ogni
singolo abuso dovesse essere rapportato alla superficie complessiva
dell’immobile;
d) la disposizione di cui al primo comma dell’art. 32 su
richiamato, si fonda su un concetto (quello di tolleranza di cantiere) che
sopravvive nella vigente legislazione: ma la percentuale su cui misurare lo
scostamento o, se si vuole, la abusività dell’intervento, va posta in
relazione con la porzione di immobile cui esso accede, e non con la
superficie dell’intero palazzo: esemplificativamente, quanto alle opere che
hanno certamente comportato incremento di volumetria e superficie utile (“gruppo
4” nella elencazione contenuta nell’elaborato di consulenza della parte
appellata a firma degli architetti Br. e Pi., pag. 6 ) il computo
dell’ampliamento del magazzino per mq 13,40 (pratica n. 322166) ai fini del
contenimento dello stesso nella misura del 2% va riferito al
locale-magazzino medesimo, e non all’intero plesso, ovvero anche solo al
piano ove lo stesso insiste;
e) ogni immobile sul quale è stato commesso il singolo abuso, è
connotato da una propria “individualità”: non a caso, nella
indicazione prodotta dal comune di Roma vengono indicati il foglio, (sempre
n. 479) la particella (sempre la n. 69) ed il subalterno (che è via via
differente, in quanto contraddistingue il singolo immobile); l’affermazione
della difesa di parte appellata, vorrebbe che l’entità dell’incremento (al
fine di verificare se il parere fosse –o meno- necessario) venisse
rapportata all’intero immobile; ma una simile interpretazione trae spunto da
una occasionale circostanza (quella riposante nella proprietà unitaria
dell’intero plesso, e dalla presentazione di domande di sanatoria ad opera
di un unico soggetto) e da un ancor più occasionale accadimento (quello
riposante nella circostanza che il parere della Soprintendenza si sia
unitariamente riferito a tutti gli abusi per i quali era stata richiesta da
I.N.A. s.p.a. la sanatoria);
f) e la eccezione della difesa delle parti appellate integra -a
parere del Collegio- una interpretazione non condivisibile, che produrrebbe,
ove accolta, un effetto abrogativo della necessità del parere: in immobili
vincolati di consistente cubatura, e suddivisi in unità immobiliari aventi
propria individualità (quale è quello per cui è causa), ove l’entità
dell’abuso dovesse essere computata in relazione all’intero plesso, è
evidente che giammai (o assai raramente) ricorrerebbe la necessità del
parere: è ovvio invece, che il limite del 2% vada riferito alla singola
unità immobiliare cui l’abuso accede: e non avendo le parti appellate
dimostrato che in ciascuno dei 40 permessi in sanatoria si fosse rimasti al
di sotto del 2% (il che peraltro, da una lettura delle pratiche versate in
atti sembrerebbe da escludere) l’eccezione va disattesa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.01.2018 n. 405 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Ed altre questioni/contributi, ancora, sulla tolleranza
edilizia del 2%: |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Riscontro richiesta di parere della Direzione Tecnica del Municipio XV prot.
CU 97347 del 25.11.2020 (pervenuta al D.P.A.U. con prot. QI 138499 del
25.11.2020), inerente la richiesta di chiarimenti in merito alle “Tolleranze
costruttive” di cui all’art. 34-bis del D.P.R. 380/2001 (Comune di
Roma,
nota 11.12.2020 n. 148518 di prot.).
---------------
Si leggano, al riguardo, altri precedenti pareri collegati:
●
Oggetto: Riscontro richiesta di parere della Direzione Tecnica del
Municipio VII prot. Cl 146146 del 26.06.2018 (pervenuta al D.P.A.U. con prot.
Ql 113427 del 03.07.2018), inerente l'applicabilità dell'art. 34, comma
2-ter, dpr 380/2001 per la chiusura di una loggia
(Comune di Roma,
nota 08.08.2018 n. 135807 di prot.).
●
Oggetto: Riscontro richiesta parere U.O.T. Municipio III (ex IV) prot.
125685 del 14.12.2015 (acquisita al D.P.A.U. con prot. 207401 del
18.12.2015), inerente le intervenute modifiche al dpr 380/2001 con la Legge
106/2011 - art. 34, comma 2-ter
(Comune di Roma,
nota 15.02.2016 n. 26496 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con l'art. 34-bis, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 è stato introdotto
il concetto di "tolleranza esecutiva per le irregolarità geometriche".
Ora il caso riguarda un edificio residenziale di tre piani e 6 appartamenti
degli anni '60, che prevedeva per il soggiorno 2 finestre e una porta
finestra, mentre è stata realizzata una finestra e una porta finestra per
tutte e 6 le unità senza la presentazione di una variante; catastalmente è
regolare.
Considerato a mio avviso che la geometria di un edificio non riguarda
solamente la sagoma ma anche le proporzioni delle facciate, è ammissibile
pensare che l'eliminazione di una finestra possa essere considerata una
irregolarità geometrica?
Si precisa che il rapporto aero-illuminante è rispettato.
Si ritiene che al fine di dare adeguata risposta al quesito posto giovi
preliminarmente inquadrare lo stato dell'arte normativo.
In particolare, il D.L. 16.07.2020, n. 76 (c.d. "Decreto Semplificazioni"),
poi recepito con la legge di conversione L. 11.09.2020, n. 120, ha
introdotto una nuova e importante disciplina in merito alle tolleranze
costruttive in caso di parziali difformità rispetto al titolo edilizio
abilitativo, disponendo l'abrogazione del comma 2-ter, art. 34, D.P.R.
06.06.2001, n. 380 e introducendo una nuova disciplina con l'inserimento del
nuovo art. 34-bis, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 medesimo.
Giova quindi evidenziare come già la giurisprudenza formatasi sotto la
previgente normativa aveva trattato la c.d. tolleranza di cantiere del 2%, o
regime di franchigia, di cui all'art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n.
380, disposizione in base alla quale "non si ha parziale difformità del
titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura
o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per
cento delle misure progettuali".
Il Consiglio di Stato Detta chiamato a pronunciarsi sul teme ha stabilito
che: "Si tratta, come appare evidente, di una disposizione di tolleranza
rivolta a disciplinare in senso, per dir così "liberalizzatorio", interventi
edilizi aventi una consistenza minima" (Cons. Stato Sez. VI, Sent.,
23.07.2018, n. 4504).
Da tali presupposti consegue che già sotto il previgente regime normativo un
intervento, in se parzialmente difforme, realizzato però entro il limite
della c.d. "tolleranza di cantiere", non fosse riconducibile nella
categoria della difformità parziale, ma rientrava nella irrilevanza ai fini
edilizi, con la conseguenza della sua non sanzionabilità anche sotto il
profilo di violazione minore (difformità o assenza di Scia o Pdc).
La modifica di recente introduzione quindi ha dettagliato un principio già
formatosi sulla scorta della interpretazione giurisprudenziale; pertanto
alla luce di quanto sopra si ritiene che la difformità descritta nel quesito
sia riconducibile alla nuova tipologia di tolleranza costruttiva e pertanto
possa giovarsi di quanto previsto al nuovo art. 34-bis.
----------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 34-bis
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. VI, Sent.,
23.07.2018, n. 4504
(23.10.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
quesito che intendo sottoporre riguarda un ampliamento di volume in
sopraelevazione, di un edificio unifamiliare posto all'interno della fascia
di rispetto stradale, di cui al D.Lgs. 30.04.1992, n. 285.
Tale ampliamento, già realizzato, rispetta il 2% previsto dall'art. 34,
D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e pertanto è ammesso anche se è in zona di vincolo
paesaggistico, come riportato dal D.P.R. 13.02.2017, n. 31.
Dato che il Codice della Strada non contempla tolleranze, come invece
previsto dalle norme su citate, si chiede se il 2% in ampliamento, che non è
considerato ai fini edilizi come parziale difformità, può essere applicato,
per analogia, anche all'art. 16 del C.d.S. vigente.
L'avanzato quesito riguarda un'interessante fattispecie, coinvolgente
problematiche di natura edilizia e di disciplina delle distanze.
Precisamente, la concreta fattispecie può essere così sintetizzata:
- In un edificio unifamiliare, posto all'interno del vincolo della
fascia di rispetto stradale, come disciplinata dal Codice della strada (D.Lgs.
30.04.1992, n. 285), è stato realizzato un intervento edilizio, comportante
un ampliamento di volume, che si sviluppa in una sopraelevazione.
Siffatto ampliamento rispetta le cd. "tolleranze di cantiere",
disciplinate dall'art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Conseguentemente, l'intervento, in quanto rientrante nelle predette "tolleranze",
non dà luogo ad alcuna difformità, neppure parziale, rispetto al titolo
edilizio che ha legittimato il medesimo intervento.
A questo punto, si chiede di sapere se il consentito ("tollerato")
ampliamento dei "distacchi", cioè della distanza fra due edifici
fronteggianti, trova una legittimazione anche sul versante della fascia di
rispetto stradale. In altri termini, si chiede di sapere se la prevista "tolleranza"
della costruzione edilizia, in termini di "distacchi", pari al 2%
delle misure progettuali, trova applicazione anche nei riguardi dei limiti
afferenti la fascia di rispetto stradale.
Primariamente, occorre ricordare che il richiamato art. 34, comma 2-ter,
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, stabilisce quanto segue: "Ai fini
dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del
titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura
o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per
cento delle misure progettuali".
Siffatta disposizione normativa è stata aggiunta dall'art. 5, comma 2,
lettera "a", n. 5, D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito in L. 12.07.2011, n.
106. La disposizione (ricalcante la pregressa ed analoga prevista dall'art.
32, comma 1, L. 28.02.1985, n. 47) è destinata ad operare, unicamente, nei
rapporti con la Pubblica amministrazione, non potendo legittimare alcuna
lesione dei diritti dei terzi, specie in materia di distanze tra
costruzioni. In altri termini, anche se un ampliamento del 2% del fronte di
un fabbricato potrà non costituire un abuso edilizio, il vicino potrà sempre
chiedere al giudice ordinario l'arretramento del corpo di fabbrica, per
ripristinare le distanze eventualmente violate.
In buona sostanza, la disposizione normativa prende in considerazione
quattro elementi di possibile tolleranza da valutare in confronto alle
misure progettuali. Gli elementi sono:
- Distacchi: la distanza tra due edifici fronteggianti;
- Cubatura: la volumetria espressa in metri cubi;
- Superficie coperta: la proiezione orizzontale al suolo della
sagoma esterna del manufatto;
- Altezza degli edifici.
Orbene, occorre osservare che la "fascia di rispetto", ai sensi
dell’art. 3, comma 1, n. 22 del Codice della strada, costituisce una
striscia di terreno, esterna al confine stradale, sulla quale esistono
vincoli alla realizzazione, da parte dei proprietari del terreno, di
costruzioni, recinzioni, piantagioni, depositi e simili.
Le fasce di rispetto stradali, normate dal Codice della Strada e dal suo
Regolamento attuativo (D.P.R. 16.12.1992, n. 495), hanno lo scopo di
prevenire l'esistenza di ostacoli materiali emergenti dal suolo e la loro
potenziale pericolosità a costituire, per la prossimità alla sede stradale,
pregiudizio alla sicurezza del traffico ed alla incolumità delle persone.
Attraverso la fascia di rispetto, si garantisce un'area utilizzabile,
all'occorrenza, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri,
per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie,
senza limitazioni connesse alla presenza di costruzioni. Di regola, le fasce
di rispetto vengono istituite con l'approvazione del Progetto definitivo
dell'opera stradale e permangono per tutta la vita utile della strada
medesima.
All'interno delle fasce di rispetto, vige il vincolo di inedificabilità. Ed,
infatti, la giurisprudenza conferma che: "In materia edilizia il vincolo
delle fasce di rispetto stradale o viario è di inedificabilità assoluta,
traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende inedificabili le
aree site in fascia di rispetto stradale o autostradale, indipendentemente
dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di
accertamento, in concreto, dei connessi rischi per la circolazione stradale;
detto divieto, inoltre, opera direttamente ed automaticamente, per cui una
volta attestata in concreto la violazione del vincolo di inedificabilità, il
parere dell'amministrazione sull'istanza di condono non può che essere
negativo” (TAR Campania Napoli Sez. II, 26.09.2019, n. 4584).
Dal vincolo di in edificabilità discende il conseguente corollario che non
sono previste, dalla normativa in materia, "tolleranze" o forme equivalenti.
Infatti, l'art. 16, del Codice della strada, in tema di fasce di rispetto
fuori dai centri abitati, non contempla alcuna tolleranza. Il comma 1° di
tale articolo rinvia, per la concreta tipologia dei divieti, al Regolamento
di esecuzione e di attuazione del Codice della strada (D.P.R. 16.12.1992, n.
495). Il Regolamento non prevede, agli articoli 26 e seguenti, alcuna forma
di tolleranza. Parimenti, l'art. 18 del Codice della strada, in tema di
fasce di rispetto nei centri abitati.
Pertanto, non appare possibile alcuna applicazione analogica della peculiare
disciplina delle cd. "tolleranze di cantiere". Ciò, anche per
un'altra ragione: l'indicata disciplina consacra l'irrilevanza degli
scostamenti, entro il limite del 2%, nella discrasia fra la precisione
teorica degli elaborati tecnici e la concreta esecuzione degli interventi
(Il comma 2-ter dell'art. 34, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, infatti, consente
di escludere dall'ambito delle difformità rilevanti ai fini sanzionatori
quelle che si verificano a causa di un fisiologico scarto tra la precisione
del disegno e la realizzazione, o dalla consistenza dei materiali, o dalla
necessità di modesti adeguamenti in sede esecutiva e, pertanto, non possono
che rilevare le misure effettive delle opere realizzate. Peraltro è la
stessa norma che espressamente correla la soglia del 2% alle "misure
progettuali"; TAR Veneto Venezia Sez. II, 20.09.2019, n. 1013).
In relazione alla fascia di rispetto stradale, non si pone alcun problema di
"scostamenti" fra quanto previsto e quanto effettivamente realizzato. Ragion
per cui l'analogia non può trovare spazio alcuno.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 28.02.1985, n. 47, art. 32 -
D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 3 - D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 16 -
D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 18 - D.P.R. 16.12.1992, n. 495, art. 18 -
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 34 - D.P.R. 13.02.2017, n. 31
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Campania Napoli Sez. II, 26.09.2019, n. 4584 - TAR Veneto, Sez. II,
20.09.2019, n. 1013
(20.02.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: Indicazioni applicative in merito alle tolleranze costruttive,
alla verifica dello stato legittimo degli edifici da demolire, alla
sanatoria di immobili soggetti a vincolo paesaggistico e al divieto di
modificare la Modulistica Unificata Edilizia e di richiedere altra
documentazione (Regione Emilia Romagna,
nota 05.06.2018 n. 410371 di prot.).
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La Circolare fornisce indicazioni applicative in merito alla tolleranza
costruttiva disciplinata dall’art. 19-bis, della L.R. n. 23 del 2004 sulla
vigilanza in materia edilizia.
In seguito alle importanti modifiche apportate dalla L.R. n. 12 del 2017 e
dalla L.R. n. 24 del 2017, si distinguono quattro fattispecie di opere
edilizie realizzate in parziale difformità dal titolo abilitativo che non
sono considerate violazioni edilizie e non comportano l’applicazione delle
relative sanzioni amministrative.
La circolare chiarisce le modalità per accertare e rappresentare nelle
pratiche edilizie le difformità tollerate.
Sono trattate, inoltre, la verifica dello stato legittimo degli edifici
interessati da demolizione e ricostruzione, la sanatoria degli abusi
commessi in immobili soggetti a vincolo paesaggistico e il divieto di
modificare la Modulistica Unificata Edilizia regionale e di richiedere altra
documentazione”. |
EDILIZIA PRIVATA: La
previsione dell'art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, per cui non
si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni
di altezza, distacchi, cubatura o sup. coperta che non eccedano il 2% delle
misure progettuale, può prescindere dalle norme igienico-sanitarie?
Ad esempio, potrebbe assentire la presenza di locali abitativi con altezza
inferiore ai canonici 270 cm minimi?
Il quesito in esame ha ad oggetto la non ignota questione delle cd. "tolleranze
costruttive o di cantiere", cioè le eventuali e possibili difformità
costruttive, che, in sede di esecuzione, si possono manifestare rispetto a
quanto previsto dai titoli edilizi rilasciati sui progetti approvati.
Nello specifico, il quesito pone in relazione l'attuale disciplina in
materia (art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380) con la normativa
igienico-sanitaria. Precisamente, si chiede di sapere se le "tolleranze"
per le violazioni di altezza, attualmente consentite nella misura del 2%
delle misure progettuali, sono ammissibili anche nei riguardi delle altezze
minime interne (metri 2,70), previste dalla preesistente normativa del 1975.
Procediamo con ordine.
Il Decreto Ministero della sanità del 05.07.1975 ("Modificazioni alle
istruzioni ministeriali 20.06.1896 relativamente all'altezza minima ed ai
requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione"),
all'art. 1, stabilisce che "l'altezza minima interna utile dei locali
adibiti ad abitazione è fissata in m. 2,70, riducibili a m. 2,40 per i
corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli".
Trattasi di una norma avente natura tecnica, finalizzata a tutelare evidenti
interessi igienico-sanitari.
Il richiamato art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, stabilisce
quanto segue: "Ai fini dell'applicazione del presente articolo, non si ha
parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di
altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per
singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali".
Siffatta disposizione normativa è stata aggiunta dall'art. 5, comma 2, lett.
a), n. 5, D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito in L. 12.07.2011, n. 106. La
disposizione (ricalcante la pregressa ed analoga prevista dall'art. 32,
comma 1, L. 28.02.1985, n. 47) è destinata ad operare, unicamente, nei
rapporti con la Pubblica amministrazione, non potendo legittimare alcuna
lesione dei diritti dei terzi, specie in materia di distanze tra
costruzioni. In altri termini, anche se un ampliamento del 2% del fronte di
un fabbricato potrà non costituire un abuso edilizio, il vicino potrà sempre
chiedere al giudice ordinario l'arretramento del corpo di fabbrica, per
ripristinare le distanze eventualmente violate.
In buona sostanza, la disposizione normativa prende in considerazione
quattro elementi di possibile tolleranza da valutare in confronto alle
misure progettuali. Gli elementi sono:
- Distacchi: la distanza tra due edifici fronteggianti;
- Cubatura: la volumetria espressa in metri cubi;
- Superficie coperta: la proiezione orizzontale al suolo della
sagoma esterna del manufatto;
- Altezza: riferita solo all'esterno dell'edificio od anche agli
ambienti interni.
Indubbiamente, l'ultimo elemento ("altezza") è quello che presenta
maggiore complessità ed ambiguità, non essendo chiaro se riguardi anche
l'altezza all'interno degli alloggi, in particolare i famigerati 2,70 metri
tra pavimento e soffitto necessari come altezza minima abitabile.
Quindi, ritornando al quesito in esame, la disposizione normativa, di cui
all'art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, trova applicazione
anche per le altezze interne dei locali adibiti ad abitazione?
Al riguardo, occorre prendere atto di un'importante sentenza. Precisamente,
la sentenza n. 1061 del 26.06.2015, emessa dal Tar Piemonte, sez. II.
In tale pronuncia, i giudici amministrativi hanno esaminato un caso di
contestazione di diversi abusi, afferenti una costruzione di civile
abitazione, assentita con permesso di costruire. Uno di questa abusi
consisteva nel mancato rispetto delle altezze interne dei vani abitabili al
piano terreno (soggiorno, cucina, camera e cameretta), i quali, secondo la
contestazione del Comune, risultavano inferiori all'altezza minima di metri
2,70.
In merito a tale contestazione, il Tar ha statuito quanto segue: "Portata
assorbente assume il secondo motivo di gravame, incentrato sul principio
della c.d. tollerabilità di cantiere.
Anche prima dell'introduzione del nuovo comma 2-ter dell'art. 34, D.P.R.
06.06.2001, n. 380 (avvenuta con il D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito in L.
12.07.2011, n. 106), la giurisprudenza amministrativa aveva ritenuto che
lievi scostamenti rispetto alle misurazioni previste in progetto, i quali si
presentino plausibili nell'ambito della tecnica costruttiva utilizzata, non
possono considerarsi come difformità rispetto al titolo edilizio rilasciato
(Cons. Stato Sez. IV, 10.05.2007, n. 2253), dovendosi essi farsi rientrare
nel margine di tollerabilità consueto, legato sia alla difficoltà di
perfetta realizzazione delle previsioni di progetto sia ai limiti degli
strumenti di misurazione (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 28.07.2009, n.
4469).
E' appena il caso di aggiungere che quell'orientamento giurisprudenziale
poc'anzi citato è ormai divenuto legge per effetto del già richiamato art.
34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, a norma del quale "non si ha
parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di
altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per
singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali": misura
che, nel caso di specie, è stata pacificamente rispettata".
In buona sostanza, il Tribunale amministrativo piemontese, anche sulla base
di pregressi arresti giurisprudenziali, ha statuito i seguenti principi:
a) sussiste, in materia di variazioni intervenute in sede di
esecuzione, un generale principio di "tollerabilità di cantiere";
b) si tratta di un principio che conosce altri precedenti
giurisprudenziali, fondati sulla considerazione che occorre tener conto
delle difficoltà di perfetta realizzazione di un progetto, oltre che dei
limiti degli strumenti di misurazione;
c) siffatto principio è diventato legge, in quanto è stato recepito
dal già richiamato art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come
integrato nel 2011;
d) tale principio si applica anche nel caso di mancato rispetto di
altezze interne dei vani abitabili, nei limiti, ovviamente, dell'indicata
disciplina.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 34
- D.M. 05.07.1975, art. 1
Riferimenti di giurisprudenza
TAR Piemonte, Sez. II, 26.06.2015, n. 1061 (20.03.2018 - tratto da
https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
aggiornamento al
26.04.2021 |
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Rifiuti abbandonati: il
curatore fallimentare deve provvedere in merito o no?? |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti.
Curatela fallimentare.
La curatela fallimentare non può essere destinataria, a
titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla
tutela dell’ambiente e alla messa in sicurezza di siti contaminati, per
effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa
fallita, non subentrando la curatela negli obblighi strettamente correlati
alla responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via, alcun dovere
del curatore di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla
tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori
inquinanti.
E’ pertanto esclusa una responsabilità del curatore del fallimento quale
soggetto obbligato allo smaltimento dei rifiuti prodotti dal fallito, o
quale destinatario degli obblighi ripristinatori di cui al T.U.A., non
essendo il curatore né l’autore della condotta di abbandono incontrollato
dei rifiuto, né l’avente causa a titolo universale del soggetto inquinatore.
Né si può sostenere che, escludendo qualsiasi coinvolgimento della curatela,
si finirebbe per trasferire direttamente sulla collettività gli oneri
connessi alla gestione dei rifiuti prodotti dall’attività di impresa.
Infatti, secondo una giurisprudenza consolidata, se si ammettesse la
legittimazione passiva del curatore si determinerebbe un sovvertimento del
principio “chi inquina paga”, scaricando i costi su soggetti -i creditori-
che non hanno alcun legame con l’inquinamento.
Pertanto, quando gli obblighi di bonifica ambientale derivano dallo
svolgimento dell’attività di impresa nel periodo antecedente al fallimento,
senza che vi sia stata una continuazione dell’attività, un’eventuale ed
ipotetica responsabilità della curatela si tradurrebbe in una responsabilità
di mera posizione, il che non è conforme al principio “chi inquina paga”.
In sostanza, si finirebbe per scaricare i costi connessi alla produzione dei
rifiuti e della loro permanenza impropria in loco, su soggetti, quali i
creditori, che con l’inquinamento stesso non hanno alcun collegamento, che
non hanno concorso alla produzione dei rifiuti e al conseguente inquinamento
e che pertanto non possono farsi carico dell’interesse della collettività al
loro trattamento e smaltimento
(massima tratta da https://lexambiente.it).
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L’Adunanza
Plenaria, superando un automatismo spesso applicato in maniera tralatizia
dalla giurisprudenza, ha chiarito che il principio “chi inquina paga” (il
quale, per la verità, esprime un concetto persino banale) non equivale ad
escludere sempre e comunque la legittimazione passiva rispetto agli obblighi
di ripristino, bonifica, etc. di siti inquinati dei soggetti che in qualche
modo “succedono” all’autore dell’inquinamento, ed in particolare, per quanto
di interesse nel presente giudizio, della curatela fallimentare.
La decisione dell’Adunanza Plenaria riguarda
specificamente gli obblighi imposti dal Sindaco con ordinanza adottata ai
sensi dell’art. 50 T.U.E.L. e dell’art. 192 T.U.A., ma il principio di
diritto affermato nella sentenza n. 3 del 2021 si applica a fortiori
nell’ipotesi in cui l’autorità competente diffidi la curatela fallimentare a
porre in essere le misure di prevenzione, ripristino e bonifica indicate
nell’A.I.A., visto che in tal caso già nel momento in cui assume il proprio
munus il curatore è tenuto a prendere contezza del contenuto di tutti i
provvedimenti amministrativi che legittimavano l’attività svolta
dall’imprenditore fallito e ad attenersi alle relative prescrizioni.
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8. Passando invece a trattare del profilo centrale della controversia, il
Collegio evidenzia quanto segue.
8.1. Si già accennato supra al fatto che, in data 26.01.2021, è stata
pubblicata la sentenza n. 3/2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato, la quale ha affermato il seguente principio di diritto “…ricade
sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei
rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 e i relativi costi gravano
sulla massa fallimentare…”, e questo ha fatto dopo aver precisato che:
“…deve escludersi che il curatore possa qualificarsi come avente causa
del fallito nel trattamento di rifiuti, salve, ovviamente le ipotesi in cui
la produzione dei rifiuti sia ascrivibile specificamente all’operato del
curatore, non dando vita il Fallimento ad alcun fenomeno successorio sul
piano giuridico.
Sempre in via preliminare va evidenziato che, per risolvere la questione in
esame, non appare pertinente il richiamo al principio di diritto enunciato
dalla sentenza di questa Adunanza plenaria n. 10 del 2019 […]
Sotto i profili appena evidenziati deve ritenersi, pertanto, esclusa una
responsabilità del curatore del fallimento, non essendo il curatore né
l’autore della condotta di abbandono incontrollato dei rifiuti, né l’avente
causa a titolo universale del soggetto inquinatore, posto che la società
dichiarata fallita conserva la propria soggettività giuridica e rimane
titolare del proprio patrimonio, attribuendosene la facoltà di gestione e di
disposizione al medesimo curatore…”;
- “…La questione posta all’esame di questa Adunanza plenaria consiste nello
stabilire se, a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica
rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell’art.
192 sopra riportato.
Ritiene l’Adunanza che la presenza dei rifiuti in un sito industriale e la
posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento
della dichiarazione del fallimento dell’impresa, tramite l’inventario dei
beni dell’impresa medesima ex artt. 87 e ss. L.F., comportino la sua
legittimazione passiva all’ordine di rimozione.
Nella predetta situazione, infatti, la responsabilità alla rimozione è
connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non
in riferimento ai rifiuti (che sotto il profilo economico a seconda dei casi
talvolta si possono considerare ‘beni negativi’), ma in virtù della
detenzione del bene immobile inquinato (normalmente un fondo già di
proprietà dell’imprenditore su cui i rifiuti insistono e che, per esigenze
di tutela ambientale e di rispetto della normativa nazionale e comunitaria,
devono essere smaltiti).
Conseguentemente, ad avviso dell’Adunanza, l'unica lettura del decreto
legislativo n. 152 del 2006 compatibile con il diritto europeo, ispirati
entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, è quella che
consente all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti
dei curatori che gestiscono i beni immobili su cui i rifiuti prodotti
dall'impresa cessata sono collocati e necessitano di smaltimento…”.
Nei successivi passaggi della sentenza, l’Adunanza Plenaria:
- illustra le ragioni per le quali “…appare giustificato e
coerente con tale impostazione ritenere che i costi derivanti da tali
esternalità di impresa ricadano sulla massa dei creditori dell’imprenditore
stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell’ufficio fallimentare
della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del
fallimento…”;
- considera irrilevanti, ai fini dell’affermazione della
legittimazione passiva della curatela, circostanze di fatto, quali ad
esempio la situazione di incapienza dell’attivo fallimentare (profilo che è
emerso anche nel presente giudizio);
- ritiene ugualmente irrilevante il fatto che il curatore si
avvalga eventualmente del disposto dell’art. 42, comma 3, l.fall.
8.2. Come si può vedere, l’Adunanza Plenaria, superando un automatismo
spesso applicato in maniera tralatizia dalla giurisprudenza, ha chiarito che
il principio “chi inquina paga” (il quale, per la verità, esprime un
concetto persino banale) non equivale ad escludere sempre e comunque la
legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino, bonifica, etc.
di siti inquinati dei soggetti che in qualche modo “succedono”
all’autore dell’inquinamento, ed in particolare, per quanto di interesse nel
presente giudizio, della curatela fallimentare.
La decisione dell’Adunanza Plenaria, come si è visto, riguarda
specificamente gli obblighi imposti dal Sindaco con ordinanza adottata ai
sensi dell’art. 50 T.U.E.L. e dell’art. 192 T.U.A., ma il principio di
diritto affermato nella sentenza n. 3 del 2021 si applica a fortiori
nell’ipotesi in cui l’autorità competente diffidi la curatela fallimentare a
porre in essere le misure di prevenzione, ripristino e bonifica indicate
nell’A.I.A., visto che in tal caso già nel momento in cui assume il proprio
munus il curatore è tenuto a prendere contezza del contenuto di tutti
i provvedimenti amministrativi che legittimavano l’attività svolta
dall’imprenditore fallito e ad attenersi alle relative prescrizioni.
Questo Tribunale, come risulta dagli atti di causa, era del resto già
approdato a tale conclusione nella sentenza n. 290/2016, confermata dal
Consiglio di Stato con la sentenza n. 3672/2017, per cui sul punto non si
ritiene di dover aggiungere ulteriori considerazioni di ordine giuridico,
essendo sufficiente, ai sensi dell’art. 74 c.p.a., rimandare alla
motivazione delle due sentenze
(TAR Marche,
sentenza 12.03.2021 n. 207 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: I
costi della bonifica del sito inquinato sono a carico della curatela
fallimentare.
Il curatore fallimentare è obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli,
avviandoli allo smaltimento o al recupero. Ricade sulla curatela
fallimentare l'onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti abbandonati
e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare.
Lo ha affermato il
Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, con la
sentenza 26.01.2021 n. 3.
La questione
La quarta sezione del Consiglio di Stato ha chiesto all'adunanza plenaria di
chiarire se, a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica
rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita in ordine
all'abbandono e deposito incontrollati di rifiuti. La violazione di questi
divieti comporta l'obbligo di rimozione, avvio a recupero o smaltimento e
ripristino dello stato dei luoghi in solido col proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali
questa violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
L'adunanza plenaria ha dichiarato, quale principio di diritto, che ricade
sulla curatela fallimentare l'onere di ripristino e di smaltimento dei
rifiuti e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare. La presenza dei
rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi,
acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione del fallimento
dell'impresa tramite l'inventario dei beni comportano, secondo i giudici, la
sua legittimazione passiva all'ordine di rimozione, posto che la
responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore
acquisita dal curatore fallimentare in virtù della detenzione del bene
immobile inquinato su cui i rifiuti insistono.
I costi di bonifica
Nell'ottica del diritto europeo, si legge nella sentenza, i rifiuti devono
essere rimossi dallo stesso imprenditore o da chi ne amministra il
patrimonio dopo la dichiarazione del fallimento, che ne ha materialmente
acquisito la detenzione o la disponibilità giuridica e che pertanto è tenuto
a sostenerne i costi di gestione in applicazione del principio «chi
inquina paga».
Nella qualità di detentore dei rifiuti, il curatore fallimentare è obbligato
a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al
recupero, altrimenti i costi della bonifica finirebbero per ricadere sulla
collettività incolpevole, in antitesi non solo con quel principio ma anche
con la realtà economica sottesa alla relazione che intercorre tra il
patrimonio dell'imprenditore e la massa fallimentare di cui il curatore ha
la responsabilità, che si pone in continuità con detto patrimonio.
Questa regola non può essere inficiata dal fatto che il fallimento sia, in
tutto o in parte, incapiente rispetto ai costi della bonifica, che appare
come «evenienza di mero fatto» configurabile anche in ipotesi
riferibili a un imprenditore non fallito o al proprietario del bene o alla
stessa amministrazione comunale che, in dissesto o meno, non abbia
disponibilità finanziarie adeguate. In caso di mancanza di risorse si
dovranno attivare gli strumenti ordinari e il Comune, qualora intervenga
direttamente esercitando le funzioni inerenti all'eliminazione del pericolo
ambientale, potrà insinuare le spese sostenute per gli interventi nel
fallimento, spese che godranno del privilegio speciale.
Le finalità
Rammenta infine l'adunanza plenaria che le norme del Codice ambientale hanno
la finalità di salvaguardia del bene-ambiente rispetto a ogni evento di
pericolo o danno ed è assente ogni matrice di sanzione dell'autore. Talché
la bonifica costituisce uno strumento pubblicistico teso non a monetizzare
la diminuzione del relativo valore, ma a consentirne il recupero materiale,
in funzione di reintegrazione del bene giuridico.
Nemmeno può essere riconosciuta al curatore la possibilità di rinunciare ad
acquisire i beni che pervengono dal fallito qualora i costi da sostenere per
il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile
valore di realizzo dei beni stessi, rinunciando così ad acquisire il fondo
su cui grava l'onere di bonifica.
In primo luogo perché questa evenienza costituisce una mera eventualità di
fatto riguardante la gestione della procedura fallimentare e non incide sul
rapporto amministrativo e sui principi in materia di bonifica. In secondo
perché si riferisce ai beni che entrano a diverso titolo nel patrimonio
dell'imprenditore dopo la dichiarazione di fallimento e che sono oggetto di
spossessamento (eredità, donazioni, vincite ai giochi, diritti d'autore)
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia dell'08.02.2021). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Per
l’Ad. plen. il curatore fallimentare è gravato dall’onere di ripristino e
smaltimento dei rifiuti abbandonati nell’area su cui opera l’impresa.
Secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ricade sulla curatela
fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui
all’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 e i relativi costi gravano sulla massa
fallimentare.
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Ambiente – Rifiuti – Divieto abbandono – Recupero e smaltimento –
Soggetti obbligati – Curatore fallimentare.
Ricade sulla curatela fallimentare l’onere di
ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152
del 2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare (1).
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(1) I. – Con la sentenza in rassegna, l’Adunanza plenaria –cui la
questione era stata deferita da
Cons. St., sez. IV, 15.09.2020, n. 5454
(oggetto della News US, n. 110 del 05.10.2020)- ha formulato il principio di
diritto di cui in massima.
II. – Il collegio, dopo aver analizzato la vicenda processuale e fattuale
sottesa, ha osservato quanto segue:
a) preliminarmente:
a1) ha escluso che il curatore
possa qualificarsi come avente causa del fallito nel trattamento di rifiuti,
salve le ipotesi in cui la produzione degli stessi sia ascrivibile
specificamente al suo operato, non dando vita il fallimento ad alcun
fenomeno successorio sul piano giuridico;
a2) ha evidenziato che, per
risolvere la questione giuridica, non appare pertinente il richiamo a
Cons. Stato, Ad. plen., 22.10.2019, n. 10 (in Foro it., 2019, III,
637 nonché oggetto della
News US n. 117 del 29.10.2019 ed alla quale si rinvia per ogni
approfondimento in dottrina e in giurisprudenza), che ha esaminato
un’ipotesi in cui vi era stata successione di un distinto soggetto giuridico
a quello su cui precedentemente gravava l’onere della bonifica, con
l’affermazione del principio per cui l’acquirente del bene subentra negli
obblighi gravanti sul precedente titolare;
a3) in base a tali profili,
pertanto, ha escluso una responsabilità del curatore del fallimento, non
essendo questi né l’autore della condotta di abbandono incontrollato dei
rifiuti, né l’avente causa a titolo universale del soggetto inquinatore,
posto che la società fallita conserva la propria soggettività giuridica e
rimane titolare del proprio patrimonio, attribuendosene la facoltà di
gestione e disposizione al curatore;
b) occorre stabilire se, a seguito della
dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui
era tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192 l. fall.;
c) secondo il collegio, la presenza dei rifiuti
in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita
dal curatore al momento della dichiarazione del fallimento con l’inventario
dei beni dell’impresa, comportano la legittimazione passiva del curatore
stesso all’ordine di rimozione;
c1) in questa situazione la
responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore
acquisita dal curatore fallimentare non in relazione ai rifiuti, ma al bene
immobile inquinato su cui i rifiuti insistono e che, per esigenze di tutela
ambientale e di rispetto della normativa nazionale e comunitaria, devono
essere smaltiti;
c2) pertanto, l’unica lettura
della disposizione compatibile con il diritto europeo è quella che consente
all’amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei
curatori che gestiscono immobili su cui i rifiuti prodotti dall’impresa
cessata sono collocati e necessitano di smaltimento;
d) a tale conclusione si perviene anzitutto
dall’analisi del d.lgs. n. 152 del 2006:
d1) al divieto di abbandono e
deposito incontrollato di rifiuti si riconnettono gli obblighi di rimozione,
di avvio al recupero o smaltimento e di ripristino dello stato dei luoghi in
capo al trasgressore e al proprietario, in solido, a condizione che la
violazione sia ad almeno uno di essi imputabile secondo gli ordinari titoli
di responsabilità;
d2) in base al diritto europeo,
i rifiuti devono essere comunque rimossi, anche quando è cessata l’attività,
dall’imprenditore o, in alternativa, da chi amministra il patrimonio
fallimentare dopo la dichiarazione di fallimento;
d3) l’art. 3, par. 1, punto 6, della direttiva 2008/98/CE definisce,
infatti, il detentore come la persona fisica o giuridica che è in possesso
dei beni immobili sui quali insistono i rifiuti;
d4) non rilevano le differenze
tra i concetti nazionali di possesso e detenzione, in quanto ciò che
interessa ai fini del diritto europeo è la disponibilità materiale dei beni
e un titolo giuridico che consenta o imponga l’amministrazione di un
patrimonio nel quale sono compresi i beni immobili inquinati;
e) inoltre, in base al diritto europeo, i costi
della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai
detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti, in
applicazione del principio “chi inquina paga”, nel cui ambito solo
chi non è detentore dei rifiuti può invocare la c.d. esimente interna
prevista dall’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006;
f) la curatela fallimentare, anche quando non
prosegue l’attività imprenditoriale, non può avvantaggiarsi dell’esimente
lasciando abbandonati i rifiuti dell’attività imprenditoriale dell’impresa
cessata, in quanto nella qualità di detentore dei rifiuti, sia secondo il
diritto interno che in base al diritto europeo, il curatore fallimentare è
obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo
smaltimento o al recupero;
g) il rilievo centrale che nel diritto
comunitario assume la detenzione dei rifiuti risultanti dall’attività
produttiva pregressa è inoltre coerente con la sopportazione del peso
economico della messa in sicurezza e dello smaltimento da parte dell’attivo
fallimentare dell’impresa che li ha prodotti.
Seguendo la tesi contraria, i costi della bonifica finirebbero per ricadere
sulla collettività incolpevole, in antitesi non solo con il principio “chi
inquina paga”, ma anche in contrasto con la realtà economica sottesa
alla relazione che intercorre tra il patrimonio dell’imprenditore e la massa
fallimentare di cui il curatore ha la responsabilità che, sotto il profilo
economico, si pone in continuità con detto patrimonio;
h) ai sensi dell’art. 42, comma 3, l. fall. “il
curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può rinunciare
ad acquisire i beni che pervengono al fallito durante la procedura
fallimentare qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro
conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni
stessi”.
Tuttavia:
h1) l’evenienza della rinuncia
costituisce una mera eventualità di fatto, riguardante la gestione della
procedura fallimentare e il ventaglio di scelte accordate dal legislatore al
curatore e non incide sul rapporto amministrativo e sui principi in materia
di bonifica;
h2) il medesimo comma 3 si
riferisce ai beni che entrano a diverso titolo nel patrimonio
dell’imprenditore dopo la dichiarazione di fallimento e che sono oggetto di
spossessamento;
i) inoltre, in tema di prevenzione, il citato
principio “chi inquina paga” non richiede, nella sua accezione
comunitaria, la prova dell’elemento soggettivo. Al contrario, la direttiva
2004/35/CE configura la responsabilità ambientale come responsabilità
oggettiva “il che rappresenta un criterio interpretativo per tutte le
disposizioni legislative nazionali”:
i1) secondo la citata Cons.
Stato, Ad. plen., 22.10.2019, n. 10, le misure disciplinate dagli artt. 239
ss. d.lgs. n. 152 del 2006, hanno nel loro complesso una finalità di
salvaguardia del bene ambiente rispetto ad ogni evento di pericolo o di
danno ed è assente ogni matrice di sanzione dell’autore;
i2) la bonifica costituisce
quindi uno strumento pubblicistico teso non a monetizzare la diminuzione del
valore, ma a consentirne il recupero materiale;
i3) ne discende che nella
bonifica emerge la funzione di reintegrazione del bene giuridico leso
propria della responsabilità civile, che evoca il rimedio della
reintegrazione in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c., previsto per
il danno all’ambiente dall’art. 18, comma 8, l. n. 349 del 1986;
i4) tale impostazione è
coerente con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza europea, secondo
la quale la direttiva 2004/35/CE non osta a una normativa nazionale che
identifica, oltre gli utilizzatori dei fondi su cui è stato generato
l’inquinamento illecito, anche i proprietari di detti fondi come
solidalmente responsabili di un tale danno ambientale, senza la necessità di
accertare l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta dei
proprietari e il danno constatato, a condizione che tale normativa sia
conforme al diritto dell’Unione;
i5) pertanto, anche la
responsabilità della curatela fallimentare, nell’eseguire la bonifica dei
terreni di cui acquisisce la detenzione per effetto dell’inventario
fallimentare dei beni, può analogamente prescindere dall’accertamento
dell’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta e il danno
constatato.
III. – Per completezza si osserva quanto segue:
j) alla citata News US, n. 110 del 05.10.2020 si
rinvia per approfondimenti sulla questione sottesa e sul percorso
motivazionale seguito dalla sezione rimettente, nonché: al § d), sugli
indirizzi giurisprudenziali che si sono formati sull’art. 192 d.lgs. n. 152
del 2006; al § e), sul rapporto tra obblighi derivanti dall’art. 192 d.lgs.
n. 152 del 2006 e ruolo della curatela fallimentare; al § f), sul rapporto
tra art. 192 e artt. 239 ss. d.lgs. n. 152 del 2006; al § g), sul tema della
bonifica dei siti; al § h), sul principio “chi inquina paga”; al §
i), sul danno ambientale
(Consiglio di Stato, Adunanza plenaria,
sentenza 26.01.2021 n. 3 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L’Adunanza
plenaria pronuncia sulla bonifica del sito inquinato da parte della curatela
fallimentare.
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Inquinamento – Inquinamento ambientale – Bonifica – Curatela fallimentare
– È obbligato – relativi costi – Ricadono sulla massa fallimentare.
Ricade sulla curatela fallimentare l’onere di
ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192, d.lgs. n. 152
del 2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare (1).
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(1) La questione era stata rimessa da
Cons. St., sez. IV, 15.09.2020, n. 5454.
Ha premesso l’Alto consesso che il curatore non può qualificarsi come avente
causa del fallito nel trattamento di rifiuti, salve, ovviamente le ipotesi
in cui la produzione dei rifiuti sia ascrivibile specificamente all’operato
del curatore, non dando vita il Fallimento ad alcun fenomeno successorio sul
piano giuridico. Va quindi esclusa una responsabilità del curatore del
fallimento, non essendo il curatore né l’autore della condotta di abbandono
incontrollato dei rifiuti, né l’avente causa a titolo universale del
soggetto inquinatore, posto che la società dichiarata fallita conserva la
propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio,
attribuendosene la facoltà di gestione e di disposizione al medesimo
curatore.
Ciò premesso, va ricordato che la questione posta all’esame dell’Adunanza
plenaria consiste nello stabilire se, a seguito della dichiarazione di
fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la
società fallita ai sensi dell’art. 192 sopra riportato.
L’Alto Consesso ha affermato che la presenza dei rifiuti in un sito
industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore
dal momento della dichiarazione del fallimento dell’impresa, tramite
l’inventario dei beni dell’impresa medesima ex artt. 87 e ss. della legge
fallimentare, comportino la sua legittimazione passiva all’ordine di
rimozione.
Nella predetta situazione, infatti, la responsabilità alla rimozione è
connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non
in riferimento ai rifiuti (che sotto il profilo economico a seconda dei casi
talvolta si possono considerare ‘beni negativi’), ma in virtù della
detenzione del bene immobile inquinato (normalmente un fondo già di
proprietà dell’imprenditore) su cui i rifiuti insistono e che, per esigenze
di tutela ambientale e di rispetto della normativa nazionale e comunitaria,
devono essere smaltiti). Conseguentemente, ad avviso dell’Adunanza, l'unica
lettura del d.lgs. n. 152 del 2006 compatibile con il diritto europeo,
ispirati entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, è quella
che consente all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei
confronti dei curatori che gestiscono i beni immobili su cui i rifiuti
prodotti dall'impresa cessata sono collocati e necessitano di smaltimento.
Tale conclusione si fonda innanzitutto sulle disposizioni dello stesso
d.lgs. n. 152 del 2006. Ed invero, al generale divieto di abbandono e di
deposito incontrollato di rifiuti si riconnettono gli obblighi di rimozione,
di avvio al recupero o smaltimento e di ripristino dello stato dei luoghi in
capo al trasgressore e al proprietario, in solido, a condizione che la
violazione sia ad almeno uno di essi imputabile secondo gli ordinari titoli
di responsabilità, anche per condotta omissiva, colposa nei limiti della
esigibilità, o dolosa. Nell’ottica del diritto europeo (che non pone alcuna
norma esimente per i curatori), i rifiuti devono comunque essere rimossi,
pur quando cessa l’attività, o dallo stesso imprenditore che non sia
fallito, o in alternativa da chi amministra il patrimonio fallimentare dopo
la dichiarazione del fallimento.
L'art. 3, par. 1, punto 6, della direttiva n. 2008/98/CE definisce, infatti,
il detentore, in contrapposizione al produttore, come la persona fisica o
giuridica che è in possesso dei rifiuti (rectius: dei beni immobili
sui quali i rifiuti insistono). Non sono pertanto in materia rilevanti le
nozioni nazionali sulla distinzione tra il possesso e la detenzione: ciò che
conta è la disponibilità materiale dei beni, la titolarità di un titolo
giuridico che consenta (o imponga) l’amministrazione di un patrimonio nel
quale sono compresi i beni immobili inquinati.
Del resto, come ben precisa l’ordinanza di rimessione, neppure rileva un
approfondimento della nozione della detenzione, se si ritiene sufficiente la
sussistenza di un rapporto gestorio, inteso come ‘amministrazione del
patrimonio altrui’, ciò che certamente caratterizza l’attività del
curatore fallimentare con riferimento ai beni oggetto della procedura. Per
le finalità perseguite dal diritto comunitario, quindi, è sufficiente
distinguere il soggetto che ha prodotto i rifiuti dal soggetto che ne abbia
materialmente acquisito la detenzione o la disponibilità giuridica, senza
necessità di indagare sulla natura del titolo giuridico sottostante.
Peraltro, per la disciplina comunitaria (art. 14, par. 1, della direttiva n.
2008/98/CE), i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal
produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori
precedenti dei rifiuti.
Questa regola costituisce un'applicazione del principio "chi inquina paga"
(v. il ‘considerando’ n. 1 della citata direttiva n. 2008/98/CE), nel
cui ambito solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario
incolpevole del terreno su cui gli stessi siano collocati, può, in
definitiva, invocare la cd. ‘esimente interna’ prevista dall'art.
192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006. La curatela fallimentare, che ha la
custodia dei beni del fallito, tuttavia, anche quando non prosegue
l'attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi
dell’esimente di cui all'art. 192, lasciando abbandonati i rifiuti
risultanti dall'attività imprenditoriale dell'impresa cessata. Nella qualità
di detentore dei rifiuti, sia secondo il diritto interno, ma anche secondo
il diritto comunitario (quale gestore dei beni immobili inquinati), il
curatore fallimentare è perciò senz’altro obbligato a metterli in sicurezza
e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero.
Il rilievo centrale che, nel diritto comunitario, assume la detenzione dei
rifiuti risultanti dall'attività produttiva pregressa, a garanzia del
principio "chi inquina paga", è, inoltre, coerente con la
sopportazione del peso economico della messa in sicurezza e dello
smaltimento da parte dell'attivo fallimentare dell'impresa che li ha
prodotti. In altre parole, poiché l’abbandono di rifiuti e, più in generale,
l’inquinamento, costituiscono ‘diseconomie esterne’ generate
dall’attività di impresa (cd. “esternalità negative di produzione”),
appare giustificato e coerente con tale impostazione ritenere che i costi
derivanti da tali esternalità di impresa ricadano sulla massa dei creditori
dell’imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti
dell’ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli
eventuali utili del fallimento.
Seguendo invece la tesi contraria, i costi della bonifica finirebbero per
ricadere sulla collettività incolpevole, in antitesi non solo con il
principio comunitario "chi inquina paga", ma anche in contrasto con
la realtà economica sottesa alla relazione che intercorre tra il patrimonio
dell’imprenditore e la massa fallimentare di cui il curatore ha la
responsabilità che, sotto il profilo economico, si pone in continuità con
detto patrimonio.
Giova anche rammentare, come ha chiarito l’Adunanza plenaria con la
sentenza 23.10.2019, n. 10, che in tema di prevenzione il
principio "chi inquina paga" non richiede, nella sua accezione
comunitaria, anche la prova dell'elemento soggettivo, né l’intervenuta
successione. Al contrario, la direttiva n. 2004/35/CE configura la
responsabilità ambientale come responsabilità (non di posizione), ma,
comunque, oggettiva; il che rappresenta un criterio interpretativo per tutte
le disposizioni legislative nazionali.
L’Adunanza plenaria ha in particolare ritenuto che le misure introdotte con
il d.lgs. n. 22 del 1997 (c.d. “decreto Ronchi”), ed ora disciplinate
dagli artt. 239 ss. del codice di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, hanno nel
loro complesso una finalità di salvaguardia del bene-ambiente rispetto ad
ogni evento di pericolo o danno, ed è assente ogni matrice di sanzione
dell’autore.
Entro questi termini, la bonifica costituisce uno strumento pubblicistico
teso non a monetizzare la diminuzione del relativo valore, ma a consentirne
il recupero materiale.
Ne discende che nella bonifica emerge la funzione di reintegrazione del bene
giuridico leso propria della responsabilità civile, che evoca il rimedio
della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c., previsto per il
danno all’ambiente dall’art. 18, comma 8, l. n. 349 del 1986.
Pertanto, la responsabilità della curatela fallimentare -nell’eseguire la
bonifica dei terreni di cui acquisisce la detenzione per effetto
dell’inventario fallimentare dei beni, ex artt. 87 e ss. della legge
fallimentare- può analogamente prescindere dall’accertamento dell’esistenza
di un nesso di causalità tra la condotta e il danno constatato
(Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 26.01.2021 n. 3 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Alla
Plenaria gli oneri del curatore fallimentare legati all’abbandono di rifiuti.
La quarta sezione del Consiglio di Stato sottopone alla Adunanza plenaria la
questione se anche il curatore dell’impresa in stato di fallimento possa
essere annoverato tra i soggetti destinatari dell’ordine di rimozione dei
rifiuti eventualmente abbandonati nell’area su cui insiste l’impresa stessa.
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Ambiente – Rifiuti – Divieto abbandono – Recupero e smaltimento –
Soggetti obbligati – Curatore fallimentare – Deferimento all’Adunanza
plenaria.
Va rimessa alla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
la questione relativa alla possibilità di individuare, tra i soggetti
destinatari dell’obbligo di recupero e smaltimento di rifiuti abbandonati,
anche il curatore fallimentare dell’impresa nella cui area di pertinenza
tali rifiuti siano stati rinvenuti (1).
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(1) I. – La quarta sezione del Consiglio di Stato sottopone alla
Adunanza plenaria la questione della individuazione dei soggetti tenuti alla
rimozione di rifiuti abbandonati.
Ci si chiede in particolare se anche il curatore dell’impresa in stato di
fallimento, sulla cui area di proprietà siano stati rinvenuti simili
rifiuti, possa essere annoverato all’interno di tale platea. La quarta
sezione, nel porre il quesito di cui sopra, sposa comunque la tesi secondo
cui anche tale figura vi rientrerebbe, e ciò sulla base di una nozione di
detenzione dei rifiuti (da intendersi alla stregua di “disponibilità
materiale” dei medesimi) che risulta più propriamente riconducibile
all’ordinamento europeo.
II. – La vicenda sottesa alla pronuncia in esame può essere così
riassunta:
a) a seguito di specifico accertamento di ARPA
Veneto, il Comune di Vicenza ingiungeva ad uno stabilimento industriale (in
stato di fallimento) la rimozione di rifiuti abbandonati nell’area di
pertinenza dello stabilimento stesso. Il curatore fallimentare invocava la
violazione dell’art. 192 del decreto legislativo n. 152 del 2006 davanti al
Tar per il Veneto che, con sentenza della seconda sezione 19.06.2019, n.
744, accoglieva il gravame in quanto il curatore fallimentare non sarebbe da
ritenere alla stregua di “detentore” dei rifiuti;
b) la sentenza di primo grado veniva appellata
davanti al Consiglio di Stato il quale, con l’ordinanza in rassegna:
b1) ha rammentato sul piano
normativo che il citato art. 192 del Codice dell’ambiente, al comma 4,
prevede in particolare che: “Qualora la responsabilità del fatto illecito
sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai
sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona
giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona
stessa, secondo le previsioni del
decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e
delle associazioni”;
b2) ha poi evidenziato che, in
caso di fallimento dell’azienda sulla cui area di pertinenza siano stati
abbandonati rifiuti, è controverso in giurisprudenza se il curatore
fallimentare possa essere ritenuto destinatario degli obblighi di rimozione
di cui al citato art. 192. Più in particolare:
secondo una prima tesi, il curatore non potrebbe essere tale in quanto non
sarebbe un “subentrante”, non acquistando la titolarità dei beni.
Egli sarebbe in altre parole “solo un amministratore con facoltà di
disposizione”. Ciò in quanto “nei confronti del fallimento non
sarebbe ravvisabile un fenomeno di ‘successione’, il quale solo
potrebbe far scattare il meccanismo previsto dall'art. 192 del d.lgs. n.
152/2006”;
secondo una diversa tesi, il curatore assume comunque la qualifica di “detentore”
dei rifiuti stessi. Di qui la possibilità di annoverarlo tra i soggetti
tenuti al suddetto obbligo di smaltimento;
c) con l’ordinanza in rassegna la quarta sezione
del Consiglio di Stato propende per la tesi da ultimo evidenziata per le
seguenti ragioni:
c1) in via generale: “La
messa in sicurezza di un sito inquinato costituisce … una misura di
prevenzione dei danni, espressione del principio di precauzione e del
principio dell'azione preventiva, che grava sul proprietario o sul detentore
o sul gestore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non
avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto
l'accertamento del dolo o della colpa (cfr. Cons. Stato, sez. V, n.
1089/2017)”. Pertanto, essa “può essere imposta a prescindere
dall’individuazione dell'eventuale responsabile (cfr. Cons. Stato, sez. V,
n. 8656/2019 e n. 1509/2016)”;
c2) ancora in via generale la
direttiva 2008/98/CE definisce il detentore, in contrapposizione al
produttore, come la persona fisica o giuridica che ha la detenzione
materiale dei rifiuti (l’ordinamento europeo non riconosce a tal fine la
distinzione tra possesso e detenzione, propria del nostro ordinamento
nazionale). Pertanto: “In tale contesto, la detenzione dei rifiuti fa …
sorgere automaticamente un'obbligazione avente un duplice contenuto: il
divieto di abbandonare i rifiuti e l'obbligo di smaltire gli stessi”;
c3) quel che rileva non è tanto
la responsabilità dell’inquinamento ma, piuttosto, la “detenzione
dell’area su cui si trovano i rifiuti”. Di qui “la possibilità di
addossare anche al detentore incolpevole (nella specie, al curatore) l’onere
di rimozione degli stessi”;
c4) del resto: “non possano
esservi ‘zone franche’ della applicazione indefettibile della normativa di
settore, la quale non può essere resa inoperante da contingenti ‘vicende
civilistiche’, peraltro pur sempre caratterizzate dalla ‘gestione del
patrimonio altrui’”;
c5) a ciò si aggiunga che,
abbracciando la prima tesi (secondo cui il curatore non potrebbe essere
destinatario di simili obblighi), “dovrebbe pertanto essere comunque il
Comune a sopportare gli oneri della rimozione (attività comunque non
rinviabile), con conseguente addebito dei relativi costi all’intera
comunità, ciò che costituisce una soluzione contrastante con le regole
europee”.
III. – Si segnala per completezza quanto segue:
d) in merito agli indirizzi che si sono nel tempo
formati sull’art. 192 del decreto legislativo n. 152 del 2006 (Codice
dell’ambiente) si veda, in particolare:
d1) sulla competenza ad
adottare simili provvedimenti:
Cons. Stato, sez. V, 08.07.2019, n. 4781 [in Foro amm., 2019, 1245 (m)],
secondo cui: “Ai sensi dell'art. 192, 3° comma, d.leg. 03.04.2006, n.
152, rientra nella competenza del sindaco la condanna agli adempimenti
previsti per la bonifica del suolo da rifiuti abbandonati, trattandosi di
norma speciale sopravvenuto all'art. 107, 5° comma, d.leg. 18.08.2000, n.
267”;
Cons. Stato, sez. V, 06.09.2017, n. 4230 [in Merito, 2017, fasc. 10, 57
(m); Ambiente, 2017, 659 (m)], secondo cui: “In applicazione del
principio di specialità prevalente sul principio ordinario di successione
cronologica delle norme, le disposizioni posteriori non comportano
l'abrogazione delle precedenti, ove queste ultime disciplinano diversamente
la stessa materia in un campo particolare (da ultimo, questo consiglio, sez.
VI, sentenza n. 1199 del 23.03.2016); in materia di rimozione di rifiuti la
competenza del sindaco, ex art. 14 d.leg. 05.02.1997 n. 22 (decreto Ronchi),
ad emanare le ordinanze in materia di rimozione di rifiuti sussiste anche
successivamente all'entrata in vigore del d.leg. 18.08.2000 n. 267 (Tuel)
che disponeva invece la competenza dei dirigenti, fino all'entrata in vigore
dell'art. 192 d.leg. 03.04.2006 n. 152 (codice ambientale), che nel
riprodurre testualmente la disposizione richiamata del decreto Ronchi ha
ribadito la competenza sindacale; ne consegue che l'ordinanza di ripristino
ambientale emanata dopo l'entrata in vigore del Tuel, deve essere emanata
dal sindaco e non dal dirigente”;
Cons. Stato, sez. V, 11.01.2016, n. 57 [in Foro amm., 2016, 49 (m)],
secondo cui: “Ai sensi dell'art. 192, 3º comma, d.leg. 03.04.2006 n. 152,
spetta al sindaco la competenza a disporre con ordinanza le operazioni
necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal 2º
comma e tale disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell'art. 107,
5º comma, d.leg. 18.08.2000 n. 267”;
Cons. Stato, sez. II, 14.11.2012, n. 4806 (in Uff. studi, mass. e formaz.
giust. amm., 2012; www.giustizia-amministrativa.it), secondo cui: “Rientra
nella competenza del sindaco, e non del dirigente di settore, l'adozione
dell'ordinanza comunale con cui si intima di eseguire, ai sensi dell'art.
192 d.leg. 03.04.2006 n. 152, tutte le operazioni necessarie per la
rimozione e il corretto smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi e di
procedere al ripristino dello stato dei luoghi”;
d2) sui soggetti tenuti
all’obbligo di rimozione:
Cass. civ., sez. III, 09.07.2020, n. 14612 (in Giust. Civ. Massimario
2020), secondo cui: “In tema di abbandono di rifiuti, sussiste la
responsabilità solidale, con l'autore del fatto, del proprietario o dei
titolari di diritti personali o reali di godimento sull'area ove sono stati
abusivamente lasciati o depositati detti rifiuti, purché la violazione sia
agli stessi imputabile a titolo di dolo o colpa. Questo riferimento alla
titolarità di diritti personali o reali di godimento va inteso, per le
sottese esigenze di tutela ambientale, in senso lato, comprendendo, quindi,
qualunque soggetto che si trovi con l'immobile interessato in un rapporto,
anche di mero fatto, che gli consenta -e, per ciò stesso, gli imponga- di
esercitare, per la salvaguardia dell'ambiente, una funzione di protezione e
custodia finalizzata ad evitare che il terreno possa essere adibito a
discarica abusiva di rifiuti nocivi; inoltre, il menzionato requisito della
colpa può ben consistere nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti
che l'ordinaria diligenza suggerisce per un'efficace custodia.
L'accertamento di tali presupposti (esercizio in fatto dei poteri sul
terreno e colposità della condotta) è rimesso al giudice di merito ed è
insindacabile in sede di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha confermato
la decisione di appello che aveva accertato la responsabilità di un
comproprietario formale del terreno, mero coerede di questo, per avere
omesso la vigilanza ed il grado di custodia minimi necessari ad evitare che
il sito divenisse una discarica abusiva, nonostante egli non avesse alcun
rapporto diretto con il bene)”;
Cons. Stato, sez. V, 25.02.2016, n. 765 (in Foro it., 2017, III, 513),
secondo cui è legittima l’ordinanza comunale contenente l’obbligo di
rimozione dei rifiuti e di bonifica rivolto al proprietario del terreno
nella sua qualità di erede del responsabile dell’inquinamento in quanto
l’obbligo ripristinatorio, avendo natura patrimoniale, è trasmissibile agli
eredi;
Cons. Stato, sez. V, 17.07.2014, n. 3786 [in Dir. e giur. agr. e ambiente,
2014, 1004 (m)], secondo cui: “In tema di abbandono incontrollato di
rifiuti, ai sensi dell'art. 192, 3º comma, d.leg. 03.04.2006 n. 152, il
potere-dovere di ordinare la rimozione di rifiuti abbandonati ed il
ripristino dello stato dei luoghi va esercitato senza indugi non solo nei
confronti di chi abbandona sine titulo i rifiuti, il quale realizza la
propria condotta col dolo e con l'animus delinquendi, ma anche del
proprietario o del titolare di altro diritto reale cui la violazione sia
imputabile a titolo di dolo o colpa; in ipotesi però di abbandono di rifiuti
avente il carattere della repentinità e della irresistibilità, il
proprietario che avvisa la pubblica autorità dell'accaduto ponendo in essere
le misure esigibili per evitare il ripetersi dell'accaduto, non può essere
considerato responsabile, per il suo solo titolo di proprietario”;
Cons. Stato, sez. II, 05.12.2011, n. 2990 [in Foro amm.-Cons. Stato, 2011,
3829 (m)], secondo cui: “Se è vero che l'art. 14 d.leg. 05.02.1997 n. 22
(oggi sostituito dal d.leg. n. 152 del 2006 art. 192, 3º comma) prevede la
corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti
personali o reali di godimento sull'area ove sono stati abusivamente
abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di
provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto la violazione
sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o copia, va tuttavia
precisato che, per un verso, le esigenze di tutela ambientale sottese alla
norma citata rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti
reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a
comprendere qualunque soggetto si trovi con l'area interessata in un
rapporto, anche demaniale o di mero fatto, tale da consentirgli -e per ciò
stesso imporgli- di esercitare una funzione di protezione custodia
finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica
abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente, e, per altro
verso, il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere
proprio nell'omissione degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria
diligenza suggerisce per realizzare un'efficace custodia e protezione
dell'area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente
depositati rifiuti nocivi”;
Cass. civ., sez. III, 22.03.2011, n. 6525 (in Resp. civ. e prev., 2011,
10, 2064, con nota di LUCIANI), secondo cui: “Il proprietario di un'area
interessata dalla presenza di rifiuti, acquisita consapevolezza del fatto,
deve attivarsi immediatamente per la loro rimozione anche agendo in giudizio
nei confronti del locatario. Viceversa, l'accordo stipulato con il locatario
per eliminare i rifiuti entro un certo termine, anche se breve, fa sorgere
in capo al proprietario una corresponsabilità insieme all'autore materiale
dell'illecito ai sensi dell'art. 14 d.lgs. n. 22 del 1997”;
Cass. civ., sez. un., 25.02.2009, n. 4472 (in Ragiusan, 2009, 305-306,
148; Riv. giur. ambiente, 2009, 6, 976, con nota di TADDIA), secondo cui: “In
tema di abbandono di rifiuti, sebbene l'art. 14, 3º comma, d.leg. 05.02.1997
n. 22 (applicabile ratione temporis) preveda la corresponsabilità solidale
del proprietario o dei titolari di diritti personali o reali di godimento
sull'area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, solo
in quanto la violazione sia agli stessi imputabile a titolo di dolo o colpa,
tale riferimento va inteso, per le sottese esigenze di tutela ambientale, in
senso lato, comprendendo, quindi, qualunque soggetto che si trovi con l'area
interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per
ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di protezione e custodia
finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica
abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente; per altro
verso, il requisito della colpa postulato da tale norma può ben consistere
nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza
suggerisce ai fini di un'efficace custodia (fattispecie relativa ad
ordinanza nei confronti di un consorzio di bonifica per provvedere alla
rimozione, all'avvio al recupero, allo smaltimento ed alla messa in
sicurezza dei rifiuti depositati lungo un fiume)”;
Cons. Stato, sez. V, 04.03.2008, n. 807 (in Giur. it., 2008, 1791),
secondo cui: “È illegittimo il provvedimento con cui un comune, in
applicazione estensiva dell'art. 192 d.leg. 03.04.2006 n. 152, ha ordinato
la rimozione di rifiuti abbandonati in un'area privata, anche nei confronti
di coloro -non autori dell'abbandono, non proprietari e non titolari di
diritti reali o personali di godimento dell'area- che con comportamento
asseritamente omissivo, di controllo o di denuncia all'autorità, hanno
concorso al permanere della presenza di rifiuti, per il solo fatto di essere
a conoscenza dell'abbandono stesso”;
d3) su partecipazione al
procedimento e contraddittorio: Cons. Stato, sez. IV, 01.04.2016, n. 1301
[in Riv. giur. ambiente, 2016, 298 (m), con nota di MASCHIETTO], secondo
cui: “L'art. 192, d.leg. 03.04.2006 n. 152, esige che il sindaco dia
formale comunicazione di avvio del procedimento al soggetto destinatario di
un'ordinanza di rimozione rifiuti (e bonifica) e consenta l'instaurazione
del contraddittorio sugli accertamenti effettuati dai soggetti preposti al
controllo: l'ordinanza emessa in difetto delle predette garanzie
procedimentali è illegittima”.
Ed ancora che: “La dizione letterale del 2º comma dell'art. 192, d.leg.
03.04.2006 n. 152, che richiede in maniera esplicita l'instaurazione del
contraddittorio prima dell'emissione dell'ordinanza sindacale di rimozione
rifiuti, esclude l'applicabilità dell'art. 21-octies della legge generale
sul procedimento amministrativo in materia di vizi formali del provvedimento”;
d4) sulla natura della
responsabilità, sulla sua sussistenza e sulla relativa dimostrazione:
Cons. Stato, sez. V, 08.07.2019, n. 4781 [in Foro amm., 2019, 1245 (m)],
secondo cui: “La condanna del proprietario del suolo agli adempimenti di
cui all'art. 192, 3° comma, d.leg. 03.04.2006, n. 152 per abbandono di
rifiuti necessita di un serio accertamento della sua responsabilità da
effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei limiti
della esigibilità qualora la condotta sia imputata a colpa, pena la
configurazione di una responsabilità da posizione in chiaro contrasto con
l'indicazione legislativa; la responsabilità solidale del proprietario può
essere imputabile a colpa omissiva, consistente nell'omissione delle cautele
e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di
un'efficace custodia e protezione dell'area, e segnatamente per impedire che
su di essa possano essere depositati rifiuti”;
Cons. Stato, sez. II, 13.06.2019, n. 3967 [in Merito, 2019, fasc. 10, 61
(m)], secondo cui: “La disciplina contenuta nell'art. 192 d.leg. 152 del
2006 è improntata ad una rigorosa tipicità dell'illecito ambientale, non
residuando al riguardo alcuno spazio per una responsabilità oggettiva, posto
che per essere ritenuti responsabili della violazione dalla quale è
scaturito l'abbandono illecito di rifiuti occorre quantomeno la colpa, e che
tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni,
anche in relazione -per l'appunto- ad un'eventuale responsabilità solidale
del proprietario dell'area”;
Cons. Stato, sez. V, 28.09.2015, n. 4504 [in Ambiente, 2015, 659 (m)],
secondo cui: “L'obbligo di diligenza cui fa riferimento l'art. 192 Tua
deve essere valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la
conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa quando sarebbe stato
possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente
sproporzionato; pertanto non può esigersi dal detentore di un terreno
oggetto di abbandono di rifiuti che rafforzi la recinzione dell'area o che
istituisca un servizio di guardiania ventiquattro ore su ventiquattro per
evitare accessi abusivi, o ancora che rimuova i rifiuti abbandonati da
terzi, perché ciò implicherebbe una responsabilità oggettiva che esula dal
dovere di custodia di cui all'art. 2051 c.c.”;
Cons. Stato, sez. V, 17.07.2014, n. 3786 [in Dir. e giur. agr. e ambiente,
2014, 1004 (m)], secondo cui: “In tema di abbandono incontrollato di
rifiuti, l'art. 192 d.leg. 03.04.2006 n. 152, attribuisce rilievo alla
negligenza del proprietario che si disinteressi del proprio bene per una
qualsiasi ragione e resti inerte, senza raffrontare concretamente la
situazione, ovvero la raffronti con misure palesemente inadeguate; perciò,
qualora vi sia la concreta esposizione al pericolo che su un bene si
realizzi una discarica abusiva di rifiuti anche per fatti illeciti di
soggetti ignoti, va attribuita rilevanza esimente alla diligenza del
proprietario che abbia fatto quanto risulti concretamente esigibile e impone
invece all'amministrazione di disporre le misure previste nei confronti del
proprietario che per trascuratezza, superficialità o anche indifferenza o
proprie difficoltà economiche, nulla abbia fatto e non abbia adottato alcuna
cautela volta ad evitare che vi sia in concreto l'abbandono dei rifiuti”;
Cons. Stato, sez. II, 14.11.2012, n. 4806 (in Uff. studi, mass. e formaz.
giust. amm., 2012; www.giustizia-amministrativa.it), secondo cui: “Non è
viziata da difetto di motivazione e da carenza di istruttoria, né da
violazione della legge sul procedimento amministrativo, l'ordinanza
sindacale adottata, ai sensi dell'art. 192, 3º comma, d.leg. 03.04.2006 n.
152, allorquando il destinatario non dimostri la propria estraneità al fatto
illecito compiuto, del quale, invece, viene dato dettagliatamente conto
nell'ordinanza; la quale, oltre a descrivere compiutamente l'intero iter
procedimentale seguito a termini di legge, reca evidenza del fatto che dalle
memorie presentate dalla parte ricorrente non risultavano elementi
sufficienti a dimostrare l'estraneità della stessa rispetto alla possibilità
di aver depositato rifiuti nell'area interessata”;
Cons. Stato, sez. II, 14.07.2010, n. 2518 [in Ragiusan, 2011, fasc. 325,
158 (m)], secondo cui: “L'art. 192 d.leg. 03.04.2006 n. 152, dispone che
per il concretarsi della responsabilità solidale dei proprietari dell'area
in cui sono stati rinvenuti rifiuti abbandonati, è necessario che
l'abbandono di rifiuti sia loro coimputabile almeno a titolo di colpa; anche
convenendo che la colpa possa configurarsi nell'ipotesi in cui il
proprietario abbia omesso di adottare cautele idonee ad evitare o ad
ostacolare l'indebito abbandono, non può essere addebitato ai ricorrenti il
mancato allestimento di «mezzi preclusivi dell'accesso», perché, per
principio generale, la chiusura del fondo costituisce una facoltà del
proprietario (art. 841 c.c.), il cui mancato esercizio non può integrare una
colpa”;
Cons. Stato, sez. V, 25.06.2010, n. 4073 [in Foro amm. Cons. Stato, 2010,
1290 (m)], secondo cui: “Ai sensi dell'art. 192 d.leg. 03.04.2006 n. 152
l'obbligo di procedere alla rimozione dei rifiuti può gravare, in solido con
il responsabile, anche a carico del proprietario del sito e del titolare di
diritti reali o personali di godimento relativi ad esso, ma solo se tale
violazione sia anche a loro imputabile a titolo di dolo o colpa, in base
agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati,
dai preposti al controllo”;
Cons. Stato, sez. V, 19.03.2009, n. 1612 [in Urbanistica e appalti, 2009,
995, con nota di CERBO; Foro amm.-Cons. Stato, 2009, 1517, con nota di
MORZENTI PELLEGRINI; Resp. civ. e prev., 2009, 2124, con nota di BAIONA;
Dir. e pratica amm., 2009, fasc. 6, 72 (m), con nota di COSMAI; Dir. e giur.
agr. e ambiente, 2010, 66 (m); Ragiusan, 2009, fasc. 305, 156; Giust. amm.,
2009, fasc. 3, 17 (m), con nota di ASTUTO], secondo cui: “In base
all'art. 192 d.leg. n. 152/2006 ed in precedenza dell'art. 14 d.leg. n.
22/1997 l'ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere
rivolto al proprietario solo quando questi abbia concorso, con la propria
condotta quantomeno colposa, a violare l'obbligo di abbandono o di deposito
incontrollato di rifiuto sul suolo e nel suolo: infatti, il legislatore non
ha configurato la responsabilità del proprietario come oggettiva -alla
stregua di un'obbligazione propter rem- ma come una responsabilità
soggettiva, nella quale la colpa o il dolo integrano un elemento costitutivo
della fattispecie; in particolare, non è ravvisabile la colpa del
proprietario in ragione della mancata recinzione del fondo: infatti, ai
sensi dell'art. 841 c.c. la chiusura del fondo costituisce una facoltà e non
mai un obbligo del proprietario”;
e) sul tema specifico del curatore fallimentare
si veda, poi:
e1) Cons. Stato, sez. IV,
25.07.2017, n. 3672 (in Fallimento, 2018, 586, con nota di D'ORAZIO; Riv.
giur. ambiente, 2017, 726 (m), con nota di VANETTI, FISCHETTI), secondo cui:
“La curatela fallimentare, che assume la custodia dei beni del fallito,
anche quando non prosegue l'attività imprenditoriale, non può avvantaggiarsi
dell'esimente interna di cui al 3° comma dell'art. 192, d.leg. n. 152/2006
(codice dell'ambiente), lasciando abbandonati i rifiuti risultanti
dall'attività imprenditoriale dell'impresa cessata; nella qualità di
detentore dei rifiuti la curatela fallimentare è obbligata a metterli in
sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero”;
e2) Cons. Stato, sez. V,
30.06.2014, n. 3274 (in Fallimento, 2015, 488), secondo cui: “Il curatore
non è rappresentante, né successore dell'imprenditore sottoposto alla
procedura fallimentare e, pertanto, anche in caso di prosecuzione di
rapporti preesistenti, non subentra negli obblighi strettamente correlati
alla responsabilità del fallito, compresi quelli conseguenti alla
commissione di illeciti ambientali”.
Più in particolare: “L'onere di custodia e il potere di disposizione dei
beni fallimentari non comportano necessariamente per il curatore il dovere
di adottare particolari compiti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria
degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti”.
Pertanto: “È illegittima l'ordinanza sindacale che ingiunge la rimozione,
il recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei
luoghi al curatore di una società fallita, quale avente causa nel contratto
di locazione della stessa e soggetto avente la disponibilità dell'immobile,
nonostante non fosse stato autorizzato alla prosecuzione dell'attività della
società fallita”;
f) la distinzione tra fattispecie di cui all’art.
192 e fattispecie di cui all’art. 239 ss. del medesimo Codice sta in questo:
la prima riguarda la “rimozione dei rifiuti”; la seconda la “bonifica
dei siti”. Le due figure possono avere un punto di contatto secondo la
seguente scansione cronologica: qualora, a seguito della rimozione dei
rifiuti (art. 192), si accerti il superamento di determinate soglie di
attenzione sull’area oggetto della rimozione stessa, si dovrà allora
procedere alla caratterizzazione ed agli eventuali interventi di bonifica
del sito interessato (cfr. art. 239, comma 2, del decreto legislativo n. 152
del 2006);
g) sul tema della bonifica dei siti si veda, in
particolare:
g1)
Cons. Stato, Ad. plen., 22.10.2019, n. 10 (in Foro it., 2019, III,
637 nonché oggetto della
News US n. 117 del 29.10.2019 ed alla quale si rinvia per ogni
approfondimento in dottrina e in giurisprudenza), secondo cui: “La
bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una
società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata
per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla
riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la
bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti
dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento”.
La Adunanza plenaria ha in particolare ritenuto che le misure introdotte con
il decreto legislativo n. 22 del 1997 (c.d. “decreto Ronchi”), ed ora
disciplinate dagli artt. 239 ss. del codice di cui al d.lgs. n. 152 del
2006, hanno nel loro complesso una finalità di salvaguardia del bene
ambiente rispetto ad ogni evento di pericolo o danno, nelle quali è assente
ogni matrice di sanzione rispetto al relativo autore. Entro questi termini,
la bonifica costituisce uno strumento pubblicistico teso non a monetizzare
la diminuzione del relativo valore ma a consentire il recupero materiale a
cura e spese del responsabile della contaminazione.
Ne discende che nella bonifica emerge la funzione di reintegrazione del bene
giuridico leso propria della responsabilità civile, che evoca il rimedio
della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c., previsto per il
danno all’ambiente dall’art. 18, ottavo comma, della legge n. 349 del 1986.
Quanto alla successione dell’incorporante negli obblighi dell’impresa
incorporata, essa costituisce espressione del principio espresso dal
brocardo cuius commoda eius et incommoda, per cui alla successione di
soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone sul piano
economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della
sottostante organizzazione aziendale. Del resto, il superamento della
concezione tradizionale si coglie nel riferimento testuale dell’art.
2504-bis c.c. (post riforma) dove si precisa che, oltre ad assumere i
diritti e gli obblighi delle incorporate, la società incorporante prosegue
in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione;
g2) Cass. civ., sez. III, ord.
22.01.2019, n. 1573 (in Foro it., 2020, I, 705), secondo cui: “In tema di
bonifica spontanea di sito inquinato, il proprietario ha diritto di
rivalersi nei confronti del responsabile dell'inquinamento per le spese
sostenute, a condizione che sia stata rispettata la procedura amministrativa
prevista dalla legge ed indipendentemente dall'identificazione del
responsabile dell'inquinamento da parte della competente autorità
amministrativa, senza che, in presenza di altri responsabili, trovi
applicazione il principio della solidarietà”.
Ed ancora che: “In tema di bonifica spontanea di sito inquinato, il
proprietario ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile
dell'inquinamento per le spese sostenute, a condizione che sia stata
rispettata la procedura amministrativa prevista dalla legge ed
indipendentemente dalla identificazione del responsabile dell'inquinamento
da parte della competente autorità amministrativa, atteso che, una volta
instaurata la causa, tale accertamento ricade nel giudizio di fatto del
giudice; non trova, peraltro, applicazione la regola della responsabilità
solidale di cui all'art. 2055 c.c., poiché trattasi di obbligazione ex lege
di contenuto indennitario, e non risarcitorio derivante dal fatto obbiettivo
dell'inquinamento (in applicazione del principio di cui innanzi, la suprema
corte ha confermato la sentenza impugnata che, escludendo l'applicabilità
dell'art. 2055 c.c., aveva determinato l'apporto causale della società
convenuta per l'inquinamento del terreno nella misura dei due terzi)”;
g3) Cons. Stato, sez. V,
08.03.2017, n. 1089 [in Foro amm., 2017, 570 (m)], secondo cui: “Ai sensi
degli art. 242, 1º comma e 244, 2º comma, d.leg. 03.04.2006, n. 152, una
volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli
interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti
dalla p.a. solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè
quelli che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un
proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un
preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di
mera posizione del proprietario del sito inquinato; d'altra parte se è vero,
per un verso, che l'amministrazione non può imporre, ai privati che non
abbiano alcuna responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato,
lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento, secondo il
principio cui si ispira anche la normativa comunitaria -la quale impone al
soggetto, che fa correre un rischio di inquinamento, di sostenere i costi
della prevenzione o della riparazione- per altro verso la messa in sicurezza
del sito costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra,
pertanto, nel genus delle precauzioni, unitamente al principio di
precauzione vero e proprio e al principio dell'azione preventiva, che
gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i
danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria,
non presuppone affatto l'accertamento del dolo o della colpa”;
g4) Cons. Stato, sez. V,
14.04.2016, n. 1509 [in Foro amm., 2016, 812 (m)], secondo cui: “Ai sensi
degli art. 242, 1º comma, e 244, 2º comma, d.leg. 03.04.2006 n. 152, una
volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli
interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti
dalla p.a. solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè ai
soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite
un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da
un preciso nesso di causalità; ciò impone un rigoroso accertamento al fine
di individuare il responsabile dell'inquinamento, nonché del nesso di
causalità che lega il comportamento del responsabile all'effetto consistente
nella contaminazione, accertamento che presuppone un'adeguata istruttoria,
non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo
al proprietario o al possessore dell'immobile in ragione di tale sola
qualità, è stato d'altra parte puntualizzato che, se è vero, per un verso,
che l'amministrazione non può imporre, ai privati che non abbiano alcuna
responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, lo svolgimento
di attività di recupero e di risanamento -secondo il principio cui si ispira
anche la normativa comunitaria, la quale impone al soggetto che fa correre
un rischio di inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della
riparazione- per altro verso la messa in sicurezza del sito costituisce una
misura di correzione dei danni e rientra pertanto nel genus delle
precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al
principio dell'azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore
del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo
finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto
l'individuazione dell'eventuale responsabile”;
h) sul principio “chi inquina paga” si
veda, in particolare:
h1) Cons. Stato, sez. IV,
25.07.2017, n. 3672 (in Fallimento, 2018, 586, con nota di D'ORAZIO),
secondo cui: “In base al diritto comunitario (art. 14 par. 1, dir.
2008/98/Ce), i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal
produttore iniziale o dai detentori del momento o dai detentori precedenti
dei rifiuti, e questa regola costituisce un'applicazione del principio «chi
inquina paga»; in definitiva, la detenzione dei rifiuti fa sorgere
automaticamente un'obbligazione «comunitaria» avente un duplice contenuto:
(a) il divieto di abbandonare i rifiuti; (b) l'obbligo di smaltire gli
stessi; aggiungasi che, se per effetto di categorie giuridiche interne,
questa obbligazione non fosse eseguibile, l'effetto utile delle norme
comunitarie sarebbe vanificato; solo chi non è detentore dei rifiuti, come
il proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi siano collocati,
può invocare l'esimente interna dell'art. 192, 3° comma, d.leg. 03.04.2006,
n. 152”;
h2)
Corte di giustizia UE, sez. II, 13.07.2017, C-129/16, Ungheria c.
Commissione europea [in Foro it., 2017, IV, 496;
www.curia.europa.eu, 2017; Urbanistica e appalti, 2017, 815, con nota di
CARRERA; Riv. giur. edilizia, 2017, I, 805; Riv. giur. ambiente, 2017, 489
(m), con nota di MASCHIETTO; Riv. giur. edilizia, 2017, I, 1235 (m), con
nota di PAGLIAROLI, nonché oggetto della News US 20.07.2017 ed alla quale si
rinvia per ogni approfondimento in dottrina e in giurisprudenza], secondo
cui: “Le disposizioni della direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di
prevenzione e riparazione del danno ambientale, lette alla luce degli
articoli 191 e 193 TFUE devono essere interpretate nel senso che, sempre che
la controversia di cui al procedimento principale rientri nel campo di
applicazione della direttiva 2004/35, circostanza che spetta al giudice del
rinvio verificare, esse non ostano a una normativa nazionale che identifica,
oltre agli utilizzatori dei fondi su cui è stato generato l’inquinamento
illecito, un’altra categoria di persone solidamente responsabili di un tale
danno ambientale, ossia i proprietari di detti fondi, senza che occorra
accertare l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta dei
proprietari e il danno constatato, a condizione che tale normativa sia
conforme ai principi generali di diritto dell’Unione, nonché ad ogni
disposizione pertinente dei Trattati UE e FUE e degli atti di diritto
derivato dell’Unione”.
Ed ancora che: “L’articolo 16 della direttiva 2004/35 e l’articolo 193
TFUE devono essere interpretati nel senso che, sempre che la controversia di
cui al procedimento principale rientri nel campo di applicazione della
direttiva 2004/35, essi non ostano a una normativa nazionale, come quella
controversa nel procedimento principale, ai sensi della quale non solo i
proprietari di fondi sui quali è stato generato un inquinamento illecito
rispondono in solido, con gli utilizzatori di tali fondi, di tale danno
ambientale, ma nei loro confronti può anche essere inflitta un’ammenda
dall’autorità nazionale competente, purché una normativa siffatta sia idonea
a contribuire alla realizzazione dell’obiettivo di protezione rafforzata e
le modalità di determinazione dell’ammenda non eccedano la misura necessaria
per raggiungere tale obiettivo, circostanza che spetta al giudice nazionale
verificare”;
h3) Corte di giustizia UE, sez.
III, 04.03.2015, C-534/13, Ministero ambiente (in Foro it., 2015, IV, 293;
Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario 2015, 3-4, 946, con nota di
ANTONIOLI; Urbanistica e appalti, 2015, 635, con nota di CARRERA), secondo
cui: “La direttiva 2004/35/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del
21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non
osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento
principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il
responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le
misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre
l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di
tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto
al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità
competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi” (il rinvio pregiudiziale era stato
disposto da Cons. Stato, ad. plen., 13.11.2013, n. 25, in Uff. studi, mass.
e formaz. giust. amm., 2013; 25.09.2013, n. 21 in Giornale dir. amm., 2014,
365 (m), n. SABATO);
h4) Cons. Stato, sez. V,
25.02.2015, n. 933 e 27.12.2013, n. 6250; da ultimo, sez. V, 08.03.2017, n.
1089, secondo cui: “Ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2,
d.lgs. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale
contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in
sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale
possono essere imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti
responsabili dell'inquinamento, e cioè quelli che abbiano in tutto o in
parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo
od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non
essendo configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario
del sito inquinato; d'altra parte se è vero, per un verso, che
l'Amministrazione non può imporre, ai privati che non abbiano alcuna
responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, lo svolgimento
di attività di recupero e di risanamento, secondo il principio cui si ispira
anche la normativa comunitaria -la quale impone al soggetto, che fa correre
un rischio di inquinamento, di sostenere i costi della prevenzione o della
riparazione- per altro verso la messa in sicurezza del sito costituisce una
misura di prevenzione dei danni e rientra, pertanto, nel genus delle
precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al
principio dell'azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore
del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo
finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto
l'accertamento del dolo o della colpa”;
i) sul danno ambientale si veda, infine:
i1) Cass. civ., sez. I,
20.07.2016, n. 14935 (in Foro it., 2017, I, 1406, con nota di PALMIERI;
Danno e resp., 2017, 203, con nota di TINTINELLI), secondo cui: “La
liquidazione del danno ambientale per equivalente è ormai esclusa alla data
di entrata in vigore della l. n. 97 del 2013, ma il giudice può ancora
conoscere della domanda pendente alla data di entrata in vigore della
menzionata legge in applicazione del nuovo testo dell'art. 311 d.leg. n. 152
del 2006 (come modificato prima dall'art. 5-bis, 1º comma, lett. b), d.l. n.
135 del 2009 e poi dall'art. 25 l. n. 97 del 2013), individuando le misure
di riparazione primaria, complementare e compensativa e, per il caso di
omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo, da rendere
oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati”.
Osserva in dottrina PALMIERI che: “All’avvio della procedura di
amministrazione straordinaria, come pure nel momento della richiesta di
insinuazione al passivo, il testo che regola il risarcimento del danno
ambientale, ossia dell’art. 311 d.leg. 152/2006, era quello risultante dalle
modifiche apportate —nel tentativo di superare le obiezioni mosse dalla
commissione europea nei confronti della versione originaria— dall’art. 5-bis
d.l. 135/2009, convertito, con modificazioni, dalla l. 166/2009. Mentre
erano rimaste inalterati l’intitolazione (azione risarcitoria in forma
specifica e per equivalente patrimoniale) e il 1° comma dell’art. 311 (che
menzionava entrambe le forme di risarcimento del danno ambientale,
anteponendo quello in forma specifica e ipotizzando di procedere con il
ristoro per equivalente pecuniario in caso di necessità), si interveniva
sulla parte finale del 2° comma, dove l’alternativa secca tra ripristino
della precedente situazione e (ove questo difettasse) risarcimento per
equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato veniva rimpiazzata da un
meccanismo più complesso. Si partiva, cioè, dall’addossare al responsabile
l’obbligo di ripristinare a proprie spese lo status quo ante, per poi
dichiararlo tenuto a adottare le misure di riparazione complementare e
compensativa di cui alla direttiva 2004/35/Ce; infine, soltanto quando gli
anzidetti rimedi risultassero «in tutto o in parte omessi, impossibili o
eccessivamente onerosi ai sensi dell’art. 2058 c.c. o comunque attuati in
modo incompleto o difforme rispetto a quelli prescritti», il danneggiante
sarebbe stato «obbligato in via sostitutiva al risarcimento per equivalente
patrimoniale»”.
Ed ancora che: “La perdurante insoddisfazione della commissione europea
faceva sì che, in pendenza dell’esame della ricordata domanda di ammissione
al passivo, l’art. 311 subisse un’ulteriore trasformazione, in virtù
dell’art. 25 l. 97/2013. Nella rubrica veniva cancellato ogni riferimento al
risarcimento per equivalente patrimoniale; a sua volta, il 2° comma era
totalmente riscritto, conferendo rilievo primario alle misure di riparazione
primaria, complementare e compensativa e, quindi, attribuendo al ministero
dell’ambiente, in caso di fallimento delle stesse, il compito di determinare
«i costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta
attuazione» e di agire «nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il
pagamento delle somme corrispondenti»”.
Infine che: “Sul versante del diritto dell’Unione, i giudici di
Lussemburgo hanno escluso distonie tra la direttiva 2004/35/Ce e le
disposizioni italiane secondo le quali, ove sia impossibile individuare il
responsabile della contaminazione di un sito od ottenere da quest’ultimo le
misure di riparazione, l’autorità competente non può imporre l’esecuzione
delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito,
non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al
rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità
competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi: cfr. Corte giust. 04.03.2015, causa
C-534/13, Fipa Group, in Foro it., 2015, IV, 293 (annotata da E. MASCHIETTO,
La Corte di giustizia dell’Unione europea conferma la compatibilità della
disciplina italiana sul «proprietario incolpevole» dell’inquinamento con i
principî comunitari in materia ambientale, in Riv. giur. ambiente, 2015, 33”;
i2) in dottrina si veda ancora,
sulla tematica del danno e del rispristino ambientale alla luce dei principi
europei: LEONARDI, La responsabilità in tema di bonifica dei siti inquinati:
dal criterio soggettivo del “chi inquina paga” al criterio oggettivo
del “chi è proprietario paga”? (in Foro amm., 2015, 1); GRASSI,
Bonifica ambientale di siti contaminati (in Diritto dell'ambiente, a cura di
G. Rossi, Torino, 2015, 424 ss.); R. INVERNIZZI, Inquinamenti risalenti,
ordini di bonifica e principio di legalità CEDU: tutto per l'“ambiente”
(in Urbanistica e appalti, 2014, 8-9); AMOROSO, Nuovi rilievi sull'attività
volta all'accertamento della responsabilità dell'inquinamento del sito (in
Riv. giur. amb., 2006, 6); DE LEONARDIS, Il principio di precauzione
nell'amministrazione del rischio, Milano, 2005; GOISIS, La natura
dell'ordine di bonifica e ripristino ambientale ex art. 17 d.lgs. n. 22 del
1997: la sua retroattività e la posizione del proprietario non responsabile
della contaminazione (in Foro amm.-C.d.S., 2004, n. 2); R. LOMBARDI, Il
problema dell'individuazione dei soggetti coinvolti nell'attività di
bonifica dei siti contaminati [in P.M. VIPIANA PERPETUA (a cura di), La
bonifica dei siti inquinati: aspetti problematici, Padova, 2002, 111 ss.] (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
ordinanza 15.09.2020 n. 5454 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
Consiglio di Stato rimette all’Adunanza plenaria la questione
dell’applicabilità, o meno, nei confronti del curatore fallimentare degli
obblighi di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006.
L’art. 192 del d.lgs. 152/2016 esplicita il principio comunitario del “chi
inquina paga” contenuto nella direttiva 2004/35/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in
materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, e stabilisce che
-in tema di abbandono di rifiuti– risponda ‘chiunque’ abbia
effettuato l’abbandono, il ‘deposito incontrollato’ o ‘l’immissione
dei rifiuti’, in solido con il proprietario del suolo (e con i titolari
dei diritti reali di godimento), rispetto al quale deve esservi un adeguato
accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio,
ancorché basato su presunzioni, e secondo criteri di ragionevole
esigibilità, coerenti con il principio colpevolistico, per il quale rilevano
non solo le condotte attive dolose, ma anche quelle omissive colpose,
caratterizzate dalla negligenza.
Quanto all’individuazione dei soggetti imputabili della responsabilità del
recupero o dello smaltimento dei rifiuti e del ripristino dello stato dei
luoghi, è stato anche sottolineato che la relativa ordinanza non ha finalità
sanzionatoria o ripristinatoria e pertanto può essere imposta a prescindere
dall’individuazione dell'eventuale responsabile (cfr. Cons. Stato, sez. V,
n. 8656/2019 e n. 1509/2016).
In sostanza, l’ordine di rimozione dei rifiuti può essere adottato anche nei
confronti del proprietario o del detentore incolpevole.
In questo quadro, risulta tuttavia controverso se anche il curatore
fallimentare, nel caso in cui la società proprietaria dell’area sia stata
dichiarata fallita, possa essere destinatario degli obblighi di cui al
citato art. 192.
Una prima tesi evidenzia che il curatore fallimentare, con
riferimento ai beni del soggetto fallito, non può essere destinatario del
provvedimento che impone la rimozione dei rifiuti, in quanto il curatore non
può essere considerato alla stregua di un soggetto "subentrato nei
diritti" della società fallita, anche perché la società dichiarata
fallita conserverebbe la propria soggettività giuridica e rimarrebbe
titolare del proprio patrimonio.
Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo subentrare in specifiche
posizioni negoziali del fallito (cfr. l'art. 72 r.d. n. 267/1942), in via
generale non sarebbe rappresentante, né successore del fallito, ma terzo
subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di
poteri conferitigli dalla legge (cfr. Cass. civ., sez. I, n. 3926/1980).
Ritiene, tuttavia, la Sezione che vada preferita l’opposta opzione
interpretativa, secondo cui la presenza dei rifiuti in un sito
industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore
dal momento della dichiarazione del fallimento dell’impresa, comporta la sua
possibile legittimazione passiva all’ordine di rimozione.
In sostanza, nella predetta situazione la responsabilità alla rimozione non
potrebbe di certo essere riferita all’impresa, in quanto non più in
attività.
Conseguentemente, l'unica interpretazione compatibile con il sistema
delineato dal decreto legislativo n. 152 del 2006 e con il diritto europeo,
ispirati entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, sarebbe
quella che consenta all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei
confronti dei detentori o dei gestori –‘comunque denominati’- dei
rifiuti prodotti dall'impresa cessata.
L'elemento decisivo è il carattere materiale della detenzione dei rifiuti.
In tale contesto, la detenzione dei rifiuti fa quindi sorgere
automaticamente un'obbligazione avente un duplice contenuto: il divieto di
abbandonare i rifiuti e l'obbligo di smaltire gli stessi.
Solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del
terreno su cui gli stessi siano collocati, può, in definitiva, invocare la
cd ‘esimente interna’ prevista dall'art. 192, comma 3, del d.lgs. n.
152 del 2006.
Nel quadro sopra delineato, la curatela fallimentare, che ha la custodia dei
beni del fallito, anche quando non prosegue l'attività imprenditoriale, non
può evidentemente avvantaggiarsi dell’esimente di cui all'art. 192,
lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall'attività imprenditoriale
dell'impresa cessata. Nella qualità di detentore dei rifiuti secondo il
diritto comunitario, il curatore fallimentare sarebbe perciò obbligato a
metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al
recupero.
Ciò premesso, stante l’esposto contrasto giurisprudenziale ed in
considerazione, ad ogni buon conto, della particolare rilevanza (attuale e
prospettica) della questione, il Collegio ha ritenuto opportuno, ai sensi
dell’art. 99, comma 1, c.p.a., deferire l’affare all’Adunanza plenaria (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
ordinanza 15.09.2020 n. 5454
- commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
ORDINANZA
... per la riforma della
sentenza 19.06.2019 n. 744 del Tribunale Amministrativo Regionale
per il Veneto, sede di Venezia, resa tra le parti, concernente un’ordinanza
di smaltimento dei rifiuti.
...
9. Il Collegio, preliminarmente, rileva che il tema centrale della
controversia è costituito dall’applicabilità o meno nei confronti del
curatore fallimentare degli obblighi di cui all’art. 192 del d.lgs. n.
152/2006.
9.1. In particolare, l’art. 192 dispone:
“1. L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo
sono vietati.
2. È altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato
solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee.
3. Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256,
chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla
rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al
ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale
violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai
soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le
operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso
il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al
recupero delle somme anticipate.
4. Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad
amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli
effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i
soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le
previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e
delle associazioni”.
9.2. Tali disposizioni, che esplicitano il principio comunitario del “chi
inquina paga” contenuto nella direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in
materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, stabiliscono che
-in tema di abbandono di rifiuti– risponda ‘chiunque’ abbia effettuato
l’abbandono, il ‘deposito incontrollato’ o ‘l’immissione dei rifiuti’, in
solido con il proprietario del suolo (e con i titolari dei diritti reali di
godimento), rispetto al quale deve esservi un adeguato accertamento della
sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché basato su
presunzioni, e secondo criteri di ragionevole esigibilità, coerenti con il
principio colpevolistico, per il quale rilevano non solo le condotte attive
dolose, ma anche quelle omissive colpose, caratterizzate dalla negligenza (cfr.
Cons. Stato, sez. V, n. 4781/2019 e n. 4504/2015).
9.3. Tuttavia, quanto all’individuazione dei soggetti imputabili della
responsabilità del recupero o dello smaltimento dei rifiuti e del ripristino
dello stato dei luoghi, è stato anche sottolineato che –pur se
l'Amministrazione non può imporre ai privati che non abbiano alcuna
responsabilità diretta sull'origine del fenomeno di inquinamento contestato
lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento, costituendo la
messa in sicurezza del sito una misura di correzione dei danni che rientra
nel genus delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e
proprio e al principio dell'azione preventiva che gravano sul proprietario o
detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente– la
relativa ordinanza non ha finalità sanzionatoria o ripristinatoria e
pertanto può essere imposta a prescindere dall’individuazione dell'eventuale
responsabile (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 8656/2019 e n. 1509/2016).
In sostanza, l’ordine di rimozione dei rifiuti può essere adottato anche nei
confronti del proprietario o del detentore incolpevole.
10. In questo quadro, risulta tuttavia controverso se anche il curatore
fallimentare, nel caso in cui la società proprietaria dell’area sia stata
dichiarata fallita, possa essere destinatario degli obblighi di cui al
citato art. 192.
10. Una prima tesi evidenzia che il curatore fallimentare, con riferimento
ai beni del soggetto fallito, non può essere destinatario del provvedimento
che impone la rimozione dei rifiuti.
Affinché il curatore possa essere considerato onerato sarebbe infatti
necessario che l'Amministrazione riscontri la sussistenza di una
responsabilità univoca e autonoma del suddetto organo fallimentare
nell'illecito abbandono.
10.1. Questa interpretazione muove dalla circostanza che il curatore non può
essere considerato alla stregua di un soggetto "subentrato nei diritti"
della società fallita (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 3274/2014).
Il fallimento non potrebbe essere reputato un "subentrante", ossia un
successore, dell'impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La società
dichiarata fallita conserverebbe la propria soggettività giuridica e
rimarrebbe titolare del proprio patrimonio (ne perderebbe solo la facoltà di
disposizione, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento – cfr.
art. 42 RD n. 267/1942: "La sentenza che dichiara il fallimento priva dalla
sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni
esistenti alla data di dichiarazione di fallimento"; art. 44: "Tutti gli
atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la
dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori").
Correlativamente, il curatore del fallimento –che non acquista la
titolarità dei beni- ne sarebbe solo un amministratore con facoltà di
disposizione, conseguente alla legittimazione straordinaria e al munus
publicum rivestito dagli organi della procedura (cfr. art. 31 RD n.
267/1942: "Il curatore ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare e
compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice
delegato e del comitato dei creditori, nell'ambito delle funzioni ad esso
attribuite").
Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo subentrare in specifiche
posizioni negoziali del fallito (cfr. l'art. 72 RD n. 267/1942), in via
generale non sarebbe rappresentante, né successore del fallito, ma terzo
subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di
poteri conferitigli dalla legge (cfr. Cass. civile, sez. I, n. 3926/1980).
10.2. In definitiva, nei confronti del fallimento non sarebbe ravvisabile un
fenomeno di ‘successione’, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo
previsto dall'art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 rispetto agli obblighi di
ripristino che l'articolo stesso pone ‘in prima battuta’ a carico del
responsabile e del proprietario versante in dolo o colpa.
11. Secondo una diversa interpretazione, invece, la presenza dei rifiuti in
un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal
curatore dal momento della dichiarazione del fallimento dell’impresa,
comporta la sua possibile legittimazione passiva all’ordine di rimozione.
12. Ritiene il Collegio che risulta di per sé condivisibile tale seconda
impostazione.
12.1. In sostanza, nella predetta situazione la responsabilità alla
rimozione non potrebbe di certo essere riferita all’impresa, in quanto non
più in attività.
Conseguentemente, l'unica interpretazione compatibile con il sistema
delineato dal decreto legislativo n. 152 del 2006 e con il diritto europeo,
ispirati entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, sarebbe
quella che consenta all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei
confronti dei detentori o dei gestori –‘comunque denominati’- dei rifiuti
prodotti dall'impresa cessata.
12.2. Tale interpretazione si fonda innanzitutto sulle disposizioni dello
stesso decreto legislativo n. 152 del 2006.
12.3. Al generale divieto di abbandono e di deposito incontrollato di
rifiuti si riconnette poi l'obbligo di rimozione, avvio al recupero o
smaltimento e al ripristino dello stato dei luoghi in capo al trasgressore e
al proprietario, in solido, a condizione che la violazione sia ad esso
imputabile secondo gli ordinari titoli di responsabilità, anche per condotta
omissiva, colposa nei limiti della esigibilità, o dolosa.
Per una parte della giurisprudenza, i curatori non potrebbero essere
obbligati in applicazione dell'art. 192 citato, quando prima della loro
nomina sia cessata l’attività dell'impresa che produceva i rifiuti o abbia
aggravato la situazione del sito.
Peraltro, si può ritenere che, nell’ottica del diritto europeo (che non pone
alcuna norma esimente per i curatori), i rifiuti devono comunque essere
rimossi, pur quando cessa l’attività, o dallo stesso imprenditore che non
sia fallito, o in alternativa da chi amministra il patrimonio fallimentare
dopo la dichiarazione del fallimento.
12.4. Secondo questa diversa ricostruzione, l'individuazione dell'obbligo di
smaltire i rifiuti in capo al detentore o al gestore, comunque denominato,
troverebbe il suo fondamento anche nel diritto comunitario, oltre che sulla
definizione del ‘gestore’, enunciata dall’art. 5, lettera r-bis, del decreto
legislativo n. 152 del 2006.
L'art. 3, par. 1 punto 6, della direttiva n. 2008/98/CE definisce, infatti,
il detentore, in contrapposizione al produttore, come la persona fisica o
giuridica che è in possesso dei rifiuti.
Non sono pertanto in materia rilevanti le nozioni nazionali sulla
distinzione tra il possesso e la detenzione: ciò che conta è la
disponibilità materiale dei beni, la titolarità di un titolo giuridico che
consenta (o imponga) la gestione.
Del resto, neppure rileva ogni approfondimento sulla nozione della
detenzione, se si ritiene sufficiente la sussistenza di un rapporto gestorio,
inteso come ‘amministrazione del patrimonio altrui’, ciò che certamente
caratterizza l’attività del curatore fallimentare.
Per le finalità perseguite dal diritto comunitario quindi è sufficiente
distinguere il soggetto che ha prodotto i rifiuti dal soggetto che ne abbia
materialmente acquisito la detenzione o la ‘disponibilità giuridica’, senza
necessità di indagare il titolo giuridico sottostante.
L'elemento decisivo è il carattere materiale della detenzione dei rifiuti.
12.5. Peraltro, per la disciplina comunitaria (art. 14, par. 1, della
direttiva n. 2008/98/CE), i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti
dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori
precedenti dei rifiuti.
Questa regola costituisce un'applicazione del principio "chi inquina paga"
(v. il ‘considerando’ n. 1 della citata direttiva n. 2008/98/CE).
12.6. In tale contesto, la detenzione dei rifiuti fa quindi sorgere
automaticamente un'obbligazione avente un duplice contenuto: il divieto di
abbandonare i rifiuti e l'obbligo di smaltire gli stessi.
Se dunque per effetto di categorie giuridiche interne questa obbligazione
non fosse eseguibile, l'effetto utile delle norme comunitarie sarebbe
vanificato (cfr. CGUE, sez. IV, n. 113/2012).
Solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del
terreno su cui gli stessi siano collocati, può, in definitiva, invocare la
cd ‘esimente interna’ prevista dall'art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152 del
2006.
12.7. Nel quadro sopra delineato, la curatela fallimentare, che ha la
custodia dei beni del fallito, anche quando non prosegue l'attività
imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi dell’esimente di cui
all'art. 192, lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall'attività
imprenditoriale dell'impresa cessata.
Nella qualità di detentore dei rifiuti secondo il diritto comunitario, il
curatore fallimentare sarebbe perciò obbligato a metterli in sicurezza e a
rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero.
12.8. Il rilievo centrale che, nel diritto comunitario, assume la detenzione
dei rifiuti risultanti dall'attività produttiva pregressa, a garanzia del
principio "chi inquina paga", appare, del resto, coerente con la
sopportazione del peso economico della messa in sicurezza e dello
smaltimento da parte dell'attivo fallimentare dell'impresa che li ha
prodotti.
Pertanto, la figura del detentore dei rifiuti avrebbe rilievo anche con
riferimento al curatore, a prescindere dalla configurabilità o meno di un
fenomeno giuridico di tipo successorio tra società fallita e curatela (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, n. 3672/2017).
In altre parole, l'attuazione di misure volte a mettere in sicurezza il sito
potrebbe essere imposta alle curatele fallimentari, poiché la curatela –pur
se non è chiamata a succedere in obblighi o responsabilità del fallito- è
tuttavia tenuta all'adempimento degli obblighi di custodia, manutenzione e
messa in sicurezza correlati alla sua situazione di attuale possessore o
detentore del bene (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 1961/2020).
13. Ciò premesso, stante l’esposto contrasto giurisprudenziale ed in
considerazione, ad ogni buon conto, della particolare rilevanza (attuale e
prospettica) della questione, il Collegio ritiene opportuno, ai sensi
dell’art. 99, comma 1, c.p.a., deferire l’affare all’Adunanza plenaria, pur ribadendo di ritenere preferibile il ‘secondo orientamento’.
13.1. Alle ragioni già sopra sintetizzate, il Collegio aggiunge anche le
seguenti, ulteriori considerazioni, che, ove condivise, estenderebbero le
conclusioni cui è pervenuto il secondo indirizzo.
13.2. Innanzitutto, non sembra condivisibile l’obiezione, formulata anche
dal Tar nella sentenza impugnata, che, in base al principio comunitario del
“chi inquina paga”, addossare al curatore la responsabilità
dell’inquinamento prodotto dall’imprenditore vanificherebbe la cogenza dei
superiori principi e finirebbe con il produrre un effetto di ‘manleva automatica’ nei confronti dei veri responsabili dell'inquinamento,
scaricando i costi sui creditori che non hanno alcun collegamento con
l'inquinamento.
13.3. Il profilo dirimente non è, come sopra esposto, quello della
responsabilità dell’inquinamento (che pure resta sullo sfondo con le sue
molteplici implicazioni), ma la concreta situazione di detenzione dell’area
su cui si trovano i rifiuti.
Da questa circostanza discende, sulla base del ricordato principio di
precauzione, la possibilità di addossare anche al detentore incolpevole
(nella specie, al curatore) l’onere di rimozione degli stessi.
13.4. Inoltre, il richiamo alle disposizioni della legge fallimentare (RD n.
267/1942), finalizzato ad esonerare la curatela, non sembra conferente
laddove viene in rilievo la situazione di fatto del rinvenimento dei rifiuti
su un’area dalla stessa “detenuta”.
13.5. Rileva poi, specificamente, la definizione contenuta nell’art. 5,
lettera r-bis, del decreto legislativo n. 152 del 2006, il quale definisce
gestore "qualsiasi persona fisica o giuridica che detiene o gestisce, nella
sua totalità o in parte, l'installazione o l'impianto oppure che dispone di
un potere economico determinante sull'esercizio tecnico dei medesimi".
Il riferimento alla ‘gestione’ può essere inteso come attributivo della
rilevanza di ‘ogni rapporto giuridicamente rilevante’ con l’area in
questione (e, in particolare, di ‘ogni rapporto di gestione di un patrimonio altrui’), così come anche il riferimento alla ‘disposizione di un potere
economico determinante’ può essere inteso come espressivo della volontà del
legislatore di individuare ‘sempre’ una ‘persona fisica o giuridica’, tenuta
a svolgere le attività di rimozione.
Inoltre, lo stesso art. 192 può essere inteso come ‘norma di chiusura’ in
materia di rifiuti, nella parte in cui disciplina gli interventi in caso di
abbandono e deposito incontrollato, imputabile a soggetti diversi da chi i
rifiuti li produce o li gestisce, e prevede il potere tipizzato del sindaco
di imporre le operazioni necessarie e l'esecuzione in danno dei soggetti
obbligati, con recupero delle somme anticipate.
Sotto tale profilo, si può affermare che non possano esservi ‘zone franche’
della applicazione indefettibile della normativa di settore, la quale non
può essere resa inoperante da contingenti ‘vicende civilistiche’, peraltro
pur sempre caratterizzate dalla ‘gestione del patrimonio altrui’.
13.6. Seguendo invece la tesi contraria, in assenza dell’individuazione del
responsabile dell’inquinamento (o anche quando l’incontestabile responsabile
sia poi fallito), dovrebbe pertanto essere comunque il Comune a sopportare
gli oneri della rimozione (attività comunque non rinviabile), con
conseguente addebito dei relativi costi all’intera comunità, ciò che
costituisce una soluzione contrastante con le regole europee.
La messa in sicurezza di un sito inquinato costituisce, come sopra rilevato,
una misura di prevenzione dei danni, espressione del principio di
precauzione e del principio dell'azione preventiva, che grava sul
proprietario o sul detentore o sul gestore del sito da cui possano scaturire
i danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria,
non presuppone affatto l'accertamento del dolo o della colpa (cfr. Cons.
Stato, sez. V, n. 1089/2017).
Cosicché sarebbe dubbia la legittimazione, anche sotto il profilo contabile,
del Comune ad operare in sostituzione degli stessi.
14. Sul piano della legittimazione passiva, d’altra parte, va osservato che
l’Adunanza plenaria, con la sentenza n. 10/2019 (nel chiarire che le misure
previste dal decreto legislativo n. 22 del 1997 sono applicabili anche a
condotte di inquinamento poste in essere prima della sua entrata in vigore),
ha ammesso che le attività di bonifica possano essere imposte alla società
non responsabile dell’inquinamento, che sia subentrata nella precedente
società per effetto di una fusione per incorporazione.
Nel caso di specie, si tratta invece di verificare se, a seguito della
dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui
era tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192 sopra riportato (con la
ricaduta sulla finanza pubblica e con un corrispondente vantaggio
patrimoniale dei creditori della società fallita e sostanzialmente di
questa), pur se il curatore fallimentare –in un’ottica di continuità-
‘gestisce’ proprio il patrimonio del bene della società fallita e ne ha la
disponibilità materiale.
14.1. In tema di prevenzione (ambito nel quale dovrebbe essere collocato il
provvedimento in esame) il principio "chi inquina paga" non richiede
del resto, nella sua accezione comunitaria, anche la prova dell'elemento
soggettivo, né l’intervenuta successione.
Al contrario, la direttiva n. 2004/35/CE configura la responsabilità
ambientale come responsabilità (non di posizione), ma, comunque, oggettiva,
che rappresenta un criterio interpretativo per tutte le disposizioni
legislative nazionali.
In ogni caso, le tematiche riguardanti l’ambito della responsabilità
oggettiva riguardano i soggetti giuridici che non versino il dolo o il
colpa, mentre nella specie va chiarito se –quando i fatti siano incontestatamente imputabili ad una società– il suo fallimento, in assenza
di una disposizione di legge in tal senso, comporta la sopravvenuta
irrilevanza degli obblighi previsti dall’art. 192 del decreto legislativo n.
152 del 2006.
16. Pertanto, il Collegio –nella consapevolezza della delicatezza della
questione controversa e del suo evidente carattere di massima- rimette, ai
sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a l’affare all’Adunanza Plenaria, per la
decisione in ordine al punto di diritto de quo, al fine di dirimere i
contrasti attuali e, soprattutto, potenziali in proposito, sia in primo, sia
in secondo grado.
Valuterà l’Adunanza Plenaria se definire il secondo grado del giudizio o se
rimettere la decisione a questa Sezione, una volta enunciato il principio di
diritto.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non
definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe (n. 8487/2019), ne
dispone il deferimento all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 15.09.2020 n. 5454 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti
abbandonati: la responsabilità del curatore fallimentare.
L’opzione interpretativa che pone in capo al curatore
fallimentare gli obblighi di cui all’art. 192 D.Lgs. n. 152/2006, sulla
scorta della sua relazione di detenzione con i rifiuti che insistono negli
stabilimenti aziendali, si pone in contrasto sia con il principio del “chi
inquina paga”, sia con le norme del diritto fallimentare che ne disciplinano
il munus.
---------------
Le ordinanze contingibili e urgenti, ex art. 50 dlgs 267/2000, sono ascritte all'esercizio, da
parte del Sindaco, di un potere straordinario, che si pone in una situazione
di potenziale conflitto col principio di legalità di cui all'art. 25 della
Costituzione. Detti provvedimenti potranno pertanto essere adottati solo in
presenza dei presupposti individuati dal legislatore, e consistenti, per
l'appunto, nella contingibilità e urgenza della fattispecie che il Sindaco
si trovi a dover fronteggiare.
Nel caso di specie, né l'uno né l'altro dei due requisiti sopra indicati
sembra ricorrere, né l'amministrazione ha motivato il provvedimento adottato
dando atto della ricorrenza degli stessi.
Non ricorre la contingibilità, intesa come impossibilità di affrontare
efficacemente la fattispecie con altri provvedimenti tipizzati.
Invero, il provvedimento deputato a far fronte all'abbandono dei rifiuti è
quello individuato dall'art. 192 D.Lgs. n. 152 del 2006, che prevede a sua
volta specifici e stringenti requisiti di applicazione, al cui accertamento
l'amministrazione comunale non può sottrarsi mediante il ricorso alle
ordinanze di cui all'art. 50 TUEL.
Peraltro, l'art. 50, comma 5, D.Lgs. n. 267 del 2000, richiamato nelle
premesse dell'ordinanza sindacale impugnata, conferisce al sindaco il potere di far
fronte, mediante ordinanze contingibili e urgenti, a "emergenze sanitarie
o di igiene pubblica".
---------------
2. Nel merito, il ricorso è fondato.
3. Possono esaminarsi congiuntamente i primi tre motivi, con i quali
il ricorrente confuta l’orientamento -richiamato dal Comune nel
provvedimento oggetto di impugnazione– secondo cui la titolarità passiva
degli obblighi di cui all’art. 192, c. 3 e 4, D.Lgs. 152/2006 è da
riconoscersi anche in capo al curatore fallimentare, in qualità di
“detentore” dei rifiuti.
Entrambe le parti danno conto dell’orientamento tradizionale che ha sempre
escluso il curatore tra i soggetti tenuti alla rimozione, avvio a recupero o
smaltimento ed al ripristino dello stato dei luoghi, salvo che l’abbandono
dei rifiuti non sia riconducibile direttamente all’attività della curatela.
Tale orientamento si fonda sulla non riconducibilità della posizione del
curatore fallimentare ad alcuna delle categorie di soggetti in capo ai
quali, ai sensi della disposizione richiamata, è posta la responsabilità
delle operazioni di rimozione, avvio a recupero o smaltimento e ripristino.
La norma, in applicazione del principio comunitario del “chi inquina paga”,
in parallelo a quanto è previsto in materia di bonifica, pone i suddetti
obblighi in capo al responsabile dell’abbandono incontrollato di rifiuti,
nonché al proprietario del fondo ed ai titolari di diritti reali o personali
di godimento sull'area, in solido con il responsabile, purché la violazione
sia ad essi imputabile a titolo di dolo o colpa. Inoltre, è posta in capo ai
soggetti che siano subentrati, “secondo le previsioni del decreto
legislativo 08.06.2001, n. 231”, nei diritti della persona giuridica,
ove la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o
rappresentanti della stessa.
La giurisprudenza ha chiarito, infatti, che il curatore del fallimento, pur
potendo subentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. il
R.D. n. 267 del 1942, art. 72), in via generale "non è rappresentante, né
successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo
patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge" (così
Cass. civ., Sez. 1^, 23/06/1980, n. 3926; in termini analoghi v. anche Cass.
civ., Sez. 1^, 14/09/1991, n. 9605).
A tale orientamento se n’è contrapposto, più di recente, un altro (Consiglio
di Stato, sez. IV, 25.07.2017, n. 3672), espressamente richiamato
nell’ordinanza impugnata, alla stregua del quale il curatore, avendo la
custodia dei beni del fallito, ne sarebbe “detentore” (nell’ampia
accezione fatta propria dal diritto comunitario), in quanto tale obbligato
alla messa in sicurezza ed allo smaltimento dei rifiuti.
Secondo la suddetta tesi "solo chi non è detentore dei rifiuti, come il
proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi sono collocati, può
invocare l'esimente interna dell'art. 192, comma 3, del d.Lgs. 152/2006. La
curatela fallimentare, che assume la custodia dei beni del fallito, anche
quando non prosegue l'attività imprenditoriale, non può evidentemente
avvantaggiarsi di tale norma, lasciando abbandonati i rifiuti.".
Il suddetto orientamento è stato sottoposto a critica da altra pronuncia del
Consiglio di Stato, che il Collegio ritiene di condividere.
Nella sentenza del 04.12.2017, n. 5668, il Consiglio di Stato ha evidenziato
che la soluzione che pone in capo al curatore fallimentare gli obblighi di
cui all’art. 192 D.Lgs. 152/2006, sulla scorta della sua relazione di
detenzione con i rifiuti che insistono negli stabilimenti aziendali, si pone
in contrasto sia con il principio del “chi inquina paga”, sia con le
norme del diritto fallimentare che ne disciplinano il munus.
Sotto il primo profilo, ha evidenziato che, in base al principio
comunitario del "chi inquina paga", è soltanto il responsabile
dell'inquinamento a dover riparare il danno arrecato e che addossare al
curatore che non abbia continuato l'attività aziendale la responsabilità per
l'inquinamento prodotto dall’imprenditore “vanificherebbe la cogenza dei
superiori principi e finirebbe con il produrre un effetto di manleva
automatica nei confronti dei "veri" responsabili dell'inquinamento (id est,
in tesi: i soggetti muniti di responsabilità gestoria nei confronti
dell'impresa inquinante)” (…) “scaricando i costi sui creditori che
non hanno alcun collegamento con l'inquinamento”.
Sotto il secondo profilo, ha osservato che neppure può fondatamente
ritenersi sussistere una relazione di custodia tra il curatore ed i beni del
fallito.
Infatti, osserva, alla stregua dell'art. 88 (recante "presa in consegna
dei beni del fallito da parte del curatore") della c.d. legge
fallimentare di cui al Regio decreto 16.03.1942, n. 267 ("Il curatore
prende in consegna i beni di mano in mano che ne fa l'inventario insieme con
le scritture contabili e i documenti del fallito. Se il fallito possiede
immobili o altri beni soggetti a pubblica registrazione, il curatore
notifica un estratto della sentenza dichiarativa di fallimento ai competenti
uffici, perché sia trascritto nei pubblici registri"), il consegnatario
non succede nel possesso dei beni del fallito, di cui ha soltanto
l’amministrazione per le finalità della procedura.
La tesi che attribuisce al curatore la "responsabilità" per le
operazioni di cui all’art. 192 D.Lgs. 152/2006 “frattura il sistema e
finisce con l'addossare al curatore una responsabilità che neppure sarebbe
stata del proprietario incolpevole, e ciò sulla scorta di una
riconducibilità al medesimo dello statuto del "detentore" che non risponde
alla funzione espletata dal curatore medesimo”.
Il Collegio condivide le suddette argomentazioni e ritiene solo di
aggiungere che da questa impostazione non deriva una diminuzione della
tutela ambientale, poiché in mancanza di altri soggetti obbligati ai sensi
dell’art. 192, D.Lgs. 152/2006, gli obblighi di rimozione ed avvio al
recupero sono posti in capo al Comune, che potrà rivalersi delle spese
sostenute insinuandosi nel passivo fallimentare.
E’, altresì, da aggiungere che tale soluzione interpretativa fa salvi gli
obblighi del curatore di porre in essere le misure di prevenzione d’urgenza
previste dall’art. 245 D.Lgs. 152/2006 per il caso di superamento o di
pericolo di superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC).
Tali misure, infatti, non avendo natura sanzionatoria, né ripristinatoria,
ma mirando alla prevenzione dei danni non presuppongono l'accertamento del
dolo o della colpa in capo al proprietario o al detentore (Cons. Stato Sez.
VI, 03/01/2019, n. 81).
4. Non ricorrono inoltre, nel caso di specie, i presupposti per l'adozione
dell'ordinanza contingibile e urgente di cui all'art. 50 TUEL, indicata nel
provvedimento impugnato.
Le ordinanze previste dalla citata norma vengono ascritte all'esercizio, da
parte del Sindaco, di un potere straordinario, che si pone in una situazione
di potenziale conflitto col principio di legalità di cui all'art. 25 della
Costituzione. Detti provvedimenti potranno pertanto essere adottati solo in
presenza dei presupposti individuati dal legislatore, e consistenti, per
l'appunto, nella contingibilità e urgenza della fattispecie che il Sindaco
si trovi a dover fronteggiare (ex pluribus: TAR Emilia Romagna,
Bologna, Sez. II, 23.03.2018 n. 270).
Nel caso di specie, né l'uno né l'altro dei due requisiti sopra indicati
sembra ricorrere, né l'amministrazione ha motivato il provvedimento adottato
dando atto della ricorrenza degli stessi.
Non ricorre la contingibilità, intesa come impossibilità di affrontare
efficacemente la fattispecie con altri provvedimenti tipizzati (in tal
senso: Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.05.2013, n. 3007; Sez. V, 20.02.2012,
n. 904; Sez. VI, 09.02.2010, n. 642; TAR Campania, Napoli, Sez. V,
12.11.2018 n. 6550).
Invero, il provvedimento deputato a far fronte all'abbandono dei rifiuti è
quello individuato dall'art. 192 D.Lgs. n. 152 del 2006, che prevede a sua
volta specifici e stringenti requisiti di applicazione, al cui accertamento
l'amministrazione comunale non può sottrarsi mediante il ricorso alle
ordinanze di cui all'art. 50 TUEL.
Peraltro, l'art. 50, comma 5, D.Lgs. n. 267 del 2000, richiamato nelle
premesse dell'ordinanza n. 3/2018, conferisce al sindaco il potere di far
fronte, mediante ordinanze contingibili e urgenti, a "emergenze sanitarie
o di igiene pubblica". Tuttavia, anche sotto tale profilo, nel
provvedimento qui gravato non si dà atto della ricorrenza di taluna delle
suddette fattispecie legittimanti
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.06.2019 n. 744
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
aggiornamento al
21.04.2021 |
|
L'ennesima "tegola" sulla legge
urbanistica lombarda!! |
EDILIZIA PRIVATA: F.
Donegani,
Rigenerazione urbana in Lombardia: la parola alla Corte Costituzionale
(15.03.2021 - link a www.dirittopa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Premio
volumetrico su immobili dismessi, lo scontro Comune-Regione Lombardia
finisce alla Consulta.
Il Tar rimette la norma alla corte costituzionale. Fermi i progetti di Boeri
per Coima. Gli immobiliaristi di Aspesi: senza incentivi nessuna
rigenerazione urbana sostenibile.
Il Tar Lombardia spedisce alla Consulta la legge regionale sugli edifici
abbandonati che concede un premio edificatorio fino al 25% a chi recupera
immobili dismessi da almeno cinque anni.
La norma, secondo i giudici,
rappresenta una «violazione della potestà pianificatoria» del Comune
e ha il potere di «stravolgere l'assetto del territorio». Intanto,
l'incertezza sulla legittimità degli attuali e consistenti premi volumetrici
mina alcuni progetti di riqualificazione, caso emblematico il ponte-serra a
scavalco su via Melchiorre Gioia concepito dagli studi Stefano Boeri e
Diller Scofidio+Renfro, per conto di Coima, nell'ambito del progetto di
riqualificazione del "Pirellino".
Ma, senza premi concreti, non può essere avviato l'ambizioso processo di
rigenerazione che Milano ha in mente, avvertono gli imprenditori del settore
immobiliare rappresentati da Aspesi. «Il recupero di un sito dismesso è
più costoso di un intervento su terreno verde a causa di bonifiche e
demolizioni da effettuare quasi sempre. Perché, quindi, un operatore come i
nostri possa decidere di realizzarlo occorrono degli incentivi senza i quali
i conti non tornerebbero», sottolinea Federico Filippo Oriana,
presidente dell'Associazione nazionale delle società immobiliari.
La questione di costituzionalità della legge regionale è stata sollevata dal
Comune, parte in causa in tre ricorsi al Tar (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 10.02.2021 n. 371
- TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 10.02.2021 n. 372 - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 10.02.2021 n. 373) presentati da proprietari di
immobili inseriti nell'elenco degli «edifici abbandonati o degradati»
del nuovo Pgt.
Nella lista finiscono gli immobili dismessi da più di un anno
e considerati pericolosi per la sicurezza, la salubrità o l'incolumità
pubblica o, più semplicemente, in contrasto con il decoro e la qualità
urbana. I proprietari che non recuperano o abbattono tali edifici nell'arco
di 18 mesi, subiscono la demolizione in danno da parte del Comune e perdono
la volumetria esistente (possono contare solo sul riconoscimento dell'indice
di edificabilità unico di 0,35 mq/mq). Da qui il ricorso al Tar dei privati
penalizzati dalle regole del nuovo Pgt.
Tra i motivi dei ricorsi spicca il contrasto tra le norme di attuazione del
Pgt (art. 11) e la normativa regionale (art.
40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005,
introdotto dalla lr 18 del 2019) di gran lunga più vantaggiosa per i
proprietari di immobili fatiscenti, che hanno tre anni di tempo per
presentare il titolo edilizio necessario per avviare i lavori e possono
vedersi riconoscere un incremento dei diritti edificatori tra il 20 e il 25
per cento. Al premio si affianca l'esenzione dall'eventuale obbligo di
reperimento degli standard.
Evidente, secondo il Tar, il contrasto tra le regole del Pgt e la legge
regionale così come è palese che la questione di incostituzionalità
sollevata dal Comune non sia infondata. In violazione di alcuni articoli
della Costituzione (n. 5. 97, 114, 117 e 18), la legge regionale «comprime
in maniera eccessiva la potestà pianificatoria comunale», si legge nelle
ordinanze. Inoltre, affermano i giudici, la disciplina regionale sugli
immobili fatiscenti è «ingiustificatamente rigida e uniforme»,
prescinde dalle decisioni comunali e può avere un impatto incisivo sulla
pianificazione locale, tale da poter «stravolgere l'assetto del
territorio o di sue parti».
Il Tar riscontra anche una violazione della normativa statale, tra cui
quella sugli standard (Dm 1444 del 1968): l'art. 40-bis esonera, seppure con
alcune eccezioni, dall'obbligo di individuare aree per servizi e
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, «non
garantendo un corretto rapporto tra il carico urbanistico gravante sulla
zona interessata dall'intervento di riqualificazione e le corrispondenti
dotazioni pubbliche».
Contrario, inoltre, ai principi di uguaglianza e imparzialità
dell'amministrazione il riconoscimento di premialità in favore di persone
che hanno causato «l'insorgere di situazioni di degrado e pericolo»,
vantaggi a cui invece non possono aspirare i proprietari più diligenti. La
parola passa ora alla Consulta
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 12.02.2021). |
EDILIZIA PRIVATA: Disciplina
di legge regionale sul recupero degli immobili degradati e compromissione
della potestà pianificatoria comunale: sollevata q.l.c..
Il Tar per la Lombardia sottopone al giudizio della Corte costituzionale la
normativa regionale lombarda sul recupero edilizio degli immobili degradati
e abbandonati (art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, introdotto
dalla legge regionale n. 18 del 2019), censurandone l’irragionevolezza e il
contrasto con gli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett.
p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione.
In particolare, secondo la Sezione rimettente, risulterebbe oltremodo
compressa la potestà pianificatoria dei Comuni (in specie, quelli di grandi
dimensioni), i quali non sarebbero più messi nelle condizioni di approvare
alcun intervento correttivo o derogatorio rispetto a quanto già stabilito
dalle norme della legge regionale, in tal modo venendo loro sottratto il
compito di valorizzare le peculiarità dei singoli territori.
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Urbanistica ed edilizia – Regione Lombardia – Recupero degli immobili
degradati e abbandonati – Compressione della potestà pianificatoria dei
Comuni – Questione rilevante e non manifestamente infondata di
costituzionalità.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lettera a,
della legge regionale n. 18 del 2019), rubricato “Disposizioni relative al
patrimonio edilizio dismesso con criticità”, per violazione degli artt. 3,
5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto
comma, e 118 della Costituzione, in quanto, nel dettare una disciplina
completa ed esaustiva sul trattamento giuridico da riservare agli immobili
abbandonati e degradati, lascia compiti meramente attuativi ed esecutivi in
capo ai Comuni, comprimendone in maniera eccessiva la potestà pianificatoria
ed impedendo loro una coerente programmazione in ambito urbanistico (1).
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(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna, il Tar per la Lombardia ha
sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis della
legge regionale lombarda sul governo del territorio (legge regionale
11.03.2005, n. 12), come introdotto dalla legge regionale n. 18 del 2019,
che detta una disciplina molto analitica sul recupero degli immobili
degradati e abbandonati. Il cuore dei dubbi di costituzionalità attiene
all’eccessiva compressione della potestà pianificatoria dei Comuni, con
particolare riguardo ai Comuni di maggiori dimensioni.
Nel giudizio innescatosi dinnanzi al Tar, il proprietario di un immobile
situato nel Comune di Milano (in zona a destinazione urbanistica
prevalentemente terziariadirezionale) ha impugnato gli atti con i quali
l’edificio è stato ricompreso tra gli “edifici abbandonati e degradati”,
con conseguente sottoposizione al regime previsto dall’art. 11 delle Norme
di attuazione (N.d.A.) del Piano delle Regole (P.d.R.), facente parte del
Piano di Governo del Territorio (PGT).
Uno dei motivi di gravame ha lamentato l’illegittimità sopravvenuta di tali
norme di attuazione, in quanto contrastanti con il regime successivamente
introdotto dall’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005. La difesa
comunale ha, in primo luogo, sostenuto la perfetta compatibilità tra quest’ultima
norma e l’art. 11 delle N.d.A. (operando, cioè, un tentativo di
interpretazione della norma di legge in senso costituzionalmente conforme),
e, in subordine, ne ha eccepito l’illegittimità costituzionale per contrasto
con vari parametri costituzionali.
II. – Il Collegio ritiene di non accogliere l’interpretazione dell’art.
40-bis propugnata dalla difesa comunale (attese le evidenti inconciliabilità
testuali rispetto a quanto previsto dalla preesistente norma di attuazione
comunale, “poiché viene regolamentata, in maniera divergente oltre che
contrastante, la medesima fattispecie, ossia la disciplina da riservare agli
immobili abbandonati e degradati”) e, di conseguenza, ritiene pregiudiziale
alla propria decisione la risoluzione della questione di legittimità
costituzionale sulla norma della legge regionale. Di seguito, il percorso argomentativo seguito dal Tar per la Lombardia:
a) quanto al requisito della rilevanza, esso
deriva dalla sovrapposizione dell’art. 40-bis alla regolamentazione comunale
contenuta nell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R., sicché l’eventuale
declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe l’applicazione
alla fattispecie della norma attuativa comunale; in particolare, secondo il
Tar:
a1) qualora fosse dichiarato
incostituzionale l’art. 40-bis, non potrebbe escludersi che si possa
comunque procedere all’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. comunali in
ragione della fondatezza, anche parziale, dei restanti motivi di ricorso;
a2) tale annullamento
produrrebbe effetti sensibilmente diversi rispetto a quelli che
scaturirebbero dalla permanente vigenza dell’art. 40-bis della legge
regionale n. 12 del 2005, posto che, “in tale ultimo frangente, agli
immobili abbandonati e degradati –compreso quello della ricorrente– si
applicherebbero le regole contenute nella disposizione regionale, mentre, in
caso di declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis, l’annullamento
dell’art. 11 delle N.d.A. determinerebbe l’applicazione agli immobili
fatiscenti dei principi generali afferenti alla materia edilizia ed
urbanistica, riconoscendo ai titolari dei diritti sugli immobili abbandonati
e degradati la facoltà di scegliere se procedere o meno alla loro
riqualificazione e con le tempistiche e le modalità ritenute più opportune
dai predetti soggetti”;
a3) nella prospettiva del
Comune, l’annullamento della norma regolamentare comunale per violazione
della superiore legge regionale, non dichiarata incostituzionale, “non
lascerebbe all’Ente locale alcuno spazio per intervenire con un proprio
regolamento sulla materia, se non per aspetti del tutto marginali e
secondari, vista la completezza e la sostanziale autoapplicabilità della
richiamata previsione regionale”; di contro, un’eventuale declaratoria di
incostituzionalità “lascerebbe intatto il potere comunale di intervenire per
disciplinare ex novo la materia, anche laddove fosse integralmente annullato
da questo Tribunale l’art. 11 delle N.d.A.”, così salvaguardandosi la
potestà pianificatoria comunale;
b) quanto al requisito della non manifesta
infondatezza, il Tar mette a confronto il testo dell’art. 11 delle N.d.A.
con il testo dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005,
evidenziando che quest’ultima disposizione “si rivela sostanzialmente
completa ed esaustiva con riguardo al trattamento giuridico da riservare
agli immobili abbandonati e degradati”: ai Comuni residuano “compiti
meramente attuativi ed esecutivi”, con la sola parziale eccezione per i
Comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti (“i quali, per
motivate ragioni di tutela paesaggistica, possono individuare gli ambiti del
proprio territorio a cui non si applica, in caso di riqualificazione,
l’incremento del 20% dei diritti edificatori e in relazione ai quali non si
può derogare alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di
intervento e sulle distanze”);
c) i conseguenza, appaiono in primo luogo violati
gli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e
sesto comma, e 118 della Costituzione, a causa dell’eccessiva compressione
della potestà pianificatoria dei Comuni di maggiori dimensioni (tra i quali,
in particolare, il Comune di Milano), ai quali non risulta consentito “alcun
intervento correttivo o derogatorio in grado di valorizzare, oltre alla
propria autonomia pianificatoria, anche le peculiarità dei singoli territori
di cui i Comuni sono la più immediata e diretta espressione”; in
particolare:
c1) la disciplina regionale sul
recupero degli immobili degradati e abbandonati “risulta particolarmente
analitica sia nell’individuazione dei presupposti di operatività che nel
procedimento da seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino
il potere di pianificazione comunale e l’interesse ad un assetto ordinato
del territorio che tale pianificazione mira a realizzare”; tale normativa,
pertanto, non lascia alcuno spazio per tentativi di interpretazione
costituzionalmente orientata (sono richiamate, della Corte costituzionale:
sentenza 10.10.2020, n. 218, punto 2.2 della parte in diritto, in Cassaz. pen., 2021, 204; sentenza 21.07.2016, n. 204, in Dir. pen. e
proc., 2016, 1434, con nota di MENGHINI, in Rass. penit. e criminologica,
2015, 3, 135, con nota di ABATE, in Cass. pen., 2017, 594, con nota di
ABATE, ed in Giur. cost., 2016, 1441, con note di PUGIOTTO e FIORENTIN);
c2) la disciplina regionale,
infatti, ha una portata “ingiustificatamente rigida e uniforme”, in quanto è
destinata ad operare “a prescindere dalle decisioni
comunali” e a “produrre un impatto sulla pianificazione locale molto
incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del territorio, o
di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto dissonante rispetto a
quanto stabilito nello strumento urbanistico generale”;
c3) al singolo Comune è quindi
impedita “una coerente programmazione in ambito urbanistico, rendendola in
alcune parti, anche importanti, del tutto ineffettiva e ultronea”, e ciò
anche nell’ipotesi –che ricorre nella fattispecie– in cui un Comune avesse
già individuato gli immobili da recuperare, posto che la legge regionale
riconosce, in via generalizzata, “un indice edificatorio premiale di
rilevante portata (da un minimo del 20% ad un massimo del 25%), accompagnato
dall’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard”, anche
a costo di discostarsi dalle scelte comunali sottese all’individuazione
degli immobili fatiscenti o alla loro non inclusione nel relativo elenco;
c4) in tale contesto, il
sacrificio delle prerogative comunali appare “non proporzionato, con
violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della
Costituzione, all’obiettivo perseguito dalla legge regionale, pur meritorio
nelle sue finalità, di favorire il recupero degli immobili abbandonati e
degradati”, posto che viene stravolta la pianificazione territoriale già
adottata dai Comuni, soprattutto in considerazione del mancato bilanciamento
tra l’aumento del peso insediativo dell’immobile recuperato (derivante
dall’indice edificatorio premiale predetto) e il contestuale reperimento
degli standard urbanistici e dalla realizzazione delle opere di
urbanizzazione (che, come detto, sempre in prospettiva premiale, non sono
previsti dalla legge) – aspetto, quest’ultimo, sottolinea il Tar, che si
pone anche in contrasto con il d.m. n. 1444 del 1968, che costituisce un
“principio in materia di governo del territorio (art. 117, terzo comma,
della Costituzione), in relazione al livello minimo di standard che devono
essere garantiti sul territorio comunale”;
d) sotto altro profilo, il Collegio rimettente
evidenzia l’irragionevolezza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12
del 2005, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost., “nella parte in cui
non si rapporta ai principi contenuti in altre norme della stessa legge
regionale n. 12 del 2005”, in specie al principio di riduzione del consumo
di suolo (che è richiamato dagli artt. 1, comma 3-bis, e 19, comma 2, lett.
b-bis, della legge regionale del 2005, nonché dalla legge regionale n. 31
del 2014, recante “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e la
riqualificazione del suolo degradato”); in proposito, il Collegio, nel
citare alcuni passaggi della sentenza della
Corte costituzionale del 16.07.2019, n. 179 (oggetto della
News US n. 93 del 27.08.2019, cui si
rinvia per ogni utile approfondimento, nonché in Giur. cost., 2019, 2074,
con nota di FALLETTA, ed in Riv. giur. edilizia, 2019, I, 843, con nota di
PAGLIAROLI), osserva che:
d1) la riduzione del consumo di
suolo “rappresenta un obiettivo prioritario e qualificante della
pianificazione territoriale regionale, orientata ad un modello di sviluppo
territoriale sostenibile”;
d2) proprio il mancato
bilanciamento tra l’attività di riqualificazione e recupero di immobili
abbandonati e degradati e gli obiettivi di limitazione del consumo del suolo
libero fa emergere, nel caso di specie, l’irragionevolezza e la
contraddittorietà della norma regionale, caratterizzata da elevata rigidità;
e) sotto ulteriore profilo, il Tar rimettente
censura anche la lesione della “funzione amministrativa comunale in ambito
urbanistico”, avuto riguardo alla puntuale e specifica natura della norma
regionale “che non lascia alcuno spazio di intervento significativo
all’attività pianificatoria comunale, pure qualificata quale funzione
fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della
Costituzione”; difatti:
e1) la previsione di premi
volumetrici in misura fissa e prestabilita, accompagnata da ulteriori
importanti deroghe alla disciplina urbanistico-edilizia (quali l’esenzione
dall’obbligo di conferimento dello standard e dal rispetto delle norme
quantitative, morfologiche e sulle tipologie di intervento e delle distanze
previste dallo strumento urbanistico locale), esclude qualsiasi autonoma
scelta del Comune in sede di pianificazione generale ed altera i rapporti
tra il carico urbanistico e le dotazioni pubbliche e private;
e2) simili considerazioni
trovano riscontro nella più recente giurisprudenza costituzionale, secondo
cui “nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di
sintesi è stato fissato dal legislatore statale tramite la disposizione per
cui «sono funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117,
secondo comma, lettera p), della Costituzione: […] d) la pianificazione
urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla
pianificazione territoriale di livello sovracomunale», ma «[f]erme restando
le funzioni di programmazione e di coordinamento delle Regioni, loro
spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della
Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della
Costituzione» (art. 14, comma 27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78 […],
come sostituito dall’art. 19, comma 1, lett. a), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 […], convertito, con modificazioni, nella legge
07.08.2012, n. 135). Il ‘sistema della pianificazione’, che assegna in modo
preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la
valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed
edilizia, non assurge, dunque, a principio così assoluto e
stringente da impedire alla legge regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in
deroga [che tuttavia devono essere] quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014)”
(sentenza 23.06.2020, n. 119, oggetto della
News US n. 83 del 24.07.2020, cui si rinvia per ampi riferimenti di giurisprudenza, nonché in Giur.
cost., 2020, 1323);
e3) l’intervento del
legislatore regionale deve pertanto perseguire “esigenze generali che
possano ragionevolmente giustificare disposizioni limitative delle funzioni
già assegnate agli Enti locali, anche nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, sancito nell’art. 118 della Costituzione”;
e4) nella specie, invece,
“nessuna ‘riserva di tutela’ è stata riconosciuta al Comune, consentendogli
di sottrarsi, per an o per quomodo, all’applicazione della normativa
derogatoria oggetto di scrutinio, e neppure è stato previsto il ricorso ad
una fase di cooperazione finalizzata al coordinamento degli strumenti di
pianificazione incidenti sul governo del territorio”, diversamente, quindi,
dal modus procedendi che lo stesso legislatore regionale lombardo ha
correttamente seguito in altri recenti occasioni (sono qui citate le leggi
regionali sul piano casa, la n. 12 del 2009 e la n. 4 del 2012, nonché gli
artt. 63 ss. della stessa legge regionale n. 12 del 2005 in materia di
recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti): emerge pertanto –sottolinea il Collegio– che, “in alcuni frangenti, lo stesso legislatore
regionale lombardo si è dimostrato rispettoso delle prerogative pianificatorie comunali, pur non rinunciando a disciplinare la materia del
governo del territorio nell’esercizio delle proprie attribuzioni”;
e5) non può, pertanto, nella
specie, ritenersi superato “il test di proporzionalità con riguardo
all’adeguatezza e necessarietà della limitazione imposta all’autonomia
comunale in merito a una funzione amministrativa che il legislatore statale
ha individuato come connotato fondamentale dell’autonomia comunale” (cfr.
Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 2019, cit., punto 12.7 della parte
in diritto);
f) ancora, la norma regionale sospettata di
illegittimità costituzionale –laddove prevede il premio di edificabilità–
sembra violare anche il principio espresso dall’art. 3-bis del d.P.R. n. 380
del 2001 (testo unico dell’edilizia), secondo il quale la riqualificazione
di un determinato contesto può avvenire attraverso forme di compensazione
incidenti sull’area interessata, senza tuttavia aumento della superficie
coperta: al riguardo, il Tar rimettente precisa che “deve ricomprendersi
difatti tra i principi statali in materia di governo del territorio la
previsione secondo la quale un incentivo per recuperare un bene non può
spingersi fino al punto di compromettere la tutela di un altro bene, di
almeno pari rango, qual è quello legato alla riduzione del consumo di suolo,
peraltro fatto proprio dallo stesso legislatore regionale”;
g) infine, viene sollevato pure il contrasto “con
i principi di uguaglianza e imparzialità dell’Amministrazione discendenti
dagli artt. 3 e 97 della Costituzione”, dal momento che vengono riconosciute
“delle premialità per la riqualificazione di immobili abbandonati e
degradati (anche) in favore di soggetti che non hanno provveduto a
mantenerli in buono stato e che hanno favorito l’insorgere di situazioni di
degrado e pericolo, a differenza dei proprietari diligenti che hanno fatto
fronte agli oneri e ai doveri conseguenti al loro diritto di proprietà, ma
che proprio per questo non possono beneficiare di alcun vantaggio in caso di
intervento sul proprio immobile”; ne deriva, secondo il Tar, un effetto
discriminatorio e irragionevole di incentivazione di situazioni di abbandono
e di degrado, “da cui discende la possibilità di ottenere premi volumetrici
e norme urbanistiche ed edificatorie più favorevoli rispetto a quelle
ordinarie”.
III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
h) con la richiamata sentenza n. 179 del 2019,
cit., la Corte costituzionale –nel pronunciarsi, ex professo, proprio sul
principio di autonomia dei Comuni nella pianificazione urbanistica– ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 4, della legge
della Regione Lombardia n. 31 del 2014, nella parte in cui non consentiva ai
Comuni di apportare varianti che riducono le previsioni e i programmi
edificatori nel documento di piano vigente; ciò, per violazione del
combinato disposto tra l’art. 117, secondo comma, lett. p), Cost.,
relativamente alla competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali,
e gli artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., con riguardo al principio
di sussidiarietà verticale, in quanto la disposizione impugnata comprime
l’esercizio stesso della potestà pianificatoria, paralizzandola per un
periodo temporale, che è tradizionalmente rimessa all'autonomia dei Comuni e
rientra in quel nucleo di potestà amministrative intimamente connesso al
riconoscimento del principio dell’autonomia comunale; in particolare,
secondo tale pronuncia (par. n. 12 della parte in diritto):
h1) la funzione di
pianificazione urbanistica è stata tradizionalmente rimessa all’autonomia
dei Comuni fin dalla legge n. 2359 del 1865 (recante nome “Sulle
espropriazioni per causa di utilità pubblica”), senza che questo presupposto
di fondo sia stato poi travolto dalla successiva e complessa evoluzione che
ha condotto allo sviluppo dell’ordinamento regionale ordinario, nonché “a
una più ampia concezione di urbanistica e quindi alla consapevolezza della
necessità di una pianificazione sovracomunale”, tanto che il legislatore
nazionale ha qualificato, attuando il nuovo Titolo V della Costituzione,
come funzioni fondamentali dei Comuni proprio “la pianificazione urbanistica
ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione
alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale” (art. 14, comma
27, lettera d, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con
modificazioni, in legge n. 122 del 2010, n. 122, come sostituito dall’art.
19, comma 1, lettera a, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con
modificazioni, in legge n. 135 del 2012);
h2) il legislatore statale “ha
quindi sottratto allo specifico potere regionale di allocazione ai sensi
dell’art. 118, secondo comma, Cost., la funzione di pianificazione comunale,
stabilendo che questa rimanga assegnata, in linea di massima, al livello
dell’ente più vicino al cittadino, in cui storicamente essa si è radicata
come funzione propria, e l’ha riconosciuta come parte integrante della
dotazione tipica e caratterizzante dell’ente locale. Ha così stabilito un
regime giuridico comune sottratto, per questo aspetto e salvo quanto si dirà
in seguito, alle potenzialità di differenziazione insite nella potestà
allocativa delle Regioni nelle materie di loro competenza”;
h3) quanto precede non esclude
che la legge regionale possa intervenire a disciplinare la funzione di
pianificazione urbanistica, “anche in relazione agli ambiti territoriali di
riferimento, e financo a conformarla in nome della verifica e della
protezione di concorrenti interessi generali collegati a una valutazione più
ampia delle esigenze diffuse sul territorio” (cfr. sentenza 27.07.2000,
n. 378, in Urb. e appalti, 2000, 1183, con nota di MANFREDI);
h4) anche dopo l’approvazione
della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, l’autonomia
dei Comuni “non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che
il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale
a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la
limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali” (sentenza 07.07.2016, n. 160, in Giur. cost., 2016, 1312);
h5) su questo piano, è
richiesto “uno scrutinio particolarmente rigoroso laddove la normativa
regionale non si limiti a conformare, mediante previsioni normative alle
quali i Comuni sono tenuti a uniformarsi, le previsioni urbanistiche
nell’esercizio della competenza concorrente in tema di governo del
territorio, quanto piuttosto comprima l’esercizio stesso della potestà pianificatoria, come nel caso di specie, paralizzandola per un periodo
temporale”;
h6) ne risulta un quadro in cui
“il punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo non [è] stato
risolto una volta per tutte dal riformato impianto del Titolo V della
Costituzione”, sicché “il giudizio di costituzionalità non ricade tanto, in
via astratta, sulla legittimità dell’intervento del legislatore regionale,
quanto, piuttosto, su una valutazione in concreto, in ordine alla «verifica
dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare
le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli
enti locali»” (con richiamo alla sentenza 30.07.1997, n. 286, in Giur.
cost., 1997, 2588, con note di DELLO SBARBA e KUSTERMANN, in Le Regioni,
1998, 155, con nota di IMMORDINO, ed in Riv. amm., 1997, 1109, con nota di
RAGO);
h7) viene quindi in rilievo “il
variabile livello degli interessi coinvolti, cui ha riconosciuto specifica
valenza costituzionale l’affermazione del principio di sussidiarietà
verticale sancito nell’art. 118 Cost., che porta questa Corte a valutare,
nell’ambito di una funzione riconosciuta come fondamentale ai sensi
dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., quanto la legge regionale
toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali
interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni
procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone”, dovendo
pertanto il giudizio di proporzionalità “svolgersi, dapprima, in astratto
sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi
in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto
bilanciamento degli interessi coinvolti”;
i) le medesime argomentazioni sono state riprese
e approfondite, più di recente, dalla sentenza della stessa Corte
costituzionale n. 119 del 2020, cit. (anch’essa menzionata dall’ordinanza
qui in epigrafe), secondo cui “Nelle delicate verifiche di funzionamento del
principio di sussidiarietà verticale tra l’autonomia comunale e quella
regionale, il giudizio di proporzionalità deve traguardare i singoli assetti
normativi, nel loro peculiare e mutevole equilibrio”, nel caso di specie
concludendo per la salvezza della norma regionale oggetto di scrutinio,
“poiché gli interventi in deroga che la norma stessa consente, da un lato,
soddisfano interessi pubblici di dimensione sovracomunale e, dall’altro, per
i già segnalati limiti quantitativi, qualitativi e temporali, non comprimono
l’autonomia comunale oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità”;
j) sulle funzioni fondamentali degli Enti locali,
e su una loro eventuale compressione, anche nella materia urbanistica, si
veda inoltre, nella giurisprudenza costituzionale:
j1) sentenza 27.12.2018,
n. 245 (in Giur. cost., 2018, 2758), secondo cui “L’art. 2, comma 4, del
testo unico dell’edilizia, se riconosce ai Comuni la facoltà di disciplinare
l’attività edilizia, non configura (né potrebbe) in capo agli stessi una
riserva esclusiva di regolamentazione in grado di spogliare il legislatore
statale e quello regionale del legittimo esercizio delle loro concorrenti
competenze legislative in materia di governo del territorio, competenze non
a caso richiamate dallo stesso art. 2 TUE”;
j2) sentenza 13.03.2014, n.
46 (in Giur. cost., 2014, 1134), secondo cui “anche riconoscendo che il
«sistema della pianificazione» […] assurga a «principio dell’ordinamento
giuridico della Repubblica» e ad espressione degli «interessi
nazionali», limitando perciò l’esplicazione della competenza legislativa
regionale di cui discute, è dirimente il rilievo che il principio in
questione non potrebbe ritenersi così assoluto e stringente da impedire alla
legge regionale –che è fonte normativa primaria, sovraordinata rispetto
agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga
quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti, come
quelli di cui si discute”;
j3) sentenza 26.11.2002,
n. 478 (in Urb. e appalti, 2003, 289, con nota di DE PAULI, ed in Riv. giur.
ambiente, 2003, 515, con nota di MANFREDI), secondo cui la legge nazionale,
regionale o delle Province autonome può modificare le caratteristiche o
l’estensione dei poteri urbanistici dei Comuni, “ovvero subordinarli a
preminenti interessi pubblici, alla condizione di non annullarli o
comprimerli radicalmente, garantendo adeguate forme di partecipazione dei
Comuni interessati ai procedimenti che ne condizionano l’autonomia (fra le
molte, si vedano le sentenze n. 378/2000, n. 357/1998, n. 286/1997, n.
83/1997 e n. 61/1994)”, escludendo, comunque, che dall’autonomia in campo
urbanistico possa derivare una “esclusività delle funzioni comunali”: “se il
Comune ha diritto di partecipare, in modo effettivo e congruo, nel
procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici regionali che
abbiano effetti sull’assetto del proprio territorio […], occorre tuttavia
evitare che questa partecipazione possa creare situazioni di ‘stallo decisionale’ (sentenze n. 83 del 1997 e n. 357 del 1988) che esporrebbero a
gravi rischi un interesse generale tanto rilevante come la tutela ambientale
e culturale”;
k) nella giurisprudenza amministrativa,
sull’ampiezza del potere di pianificazione urbanistica comunale, sugli
interessi pubblici ad esso sottesi e sulla conseguente estensione del
sindacato del giudice amministrativo, cfr. di recente:
k1) Cons. Stato, sezione VI,
sentenza 03.08.2020, n. 4898 (in Riv. giur. edilizia, 2020, I, 1364),
secondo cui “Il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, è un istituto di carattere eccezionale
rispetto all’ordinario titolo edilizio e rappresenta l’espressione di un
potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di
natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa
delibera del Consiglio comunale. In tale procedimento il Consiglio comunale
è chiamato ad operare una comparazione tra l’interesse pubblico al rispetto
della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l’interesse
costruttivo e, come ogni altra scelta pianificatoria, la valutazione di
interesse pubblico della realizzazione di un intervento in deroga alle
previsioni dello strumento urbanistico è espressione dell’ampia
discrezionalità tecnica di cui l’Amministrazione dispone in materia e dalla
quale discende la sua sindacabilità in sede giurisdizionale solo nei
ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità e dall'evidente
travisamento dei fatti”;
k2) Cons. Stato, sez. II,
sentenza 28.02.2020, n. 1461, secondo cui “L’esercizio della funzione pianificatoria si caratterizza per l’ampio margine di discrezionalità
attribuito all’amministrazione, con possibilità di censurare le scelte
effettuate solo quando queste si presentino come manifestamente illogiche o
contraddittorie”;
k3) Tar per la Lombardia,
sezione II, sentenza 09.01.2020, n. 63 (in Foro amm., 2020, 68), secondo
cui “Il principio di omogeneità della zona (criterio ordinariamente
invocabile nella pianificazione generale) non costituisce un limite
all'attività pianificatoria del Comune, il quale resta libero di imprimere
alle varie parti del territorio la destinazione urbanistica che ritiene più
confacente ai bisogni della collettività. Il modello di zonizzazione del
territorio ha assunto forme flessibili nella prassi applicativa, sino a
pervenire, nell'ambito della stessa zona omogenea, alla microzonizzazione o
alla previsione di sottozone distinte da ulteriori peculiarità strutturali o
funzionali, sicché il processo di conformazione del territorio non esclude
che a livello di pianificazione generale possano essere previsti differenti
regimi urbanistici all'interno della stessa zona omogenea. Il principio di
tipicità degli strumenti urbanistici, che riflette il limite di legalità
dell'azione amministrativa, non esclude infatti che il pianificatore
comunale, stante la progressiva espansione degli interessi affidati al
governo di prossimità, introduca un sistema di lettura del territorio
diverso o ulteriore rispetto al modello per zone, purché al pari di questo
sia iscritto nel medesimo referente normativo, nazionale e regionale, e ad
esso si conformi. Se così non fosse, infatti, l'azione amministrativa
sarebbe non discrezionale, ma del tutto arbitraria e il nuovo modello di
conformazione del territorio risulterebbe sostanzialmente abrogativo del
sistema delineato dalla legge n. 1150 del 1942, il cui nucleo essenziale
inderogabile, tanto da costituire principio fondamentale per la legislazione
regionale concorrente, esige che siano identificate previamente le categorie
generali e astratte ove iscrivere le porzioni di territorio, sulla base di
descrittori anch'essi previamente definiti, in funzione degli obiettivi che
l'azione pianificatrice si prefigge. Allora sarà del tutto irrilevante che
la conformazione del territorio, come detto funzionale alla dislocazione dei
servizi di interesse generale, sia concepita per zone, contesti, ambiti,
comparti, zone miste o microzone, purché —qualunque essa sia— corrisponda
a categorie prefissate ex ante, tali cioè da costituire il parametro di
legittimità della successiva azione amministrativa”;
k4) Cons. Stato 2017, sezione
IV, sentenza 03.04.2017, n. 1508 (in Foro amm., 2017, 828), secondo cui
“La pianificazione attuativa, di cui è manifestazione il P.E.E.P. previsto
dalla legge 18.04.1962, n. 167, costituisce, al pari del piano
regolatore generale, espressione della potestà pianificatoria, seppure
declinata in ottica più specifica e, per così dire, operativa: la
costitutiva finalità attuativa, propria di tale programmazione di dettaglio,
impone peraltro all'Amministrazione la contestuale ponderazione di
molteplici e potenzialmente contrastanti interessi anche non strettamente
urbanistici ed è, pertanto, innervata da valutazioni eminentemente
discrezionali in ordine non solo al quomodo, ma pure al quando; siffatto
spazio ampio di discrezionalità da un lato non consente di predicare, in
capo al privato, una pretesa giuridicamente tutelata e coercibile
all'emanazione hic et nunc di un piano attuativo da parte del Comune,
dall'altro circoscrive significativamente la capacità penetrativa del
sindacato del giudice amministrativo nei casi in cui l'ente locale abbia
esternato i motivi sottesi alla scelta di non procedere, qui ed ora,
all'adozione della pianificazione di dettaglio; più in particolare, in
assenza di profili di macroscopica illogicità, di eclatante
irragionevolezza, di palese travisamento dei fatti, nella specie certo non
ricorrenti, il giudice non ha elementi su cui fondare il giudizio di
legittimità della scelta di non procedere, in un certo momento storico,
all'attuazione concreta ed operativa delle previsioni di massima contenute
nella pianificazione urbanistica di carattere generale: tale scelta,
infatti, è esito, funzione ed espressione di un complessivo bilanciamento di
diversificati, contestuali e spesso confliggenti interessi e, come tale, è
manifestazione del merito della funzione amministrativa”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 10.02.2021 n. 371 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Alla
Corte costituzionale il recupero degli immobili degradati e abbandonati in
Lombardia.
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Edilizia – Lombardia - Recupero immobili degradati e abbandonati - Art.
40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 – Violazione artt. 3, 5, 97, 114,
secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118
Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, per
violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma,
lett. p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., la questione di legittimità
costituzionale dell’art.
40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4,
comma 1, lett. a), l.reg. Lombardia 26.11.2019, n. 18), recante
“Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, nella
parte in cui ha introdotto una disciplina urbanistico-edilizia in ordine al
recupero degli immobili fatiscenti ingiustificatamente rigida e uniforme,
operante a prescindere dalle decisioni comunali e in grado di produrre un
impatto sulla pianificazione locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a
stravolgere l’assetto del territorio, o di parti importanti dello stesso, in
maniera del tutto dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento
urbanistico generale (1).
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(1) In termini v. anche Tar Milano, sez. II, ord., 10.02.2021,
n. 372 e
n. 373.
L’art. 40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 si rivela sostanzialmente
completa ed esaustiva con riguardo al trattamento giuridico da riservare
agli immobili abbandonati e degradati, residuando in capo ai Comuni compiti
meramente attuativi ed esecutivi, con una parziale eccezione per i Comuni
aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, i quali, per motivate
ragioni di tutela paesaggistica, possono individuare gli ambiti del proprio
territorio a cui non si applica, in caso di riqualificazione, l’incremento
del 20% dei diritti edificatori e in relazione ai quali non si può derogare
alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle
distanze.
L’applicazione della disposizione regionale oggetto di scrutinio comprime in
maniera eccessiva –con violazione degli artt. 5, 97, 114, secondo comma,
117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 Cost.– la potestà
pianificatoria comunale, in particolare dei Comuni che hanno più di 20.000
abitanti (come il Comune di Milano), non consentendo a siffatti Enti alcun
intervento correttivo o derogatorio in grado di valorizzare, oltre alla
propria autonomia pianificatoria, anche le peculiarità dei singoli territori
di cui i Comuni sono la più immediata e diretta espressione.
La normativa regionale risulta particolarmente analitica sia
nell’individuazione dei presupposti di operatività che nel procedimento da
seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino il potere di
pianificazione comunale e l’interesse ad un assetto ordinato del territorio
che tale pianificazione mira a realizzare. La formulazione letterale della
previsione e la puntuale regolamentazione dettata comportano, dunque, il
fallimento in radice di ogni tentativo di interpretazione costituzionalmente
conforme atteso che la normativa non lascia spazi per poter “adeguare”
in via interpretativa il dettato di legge alla superiori previsioni
costituzionali (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 218 del 10.10.2020,
punto 2.2 del Diritto, che richiama le sentenze n. 204 e n. 95 del 2016).
Infatti, il legislatore regionale ha imposto, a regime, una disciplina
urbanistico-edilizia in ordine al recupero degli immobili fatiscenti
ingiustificatamente rigida e uniforme, operante a prescindere dalle
decisioni comunali e in grado di produrre un impatto sulla pianificazione
locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del
territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto
dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale.
A ben vedere, pur essendo rimessa ordinariamente al Consiglio comunale
l’individuazione degli immobili abbandonati e degradati, è comunque
consentito al proprietario di un immobile versante nelle predette
condizioni, indipendentemente dall’inserimento dello stesso nell’elenco
formato dal Comune, di certificare con perizia asseverata giurata, oltre
alla cessazione dell’attività, anche la sussistenza dei presupposti per
beneficiare del regime di favore di cui all’art. 40-bis.
Il Comune quindi non ha la facoltà di selezionare, discrezionalmente, gli
immobili da recuperare, in quanto l’applicazione della norma regionale, in
presenza dei richiesti presupposti fattuali, ossia di immobili abbandonati e
degradati, può avvenire anche su impulso del proprietario del manufatto.
L’assoluta incertezza in ordine all’impatto sul territorio di una tale
previsione, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, impedisce
al Comune una coerente programmazione in ambito urbanistico, rendendola in
alcune parti, anche importanti, del tutto ineffettiva e ultronea.
Tuttavia pure nel caso in cui il Comune abbia già individuato gli immobili
da recuperare –come nella fattispecie oggetto del presente contenzioso– si
deve segnalare che il riconoscimento generalizzato e automatico di un indice
edificatorio premiale di rilevante portata (da un minimo del 20% ad un
massimo del 25%), accompagnato dall’esenzione dall’eventuale obbligo di
reperimento degli standard, assume ugualmente un rilievo significativo sia
in quanto la norma regionale si applica anche agli immobili già individuati
come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore,
sia perché gli interventi di recupero vengono ritenuti ininfluenti ai fini
della quantificazione del carico urbanistico, senza alcuna considerazione
per ciò che ne consegue.
L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli immobili già individuati come
abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore –oltre
che a quelli segnalati dai privati interessati– rappresenta una violazione
della potestà pianificatoria comunale poiché impone, in via non temporanea,
un regime urbanistico-edilizio che prescinde –o addirittura si discosta–
dalle scelte comunali sottese all’individuazione degli immobili fatiscenti o
alla loro non inclusione nell’elenco.
Venendo al caso di specie, il Comune di Milano ha ricompreso l’immobile
della ricorrente nell’elenco di quelli abbandonati e degradati (all. 3 del
Comune) con l’obiettivo di consentirne il recupero a condizioni –indicate
nell’art. 11 delle N.d.A.– e con un impatto sensibilmente diversi rispetto a
quelli previsti nell’art. 40-bis. La legge regionale si sovrappone,
tuttavia, alla decisione comunale perseguendo obiettivi ulteriori e, in
parte, confliggenti con quelli dell’Ente territoriale.
La lesione della potestà pianificatoria comunale appare evidente e
soprattutto il sacrificio delle prerogative comunali così determinatosi
risulta non proporzionato, con violazione del principio di ragionevolezza di
cui all’art. 3 della Costituzione, all’obiettivo perseguito dalla legge
regionale, pur meritorio nelle sue finalità, di favorire il recupero degli
immobili abbandonati e degradati. L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli
immobili fatiscenti individuati prima della sua introduzione –come pure a
quelli segnalati direttamente dai privati– stravolge la pianificazione
territoriale del Comune, il quale aveva elaborato e introdotto un regime
speciale per il recupero dei citati immobili, proprio tenendo in
considerazione l’impatto degli interventi di riqualificazione sul tessuto
urbano esistente.
Difatti, un conto è riqualificare un immobile, conservandone la medesima
consistenza (oppure demolirlo, consentendo il recupero della sola superficie
lorda esistente: art. 11 delle N.d.A.), un altro conto è riconoscere a
titolo di beneficio un indice edificatorio aggiuntivo, oscillante tra il 20%
e il 25%, cui si accompagna l’esenzione dall’eventuale obbligo di
reperimento degli standard. Tale ultima disciplina determina un
considerevole impatto sull’assetto pianificatorio in relazione a molteplici
aspetti: l’aumento del peso insediativo dell’immobile recuperato non risulta
bilanciato dal contestuale reperimento degli standard urbanistici e dalla
realizzazione delle opere di urbanizzazione, cui consegue altresì il mancato
rispetto dell’indice edificatorio comunale e delle prescrizioni regionali
sulla riduzione del consumo di suolo.
L’art. 40-bis, comma 5, esonera, seppure con alcune eccezioni, dall’obbligo
di individuare aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale, non garantendo un corretto rapporto tra il carico
urbanistico gravante sulla zona interessata dall’intervento di
riqualificazione e le corrispondenti dotazioni pubbliche, disattendendo in
tal modo i principi che presiedono ad una corretta attività pianificatoria.
Ciò risulta in violazione anche della normativa statale (D.M. n. 1444 del
1968) che si pone quale principio in materia di governo del territorio (art.
117, terzo comma, della Costituzione), in relazione al livello minimo di
standard che devono essere garantiti sul territorio comunale.
La norma appare altresì irragionevole –con violazione dell’art. 3 della
Costituzione, sotto altro profilo– nella parte in cui non si rapporta ai
principi contenuti in altre norme della stessa legge regionale n. 12 del
2005 (in specie quelli riferiti alla riduzione del consumo di suolo: cfr.
art. 1, comma 3-bis, e art. 19, comma 2, lett. b-bis) e della legge
regionale n. 31 del 2014 (“Disposizioni per la riduzione del consumo di
suolo e la riqualificazione del suolo degradato”), poiché la riduzione
del consumo di suolo rappresenta un obiettivo prioritario e qualificante
della pianificazione territoriale regionale, orientata ad un modello di
sviluppo territoriale sostenibile (proprio con riferimento alla Regione
Lombardia, cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto
12.1 del Diritto); sebbene l’attività di riqualificazione e recupero di
immobili abbandonati e degradati rientri nell’attività di rigenerazione
urbana, la stessa non può porsi come indifferente rispetto agli obiettivi di
limitazione del consumo del suolo libero, che altrimenti risulterebbero del
tutto recessivi rispetto a quelli di recupero del patrimonio edilizio
esistente dismesso e non utilizzabile. Il mancato bilanciamento e
contemperamento tra i due obiettivi rende irragionevole e contraddittoria la
normativa regionale sulla riqualificazione degli immobili degradati dismessi.
La Corte costituzionale ha già avuto modo di evidenziare, con riguardo
all’art. 5, comma 4, della citata legge regionale n. 31 del 2014
(contenente, in origine, un divieto di ius variandi in relazione ai
contenuti edificatori del documento di piano per un tempo indefinito), una
intrinseca contraddittorietà nella “rigidità insita nella norma censurata
(…) tale da incidere in modo non proporzionato sull’autonomia dell’ente
locale, non solo perché impedisce la rivalutazione delle esigenze
urbanistiche in precedenza espresse (…), ma soprattutto perché, al tempo
stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi
interessi generali sottostanti alle finalità di fondo della legge regionale
e quindi coerenti con queste” (Corte costituzionale, sentenza n. 179 del
16.07.2019, punto 12.6 del Diritto).
Inoltre viene lesa anche la funzione amministrativa comunale in ambito
urbanistico, in quanto l’art. 40-bis, quale norma che opera a regime,
contiene una disciplina puntuale e specifica con riguardo agli interventi di
recupero del patrimonio edilizio dismesso presenti nel territorio comunale,
che non lascia alcuno spazio di intervento significativo all’attività
pianificatoria comunale, pure qualificata quale funzione fondamentale ai
sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della Costituzione; difatti,
la previsione di premi volumetrici in misura fissa e prestabilita,
accompagnata da ulteriori importanti deroghe alla disciplina
urbanistica-edilizia, quali l’esenzione dall’obbligo di conferimento dello
standard e dal rispetto delle norme quantitative, morfologiche, sulle
tipologie di intervento e delle distanze previste dallo strumento
urbanistico locale, non soltanto impedisce al Comune qualsiasi possibilità
di autonoma scelta in sede di pianificazione generale, ma è potenzialmente
idonea a stravolgerla in ampi settori, alterando i rapporti tra il carico
urbanistico e le dotazioni pubbliche e private.
Ciò assume un maggiore rilievo in un Comune, qual è Milano, in cui è stato
introdotto il principio dell’indifferenza funzionale, ossia una libertà di
scelta delle funzioni da insediare in tutti i tessuti urbani senza alcuna
esclusione e senza una distinzione ed un rapporto percentuale predefinito.
Tali considerazioni trovano riscontro anche nella recente giurisprudenza
della Corte costituzionale, che ha ricordato come ‘nell’attuazione del
nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è stato fissato dal
legislatore statale tramite la disposizione per cui «sono funzioni
fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera
p), della Costituzione: […] d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di
ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di
livello sovracomunale», ma «[f]erme restando le funzioni di programmazione e
di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui
all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni
esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (art. 14, comma
27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia
di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito,
con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n. 122, come sostituito dall’art.
19, comma 1, lettera a), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, recante
«Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza
dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle
imprese del settore bancario», convertito, con modificazioni, nella legge
07.08.2012, n. 135). Il “sistema della pianificazione”, che assegna in modo
preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la
valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed
edilizia, non assurge, dunque, a principio così assoluto e stringente da
impedire alla legge regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli
strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga [che
tuttavia devono essere] quantitativamente, qualitativamente e temporalmente
circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014)’ (Corte
costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Quindi, sebbene non possa escludersi a priori e in via astratta la
legittimità dell’intervento del legislatore regionale, è necessario che
quest’ultimo persegua esigenze generali che possano ragionevolmente
giustificare disposizioni limitative delle funzioni già assegnate agli Enti
locali, anche nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, sancito
nell’art. 118 della Costituzione: ‘si deve verificare nell’ambito della
funzione pianificatoria riconosciuta come funzione fondamentale dei Comuni,
«quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa
residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione,
quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale
la dispone», inteso che «[i]l giudizio di proporzionalità deve perciò
svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito
dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità,
alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti»
(sentenza n. 179 del 2019). Proprio tale giudizio, così dinamicamente
inteso, consente di verificare se, per effetto di una normativa regionale
rientrante nella materia del governo del territorio, come quella sub iudice,
non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai
Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”, così da
salvaguardarne la portata anche rispetto al principio autonomistico
ricavabile dall’art. 5 Cost.’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del
23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Nella specie, nessuna “riserva di tutela” è stata riconosciuta al
Comune, consentendogli di sottrarsi, per an o per quomodo,
all’applicazione della normativa derogatoria oggetto di scrutinio, e neppure
è stato previsto il ricorso ad una fase di cooperazione finalizzata al
coordinamento degli strumenti di pianificazione incidenti sul governo del
territorio.
In tal senso appare pertinente il riferimento al precedente della Corte
costituzionale sulla legge regionale del Veneto relativa al Piano casa, in
cui si è affermato “che, nel consentire interventi in deroga agli
strumenti urbanistici o ai regolamenti locali, il legislatore regionale
veneto, in attuazione dell’intesa sancita tra Stato, Regioni ed enti locali
in sede di Conferenza unificata il 01.04.2009, ha compiuto una ponderazione
degli interessi pubblici coinvolti, attraverso sia la limitazione
dell’entità degli interventi ammessi, sia l’esclusione di alcune componenti
del patrimonio edilizio dall’ambito di operatività della legge regionale
censurata e delle disposizioni di deroga. E ciò ha fatto consentendo,
altresì, ai Comuni, nella sua prima applicazione, di sottrarre i propri
strumenti urbanistici e i propri regolamenti all’operatività delle deroghe
ammesse dalla medesima legge regionale” (Corte costituzionale, sentenza
n. 119 del 23.06.2020, punto 7.2 del Diritto).
Del resto, il modus procedendi da ultimo richiamato è stato seguito
dalla stessa Regione Lombardia, che attraverso l’art. 5, comma 6, della
legge regionale n. 12 del 2009 (Piano casa) –sul punto ripreso dall’art. 3,
comma 4, della legge regionale n. 4 del 2012 (Nuovo Piano casa)– ha previsto
che “entro il termine perentorio del 15.10.2009 i comuni, con motivata
deliberazione, possono individuare parti del proprio territorio nelle quali
le disposizioni indicate nell’articolo 6 non trovano applicazione, in
ragione delle speciali peculiarità storiche, paesaggistico-ambientali ed
urbanistiche delle medesime, compresa l’eventuale salvaguardia delle cortine
edilizie esistenti, nonché fornire prescrizioni circa le modalità di
applicazione della presente legge con riferimento alla necessità di
reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali e a verde”.
L’art. 40-bis sembra porsi in contrasto anche con il principio espresso
dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale la
riqualificazione di un determinato contesto può avvenire attraverso forme di
compensazione incidenti sull’area interessata, tuttavia senza aumento della
superficie coperta: al contrario l’art. 40-bis della legge regionale prevede
un premio del 20% della superficie lorda, aumentabile fino al 25% al
ricorrere di determinate condizioni.
Sebbene l’art. 103, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, abbia
escluso una diretta applicazione nella Regione Lombardia della disciplina di
dettaglio prevista, tra l’altro, dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001,
comunque è stata fatta salva l’applicazione dei principi contenuti nella
citata disposizione statale, al cui novero certamente appartiene il divieto
di consentire un aumento della superficie coperta in sede di
riqualificazione di un immobile; deve ricomprendersi difatti tra i principi
statali in materia di governo del territorio la previsione secondo la quale
un incentivo per recuperare un bene non può spingersi fino al punto di
compromettere la tutela di un altro bene, di almeno pari rango, qual è
quello legato alla riduzione del consumo di suolo, peraltro fatto proprio
dallo stesso legislatore regionale.
Infine, l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 appare in
contrasto anche con i principi di uguaglianza e imparzialità
dell’Amministrazione discendenti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione,
visto che riconosce delle premialità per la riqualificazione di immobili
abbandonati e degradati (anche) in favore di soggetti che non hanno
provveduto a mantenerli in buono stato e che hanno favorito l’insorgere di
situazioni di degrado e pericolo, a differenza dei proprietari diligenti che
hanno fatto fronte agli oneri e ai doveri conseguenti al loro diritto di
proprietà, ma che proprio per questo non possono beneficiare di alcun
vantaggio in caso di intervento sul proprio immobile.
La norma regionale, quindi, incentiva in maniera assolutamente
discriminatoria e irragionevole situazioni di abbandono e di degrado, da cui
discende la possibilità di ottenere premi volumetrici e norme urbanistiche
ed edificatorie più favorevoli rispetto a quelle ordinarie
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 10.02.2021 n. 371 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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FATTO
1. Con il ricorso indicato in epigrafe, la società ricorrente ha impugnato
la deliberazione del Consiglio comunale di Milano 14.10.2019, n. 34,
avente ad oggetto “controdeduzioni alle osservazioni e approvazione
definitiva del nuovo Documento di Piano, della variante del Piano dei
Servizi, comprensivo del Piano per le Attrezzature Religiose, e della
variante del Piano delle Regole, costituenti il Piano di Governo del
Territorio, ai sensi e per gli effetti dell’art. 13 della L.R. 11.03.2005
n. 12 e s.m.i.”, con specifico riferimento all’art. 11 delle Norme di
attuazione del Piano delle Regole.
La ricorrente è proprietaria di un immobile situato nel Comune di Milano, in
Via ... n. ..., avente destinazione urbanistica
prevalentemente terziaria-direzionale, che è stato ricompreso tra gli
“edifici abbandonati e degradati” dalla Tavola R.10 del Piano delle regole (P.d.R.)
del Piano di governo del territorio (P.G.T.) e assoggettato alla disciplina
dell’art. 11 delle relative Norme di attuazione (N.d.A.).
Assumendo la lesività di tale disposizione, in quanto fortemente limitativa
del diritto di proprietà sia per la previsione di un termine assai
stringente per l’avvio dei lavori di recupero del fabbricato individuato
come abbandonato e degradato, sia per le notevoli ripercussioni in caso di
inadempienza, la ricorrente ne ha chiesto l’annullamento.
Con un primo ordine di censure è stata dedotta la violazione della normativa
sul procedimento amministrativo, poiché la ricorrente non sarebbe stata
coinvolta direttamente nello specifico procedimento culminato con
l’inserimento del complesso immobiliare di sua proprietà tra gli “edifici
abbandonati e degradati”, come imposto invece dallo stesso art. 11 delle
N.d.A. e dall’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, non essendo
surrogabile tale adempimento con la partecipazione avvenuta nel procedimento
di formazione e approvazione dello strumento urbanistico.
Con la seconda censura è stata dedotta la violazione dell’art. 23 della
Costituzione, poiché la disposizione impugnata non avrebbe alcun fondamento
legale, non essendo attribuita al Consiglio comunale alcuna competenza provvedimentale-sanzionatoria in ambito urbanistico-edilizio; difatti,
soltanto il Sindaco potrebbe adottare ordinanze contingibili e urgenti volte
a risolvere “emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere
esclusivamente locale”, con particolare riferimento “all’urgente necessità
di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del
territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del
decoro e della vivibilità urbana”, mentre farebbe capo alla dirigenza,
nell’ambito dell’attività, avente natura gestoria, di vigilanza
urbanistico-edilizia nel territorio comunale, l’adozione degli ordinari
provvedimenti repressivi.
Con la terza doglianza la ricorrente ha dedotto l’illegittima introduzione
di una fattispecie ablatoria non prevista dall’ordinamento, altresì
effettuata in assenza dei presupposti procedurali e sostanziali per poterla
porre in essere (mancato avviso di avvio del procedimento espropriativo,
assenza della previa dichiarazione di pubblica utilità, mancata previsione
di un indennizzo, ecc.).
Con il quarto motivo di ricorso si è dedotto il difetto di istruttoria e di
motivazione, in quanto non sarebbe stata dimostrata la situazione di degrado
dell’immobile di proprietà della ricorrente, né l’insalubrità o il pericolo
per la sicurezza urbana dello stesso, e nemmeno sarebbe rinvenibile negli
atti impugnati una congrua motivazione a supporto della scelta comunale.
Con il quinto motivo la ricorrente ha eccepito l’incongruità, in quanto
eccessivamente ristretto, del termine di diciotto mesi dalla prima
individuazione dell’immobile abbandonato e degradato per avviare i lavori di
recupero dello stesso, unitamente all’illogicità della previsione che
assegna all’Amministrazione comunale il potere di procedere d’ufficio alla
demolizione forzata in caso di mancato inizio dei lavori entro il predetto
termine, oppure di rilasciare, insindacabilmente, il titolo abilitativo per
l’effettuazione di interventi di risanamento conservativo.
Con il sesto motivo di ricorso la ricorrente ha dedotto la violazione
dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, introdotto con la
legge regionale n. 18 del 2019, in quanto l’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R.
si porrebbe in contrasto con tale disposizione regionale (sovraordinata)
sopravvenuta (i) che fissa in tre anni il termine entro cui presentare
richiesta del titolo edilizio per avviare i lavori di ripristino
dell’immobile degradato, (ii) che riconosce un incremento dei diritti
edificatori pari al 20%, con un premio eventuale di un ulteriore 5% al
ricorrere di determinati presupposti, e (iii) che esenta, di regola,
dall’eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e attrezzature
pubbliche e di interesse pubblico o generale.
Con l’ultimo motivo di ricorso sono state dedotte l’irragionevolezza e la
contraddittorietà del divieto di modificare la destinazione d’uso in
presenza di interventi di conservazione degli edifici esistenti (consentiti
fino al risanamento conservativo), sebbene l’art. 8 delle N.d.A. del Piano
delle Regole stabilisca che “il mutamento di destinazione d’uso senza opere
edilizie è sempre ammesso” e l’art. 51, comma 1, della legge regionale n. 12
del 2005 ammetta in maniera molto ampia la modifica della destinazione d’uso
nell’ambito del tessuto urbanizzato.
Si è costituito in giudizio il Comune di Milano, che ha chiesto il rigetto
del ricorso; con separata memoria, la difesa comunale ha controdedotto alle
censure proposte dalla ricorrente e, in via subordinata, ha eccepito
l’illegittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12
del 2005 per violazione degli artt. 3, 5, 97, 117, secondo comma, lettera
p), 117, primo e terzo comma, 118, primo e secondo comma, della
Costituzione, ritenendo: i) violata la competenza esclusiva statale sulle
funzioni fondamentali dei Comuni; ii) usurpata la funzione pianificatoria
comunale in materia urbanistica; iii) violato l’art. 3-bis del D.P.R. n. 380
del 2001, quale normativa di principio in materia di governo del territorio; iv) lesi i principi di imparzialità e buon andamento dell’azione
amministrativa e di ragionevolezza.
Con l’ordinanza n. 928/2020 è stata fissata l’udienza pubblica per la
trattazione del merito del ricorso.
In prossimità dell’udienza di merito, i difensori delle parti hanno
depositato memorie e documentazione a sostegno delle rispettive posizioni.
All’udienza del 22.01.2021, uditi i difensori delle parti mediante
collegamento da remoto in videoconferenza, ai sensi dell’art. 25 del decreto
legge n. 137 del 2020, convertito in legge n. 176 del 2020, la causa è stata
trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. In via preliminare, deve essere modificato l’ordine di trattazione dei
motivi di ricorso, poiché la sesta censura, in ragione del suo carattere
assorbente, deve essere trattata prioritariamente rispetto alle altre:
infatti, laddove si dovesse giungere alla conclusione che l’art. 40-bis
della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4,
comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18) abbia l’identico
perimetro applicativo dell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R., quest’ultima
disposizione dovrebbe essere annullata, poiché, in ossequio al principio di
gerarchia delle fonti normative, una disposizione di natura regolamentare,
qual è una norma del Piano delle regole (cfr., Consiglio di Stato, V, 16.04.2013, n. 2094; TAR Lombardia, Milano, II, 22.05.2020, n. 914),
non può porsi in contrasto con una prescrizione contenuta in una legge
primaria (regionale, nella specie); l’annullamento del richiamato art. 11
delle N.d.A. comunali, costituendo la “più radicale illegittimità” dedotta
(Consiglio di Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5), soddisferebbe
pienamente l’interesse della ricorrente e renderebbe del tutto superfluo
l’esame delle ulteriori censure contenute nel ricorso.
2. Tuttavia, proprio con riguardo al sesto motivo di ricorso, la difesa
comunale, dapprima, ha sostenuto la tesi della perfetta compatibilità
dell’art. 11 delle N.d.A. con l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del
2005, sulla scorta di un tentativo di interpretazione della disposizione di
legge in senso costituzionalmente conforme, e successivamente, in via
subordinata, ne ha eccepito l’incostituzionalità per contrasto con vari
precetti costituzionali, chiedendo a questo Collegio di rimettere la
questione all’esame della Corte costituzionale.
3. Osserva il Collegio come la tesi svolta in via principale dal Comune non
possa condividersi. Le due regolamentazioni si riferiscono, infatti, alla
medesima fattispecie dettando una disciplina in tema di immobili degradati
ed abbandonati e, in particolare, regole volte ad incentivare il recupero di
tali immobili. Di conseguenza, sussiste una sovrapposizione tra le due
discipline che conferisce alla norma regionale il ruolo di parametro di
legittimità della norma regolamentare dettata dal Comune di Milano.
Inoltre, l’impossibilità di procedere ad una interpretazione dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 in modo da salvaguardare anche il
disposto di cui all’art. 11 delle N.d.A. comunali risulta evidente,
emergendo l’inconciliabilità delle richiamate disposizioni già da un
semplice esame testuale delle stesse, poiché viene regolamentata, in maniera
divergente oltre che contrastante, la medesima fattispecie, ossia la
disciplina da riservare agli immobili abbandonati e degradati; difatti,
(i)
secondo il citato art. 11 delle N.d.A., l’arco temporale per l’avvio dei
lavori di recupero degli immobili “abbandonati e degradati” è di diciotto
mesi dalla loro prima individuazione, a prescindere dal momento in cui si è
ottenuto il titolo abilitativo, mentre il comma 4 dell’art. 40-bis della
legge regionale n. 12 del 2005 fissa in tre anni il termine entro cui
presentare la richiesta di rilascio del titolo edilizio o gli atti
equipollenti (s.c.i.a. o c.i.l.a.) oppure “l’istanza preliminare funzionale
all’ottenimento dei medesimi titoli edilizi” per procedere al recupero;
(ii)
l’art. 11 delle N.d.A. non riconosce alcun incremento dei diritti
edificatori, ma al massimo consente l’integrale conservazione dell’immobile
o della superficie lorda (SL) esistente, mentre l’art. 40-bis, commi 5 e 6,
della legge regionale attribuisce, nella fase di recupero dell’immobile, un
incremento pari al 20% dei diritti edificatori o, se maggiore, della
superficie lorda esistente, cui si può aggiungere un incremento di un
ulteriore 5%;
(iii) l’art. 11 delle N.d.A., in caso di mancato tempestivo
adeguamento o di demolizione d’ufficio, attribuisce l’indice di
edificabilità territoriale unico pari a 0,35 mq/mq, mentre l’art. 40-bis,
commi 8 e 9, della legge regionale riconosce la superficie lorda esistente
fino all’indice di edificabilità previsto dallo strumento urbanistico;
(iv)
l’art. 40-bis, comma 5, della legge regionale prevede l’esenzione, di
regola, dall’eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, mentre nulla è
previsto dall’art. 11 delle N.d.A.
In conseguenza dell’evidenziato contrasto e della correlata recessività
della normativa pianificatoria comunale rispetto a quanto stabilito dalla
legge regionale, deve essere esaminata la questione, eccepita in via
subordinata dalla difesa comunale, di legittimità costituzionale dell’art.
40-bis della legge regionale n. 12 del 2005: l’eventuale declaratoria di
incostituzionalità della norma regionale farebbe salva la disciplina
contenuta nell’art. 11 delle N.d.A., la cui applicabilità alla fattispecie
oggetto di scrutinio imporrebbe l’esame delle restanti censure di ricorso,
su cui indubbiamente permarrebbe l’interesse della ricorrente; in caso
contrario, ossia di mancato accoglimento della questione di
costituzionalità, dovrebbe pronunciarsi l’annullamento dell’art. 11 delle
N.d.A., in ragione della riconducibilità della fattispecie oggetto di
scrutinio allo spettro di applicazione dell’art. 40-bis della legge
regionale n. 12 del 2005.
4. In ossequio al disposto di cui all’art. 23, secondo comma, della legge n.
87 del 1953, è indispensabile procedere alla verifica della rilevanza della
questione di costituzionalità nel presente giudizio e della sua non
manifesta infondatezza.
5. Quanto alla rilevanza della questione, come già evidenziato al precedente
punto 3, si osserva che l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005
ha ad oggetto la disciplina da applicare agli immobili abbandonati e
degradati (nella cui categoria è ricompreso quello della ricorrente) e si
sovrappone, determinandone in astratto l’invalidità, alla regolamentazione
comunale contenuta nell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R. È già stato
sottolineato come la (eventuale) declaratoria di incostituzionalità
dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 determinerebbe
l’applicazione alla fattispecie oggetto di esame dell’art. 11 delle N.d.A.
del P.d.R.; a tal punto lo scrutinio di questo Tribunale si concentrerebbe
sul citato art. 11 e dal suo esito dipenderebbero l’accoglimento o la
reiezione, totali o parziali, del gravame.
La rilevanza della questione di costituzionalità tuttavia trascende le
conseguenze dirette che l’art. 40-bis della legge regionale produce
sull’art. 11 delle N.d.A. Difatti, in seguito all’eventuale declaratoria di
incostituzionalità del citato art. 40-bis, non può escludersi che si possa
comunque procedere all’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. comunali in
ragione della fondatezza, anche parziale, dei restanti motivi di ricorso;
appare nondimeno evidente che un tale annullamento produrrebbe effetti
sensibilmente diversi rispetto a quelli che scaturirebbero dalla permanente
vigenza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005.
In tale
ultimo frangente, agli immobili abbandonati e degradati –compreso quello
della ricorrente– si applicherebbero le regole contenute nella disposizione
regionale, mentre, in caso di declaratoria di incostituzionalità dell’art.
40-bis, l’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. determinerebbe
l’applicazione agli immobili fatiscenti dei principi generali afferenti alla
materia edilizia ed urbanistica, riconoscendo ai titolari dei diritti sugli
immobili abbandonati e degradati la facoltà di scegliere se procedere o meno
alla loro riqualificazione e con le tempistiche e le modalità ritenute più
opportune dai predetti soggetti.
Anche nella prospettiva comunale, l’ipotesi di annullamento dell’art. 11
delle N.d.A. per violazione dell’art. 40-bis della legge regionale –ove non
dichiarato incostituzionale– non lascerebbe all’Ente locale alcuno spazio
per intervenire con un proprio regolamento sulla materia, se non per aspetti
del tutto marginali e secondari, vista la completezza e la sostanziale autoapplicabilità della richiamata previsione regionale (“Le disposizioni di
cui al presente articolo, decorsi i termini della deliberazione di cui
sopra, si applicano anche agli immobili non individuati dalla medesima, per
i quali il proprietario, con perizia asseverata giurata, certifichi oltre
alla cessazione dell’attività, documentata anche mediante dichiarazione
sostitutiva dell’atto di notorietà a cura della proprietà o del legale
rappresentante, anche uno o più degli aspetti sopra elencati, mediante prova
documentale e/o fotografica”: comma 1 dell’art. 40-bis); di contro,
l’eventuale declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis della legge
regionale lascerebbe intatto il potere comunale di intervenire per
disciplinare ex novo la materia, anche laddove fosse integralmente annullato
da questo Tribunale l’art. 11 delle N.d.A.; in tal modo verrebbe, comunque,
pienamente salvaguardata la potestà pianificatoria comunale.
Da tanto discende la rilevanza nel presente giudizio della questione di
costituzionalità dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005,
poiché anche in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale
della citata norma potrebbe determinarsi l’annullamento dell’art. 11 delle
N.d.A. del P.d.R., sebbene con conseguenze molto differenti, per entrambe le
parti del giudizio, rispetto a quelle scaturenti in caso di permanente
vigenza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005.
6. A questo punto è necessario procedere alla verifica della non manifesta
infondatezza della questione di costituzionalità, che nella specie appare
certamente sussistente.
L’art. 11 delle Norme di attuazione (N.d.A.) del P.d.R. ai primi tre commi
stabilisce che “1. Il recupero di edifici abbandonati e degradati, che
comportano pericolo per la salute e la sicurezza urbana, situazioni di
degrado ambientale e sociale, costituisce attività di pubblica utilità ed
interesse generale, perseguibile secondo le modalità di cui al presente
articolo.
2. Le disposizioni del presente articolo si applicano a tutte le aree e gli
edifici, indipendentemente dalla destinazione funzionale, individuati nella
Tav. R.10, aggiornata con Determina Dirigenziale, con periodicità annuale,
previa comunicazione di avvio del procedimento nei confronti degli
interessati. Si considerano abbandonati gli edifici dismessi da più di 1
anno, che determinano pericolo per la sicurezza o per la salubrità o
l’incolumità pubblica o disagio per il decoro e la qualità urbana o in
presenza di amianto o di altri pericoli chimici per la salute.
L’individuazione degli immobili di cui al presente comma sarà comunicata
periodicamente alla Prefettura e alla Questura.
3. Alla proprietà degli edifici abbandonati e degradati così come
individuati dalla Tav. R.10, fatti salvi eventuali procedimenti in corso ad
esito favorevole, è data facoltà di presentare proposta di piano attuativo o
idoneo titolo abilitativo finalizzato al recupero dell’immobile; i lavori
dovranno essere avviati entro 18 mesi dalla loro prima individuazione. In
alternativa è fatto obbligo di procedere con la demolizione del manufatto:
a. in caso di demolizione dell’edificio esistente su iniziativa della
proprietà è riconosciuta integralmente la SL esistente. I diritti
edificatori saranno annotati nel Registro delle Cessioni dei Diritti
Edificatori, con possibilità di utilizzo in loco o in altre pertinenze
dirette per mezzo di perequazione, secondo la normativa vigente;
b. in caso di mancata demolizione dell’edificio esistente da parte della
proprietà, fatto salvo l’esercizio dei poteri sostitutivi da parte del
comune finalizzati alla demolizione, è riconosciuto l’Indice di
edificabilità Territoriale unico pari a 0,35 mq/mq.
Le relative spese sostenute da parte dell’Amministrazione dovranno essere
rimborsate dalla proprietà o dai titolari di diritti su tali beni. Se non
rimborsate tali spese saranno riscosse coattivamente secondo normativa
vigente.
Di quanto sopra verrà inviata comunicazione alla proprietà, alla prefettura
e alla questura.
In caso di mancata demolizione sono ammessi esclusivamente interventi di
conservazione degli edifici esistenti fino al risanamento conservativo senza
modifica della destinazione d’uso”.
L’art. 40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito
dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18)
stabilisce:
“1. I comuni, con deliberazione consiliare, anche sulla base di
segnalazioni motivate e documentate, individuano entro sei mesi dall’entrata
in vigore della legge regionale recante ‘Misure di semplificazione e
incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il
recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla
legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e
ad altre leggi regionali’ gli immobili di qualsiasi destinazione d’uso,
dismessi da oltre cinque anni, che causano criticità per uno o più dei
seguenti aspetti: salute, sicurezza idraulica, problemi strutturali che ne
pregiudicano la sicurezza, inquinamento, degrado ambientale e
urbanistico-edilizio. La disciplina del presente articolo si applica, anche
senza la deliberazione di cui sopra, agli immobili già individuati dai
comuni come degradati e abbandonati. Le disposizioni di cui al presente
articolo, decorsi i termini della deliberazione di cui sopra, si applicano
anche agli immobili non individuati dalla medesima, per i quali il
proprietario, con perizia asseverata giurata, certifichi oltre alla
cessazione dell’attività, documentata anche mediante dichiarazione
sostitutiva dell’atto di notorietà a cura della proprietà o del legale
rappresentante, anche uno o più degli aspetti sopra elencati, mediante prova
documentale e/o fotografica. I comuni aventi popolazione inferiore a 20.000
abitanti, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge regionale
recante ‘Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione
urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio
esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n.
12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali’,
mediante deliberazione del consiglio comunale possono individuare gli ambiti
del proprio territorio ai quali non si applicano le disposizioni di cui ai
commi 5 e 10 del presente articolo, in relazione a motivate ragioni di
tutela paesaggistica.
2. I comuni, prima delle deliberazioni di cui al comma 1, da aggiornare
annualmente, notificano ai sensi del codice di procedura civile ai
proprietari degli immobili dismessi e che causano criticità le ragioni
dell’individuazione, di modo che questi, entro 30 giorni dal ricevimento di
detta comunicazione, possano dimostrare, mediante prove documentali,
l’assenza dei presupposti per l’inserimento.
3. Le disposizioni del presente articolo non si applicano in ogni caso:
a) agli immobili eseguiti in assenza di titolo abilitativo o in totale
difformità rispetto allo stesso titolo, a esclusione di quelli per i quali
siano stati rilasciati titoli edilizi in sanatoria;
b) agli immobili situati in aree soggette a vincoli di inedificabilità
assoluta.
4. La richiesta di piano attuativo, la richiesta di permesso di costruire,
la segnalazione certificata di inizio attività, la comunicazione di inizio
lavori asseverata o l’istanza di istruttoria preliminare funzionale
all’ottenimento dei medesimi titoli edilizi devono essere presentati entro
tre anni dalla notifica di cui al comma 2. La deliberazione di cui al comma
1 attesta l’interesse pubblico al recupero dell’immobile individuato, anche
ai fini del perfezionamento dell’eventuale procedimento di deroga ai sensi
dell’articolo 40.
5. Gli interventi sugli immobili di cui al comma 1 usufruiscono di un
incremento del 20 per cento dei diritti edificatori derivanti
dall’applicazione dell’indice di edificabilità massimo previsto o, se
maggiore di quest’ultimo, della superficie lorda esistente e sono inoltre
esentati dall’eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, a eccezione di
quelle aree da reperire all’interno dei comparti edificatori o degli
immobili oggetto del presente articolo, già puntualmente individuate
all’interno degli strumenti urbanistici e da quelle dovute ai sensi della
pianificazione territoriale sovraordinata. A tali interventi non si
applicano gli incrementi dei diritti edificatori di cui all’articolo 11,
comma 5. Nei casi di demolizione l’incremento dei diritti edificatori del 20
per cento si applica per un periodo massimo di dieci anni dalla data di
individuazione dell'immobile quale dismesso.
6. È riconosciuto un ulteriore incremento dell’indice di edificabilità
massimo previsto dal PGT o rispetto alla superficie lorda (SL) esistente del
5 per cento per interventi che assicurino una superficie deimpermeabilizzata
e destinata a verde non inferiore all’incremento di SL realizzato, nonché
per interventi che conseguano una diminuzione dell’impronta al suolo pari ad
almeno il 10 per cento. A tal fine possono essere utilizzate anche le
superfici situate al di fuori del lotto di intervento, nonché quelle
destinate a giardino pensile, cosi come regolamentate dalla norma UNI
11235/2007.
7. Se il proprietario non provvede entro il termine di cui al comma 4, non
può più accedere ai benefici di cui ai commi 5 e 6 e il comune lo invita a
presentare una proposta di riutilizzo, assegnando un termine da definire in
ragione della complessità della situazione riscontrata, e comunque non
inferiore a mesi quattro e non superiore a mesi dodici.
8. Decorso il termine di cui al comma 7 senza presentazione delle richieste
o dei titoli di cui al comma 4, il comune ingiunge al proprietario la
demolizione dell’edificio o degli edifici interessati o, in alternativa, i
necessari interventi di recupero e/o messa in sicurezza degli immobili, da
effettuarsi entro un anno. La demolizione effettuata dalla proprietà
determina il diritto ad un quantitativo di diritti edificatori pari alla
superficie lorda dell'edificio demolito fino all'indice di edificabilità
previsto per l’area. I diritti edificatori generati dalla demolizione
edilizia possono sempre essere perequati e confluiscono nel registro delle
cessioni dei diritti edificatori di cui all'articolo 11, comma 4.
9. Decorso infruttuosamente il termine di cui al comma 8, il comune provvede
in via sostitutiva, con obbligo di rimborso delle relative spese a carico
della proprietà, cui è riconosciuta la SL esistente fino all’indice di
edificabilità previsto dallo strumento urbanistico.
10. Tutti gli interventi di rigenerazione degli immobili di cui al presente
articolo sono realizzati in deroga alle norme quantitative, morfologiche,
sulle tipologie di intervento, sulle distanze previste dagli strumenti
urbanistici comunali vigenti e adottati e ai regolamenti edilizi, fatte
salve le norme statali e quelle sui requisiti igienico-sanitari.
11. Per gli immobili di proprietà degli enti pubblici, si applicano le
disposizioni di cui ai commi 5 e 6 a condizione che, entro tre anni dalla
individuazione di cui al comma 1, gli enti proprietari approvino il progetto
di rigenerazione ovvero avviino le procedure per la messa all’asta,
l’alienazione o il conferimento a un fondo.
11-bis. Gli interventi di cui al presente articolo riguardanti il patrimonio
edilizio soggetto a tutela culturale e paesaggistica sono attivati previo
coinvolgimento del Ministero per i beni e le attività culturali e per il
turismo e nel rispetto delle prescrizioni di tutela previste dal piano
paesaggistico regionale ai sensi del d.lgs. 42/2004” (comma aggiunto
dall’art. 13, comma 1, lett. b), legge reg. 09.06.2020, n. 13).
Tale disposizione regionale si rivela sostanzialmente completa ed esaustiva
con riguardo al trattamento giuridico da riservare agli immobili abbandonati
e degradati, residuando in capo ai Comuni compiti meramente attuativi ed
esecutivi, con una parziale eccezione per i Comuni aventi popolazione
inferiore a 20.000 abitanti, i quali, per motivate ragioni di tutela
paesaggistica, possono individuare gli ambiti del proprio territorio a cui
non si applica, in caso di riqualificazione, l’incremento del 20% dei
diritti edificatori e in relazione ai quali non si può derogare alle norme
quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle distanze.
7. L’applicazione della disposizione regionale oggetto di scrutinio comprime
in maniera eccessiva –con violazione degli artt. 5, 97, 114, secondo comma,
117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione– la potestà pianificatoria comunale, in particolare dei Comuni che hanno
più di 20.000 abitanti (come il Comune di Milano), non consentendo a
siffatti Enti alcun intervento correttivo o derogatorio in grado di
valorizzare, oltre alla propria autonomia pianificatoria, anche le
peculiarità dei singoli territori di cui i Comuni sono la più immediata e
diretta espressione.
La normativa regionale risulta particolarmente analitica sia
nell’individuazione dei presupposti di operatività che nel procedimento da
seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino il potere di
pianificazione comunale e l’interesse ad un assetto ordinato del territorio
che tale pianificazione mira a realizzare. La formulazione letterale della
previsione e la puntuale regolamentazione dettata comportano, dunque, il
fallimento in radice di ogni tentativo di interpretazione costituzionalmente
conforme atteso che la normativa non lascia spazi per poter “adeguare” in
via interpretativa il dettato di legge alla superiori previsioni
costituzionali (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 218 del 10.10.2020, punto 2.2 del Diritto, che richiama le sentenze n. 204 e n. 95 del
2016).
Infatti, il legislatore regionale ha imposto, a regime, una disciplina
urbanistico-edilizia in ordine al recupero degli immobili fatiscenti
ingiustificatamente rigida e uniforme, operante a prescindere dalle
decisioni comunali e in grado di produrre un impatto sulla pianificazione
locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del
territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto
dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale.
A ben vedere, pur essendo rimessa ordinariamente al Consiglio comunale
l’individuazione degli immobili abbandonati e degradati, è comunque
consentito al proprietario di un immobile versante nelle predette
condizioni, indipendentemente dall’inserimento dello stesso nell’elenco
formato dal Comune, di certificare con perizia asseverata giurata, oltre
alla cessazione dell’attività, anche la sussistenza dei presupposti per
beneficiare del regime di favore di cui all’art. 40-bis.
Il Comune quindi
non ha la facoltà di selezionare, discrezionalmente, gli immobili da
recuperare, in quanto l’applicazione della norma regionale, in presenza dei
richiesti presupposti fattuali, ossia di immobili abbandonati e degradati,
può avvenire anche su impulso del proprietario del manufatto. L’assoluta
incertezza in ordine all’impatto sul territorio di una tale previsione, sia
da un punto di vista quantitativo che qualitativo, impedisce al Comune una
coerente programmazione in ambito urbanistico, rendendola in alcune parti,
anche importanti, del tutto ineffettiva e ultronea.
Tuttavia pure nel caso in cui il Comune abbia già individuato gli immobili
da recuperare –come nella fattispecie oggetto del presente contenzioso– si
deve segnalare che il riconoscimento generalizzato e automatico di un indice
edificatorio premiale di rilevante portata (da un minimo del 20% ad un
massimo del 25%), accompagnato dall’esenzione dall’eventuale obbligo di
reperimento degli standard, assume ugualmente un rilievo significativo sia
in quanto la norma regionale si applica anche agli immobili già individuati
come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore,
sia perché gli interventi di recupero vengono ritenuti ininfluenti ai fini
della quantificazione del carico urbanistico, senza alcuna considerazione
per ciò che ne consegue.
L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli immobili già individuati come
abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore –oltre
che a quelli segnalati dai privati interessati– rappresenta una violazione
della potestà pianificatoria comunale poiché impone, in via non temporanea,
un regime urbanistico-edilizio che prescinde –o addirittura si discosta–
dalle scelte comunali sottese all’individuazione degli immobili fatiscenti o
alla loro non inclusione nell’elenco.
Venendo al caso di specie, il Comune
di Milano ha ricompreso l’immobile della ricorrente nell’elenco di quelli
abbandonati e degradati (all. 3 del Comune) con l’obiettivo di consentirne
il recupero a condizioni –indicate nell’art. 11 delle N.d.A.– e con un
impatto sensibilmente diversi rispetto a quelli previsti nell’art. 40-bis.
La legge regionale si sovrappone, tuttavia, alla decisione comunale
perseguendo obiettivi ulteriori e, in parte, confliggenti con quelli
dell’Ente territoriale.
8. La lesione della potestà pianificatoria comunale appare evidente e
soprattutto il sacrificio delle prerogative comunali così determinatosi
risulta non proporzionato, con violazione del principio di ragionevolezza di
cui all’art. 3 della Costituzione, all’obiettivo perseguito dalla legge
regionale, pur meritorio nelle sue finalità, di favorire il recupero degli
immobili abbandonati e degradati. L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli
immobili fatiscenti individuati prima della sua introduzione –come pure a
quelli segnalati direttamente dai privati– stravolge la pianificazione
territoriale del Comune, il quale aveva elaborato e introdotto un regime
speciale per il recupero dei citati immobili, proprio tenendo in
considerazione l’impatto degli interventi di riqualificazione sul tessuto
urbano esistente.
Difatti, un conto è riqualificare un immobile,
conservandone la medesima consistenza (oppure demolirlo, consentendo il
recupero della sola superficie lorda esistente: art. 11 delle N.d.A.), un
altro conto è riconoscere a titolo di beneficio un indice edificatorio
aggiuntivo, oscillante tra il 20% e il 25%, cui si accompagna l’esenzione
dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard.
Tale ultima disciplina
determina un considerevole impatto sull’assetto pianificatorio in relazione
a molteplici aspetti: l’aumento del peso insediativo dell’immobile
recuperato non risulta bilanciato dal contestuale reperimento degli standard
urbanistici e dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione, cui
consegue altresì il mancato rispetto dell’indice edificatorio comunale e
delle prescrizioni regionali sulla riduzione del consumo di suolo. L’art. 40-bis, comma 5, esonera, seppure con alcune eccezioni, dall’obbligo di
individuare aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale, non garantendo un corretto rapporto tra il carico
urbanistico gravante sulla zona interessata dall’intervento di
riqualificazione e le corrispondenti dotazioni pubbliche, disattendendo in
tal modo i principi che presiedono ad una corretta attività pianificatoria.
Ciò risulta in violazione anche della normativa statale (D.M. n. 1444 del
1968) che si pone quale principio in materia di governo del territorio (art.
117, terzo comma, della Costituzione), in relazione al livello minimo di
standard che devono essere garantiti sul territorio comunale.
9. La norma appare altresì irragionevole –con violazione dell’art. 3 della
Costituzione, sotto altro profilo– nella parte in cui non si rapporta ai
principi contenuti in altre norme della stessa legge regionale n. 12 del
2005 (in specie quelli riferiti alla riduzione del consumo di suolo: cfr.
art. 1, comma 3-bis, e art. 19, comma 2, lett. b-bis) e della legge
regionale n. 31 del 2014 (“Disposizioni per la riduzione del consumo di
suolo e la riqualificazione del suolo degradato”), poiché la riduzione del
consumo di suolo rappresenta un obiettivo prioritario e qualificante della
pianificazione territoriale regionale, orientata ad un modello di sviluppo
territoriale sostenibile (proprio con riferimento alla Regione Lombardia, cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.1
del Diritto); sebbene l’attività di riqualificazione e recupero di immobili
abbandonati e degradati rientri nell’attività di rigenerazione urbana, la
stessa non può porsi come indifferente rispetto agli obiettivi di
limitazione del consumo del suolo libero, che altrimenti risulterebbero del
tutto recessivi rispetto a quelli di recupero del patrimonio edilizio
esistente dismesso e non utilizzabile. Il mancato bilanciamento e
contemperamento tra i due obiettivi rende irragionevole e contraddittoria la
normativa regionale sulla riqualificazione degli immobili degradati dismessi.
La Corte costituzionale ha già avuto modo di evidenziare, con riguardo
all’art. 5, comma 4, della citata legge regionale n. 31 del 2014
(contenente, in origine, un divieto di ius variandi in relazione ai
contenuti edificatori del documento di piano per un tempo indefinito), una
intrinseca contraddittorietà nella “rigidità insita nella norma censurata
(…) tale da incidere in modo non proporzionato sull’autonomia dell’ente
locale, non solo perché impedisce la rivalutazione delle esigenze
urbanistiche in precedenza espresse (…), ma soprattutto perché, al tempo
stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi
interessi generali sottostanti alle finalità di fondo della legge regionale
e quindi coerenti con queste” (Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.6 del Diritto).
10. Inoltre viene lesa anche la funzione amministrativa comunale in ambito
urbanistico, in quanto l’art. 40-bis, quale norma che opera a regime,
contiene una disciplina puntuale e specifica con riguardo agli interventi di
recupero del patrimonio edilizio dismesso presenti nel territorio comunale,
che non lascia alcuno spazio di intervento significativo all’attività
pianificatoria comunale, pure qualificata quale funzione fondamentale ai
sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della Costituzione; difatti,
la previsione di premi volumetrici in misura fissa e prestabilita,
accompagnata da ulteriori importanti deroghe alla disciplina
urbanistica-edilizia, quali l’esenzione dall’obbligo di conferimento dello
standard e dal rispetto delle norme quantitative, morfologiche, sulle
tipologie di intervento e delle distanze previste dallo strumento
urbanistico locale, non soltanto impedisce al Comune qualsiasi possibilità
di autonoma scelta in sede di pianificazione generale, ma è potenzialmente
idonea a stravolgerla in ampi settori, alterando i rapporti tra il carico
urbanistico e le dotazioni pubbliche e private.
Ciò assume un maggiore
rilievo in un Comune, qual è Milano, in cui è stato introdotto il principio
dell’indifferenza funzionale, ossia una libertà di scelta delle funzioni da
insediare in tutti i tessuti urbani senza alcuna esclusione e senza una
distinzione ed un rapporto percentuale predefinito.
Tali considerazioni trovano riscontro anche nella recente giurisprudenza
della Corte costituzionale, che ha ricordato come ‘nell’attuazione del nuovo
Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è stato fissato dal
legislatore statale tramite la disposizione per cui «sono funzioni
fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera
p), della Costituzione: […] d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di
ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di
livello sovracomunale», ma «[f]erme restando le funzioni di programmazione e
di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui
all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni
esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (art. 14, comma
27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure urgenti in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica»,
convertito, con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n. 122, come
sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa
pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di
rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario», convertito,
con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135). Il “sistema della
pianificazione”, che assegna in modo preminente ai Comuni, quali enti locali
più vicini al territorio, la valutazione generale degli interessi coinvolti
nell’attività urbanistica ed edilizia, non assurge, dunque, a principio così
assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –fonte normativa
primaria, sovraordinata agli strumenti urbanistici locali– di prevedere
interventi in deroga [che tuttavia devono essere] quantitativamente,
qualitativamente e temporalmente circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n.
46 del 2014)’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020,
punto 7.1 del Diritto).
Quindi, sebbene non possa escludersi a priori e in via astratta la
legittimità dell’intervento del legislatore regionale, è necessario che
quest’ultimo persegua esigenze generali che possano ragionevolmente
giustificare disposizioni limitative delle funzioni già assegnate agli Enti
locali, anche nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, sancito
nell’art. 118 della Costituzione: ‘si deve verificare nell’ambito della
funzione pianificatoria riconosciuta come funzione fondamentale dei Comuni,
«quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa
residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione,
quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale
la dispone», inteso che «[i]l giudizio di proporzionalità deve perciò
svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito
dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità,
alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti»
(sentenza n. 179 del 2019). Proprio tale giudizio, così dinamicamente
inteso, consente di verificare se, per effetto di una normativa regionale
rientrante nella materia del governo del territorio, come quella sub iudice,
non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai
Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”, così da
salvaguardarne la portata anche rispetto al principio autonomistico
ricavabile dall’art. 5 Cost.’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Nella specie, nessuna “riserva di tutela” è stata riconosciuta al Comune,
consentendogli di sottrarsi, per an o per quomodo, all’applicazione della
normativa derogatoria oggetto di scrutinio, e neppure è stato previsto il
ricorso ad una fase di cooperazione finalizzata al coordinamento degli
strumenti di pianificazione incidenti sul governo del territorio.
In tal
senso appare pertinente il riferimento al precedente della Corte
costituzionale sulla legge regionale del Veneto relativa al Piano casa, in
cui si è affermato “che, nel consentire interventi in deroga agli strumenti
urbanistici o ai regolamenti locali, il legislatore regionale veneto, in
attuazione dell’intesa sancita tra Stato, Regioni ed enti locali in sede di
Conferenza unificata il 01.04.2009, ha compiuto una ponderazione degli
interessi pubblici coinvolti, attraverso sia la limitazione dell’entità
degli interventi ammessi, sia l’esclusione di alcune componenti del
patrimonio edilizio dall’ambito di operatività della legge regionale
censurata e delle disposizioni di deroga. E ciò ha fatto consentendo,
altresì, ai Comuni, nella sua prima applicazione, di sottrarre i propri
strumenti urbanistici e i propri regolamenti all’operatività delle deroghe
ammesse dalla medesima legge regionale” (Corte costituzionale, sentenza n.
119 del 23.06.2020, punto 7.2 del Diritto).
Del resto, il modus procedendi da ultimo richiamato è stato seguito
dalla stessa Regione Lombardia, che attraverso l’art. 5, comma 6, della
legge regionale n. 12 del 2009 (Piano casa) –sul punto ripreso dall’art. 3,
comma 4, della legge regionale n. 4 del 2012 (Nuovo Piano casa)– ha
previsto che “entro il termine perentorio del 15.10.2009 i comuni, con
motivata deliberazione, possono individuare parti del proprio territorio
nelle quali le disposizioni indicate nell’articolo 6 non trovano
applicazione, in ragione delle speciali peculiarità storiche, paesaggistico-ambientali ed urbanistiche delle medesime, compresa
l’eventuale salvaguardia delle cortine edilizie esistenti, nonché fornire
prescrizioni circa le modalità di applicazione della presente legge con
riferimento alla necessità di reperimento di spazi per parcheggi
pertinenziali e a verde”.
Ugualmente, la salvaguardia delle prerogative pianificatorie comunali è
riscontrabile altresì nella normativa regionale in materia di recupero ai
fini abitativi dei sottotetti esistenti –artt. 63-65 della legge regionale
della Lombardia n. 12 del 2005– dove si prevede la possibilità per il Comune
di escludere dall’applicazione sul proprio territorio del regime ivi
contemplato [art. 65 – “Ambiti di esclusione – “1. Le disposizioni del
presente capo non si applicano negli ambiti territoriali per i quali i
comuni, con motivata deliberazione del Consiglio comunale, ne abbiano
disposta l’esclusione, in applicazione dell’articolo 1, comma 7, della legge
regionale 15.07.1996, n. 15 (Recupero ai fini abitativi dei sottotetti
esistenti).
1-bis. Fermo restando quanto disposto dal comma 1, i comuni, con motivata
deliberazione, possono ulteriormente disporre l’esclusione di parti del
territorio comunale, nonché di determinate tipologie di edifici o di
intervento, dall’applicazione delle disposizioni del presente capo.
1-ter. Con il medesimo provvedimento di cui al comma 1-bis, i comuni
possono, altresì, individuare ambiti territoriali nei quali gli interventi
di recupero ai fini abitativi dei sottotetti, se volti alla realizzazione di
nuove unità immobiliari, sono, in ogni caso, subordinati all’obbligo di
reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali nella misura prevista
dall’articolo 64, comma 3.
1-quater. Le determinazioni assunte nelle deliberazioni comunali di cui ai
commi 1, 1-bis e 1-ter hanno efficacia non inferiore a cinque anni e
comunque fino all’approvazione dei PGT ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e
3. Il piano delle regole individua le parti del territorio comunale nonché
le tipologie di edifici o di intervento escluse dall’applicazione delle
disposizioni del presente capo.
1-quinquies. In sede di redazione del PGT, i volumi di sottotetto recuperati
ai fini abitativi in applicazione della l.r. n. 15/1996, ovvero delle
disposizioni del presente capo, sono computati ai sensi dell’articolo 10,
comma 3, lettera b”].
Dai richiamati esempi emerge come, in alcuni frangenti, lo stesso
legislatore regionale lombardo si è dimostrato rispettoso delle prerogative
pianificatorie comunali, pur non rinunciando a disciplinare la materia del
governo del territorio nell’esercizio delle proprie attribuzioni.
Diversamente, in presenza di prescrizioni di durata indefinita, in carenza
di profili interlocutivi e nell’assolutezza, finanche contraddittoria con
gli obiettivi posti in sede regionale, risultanti dalla disciplina contenuta
nell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, non può ritenersi
superato, “ai sensi del legittimo esercizio del principio di
sussidiarietà verticale, il test di proporzionalità con riguardo
all’adeguatezza e necessarietà della limitazione imposta all’autonomia
comunale in merito a una funzione amministrativa che il legislatore statale
ha individuato come connotato fondamentale dell’autonomia comunale” (cfr.
Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.7 del
Diritto).
11. L’art. 40-bis sembra porsi in contrasto anche con il principio espresso
dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale la
riqualificazione di un determinato contesto può avvenire attraverso forme di
compensazione incidenti sull’area interessata, tuttavia senza aumento della
superficie coperta: al contrario l’art. 40-bis della legge regionale prevede
un premio del 20% della superficie lorda, aumentabile fino al 25% al
ricorrere di determinate condizioni.
Sebbene l’art. 103, comma 1, della
legge regionale n. 12 del 2005, abbia escluso una diretta applicazione nella
Regione Lombardia della disciplina di dettaglio prevista, tra l’altro,
dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, comunque è stata fatta salva
l’applicazione dei principi contenuti nella citata disposizione statale, al
cui novero certamente appartiene il divieto di consentire un aumento della
superficie coperta in sede di riqualificazione di un immobile; deve ricomprendersi difatti tra i principi statali in materia di governo del
territorio la previsione secondo la quale un incentivo per recuperare un
bene non può spingersi fino al punto di compromettere la tutela di un altro
bene, di almeno pari rango, qual è quello legato alla riduzione del consumo
di suolo, peraltro fatto proprio dallo stesso legislatore regionale.
12. Infine, l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 appare in
contrasto anche con i principi di uguaglianza e imparzialità
dell’Amministrazione discendenti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione,
visto che riconosce delle premialità per la riqualificazione di immobili
abbandonati e degradati (anche) in favore di soggetti che non hanno
provveduto a mantenerli in buono stato e che hanno favorito l’insorgere di
situazioni di degrado e pericolo, a differenza dei proprietari diligenti che
hanno fatto fronte agli oneri e ai doveri conseguenti al loro diritto di
proprietà, ma che proprio per questo non possono beneficiare di alcun
vantaggio in caso di intervento sul proprio immobile.
La norma regionale,
quindi, incentiva in maniera assolutamente discriminatoria e irragionevole
situazioni di abbandono e di degrado, da cui discende la possibilità di
ottenere premi volumetrici e norme urbanistiche ed edificatorie più
favorevoli rispetto a quelle ordinarie.
13. In conclusione, il giudizio deve essere sospeso e gli atti vanno
trasmessi alla Corte Costituzionale in quanto risulta rilevante e non
manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 40-bis
della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4,
comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18), recante
“Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, per
violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma,
lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione, secondo quanto
specificato in precedenza.
14. Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e sulle spese resta
riservata alla decisione definitiva.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda),
non definitivamente pronunciando:
a) dichiara rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.
40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito
dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18), recante “Disposizioni
relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, per violazione
degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p),
terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione;
b) dispone la sospensione del presente giudizio;
c) ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte
Costituzionale;
d) ordina che, a cura della Segreteria della Sezione, la presente
ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente della Giunta
Regionale della Lombardia e comunicata al Presidente del Consiglio Regionale
della Lombardia;
e) riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in
rito, in merito e in ordine alle spese
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 10.02.2021 n. 371 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
|
|
Regione Lombardia, ancóra una censura della
Consulta:
illegittimo l’art.
9, comma 12, secondo periodo, della L.R. n. 12/2005
che consente la protrazione dell’efficacia del
vincolo preordinato all’esproprio oltre la naturale
scadenza quinquennale. |
ESPROPRIAZIONE:
L.r. Lombardia 11.03.2005, n. 12 (art. 9, comma 12) –
Vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione
ad opera della pubblica amministrazione di attrezzature e
servizi previsti dal piano dei servizi – Questione di
legittimità costituzionale in via incidentale – Asserita
violazione dei precetti costituzionali della temporaneità e
della indennizzabilità dei vincoli espropriativi (art. 42
Cost.) e pregiudizio della competenza concorrente in materia
di governo del territorio (art. 117 Cost.) – Illegittimità
costituzionale in parte qua.
Va dichiarata la illegittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della
Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo
del territorio), secondo periodo, limitatamente alla parte
in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione
per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica
amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal
piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni
decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso,
l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura
dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma
triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
La Regione, disciplinando una nuova ipotesi di attuazione
del vincolo espropriativo, ha infatti superato i limiti
imposti alla sua competenza concorrente in materia (art.
117, comma 3, Cost.), con l’introduzione di una nuova
condizione in cui il vincolo preordinato all’esproprio si
consolida, pur in mancanza di un «serio inizio della
procedura espropriativa», condizione ritenuta invece
essenziale dalla giurisprudenza costituzionale e la cui
ricorrenza è stata individuata dal legislatore statale
–esclusivamente al quale spetta la relativa competenza– solo
nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
La disposizione regionale censurata si pone peraltro in
contrasto con l’art. 42 Cost., poiché consente l’esercizio
del potere ablatorio a tempo indeterminato, in ragione di un
provvedimento, quale l’approvazione del piano triennale
delle opere pubbliche, la cui adozione non garantisce la
partecipazione procedimentale degli interessati e che può
essere indefinitamente rinnovato, senza necessità né di
motivazione, né di indennizzo (Corte
Costituzionale,
sentenza 18.12.2020 n. 270 - link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE: Reiterazione
di vincoli espropriativi a tempo indeterminato: la Corte costituzionale ne
ribadisce le ragioni di illegittimità costituzionale.
La Corte costituzionale, in accoglimento di una questione sollevata dal Tar
per la Lombardia–Brescia, dichiara l’illegittimità costituzionale di una
norma di legge regionale (l’art. 9, comma 12, della legge della Regione
Lombardia n. 12 del 2005, recante “Legge per il governo del territorio”),
con la quale, in sostanza, si prevedeva la possibilità di reiterare, a tempo
indeterminato, l’efficacia di vincoli preordinati all’esproprio, oltre
quindi il termine quinquennale stabilito dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n.
327 del 2001 (c.d. testo unico delle espropriazioni).
In motivazione, la Corte ribadisce che la proroga, in via legislativa, dei
vincoli espropriativi costituisce un “fenomeno inammissibile dal punto di
vista costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all’infinito
(attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano
aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia
indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non
contenuto in termini di ragionevolezza”.
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Espropriazione per pubblico interesse – Regione Lombardia – Vincolo
preordinato all’esproprio – Reiterazione – Violazione degli artt. 42, terzo
comma, e 117, terzo comma, Cost. – Illegittimità costituzionale in parte
qua.
E’ incostituzionale, per violazione degli artt. 42,
terzo comma, e 117, terzo comma, Cost., l’art. 9, comma 12, secondo periodo,
della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, in quanto, consentendo
la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio ben
oltre la naturale scadenza quinquennale e –in virtù del richiamo al
programma triennale delle opere pubbliche– per un tempo sostanzialmente
indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento di alcun indennizzo,
realizza un effetto che si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza
costituzionale in materia di espropriazione per pubblica utilità, dando
seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole
punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la
necessità di indennizzare il proprietario (1).
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(1) I. – Con la sentenza in rassegna, la Corte costituzionale
ribadisce la propria costante giurisprudenza in materia di durata del
vincolo espropriativo, confermando che la legge (in questo caso, si trattava
di una norma della legge generale della Regione Lombardia in materia di
governo del territorio) non può prevedere una protrazione indefinita del
vincolo, ben oltre il termine quinquennale individuato dall’art. 9, comma 2,
del t.u. espropriazioni (di cui al d.P.R. n. 327 del 2001), termine che
rappresenta il “punto di equilibrio”, individuato dal legislatore,
oltre il quale non è costituzionalmente tollerabile il sacrificio del
diritto di proprietà privata senza il riconoscimento di un adeguato
indennizzo.
La questione era stata sollevata dal
Tar per la Lombardia–Brescia, sezione II, con ordinanza 14.08.2019, n. 740
(in Riv. giur. edilizia, 2019, I, 1250, nonché oggetto della
News US n. 109 del 16.10.2019, cui si rinvia per gli ampi
riferimenti di dottrina e di giurisprudenza). Nel giudizio a quo, era
impugnato l’atto contenente la dichiarazione di pubblica utilità, insieme ai
successivi provvedimenti, adottati nell’ambito di una procedura
espropriativa iniziata dal Comune di Agro per la realizzazione di una strada
di collegamento progettata, in parte, su un fondo privato.
Il vincolo preordinato all’esproprio, derivante dall’approvazione del piano
comunale di governo del territorio, avrebbe esaurito la propria durata
quinquennale nel novembre 2017 ma, in applicazione della norma regionale
censurata, esso risultava prorogato sine die per effetto
dell’avvenuto inserimento dell’opera nel programma triennale delle opere
pubbliche, approvato nell’aprile del 2017.
In base alla norma regionale oggetto dei dubbi sollevati dal Tar per la
Lombardia, infatti, i vincoli preordinati all’esproprio, aventi una durata
pari a cinque anni, “decadono qualora, entro tale termine, l'intervento
cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua
realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo
aggiornamento, ovvero non sia stato approvato lo strumento attuativo che ne
preveda la realizzazione”.
II. – La Corte costituzionale, dunque, dichiara l’illegittimità
costituzionale di tale norma per violazione degli artt. 42, comma 3, e 117,
comma 3, Cost., concludendo invece per l’inammissibilità (per difetto di
motivazione) della questione in relazione al parametro di cui agli artt.
117, comma 1, Cost., e 1 del Protocollo addizionale alla CEDU. Questo, in
sintesi, il percorso seguito dalla Corte per giungere –dopo aver superato
alcune questioni di inammissibilità– alla declaratoria di
incostituzionalità:
a) la Corte premette, anzitutto, un’articolata
ricostruzione del quadro normativo statale vigente in subiecta materia,
ripercorrendone le tappe salienti e ricordando quanto segue:
a1) l’espropriazione per motivi
d’interesse generale, governata dall’art. 42, comma 3, Cost., è un
procedimento preordinato all’emanazione di un provvedimento che trasferisce
la proprietà o altro diritto reale su di un bene; le fasi del procedimento,
finalizzate all’emissione del decreto di esproprio, sono scandite dall’art.
8 del t.u. espropriazioni, e sono costituite dalla sottoposizione del bene
al vincolo preordinato all’esproprio, dalla dichiarazione di pubblica
utilità dell’opera che deve essere realizzata e dalla determinazione
dell’indennità di espropriazione;
a2) ai sensi dell’art. 9 del
medesimo testo unico, un bene è sottoposto al vincolo preordinato
all’espropriazione quando diventa efficace, in base alla specifica normativa
statale e regionale di riferimento, l’atto di approvazione del piano
urbanistico generale, ovvero una sua variante, che preveda la realizzazione
di un’opera pubblica o di pubblica utilità; l’effetto del vincolo comporta
che il proprietario del bene, pur restando titolare del diritto sulla cosa,
non può utilizzarla in contrasto con la destinazione dell’opera, fino a che
l’amministrazione non proceda all’espropriazione;
a3) il legislatore, chiamato ad
adeguarsi ai principi enunciati con la sentenza 29.05.1968, n. 55 (in Giur.
cost., 1968), ha stabilito, con l’art. 2 della legge n. 1187 del 1968, una
durata quinquennale del vincolo espropriativo, periodo durante il quale la
necessità di corrispondere un indennizzo è esclusa;
a4) con la sentenza 20.05.1999,
n. 179 (in Foro it., 1999, I, 1705, con nota di BENINI, in Corriere giur.,
1999, 830, con note di CARBONE e GIOIA, in Giorn. dir. amm., 1999, 851, con
nota di MAZZARELLI, in Urb. e appalti, 1999, 712, con nota di LIGUORI, in
Giust. civ., 1999, I, 2597, con nota di STELLA RICHTER, in Appalti
urbanistica edilizia, 1999, 395, con nota di GISONDI, in Riv. amm., 1999,
274, con nota di CACCIAVILLANI, in Giur. it., 1999, 2155, con nota di DE
MARZO, in Le Regioni, 1999, 804, con nota di CIVITARESE MATTEUCCI, in Riv.
it. dir. pubbl. comunitario, 1999, 873, con nota di BONATTI, ed in Guida al
dir., 1999, 22, 133, con nota di RICCIO), la Corte costituzionale ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt.
7, numeri 2), 3) e 4), e 40 della legge n. 1150 del 1942, e 2, primo comma,
della legge n. 1187 del 1968, nella parte in cui consentiva alla pubblica
amministrazione di reiterare i vincoli espropriativi scaduti senza la
previsione di un indennizzo;
a5) con l’adozione del testo
unico sulle espropriazioni, di cui al già richiamato d.P.R. n. 327 del 2001,
il legislatore statale si è adeguato alle indicazioni della giurisprudenza
costituzionale, prevedendo la durata quinquennale del vincolo preordinato
all’esproprio (art. 9, comma 2; si tratta del c.d. periodo di franchigia,
durante il quale al proprietario del bene non è dovuto alcun indennizzo),
nonché la decadenza dal vincolo se, entro tale termine, non è dichiarata la
pubblica utilità dell’opera (art. 9, comma 3); il vincolo può essere
motivatamente reiterato, subordinatamente alla previa approvazione di un
nuovo piano urbanistico generale o di una sua variante (art. 9, comma 4), e
con la corresponsione di un apposito indennizzo (art. 39) – ciò, fermo
restando che le stesse garanzie devono sorreggere un’eventuale proroga del
vincolo prima della sua naturale scadenza (in tal senso, Corte cost.,
sentenza 20.07.2007, n. 314, in Foro it., 2009, I, 1711);
a6) la dichiarazione di
pubblica utilità, che deve intervenire entro il termine di efficacia del
vincolo espropriativo (art. 13, comma 1, t.u. espropriazioni), è l’atto con
il quale vengono individuati in concreto i motivi di interesse generale cui
l’art. 42, comma 3, Cost. subordina l’espropriazione della proprietà privata
nei casi previsti dalla legge (cfr. Corte cost., sentenza 08.05.1995, n.
155, in Foro it., 1995, I, 2389), e segna l’effettivo avvio della procedura
espropriativa, nel necessario rispetto del contraddittorio tra i cittadini
interessati e l’amministrazione;
a7) un “ruolo centrale”,
nella disciplina in esame, è poi svolto dalla c.d. dichiarazione implicita
di pubblica utilità, la quale (a norma dell’art. 12 del d.P.R. n. 327 del
2001) si intende disposta “quando l’autorità espropriante approva a tale
fine il progetto definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità,
ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di
lottizzazione, il piano di recupero, il piano di ricostruzione, il piano
delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero quando è approvato
il piano di zona”, nonché nei casi in cui la normativa vigente prevede
che equivalga “a dichiarazione di pubblica utilità l’approvazione di uno
strumento urbanistico, anche di settore o attuativo, la definizione di una
conferenza di servizi o il perfezionamento di un accordo di programma,
ovvero il rilascio di una concessione, di una autorizzazione o di un atto
avente effetti equivalenti”;
a8) a livello statale, poi, un
ruolo decisivo gioca il programma triennale dei lavori pubblici, attualmente
previsto dall’art. 21 del codice dei contratti pubblici (di cui al d.lgs. n.
50 del 2016) il quale disciplina unitariamente la programmazione, sia per i
lavori pubblici che per i servizi e le forniture, demandando (comma 8) a un
decreto ministeriale, di natura regolamentare, la normazione di dettaglio;
tale programma triennale, ai sensi dell’art. 3, lettera ggggg-sexies), del
cod. contratti pubblici, rappresenta il documento, da aggiornare
annualmente, che le amministrazioni adottano al fine di individuare i lavori
da avviare nel triennio;
a9) l’art. 5, comma 5,
dell’apposito regolamento (di cui al d.m. 16.01.2018, n. 14) stabilisce le
modalità di partecipazione dei privati interessati in relazione alla
definizione del contenuto del programma in questione, prevedendo la
possibilità di presentare osservazioni prima dell’approvazione definitiva
del programma;
b) a livello regionale, e con specifico riguardo
alla disciplina vigente nella Regione Lombardia, la Corte poi ricorda che:
b1) la disciplina sul governo
del territorio, contenuta nella legge regionale n. 12 del 2005, nonché la
disciplina sul procedimento di espropriazione (di cui alla legge della
Regione Lombardia n. 3 del 2009) sono state varate nell’esercizio della
potestà legislativa concorrente, come previsto dallo stesso testo unico
delle espropriazioni (art. 5, comma 1), posto che l’espropriazione
costituisce una funzione trasversale, che può esplicarsi anche nella materia
concorrente del “governo del territorio” nella quale, come più volte
riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale, rientra l’urbanistica (cfr.
sentenza 26.06.2020, n. 130, e sentenza 05.12.2019, n. 254, quest’ultima in
Quad. dir. e politica ecclesiastica, 2019, 697, con nota di MARCHEI, in Dir.
pen. globalizzazione, 2020, 33, con nota di PLACANICA, ed in Giur. cost.,
2019, 3131, con nota di GORLANI);
b2) con specifico riferimento
alle prime due fasi della procedura espropriativa (che vengono in rilievo
nella fattispecie di cui al giudizio a quo), la disciplina regionale
lombarda presenta delle differenze rispetto a quella statale, in quanto (per
un verso) fa discendere un “peculiare effetto” dall’inserimento
dell’opera pubblica o di pubblica utilità nel programma triennale delle
opere pubbliche (ossia, la mancata decadenza del vincolo, pur superato il
periodo quinquennale), mentre (per altro verso) l’art. 9 della legge
regionale sul procedimento espropriativo, a determinate condizioni, include
proprio il programma triennale delle opere pubbliche tra gli atti che
comportano la dichiarazione di pubblica utilità;
c) nel solco tracciato dalla sentenza n. 179 del
1999, cit., la Corte ribadisce dunque che “la proroga in via legislativa
dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista
costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all’infinito (attraverso
la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano
aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia
indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non
contenuto in termini di ragionevolezza”; di conseguenza, la Corte
enuclea i seguenti vizi della norma regionale censurata:
c1) essa consente la
protrazione dell’efficacia del vincolo “ben oltre la naturale scadenza
quinquennale e, in virtù dell’inclusione dell’aggiornamento annuale del
programma triennale delle opere pubbliche nell’ambito applicativo della
norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il
riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo”;
c2) tale effetto “si pone in
frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale illustrata in
precedenza, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato
un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei
vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario”;
c3) peraltro, la norma lombarda
“ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l’interesse
pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello
cosiddetto di franchigia”, con ciò ulteriormente discostandosi dalla
legge statale di riferimento (cfr. art. 9, comma 4, del d.P.R. n. 327 del
2001);
c4) ancora, la norma lombarda “appare
del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da
riconoscersi al privato interessato”, così contravvenendo ad un’altra
prescrizione già in passato ribadita dalla giurisprudenza costituzionale,
quella cioè di mettere i privati, ancora prima dell’adozione dell’atto
limitativo, “in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela
del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse
pubblico” (viene richiamata la sentenza 30.04.2015, n. 71, in Foro it.,
2015, I, 2629, con nota di R. PARDOLESI, in Urb. e appalti, 2015, 767, con
note di ARTARIA e BARILÀ, in Guida al dir., 2015, 21, 84, con nota di PONTE,
in Resp. civ. e prev., 2015, 1492, con nota di REGA, in Giur. cost., 2015,
998, con nota di MOSCARINI, in Europa e dir. privato, 2015, 951, con nota di
GRISI, ed in Riv. giur. edilizia, 2015, I, 581, con note di MARI e STRAZZA);
c5) del resto, le forme di
partecipazione che sono previste per l’approvazione del programma triennale
delle opere pubbliche appaiono –precisa la Corte– “di qualità e grado
insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u.
espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e per
quelli reiterativi del vincolo espropriativo”, trovando esse la loro
fonte in un atto meramente regolamentare (il già ricordato d.m. n. 14 del
2018), il quale oltretutto le prevede in modalità solo eventuale.
III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
d) nella decisione in rassegna, la Corte afferma
la “trasversalità” della materia delle espropriazioni, in quanto
riconducibile all’urbanistica la quale, a sua volta, è da ricomprendere
nella materia concorrente del governo del territorio; su quest’ultima
affermazione cfr., di recente:
d1) Corte cost., sentenza n.
130 del 2020, cit., secondo cui “la normativa sui centri storici si trovi
al crocevia fra le competenze regionali in materia urbanistica o di governo
del territorio e la tutela dei beni culturali”, con la conseguente
precisazione secondo cui “le Regioni hanno dedicato specifiche discipline
ai centri storici, nell’ambito delle competenze in materia di governo del
territorio o urbanistica, cercando di superare la visione parcellizzata
degli interventi edilizi per privilegiare la considerazione unitaria dei
nuclei storici. In accordo con l’ordinamento statale, le Regioni stesse
affidano a strumenti urbanistici comunali e al lavoro di uffici tecnici
territorialmente competenti l’attuazione delle norme dettate a livello
regionale e statale”;
d2) Corte cost., sentenza n.
254 del 2019, cit., secondo cui “nel regolare, in sede di disciplina del
governo del territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire
esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere
ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di
allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango
costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina
urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature
religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per
il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare
l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare
strutture di questo tipo”, giungendosi così alla seguente conclusione: “In
questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in
materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle
attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione
urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia,
alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento
nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto
urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della
necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse
comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici,
cioè alla dotazione minima di spazi pubblici)”;
e) per l’affermazione secondo cui le garanzie
partecipative devono trovare applicazione nell’ambito del procedimento
espropriativo, cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 2015,
cit., menzionata anche dalla pronuncia in epigrafe, secondo cui:
e1) il principio del “giusto
procedimento” (in virtù del quale i soggetti privati dovrebbero poter
esporre le proprie ragioni, e in particolare prima che vengano adottati
provvedimenti limitativi dei loro diritti) “non può dirsi assistito in
assoluto da garanzia costituzionale” (in tal senso, nella giurisprudenza
della Corte, cfr. già: sentenza 12.07.1995, n. 312, in Cons. Stato, 1995, II,
1197; sentenza 31.05.1995, n. 210, in Cons. Stato, 1995, II, 906; sentenza
24.02.1995, n. 57, in Mass. giur. lav., 1995, 146, con nota di SANTONI, in
Lavoro giur., 1995, 657, con nota di PILATI, in Giorn. dir. amm., 1995, 801,
con nota di MARIANI, in Dir. lav., 1995, II, 132, con nota di PELLACANI, ed
in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 738, con nota di CORSINOVI; sentenza
19.03.1993, n. 103, in Foro it., 1993, I, 2410; ordinanza 10.12.1987, n.
503, in Giur. cost., 1987, I, 3317, con nota di AMODIO; sentenza 20.03.1978,
n. 23, in Giur. it., 1979, I, 209);
e2) ciò, tuttavia, “non
sminuisce certo la portata che tale principio ha assunto nel nostro
ordinamento, specie dopo l’entrata in vigore della legge 07.08.1990, n. 241”;
e3) in materia espropriativa, è
ormai risalente l’affermazione secondo cui i privati interessati devono
essere messi “in condizioni di esporre le proprie ragioni sia a tutela
del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse
pubblico” (cfr. sentenza 20.07.1990, n. 344, in Giur. cost., 1990, 2158;
sentenza 21.03.1989, n. 143, in Foro it., 1991, I, 1970; sentenza
27.06.1986, n. 151, in Foro it., 1986, I, 2690, con note di COZZUTO QUADRI e
CARAVITA; sentenza 02.03.1962, n. 13, in Giur. cost., 1962);
f) in tema di proroga di vincoli espropriativi
già scaduti, cfr., nella giurisprudenza costituzionale, la sentenza n. 314
del 2007, cit. (menzionata anche dalla decisione in rassegna), con cui è
stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma di legge della
Regione Campania che prorogava, per un triennio, i piani regolatori dei
nuclei e delle aree industriali già scaduti; in tale pronuncia si legge, per
quanto qui di maggiore interesse:
f1) che la reiterazione dei
vincoli espropriativi, pur in linea di principio “consentita in via
amministrativa, e a maggior ragione, per legge”, deve tuttavia essere “puntualmente
motivata con riguardo alla persistente necessità di acquisire la proprietà
privata (da valutare sulla base di una apposita istruttoria procedimentale
da cui emerga la prevalenza dell’interesse pubblico rispetto a quello
privato da sacrificare); e, contemporaneamente, deve prevedere la
corresponsione del giusto indennizzo. In mancanza di tali presupposti vi è
lesione del diritto di proprietà”;
f2) che “La regola dell’indennizzabilità
dei vincoli espropriativi reiterati è ormai un principio consolidato
nell’ordinamento, anche per l’entrata in vigore dell’art. 39 t.u. delle
espropriazioni (d.p.r. 08.06.2001 n. 327). La reiterazione di qualsiasi
vincolo preordinato all’esproprio, o sostanzialmente espropriativo, dunque,
è da intendere implicitamente integrabile con il principio generale dell’indennizzabilità”
(con richiamo alla precedente ordinanza 25.07.2002, n. 397, in Riv. giur.
edilizia, 2002, I, 1207);
g) nella giurisprudenza amministrativa, con
riferimento all’obbligo di motivazione del provvedimento con cui è reiterato
il vincolo espropriativo, cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 24.05.2007, n. 7 (in
Foro it., 2007, III, 350 con nota di TRAVI; in Guida al dir., 2007, 24, 73,
con nota di FORLENZA; in Riv. amm., 2007, 461, con nota di CACCIAVILLANI; in
Corriere merito, 2007, 1092, con nota di VELTRI; in Urb. e appalti, 2007,
1113, con nota di CARBONELLI; in Giorn. dir. amm., 2007, 1174, con nota di
MAZZARELLI; in Resp. e risarcimento, 2007, 7, 95, con nota di PAPPALARDO; in
Quaderni centro documentaz., 2007, 242, con nota di COLLACCHI) secondo cui:
g1) “l'esercizio del potere
di reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio decaduto per
decorrenza del termine quinquennale può essere esercitato unicamente sulla
base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che escluda un
contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti”;
g2) “per valutare
l'adeguatezza della motivazione dei provvedimenti di reiterazione di vincoli
preordinati all'esproprio occorre distinguere se questi riguardano o meno
una pluralità di aree, se riguardano solo una parte già incisa da vincoli
decaduti, se, infine, la reiterazione sia disposta (o meno) per la prima
volta sull'area”;
g3) “si ha adeguato supporto
motivazionale dell'atto di reiterazione del vincolo preordinato
all'esproprio qualora l'amministrazione, nell'evidenziare l'attualità
dell'interesse pubblico da soddisfare, abbia a seguito di specifica
istruttoria, tenuto conto delle seguenti circostanze:
1) in caso di reiterazione disposta con riguardo o meno una pluralità di
aree, nell'ambito dell'adozione di una variante generale o comunque
riguardante una consistente parte del territorio comunale, si devono
distinguere le ipotesi in cui la reiterazione del vincolo riguardi un'area
ben specificata (per realizzare una singola opera pubblica o per soddisfare
i prescritti standard sui servizi pubblici o sul verde pubblico) e quelle in
cui la reiterazione riguardi una pluralità di aree per una consistente parte
del territorio comunale, a seguito della decadenza di uno strumento
urbanistico generale che abbia disposto una molteplicità di vincoli
preordinati all'esproprio (necessari per l'adeguamento degli standard, a
seguito della realizzazione di ulteriori manufatti). Tale distinzione ha
ragion d'essere perché solo nell'ipotesi in cui vengono reiterati ‘in
blocco’ i vincoli decaduti, già riguardanti una pluralità di aree, la
sussistenza di un attuale specifico interesse pubblico risulta dalla
perdurante constatata insufficienza delle aree destinate a standard
(indispensabili per la vivibilità degli abitati), mentre l'assenza di un
intento vessatorio si evince dalla parità di trattamento che hanno tutti i
destinatari dei precedenti vincoli decaduti;
2) in caso di reiterazione disposta con riguardo solo ad una parte delle
aree già incise dai vincoli decaduti, mentre per l'altra parte non è
disposta la reiterazione in quanto il vincolo venga impresso su nuovi
terreni. Tale scelta, pur costituendo senz'altro un'anomalia della funzione
pubblica, deve fondarsi, pena il profilarsi di un intento vessatorio nei
confronti dei proprietari delle aree riassoggettate a vincolo, su una
motivazione da cui emergano le ragioni di interesse pubblico che
giustifichino il vantaggio di chi non è più coinvolto nelle determinazioni
di reperimento degli standard, a scapito di chi lo diventa, pur non essendo
stato destinatario di un precedente vincolo preordinato all'esproprio;
3) in caso di reiterazione disposta per la prima volta, può ritenersi
giustificato il richiamo alle originarie valutazioni; di converso, quando il
rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, l'autorità urbanistica deve
procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti,
evidenziano le ragioni, con riferimento al rispetto degli standard, alle
esigenze della spesa, agli specifici accadimenti riguardanti le precedenti
fasi procedimentali, che diano conto dell'attuale sussistenza dell'interesse
pubblico”;
g4) “secondo il quadro
normativo vigente antecedentemente al testo unico sugli espropri approvato
con il d.P.R. n. 327 del 2001, valeva il principio che, in caso di atti di
reiterazione dei vincoli preordinati all'esproprio, imponeva l'obbligo di
un'adeguata motivazione (poi espressamente disposto dall'art. 9, comma 4,
d.P.R. cit.), nella quale l'amministrazione doveva indicare la ragione che
l'avevano indotta a scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale la
precedente scelta si era appuntata, evidenziando, a tal fine, l'attualità
dell'interesse pubblico da soddisfare, ciò in quanto tale specie di
determinazione è destinata ad incidere sulla sfera giuridica di un
proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene
suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di
esproprio”;
g5) la deliberazione
riguardante la reiterazione del vincolo espropriativo non necessita di
copertura finanziaria volta a garantire il pagamento del corrispondente
indennizzo (“la delibera impugnata in primo grado non doveva essere
preceduta dall’approvazione di un ‘piano finanziario’”);
h) sulla distinzione fra vincoli conformativi e
vincoli espropriativi, in relazione a motivazione e indennizzo, cfr. da
ultimo, nella giurisprudenza amministrativa (cui adde le ulteriori
indicazioni riportate nella News US n. 109 del 16.10.2019, cit.):
h1) Cons. Stato, sezione IV,
sentenza 19.02.2020, n. 1253, secondo cui “l’art. 40 della legge n.
1150/1942, dopo l’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n.
55 del 1968, deve intendersi nel senso che gli obblighi di allineamento
rispetto alle previsioni di piano sulle vie di comunicazione non decadono
perché non hanno natura espropriativa”;
h2) Cons. Stato, sezione IV,
sentenza 12.04.2018, n. 2205, in cui si legge quanto segue: “il concetto
di ‘limiti comportanti la totale inutilizzazione’ va enucleato in base alla
insuperata giurisprudenza costituzionale, in materia di cd. espropriazione
di valore (sentenze 20.01.1966 n. 6 e 29.05.1968 n. 55), che indica il
criterio per discernere le ipotesi in cui l'amministrazione esercita sui
beni di proprietà privata un potere conformativo (come tale, non
indennizzabile), da quelle in cui -viceversa- esercita un potere
sostanzialmente ablatorio (come tale, indennizzabile [...])”;
h3) Cons. Stato, sezione IV,
decisione 28.10.2009, n. 6661 (in Giurisdiz. amm., 2009, I, 1399), secondo
cui “In tema di convenzione urbanistica di lottizzazione, quando sia
scaduto un piano di lottizzazione si applicano alla convenzione le
disposizioni dell'art. 17 l. 1150/1942, le quali impongono, in mancanza di
una diversa disciplina di dettaglio, di rispettare gli allineamenti e le
prescrizioni di zona stabilite dallo strumento urbanistico attuativo,
ancorché scaduto; la previsione di «ultrattività» delle disposizioni del
piano scaduto è finalizzata ad evitare l'alterazione dello sviluppo
urbanistico-edilizio così come armonicamente programmato e ad assicurare una
edificazione omogenea”;
i) sulla programmazione triennale dei lavori
pubblici cfr., in dottrina: L. PETRANGELI PAPINI, La programmazione e la
progettazione dei lavori pubblici, in Appalti urbanistica edilizia, 2000,
12, 643 ss.; G. FORMICHELLA, Lavori pubblici. La programmazione dei lavori
pubblici negli Enti locali. I principi, le procedure, gli aspetti positivi e
gli spunti problematici, in Nuova rass., 2001, 1857 ss.; A. MATARAZZO,
Lavori pubblici. Brevi annotazioni operative in tema di programmazione dei
lavori pubblici, in Nuova rass., 2001, 1871 ss.; E. BARUSSO, Le competenze
degli organi dell’Ente Locale, Santarcangelo di Romagna, 2001, 127 ss.; G.
PESCE, Effetti del programma triennale delle opere pubbliche e valutazione
di fattibilità dell'intervento, in Urb. e appalti, 2003, 442 ss.; A. PAGANO,
Programma triennale dei lavori pubblici, Commento a d.m. Infrastrutture e
trasporti 09.06.2005, in Urb. e appalti, 2005, 914; D. GHIANDONI, E. MASINI,
Le principali novità del programma oo.pp. 2019/2021, in Azienditalia, 2018,
10, 1247; P. LEONCINO, La contabilizzazione delle opere pubbliche, in
Azienditalia, 2019, 6, 885; A. GRAZIANO, in Trattato sui contratti pubblici,
diretto da M.A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, I, Fonti e principi, Ambito,
Programmazione e progettazione, 2019, 1123 ss.; R. DE NICTOLIS, Appalti
pubblici e concessioni, Bologna, 2020, 300 ss.
(Corte Costituzionale,
sentenza 18.12.2020 n. 270 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Illegittimo
l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della L.R. Lombardia n. 12 del 2005 che
consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio
oltre la naturale scadenza quinquennale.
La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9,
comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, secondo periodo,
limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati
all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della
pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei
servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in
vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito,
a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
Osserva al riguardo la Corte che:
<<le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 9, comma
12, della legge reg. n. 12 del 2005 sono fondate, poiché tale disposizione
viola gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost..
Non può che ribadirsi, nel solco della sentenza n. 179 del 1999, che la
proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno
inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti «sine
die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo
determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il
limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e,
quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza».
Questo è proprio il vizio che presenta, in primo luogo, la disposizione
censurata.
Come correttamente evidenziato dal giudice rimettente, infatti, l’art. 9,
comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio
ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione
dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche
nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente
indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato
di alcun indennizzo.
Questo effetto si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza
costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il
legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la
reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il
proprietario.
Gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. sono, infatti, violati
in tutti i casi in cui –come avviene nella specie– alla protrazione
automatica di vincoli di natura espropriativa, disposta da una legge
regionale oltre il punto di tollerabilità individuato dal legislatore
statale, non corrisponda l’obbligo di riconoscere un indennizzo.
A ciò si aggiunga che, nel consentire la proroga senza indennizzo del
vincolo preordinato all’esproprio oltre il quinquennio originario, il
legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale
circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che
oltrepassa quello cosiddetto di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla
legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di
reiterazione del vincolo.
Ancora, e si tratta di un profilo che non risulta certo ultimo per
importanza, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al
livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato.
Proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i
privati interessati, prima che l’autorità pubblica adotti provvedimenti
limitativi dei loro diritti, devono essere messi «in condizioni di esporre
le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di
collaborazione nell’interesse pubblico» (da ultimo, sentenza n. 71 del
2015).
La garanzia in parola è, invece, frustrata da un atto –l’approvazione del
programma triennale delle opere pubbliche– in relazione al cui contenuto il
codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e
grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal
t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e
per quelli reiterativi del vincolo espropriativo.
Infatti, la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma in
questione è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14
del 2018), non già dall’art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla
legge regionale. Inoltre, e soprattutto, l’art. 5, comma 5, del d.m. prima
ricordato si limita a prevedere che le «amministrazioni possono consentire
la presentazione di eventuali osservazioni» da parte dei privati
interessati, così degradando la partecipazione a mera eventualità>>
(commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Espropriazione
per pubblica utilità - Norme della Regione Lombardia - Piano dei servizi -
Durata quinquennale dei vincoli preordinati all'espropriazione per la
realizzazione di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi,
decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso - Decadenza dei vincoli
qualora, entro tale termine, l'intervento cui sono preordinati non sia
inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma
triennale delle opere pubbliche.
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1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata
di Brescia, con
ordinanza 20.09.2019 n. 827
(r.o. n. 221 del 2019), solleva, in riferimento agli artt. 42 e 117, terzo e
primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del
Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952,
questioni di legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio).
...
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata
di Brescia, dubita che l’art. 9, comma 12, della legge della Regione
Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), violi gli
artt. 42 e 117, terzo e primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in
relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a
Parigi il 20.03.1952.
1.1.– Il TAR Lombardia ricorda che la disposizione censurata disciplina i
vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente
ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti
dal piano dei servizi.
Quest’ultimo costituisce una componente del piano di governo del territorio,
previsto dall’art. 7, comma 1, lett. b), della legge reg. Lombardia n. 12
del 2005 quale strumento urbanistico generale della pianificazione di
livello comunale.
La disposizione censurata, dopo aver stabilito nel primo periodo, in cinque
anni, decorrenti dall’entrata in vigore del citato piano dei servizi, la
durata dei vincoli ablativi in questione, prevede, nel secondo periodo (cioè
proprio nella parte della cui legittimità costituzionale il rimettente
dubita), che «[d]etti vincoli decadono qualora, entro tale termine,
l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente
competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere
pubbliche e relativo aggiornamento […]».
Ciò posto, il rimettente espone, in punto di rilevanza, che le società Te.Mo. spa e So.Ag.Be. ss hanno impugnato l’atto
contenente la dichiarazione di pubblica utilità e i successivi
provvedimenti, adottati nell’ambito del procedimento espropriativo
preordinato alla realizzazione di una strada di collegamento, in parte
prevista su un fondo di proprietà della Te.Mo. spa e destinato dalla
So.Ag.Be. ss alla coltivazione di uva per la produzione di
vino pregiato.
La dichiarazione di pubblica utilità, contenuta nella deliberazione del
Consiglio comunale del 15.02.2018, n. 11 (recante l’approvazione del
progetto dell’opera da realizzare), sarebbe stata adottata –riferisce il
rimettente– quando erano già decorsi cinque anni dal momento
dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.
Quest’ultimo, infatti, troverebbe origine nell’approvazione, in data
21.11.2012, del piano di governo del territorio del Comune di Adro, che
prevedeva l’assoggettamento del fondo in questione a vincolo ablativo fino
al 21.11.2017.
La decadenza del vincolo ablativo sarebbe stata impedita proprio e soltanto
in forza dell’applicazione della disposizione censurata. Tale effetto
sarebbe cioè derivato dall’inserimento dell’intervento, prima della scadenza
quinquennale del vincolo espropriativo, nel programma triennale delle opere
pubbliche –nella specie approvato in data 06.04.2017– inserimento che
avrebbe così legittimato l’adozione della dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera, pur se intervenuta in data 15.02.2018, e dunque oltre il termine
quinquennale decorrente dall’approvazione del piano di governo del
territorio.
Il TAR Lombardia riferisce che, nella medesima data da ultimo indicata, è
stata anche adottata dal Consiglio comunale di Adro una variante urbanistica
(poi approvata con deliberazione del 12.05.2018, n. 23).
Tuttavia, con riferimento all’opera pubblica di cui si tratta, quest’ultima
deliberazione non avrebbe legittimamente reiterato il vincolo preordinato
all’esproprio (ormai già scaduto), in quanto il Comune di Adro, in
applicazione della disposizione censurata, avrebbe semplicemente «preso
atto» dell’inserimento dell’intervento nel programma triennale delle
opere pubbliche e del conseguente «effetto “confermativo”»
dell’efficacia del vincolo.
A giudizio del TAR Lombardia –che attribuisce al provvedimento di variante
urbanistica funzione meramente ricognitiva di un effetto legale già
prodottosi– la sua mancata impugnazione da parte delle società ricorrenti
non avrebbe dunque rilievo, poiché il provvedimento stesso «risulterebbe
inevitabilmente ed automaticamente travolto dall’eventuale declaratoria di
illegittimità costituzionale della norma che ne rappresenta il presupposto».
Infatti, la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, impugnata dalle
ricorrenti, sarebbe comunque intervenuta sulla base di un vincolo
preordinato all’esproprio risalente a più di cinque anni prima, sicché essa
poggerebbe esclusivamente su una sorta di “proroga automatica” del vincolo,
conseguente all’inclusione dell’opera nel programma triennale delle opere
pubbliche ai sensi della disposizione censurata.
Quest’ultima costituirebbe, in definitiva, l’unico ostacolo frapposto
all’annullamento dell’atto.
1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo, sulla scorta
della giurisprudenza di questa Corte, ricorda che, trascorso un periodo di
ragionevole durata –oggi fissato in cinque anni dall’art. 9, comma 2, del
decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, recante
«Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità (Testo A)» (d’ora innanzi: t.u.
espropriazioni)– la pubblica amministrazione può reiterare il vincolo solo
motivando adeguatamente in relazione alla persistenza di effettive esigenze
urbanistiche (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni), e comunque
corrispondendo un indennizzo (ai sensi del successivo art. 39 del medesimo
testo unico).
Secondo il Tribunale amministrativo rimettente, dunque, l’esercizio del
potere ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 Cost., solo se
risulti limitato nel tempo e compensato, in caso di reiterazione del
vincolo, dalla corresponsione di un equo indennizzo.
Ricorda il giudice a quo, in particolare, che la giurisprudenza
costituzionale (è richiamata la sentenza n. 179 del 1999) ha escluso che il
vincolo possa essere reiterato senza che si proceda, alternativamente,
all’espropriazione (o comunque al «serio inizio dell’attività preordinata
all’espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi)»,
oppure alla corresponsione di un indennizzo.
Nella ricostruzione del TAR Lombardia, questo «serio inizio» dell’attività espropriativa sarebbe stato individuato dal legislatore statale, unico
competente a tal fine, nel provvedimento che dichiara la pubblica utilità
dell’opera; quindi, in un atto che comunque garantisce la partecipazione del
proprietario del bene.
L’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, avrebbe,
invece, disciplinato una nuova ipotesi di attuazione del vincolo
espropriativo, in mancanza di un serio avvio della procedura espropriativa
e, in particolare, di una tempestiva dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera.
In tal modo, in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., la legge
regionale avrebbe ecceduto la propria competenza concorrente in materia, dal
momento che l’art. 12 t.u. espropriazioni non ricomprenderebbe, tra gli atti
che comportano la dichiarazione di pubblica utilità, l’inserimento
dell’opera pubblica nel programma triennale.
Inoltre, in lesione dell’art. 42 Cost., la disposizione censurata
consentirebbe l’esercizio del potere ablatorio «a tempo indeterminato»,
in ragione di un provvedimento –appunto l’approvazione del piano triennale
delle opere pubbliche– la cui adozione, da un lato, non può essere
qualificata come serio avvio della procedura espropriativa, e, dall’altro,
non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e può
essere indefinitamente rinnovato, senza necessità né di motivazione, né di
indennizzo.
2.– In via preliminare, non può essere accolta la richiesta di una
declaratoria d’inammissibilità delle questioni per sopravvenuto difetto di
rilevanza, avanzata dal Comune di Adro, costituito in giudizio, in
conseguenza della rinuncia al ricorso depositata nel giudizio a quo dalle
società espropriate.
Come stabilito dall’art. 18 delle Norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale, il giudizio incidentale di costituzionalità è
autonomo rispetto al giudizio a quo, nel senso che non risente delle vicende
di fatto, successive all’ordinanza di rimessione e relative al rapporto
dedotto nel processo principale. Per questo, la costante giurisprudenza
costituzionale afferma che la rilevanza della questione deve essere valutata
alla luce delle circostanze sussistenti al momento del provvedimento di
rimessione, senza che assumano rilievo eventi sopravvenuti (sentenze n. 244
e n. 85 del 2020), quand’anche costituiti dall’estinzione del giudizio
principale per effetto di rinuncia da parte dei ricorrenti (ordinanza n. 96
del 2018).
3.– Deve essere, inoltre, circoscritto il thema decidendum.
Il giudice a quo, in dispositivo, indirizza le proprie censure
sull’intero comma 12 dell’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La motivazione dell’ordinanza di rimessione, tuttavia, consente agevolmente
di delimitare l’oggetto delle censure al solo secondo periodo del comma in
esame, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati
all’espropriazione decadono qualora, entro cinque anni dall’approvazione del
piano dei servizi che prevede l’intervento, quest’ultimo non sia inserito, a
cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
4.– Sempre in via preliminare, va rigettata l’eccezione d’inammissibilità
per difetto di rilevanza, originariamente avanzata dalla difesa del Comune
di Adro, secondo cui l’adozione della variante allo strumento urbanistico,
in quanto idonea a reiterare il vincolo preordinato all’esproprio,
renderebbe irrilevanti le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
Nel caso in esame, non risulta implausibile il ragionamento del rimettente,
secondo il quale il Comune di Adro non sarebbe stato obbligato a reiterare
il vincolo –nonostante la scadenza del quinquennio dalla originaria
apposizione– proprio in virtù della norma censurata, che avrebbe determinato
una “proroga” ex lege del vincolo, a seguito dell’inserimento
dell’opera nel programma triennale, per la durata di quest’ultimo e dei suoi
eventuali aggiornamenti annuali.
Infatti, da questo punto di vista, il provvedimento di variante urbanistica,
quantomeno in relazione all’opera di cui si tratta, potrebbe considerarsi
meramente ricognitivo e, come tale, prima ancora che “atipico” (come
ritenuto dal rimettente), addirittura superfluo.
Non si versa, pertanto, in una di quelle ipotesi di manifesta implausibilità
della motivazione sulla rilevanza, che impediscono, secondo costante
giurisprudenza costituzionale, l’esame del merito (da ultimo, sentenze n.
218 del 2020 e n. 208 del 2019).
5.– Neppure può essere accolta l’eccezione d’inammissibilità delle censure
di violazione dell’art. 117 Cost., per non avere il rimettente indicato «quale
comma e/o lettera sarebbero stati violati».
In primo luogo, il giudice a quo, almeno in un passaggio dell’ordinanza di rimessione, individua espressamente il terzo comma dell’art. 117 Cost. quale
parametro evocato.
È, poi, ininfluente che il rimettente non menzioni espressamente la materia
di legislazione concorrente tra quelle indicate nel terzo comma dell’art.
117 Cost., quando la questione, nel contesto della motivazione, risulti
chiaramente enunciata (in senso analogo, da ultimo, sentenza n. 264 del
2020). E dal tenore dell’ordinanza di rimessione si evince con sufficiente
chiarezza che le censure si incentrano sulla violazione della competenza
legislativa concorrente spettante alla Regione nella materia «governo del
territorio».
6.– Va invece, e ancora preliminarmente, dichiarata l’inammissibilità della
questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in
relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.
Il rimettente non ha, infatti, assolto l’onere di motivazione sulla non
manifesta infondatezza del prospettato dubbio di legittimità costituzionale.
L’ordinanza di rimessione è, invero, volta unicamente a denunciare la
lesione degli artt. 42 e 117, terzo comma, Cost., sotto i profili prima
illustrati, e non indica alcuna ragione a sostegno di uno specifico
contrasto della disposizione censurata con il parametro interposto
sovranazionale.
Tale carenza conduce inevitabilmente all’inammissibilità della specifica
questione in esame (in tal senso, tra le molte, sentenze n. 223 e n. 115 del
2020).
7.– Quanto all’esame del merito delle residue questioni di legittimità
costituzionale, è utile premettere qualche sintetico richiamo alla
disciplina statale e regionale rilevante, nonché alla pertinente
giurisprudenza costituzionale.
8.– Governata dall’art. 42, terzo comma, Cost., l’espropriazione per motivi
d’interesse generale consiste in un procedimento preordinato all’emanazione
di un provvedimento che trasferisce la proprietà o altro diritto reale su di
un bene.
Il legislatore statale ha introdotto a tal fine uno schema procedimentale
articolato nelle fasi indicate dall’art. 8 t.u. espropriazioni, costituite
dalla sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio, dalla
dichiarazione di pubblica utilità dell’opera che deve essere realizzata e
dalla determinazione dell’indennità di espropriazione.
Tali fasi sono finalizzate all’emissione del decreto di esproprio.
Ai sensi del successivo art. 9 del medesimo testo unico, un bene è
sottoposto al vincolo preordinato all’espropriazione quando diventa
efficace, in base alla specifica normativa statale e regionale di
riferimento, l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero
una sua variante, che preveda la realizzazione di un’opera pubblica o di
pubblica utilità.
Una volta apposto il vincolo espropriativo, il proprietario del bene resta
titolare del suo diritto sulla cosa e nel possesso di essa, ma non può
utilizzarla in contrasto con la destinazione dell’opera, fino a che
l’amministrazione non proceda all’espropriazione.
Come ricorda il giudice rimettente, questa Corte, con la sentenza n. 55 del
1968, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi i numeri 2), 3) e 4)
dell’art. 7 della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), nonché
l’art. 40 della stessa legge, nella parte in cui non prevedevano un
indennizzo per le limitazioni espropriative a tempo indeterminato.
Il legislatore statale, chiamato a sciogliere l’alternativa tra un
indennizzo da corrispondere immediatamente, al momento dell’apposizione del
vincolo di durata indeterminata, e un vincolo senza immediato indennizzo ma
a tempo determinato, ha optato per tale seconda soluzione, con la legge 19.11.1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica
17.08.1942, n. 1150), il cui art. 2 ha stabilito la durata quinquennale del
vincolo, periodo durante il quale la necessità di corrispondere un
indennizzo è esclusa.
Con la sentenza n. 179 del 1999, infine, questa Corte ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri
2), 3) e 4), e 40 della legge n. 1150 del 1942, e 2, primo comma, della
legge n. 1187 del 1968, nella parte in cui consentiva alla pubblica
amministrazione di reiterare i vincoli espropriativi scaduti senza la
previsione di un indennizzo.
Il legislatore statale si è adeguato a queste indicazioni con l’emanazione
del già richiamato t.u. espropriazioni.
In base alle norme dettate da quest’ultimo, il vincolo preordinato
all’esproprio è di durata quinquennale (art. 9, comma 2) –periodo,
cosiddetto di franchigia, durante il quale al proprietario del bene non è
dovuto alcun indennizzo– e decade se, entro tale termine, non è dichiarata
la pubblica utilità dell’opera (art. 9, comma 3).
Una volta decaduto e, dunque, divenuto inefficace, il vincolo può solo
essere motivatamente reiterato, subordinatamente alla previa approvazione di
un nuovo piano urbanistico generale o di una sua variante (art. 9, comma 4),
e con la corresponsione di un apposito indennizzo (art. 39).
Le stesse garanzie devono sorreggere una eventuale proroga del vincolo prima
della sua naturale scadenza (in tal senso, sentenza n. 314 del 2007).
Una volta apposto il vincolo, occorre procedere alla dichiarazione di
pubblica utilità dell’opera, entro il termine di efficacia del vincolo
espropriativo (art. 13, comma 1, t.u. espropriazioni).
Si tratta dell’atto con il quale vengono individuati in concreto i motivi di
interesse generale cui l’art. 42, terzo comma, Cost. subordina
l’espropriazione della proprietà privata nei casi previsti dalla legge
(sentenza n. 155 del 1995).
Con la dichiarazione di pubblica utilità, la pubblica amministrazione avvia
effettivamente la procedura espropriativa, accertando l’interesse pubblico
dell’opera attraverso l’individuazione specifica di essa e la sua
collocazione nel territorio, nel rispetto del contraddittorio tra i
cittadini interessati e l’amministrazione.
Un ruolo centrale nell’attuale disciplina del procedimento espropriativo è
svolto dalla cosiddetta dichiarazione implicita di pubblica utilità.
Il t.u. espropriazioni, infatti, prevede che l’adozione di taluni atti,
aventi struttura e funzioni proprie, comporti anche la dichiarazione di
pubblica utilità delle opere da essi previste.
In particolare, ai sensi dell’art. 12, comma 1, la dichiarazione di pubblica
utilità si intende disposta «quando l’autorità espropriante approva a tale
fine il progetto definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità,
ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di
lottizzazione, il piano di recupero, il piano di ricostruzione, il piano
delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero quando è approvato
il piano di zona». Inoltre, e comunque, essa si intende disposta quando la
normativa vigente prevede che equivalga «a dichiarazione di pubblica utilità
l’approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore o attuativo,
la definizione di una conferenza di servizi o il perfezionamento di un
accordo di programma, ovvero il rilascio di una concessione, di una
autorizzazione o di un atto avente effetti equivalenti».
8.1.– In ambito statale, il programma triennale dei lavori pubblici è
attualmente previsto dall’art. 21 del decreto legislativo 18.04.2016, n.
50 (Codice dei contratti pubblici), il quale disciplina unitariamente la
programmazione, sia per i lavori pubblici che per i servizi e le forniture,
demandando (comma 8) a un decreto ministeriale, di natura regolamentare, la
normazione di dettaglio.
Ai sensi dell’art. 3, lettera ggggg-sexies), cod. contratti pubblici, il
programma rappresenta il documento, da aggiornare annualmente, che le
amministrazioni adottano al fine di individuare i lavori da avviare nel
triennio.
Ai fini della presente decisione, va altresì sottolineato che, in relazione
alla definizione del contenuto del programma in questione, la disciplina
della partecipazione dei privati interessati è contenuta nella fonte
regolamentare prima evocata: l’art. 5, comma 5, del decreto ministeriale
16.01.2018, n. 14 («Regolamento recante procedure e schemi-tipo per la
redazione e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici,
del programma biennale per l’acquisizione di forniture e servizi e dei
relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali»), prevede, infatti, che le
amministrazioni «possono consentire» la presentazione di «eventuali»
osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione del programma sul
profilo informatico del committente e che l’approvazione definitiva del
documento programmatico triennale, con gli eventuali aggiornamenti, avviene
entro i successivi trenta giorni dalla scadenza del termine fissato per tali
«consultazioni», ovvero, comunque, entro sessanta giorni dalla pubblicazione
sul suddetto profilo.
9.– La complessiva disciplina statale sinteticamente richiamata ha trovato
peculiare attuazione nella legislazione della Regione Lombardia.
Come riconosce significativamente lo stesso art. 5, comma 1, t.u.
espropriazioni («[l]e Regioni a statuto ordinario esercitano la potestà
legislativa concorrente, in ordine alle espropriazioni strumentali alle
materie di propria competenza […]»), l’espropriazione costituisce una
funzione trasversale, che può esplicarsi in varie materie, anche di
competenza concorrente. Tra queste, soprattutto, il «governo del
territorio», per la pacifica attrazione in quest’ultimo dell’urbanistica,
come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (tra le più recenti,
sentenze n. 130 del 2020 e n. 254 del 2019).
La Regione Lombardia, nell’esercizio delle proprie competenze legislative,
si è dotata sia di una propria legge per il governo del territorio (legge
reg. Lombardia n. 12 del 2005), sia di una disciplina in materia di
procedimento di espropriazione, contenuta nella legge della Regione
Lombardia 04.03.2009, n. 3 (Norme regionali in materia di espropriazione per
pubblica utilità).
Con specifico riferimento alla vicenda che ha dato origine al giudizio a
quo, relativo ad una fattispecie in cui sono in questione le prime due fasi
della procedura espropriativa (apposizione del vincolo preordinato
all’esproprio e dichiarazione di pubblica utilità) assumono rilievo, nella
legislazione della Regione Lombardia, due disposizioni: da un lato, quella
effettivamente censurata, contenuta nella legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, che attribuisce, come s’è visto, peculiare effetto all’inserimento
dell’opera pubblica o di pubblica utilità nel programma triennale delle
opere pubbliche; dall’altro, l’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 3 del
2009, il quale, nell’indicare gli atti che comportano la dichiarazione di
pubblica utilità, include –a differenza della appena ricordata disciplina
statale– anche il programma triennale delle opere pubbliche, subordinando
però tale effetto all’accertamento di alcuni requisiti.
In particolare, il comma 2 della previsione da ultimo citata esige,
relativamente a ciascuna opera per la quale il programma triennale intende
produrre l’effetto in parola, che esso contenga: un piano particellare che
individui i beni da espropriare, con allegate le relative planimetrie
catastali; una motivazione circa la necessità di dichiarare la pubblica
utilità in tale fase; la determinazione del valore da attribuire ai beni da
espropriare, in conformità ai criteri applicabili in materia, con
l’indicazione della relativa copertura finanziaria.
Pur riguardando entrambe il programma triennale delle opere pubbliche in
ambito regionale, le due disposizioni hanno differenti obbiettivi: la prima
(oggetto delle censure di legittimità costituzionale) è relativa alla fase
dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio e stabilisce che il
vincolo non decade se l’opera viene inserita nel programma; la seconda,
relativa alla fase successiva del procedimento, include, alle condizioni
viste, il programma in questione tra gli atti la cui approvazione comporta
dichiarazione di pubblica utilità, con scelta, si è detto, innovativa
rispetto alla disciplina statale.
Il giudice a quo non si occupa affatto della seconda disposizione e perciò
non ne definisce il rapporto (di coordinamento, di alternatività, di
esclusione) con la prima, che sospetta di illegittimità costituzionale. Si
deve ritenere, peraltro, che tale pur indubbia lacuna non comporti
l’inammissibilità delle questioni, per incompleta ricostruzione del quadro
normativo di riferimento, oppure per una erronea o incompleta individuazione
della disciplina da censurare. Avendo affermato, nell’ordinanza di
rimessione, che il programma triennale delle opere pubbliche approvato dal
Comune di Adro non costituisce «serio inizio» della procedura
espropriativa (carattere che, invece, è in generale riconosciuto alla
dichiarazione di pubblica utilità di un’opera, e che, in virtù dei requisiti
posti dall’art. 9, comma 2, legge reg. Lombardia n. 3 del 2009, potrebbe
derivare, almeno nelle intenzioni del legislatore regionale,
dall’inserimento nel programma triennale delle opere pubbliche corredate da
quei requisiti), se ne deve dedurre che il rimettente abbia implicitamente
ritenuto non applicabile l’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 3 del 2009
alla fattispecie al suo esame.
Trattandosi, dunque, di disposizione non ritenuta pertinente alla
definizione del giudizio, questa Corte può prescindere da qualsiasi
valutazione su di essa, sia in punto di ammissibilità delle questioni, sia,
nel merito, circa la sua riconducibilità alla legittima espressione della
potestà legislativa concorrente spettante alla Regione nella materia
«governo del territorio».
10.– Tutto ciò premesso, le questioni di legittimità costituzionale
sollevate sull’art. 9, comma 12, della legge reg. n. 12 del 2005 sono
fondate, poiché tale disposizione viola gli artt. 42, terzo comma, e 117,
terzo comma, Cost.
Non può che ribadirsi, nel solco della sentenza n. 179 del 1999, che la
proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno
inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti «sine
die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo
determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il
limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e,
quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza».
Questo è proprio il vizio che presenta, in primo luogo, la disposizione
censurata.
Come correttamente evidenziato dal giudice rimettente, infatti, l’art. 9,
comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio
ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione
dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche
nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente
indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato
di alcun indennizzo.
Questo effetto si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza
costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il
legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la
reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il
proprietario.
Gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. sono, infatti, violati
in tutti i casi in cui –come avviene nella specie– alla protrazione
automatica di vincoli di natura espropriativa, disposta da una legge
regionale oltre il punto di tollerabilità individuato dal legislatore
statale, non corrisponda l’obbligo di riconoscere un indennizzo.
A ciò si aggiunga che, nel consentire la proroga senza indennizzo del
vincolo preordinato all’esproprio oltre il quinquennio originario, il
legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale
circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che
oltrepassa quello cosiddetto di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla
legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di
reiterazione del vincolo.
Ancora, e si tratta di un profilo che non risulta certo ultimo per
importanza, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al
livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato.
Proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i
privati interessati, prima che l’autorità pubblica adotti provvedimenti
limitativi dei loro diritti, devono essere messi «in condizioni di
esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo
di collaborazione nell’interesse pubblico» (da ultimo, sentenza n. 71
del 2015).
La garanzia in parola è, invece, frustrata da un atto –l’approvazione del
programma triennale delle opere pubbliche– in relazione al cui contenuto il
codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e
grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal
t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e
per quelli reiterativi del vincolo espropriativo.
Infatti, la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma in
questione è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14
del 2018), non già dall’art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla
legge regionale. Inoltre, e soprattutto, l’art. 5, comma 5, del d.m. prima
ricordato si limita a prevedere che le «amministrazioni possono consentire
la presentazione di eventuali osservazioni» da parte dei privati
interessati, così degradando la partecipazione a mera eventualità.
11.– Per queste complessive ragioni va dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli
preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera
della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano
dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in
vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito,
a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio), secondo periodo,
limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati
all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della
pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei
servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in
vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito,
a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale
delle opere pubbliche e relativo aggiornamento;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 12, legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in
relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a
Parigi il 20.03.1952, dal Tribunale amministrativo regionale per la
Lombardia, sezione staccata di Brescia, con l’ordinanza indicata in epigrafe
(Corte Costituzionale,
sentenza 18.12.2020 n. 270). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropriazione per pubblica utilità - Norme della
Regione Lombardia - Vincoli preordinati
all'espropriazione per la realizzazione di
attrezzature e servizi previsti dal piano dei
servizi - Termine di decadenza quinquennale,
decorrente dalla vigenza del piano - Proroga, in
caso di inserimento dei relativi interventi nel
programma triennale delle opere pubbliche e relativo
aggiornamento - Violazione del diritto di proprietà
e dei principi in materia di governo del territorio
- Illegittimità costituzionale.
●
È dichiarato costituzionalmente illegittimo, per
violazione degli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo
comma, Cost., l'art. 9, comma 12, secondo periodo,
della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
limitatamente alla parte in cui prevede che i
vincoli preordinati all'espropriazione per la
realizzazione, esclusivamente ad opera della
pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi
previsti dal piano dei servizi decadono qualora,
entro cinque anni decorrenti dall'entrata in vigore
del piano stesso, l'intervento cui sono preordinati
non sia inserito, a cura dell'ente competente alla
sua realizzazione, nel programma triennale delle
opere pubbliche e relativo aggiornamento.
La norma censurata dal TAR Lombardia, sez. staccata
di Brescia, consente la protrazione dell'efficacia
del vincolo preordinato all'esproprio ben oltre la
naturale scadenza quinquennale e, in virtù
dell'inclusione dell'aggiornamento annuale del
programma triennale delle opere pubbliche
nell'ambito applicativo della medesima norma, per un
tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia
previsto il riconoscimento al privato interessato di
alcun indennizzo.
Pertanto, essa è in frontale contrasto con la
giurisprudenza costituzionale formatasi in tema di
vincoli ablativi finalizzati all'espropriazione,
dando seguito alla quale il legislatore statale ha
individuato un ragionevole punto di equilibrio tra
la reiterabilità indefinita dei vincoli e la
necessità di indennizzare il proprietario. Nel
consentire la proroga senza indennizzo del vincolo
preordinato all'esproprio oltre il quinquennio
originario, il legislatore regionale ha omesso di
imporre un preciso onere motivazionale circa
l'interesse pubblico al mantenimento del vincolo per
un periodo che oltrepassa quello c.d. di franchigia:
ciò che invece è richiesto dalla legge statale (art.
9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di
reiterazione del vincolo.
Ancora, la disposizione censurata appare del tutto
carente quanto al livello di garanzia partecipativa
da riconoscersi al privato interessato, in quanto la
partecipazione al procedimento che sfocia nel
programma triennale delle opere pubbliche -in
relazione al cui contenuto il codice dei contratti
pubblici prevede forme di partecipazione di qualità
e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti
a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in
particolare nell'art. 11) per gli atti appositivi e
per quelli reiterativi del vincolo espropriativo- è
prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m.
n. 14 del 2018), non già dall'art. 21 cod. contratti
pubblici e nemmeno dalla legge regionale.
Inoltre, e soprattutto, l'art. 5, comma 5,
dell'indicato d.m., prevedendo che le
amministrazioni possano consentire la presentazione
di eventuali osservazioni da parte dei privati
interessati, degrada la partecipazione a mera
eventualità
(precedenti citati: sentenze n. 314 del 2007, n. 179
del 1999, n. 155 del 1995 e n. 55 del 1968).
●
L'espropriazione costituisce una funzione
trasversale, che può esplicarsi in varie materie,
anche di competenza concorrente. Tra queste,
soprattutto, il «governo del territorio», per la
pacifica attrazione in quest'ultimo dell'urbanistica
(precedenti citati: sentenze n. 130 del 2020 e n.
254 del 2019).
La proroga in via legislativa dei vincoli
espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di
vista costituzionale, qualora essa si presenti sine
die o all'infinito (attraverso la reiterazione di
proroghe a tempo determinato che si ripetano
aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite
temporale sia indeterminato, cioè non sia certo,
preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in
termini di ragionevolezza
(precedente citato: sentenza n. 179 del 1999).
●
In materia espropriativa, i privati interessati,
prima che l'autorità pubblica adotti provvedimenti
limitativi dei loro diritti, devono essere messi in
condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a
tutela del proprio interesse, sia a titolo di
collaborazione nell'interesse pubblico
(precedente citato: sentenza n. 71 del 2015)
(Corte Costituzionale,
sentenza 18.12.2020 n. 270). |
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Altra "batosta" si profila all'orizzonte
sull'ordinamento urbanistico lombardo:
sarebbe incostituzionale la proroga della
validità delle convenzioni di lottizzazione di cui
all’art. 46 della l.r. 11.03.2005 n. 12. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L. Spallino,
Regione Lombardia: nuove proroghe alle convenzioni di lottizzazione
(30.11.2020 - link a www.dirittopa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Nella seduta del 07.10.2020, il Consiglio dei
Ministri ha deliberato di impugnare dinanzi alla
Consulta l'art. 28 della L.R. 07.08.2020 n. 18
recante ad oggetto "Assestamento al bilancio
2020–2022 con modifiche di leggi regionali".
Legge della regione Lombardia 07.08.2020 n. 18 “Assestamento
al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi
regionali” presenta alcuni profili di non
conformità alla Carta costituzionale e va pertanto
impugnata per le ragioni che si illustrano.
L’art. 28 della legge in parola interviene sulla
durata della validità dei titoli edilizi,
paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione
disciplinandola riguardo alla proroga dei termini in
modo difforme da quanto previsto dall'articolo 103,
commi 2 e 2-bis, del decreto-legge n. 18/2020,
convertito dalla legge n. 27/2020, nonché
dall’articolo 10, commi 4 e 4-bis, del decreto-legge
n. 76/2020, convertito dalla legge n. 120/2020,
senza peraltro prevedere la comunicazione del
soggetto interessato di volersene avvalere e senza
far salva la compatibilità dei titoli abilitativi
con nuovi strumenti urbanistici approvati o
adottati, in violazione dei principi fondamentali
della materia edilizia, rientrante in quella più
generale del «governo del territorio» oggetto
di competenza concorrente ex art. 117, terzo comma,
Cost..
Si evidenzia preliminarmente che, anche nell'attuale
situazione di emergenza collegata alla diffusione
del virus Covid-19, gli interventi normativi delle
Regioni e delle Province autonome, nello specifico
in materia edilizia, debbano armonizzarsi con il
complesso dei provvedimenti adottati dallo Stato
finalizzati a garantire la salute dei cittadini e al
contempo sostenere il sistema economico e non
possano produrre deroghe alla normativa statale di
settore superando l'ambito di competenza sopra
menzionato.
Ciò posto, va evidenziato che, in considerazione
della situazione emergenziale in atto, il
legislatore nazionale è intervenuto sulla disciplina
dei titoli abilitativi agli interventi edilizi e
sulle convenzioni di lottizzazione, prorogandone la
validità.
In particolare:
1) l'articolo 103, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge 17.03.2020,
18 (recante "Misure di potenziamento del Servizio
sanitario nazionale e di sostegno economico per
famiglie, lavoratori e imprese connesse
all'emergenza epidemiologica da COVID-19"),
convertito, con modificazioni, dalla legge
24.04.2020, n. 27, ha disposto che:
"(omissis)
2. Tutti i certificati, attestati, permessi,
concessioni, autorizzazioni e atti abilitativi
comunque denominati, compresi i termini di inizio e
di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del
testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, in scadenza tra il
31.01.2020 e il 31.07.2020, conservano la loro
validità per i novanta giorni successivi alla
dichiarazione di cessazione dello stato di
emergenza. La disposizione di cui al periodo
precedente si applica anche alle segna/azioni
certificate di inizio attività, alle segnalazioni
certificate di agibilità, nonché alle autorizzazioni
paesaggistiche e alle autorizzazioni ambientali
comunque denominate. Il medesimo termine si applica
anche al ritiro dei titoli abilitativi edilizi
comunque denominati rilasciati fino alla
dichiarazione di cessazione dello stato di
emergenza.
2-bis. Il termine di validità nonché i termini di
inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di
lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge
17.08.1942, n. 1150, ovvero dagli accordi similari
comunque denominati dalla legislazione regionale,
nonché i termini dei relativi piani attuativi e di
qualunque altro atto ad essi propedeutico, in
scadenza tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020, sono
prorogati di novanta giorni. La presente
disposizione si applica anche ai diversi termini
delle convenzioni di lottizzazione di cui
all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150,
ovvero degli accordi similari comunque denominati
dalla legislazione regionale nonché dei relativi
piani attuativi che hanno usufruito della proroga di
cui all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge
21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
dalla legge 09.08.2013, n. 98";
2) l'articolo 10, commi 4 e 4-bis, del decreto legge 16.07.2020, n.
76 (recante "Misure urgenti per la
semplificazione e l'innovazione digitale”)
convertito, con modificazioni, dalla legge
11.09.2020, n. 120, ha previsto che:
"(omissis).
4. Per effetto della comunicazione del soggetto
interessato di volersi avvalere del presente comma,
sono prorogati rispettivamente di un anno e di tre
anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori
di cui all'articolo 15 del decreto del Presidente
della Repubblica 06.06.2001, n. 380, come indicati
nei permessi di costruire rilasciati o comunque
formatisi fino al 31.12.2020, purché i suddetti
termini non siano già decorsi al momento della
comunicazione dell'interessato e sempre che i titoli
abilitativi non risultino in contrasto, al momento
della comunicazione dell'interessato, con nuovi
strumenti urbanistici approvati o adottati. Le
disposizioni di cui al primo periodo del presente
comma si applicano anche ai permessi di costruire
per i quali l'amministrazione competente abbia già
accordato una proroga ai sensi dell'articolo 15,
comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380. La medesima proroga si applica
alle segnalazioni certificate di inizio attività
presentate entro lo stesso termine ai sensi degli
articoli 22 e 23 del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380.
4-bis. Il termine di validità nonché i termini di
inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di
lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge
17.08.1942, n. 1150, dagli accordi similari comunque
denominati dalla legislazione regionale, nonché i
termini dei relativi piani attuativi e di qualunque
altro atto ad essi propedeutico, formatisi al
31.12.2020, sono prorogati di tre anni. La presente
disposizione si applica anche ai diversi termini
delle convenzioni di lottizzazione di cui
all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, o
degli accordi similari comunque denominati dalla
legislazione regionale nonché dei relativi piani
attuativi che hanno usufruito della proroga di cui
all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge
21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
dalla legge 09.08.2013, n. 98".
Passando all'analisi della legge regionale,
approvata in data 28.07.2020, l'articolo 28 recita:
"1. Anche in
considerazione del permanere di gravi difficoltà per
il settore delle costruzioni, derivanti
dall'emergenza epidemiologica da COVID-19, è
prorogata la validità:
a) di tutti i certificati, attestati, permessi,
concessioni, autorizzazioni e atti o titoli
abilitativi, comunque denominati, in scadenza dal
31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla
data di relativa scadenza;
b) delle convenzioni di lottizzazione di cui
all'articolo 46 della legge regionale 11.03.2005, n.
12 (Legge per il governo del territorio) e dei
termini da esse stabiliti, nonché di quelli
contenuti in accordi similari, comunque denominati,
previsti dalla legislazione regionale in materia
urbanistica, stipulati antecedentemente alla data di
entrata in vigore della presente legge, che
conservano validità per tre anni dalla relativa
scadenza.
2. Le scadenze dei termini previsti agli articoli 8-bis, commi i e
2, e 40-bis, comma 1, primo e quarto periodo, della
L.R. 12/2005, nonché del termine di cui all'articolo
8, comma 2, della legge regionale 26.11.2019, n. 18
(Misure di semplificazione e incentivazione per la
rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il
recupero del patrimonio edilizio esistente.
Modifiche e integrazioni alla legge regionale
11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del
territorio" e ad altre leggi regionali), differite
in applicazione dell'articolo 1, comma 1, della
legge regionale 31.03.2020, n. 4 (Differimento dei
termini stabiliti da leggi e regolamenti regionali e
disposizioni urgenti in materia contabile e di
agriturismi, in considerazione dello stato di
emergenza epidemiologica da COVID-19), sono
prorogate fino al 31.12.2020.
3. L'efficacia delle deliberazioni della Giunta regionale relative
ai criteri di cui agli articoli 11, comma 5, e 43,
comma 2-quinquies, della L.R. 12/2005 è sospesa per
novanta giorni dalla data di pubblicazione nel
Bollettino ufficiale della Regione Lombardia delle
stesse deliberazioni per consentire e agevolare le
valutazioni di competenza dei comuni, ai fini della
relativa applicazione”.
Così delineato il quadro normativo di riferimento,
si rappresenta che è principio pacifico nella
giurisprudenza della Corte Costituzionale quello
secondo cui, nell'ambito della materia concorrente «governo
del territorio», prevista dall'articolo 117,
comma terzo, della Costituzione, i titoli
abilitativi agli interventi edilizi costituiscono
oggetto di una disciplina che assurge a principio
fondamentale (sentenze n. 259 del 2014, n. 139 e n.
102 del 2013 n. 303 del 2003).
Con riguardo alla portata dei «principi
fondamentali» riservati alla legislazione
statale nelle materie di potestà concorrente, la
Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire, tra
l'altro, che «il rapporto tra normativa di
principio e normativa di dettaglio [...] deve essere
inteso nel senso che l'una è volta a prescrivere
criteri ed obiettivi, mentre all'altra spetta
l'individuazione degli strumenti concreti da
utilizzare per raggiungere quegli obiettivi»
(sentenze n. 272 del 2013 e n. 237 del 2009).
La legge regionale in esame, nel regolamentare la
disciplina della validità dei titoli edilizi,
paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione,
lungi dall'adottare una disciplina di dettaglio
rispetto a quella statale, ha introdotto una
normativa sostitutiva dei principi dettati dal
legislatore statale.
Ed invero l'articolo 28 della legge regionale nel
prevedere, al comma 10, lettera a), che la validità
di attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni
e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in
scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, è tre
anni dalla data di relativa scadenza, si pone in
contrasto con la previsione contenuta nell'articolo
103, comma 2, del decreto-legge n. 18 del 2020, che,
individua un meccanismo di proroga automatica dei
titoli in scadenza tra il 31.01.2020 e il
31.07.2020, e fissa il termine finale della stessa
al novantesimo giorno successivo alla dichiarazione
di cessazione dello stato di emergenza.
Peraltro, la medesima disposizione, diversamente sia
dal testo dell'articolo 10, comma 4, del
decreto-legge n. 76 del 2020 vigente alla data di
approvazione della disposizione regionale che dal
testo del medesimo articolo 10, comma 4, del citato
decreto-legge, come modificato dalla legge di
conversione:
- individua un termine di proroga diverso disponendo, per quelli in
scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, la
proroga per tre anni dalla data di relativa
scadenza. Al riguardo, si sottolinea che l'articolo
10, comma 4, del decreto semplificazioni (anche
prima delle modifiche apportate della legge di
conversione), stabilisce la proroga, rispettivamente
di un anno e di tre anni dei termini di inizio e di
ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001,
n. 380, come indicati nei permessi di costruire
rilasciati o comunque formatisi fino al 31.12.2020;
- non ancora l'operatività della proroga alla comunicazione del
soggetto interessato di volersene avvalere;
- non contiene la previsione che fa salva la compatibilità dei i
titoli abilitativi, con nuovi strumenti urbanistici
approvati o adottati.
In relazione alla disciplina delle convenzioni di
lottizzazioni, l'articolo 28, comma 1, lettera b),
della legge regionale, nel prevedere la proroga per
gli atti "stipulati antecedentemente alla data di
entrata in vigore della presente legge, che
conservano validità per tre anni dalla relativa
scadenza", si pone in contrasto:
- con l'articolo 103, comma 2-bis, del decreto-legge c.d. Cura
Italia vigente al momento dell'approvazione e della
successiva pubblicazione della legge regionale, che
stabilisce la proroga per le convenzioni di
lottizzazione e i piani attuativi in scadenza tra il
31.01.2020 e il 31.07.2020;
- con l'articolo 10, comma 4-bis, del decreto-legge c.d.
Semplificazione, che individua il termine di
validità nonché i termini di inizio e fine lavori
previsti dalle convenzioni di lottizzazione di cui
all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150,
dagli accordi similari comunque denominati dalla
legislazione regionale, nonché i termini dei
relativi piani attuativi e di qualunque altro atto
ad essi propedeutico, formatisi al 31.12.2020, sono
prorogati di tre anni.
Alla luce della ricostruzione sopra effettuata, la
legge regionale in esame comporta l'invasione della.
riserva di competenza statale alla formulazione di
principi fondamentali, con tutti i rischi per la
certezza e per l'unitarietà della disciplina che
tale invasione comporta.
Il contrasto tra la disciplina statale e quella
regionale comporta la violazione dei principi
fondamentali della materia edilizia, rientrante in
quella più generale del «governo del territorio»
oggetto di competenza concorrente ex art. 117, terzo
comma, Cost., in quanto la disciplina statale dei "titoli
edilizi" costituisce norma di principio (Corte
costituzionale 09.03.2016, 49).
Per le esposte ragioni, si ritiene
quindi di impugnare innanzi alla Corte
costituzionale, ai sensi dell’articolo 127 della
Costituzione, la
legge della Regione Lombardia n. 18
del 2020, limitatamente all’articolo 28, che
interviene sulla durata della validità dei titoli
edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di
lottizzazione, in violazione dei principi
fondamentali della materia edilizia, rientrante in
quella più generale del governo del territorio
oggetto di competenza concorrente ex art. 117, terzo
comma, Cost., con riferimento all'articolo 103,
commi 2 e 2-bis, del decreto-legge n. 18/2020,
convertito dalla legge n. 27/2020, nonché
all’articolo 10, commi 4 e 4-bis, del decreto-legge
n. 76/2020, convertito dalla legge n. 120/2020
(07.10.2020 - commento tratto da e link a
www.affariregionali.gov.it).
---------------
Si legga, al riguardo:
●
Ricorso per questione di legittimità costituzionale
depositato in cancelleria il 13.10.2020
(del Presidente del Consiglio dei ministri)
Edilizia e urbanistica - Norme della Regione
Lombardia - Differimento di termini e sospensione
dell’efficacia di atti in materia di governo del
territorio in considerazione dell’emergenza
epidemiologica da COVID-19 - Proroga della validità
di certificati, attestati, permessi, concessioni,
autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque
denominati, e delle convenzioni di lottizzazione.
– Legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18
(Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di
leggi regionali), art. 28. |
aggiornamento al
27.03.2021 |
|
Sull'istituto della "convalida",
ex
art. 21-nonies, comma 2, legge n. 241/1990,
degli atti amministrativi... |
ATTI AMMINISTRATIVI: Quanto
all’esercizio del potere di convalida in via di autotutela di un atto
illegittimo, è costante in giurisprudenza l’affermazione per cui, ai sensi
degli artt. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241, e 6, l. 18.03.1968, n. 249,
l'atto amministrativo può essere convalidato dall'Autorità amministrativa
anche in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale,
anche di appello, con la sola esclusione dell'ipotesi in cui sia intervenuta
una sentenza passata in giudicato.
E’ stato in proposito osservato che l’esercizio del potere di convalida
presuppone un atto non ancora annullato, mancando, in difetto di ciò, lo
stesso “oggetto” dell’esercizio del potere di autotutela decisionale; più in
particolare, nel caso in cui l’annullamento sia intervenuto in sede
giurisdizionale, e la sentenza che lo dispone sia passata in giudicato, gli
atti che procedono alla “convalida” di quelli già annullati dal giudice,
sono nulli perché adottati in violazione del giudicato.
A ciò deve
aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche per difetto totale di
elementi essenziali, quali l’oggetto, non potendo sussistere alcun interesse
pubblico alla convalida di un atto non più esistente.
---------------
La volontà dell’ente di eliminare i
vizi di illegittimità che affliggono gli atti da convalidare, lungi dal
determinare uno sviamento del potere rispetto alle finalità per cui esso è
riconosciuto, costituisce, al contrario, proprio il perseguimento di tali
finalità.
Come noto, infatti, la convalida è il provvedimento con il quale la Pubblica
Amministrazione, nell’esercizio del proprio potere di autotutela decisionale
ed all’esito di un procedimento di secondo grado, interviene su un
provvedimento amministrativo viziato e, come tale, annullabile, emendandolo
dai vizi che ne determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità.
Tale atto presuppone pertanto, ai sensi dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990,
n. 241, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse e che non sia
decorso un termine ragionevole dall'adozione dell’atto illegittimo.
---------------
Quanto all’esercizio del potere di convalida in via di autotutela di un atto
illegittimo, è costante in giurisprudenza l’affermazione per cui, ai sensi
degli artt. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241, e 6, l. 18.03.1968, n. 249,
l'atto amministrativo può essere convalidato dall'Autorità amministrativa
anche in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale,
anche di appello, con la sola esclusione dell'ipotesi in cui sia intervenuta
una sentenza passata in giudicato (cfr. Cons. St., Sez. V, 25.06.2015, nr.
4650; Cons. St., sez. IV, 29.12.2014, n. 6384; Cons. St., sez. V,
24.04.2013, n. 2278).
E’ stato in proposito osservato che l’esercizio del potere di convalida
presuppone un atto non ancora annullato, mancando, in difetto di ciò, lo
stesso “oggetto” dell’esercizio del potere di autotutela decisionale;
più in particolare, nel caso in cui l’annullamento sia intervenuto in sede
giurisdizionale, e la sentenza che lo dispone sia passata in giudicato, gli
atti che procedono alla “convalida” di quelli già annullati dal
giudice, sono nulli perché adottati in violazione del giudicato. A ciò deve
aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche per difetto totale di
elementi essenziali, quali l’oggetto, non potendo sussistere alcun interesse
pubblico alla convalida di un atto non più esistente (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 02.04.2012 n. 1958).
Nel caso in disamina la convalida è intervenuta ancora pendente il presente
giudizio, prima che l’atto illegittimo venisse travolto definitivamente da
una pronuncia di annullamento passata in giudicato, così sanando in via
retroattiva i vizi riscontrati dall’Amministrazione.
Con il terzo motivo di
censura di tale ricorso si lamenta, inoltre, che il potere di convalida
sarebbe stato esercitato oltre il termine ragionevole di cui all’art.
21-nonies, comma 2, L. 241/1990, e cioè circa un anno dopo l’adozione
dell’atto convalidato, con ciò violando l’affidamento maturato in capo alle
ricorrenti.
Il motivo è infondato.
Ritiene il Collegio, avuto riguardo alla concreta scansione degli eventi che
hanno interessato la vicenda in disamina, che il termine entro il quale è
stato esercitato il potere di autotutela non può considerarsi irragionevole.
Gli atti convalidati sono stati adottati nel mese di luglio dell’anno 2019;
nel successivo mese di ottobre le ricorrenti impugnavano tali provvedimenti
con il ricorso introduttivo del presente giudizio, prospettandone alcuni
vizi di illegittimità; a luglio 2020 interveniva l’atto di convalida qui in
contestazione, all’esito di un procedimento avviato nel precedente mese di
marzo 2020.
In tale contesto non pare al Collegio che l’esercizio del potere di
convalida possa dirsi intempestivo, avuto, peraltro, riguardo al fatto che
ove il legislatore ha inteso codificare un termine per l’esercizio del
potere di autotutela, prendendo in considerazione quei casi in cui l’autotutela
è suscettibile di incidere in maniera particolarmente negativa sugli
interessi privati, lo ha determinato in 18 mesi (cfr. art. 21-nonies, comma
1, L. 241/1990, riferito all’annullamento dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici).
Né, d’altro canto, merita tutela l’affidamento che parte ricorrente invoca
quanto al fatto che la controversia sarebbe passata in decisione “nei
termini prospettati nel ricorso originario”, posto che l’esercizio dell’autotutela
è intervenuto proprio per emendare quei vizi di illegittimità che sono stati
denunciati dalle ricorrenti.
Con il quarto motivo di gravame si deduce, ancora, che l’atto
impugnato sarebbe illegittimo per sviamento di potere, in quanto il potere
di convalida sarebbe stato esercitato dall’Amministrazione non per assumere
provvedimenti in autotutela (vuoi conservativa, vuoi demolitoria), bensì per
“proteggere” gli atti della Giunta e del dirigente dalle statuizioni
del Tribunale.
Anche questo motivo non coglie nel segno: è appena il caso di rilevare in
proposito che la volontà dell’ente di eliminare i vizi di illegittimità che
affliggevano gli atti da convalidare, lungi dal determinare uno sviamento
del potere rispetto alle finalità per cui esso è riconosciuto, costituisce,
al contrario, proprio il perseguimento di tali finalità.
Come noto, infatti, la convalida è il provvedimento con il quale la Pubblica
Amministrazione, nell’esercizio del proprio potere di autotutela decisionale
ed all’esito di un procedimento di secondo grado, interviene su un
provvedimento amministrativo viziato e, come tale, annullabile, emendandolo
dai vizi che ne determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità.
Tale atto presuppone pertanto, ai sensi dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990,
n. 241, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse, su cui le
ricorrenti non svolgono alcuna contestazione, e che non sia decorso un
termine ragionevole dall'adozione dell’atto illegittimo (cfr. Cons. St.,
sez. IV, sentenza 18.05.2017, n. 2351) (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 17.12.2020 n. 1269 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
convalida (ex art. 21-nonies, comma 2, della l. n. 241/1990) per il tramite
della rimozione del vizio implica necessariamente un’illegittimità di natura
“procedurale”, essendo evidente che ogni diverso vizio afferente alla
sostanza regolatoria del rapporto amministrativo rispetto al quadro
normativo vigente risulterebbe superabile solo attraverso una modifica di
quest’ultimo; ius superveniens che, in quanto riguardante il contesto
normativo generale, certamente esula da concetto di “rimozione del vizio”
afferente la singola e concreta fattispecie provvedimentale.
---------------
1. Viene all’attenzione dell’Adunanza Plenaria l’esatta interpretazione
dell’art. 38 del Testo unico edilizia (disposizione che ricalca esattamente
quanto innanzi previsto dall’art. 11 della legge n. 47/1985).
2. La disposizione prevede che “In caso di annullamento del permesso,
qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei
vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una
sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti
abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla
base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La
valutazione dell'agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal
responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di
impugnativa (comma 1). L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria
irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria
di cui all'articolo 36 (comma 2)”.
3. L’articolo da ultimo citato (art. 36, comma 2), com’è noto, disciplina
l’accertamento di conformità, ovvero la sanatoria degli interventi abusivi
in quanto realizzati ab origine sine titulo, ma conformi alle norme
urbanistico edilizie vigenti, sia al tempo della costruzione che al tempo
del rilascio del permesso in sanatoria (ex multis, Cons. Stato, Sez.
VI, 24.04.2018, n. 2496; Sez. II, 18.02.2020, n. 1240).
4. Dunque, il pacifico effetto della disposizione in commento è quello di
tutelare, al ricorrere di determinati presupposti e condizioni,
l’affidamento ingeneratosi in capo al titolare del permesso di costruire
circa la legittimità della progettata e compiuta edificazione conseguente al
rilascio del titolo, equiparando il pagamento della sanzione pecuniaria al
rilascio del permesso in sanatoria.
4.1. L’equiparazione è solo quoad effectum, costituendo un
eccezionale temperamento al generale principio secondo il quale la
costruzione abusiva deve essere sempre demolita; temperamento in ragione,
non già della sostanziale conformità urbanistica (passata e presente) della
stessa (oggetto del diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma
della presenza di un permesso di costruire che ab origine ha
giustificato l’edificazione e dato corpo all’affidamento del privato alla
luce della generale presunzione di legittimità degli atti amministrativi.
4.2. La composizione degli opposti interessi in rilievo –tutela del
legittimo affidamento da una parte, tutela del corretto assetto urbanistico
ed edilizio dall’altra– è realizzato dal legislatore per il tramite di una “compensazione”
monetaria di valore pari “al valore venale delle opere o loro parti
abusivamente eseguite” (cd fiscalizzazione dell’abuso).
4.2.1. Proprio perché costituente eccezionale deroga al principio di
necessaria repressione a mezzo demolizione degli abusi edilizi, la
disposizione è presidiata da due condizioni: a) la prima è la
motivata valutazione circa l’impossibilità della rimozione dei vizi delle
procedure amministrative; b) la seconda è la motivata valutazione
circa l’impossibilità di restituzione in pristino.
4.2.2. Trattasi di due condizioni eterogenee poiché la prima attiene
alla sfera dell’amministrazione e presuppone che l’attività di convalida del
provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di costruire), ex art.
21-nonies comma 2, mediante rimozione del vizio della relativa procedura,
non sia oggettivamente possibile; la seconda attiene alla sfera del
privato e concerne la concreta possibilità di procedere alla restituzione
dei luoghi in pristino stato.
4.3. Entrambe le condizioni sono invero declinate in modo generico dal
legislatore, non avendo quest’ultimo chiarito cosa debba intendersi per “vizi
delle procedure amministrative” e per “impossibilità” di
riduzione in pristino.
4.3.1. I quesiti posti dall’ordinanza di rimessione si concentrano sul
primo aspetto, avendo la giurisprudenza in alcuni casi sostenuto che nei
“vizi della procedura” possano sussumersi tutti quelli potenzialmente
in grado di invalidare il provvedimento, siano essi relativi alla forma e al
procedimento, siano essi invece relativi alla conformità del provvedimento
finale rispetto alle previsioni edilizie e urbanistiche disciplinati
l’edificazione (C.d.S. sez. VI 19.07.2019 n. 5089, e in senso
sostanzialmente conforme, fra le molte, C.d.S. sez. VI 28.11.2018 n. 6753 e
sez. VI 12.05.2014 n. 2398, da ultimo anche Sez. VI n. 2419/2020).
4.3.2. Secondo questo ormai nutrito filone giurisprudenziale, la
fiscalizzazione dell’abuso prescinderebbe dalla tipologia del vizio
(procedurale o sostanziale) avendo il legislatore affidato l’eccezionale
percorribilità della sanatoria pecuniaria alla valutazione discrezionale
dell’amministrazione, in esecuzione di un potere che affonda le sue radici e
la sua legittimazione nell’esigenza di tutelare l’affidamento del privato.
In questa chiave di lettura è la “motivata valutazione” fornita
dall’amministrazione l’unico elemento sul quale il sindacato del giudice
amministrativo dovrebbe concentrarsi.
5. Questa Adunanza plenaria è di diverso avviso, alla luce delle seguenti
considerazioni d’ordine testuale e sistematico.
5.1. La disposizione in commento fa specifico riferimento ai vizi “delle
procedure”, avendo così cura di segmentare le cause di invalidità che
possano giustificare l’operatività del temperamento più volte segnalato, in
guisa da discernerle dagli altri vizi del provvedimento che, non attenendo
al procedimento, involvono profili di compatibilità della costruzione
rispetto al quadro programmatorio e regolamentare che disciplina l’an
e il quomodo dell’attività edificatoria.
5.2. Non a caso il tenore della norma impone, sia pur per implicito,
all’amministrazione l’obbligo di porre preliminarmente rimedio al vizio,
rimuovendolo attraverso un’attività di secondo grado pacificamente
sussumibile nell’esercizio del potere di convalida contemplato in via
generale dall’art. 21-nonies, comma 2, della legge generale sul
procedimento. La convalida per il tramite della rimozione del vizio implica
necessariamente un’illegittimità di natura “procedurale”, essendo
evidente che ogni diverso vizio afferente alla sostanza regolatoria del
rapporto amministrativo rispetto al quadro normativo vigente risulterebbe
superabile solo attraverso una modifica di quest’ultimo; ius superveniens
che, in quanto riguardante il contesto normativo generale, certamente esula
da concetto di “rimozione del vizio” afferente la singola e concreta
fattispecie provvedimentale.
5.3. Il riferimento ad un vizio procedurale astrattamente convalidabile
delimita operativamente il campo semantico della successiva e connessa
proposizione normativa riferita all’impossibilità di rimozione, dovendo per
questa intendersi una impossibilità che attiene pur sempre ad un vizio che,
sul piano astratto sarebbe suscettibile di convalida, e che per le motivate
valutazioni espressamente fatte dall’amministrazione, non risulta esserlo in
concreto (Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 07.09.2020 n. 17 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
ordine alla determina di convalida oggetto di impugnativa, come chiaramente
evincibile peraltro dal suo tenore letterale, la stessa ha inteso, ai sensi
dell’art. 21-nonies, comma 2, l. 241/1990, sanare il vizio di incompetenza
relativa di cui era affetta la delibera di Giunta Municipale, con la
conseguenza efficacia retroattiva della medesima delibera di convalida, i
cui effetti non potevano che decorrere dall’atto convalidato.
Invero, al riguardo:
- “L'esercizio del potere di convalida (mediante ratifica)
spettante all'organo competente sana con efficacia retroattiva l'atto
viziato da incompetenza relativa, ancorché quest'ultimo sia oggetto di
ricorso giurisdizionale pendente, ma fino a quando non ne sia intervenuto
l'annullamento; infatti il provvedimento di secondo grado con cui l'autorità
competente fa proprio un atto adottato da un organo riconosciuto
incompetente, esprimendo l'univoca volontà di eliminare il vizio suddetto,
costituisce un provvedimento di ratifica -o di convalida, secondo la
terminologia adottata dall'art. 6 l. n. 249 del 1968- il quale si
sostituisce all'atto viziato con effetto "ex tunc”;
- “Il provvedimento di convalida, correlato al vizio di
incompetenza, opera retroattivamente, sicché l'invalidità lamentata da parte
ricorrente è venuta meno ab origine, con conseguente carenza di interesse a
dedurre il vizio stesso, specie considerando che l'atto di convalida non è
stato oggetto di impugnazione”;
- “È legittima la deliberazione del consiglio comunale con cui si è
proceduto alla convalida della deliberazione della giunta comunale con la
quale era stato approvato, entro il termine perentorio previsto dalla legge,
il regolamento comunale relativo alla variazione dell'aliquota di
compartecipazione all'addizionale Irpef, considerato che ai sensi dell'art.
6 della legge 18.03.1968, n. 249, gli atti viziati da incompetenza
dell'organo emanante possono essere legittimamente convalidati con efficacia
retroattiva in sede di autotutela dall'organo competente, anche se avverso
di essi penda impugnativa, fino a quando non ne sia intervenuto
l'annullamento. Il provvedimento adottato ai sensi della norma citata
costituisce un provvedimento di ratifica -o di convalida secondo la
terminologia adottata dal legislatore- il quale si sostituisce all'atto
viziato con effetto ex tunc. Da parte della giurisprudenza i due principi
sono stati costantemente affermati, con la precisazione che l'esistenza di
una controversia giudiziaria non preclude la ratifica dell'atto solo se
questo non è stato già annullato durante il giudizio di prima istanza o
anche in appello, quando il ricorso di primo grado è stato respinto. Il
principio è oggi confermato dall'art. 21-nonies della legge n. 241 del
1990”).
Ed invero il potere di convalida, quale espressione di diritto positivo del
principio di conservazione degli atti giuridici, trae fondamento dall'art. 6
l. 18.03.1968, n. 249, norma con valenza generale, e sana con efficacia
retroattiva (cfr. art. 1444 c.c.) l'atto viziato da incompetenza, ancorché
quest'ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente. Il potere di
convalida è inoltre espressamente riconosciuto dall’art. 21-nonies, comma 2,
l. 241/1990, purché esso intervenga entro un termine ragionevole dall’atto
che si intenda convalidare.
---------------
- “La convalida di un atto amministrativo viziato è effettuata
dalla Pubblica Amministrazione nell'esercizio del proprio potere di autotutela decisionale ed all'esito di un procedimento di secondo grado,
laddove sussistano ragioni di pubblico interesse e non sia decorso un
termine ragionevole dall'adozione dell'atto illegittimo”;
- “Per ragioni di economia dei mezzi dell'azione amministrativa e
di conservazione dei valori giuridici, è possibile la sanatoria (o
convalida) di atti amministrativi affetti da vizi non afferenti al loro
contenuto sostanziale. Tale principio ha trovato da ultimo riscontro
normativo nell'art. 21-nonies, legge n. 241 del 1990, quale introdotto dalla
legge n. 15 del 2005, che espressamente consente la convalida del
provvedimento annullabile "sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed
entro un termine ragionevole".
---------------
- “In caso di proposizione di un ricorso giurisdizionale
avverso un provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni
giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento, l’atto di convalida del
provvedimento impugnato produce immediati effetti pregiudizievoli per i
ricorrenti, ai quali dunque deve essere garantito il rispetto della garanzie
di partecipazione previste dall’ordinamento, attraverso l’avviso di avvio
del procedimento”;
- “In caso di proposizione di ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni giuridiche
soggettive riconosciute dall’ordinamento in capo ai medesimi ricorrenti,
atteso che l’atto di convalida del provvedimento impugnato è tale da
provocare un immediato pregiudizio per i ricorrenti stessi, verso questi
ultimi pertanto deve essere garantito il rispetto delle garanzie
partecipative con l’invio della comunicazione di avvio del procedimento”.
---------------
In generale, va ricordato che l’art. 7, l. n. 241 cit. impone l’obbligo
della comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti nei cui
confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a
quelli che per legge debbono intervenirvi nonché agli altri soggetti,
individuati o facilmente individuabili, che possono subirne pregiudizio,
superando in tale maniera il modulo di definizione unilaterale del pubblico
interesse, oggetto, nei confronti dei destinatari di provvedimenti
restrittivi, di un riserbo ad excludendum, già ostilmente preordinato a
rendere impossibile o sommamente difficile la tutela giurisdizionale degli
interessati, introducendo il sistema della democraticità delle decisioni e
dell’accessibilità dei documenti amministrativi.
Orbene, in caso di proposizione di ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni giuridiche
soggettive riconosciute dall’ordinamento in capo ai medesimi ricorrenti
appare evidente come l’atto di convalida del provvedimento impugnato sia
tale da provocare un immediato pregiudizio per i ricorrenti stessi, verso i
quali pertanto deve essere garantito il rispetto delle garanzie
partecipative di cui alla normativa invocata.
Il rispetto delle predette garanzie emerge altresì dall’inquadramento del
potere di convalida nell’ambito del più generale potere di autotutela cioè
di incidere sui propri precedenti atti; tale opinione trova conferma nella
disciplina introdotta dalla recente riforma della l. 241 che ha inserito la
convalida nell’ambito dell’art. 21-nonies dedicato all’annullamento
d’ufficio.
---------------
13.1. In tale ottica va esaminata in via prioritaria, in quanto di carattere
assolutamente assorbente, avuto riguardo al decorso nelle more del giudizio
del termine di cinque anni dalla delibera della giunta comunale n. 107 del
12/09/2013 del Comune di Casoria, oggetto di convalida con la delibera del
Commissario straordinario del Comune di Casoria n. 57 del 30.05.2016, la
censura sollevata con il terzo motivo del ricorso per motivi
aggiunti, nella parte in cui si evidenzia che il Comune avrebbe
illegittimamente fatto decorrere il termine di cinque anni di efficacia
della dichiarazione di pubblica utilità, entro cui adottare il decreto di
esproprio, non dall’atto oggetto di convalida, ma dalla medesima
deliberazione di convalida, con conseguente elusione del termine massimo di
5 anni stabilito rispettivamente dall'art. 9, comma 2, e dall'art. 13, commi
3 e 4, D.P.R. 327/2001 (superando anche il termine di ulteriori due anni di
proroga della pubblica utilità previsto dal comma 5).
13.2. La stessa è fondata in considerazione del rilievo che la determina di
convalida oggetto di impugnativa, come chiaramente evincibile peraltro dal
suo tenore letterale, ha inteso, ai sensi dell’art. 21-nonies, comma 2, l.
241/1990, sanare il vizio di incompetenza relativa di cui era affetta la
delibera di Giunta Municipale n. 107 del 2013, con la conseguenza efficacia
retroattiva della medesima delibera di convalida, i cui effetti non potevano
che decorrere dall’atto convalidato (ex multis TAR Catania, (Sicilia)
sez. III, 29/04/2011, n. 1071, secondo cui, “L'esercizio del potere di
convalida (mediante ratifica) spettante all'organo competente sana con
efficacia retroattiva l'atto viziato da incompetenza relativa, ancorché
quest'ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente, ma fino a
quando non ne sia intervenuto l'annullamento; infatti il provvedimento di
secondo grado con cui l'autorità competente fa proprio un atto adottato da
un organo riconosciuto incompetente, esprimendo l'univoca volontà di
eliminare il vizio suddetto, costituisce un provvedimento di ratifica -o di
convalida, secondo la terminologia adottata dall'art. 6 l. n. 249 del 1968-
il quale si sostituisce all'atto viziato con effetto "ex tunc”;
- in senso analogo TAR Milano, (Lombardia) sez. III, 06/04/2010, (ud.
18/02/2010, dep. 06/04/2010), n. 988 secondo cui “Il provvedimento di
convalida, correlato al vizio di incompetenza, opera retroattivamente,
sicché l'invalidità lamentata da parte ricorrente è venuta meno ab origine,
con conseguente carenza di interesse a dedurre il vizio stesso, specie
considerando che l'atto di convalida non è stato oggetto di impugnazione”;
- TAR Firenze, (Toscana) sez. I, 20/03/2008, n. 411 secondo cui “È
legittima la deliberazione del consiglio comunale con cui si è proceduto
alla convalida della deliberazione della giunta comunale con la quale era
stato approvato, entro il termine perentorio previsto dalla legge, il
regolamento comunale relativo alla variazione dell'aliquota di
compartecipazione all'addizionale Irpef, considerato che ai sensi dell'art.
6 della legge 18.03.1968, n. 249, gli atti viziati da incompetenza
dell'organo emanante possono essere legittimamente convalidati con efficacia
retroattiva in sede di autotutela dall'organo competente, anche se avverso
di essi penda impugnativa, fino a quando non ne sia intervenuto
l'annullamento. Il provvedimento adottato ai sensi della norma citata
costituisce un provvedimento di ratifica -o di convalida secondo la
terminologia adottata dal legislatore- il quale si sostituisce all'atto
viziato con effetto ex tunc. Da parte della giurisprudenza i due principi
sono stati costantemente affermati, con la precisazione che l'esistenza di
una controversia giudiziaria non preclude la ratifica dell'atto solo se
questo non è stato già annullato durante il giudizio di prima istanza o
anche in appello, quando il ricorso di primo grado è stato respinto. Il
principio è oggi confermato dall'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990”).
Ed invero il potere di convalida, quale espressione di diritto positivo del
principio di conservazione degli atti giuridici, trae fondamento dall'art. 6
l. 18.03.1968, n. 249, norma con valenza generale, e sana con efficacia
retroattiva (cfr. art. 1444 c.c.) l'atto viziato da incompetenza, ancorché
quest'ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente. Il potere di
convalida è inoltre espressamente riconosciuto dall’art. 21-nonies, comma 2,
l. 241/1990, purché esso intervenga entro un termine ragionevole dall’atto
che si intenda convalidare.
13.3. Le conclusioni innanzi evidenziate sono nell’ipotesi di specie tanto
più valide, avuto riguardo alla circostanza che per contro la delibera di
Giunta Comunale n. 6 del 2014, di approvazione del progetto esecutivo –che
non può che essere successiva all’approvazione del progetto definitivo– con
la delibera del commissario straordinario viene sottoposta ad atto meramente
confermativo, come claris verbis evincibile dalla relativa
motivazione, senza nuova istruttoria e motivazione, con la conseguenza che
la delibera del commissario straordinario, rispetto al progetto esecutivo,
non ha alcuna natura novativa in senso provvedimentale.
Ciò a dimostrazione della circostanza che con la delibera del Commissario
straordinario non si è inteso rinnovare in toto la procedura
espropriativa –altrimenti avrebbe dovuto procedersi anche alla
riapprovazione, con atto di conferma in senso proprio e non con atto
meramente confermativo, del progetto esecutivo– ma semplicemente emendare,
con efficacia retroattiva, l’atto di approvazione del progetto definitivo
dal vizio di incompetenza relativa da cui era affetto.
Pertanto illegittimamente e contraddittoriamente, con la delibera del
commissario straordinario, nonostante il chiaro richiamo all’art. 21-nonies,
comma 2, l. 241/1990 e alla circostanza che si intendesse emendare il vizio
di incompetenza relativa da cui era affetto l’atto della G.M. di
approvazione del progetto definitivo, sottoponendo peraltro ad atto
meramente confermativo l’atto di approvazione del progetto esecutivo, si è
fatto decorrere il termine di cinque anni, entro il quale adottare il
decreto di esproprio, non dall’atto convalidato ma dal provvedimento di
convalida.
13.4. Peraltro così facendo il Comune ha inoltre eluso il termine di cinque
anni posto dall'art. 13, commi 3 e 4, D.P.R. 327/2001 (superando anche il
termine di ulteriori due anni di proroga della pubblica utilità previsto dal
comma 5) (cfr. al riguardo, in ordine alla natura perentoria del termine di
efficacia della dichiarazione di pubblica utilità ex multis Cons.
Stato Sez. IV Sent., 26/07/2011, n. 4457 secondo cui “L'art. 13 del
D.P.R. n. 327 del 2001, dal titolo "Contenuto ed effetti dell'atto che
comporta la dichiarazione di pubblica utilità", al comma 3 prevede che "nel
provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera
può essere stabilito il termine entro il quale il decreto di esproprio va
emanato"; al successivo comma 4 poi è espressamente contemplato che "se
manca l'espressa determinazione del termine di cui al comma 3, il decreto di
esproprio può essere emanato entro il termine di cinque anni, decorrente
dalla data in cui diventa efficace l'atto che dichiara la pubblica utilità
dell'opera"; ancora, al comma 5 è stabilito che "l'autorità che
dichiarato la pubblica utilità dell'opera può disporre la proroga dei
termini previsti dai commi 3 e 4 per casi di forza maggiore o per altre
giustificate ragioni. La proroga può essere disposta anche d’ufficio, prima
della scadenza del termine, per un periodo non superiore a due anni";
quindi al sesto comma è previsto che "la scadenza del termine entro il
quale può essere emanato il decreto di esproprio determina l'inefficacia
della dichiarazione di pubblica utilità". Sulla natura perentoria e non
ordinatoria del termine quinquennale entro cui adottare l'atto conclusivo
del procedimento ablativo, non pare sussistano dubbi, in ossequio ad un più
che ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale "al
termine finale va riconosciuto, a differenza del termine iniziale, natura
perentoria e tanto con riferimento anche al regime giuridico descritto sul
punto dall'art. 13 della legge n. 2359 del 1865, norma sostanzialmente
riprodotta nell'omologo art. 13 del D.P.R. n. 327/2001” (conferma della
sentenza del Tar Lombardia-Brescia, sez. II, n. 2072/2010).
14. Nonostante il carattere assorbente dell’indicata censura, avuto riguardo
all’intervenuto decorso del termine quinquennale, con conseguente
impossibilità per il Comune di adottare il decreto di esproprio, va
osservato che parimenti fondato è il primo motivo di ricorso, nella
parte in cui i ricorrenti si dolgono della violazione del disposto dell’art.
21-nonies, comma 2, l. 241/1990, per essere stato l’atto di convalida
adottato dopo un lungo lasso di tempo, ovvero due anni e otto mesi,
dall’atto convalidato e quindi oltre il termine ragionevole previsto dalla
legge (ex multis Cons. Stato Sez. IV, 26/10/2018, n. 6125 secondo cui
“La convalida di un atto amministrativo viziato è effettuata dalla
Pubblica Amministrazione nell'esercizio del proprio potere di autotutela
decisionale ed all'esito di un procedimento di secondo grado, laddove
sussistano ragioni di pubblico interesse e non sia decorso un termine
ragionevole dall'adozione dell'atto illegittimo”; in senso analogo Cons.
Stato Sez. IV, 18/05/2017, n. 2351, Cons. Stato Sez. IV Sent., 18/05/2017,
n. 2351; Cons. Stato Sez. VI, 20/04/2006, n. 2198, secondo cui “Per
ragioni di economia dei mezzi dell'azione amministrativa e di conservazione
dei valori giuridici, è possibile la sanatoria (o convalida) di atti
amministrativi affetti da vizi non afferenti al loro contenuto sostanziale.
Tale principio ha trovato da ultimo riscontro normativo nell'art. 21-nonies,
legge n. 241 del 1990, quale introdotto dalla legge n. 15 del 2005, che
espressamente consente la convalida del provvedimento annullabile
"sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine
ragionevole").
Ed invero, si deve ritenere, avuto riguardo al termine quinquennale di
validità della dichiarazione di pubblica utilità, che il termine di due anni
e otto mesi, pari ad oltre la metà di detto termine, non sia un termine
ragionevole, avuto anche riguardo alla circostanza che parte ricorrente, già
con la notifica del ricorso introduttivo dell’odierno giudizio, avvenuta in
data 28.10.2014, aveva sollevato la censura di incompetenza da cui era
affetta la delibera della giunta comunale n. 107 del 12/09/2013, confidando
nel relativo annullamento giurisdizionale e che pertanto il Comune avrebbe
dovuto prontamente attivarsi in ordine alla sua convalida, intervenuta per
contro solo in data 30.05.2016.
15. Fondata è inoltre la censura, del pari riferita all’atto di convalida,
formulata nel secondo motivo di ricorso, relativa alla violazione
dell’art. 7 della l. 241/1990, per non essere stato lo stesso preceduto
dalla comunicazione di avvio del procedimento, tanto più necessaria in
relazione agli atti di autotutela, avuto riguardo al loro carattere
discrezionale.
15.1. Peraltro nell’ipotesi di specie in alcun modo poteva essere bypassata
la comunicazione di avvio del procedimento, avuto riguardo alla pendenza del
ricorso giurisdizionale avverso l’atto convalidato e all’affidabilità
nutrita dalla parte ricorrente in ordine al suo annullamento, quanto meno in
relazione alla sollevata censura di incompetenza relativa dell’atto giuntale
di approvazione del progetto definitivo (in senso analogo TAR Campania,
Salerno, sez. II. 14/12/2011, n. 1991).
Come indicato nella citata pronuncia infatti in giurisprudenza deve
intendersi prevalente l’affermazione della necessità di tale adempimento
formale, proprio nel caso di convalida di vizi, fatti risaltare a mezzo di
ricorso giurisdizionale amministrativo: “In caso di proposizione di un
ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento amministrativo ritenuto
lesivo delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento,
l’atto di convalida del provvedimento impugnato produce immediati effetti
pregiudizievoli per i ricorrenti, ai quali dunque deve essere garantito il
rispetto della garanzie di partecipazione previste dall’ordinamento,
attraverso l’avviso di avvio del procedimento” (TAR Trentino Alto Adige
Trento, 02.01.2007, n. 4); “In caso di proposizione di ricorso
giurisdizionale avverso un provvedimento amministrativo ritenuto lesivo
delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento in capo
ai medesimi ricorrenti, atteso che l’atto di convalida del provvedimento
impugnato è tale da provocare un immediato pregiudizio per i ricorrenti
stessi, verso questi ultimi pertanto deve essere garantito il rispetto delle
garanzie partecipative con l’invio della comunicazione di avvio del
procedimento” (TAR Liguria Genova, sez. I, 07.04.2006, n. 353).
Nella parte motiva della decisione, da ultimo citata, significativamente si
legge: “Del pari fondato appare il sesto motivo di gravame laddove si
censura l’adozione di un atto di convalida senza il rispetto delle garanzie
partecipative al relativo procedimento facenti capo ai soggetti che quel
provvedimento hanno impugnato in sede giurisdizionale.
In generale, va ricordato che l’art. 7, l. n. 241 cit. impone l’obbligo
della comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti nei cui
confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a
quelli che per legge debbono intervenirvi nonché agli altri soggetti,
individuati o facilmente individuabili, che possono subirne pregiudizio,
superando in tale maniera il modulo di definizione unilaterale del pubblico
interesse, oggetto, nei confronti dei destinatari di provvedimenti
restrittivi, di un riserbo ad excludendum, già ostilmente preordinato a
rendere impossibile o sommamente difficile la tutela giurisdizionale degli
interessati, introducendo il sistema della democraticità delle decisioni e
dell’accessibilità dei documenti amministrativi (cfr. ad es. Consiglio
Stato, sez. VI, 30.12.2005, n. 7592).
Orbene, in caso di proposizione di ricorso giurisdizionale avverso un
provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni giuridiche
soggettive riconosciute dall’ordinamento in capo ai medesimi ricorrenti
appare evidente come l’atto di convalida del provvedimento impugnato sia
tale da provocare un immediato pregiudizio per i ricorrenti stessi, verso i
quali pertanto deve essere garantito il rispetto delle garanzie
partecipative di cui alla normativa invocata.
Il rispetto delle predette garanzie emerge altresì dall’inquadramento del
potere di convalida nell’ambito del più generale potere di autotutela cioè
di incidere sui propri precedenti atti; tale opinione trova conferma nella
disciplina introdotta dalla recente riforma della l. 241 che ha inserito la
convalida nell’ambito dell’art. 21-nonies dedicato all’annullamento
d’ufficio”.
16. In considerazione delle precedenti considerazioni, il ricorso per motivi
aggiunti va accolto, con assorbimento delle ulteriori censure, avuto
riguardo tra l’altro all’intervenuto decorso del termine di cinque anni di
validità della dichiarazione di pubblica utilità, secondo quanto evidenziato
nella disamina del terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti, con
conseguente annullamento della delibera del Commissario straordinario del
Comune di Casoria n. 57 del 30.05.2016, nonché dei relativi atti
consequenziali fra cui (avuto riguardo alla ritenuta retroattività delle
delibera del commissario straordinario) la delibera n. 6 del 23/01/2014
della Giunta comunale di Casoria, di approvazione del progetto esecutivo
dell'opera
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 01.09.2020 n. 3716 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Per
giurisprudenza pacifica, malgrado il mero ripristino della presunta legalità
violata non possa di per sé sorreggere il ritiro in autotutela, ciò ha
tuttavia luogo ogni qualvolta la posizione del destinatario del
provvedimento rimosso si sia consolidata, suscitando un affidamento sulla
sua legittimità, essendo in tale caso l'esercizio del potere di secondo
grado subordinato alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e
attuale all'annullamento, prevalente su quello del privato alla
conservazione del titolo legittimo.
Viceversa, quando non sia ingenerato alcun legittimo affidamento nel
destinatario, poiché ad esempio, come ha avuto luogo nel caso di specie,
l'annullamento d'ufficio interviene a breve distanza di tempo, non è invece
necessaria una penetrante motivazione sull'interesse pubblico, né una sua
comparazione con quello del privato sacrificato, posto che, in tali casi,
l'interesse all'annullamento può considerarsi “in re ipsa”.
---------------
In
base a quanto previsto dall’art. 21-nonies, c. 2, L. n. 241/1990, “è fatta
salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico” che, nel caso di specie,
risultano tuttavia assenti, sia in ragione della palese violazione dell’art.
6-bis L. n. 241/1990, e del sotteso interesse pubblico di rango
costituzionale al buon andamento ed all’imparzialità dell’azione
amministrativa, che del breve lasso di tempo intercorso tra il provvedimento
e l’esercizio dell’autotutela.
Inoltre, rientrando la convalida dell'atto viziato nell'esercizio della
discrezionalità dell'Amministrazione, dall’omesso esercizio di tale potere,
non possono desumersi vizi di irragionevolezza, in presenza
dell'illegittimità della procedura e del provvedimento finale.
---------------
III.1) Con il secondo motivo, l’istante lamenta la mancanza di un
concreto interesse pubblico all’esercizio del potere di autotutela, ciò che
ne renderebbe illegittimo l’esercizio.
Il motivo è infondato considerato che, per giurisprudenza pacifica, malgrado
il mero ripristino della presunta legalità violata non possa di per sé
sorreggere il ritiro in autotutela, ciò ha tuttavia luogo ogni qualvolta la
posizione del destinatario del provvedimento rimosso si sia consolidata,
suscitando un affidamento sulla sua legittimità, essendo in tale caso
l'esercizio del potere di secondo grado subordinato alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale all'annullamento, prevalente su quello
del privato alla conservazione del titolo legittimo (TAR Liguria, Sez. I,
26.07.2017, n. 687).
Viceversa, quando non sia ingenerato alcun legittimo affidamento nel
destinatario, poiché ad esempio, come ha avuto luogo nel caso di specie,
l'annullamento d'ufficio interviene a breve distanza di tempo, non è invece
necessaria una penetrante motivazione sull'interesse pubblico, né una sua
comparazione con quello del privato sacrificato, posto che, in tali casi,
l'interesse all'annullamento può considerarsi “in re ipsa” (TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 23.10.2019, n. 2215, TAR Lazio, Roma, Sez. II,
07.03.2017, n. 3204).
...
IV) Con il terzo motivo,
l’istante lamenta il mancato esercizio del potere di convalida, essendo
pacifico, a suo dire, il suo possesso dei requisiti necessari ad ottenere
l’assegnazione dell’incarico annullato dal provvedimento impugnato.
Osserva il Collegio che, in base a quanto previsto dall’art. 21-nonies, c.
2, L. n. 241/1990, “è fatta salva la possibilità di convalida del
provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico”,
che come detto, nel caso di specie, risultano tuttavia assenti, sia in
ragione della palese violazione dell’art. 6-bis L. n. 241/1990, e del
sotteso interesse pubblico di rango costituzionale al buon andamento ed
all’imparzialità dell’azione amministrativa, che del breve lasso di tempo
intercorso tra il provvedimento e l’esercizio dell’autotutela.
Inoltre, rientrando la convalida dell'atto viziato nell'esercizio della
discrezionalità dell'Amministrazione, dall’omesso esercizio di tale potere,
non possono desumersi vizi di irragionevolezza, in presenza
dell'illegittimità della procedura e del provvedimento finale (TAR Campania,
Napoli, Sez. V, 01.02.2016, n. 607) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 03.04.2020 n. 590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
potere di convalida del provvedimento amministrativo illegittimo, previsto
dall’art. 21-novies, comma 2, della l. 07.08.1990, n. 241, ha quali unici
presupposti le ragioni di interesse pubblico e il rispetto di un termine
ragionevole.
L’istituto in esame si inquadra nel fenomeno della “convalescenza” dell’atto
amministrativo, che si verifica allorquando la Pubblica amministrazione, in
presenza di un atto annullabile per illegittimità, ritenga con una propria
determinazione volitiva, anziché di procedere al ritiro mediante
l’annullamento, di mantenerlo in vita eliminando i vizi che lo inficiano.
Trattasi, cioè, di atto espressivo di un potere di autotutela conservativa,
destinato in quanto tale a sanare retroattivamente i vizi di atti già
adottati senza tuttavia provvedere alla sostituzione di questi in modo da
assumere autonoma efficacia abilitativa.
Afferma il TAR Veneto che il requisito dell’interesse pubblico nella
convalida non può «essere enfatizzato, in quanto un atto di convalida trova
la sua giustificazione nell’evitare le conseguenze negative
dell’illegittimità di un provvedimento e nell’esigenza del ripristino della
legalità».
La ragione di interesse pubblico sottesa all’opzione per la convalida,
anziché per la riedizione del relativo potere amministrativo, è da ravvisare
nelle esigenze di economia dei mezzi giuridici e di conservazione degli atti
sottesi alla codifica del relativo istituto.
---------------
16. Ritiene infine la Sezione di poter trattare congiuntamente gli ultimi
due motivi di gravame, in quanto riproduttivi delle doglianze esposte nei
motivi aggiunti con specifico riguardo alla reiterazione del provvedimento
quale “convalida” del precedente, emendato dei vizi paventati
nell’ordinanza cautelare n. 878/2005: in essa, dunque, non si sarebbe dato
debito conto delle osservazioni della parte, con ciò depauperandone la
disposta partecipazione al procedimento, e di fatto omettendo di valutare le
aporie ed incongruenze ampiamente descritte nei paragrafi precedenti.
Il potere di convalida del provvedimento amministrativo illegittimo,
previsto dall’art. 21-novies, comma 2, della l. 07.08.1990, n. 241, ha quali
unici presupposti le ragioni di interesse pubblico e il rispetto di un
termine ragionevole.
L’istituto in esame si inquadra nel fenomeno della “convalescenza”
dell’atto amministrativo, che si verifica allorquando la Pubblica
amministrazione, in presenza di un atto annullabile per illegittimità,
ritenga con una propria determinazione volitiva, anziché di procedere al
ritiro mediante l’annullamento, di mantenerlo in vita eliminando i vizi che
lo inficiano. Trattasi, cioè, di atto espressivo di un potere di autotutela
conservativa, destinato in quanto tale a sanare retroattivamente i vizi di
atti già adottati senza tuttavia provvedere alla sostituzione di questi in
modo da assumere autonoma efficacia abilitativa (Cons. Stato, sez. V, sez.
V, 18.12.2017, n. 5928; id., 07.07.2015, n. 3340).
Afferma il TAR per il Veneto
(Sez. II,
sentenza 12.12.2012 n. 1540) che il requisito dell’interesse pubblico nella
convalida non può «essere enfatizzato, in quanto un atto di convalida
trova la sua giustificazione nell’evitare le conseguenze negative
dell’illegittimità di un provvedimento e nell’esigenza del ripristino della
legalità».
Nella specie, si è in presenza di un provvedimento nuovo (il decreto di
convalida del 14.02.2007), ma che si collega all’atto convalidato (permesso
di costruire in sanatoria del 06.11.2003), al fine di mantenerne fermi gli
effetti fin dal momento in cui questo venne emanato (efficacia ex tunc),
con il preciso scopo di operare una sanatoria dell’atto viziato nel momento
storico di avvenuta instaurazione della controversia giudiziaria, senza che
in ciò possa rinvenirsi una qualsiasi volontà di riesercizio di un’attività
discrezionale e/o di amministrazione attiva esercitata per la prima volta.
La ragione di interesse pubblico sottesa all’opzione per la convalida,
anziché per la riedizione del relativo potere amministrativo, è da ravvisare
nelle esigenze di economia dei mezzi giuridici e di conservazione degli atti
sottesi alla codifica del relativo istituto: preso atto della assentibilità
dell’istanza, ontologicamente volta ad incidere su un intervento già
realizzato, comunque l’effetto sanante avrebbe dovuto incidere sullo stato
di fatto per come prospettato al momento della presentazione dell’istanza.
Ciò a maggior ragione avuto riguardo alla tipologia di vizio che il Comune
di Venezia, in via del tutto tuzioristica, ha inteso sanare in adesione alle
indicazioni del giudice di prime cure ed evitando ulteriore pregiudizio,
riveniente dall’accentuata situazione di incertezza, per il richiedente il
titolo, ovvero il mancato preventivo coinvolgimento di un soggetto che, agli
esiti dell’odierno giudizio, non aveva alcun titolo a prendere parte al
relativo procedimento
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 16.03.2020 n. 1889 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
presupposto alla base della convalida del provvedimento amministrativo è rappresentato
dall’appropriazione da parte dell’autorità competente dell’atto in
precedenza adottato dall’autorità incompetente.
In particolare, la convalida “… può verificarsi nel caso di atti invalidi
per vizi formali o di procedura o per incompetenza: in tale ultima ipotesi
il potere di convalida è naturalmente di spettanza di una autorità diversa
da quella che ha adottato l’atto originario ... essendo pacifico in dottrina
e giurisprudenza che alla convalida può provvedere
anche una autorità diversa da quella che ha adottato l’atto da convalidare”.
---------------
Secondo pacifico orientamento, “il vizio di incompetenza, quale
vizio di legittimità dell’atto amministrativo, comporta soltanto la
annullabilità e non la nullità dell’atto stesso”.
In ogni caso, «… Con riguardo al tema generale della nullità, si è affermato che “nel diritto
amministrativo la nullità costituisce una forma speciale di invalidità, che
si ha nei soli casi, oggi meglio definiti dal legislatore, in cui sia
specificamente sancita dalla legge, mentre l’annullabilità del provvedimento
costituisce la regola generale di invalidità del provvedimento, a differenza
di quanto avviene nel diritto civile dove la regola generale in caso di
violazione di norme imperative è quella della nullità” …».
Nel caso di specie, l’esistenza della previsione di cui all’art. 21-nonies,
comma 2, legge n. 241/1990 esclude in radice che l’asserito vizio di
incompetenza del Sindaco ad emettere l’ordinanza impugnata possa ritenersi
suscettibile di determinare la nullità del medesimo provvedimento.
---------------
La convalida in pendenza di giudizio del provvedimento gravato è
stata correttamente ritenuta necessaria dalla P.A. al fine di perseguire la
finalità dell’economia dei mezzi giuridici, oltre che per garantire
l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa, in nome dei quali
l’Amministrazione deve rimuovere prontamente eventuali vizi fatti constare
dai privati, sanando ove occorra gli atti già adottati.
«… La convalida, sotto un profilo spiccatamente dottrinario, è figura del
sistema amministrativo facente parte del più ampio fenomeno dell’autotutela,
potere in virtù del quale la P.A. ha la facoltà di sanare i propri atti da
vizi di legittimità, in applicazione, come evidenziato dalla giurisprudenza, del principio di economia dei
mezzi giuridici e di conservazione degli atti.
Essa consiste, in particolare in una manifestazione di volontà della
pubblica amministrazione rivolta ad eliminare il vizio dell’atto
(originariamente) invalido, in genere per vizi formali o di procedura o per
incompetenza.
Le ragioni di economia dei mezzi giuridici poi è il principio che è stato
tenuto in passato in considerazione dalla giurisprudenza al fine di
consentire l’esercizio del potere di convalida avente ad oggetto anche un
atto che sia sub iudice; e
comunque l’ammissibilità della convalida di un atto nelle more del giudizio
è da ritenersi ormai fuor di dubbio alla luce della novella recata dall’art.
21-nonies della legge n. 241/1990, norma che ha previsto la possibilità, in
generale, di convalida dell’atto per ragioni di pubblico interesse ed entro
un ragionevole lasso temporale, senza che il legislatore abbia previsto come causa preclusiva la
pendenza di un giudizio. …».
---------------
4.2.2.1. - Con il primo motivo aggiunto il ricorrente afferma
che il soggetto competente ad emanare il provvedimento di convalida sarebbe
la stessa autorità firmataria del provvedimento da convalidare, ovvero, nel
caso di specie, il Sindaco.
La censura si pone innanzitutto in contraddizione con il ricorso
introduttivo del giudizio, laddove invece il So. ha sostenuto
l’incompetenza del Sindaco ad emanare l’ordinanza di rilascio.
In ogni caso, il motivo è infondato: infatti il presupposto alla base della
convalida del provvedimento amministrativo è rappresentato
dall’appropriazione da parte dell’autorità competente dell’atto in
precedenza adottato dall’autorità incompetente.
In particolare, la convalida “… può verificarsi nel caso di atti invalidi
per vizi formali o di procedura o per incompetenza: in tale ultima ipotesi
il potere di convalida è naturalmente di spettanza di una autorità diversa
da quella che ha adottato l’atto originario ... essendo pacifico in dottrina
e giurisprudenza -come si è sopra detto- che alla convalida può provvedere
anche una autorità diversa da quella che ha adottato l’atto da convalidare”
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 09.07.2010, n. 4460).
Parimenti non è meritevole di positivo apprezzamento l’argomento utilizzato
da parte ricorrente secondo cui non ricorrerebbero i presupposti per la
convalida dell’ordinanza sindacale, poiché quest’ultima sarebbe affetta da
nullità e non da semplice illegittimità.
Tuttavia, secondo pacifico orientamento, “il vizio di incompetenza, quale
vizio di legittimità dell’atto amministrativo, comporta soltanto la
annullabilità e non la nullità dell’atto stesso” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
29.05.2009, n. 3371).
In ogni caso, «… Con riguardo al tema generale della nullità, si è affermato
(Cons. Stato, sez. VI, n. 3173/2007 e n. 891/2006) che “nel diritto
amministrativo la nullità costituisce una forma speciale di invalidità, che
si ha nei soli casi, oggi meglio definiti dal legislatore, in cui sia
specificamente sancita dalla legge, mentre l’annullabilità del provvedimento
costituisce la regola generale di invalidità del provvedimento, a differenza
di quanto avviene nel diritto civile dove la regola generale in caso di
violazione di norme imperative è quella della nullità” …» (Cons. Stato, Sez.
IV, 28.10.2011, n. 5799).
Nel caso di specie, l’esistenza della previsione di cui all’art. 21-nonies,
comma 2, legge n. 241/1990 esclude in radice che l’asserito vizio di
incompetenza del Sindaco ad emettere l’ordinanza impugnata possa ritenersi
suscettibile di determinare la nullità del medesimo provvedimento.
Né a diverse conclusioni si perviene sulla base del parere dell’Avvocatura
Distrettuale dello Stato menzionato dal So. a pag. 8 del ricorso per
motivi aggiunti, il quale anzi afferma che “l’esercizio del potere di
ordinanza, nel caso di specie, pare riconducibile non già all’alveo
dell’art. 54 d.lgs. 267/2000, bensì nell’ambito del potere di autotutela
riconosciuto per la tutela dei beni demaniali”.
Adeguandosi a tali valutazioni, il Comune di San Marco in Lamis, a mezzo del
proprio dirigente, competente in materia, ha convalidato gli effetti
dell’ordinanza sindacale disponendo il rilascio del bene.
Priva di pregio è, infine, la lamentata frustrazione dell’effettività del
rimedio giurisdizionale relativamente all’impugnazione dell’ordinanza
sindacale, frustrazione che secondo la prospettazione di parte ricorrente si
avrebbe a seguito dell’emissione del provvedimento di convalida.
Al
contrario, la convalida in pendenza di giudizio del provvedimento gravato è
stata correttamente ritenuta necessaria dalla P.A. al fine di perseguire la
finalità dell’economia dei mezzi giuridici, oltre che per garantire
l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa, in nome dei quali
l’Amministrazione deve rimuovere prontamente eventuali vizi fatti constare
dai privati, sanando ove occorra gli atti già adottati.
Ha evidenziato, a tal proposito, Cons. Stato, Sez. IV, 14.10.2011, n. 5538:
«… La convalida, sotto un profilo spiccatamente dottrinario, è figura del
sistema amministrativo facente parte del più ampio fenomeno dell’autotutela,
potere in virtù del quale la P.A. ha la facoltà di sanare i propri atti da
vizi di legittimità, in applicazione, come evidenziato dalla giurisprudenza
(cfr. Cons. Stato Sez. IV 09/07/2010 n. 4460), del principio di economia dei
mezzi giuridici e di conservazione degli atti.
Essa consiste, in particolare in una manifestazione di volontà della
pubblica amministrazione rivolta ad eliminare il vizio dell’atto
(originariamente) invalido, in genere per vizi formali o di procedura o per
incompetenza.
Le ragioni di economia dei mezzi giuridici poi è il principio che è stato
tenuto in passato in considerazione dalla giurisprudenza al fine di
consentire l’esercizio del potere di convalida avente ad oggetto anche un
atto che sia sub iudice (cfr. Cons. Stato Sez. IV 26/06/1998 n. 991); e
comunque l’ammissibilità della convalida di un atto nelle more del giudizio
è da ritenersi ormai fuor di dubbio alla luce della novella recata dall’art.
21-nonies della legge n. 241/1990, norma che ha previsto la possibilità, in
generale, di convalida dell’atto per ragioni di pubblico interesse ed entro
un ragionevole lasso temporale (disposizione peraltro espressamente
richiamata dalla nota di avvio del procedimento di convalida per cui è
causa), senza che il legislatore abbia previsto come causa preclusiva la
pendenza di un giudizio. …».
In definitiva, il primo motivo aggiunto è infondato
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 12.02.2019 n. 228 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’art.
21-nonies della legge 241/1990 prevede che “è fatta salva la possibilità di
convalida del provvedimento annullamento, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico”.
Dunque, il potere di convalida dell’atto amministrativo ha sempre natura
discrezionale e non ha mai natura vincolata, dovendo sempre
l’amministrazione valutare la sussistenza delle ragioni di interesse
pubblico.
Peraltro, la convalida dell’atto affetto dal solo vizi di incompetenza
deve essere effettuata non dall’organo incompetente, ma dall’organo
effettivamente competente
---------------
9.3.- I motivi aggiunti sono infondati.
L’art. 21-nonies della legge 241/1990 prevede che “è fatta salva la
possibilità di convalida del provvedimento annullamento, sussistendone le
ragioni di interesse pubblico”.
Dunque, il potere di convalida dell’atto amministrativo ha sempre natura
discrezionale e non ha mai natura vincolata, dovendo sempre
l’amministrazione valutare la sussistenza delle ragioni di interesse
pubblico.
Peraltro, la convalida dell’atto affetto dal solo vizi di incompetenza
deve essere effettuata non dall’organo incompetente, ma dall’organo
effettivamente competente
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 04.01.2019 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ove
anche si ritenesse l’atto presidenziale viziato da illegittimità, si
tratterebbe di incompetenza relativa ex art. 21-octies, co.
1, della legge 241/1990, tale quindi da determinare annullabilità e non
nullità dell’atto (come accadrebbe nell’ipotesi, non ricorrente nella
specie, di difetto assoluto di attribuzioni).
Trattasi pertanto di vizio sanabile ai sensi
dell’art. 21-nonies, comma 2, della Legge n. 241/1990 attraverso un
provvedimento di convalida, il quale assume, tradizionalmente, la
denominazione di “ratifica” quando è diretto a sanare un vizio di
incompetenza.
L’efficacia sanante ha efficacia “ex tunc” secondo indirizzi
consolidati sia teorici che giurisprudenziali e, poiché il Consiglio
delegante ha ratificato “in toto” l’attività delegata, debbono ritenersi
definitivamente consolidati e stabilizzati gli effetti degli atti compiuti
dal Presidente per la formazione della Commissione per l’esame finale di
idoneità dei candidati.
Al riguardo, a supporto dell’argomentazione che precede, giova citare un
recente arresto del Consiglio di Stato secondo cui “…l'originaria
illegittimità è stata sanata dalla ratifica con le due delibere consiliari
da ultimo ricordate, emesse da quello che è l'organo investito del potere di
adottare gli atti in questione, ovvero il consiglio d'amministrazione del
Consorzio odierno appellante principale.
Deve poi evidenziarsi che in virtù
degli artt. 21-nonies, comma 2, l. 07.08.1990, n. 241, e 6, l. 18.03.1968,
n. 249 (Delega al Governo per il riordinamento dell'Amministrazione dello
Stato, per il decentramento delle funzioni e per il riassetto delle carriere
e delle retribuzioni dei dipendenti statali), l'atto amministrativo può
essere convalidato dall'autorità amministrativa anche in pendenza del
giudizio di impugnazione, e finanche in grado d'appello, con la sola
esclusione dell'ipotesi che sia intervenuta una sentenza passata in
giudicato.
Quindi, nell'ambito di questo generale
potere di convalida rientra la specifica ipotesi della ratifica, la quale
consiste nella sanatoria di atti affetti dal vizio dell'incompetenza
relativa, come appunto avvenuto nel caso di specie”.
---------------
Il Collegio ritiene che sia dirimente nella specie il dato
oggettivo dell’avvenuta ratifica deliberata dal Consiglio in data
25.11.2016, in quanto gli effetti sananti ed “ex tunc” di essa (che non
risulta peraltro impugnata dal ricorrente) consentono anche di prescindere
dalla necessità di approfondire la censura relativa alla validità della
delega che parte ricorrente collega alla mancanza di una previsione
normativa (almeno regolamentare) che la autorizzasse.
Infatti, ove anche si ritenesse l’atto presidenziale viziato da
illegittimità, si tratterebbe di incompetenza relativa ex art. 21-octies, co.
1, della legge 241/1990, tale quindi da determinare annullabilità e non
nullità dell’atto (come accadrebbe nell’ipotesi, non ricorrente nella
specie, di difetto assoluto di attribuzioni).
Trattasi pertanto, come
giustamente ritenuto dall’Ente resistente, di vizio sanabile ai sensi
dell’art. 21-nonies, comma 2, della Legge n. 241/1990 attraverso un
provvedimento di convalida, il quale assume, tradizionalmente, la
denominazione di “ratifica” quando è diretto a sanare un vizio di
incompetenza.
L’efficacia sanante ha efficacia “ex tunc” secondo indirizzi
consolidati sia teorici che giurisprudenziali e, poiché il Consiglio
delegante ha ratificato “in toto” l’attività delegata, debbono ritenersi
definitivamente consolidati e stabilizzati gli effetti degli atti compiuti
dal Presidente per la formazione della Commissione per l’esame finale di
idoneità dei candidati.
Al riguardo, a supporto dell’argomentazione che precede, giova citare un
recente arresto del Consiglio di Stato secondo cui “…l'originaria
illegittimità è stata sanata dalla ratifica con le due delibere consiliari
da ultimo ricordate, emesse da quello che è l'organo investito del potere di
adottare gli atti in questione, ovvero il consiglio d'amministrazione del
Consorzio odierno appellante principale.
Deve poi evidenziarsi che in virtù
degli artt. 21-nonies, comma 2, l. 07.08.1990, n. 241, e 6, l. 18.03.1968, n. 249 (Delega al Governo per il riordinamento dell'Amministrazione
dello Stato, per il decentramento delle funzioni e per il riassetto delle
carriere e delle retribuzioni dei dipendenti statali), l'atto amministrativo
può essere convalidato dall'autorità amministrativa anche in pendenza del
giudizio di impugnazione, e finanche in grado d'appello, con la sola
esclusione dell'ipotesi che sia intervenuta una sentenza passata in
giudicato (in questo senso, da ultimo: Cons. Stato, IV, 29.12.2014, n.
6384; V, 06.10.2015, n. 4650).
Quindi, nell'ambito di questo generale
potere di convalida rientra la specifica ipotesi della ratifica, la quale
consiste nella sanatoria di atti affetti dal vizio dell'incompetenza
relativa, come appunto avvenuto nel caso di specie” (Consiglio di Stato,
sez. V, 02.08.2016, n. 3482)
(TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 11.09.2018 n. 9254 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nella tradizionale impostazione, la
convalida del provvedimento
amministrativo è stata configurata dalla dottrina e dalla giurisprudenza
quale provvedimento di secondo grado con funzione di sanatoria di un
precedente atto viziato: funzione esplicantesi mediante una dichiarazione
diretta ad eliminare il vizio dell’atto invalido, sempre che ciò fosse nel
potere della stessa autorità competente ad emanarlo e purché sussistesse un
interesse pubblico ad adottarlo.
I vizi ritenuti sanabili a mezzo di
convalida erano individuati, anzitutto, nell’incompetenza (nel qual caso
l’autorità deputata ad emanare l’atto di convalida sarebbe stata,
ovviamente, diversa da quella che aveva emanato l’atto viziato), per la
quale l’art. 6 della l. n. 249/1968 recava l’espressa previsione del potere
di convalida, anche in pendenza di un contenzioso giurisdizionale.
Inoltre,
erano individuati nei vizi formali e di procedura, ma anche in quelli di
contenuto (es. inserzione di una condizione illegittima) e nello stesso
difetto di motivazione (ricompreso tra i vizi formali), mentre non si
riteneva possibile la convalida per i vizi di sviamento di potere e di
eccesso di potere per travisamento o errore.
Il potere di convalida è stato positivizzato a livello generale dalla l. 11.02.2005, n. 15, mediante l’inserimento, all’interno della l. n.
241/1990, dell’art. 21-nonies, il quale, al comma 2, così dispone: “È fatta
salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine
ragionevole”.
Orbene, secondo la giurisprudenza più recente, l’art. 21-nonies, comma 2,
della l. n. 241/1990, introdotto dalla l. n. 15/2005, nel prevedere la
possibilità di convalida del provvedimento annullabile, si riferisce,
genericamente, ad ogni tipologia di provvedimento amministrativo
annullabile, senza porre limitazioni in materia e, quindi, ammettendo anche
la convalida di vizi sostanziali, per ragioni di interesse pubblico,
entro un termine ragionevole.
Ed invero, si è precisato che, alla luce della disciplina generale della
convalida introdotta dalla l. n. 15/2005, non è condivisibile l’assunto
della sanabilità dei soli vizi formali: infatti, il tradizionale
orientamento sfavorevole alla sanabilità dei vizi sostanziali, fondato
sull’art. 6 della l. n. 249/1968, può considerarsi superato dall’art.
21-nonies della l. n. 241 cit., che non pone limitazioni in materia,
riferendosi genericamente al provvedimento amministrativo annullabile (e non
ai soli atti viziati da incompetenza o comunque da vizi di forma), con
conseguente ammissibilità della convalida di vizi sostanziali.
---------------
Nessun ostacolo all’esercizio del potere di convalida può farsi
derivare dal dubbio che gli atti da convalidare, in quanto sospesi in parte
qua in sede cautelare dal TAR, non siano nella disponibilità
della P.A. per essere convalidati.
Un simile dubbio, infatti, non avrebbe ragion d’essere, tenuto conto
dell’orientamento della costante giurisprudenza, secondo cui l’ammissibilità
della convalida di un atto nelle more del giudizio è da ritenersi,
ormai, fuori di dubbio in virtù delle disposizioni contenute nell’art.
21-nonies della l. n. 241/1990, pure in pendenza di gravame, in sede
amministrativa o giurisdizionale, anche di appello, con la sola esclusione
dell’ipotesi in cui sia intervenuta una sentenza passata in giudicato.
---------------
L’esercizio del potere di convalida comporta l’emanazione di un
provvedimento, nuovo ed autonomo rispetto a quello da convalidare, di
carattere costitutivo, che si ricollega all’atto convalidato, al fine di
mantenerne gli effetti fin dal momento in cui esso è stato emanato.
Il provvedimento di convalida va a sostituirsi a quello di primo
grado ove ricorrano i presupposti dell’individuazione dell’atto da convalidare, della specificazione del vizio
da eliminare, del cd. animus convalidandi, cioè della volontà di rimuovere
il vizio, nonché della produzione degli stessi effetti che l’atto oggetto di
convalida intendeva produrre.
---------------
Nella fattispecie ora all’esame, pertanto, il vizio dei divieti
originari, sanato con i provvedimenti di “convalida”, ha natura sostanziale,
cosicché si tratta di vedere se in relazione ad esso fosse predicabile o
meno il potere di convalida degli atti amministrativi.
Nella tradizionale impostazione, la convalida del provvedimento
amministrativo è stata configurata dalla dottrina e dalla giurisprudenza
quale provvedimento di secondo grado con funzione di sanatoria di un
precedente atto viziato: funzione esplicantesi mediante una dichiarazione
diretta ad eliminare il vizio dell’atto invalido, sempre che ciò fosse nel
potere della stessa autorità competente ad emanarlo e purché sussistesse un
interesse pubblico ad adottarlo.
I vizi ritenuti sanabili a mezzo di
convalida erano individuati, anzitutto, nell’incompetenza (nel qual caso
l’autorità deputata ad emanare l’atto di convalida sarebbe stata,
ovviamente, diversa da quella che aveva emanato l’atto viziato), per la
quale l’art. 6 della l. n. 249/1968 recava l’espressa previsione del potere
di convalida, anche in pendenza di un contenzioso giurisdizionale.
Inoltre,
erano individuati nei vizi formali e di procedura, ma anche in quelli di
contenuto (es. inserzione di una condizione illegittima) e nello stesso
difetto di motivazione (ricompreso tra i vizi formali), mentre non si
riteneva possibile la convalida per i vizi di sviamento di potere e di
eccesso di potere per travisamento o errore.
Il potere di convalida è stato positivizzato a livello generale dalla l. 11.02.2005, n. 15, mediante l’inserimento, all’interno della l. n.
241/1990, dell’art. 21-nonies, il quale, al comma 2, così dispone: “È fatta
salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine
ragionevole”.
Orbene, secondo la giurisprudenza più recente, l’art. 21-nonies, comma 2,
della l. n. 241/1990, introdotto dalla l. n. 15/2005, nel prevedere la
possibilità di convalida del provvedimento annullabile, si riferisce,
genericamente, ad ogni tipologia di provvedimento amministrativo
annullabile, senza porre limitazioni in materia e, quindi, ammettendo anche
la convalida di vizi sostanziali, per ragioni di interesse pubblico, entro
un termine ragionevole (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 02.02.2016, n. 175).
Ed invero, si è precisato che, alla luce della disciplina generale della
convalida introdotta dalla l. n. 15/2005, non è condivisibile l’assunto
della sanabilità dei soli vizi formali: infatti, il tradizionale
orientamento sfavorevole alla sanabilità dei vizi sostanziali, fondato
sull’art. 6 della l. n. 249/1968, può considerarsi superato dall’art.
21-nonies della l. n. 241 cit., che non pone limitazioni in materia,
riferendosi genericamente al provvedimento amministrativo annullabile (e non
ai soli atti viziati da incompetenza o comunque da vizi di forma), con
conseguente ammissibilità della convalida di vizi sostanziali (cfr. TAR
Lazio, Latina, Sez. I, 04.12.2014, n. 1036; id. 11.04.2013, n. 312; id., 30.05.2012, n. 415).
Ne consegue che nel caso di specie, il fatto che il vizio sanato avesse
natura sostanziale e non formale, trattandosi dell’individuazione
dell’esatta estensione del -OMISSIS- emesso a carico di ciascun tifoso, non
osta alla configurazione dei provvedimenti impugnati con i motivi aggiunti
quali provvedimenti di vera e propria convalida dei divieti gravati con il
ricorso originario.
Correttamente, quindi, la Questura ha inteso esercitare il potere di
convalida ex art. 21-nonies, comma 2, della l. n. 241/1990, entro un termine
ragionevole, essendo la convalida intervenuta a poca distanza di tempo
dall’emanazione dei provvedimenti da convalidare, e palesando la P.A.
l’interesse pubblico ad essa sotteso: interesse pubblico individuato,
infatti, dai provvedimenti di convalida, per tutti i tifosi appartenenti ai
due gruppi ora in esame, nella loro perdurante pericolosità per l’ordine e
la sicurezza pubblici. Si vedrà oltre se poi i provvedimenti di convalida
abbiano effettivamente sanato il vizio che intendevano rimuovere.
Né alcun ostacolo all’esercizio del potere di convalida potrebbe farsi
derivare dal dubbio che gli atti da convalidare, in quanto sospesi in parte
qua in sede cautelare da questo Tribunale, non fossero nella disponibilità
della P.A. per essere convalidati.
Un simile dubbio, infatti, non avrebbe ragion d’essere, tenuto conto
dell’orientamento della costante giurisprudenza, secondo cui l’ammissibilità
della convalida di un atto nelle more del giudizio è da ritenersi, ormai,
fuori di dubbio in virtù delle disposizioni contenute nell’art. 21-nonies
della l. n. 241/1990, pure in pendenza di gravame, in sede amministrativa o
giurisdizionale, anche di appello, con la sola esclusione dell’ipotesi in
cui sia intervenuta una sentenza passata in giudicato (cfr., ex plurimis,
C.d.S., Sez. V, 24.04.2013, n. 2278 e 28.11.2008, n. 5910; id.,
Sez. IV, 29.05.2009, n. 3371; TAR Lazio, Latina, Sez. I, n.
1036/2014, cit.).
La configurazione dei provvedimenti impugnati con i motivi aggiunti in
termini di provvedimenti di convalida dei divieti gravati con il ricorso
originario non ha valore solo nominalistico: essa influisce negativamente –come già accennato– sull’interesse dei due gruppi ora in esame di tifosi
colpiti da -OMISSIS- a coltivare il predetto ricorso originario, dovendo
infatti ritenersi che quest’ultimo, per tali tifosi, sia divenuto
improcedibile.
Invero, i divieti originariamente emanati ed impugnati con il ricorso
originario sono stati confermati nelle loro statuizioni, con l’unica
modifica della definizione di “altri luoghi a cui è esteso il divieto di
accesso”, che è stata sostituita da una nuova definizione, più specifica e
circoscritta rispetto alla precedente. Pertanto, l’interesse dei due gruppi
di ricorrenti si è trasferito sugli atti di convalida, con la conseguenza
che, per gli stessi, il ricorso originario va dichiarato improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse (TAR Toscana, Sez. I, 23.05.2017,
n. 729): ciò, giacché l’impugnativa del provvedimento sopravvenuto, in
quanto idoneo ad assorbire quello convalidato, rende improcedibile il
ricorso introduttivo (TAR Campania, Salerno, Sez. II, 23.12.2015,
n. 2684).
Si è detto, infatti, che l’esercizio del potere di convalida comporta
l’emanazione di un provvedimento, nuovo ed autonomo rispetto a quello da
convalidare, di carattere costitutivo, che si ricollega all’atto
convalidato, al fine di mantenerne gli effetti fin dal momento in cui esso è
stato emanato (cfr. TAR Toscana, Sez. I, n. 729/2017 cit.; TAR
Calabria, Catanzaro, Sez. II, n. 175/2016, cit.).
Il provvedimento di convalida va a sostituirsi a quello di primo grado ove
ricorrano i presupposti –tutti presenti nel caso qui in esame–
dell’individuazione dell’atto da convalidare, della specificazione del vizio
da eliminare, del cd. animus convalidandi, cioè della volontà di rimuovere
il vizio, nonché della produzione degli stessi effetti che l’atto oggetto di
convalida intendeva produrre (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 23.08.2016, n. 3674; id., 22.12.2014, n. 6199; id., 15.07.2013, n. 3809; id., Sez. IV, 14.12.2004, n. 7941)
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 22.02.2018 n. 217 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'esercizio
del potere di convalida comporta l'emanazione di un provvedimento,
nuovo ed autonomo rispetto a quella da convalidare, di carattere
costitutivo, che si ricollega all'atto convalidato al fine di mantenerne gli
effetti fin dal momento in cui esso è stato emanato.
---------------
2. Il Collegio osserva che l’aggiudicazione impugnata con il
ricorso introduttivo è stata confermata, sulla base di un’inedita
valutazione di congruità dell’offerta, con le determinazioni oggetto dei
motivi aggiunti.
Pertanto, l’interesse del ricorrente si è trasferito su quest’ultime, con la
conseguenza che il ricorso principale va dichiarato improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse: l'impugnativa del provvedimento
sopravvenuto, in quanto idoneo ad assorbire quello convalidato, rende
improcedibile il ricorso principale (TAR Campania, Salerno, II, 23.12.2015,
n. 2684; TAR Lombardia, Milano, III, 26.08.2016, n. 1611).
Invero,
l'esercizio del potere di convalida comporta l'emanazione di un
provvedimento, nuovo ed autonomo rispetto a quella da convalidare, di
carattere costitutivo, che si ricollega all'atto convalidato, al fine di
mantenerne gli effetti fin dal momento in cui esso è stato emanato (TAR
Calabria, Catanzaro, II, 02.02.2016, n. 175)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 23.05.2017 n. 729 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’art.
21-nonies l. 07.08.1990 n. 241, prevede (co. 2) “la possibilità
di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di
pubblico interesse ed entro un termine ragionevole”.
In precedenza, e con ambito più limitato, l’art. 6 l. n. 249/1968, prevedeva
che “alla convalida degli atti viziati da incompetenza può provvedersi anche
in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”.
In via generale, la giurisprudenza di questo Consiglio ha avuto modo di
osservare che, per effetto dell’art. 21-nonies sopra citato, appare evidente
“l'intendimento del legislatore di consentire oggi, in via generale, il
mantenimento in vita di provvedimenti affetti soltanto da vizi di carattere
formale”, come quello di incompetenza, e che, in tal caso, non si necessita
di particolare, dettagliata motivazione in ordine all’oggetto del
provvedimento da convalidare e degli atti a questo antecedenti.
Pur sussistendo la necessità di motivare in ordine all’adozione del
provvedimento di convalida, ciò, tuttavia, non comporta che l’organo
adottante debba ripercorrere, con obbligo di dettagliata motivazione, tutti
gli aspetti (e gli atti del procedimento) relativi al provvedimento
convalidato, essendo sufficiente che emergano chiaramente dall’atto
convalidante le ragioni di interesse pubblico e la volontà dell’organo di
assumere tale atto.
La convalida, dunque, è il provvedimento con il quale la Pubblica
Amministrazione, in esercizio del proprio potere di autotutela decisionale
ed all’esito di un procedimento di II grado, interviene su un provvedimento
amministrativo viziato, e come tale annullabile, emendandolo dai vizi che ne
determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità. Essa presuppone, ai
sensi dell’art. 21-nonies, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse e
che non sia decorso un “termine ragionevole” dall’adozione dell’atto
illegittimo.
La competenza, come in generale per tutti i provvedimenti adottati in
esercizio del potere di autotutela, consegue alla titolarità del potere di
adozione dell’atto oggetto dell’autotutela medesima, salvo che, medio tempore, una diversa amministrazione (o organo della medesima) sia stato
reso attributario del citato potere di adozione.
In definitiva, l’amministrazione, in presenza di un atto illegittimo, ed in
considerazione di ragioni di pubblico interesse (e della loro natura), può
decidere sia di procedere all’annullamento dell’atto in via di autotutela,
sia ad operare un “intervento ortopedico” sull’atto medesimo, sanando i vizi
che, rendendolo illegittimo, ne determinerebbero astrattamente
l’annullabilità.
---------------
L’esercizio del potere di convalida presuppone un atto non ancora annullato (quale che sia stata la
sede in cui l’annullamento è intervenuto), mancando, in difetto di ciò, lo
stesso “oggetto” dell’esercizio del potere di autotutela decisionale.
Più in particolare, nel caso in cui l’annullamento sia intervenuto in sede
giurisdizionale, e la sentenza che lo dispone sia passata in giudicato, gli
atti che procedono (come dichiaratamente nel caso di specie) alla
“convalida” di quelli già annullati dal giudice, sono nulli perché adottati
in violazione del giudicato.
A ciò deve aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche per difetto
totale di elementi essenziali, quali l’oggetto, non potendo sussistere alcun
interesse pubblico alla convalida di un atto non più esistente.
---------------
4. Il ricorso volto ad ottenere l’ottemperanza della sentenza n.
4079/2015 del Consiglio di Stato ed il successivo ricorso per motivi
aggiunti sono fondati e devono essere, pertanto, accolti, con conseguente
declaratoria di nullità delle deliberazioni nn. 37 e 78 del 2016, adottate
dalla Giunta comunale di Lumezzane.
Con tali delibere, come si è detto nella parte espositiva in fatto, la
Giunta comunale (in virtù delle competenze in tema di approvazione dei piani
attuativi ex novo attribuitele dalla l.reg. Lombardia n. 4/2012) ha, in
particolare, dapprima proceduto alla convalida delle deliberazioni del
Consiglio comunale, concernenti l’approvazione del Piano integrato di
intervento (del. n. 37/2016) e successivamente alla approvazione in via
definitiva di detta convalida, dopo le pubblicazioni di rito e la
constatazione della assenza di osservazioni (del. n. 78/2016).
In quest’ultima delibera si afferma, in particolare, che “a garanzia della
legittimità della procedura di convalida, il presente atto ha valore di
approvazione del P.I.I. annullato, facendo espresso riferimento a tutti gli
atti in origine contenuti e facenti parte del procedimento”.
5. Alla luce di quanto esposto, appare evidente la violazione del giudicato
effettuata dal Comune di Lumezzane, per il tramite degli atti adottati dalla
Giunta Comunale, e ciò per due distinte e concorrenti ragioni:
- per un verso, il Comune di Lumezzane ha proceduto alla “convalida” di atti
già annullati in sede giurisdizionale e, dunque, non più esistenti
nell’ordinamento giuridico;
- per altro verso -anche a voler attribuire agli atti adottati (pur in
contrasto con quanto dagli stessi affermato), valore di approvazione “nuova
ed autonoma” del P.I.I., e non già di convalida degli atti precedenti- il
Comune di Lumezzane ha adottato atti di “riapprovazione” dello strumento
urbanistico attuativo in contrasto con quanto affermato dalla sentenza
passata in giudicato, e ciò in violazione dell’art. 21-septies l. n.
241/1990.
6. L’art. 21-nonies l. 07.08.1990 n. 241, prevede (co. 2) “la possibilità
di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di
pubblico interesse ed entro un termine ragionevole”.
In precedenza, e con ambito più limitato, l’art. 6 l. n. 249/1968, prevedeva
che “alla convalida degli atti viziati da incompetenza può provvedersi anche
in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”.
In via generale, la giurisprudenza di questo Consiglio ha avuto modo di
osservare che, per effetto dell’art. 21-nonies sopra citato, appare evidente
“l'intendimento del legislatore di consentire oggi, in via generale, il
mantenimento in vita di provvedimenti affetti soltanto da vizi di carattere
formale”, come quello di incompetenza, e che, in tal caso, non si necessita
di particolare, dettagliata motivazione in ordine all’oggetto del
provvedimento da convalidare e degli atti a questo antecedenti (Cons. St.,
sez. IV, 29.05.2009 n. 3371).
Pur sussistendo la necessità di motivare in ordine all’adozione del
provvedimento di convalida, ciò, tuttavia, non comporta che l’organo
adottante debba ripercorrere, con obbligo di dettagliata motivazione, tutti
gli aspetti (e gli atti del procedimento) relativi al provvedimento
convalidato, essendo sufficiente che emergano chiaramente dall’atto
convalidante le ragioni di interesse pubblico e la volontà dell’organo di
assumere tale atto (Cons. Stato, sez. IV, 12.08.2011 n. 2863).
La convalida, dunque, è il provvedimento con il quale la Pubblica
Amministrazione, in esercizio del proprio potere di autotutela decisionale
ed all’esito di un procedimento di II grado, interviene su un provvedimento
amministrativo viziato, e come tale annullabile, emendandolo dai vizi che ne
determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità. Essa presuppone, ai
sensi dell’art. 21-nonies, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse e
che non sia decorso un “termine ragionevole” dall’adozione dell’atto
illegittimo.
La competenza, come in generale per tutti i provvedimenti adottati in
esercizio del potere di autotutela, consegue alla titolarità del potere di
adozione dell’atto oggetto dell’autotutela medesima, salvo che, medio tempore, una diversa amministrazione (o organo della medesima) sia stato
reso attributario del citato potere di adozione.
In definitiva, l’amministrazione, in presenza di un atto illegittimo, ed in
considerazione di ragioni di pubblico interesse (e della loro natura), può
decidere sia di procedere all’annullamento dell’atto in via di autotutela,
sia ad operare un “intervento ortopedico” sull’atto medesimo, sanando i vizi
che, rendendolo illegittimo, ne determinerebbero astrattamente
l’annullabilità.
Da quanto esposto, appare del tutto evidente che l’esercizio del potere di
convalida presuppone un atto non ancora annullato (quale che sia stata la
sede in cui l’annullamento è intervenuto), mancando, in difetto di ciò, lo
stesso “oggetto” dell’esercizio del potere di autotutela decisionale.
Più in particolare, nel caso in cui l’annullamento sia intervenuto in sede
giurisdizionale, e la sentenza che lo dispone sia passata in giudicato, gli
atti che procedono (come dichiaratamente nel caso di specie) alla
“convalida” di quelli già annullati dal giudice, sono nulli perché adottati
in violazione del giudicato.
A ciò deve aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche per difetto
totale di elementi essenziali, quali l’oggetto, non potendo sussistere alcun
interesse pubblico alla convalida di un atto non più esistente (Cons. Stato,
sez. IV, 02.04.2012 n. 1958)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.05.2017 n. 2351 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'atto amministrativo di
convalida (nel caso di specie dovrebbe trattarsi di
ratifica, trattandosi della sanatoria del vizio di incompetenza
relativa) non può tradursi in una semplice e formale appropriazione
da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, ma, come ha
più volte ribadito la giurisprudenza, postula:
- l'esternazione delle "ragioni
di interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione,
esternazione intesa a far percepire se, nell'emendare il vizio di
incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione
naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di
effettive esigenze a valenza pubblicistica;
- la menzione dell'atto da
convalidare;
- l'indicazione del vizio che lo inficia;
- una chiara
manifestazione della volontà di eliminare il vizio (animus convalidandi);
- la produzione degli stessi effetti che l'atto oggetto di
convalida intendeva produrre.
Il Collegio osserva cioè che la ratifica, da inquadrare, com'è noto, nel più
ampio fenomeno della convalescenza dell'atto amministrativo, ha come tipica
caratterizzazione causale la rimozione, in funzione conservativa, del vizio
di incompetenza relativa; l'organo competente fa proprio il provvedimento
emanato da quello incompetente, con effetti che retroagiscono, esprimendo la
volontà di sanatoria del vizio del quale riconosce l’esistenza.
Sotto il profilo della causa giustificativa dell’atto, dunque, l’effetto di
sanatoria del vizio invalidante l’atto oggetto di convalida non può
prescindere dal riconoscimento del vizio medesimo e dalla volontà di
emendarlo.
---------------
L’atto di convalida impugnato appare affetto da
evidente contraddittorietà laddove mira a ribadire la legittimità dell’atto
impugnato e, al tempo stesso, a determinarne un effetto di sanatoria.
Tale contraddittorietà rende privo il provvedimento di contenuto
dispositivo, non essendo possibile ravvisare la volontà dell'amministrazione
di intervenire a sanatoria di un vizio (ritenuto, appunto, non
sussistente): e, per consolidata giurisprudenza, il contenuto dispositivo
dell'atto è un elemento essenziale.
Il ricorso alla locuzione "per quanto occorrer possa" conferma vieppiù
l’assenza dell’”animus convalidandi” e priva l’atto della sua tipica
caratterizzazione causale, rendendolo pleonastico e tuzioristico nella parte
in cui sembra condizionare la volontà di convalida, o comunque gli effetti
tipici della sanatoria, alla denegata ipotesi di accoglimento, da parte del
giudice, della censura di incompetenza.
Se, per un verso, non è dubbio che la ratifica sia ammessa anche in pendenza
di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale, secondo la formulazione
dell'articolo 6 della legge numero 249 del 1968, tuttora vigente e non
incompatibile con l'art. 21-nonies, comma 2, l. n. 241 del 1990, secondo il
quale è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento
annullabile sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un
termine ragionevole; per altro verso, gli effetti propri della stessa, anche
se adottata in pendenza di ricorso, si producono solo ove ricorrano gli
elementi distintivi dell’atto di convalida.
Per quanto attiene all'ulteriore presupposto di legittimità del potere di
sanatoria (sussistenza dell'interesse pubblico che, secondo insegnamento
costante in giurisprudenza condiziona la legittimità dell'esercizio del
potere di convalida anche laddove si tratti di sanare il vizio di
incompetenza), il Collegio rileva poi che il provvedimento
impugnato si limita a dedurre "l'esigenza da parte dell'Amministrazione di
preservare e vedere confermati gli atti e gli effetti del procedimento
disciplinare avviato con contestazione del 07.11.2014 nei confronti del Cons.
Ca.".
Difetta, pertanto, in modo assoluto la esternazione delle specifiche ragioni
di interesse pubblico a fondamento della sanatoria.
Ne consegue l’inefficacia del decreto n. 1478 del 23.07.2015 e la sua
inidoneità a sanare gli effetti invalidanti del vizio di incompetenza che
inficia l’atto gravato in via principale.
---------------
In corso di causa, tuttavia, l'amministrazione ha adottato un
provvedimento di convalida/conferma del precedente atto, che è stato
tempestivamente impugnato con il ricorso per motivi aggiunti.
Si tratta, in particolare, del decreto del Direttore generale per le risorse
umane n. 1478 del 23.07.2015 con cui l'amministrazione ha ritenuto "per quanto
occorrer possa, di provvedere alla convalida del provvedimento sanzionatorio
conclusivo del procedimento disciplinare di cui sopra, senza che ciò
costituisca in alcun modo riconoscimento della denegata tesi interpretativa
dell'art. 114 del TU. n. 3 del 1957 offerta dalla difesa del Cons. Leg. Ca.
circa il vizio di incompetenza dell'On. Ministro”.
Ora, a parere del Collegio, l’atto menzionato non appare idoneo a produrre
effetti di sanatoria in relazione al rilevato vizio di incompetenza che
inficia l’atto impugnato col ricorso principale, essendo privo del contenuto
dispositivo e della giustificazione causale propri degli atti di convalida.
Ciò in quanto, da un lato, dispone di sanare il decreto ministeriale n. 1159
in quanto viziato da incompetenza, ma dall'altro lato ribadisce la piena
legittimità del decreto ministeriale di irrogazione della sanzione
disciplinare.
L'atto amministrativo di convalida (nel caso di specie dovrebbe trattarsi di
ratifica, trattandosi della sanatoria del vizio di incompetenza
relativa), infatti, non può tradursi in una semplice e formale appropriazione
da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, ma, come ha
più volte ribadito la giurisprudenza, postula l'esternazione delle "ragioni
di interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione,
esternazione intesa a far percepire se, nell'emendare il vizio di
incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione
naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di
effettive esigenze a valenza pubblicistica; la menzione dell'atto da
convalidare; l'indicazione del vizio che lo inficia; una chiara
manifestazione della volontà di eliminare il vizio (animus convalidandi); la
produzione degli stessi effetti che l'atto oggetto di convalida intendeva
produrre (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 22.12.2014, n. 6199 e, da
ultimo, Cons. Stato, V 23.08.2016 n. 3674).
Il Collegio osserva cioè che la ratifica, da inquadrare, com'è noto, nel più
ampio fenomeno della convalescenza dell'atto amministrativo, ha come tipica
caratterizzazione causale la rimozione, in funzione conservativa, del vizio
di incompetenza relativa; l'organo competente fa proprio il provvedimento
emanato da quello incompetente, con effetti che retroagiscono, esprimendo la
volontà di sanatoria del vizio del quale riconosce l’esistenza.
Sotto il profilo della causa giustificativa dell’atto, dunque, l’effetto di
sanatoria del vizio invalidante l’atto oggetto di convalida non può
prescindere dal riconoscimento del vizio medesimo e dalla volontà di
emendarlo.
In questa prospettiva, l’atto in data 23.07.2015 appare affetto da
evidente contraddittorietà laddove mira a ribadire la legittimità dell’atto
impugnato e, al tempo stesso, a determinarne un effetto di sanatoria.
Tale contraddittorietà rende privo il provvedimento di contenuto
dispositivo, non essendo possibile ravvisare la volontà dell'amministrazione
di intervenire a sanatoria di un vizio (ritenuto, appunto, non
sussistente): e, per consolidata giurisprudenza, il contenuto dispositivo
dell'atto è un elemento essenziale (cfr. ex pluribus Cons. St., 07.08.2015, n. 3881).
Il ricorso alla locuzione "per quanto occorrer possa" conferma vieppiù
l’assenza dell’”animus convalidandi” e priva l’atto della sua tipica
caratterizzazione causale, rendendolo pleonastico e tuzioristico nella parte
in cui sembra condizionare la volontà di convalida, o comunque gli effetti
tipici della sanatoria, alla denegata ipotesi di accoglimento, da parte del
giudice, della censura di incompetenza.
Se, per un verso, non è dubbio che la ratifica sia ammessa anche in pendenza
di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale, secondo la formulazione
dell'articolo 6 della legge numero 249 del 1968, tuttora vigente e non
incompatibile con l'art. 21-nonies, comma 2, l. n. 241 del 1990, secondo il
quale è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento
annullabile sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un
termine ragionevole; per altro verso, gli effetti propri della stessa, anche
se adottata in pendenza di ricorso, si producono solo ove ricorrano gli
elementi distintivi dell’atto di convalida.
Per quanto attiene all'ulteriore presupposto di legittimità del potere di
sanatoria (sussistenza dell'interesse pubblico che, secondo insegnamento
costante in giurisprudenza condiziona la legittimità dell'esercizio del
potere di convalida anche laddove si tratti di sanare il vizio di
incompetenza: cfr. Cons. St., n. 6199/2014 cit.; Cons. St., n. 3809/2015 cit.;
Tar Sardegna, n. 599/2014 cit.), il Collegio rileva poi che il provvedimento
impugnato si limita a dedurre "l'esigenza da parte dell'Amministrazione di
preservare e vedere confermati gli atti e gli effetti del procedimento
disciplinare avviato con contestazione del 07.11.2014 nei confronti del Cons.
Ca.".
Difetta, pertanto, in modo assoluto la esternazione delle specifiche ragioni
di interesse pubblico a fondamento della sanatoria.
Ne consegue l’inefficacia del decreto n. 1478 del 23.07.2015 e la sua
inidoneità a sanare gli effetti invalidanti del vizio di incompetenza che
inficia l’atto gravato in via principale.
In base a quanto esposto, e ritenuta la fondatezza di quanto dedotto con i
motivi aggiunti (ed assorbiti gli ulteriori rilievi in punto di legittimità
dell’atto di convalida), va, in accoglimento del primo motivo del ricorso
principale, disposto l’annullamento del decreto n. 1159 del 25.05.2015, con
assorbimento degli ulteriori motivi del ricorso principale
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter,
sentenza 29.11.2016 n. 11926 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Com’è
noto, la P.A., nel perseguire l'interesse pubblico, può avvalersi
del potere di autotutela in funzione conservativa del provvedimento.
Nell'ambito del potere di convalida, è stato enucleato il potere di
ratifica, nell’esercizio del quale viene emesso un provvedimento di secondo
grado, con cui l'Amministrazione elimina il vizio di incompetenza, siccome normativamente previsto dall'art. 6 della Legge 18.03.1968 n. 249 ("Alla
convalida degli atti viziati di incompetenza può provvedersi anche in
pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”), con
riferimento agli atti viziati da incompetenza o, comunque, da vizi di forma,
con effetti "ex tunc" e, quindi, con conseguente irrilevanza delle
situazioni "medio tempore" intervenute.
L'art. 21-nonies, comma 2, della Legge 07.08.1990 n. 241, introdotto dalla
Legge 11.02.2005 n. 15, nel prevedere la possibilità di convalida del
provvedimento annullabile, si riferisce, genericamente, ad ogni tipologia di
provvedimento amministrativo annullabile, senza porre limitazioni in materia
e, quindi, ammettendo anche la convalida di vizi sostanziali, per ragioni di
interesse pubblico, entro un termine ragionevole.
La disposizione consente di convalidare un atto anche nelle more del
giudizio, in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale,
anche di appello, con la sola esclusione delle ipotesi in cui sia
intervenuta una sentenza passata in giudicato.
Nessun vulnus ai principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 113 della
Costituzione discende dalla convalida o della ratifica di un atto
amministrativo, atteso che l'esercizio del potere di convalida comporta
l’emanazione di un provvedimento, nuovo ed autonomo, in funzione
costitutiva, rispetto all’atto da convalidare.
Invero, il provvedimento di ratifica o di convalida va a sostituirsi a
quello di primo grado, soltanto ove ricorrano i presupposti, quali
l'individuazione dell'atto da convalidare, la specificazione del vizio da
eliminare nonché il cosiddetto "animus convalidandi", cioè la volontà
di rimuovere il vizio.
---------------
Quanto alla titolarità del potere di convalida, non può escludersi che possa
provvedere anche una autorità diversa da quella che ha adottato l'atto da
convalidare, soprattutto in caso di necessità di risanamento del vizio di
incompetenza relativo, oramai soggetto all’applicabilità della disciplina
generale di cui all'art. 21-nonies, della l. n. 241 del 1990: in tal caso,
non può più essere ritenuta sufficiente la semplice e formale appropriazione
da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, occorrendo,
comunque, l'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico"
giustificatrici del potere di sostituzione –al fine di far percepire se,
nell'emendare il vizio di incompetenza dell'organo privo di legittimazione,
l'organo a legittimazione naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato
sotto la spinta di effettive esigenze a valenza pubblicistica- oltre che
l’indicazione della fonte del potere di sostituzione nonché della
presupposta illegittimità per incompetenza, in cui sarebbe incorso l'organo
che ha adottato l'atto recepito in via sanante.
Invero, la P.A. che intende agire in funzione conservativa è tenuta a
rispettare le garanzie che impone l'ordinamento, dando debitamente conto
delle motivazioni che la hanno indotta a quella determinata scelta:
conseguentemente, in tale situazione, la motivazione del provvedimento
costituisce, in modo particolare e specifico, il baricentro e l'essenza
stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e, quindi, un
presidio di legalità sostanziale, non sostituibile nemmeno mediante il
ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2,
della L. n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti “vizi non
invalidanti”, non potendosi ammettere che, in siffatta situazione, il
difetto di motivazione possa essere ritenuto assimilabile alla violazione di
norme procedimentali o ai vizi di forma.
L’esercizio del potere di convalida impone, oltre alla congrua e specifica
esternazione delle ragioni di interesse pubblico, ai sensi dell'art. 3 della L. 07.08.1990 n. 241, che si tenga altresì conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, i quali, devono essere avvertiti del
procedimento affinché, partecipandovi, possano rappresentare i propri
interessi.
---------------
5. Possono essere esaminati congiuntamente i due profili di
gravame, svolti dalla ricorrente con l’ultimo atto per motivi aggiunti
notificato in data 18/23.09.2015 e depositato in data 06.10.2015, avverso l’epigrafato
Decreto di rettifica e di convalida del Sindaco n. 3 prot. n. 3606 del 24.06.2015, poiché presuppongono la soluzione di identiche questioni, concernente
la portata ed i limiti del potere di convalida, ai sensi dell'art. 21-nonies
comma 2, l. 07.08.1990 n. 241, introdotto dalla l. 11.02.2005 n.
15, in relazione alla fattispecie dedotta in giudizio.
5.1. Com’è noto, la P.A., nel perseguire l'interesse pubblico, può avvalersi
del potere di autotutela in funzione conservativa del provvedimento.
Nell'ambito del potere di convalida, è stato enucleato il potere di
ratifica, nell’esercizio del quale viene emesso un provvedimento di secondo
grado, con cui l'Amministrazione elimina il vizio di incompetenza, siccome normativamente previsto dall'art. 6 della Legge 18.03.1968 n. 249 ("Alla
convalida degli atti viziati di incompetenza può provvedersi anche in
pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”), con
riferimento agli atti viziati da incompetenza o, comunque, da vizi di forma,
con effetti "ex tunc" e, quindi, con conseguente irrilevanza delle
situazioni "medio tempore" intervenute (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV,
29.09.1986, n. 630).
L'art. 21-nonies, comma 2, della Legge 07.08.1990 n. 241, introdotto dalla
Legge 11.02.2005 n. 15, nel prevedere la possibilità di convalida del
provvedimento annullabile, si riferisce, genericamente, ad ogni tipologia di
provvedimento amministrativo annullabile, senza porre limitazioni in materia
e, quindi, ammettendo anche la convalida di vizi sostanziali, per ragioni di
interesse pubblico, entro un termine ragionevole.
La disposizione consente di convalidare un atto anche nelle more del
giudizio, in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale,
anche di appello, con la sola esclusione delle ipotesi in cui sia
intervenuta una sentenza passata in giudicato (conf.: Cons. Stato, Sez. V,
24.04.2013, n. 2278; Cons. Stato, Sez. IV, 14.10.2011 n. 2863; Cons. Stato,
Sez. IV, 29.05.2009 n. 3371; Cons. Stato, Sez. IV, 31.05.2007 n. 2894; Cons.
Stato, Sez. IV, 28.02.2005 n. 739).
Nessun vulnus ai principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 113 della
Costituzione discende dalla convalida o della ratifica di un atto
amministrativo, atteso che l'esercizio del potere di convalida comporta
l’emanazione di un provvedimento, nuovo ed autonomo, in funzione
costitutiva, rispetto all’atto da convalidare.
Invero, il provvedimento di ratifica o di convalida va a sostituirsi a
quello di primo grado, soltanto ove ricorrano i presupposti, quali
l'individuazione dell'atto da convalidare, la specificazione del vizio da
eliminare nonché il cosiddetto "animus convalidandi", cioè la volontà di
rimuovere il vizio (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV, 14.12.2004 n. 7941).
Quanto alla titolarità del potere di convalida, non può escludersi che possa
provvedere anche una autorità diversa da quella che ha adottato l'atto da
convalidare, soprattutto in caso di necessità di risanamento del vizio di
incompetenza relativo, oramai soggetto all’applicabilità della disciplina
generale di cui all'art. 21-nonies, della l. n. 241 del 1990: in tal caso,
non può più essere ritenuta sufficiente la semplice e formale appropriazione
da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, occorrendo,
comunque, l'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico"
giustificatrici del potere di sostituzione –al fine di far percepire se,
nell'emendare il vizio di incompetenza dell'organo privo di legittimazione,
l'organo a legittimazione naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato
sotto la spinta di effettive esigenze a valenza pubblicistica- oltre che
l’indicazione della fonte del potere di sostituzione nonché della
presupposta illegittimità per incompetenza, in cui sarebbe incorso l'organo
che ha adottato l'atto recepito in via sanante (conf.: Cons. Stato, Sez. V
15.07.2013 n. 3809; Cons. Stato, Sez. V, 24.04.2013, n. 2278, Cons. Stato,
Sez. IV, 14.10.2011 n. 2863; Cons. Stato, Sez. IV, 09.07.2010 n. 4460).
Invero, la P.A. che intende agire in funzione conservativa è tenuta a
rispettare le garanzie che impone l'ordinamento, dando debitamente conto
delle motivazioni che la hanno indotta a quella determinata scelta:
conseguentemente, in tale situazione, la motivazione del provvedimento
costituisce, in modo particolare e specifico, il baricentro e l'essenza
stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e, quindi, un
presidio di legalità sostanziale, non sostituibile nemmeno mediante il
ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2,
della L. n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti “vizi non
invalidanti”, non potendosi ammettere che, in siffatta situazione, il
difetto di motivazione possa essere ritenuto assimilabile alla violazione di
norme procedimentali o ai vizi di forma (conf.: Cons. Stato, Sez. III,
30.04.2014 n. 2247).
L’esercizio del potere di convalida impone, oltre alla congrua e specifica
esternazione delle ragioni di interesse pubblico, ai sensi dell'art. 3 della L. 07.08.1990 n. 241, che si tenga altresì conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, i quali, devono essere avvertiti del
procedimento affinché, partecipandovi, possano rappresentare i propri
interessi
(TAR Catanzaro-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 02.02.2016 n. 175 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
giurisprudenza ha statuito che, proprio in tema di potere di convalida
dell’atto amministrativo illegittimo, è ammesso l’esercizio da parte della
p.a. anche in pendenza di impugnazione giurisdizionale avverso l’atto da
convalidare, tanto potendo essere precluso soltanto dal sopravvenire di una
sentenza passata in giudicato.
In questa sede non s’intende disconoscere tale orientamento, ma occorre
precisare che del pari di ostacolo alla convalida è l’esistenza di una sentenza la quale, ancorché non passata in
giudicato, abbia annullato l’atto amministrativo de quo e non sia stata
sospesa, conservando quindi la propria esecutività.
---------------
10.2. In termini più generali e pertinenti, nell’appello
incidentale del Comune di Transacqua è richiamato l’istituto della convalida
del provvedimento annullabile, oggi disciplinato dal comma 2 dell’art.
21-nonies della legge 07.08.1990, nr. 241, ma non ignoto anche alla
giurisprudenza anteriore all’introduzione di tale norma nell’ordinamento,
quale esplicazione del più generale potere di autotutela attribuito alla
p.a.
In effetti, la tesi delle parti appellanti sopra richiamata, secondo cui i
provvedimenti adottati nel 2013 avrebbero avuto la sola funzione di sanare
con effetto ex tunc il vizio formale accertato dalla sentenza nr. 226 del
2012, evoca implicitamente proprio l’istituto della convalida: in tale
schema, secondo la giurisprudenza, si colloca il nuovo provvedimento che,
essendo sostanzialmente riproduttivo di uno precedente rispetto al quale si
connota soltanto per l’eliminazione di uno o più vizi di legittimità (di
solito, di natura formale o procedimentale), costituisce esercizio di
autotutela ed ha efficacia retroattiva (in tal senso, cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 31.05.2007, nr. 289).
Tuttavia, la Sezione è dell’avviso che a siffatta ricostruzione, nella
specie, osti il fatto che, nel momento in cui sono sopravvenuti i nuovi atti
cui si pretende di attribuire la divisata natura di convalida, i
provvedimenti da convalidare erano stati già annullati con la più volte
citata sentenza nr. 226 del 2012; tale circostanza precludeva in radice
l’esercizio del potere di convalida, innanzi tutto per un rilievo di ordine
logico, e cioè per la mancanza del presupposto imprescindibile di tale
istituto, ossia l’esistenza di un provvedimento illegittimo da emendare (e,
d’altra parte, sul piano testuale il citato art. 21-nonies, comma 2,
contempla la convalida del provvedimento “annullabile”, e non di quello già
annullato).
10.2.1. In senso contrario, l’Amministrazione comunale invoca l’indirizzo
giurisprudenziale che, proprio in tema di potere di convalida dell’atto
amministrativo illegittimo, ne ammette l’esercizio da parte della p.a. anche
in pendenza di impugnazione giurisdizionale avverso l’atto da convalidare,
tanto potendo essere precluso soltanto dal sopravvenire di una sentenza
passata in giudicato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.12.2014, nr. 6384;
id., 24.04.2013, nr. 2278).
In questa sede non s’intende disconoscere tale orientamento, ma occorre
precisare che del pari di ostacolo alla convalida è l’esistenza –come nel
caso che qui occupa– di una sentenza la quale, ancorché non passata in
giudicato, abbia annullato l’atto amministrativo de quo e non sia stata
sospesa, conservando quindi la propria esecutività.
In tale senso, depone oggi l’art. 114, comma 4, lett. c), cod. proc. amm.,
il quale, riconoscendo il potere del giudice dell’ottemperanza di
considerare “inefficaci” gli atti emessi in violazione o elusione di
sentenze non passate in giudicato, implica necessariamente che la violazione
o elusione di queste ultime integra un vizio –sibbene meno intenso della
nullità che connota la violazione o elusione del giudicato– destinato a
incidere sulla legittimità degli atti che ne sono affetti; ne discende che
tale vizio ben può essere conosciuto dal giudice della cognizione, in caso
di impugnazione di tali atti con l’ordinaria azione di annullamento, sub
specie di illegittimità, e specificamente sotto il profilo dello sviamento
di potere: infatti, è evidente, anche alla stregua di elementari canoni di
buona fede e lealtà processuale, che l’amministrazione la quale, dopo aver
difeso in giudizio un provvedimento impugnato da terzi, solo a sèguito
dell’intervento di una statuizione di annullamento si attivi per una pretesa
convalida, con l’intento di conservare con efficacia ex tunc gli effetti del
provvedimento annullato, altro non stia facendo che tentare di eludere gli
obblighi conformativi derivanti dalla pronuncia di annullamento, al fine di
“recuperare” surrettiziamente una legittimità originaria del provvedimento
impugnato e annullato
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.11.2015 n. 5136 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Costituisce
un principio pacifico e consolidato quello secondo cui “l’esercizio del potere di
convalida mediante ratifica spettante all’organo
competente, di cui all’art. 6 L. 18.03.1968 n. 249, sana con efficacia
retroattiva l’atto viziato da incompetenza relativa, ancorché quest’ultimo
sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente, ma solo fino a quando non
ne sia intervenuto l’annullamento atteso che la relativa sentenza ne
determina l’eliminazione dal mondo giuridico, facendo in tal modo venire
meno il presupposto e l’oggetto della convalida”.
---------------
Il primo motivo risulta superato in via di fatto dalla circostanza
che l’Amministrazione comunale, valutata l’opportunità di dare esecuzione
all’ordine di cessazione impartito alla ricorrente, ha provveduto a
convalidare il proprio precedente atto emesso dal Dirigente del Servizio
Gestione e Sviluppo Ambiente; il Sindaco di Prato, infatti, con atto del
15.07.2013, notificato il 17.07.2013 ha ratificato e fatto propria la
determinazione dirigenziale n. 926 del 19.03.2013, ai sensi e per gli
effetti dell’art. 6 della legge n. 249/1968.
Del resto costituisce un principio pacifico e consolidato quello secondo cui
“l’esercizio del potere di convalida mediante ratifica spettante all’organo
competente, di cui all’art. 6 L. 18.03.1968 n. 249, sana con efficacia
retroattiva l’atto viziato da incompetenza relativa, ancorché quest’ultimo
sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente, ma solo fino a quando non
ne sia intervenuto l’annullamento atteso che la relativa sentenza ne
determina l’eliminazione dal mondo giuridico, facendo in tal modo venire
meno il presupposto e l’oggetto della convalida” (Consiglio di Stato 31.05.2007 n. 2894).
Stante ciò, è evidente come, nel caso di specie, l’atto di convalida de quo
abbia sanato dal vizio di incompetenza il provvedimento oggetto di
impugnazione, con efficacia retroattiva
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 18.09.2015 n. 1242 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: A
differenza di quanto si verifica ad altri provvedimenti di secondo grado,
l’art. 21-nonies, comma 2, della legge 07.08.1990, n. 241 tace su quale sia il soggetto titolare del potere di
convalida che spetta, di norma, all’organo che ha adottato il provvedimento
da convalidare, eccetto nel caso in cui il vizio da emendare sia un vizio di
incompetenza, nel qual caso dovrà invece necessariamente intervenire
l’organo effettivamente competente.
---------------
9.- Il ricorso è invece infondato in relazione all’unico
vizio proprio dedotto avverso l’atto di convalida ovvero che tale atto
avrebbe dovuto essere adottato da parte della stessa autorità che aveva
adottato il provvedimento da emendare.
Al riguardo, osserva il Collegio, che, a differenza di quanto si verifica ad
altri provvedimenti di secondo grado, l’art. 21-nonies, comma 2, della legge
07.08.1990, n. 241 tace su quale sia il soggetto titolare del potere di
convalida che spetta, di norma, all’organo che ha adottato il provvedimento
da convalidare, eccetto nel caso in cui il vizio da emendare sia un vizio di
incompetenza, nel qual caso dovrà invece necessariamente intervenire
l’organo effettivamente competente.
Ed è questo ciò che è avvenuto nel caso di specie, posto che il dirigente
del settore amministrativo competente ha emendato il provvedimento di
affidamento del servizio illegittimamente adottato dalla Giunta comunale
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 12.03.2015 n. 152 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
potere di convalida non è limitato a vizi di carattere formale o al
solo vizio di incompetenza né l’esercizio del potere di riesame è precluso
dalla esistenza di un contenzioso (anche qualora l’interessato nell’ambito
del medesimo abbia ottenuto una pronuncia cautelare favorevole).
---------------
Il ricorrente con un unico articolato motivo lamenta che il
comune avrebbe illegittimamente fatto ricorso al potere di convalida al fine
di porre nel nulla gli effetti della misura cautelare che egli aveva
ottenuto.
In sostanza la tesi del ricorrente è che il potere di convalida:
a) sarebbe esercitabile solo per emendare il vizio di incompetenza ovvero vizi di
natura esclusivamente formale;
b) non potrebbe avere a oggetto atti sospesi
in via cautelare dal giudice amministrativo in quanto l’amministrazione non
avrebbe “la disponibilità” dei loro effetti.
A ciò si aggiunge che i provvedimenti di convalida impugnati sarebbero
insufficientemente motivati in punto di interesse pubblico alla
conservazione degli atti e comunque inficiati da una motivazione perplessa e
contraddittoria (dato che esse si limitano a richiamare i deliberati
cautelari del TAR e del Consiglio di Stato ma non riconoscono il vizio di
legittimità delle delibere convalidate).
Si tratta di censure analoghe a quelle già esaminate dalla sezione in
occasione del precedente ricorso del ricorrente (in cui pure si poneva un
problema di convalida di delibere del consiglio impugnate a mezzo dei motivi
aggiunti) e che la sezione ha ritenuto infondate con la citata sentenza n.
1036 del 04.12.2014.
Infatti il potere di convalida non è limitato a vizi di carattere formale o
al solo vizio di incompetenza né l’esercizio del potere di riesame è
precluso dalla esistenza di un contenzioso (anche qualora l’interessato
nell’ambito del medesimo abbia ottenuto una pronuncia cautelare favorevole)
(cfr. TAR Lazio, Latina, 11/04/2013, n. 312, Consiglio di Stato sez. V,
24/04/2013, n. 2278)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 16.02.2015 n. 166 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sull'istituto
dell’autotutela in funzione conservativa degli atti amministrativi
E’ noto che, nel perseguire l’interesse pubblico,
l’Amministrazione può avvalersi del potere di autotutela in funzione
conservativa del provvedimento. L’art. 21-nonies l. n. 241/1990 specifica
solo la possibilità di convalida del provvedimento annullabile per
ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.
Intanto va chiarito che il richiamo al solo istituto della convalida non sta
a significare che le altre ipotesi di conservazione o di sanatoria degli
atti invalidi non siano più consentite.
Il potere dell’Amministrazione all’esito del procedimento di riesame, di
eliminare il vizio riscontrato, è espressione del potere di autotutela la
cui giustificazione viene individuata nel principio di conservazione dei
valori giuridici.
---------------
Tradizionalmente, nell’ambito del potere di convalida un orientamento
dottrinale distingue la ratifica definendola come quel provvedimento
di secondo grado con cui l’Amministrazione elimina il vizio di incompetenza.
Per la ratifica vi è una espressa disposizione normativa, l’art. 6 della L.
249 del 1968 che recita: “Alla convalida degli atti viziati di incompetenza
può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e
giurisdizionale”.
Nella più puntuale configurazione dell'istituto della ratifica, riflesso
della ascrivibilità dell'istituto nell'ambito dei provvedimenti di convalida
ora disciplinati dall'art. 21-nonies, della l. n. 241 del 1990, il
risanamento del vizio di incompetenza relativo non è più affidato ad una
semplice e formale appropriazione da parte dell'organo competente
all'adozione del provvedimento, ma postula l'esternazione delle "ragioni di
interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione; esternazione
intesa a far percepire se, nell'emendare il vizio di incompetenza
dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione naturale
all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di effettive
esigenze a valenza pubblicistica.
Il provvedimento di ratifica o convalida dell'atto viziato va
quindi a sostituirsi a quest'ultimo solo ove ricorrano i presupposti
previsti dell'individuazione dell'atto da convalidare, della specificazione
del vizio da eliminare e del c.d. "animus convalidandi", cioè la volontà di
rimuovere il vizio.
Il potere di convalida ex art. 6 della legge n. 249 del 1968 ha effetto "ex
tunc", con conseguente irrilevanza delle situazioni "medio tempore"
intervenute.
Occorre poi fugare ogni dubbio circa la titolarità del potere di convalida.
Difatti, alla convalida del provvedimento amministrativo può
provvedere anche una autorità diversa da quella che ha adottato l'atto da
convalidare.
Tutto ciò rilevato, non può non essere ricordato che la giurisprudenza è del
tutto pacifica nell’affermare che ai sensi dell'art. 21-nonies comma 2, l.
07.08.1990 n. 241, introdotto dalla l. 11.02.2005 n. 15 —che fa salva la
possibilità del ricorso all'istituto della convalida (in cui è
compresa anche la ratifica) del provvedimento annullabile,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine
ragionevole— l'Amministrazione ha il potere di convalidare o ratificare un
provvedimento viziato; tuttavia l'atto di convalida deve contenere
una motivazione espressa e persuasiva in merito alla sua natura e in punto
di interesse pubblico alla convalida, essendo insufficiente la semplice e
formale appropriazione da parte dell'organo competente all'adozione del
provvedimento, in assenza dell'esternazione delle ragioni di interesse
pubblico giustificatrici del potere di sostituzione e della presupposta
indicazione, espressa, dell'illegittimità per incompetenza in cui sarebbe
incorso l'organo che ha adottato l'atto recepito in via sanante.
---------------
Se la determinazione di convalida tace completamente sull’interesse
pubblico che avrebbe dovuto condurre all’adozione della stessa, sussiste
l'illegittimità della medesima ove la puntuale e precisa motivazione
dell’atto è necessaria non per esigenze di tipo puramente formalistico ma
perché l'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico" giustificatrici
del potere di sostituzione è intesa a far percepire se, nell'emendare il
vizio di incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a
legittimazione naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la
spinta di effettive esigenze a valenza pubblicistica.
---------------
Se l’Amministrazione vuole (e
può farlo) agire in funzione conservativa deve rispettare le garanzie che,
non a caso, l’ordinamento impone.
Occorre ricordare che nell’agire in funzione conservativa l’Amministrazione
sana vizi di un provvedimento amministrativo. Per farlo deve dare conto in
modo stringente delle motivazioni che la hanno indotta a percorrere quella
strada.
Non si può non ricordare all’Amministrazione che il difetto di motivazione
non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme
procedimentali o ai vizi di forma, costituendo la motivazione del
provvedimento, ai sensi dell'art. 3, l. 07.08.1990 n. 241, il presupposto,
il fondamento, il baricentro e l'essenza stessa del legittimo esercizio del
potere amministrativo e, per questo, un presidio di legalità sostanziale
insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai
sensi dell'art. 21-octies comma 2, cit. l. n. 241 del 1990, il provvedimento
affetto dai c.d. vizi non invalidanti.
---------------
12. In ordine al ricorso per motivi aggiunti, che deve essere a questo punto
esaminato nel merito, ne va rilevata la fondatezza nei limiti che di seguito
si va ad esporre.
12.1. Vanno preliminarmente effettuate alcune necessarie considerazioni in
ordine all’istituto dell’autotutela in funzione conservativa.
E’ noto che, nel perseguire l’interesse pubblico, l’Amministrazione può
avvalersi del potere di autotutela in funzione conservativa del
provvedimento. L’art. 21-nonies specifica solo la possibilità di
convalida del provvedimento annullabile per ragioni di interesse
pubblico ed entro un termine ragionevole. Intanto va chiarito che il
richiamo al solo istituto della convalida non sta a significare che le altre
ipotesi di conservazione o di sanatoria degli atti invalidi non siano più
consentite.
Il potere dell’Amministrazione all’esito del procedimento di riesame, di
eliminare il vizio riscontrato, è espressione del potere di autotutela la
cui giustificazione viene individuata nel principio di conservazione dei
valori giuridici.
Di fronte a un atto illegittimo, e tale è, come già rilevato, l’atto
ufficiale n. 1 dell’11.11.2009, l’Amministrazione regionale si è posta sulla
strada della conservazione.
Occorre vedere se ciò è stato fatto legittimamente.
Intanto, va detto che il vizio su cui la convalida della regione ha inciso
con effetti conservativi è quello di incompetenza.
Tradizionalmente, nell’ambito del potere di convalida un orientamento
dottrinale distingue la ratifica definendola come quel provvedimento
di secondo grado con cui l’Amministrazione elimina il vizio di incompetenza.
Per la ratifica vi è una espressa disposizione normativa, l’art. 6 della L.
249 del 1968 che recita: “Alla convalida degli atti viziati di
incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede
amministrativa e giurisdizionale”.
Nella più puntuale configurazione dell'istituto della ratifica, riflesso
della ascrivibilità dell'istituto nell'ambito dei provvedimenti di convalida
ora disciplinati dall'art. 21-nonies, della l. n. 241 del 1990, il
risanamento del vizio di incompetenza relativo non è più affidato ad una
semplice e formale appropriazione da parte dell'organo competente
all'adozione del provvedimento, ma postula l'esternazione delle "ragioni
di interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione;
esternazione intesa a far percepire se, nell'emendare il vizio di
incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione
naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di
effettive esigenze a valenza pubblicistica (Consiglio di Stato, sez. V,
15.07.2013 n. 3809).
Il provvedimento di ratifica o convalida dell'atto viziato va
quindi a sostituirsi a quest'ultimo solo ove ricorrano i presupposti
previsti dell'individuazione dell'atto da convalidare, della specificazione
del vizio da eliminare e del c.d. "animus convalidandi", cioè la
volontà di rimuovere il vizio (Consiglio Stato, sez. IV, 14.12.2004, n.
7941).
Il potere di convalida ex art. 6 della legge n. 249 del 1968 ha effetto "ex
tunc", con conseguente irrilevanza delle situazioni "medio tempore"
intervenute (Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.1986, n. 630).
Occorre poi fugare ogni dubbio circa la titolarità del potere di convalida.
Difatti, alla convalida del provvedimento amministrativo può
provvedere anche una autorità diversa da quella che ha adottato l'atto da
convalidare (Cons. di Stato, Sez. IV, 09.07.2010 n. 4460).
Tutto ciò rilevato, non può non essere ricordato che la giurisprudenza è del
tutto pacifica nell’affermare che ai sensi dell'art. 21-nonies comma 2, l.
07.08.1990 n. 241, introdotto dalla l. 11.02.2005 n. 15 —che fa salva la
possibilità del ricorso all'istituto della convalida (in cui è
compresa anche la ratifica) del provvedimento annullabile,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine
ragionevole— l'Amministrazione ha il potere di convalidare o ratificare un
provvedimento viziato; tuttavia l'atto di convalida deve contenere
una motivazione espressa e persuasiva in merito alla sua natura e in punto
di interesse pubblico alla convalida, essendo insufficiente la semplice e
formale appropriazione da parte dell'organo competente all'adozione del
provvedimento, in assenza dell'esternazione delle ragioni di interesse
pubblico giustificatrici del potere di sostituzione e della presupposta
indicazione, espressa, dell'illegittimità per incompetenza in cui sarebbe
incorso l'organo che ha adottato l'atto recepito in via sanante (Consiglio
di Stato, sez. V, 27.03.2013, n. 1775).
E qui una prima considerazione preme.
Né il decreto n. 1163DecA75 del 27.07.2012 né la successiva determinazione
n. 21493 del 09.11.2012 recano sul punto una benché minima motivazione.
Se la determinazione di convalida tace completamente sull’interesse
pubblico che avrebbe dovuto condurre all’adozione della stessa, non è da
meno il decreto presupposto che si limita ad affermare: “ritenuto che
sussistano le ragioni di interesse pubblico per autorizzare la convalida dei
provvedimenti autorizzativi di cui sopra e che pertanto è opportuno
riproporre la procedura già a suo tempo individuata dall’art. 3.1 del
decreto n. 1820/DecA/73 del 20.07.2010” (si trattava di precedenti
convalide di impianti illegittimamente autorizzati dai SUAP comunali).
Peraltro, lo stesso decreto dell’assessore, da un lato non motiva
sull’interesse pubblico che giustificherebbe l’adozione del provvedimento,
dall’altro, esplicitamente si riferisce ad un interesse preciso (non
pubblico) dei soggetti che avrebbero dovuto beneficiare dei provvedimenti di
convalida laddove si legge: “considerato che molti di questi impianti
hanno necessità di una convalida formale per poter accedere al conto energia”.
La puntuale e precisa motivazione dell’atto è necessaria non per esigenze di
tipo puramente formalistico ma perché l'esternazione delle "ragioni di
interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione è intesa
a far percepire se, nell'emendare il vizio di incompetenza dell'organo privo
di legittimazione, l'organo a legittimazione naturale all'adozione dell'atto
l'abbia ratificato sotto la spinta di effettive esigenze a valenza
pubblicistica.
Di tutto questo, come già osservato, non vi è traccia nei provvedimenti di
convalida.
Ciò determina che il sesto motivo di ricorso è manifestamente
fondato. Il vizio è flagrante e non necessita indugiare oltre sul punto.
Non possono essere condivise le pur corrette argomentazioni svolte dalla
difesa della Regione nella memoria depositata il 31.10.2013 (punto 2.7).
In astratto è condivisibile l’affermazione secondo cui “tutta la
normativa nazionale e comunitaria attribuisce importanza primaria agli
impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e lo stesso d.lgs.
387/2003 dispone che tali opere sono di pubblica utilità, indifferibili ed
urgenti”.
Peraltro questo Tar e proprio questa Sezione non ha mancato ripetutamente di
ribadire il principio (si vedano tra le altre le sentenze nn. 27, 28, 29 del
14.01.2011).
Ma ciò non significa che si possa prescindere da pacifici principi giuridici
in materia di autotutela.
Se l’Amministrazione vuole (e può farlo) agire in funzione conservativa deve
rispettare le garanzie che, non a caso, l’ordinamento impone. Occorre
ricordare che nell’agire in funzione conservativa l’Amministrazione sana
vizi di un provvedimento amministrativo. Per farlo deve dare conto in modo
stringente delle motivazioni che la hanno indotta a percorrere quella
strada. Tanto più in una situazione come quella qui esaminata in cui era
pendente un contenzioso.
Non si può non ricordare all’Amministrazione (regionale), in un caso come
questo, che il difetto di motivazione non può essere in alcun modo
assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma,
costituendo la motivazione del provvedimento, ai sensi dell'art. 3, l.
07.08.1990 n. 241, il presupposto, il fondamento, il baricentro e l'essenza
stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e, per questo, un
presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il
ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2,
cit. l. n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai c.d. vizi non
invalidanti; di qui l'inammissibilità della motivazione postuma addotta
dall'Amministrazione in sede giudiziale (cfr. Consiglio di Stato, sez. III,
30.04.2014, n. 2247).
Il ricorso, su questo motivo è fondato
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 11.07.2014 n. 599 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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