e-mail
info.ptpl@tiscali.it

APPALTI
CONVEGNI
FORUM
G.U.R.I. - G.U.U.E. - B.U.R.L.
LINK
NEWS PUBBLICATE:
1-aggiornam. pregressi
2-Corte dei Conti
3-
dite la vostra ...
4-dottrina e contributi
5-funzione pubblica
6-giurisprudenza
7-modulistica
8-news
9-normativa
10-note, circolari e comunicati
11-quesiti & pareri
12-quesiti & pareri M.I.M.S. (ex M.I.T.)
13-utilità
- - -
DOSSIER
:
14-
ABBAINO
15-
ABUSI EDILIZI
16-ABUSI EDILIZI (tolleranza del 2%)
17-
AFFIDAMENTO IN HOUSE
18-AGIBILITA'
19-AMIANTO
20-ANAC (già AVCP)
21
-APPALTI
22-ARIA
23-ASCENSORE
24-ASL + ARPA
25-ATTI AMMINISTRATIVI
26-ATTI AMMINISTRATIVI (accesso esposto e/o permesso di costruire e/o atti di P.G.)
27-ATTI AMMINISTRATIVI (impugnazione-legittimazione)
28-ATTI AMMINISTRATIVI (P.E.C. - Posta Elettronica Certificata)
29-ATTIVITA' COMMERCIALE IN LOCALI ABUSIVI
30-BARRIERE ARCHITETTONICHE
31-BOSCO
32-BOX
33-CAMBIO DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere)
34-CANCELLO, BARRIERA, INFERRIATA, RINGHIERA in ferro - SBARRA/STANGA
35-CANNE FUMARIE e/o COMIGNOLI
36-CARTELLI STRADALI
37-CARTELLO DI CANTIERE - COMUNICAZIONE INIZIO LAVORI
38-CERTIFICATO DESTINAZIONE URBANISTICA
39-CERIFICAZIONE ENERGETICA e F.E.R.
40
-C.I.L. e C.I.L.A.
41
-COMPETENZE GESTIONALI
42
-COMPETENZE PROFESSIONALI - PROGETTUALI
43-CONDIZIONATORE D'ARIA
44-CONDOMINIO
45-CONSIGLIERI COMUNALI
46-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
47-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)
48-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine dare/avere e legittimazione alla restituzione)
49-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)
50-DEBITI FUORI BILANCIO
51-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
52-DIA e SCIA
53-DIAP
54-DIRITTI di SEGRETERIA in MATERIA EDILIZIO-URBANISTICA
55-DISTANZA dagli ALLEVAMENTI ANIMALI
56-DISTANZA dai CONFINI
57-DISTANZA dai CORSI D'ACQUA - DEMANIO MARITTIMO/LACUALE
58-DISTANZA dalla FERROVIA

59-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
60-DURC
61-EDICOLA FUNERARIA
62-EDIFICIO UNIFAMILIARE
63-ESPROPRIAZIONE
64-GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI
65-IMMEDIATA ESEGUIBILITA' DELIBERAZIONI di CONSIGLIO e GIUNTA COMUNALE
66-INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO
67-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
68-INCENTIVO PROGETTAZIONE (ora INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE)
69-INDUSTRIA INSALUBRE
70-L.R. 12/2005
71-L.R. 23/1997
72-L.R. 31/2014
73-LEGGE CASA LOMBARDIA
74-LICENZA EDILIZIA (necessità)
75-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
76-LOTTO INTERCLUSO
77-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
78-MOBBING
79-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
80-OPERE PRECARIE
81-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
82-PATRIMONIO
83-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU e/o DEHORS e/o POMPEIANA e/o PERGOTENDA e/o TETTOIA
84-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
85-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
86-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
87-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
88-PERMESSO DI COSTRUIRE (commissione edilizia e/o paesaggio - parere)
89-PERMESSO DI COSTRUIRE (commissione paesaggio - nomina, compenso, ecc.)

90-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
91-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
92-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
93
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
94-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
95-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
96-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
97-PIF (Piano Indirizzo Forestale)
98-PISCINE
99-PUBBLICO IMPIEGO
100-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
101-RIFIUTI E BONIFICHE
102-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
103-RUDERI
104-
RUMORE
105-SAGOMA EDIFICIO
106-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi)
107-SCOMPUTO OO.UU.
108-SEDIME (area di)
109-SEGRETARI COMUNALI
110-SEMINTERRATI
101-SIC-ZSC-ZPS - VAS - VIA
112-SICUREZZA SUL LAVORO
113
-
SILOS
114-SINDACATI & ARAN
115-SOPPALCO
116-SOTTOTETTI
117-SUAP
118-SUE
119-STRADA PUBBLICA o PRIVATA o PRIVATA DI USO PUBBLICO
120-
TELEFONIA MOBILE
121-TENDE DA SOLE
122-TINTEGGIATURA FACCIATE ESTERNE
123-TRIBUTI LOCALI
124-VERANDA
125-VINCOLO CIMITERIALE
126-VINCOLO IDROGEOLOGICO
127-VINCOLO PAESAGGISTICO + ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
128-VINCOLO STRADALE
129-VOLUMI TECNICI / IMPIANTI TECNOLOGICI

130-ZONA AGRICOLA
131-ZONA SISMICA E CEMENTO ARMATO

NORMATIVA:
dt.finanze.it
entilocali.leggiditalia.it

leggiditaliaprofessionale.it

SITI REGIONALI
STAMPA
 
C.A.P.
Codice Avviamento Postale

link 1 - link 2
CONIUGATORE VERBI
COSTO DI COSTRUZIONE
(ag
g. indice istat):

link 1-BG - link 2-MI
link 3-CR
DIZIONARI
indici ISTAT:
link 1 - link 2 - link 3-BG
link 4-MI

interessi legali:
link 1
MAPPE CITTA':
link 1 - link 2
METEO
1 - PAGINE bianche
2 - PAGINE gialle
P.E.C. (indirizzi):
delle PP.AA.
delle IMPRESE e PROFESSIONISTI
PREZZI:
osservatorio prezzi e tariffe

prodotti petroliferi
link 1
- link 2
PUBBLICO IMPIEGO:
1 - il portale pubblico per il lavoro
2
- mobilità
 

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO (e diciamo anche la nostra)

Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).  -      segnala un errore nei links                                                                                

ANNO 2024

ANNO 2023

ANNO 2022

ANNO 2021

* * * * *

SINO ALL'ANNO 2020


SINO ALL'ANNO 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ANNO 2024
aggiornamento al 30.01.2024

Repressione abusi edilizi:
i Responsabili dell'Ufficio Tecnico e della Polizia Locale, nonché i Segretari Comunali, si premurino di leggere attentamente e memorizzare per bene la recentissima "direttiva" della Procura della Repubblica di Bergamo (qui sotto riportata) tenuto conto che "La mancata, scorretta o parziale ottemperanza alla direttiva de qua costituisce intralcio all’attività dell’Autorità Giudiziaria e, come tale, verrà valutata dal Magistrato titolare del procedimento in ordine ad eventuali responsabilità penali e/o disciplinari".

 

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: direttive di intervento in materia edilizio-urbanistica (D.P.R. 380/2001), vincoli paesaggistici e storico-architettonici (D.Lgs 42/2004 e L. 22/2022) e aree protette (L. 394/1991) (PROCURA della Repubblica di Bergamo, nota 24.01.2024 n. 218 di prot.).
---------------
Sommario
   1. Premessa - 2. Contenuti, tempistica e modalità di deposito della comunicazione di notizia di reato - 3. Attività d’indagine d’iniziativa - 4. Attività d’indagine delegata dal Pubblico Ministero - 5. Sintesi della attività da compiere per singoli atti di indagine - 6. Reati di “falso” in ambito edilizio, ambientale e paesaggistico - 7. Gli “elenchi mensili” ex art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 - 8. La comunicazione di avvio del procedimento - 9. L’accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 e l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma 1-quater, D.Lgs. 42/2004 - 10. Gli interventi di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi - 11. La segretezza delle indagini di polizia giudiziaria, nonché delle informazioni e della documentazione contenute nelle CNR - 12. Conclusioni

1. Premessa
   La gestione delle comunicazioni di notizia di reato attinenti agli ambiti richiamati all’oggetto crea, a volte, disguidi.
   Vengono, infatti, periodicamente riscontrate problematiche inerenti allo svolgimento delle indagini di polizia giudiziaria e agli accertamenti tecnici, nonché relative alle modalità di inoltro delle comunicazioni di notizia di reato.
   In particolare, continuano a pervenire, a volte da parte della Polizia Locale a volte da parte dell’Ufficio Tecnico, isolate ordinanze di sospensione lavori o di demolizione o isolati permessi a costruire in sanatoria, comunicazioni prive addirittura delle complete generalità dei soggetti denunciati, senza l’indicazione del numero di procedimento a cui fanno riferimento, in assenza di qualsivoglia atto di indagine o, comunque, in mancanza di una comunicazione di notizia di reato completa, ossia redatta con i contenuti espressamente indicati all’art. 347 c.p.p..
   Ciò comporta la moltiplicazione dei fascicoli inerenti al medesimo fatto-reato e, soprattutto, una dispersione di energie e risorse perché, in mancanza delle necessarie indagini, che il Magistrato sarà costretto a disporre, non sarà possibile definire celermente il procedimento, con fondato rischio di prescrizione del reato e, quindi, di vanificazione del lavoro di tutti.
   Lo scopo di questa direttiva è, quindi, quello di regolamentare il flusso delle c.n.r. ed evitare che pervengano alla Procura della Repubblica segnalazioni incomplete o improprie, ovvero la duplicazione delle stesse.
   Pertanto, la presente direttiva viene trasmessa a tutti gli Enti e Organi competenti negli ambiti di cui all’oggetto.
   La presente direttiva fa, ovviamente, principale riferimento al Comune e ai suoi Organi e Uffici. Ognuno degli altri Enti in indirizzo individuerà i propri paralleli Organi e Uffici competenti.
   La necessità di ultimare le indagini entro tempi prestabiliti, di approfondirle attraverso eventuali consulenze tecniche, i brevissimi tempi di prescrizione del reato e l’aggravio di lavoro per la Segreteria del Magistrato che la circolazione della corrispondenza comporta, impongono l’adozione di precise regole di carattere generale.
   Pertanto, ritengo utile inoltrare la presente direttiva anche alle Autorità territorialmente competenti in ordine ai Comuni attribuiti alla giurisdizione della Procura della Repubblica di Bergamo.
   La presente direttiva viene emessa ai sensi del D.Lgs. 20.02.2006 n. 106.

2. Contenuti, tempistica e modalità di deposito della comunicazione di notizia di reato
   La comunicazione della notizia di reato (di seguito denominata CNR) deve pervenire alla Procura della Repubblica esclusivamente da parte di un organo di polizia giudiziaria, completa anche di ogni atto investigativo utile: pertanto, in ambito comunale, procederà unicamente la Polizia Locale e a essa si rivolgerà, quindi, il personale degli Uffici Tecnici ai sensi dell’art. 331, commi 1 e 2, c.p.p..
   Le CNR e i seguiti devono essere caricati sul Portale NdR.
   Il personale degli Uffici Tecnici comunali è tenuto a collaborare e a fornire alla Polizia Locale tutti i dati tecnici, le informazioni e la documentazione di cui dispone: in particolare, stilerà un’apposita relazione contenente la descrizione tecnica e la qualificazione urbanistico-edilizia delle opere abusive, la loro conformità agli strumenti urbanistici e la loro eventuale sanabilità, l’indicazione circa l’eventuale titolo abilitativo che avrebbero richiesto per essere regolarmente eseguite, la zonizzazione dell’area nella quale sono state realizzate e la presenza di eventuali vincoli ambientali, paesaggistici, storico-architettonici, l’identificazione catastale delle predette aree e della relativa proprietà, la presenza in Comune di eventuali precedenti pratiche ecc. Fornirà, altresì, il certificato di destinazione urbanistica dei mappali sui quali insistono gli abusi. In caso di rifiuto o ritardo nella collaborazione da parte del personale degli Uffici Tecnici comunali la Polizia Locale procederà alla nomina dello stesso quale ausiliario di p.g. ex art. 348, comma 4, c.p.p. e comunicherà tempestivamente dette omissioni al Pubblico Ministero per le valutazioni di sua competenza in ordine alla eventuale responsabilità penale.
   La CNR deve pervenire completa, in ogni sua parte, dei dati essenziali successivamente indicati. Qualora non sia possibile inoltrarla da subito completa di tutti i dati essenziali verrà inviata una prima comunicazione alla quale dovrà seguire, nel più breve tempo possibile, la documentazione completa. Nel seguito dovrà, in tal caso, essere sempre chiaramente indicato, in grassetto e nella parte alta della prima pagina, che si tratta di “SEGUITO” e il numero del procedimento penale (ricavabile anche tramite il numero di NDR).
   La CNR deve pervenire all’Autorità Giudiziaria senza ritardo, ai sensi dell’art. 347 c.p.p.. La locuzione utilizzata dal legislatore consente, in termini generali, di posticipare il deposito di qualche giorno, a volte di qualche settimana, rispetto alla data di acquisizione della notitia criminis, a seconda della complessità degli accertamenti da compiere. Mai, però, giustifica il deposito con mesi o, addirittura, anni di ritardo. Richiamo l’attenzione sulla possibile rilevanza penale e disciplinare in caso di omessa o ritardata denuncia ex artt. 361 c.p. e 16 e ss. disp. att. c.p.p..
   In caso di atti urgenti che richiedono convalida da parte del Pubblico Ministero i relativi verbali, corredati della relativa CNR, devono essere trasmessi alla Procura della Repubblica entro 48 ore dal compimento dell’atto medesimo a mezzo APU.
   Il documento che contiene la CNR non potrà ordinariamente essere utilizzato dal Giudice nel dibattimento, cosicché le notizie rilevanti dovranno essere trasfuse anche nel verbale di sopralluogo che, quale atto irripetibile ex artt. 354 c.p.p. e 113 disp. att. c.p.p., ha invece ingresso nel fascicolo del dibattimento e può essere preso in considerazione dal Giudice.
   È necessario numerare le pagine che compongono il fascicolo ed evitare di allegare fotografie in bianco e nero che, spesso, non sono in grado di assolvere al loro compito (ossia di consentire, al Pubblico Ministero prima e al Giudice poi, di apprezzare la reale consistenza degli abusi accertati).
   Non devono pervenire alla Procura della Repubblica CNR relative ad abusi edilizi non penalmente rilevanti poiché, per esempio, puniti con mera sanzione amministrativa.
   Non è consentito l’inoltro, in un’unica CNR, di elenchi relativi a più abusi commessi da soggetti diversi, a meno che si tratti di un unico cantiere.
   Elementi essenziali della CNR sono i seguenti:

a) Indicazione delle generalità dei responsabili
   Costoro sono, di regola, individuabili, ai sensi dell’art. 29 D.P.R. 380/2001, nel committente, nel titolare del titolo abilitativo (qualora rilasciato), nel progettista, nel costruttore e nel direttore dei lavori (se esistenti). Altri soggetti possono, ovviamente, concorrere nel reato secondo i principi generali del diritto penale (ad esempio, il proprietario del terreno, se non dimostra la propria estraneità ai fatti).
   Tali soggetti vanno tutti identificati compiutamente e, se trattasi di persone giuridiche, va individuato e generalizzato il legale rappresentante pro-tempore (riferito all’epoca del commissi delicti), acquisendo la documentazione relativa alla posizione assunta all’interno dell’ente (visura CCIAA), nonché eventuali deleghe di responsabilità ad altri soggetti (procure notarili, scritture private ecc.). A carico di tutti i soggetti indicati si procederà con redazione del verbale di identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore di fiducia o designazione del difensore d’ufficio, informazioni sul diritto alla difesa.

b) Breve descrizione dell’abuso accertato
   Va tenuto presente che il Pubblico Ministero deve fornire una esauriente descrizione dei lavori abusivi nel capo di imputazione.
   Ciò non è possibile qualora gli stessi vengano indicati in CNR con frasi generiche tipo “ampliamento ala ovest di manufatto preesistente come riportato in colore rosso nell’allegata planimetria”, ovvero “realizzazione di più manufatti in tempi diversi su area di proprietà”.
   È, pertanto, necessario che la descrizione riportata nella CNR sia sintetica ma esauriente, ad esempio “realizzazione di un manufatto in muratura con copertura in legno di m. 2,00x 3,00 x 2,50 h massima”, oppure “demolizione e ricostruzione di preesistente edificio ad uso abitazione di mc complessivi 650”, oppure “modifica della destinazione d’uso di manufatto da stalla ad abitazione mediante esecuzione di opere consistenti in variazione del distributivo interno e suddivisione in due piani in contrasto con lo strumento urbanistico e mediante corresponsione di oneri di urbanizzazione in misura inferiore al dovuto (€ 3.000 in luogo di € 15.000)”, o altre simili.
   Se si tratta di più violazioni esse andranno indicate con numerazione progressiva, in modo tale da essere facilmente individuate.

c) Altre informazioni sull’abuso
   Va specificato, previo accertamento da effettuarsi dal personale dei competenti Uffici Tecnici comunali, se le opere denunciate come abusive siano state eseguite in assenza di permesso di costruire (o di altro titolo abilitativo), ovvero in variazione essenziale o difformità totale dallo stesso (indicandone gli estremi) nonché, nel caso, quale eventuale titolo abilitativo avrebbero richiesto per essere regolarmente realizzate.
   È importante, inoltre, specificare se le opere realizzate rientrino tra quelle sottoposte alla normativa in materia di strutture in conglomerato cementizio armato, indicando in modo specifico eventuali violazioni.

d) Indicazione della presenza di vincoli
   Tale informazione è di particolare importanza in quanto rende possibile l’esatta qualificazione giuridica del fatto denunciato. I vincoli che assumono rilevanza sono quelli paesaggistici e storico-architettonici la cui inosservanza costituisce violazione anche del D.Lgs. 42/2004.
   È essenziale indicare anche gli estremi del vincolo, tenendo presente che il semplice riferimento alla legge, senza ulteriore precisazione, non ha alcuna utilità. Vanno, quindi, indicati gli estremi esatti dell’atto d’imposizione del vincolo (Decreto Ministeriale, disposizione di legge con articolo e comma ecc.).
   Evidenzio che taluni abusi realizzati in area vincolata configurano delitto e non contravvenzione secondo quanto disposto dall’articolo 181, comma 1-bis, D.Lgs. 42/2004, con evidenti conseguenze ed è, quindi, indispensabile che le relazioni degli Uffici Tecnici comunali, allegate alla CNR, contengano esplicite indicazioni circa la sussistenza di tali fattispecie (per esempio quantificazione della cubatura illecita ecc.). Inoltre, segnalo che sono stati recentemente introdotti nel codice penale, con L. 09.03.2022 n. 22, gli artt. 518-duodecies e 518-terdecies, aventi rispettivamente ad oggetto “Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici” e “Devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici”.
   Va, altresì, segnalata la presenza di eventuali ulteriori e diversi vincoli, quale quello ambientale ai sensi della legge sulle aree naturali protette (Legge 394/1991). Il vincolo ambientale e quello paesaggistico sono tra loro diversi e i rispettivi reati previsti in caso di violazione concorrono tra loro e con quelli edilizi.

e) Classificazione urbanistica dell’area e compatibilità dell’intervento con la stessa
   Anche tale informazione è essenziale per la qualificazione giuridica del fatto. Occorre indicare la destinazione urbanistica dell’area ove insiste l’abuso e la conformità di quanto realizzato con la normativa urbanistica e con gli strumenti urbanistici locali.
   Tale particolare, giova ricordarlo, serve anche per verificare le eventuali illegittimità e illiceità di titoli abilitativi (anche in sanatoria) eventualmente rilasciati dalla struttura comunale.

f) Data e luogo del fatto
   Il luogo ove insiste l’abuso va indicato con gli estremi del foglio e del mappale catastale o, in mancanza, con via e numero civico, ovvero con ogni altra indicazione utile all’individuazione del luogo del commesso reato.
   La data di consumazione del reato coincide con quella di sospensione effettiva dei lavori, ovvero di ultimazione degli stessi.
   A tale proposito giova ricordare che, per costante giurisprudenza, l’ultimazione dei lavori coincide con il completamento dell’intero manufatto in ogni sua parte, ivi comprese le finiture, gli infissi, la tinteggiatura ecc. Non è, pertanto, sufficiente la copertura del fabbricato al grezzo.
   Ricordo, inoltre, che la data di ultimazione dei lavori è cosa diversa dalla data di accertamento del fatto.
   L’accertamento della data di ultimazione dei lavori, indispensabile anche ai fini del calcolo dell’eventuale prescrizione del reato, andrà eseguito attraverso l’acquisizione di dichiarazioni di eventuali persone informate sui fatti (vicini, esponenti ecc.) ex art. 351 c.p.p. (che, in quanto tali, hanno l’obbligo di rispondere e di dire la verità), l’acquisizione di pregressi rilievi fotografici o aerofotogrammetrici, l’acquisizione di contratti di forniture, la pregressa conoscenza diretta dei luoghi da parte degli operanti o del personale tecnico comunale ecc.
   In nessun caso può considerarsi sufficiente la mera dichiarazione degli indagati (che, in quanto tali, non hanno l’obbligo di rispondere e di dire la verità).

g) Persone in grado di riferire
   Vanno indicati tutti i possibili soggetti informati sui fatti. Quando si tratta del personale di polizia giudiziaria che ha proceduto all’accertamento lo stesso non va indicato genericamente con espressioni tipo “i verbalizzanti”, ma occorre inserire nome, cognome e qualifica.
   Per gli altri soggetti indicare, oltre al nome cognome e indirizzo, anche l’eventuale qualifica come, ad esempio, “ausiliario di p.g.”, “tecnico comunale”, “denunciante” ecc.

3. Attività d’indagine d’iniziativa
   L’attività d’indagine d’iniziativa non può essere limitata ai soli interventi espletati a seguito di denuncia di privati ma deve essere il risultato di un effettivo, costante e capillare controllo del territorio di competenza.
   Infatti, il combinato disposto degli artt. 27, 31 e 33 D.P.R. 380/2001 attribuisce al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale e alla polizia giudiziaria (quindi anche alla Polizia Locale), nonché al personale dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, precisi e penetranti poteri (e doveri) di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, cautelari e di repressione degli abusi.
   Analoghi poteri-doveri sono attribuiti a detto personale comunale in materia di conglomerati cementizi armati dagli artt. 68, 69 e 70 D.P.R. 380/2001, mentre gli artt. 27, 29 e 30 L. 394/1991 attribuiscono analoghi poteri-doveri al personale dell’Ente Gestore dell’area protetta in caso di violazioni commesse all’interno di parchi regionali.
   L’esecuzione, sin da subito, di un’accurata attività di accertamento e indagine renderà superfluo l’invio di delega da parte del Pubblico Ministero, accelerando notevolmente i tempi del procedimento.
   Per il compimento di singoli atti si rinvia, pertanto, al successivo capitolo 5.

4. Attività d’indagine delegata dal Pubblico Ministero
   Come sopra già indicato, la CNR dovrà possibilmente pervenire, sin da subito, completa in ogni sua parte (compresi gli allegati) e, qualora ciò non fosse possibile, dovrà pervenire quanto prima (e, comunque, senza ritardo) un apposito seguito.
   La delega d’indagine dovrà, pertanto e d’ora in poi, costituire un evento eccezionale e riguardare accertamenti specifici che verranno indicati direttamente dal Pubblico Ministero.
   Evidenzio che gli atti d’indagine delegati devono essere eseguiti rispettando scrupolosamente le modalità indicate in delega. Non va, tuttavia, dimenticato che, nell’ambito dell’attività delegata, è sempre possibile per il personale di polizia giudiziaria procedere al compimento di atti d’iniziativa che si rendano necessari per l’accertamento dei fatti e la prosecuzione delle indagini.
   Qualora la delega riguardi un fatto già oggetto d’indagine indirizzata al medesimo Comando nell’ambito di altro procedimento penale, si sospenderanno gli accertamenti comunicando che, per i fatti per i quali si procede, è in corso altro procedimento penale (del quale si indicherà il numero di registro generale e il nome del Magistrato assegnatario). Tale indicazione è essenziale per una rapida eventuale unione dei procedimenti.
   Qualora pervenga un sollecito o una richiesta già evasi, è opportuno non limitarsi a indicare semplicemente che si è già risposto, ma è necessario inviare nuovamente quantomeno il frontespizio della precedente segnalazione.
   Va tenuto presente che il numero del procedimento (RGNR) è il mezzo più rapido ed efficace per l’individuazione del fascicolo, mentre l’indicazione di altri dati (nome indagato, numero di protocollo della segnalazione ecc.) rende la ricerca da parte della Segreteria lunga e complessa.
   Se viene indicato in delega un termine per l’espletamento delle indagini lo stesso deve essere tassativamente rispettato, salvo motivata richiesta di proroga al Magistrato delegante, che deve essere depositata con congruo anticipo per evitare che, nel frattempo, scada il termine per le indagini preliminari. Ricordo che la scadenza del termine massimo per l’espletamento delle indagini, in mancanza di una motivata e tempestiva richiesta di proroga al G.I.P. da parte del P.M., impedisce al Pubblico Ministero medesimo l’utile compimento di altre indagini.
   È estremamente importante che in tutta la corrispondenza intrattenuta con l’ufficio del Pubblico Ministero si indichino in modo bene visibile:
      1) il numero del procedimento (RGNR)
      2) il nome del Magistrato assegnatario
      3) ogni altro elemento utile per l’individuazione della precedente corrispondenza.

   Gli accertamenti delegati alla Polizia Locale non possono essere dalla stessa “subdelegati” agli Uffici Tecnici comunali, perché i relativi addetti non rivestono la qualifica di ufficiale o di agente di polizia giudiziaria e possono, pertanto, solo essere sentiti a verbale come persone informate sui fatti ex art. 351 c.p.p., ovvero nominati ausiliari di p.g. ai sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p..
   La Polizia Locale non potrà trasmettere la delega d’indagine all’Ufficio Tecnico perché la stessa potrebbe contenere l’indicazione di ulteriori indagini coperte da segreto istruttorio che non devono essere portate a conoscenza di soggetti diversi da quelli appartenenti alla polizia giudiziaria.
   Di conseguenza, la Polizia Locale inoltrerà all’Ufficio Tecnico comunale una propria richiesta che faccia riferimento all’ordine d’indagine della Procura della Repubblica e che conterrà in virgolettato unicamente lo stralcio degli accertamenti che devono essere condotti direttamente all’Ufficio Tecnico.

5 Sintesi della attività da compiere per singoli atti di indagine
   Quanto segue rappresenta una sintesi dell’attività di indagine da eseguire in via ordinaria. E’ ovvio che il personale di polizia giudiziaria potrà sempre predisporre ogni ulteriore accorgimento e iniziativa idonei all’accertamento dei fatti.
   Le disposizioni di seguito elencate andranno integrate con quanto già sopra indicato al precedente capitolo:

a) acquisizione documentazione
   Tale attività è fondamentale per l’accertamento dei fatti e per l’individuazione dell’abuso. Essa riguarderà tutta la documentazione esistente presso il Comune o altri Enti e relativa all’abuso edilizio (pratica edilizia, sanatoria se richiesta, rilievi, pareri, verbali ecc.). Se non diversamente ordinato dalla Procura della Repubblica potrà essere effettuata in copia. L’attività di acquisizione dovrà essere formalizzata con apposito verbale.
   Le copie acquisite saranno accompagnate da un indice e, comunque, numerate e saranno allegate al verbale di acquisizione.
   In caso di rifiuto o ritardo nel fornire la suddetta documentazione da parte di soggetti pubblici o privati, ne verrà data immediata notizia al Pubblico Ministero procedente, il quale potrà emettere, secondo i casi, Decreto di esibizione ex art. 256 cod. proc. pen., o di perquisizione e sequestro ex art. 252 c.p.p..

b) accertamento sui luoghi
  
È uno degli accertamenti più importanti perché irripetibile ex art. 354 c.p.p..
   Il verbale delle operazioni compiute avrà ingresso nel fascicolo del dibattimento e potrà essere letto e utilizzato dal Giudice. Grazie al contenuto di questo atto, il Giudice potrà rendersi conto di ciò di cui si discuterà nel dibattimento. E’ necessario che tale atto contenga tutti gli elementi essenziali per l’individuazione dei fatti.
   L’accertamento non avverrà esclusivamente con la descrizione a verbale di quanto verificato: saranno, invece, eseguiti rilievi fotografici e, se necessario, planimetrici dei luoghi, avvalendosi eventualmente di ausiliari di polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 348, comma 4, c.p.p..
   I soggetti nominati ausiliari di p.g. non potranno rifiutarsi di prestare la propria opera. In caso di rifiuto andranno denunciati ex art. 366 cod. pen. (rifiuto di uffici legalmente dovuti).
   Nell’ambito dell’attività edilizia gravitano spesso altre fattispecie di reato quali evasione fiscale (in alcune circostanze), inquinamenti ambientali, lavoro in nero (in alcune circostanze), violazioni alla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Raccomando, pertanto, interventi di controllo sinergici con le forze specialistiche [ad esempio, Guardia di Finanza (per le violazioni fiscali e tributarie), Nucleo Ispettorato Lavoro dei CC, Ispettorato Nazionale del Lavoro e PSAL della ATS (per la sicurezza e la regolarità del lavoro), ARPA e servizi ispettivi degli Enti Parco (per le violazioni ambientali ecc.)].

c) documentazione fotografica
   Continuano a pervenire fotografie in bianco e nero, o singole immagini, che non consentono, per dimensioni e caratteristiche, di avere una cognizione completa dell’abuso.
   Le fotografie dovranno, al contrario, essere a colori e in numero adeguato per consentire al Pubblico Ministero e al Giudice di valutare la consistenza dell’abuso. Andranno munite di didascalia.
   I rilievi fotografici e tecnici andranno allegati al verbale di sopralluogo del quale dovranno costituire parte integrante. Ne consegue che, qualora per comodità di lettura e per facilitare la comprensione si ritenga opportuno alternare parti di testo della CNR a fotografie, queste ultime dovranno necessariamente essere allegate in ulteriore copia a colori munite di didascalia anche al verbale di sopralluogo.
   Per la predisposizione del fascicolo fotografico si tengano presenti i criteri utilizzati normalmente per la documentazione degli incidenti stradali.

d) Accesso ai luoghi
   I sopralluoghi dovranno necessariamente essere espletati congiuntamente da personale della Polizia Locale e da quello dell’Ufficio Tecnico comunale: solo così sarà possibile, infatti, giungere a una CNR completa sia degli atti investigativi (verbale di identificazione, verbale di sequestro, verbale di sopralluogo, verbale di sommarie informazioni testimoniali, verbale di spontanee dichiarazioni da indagato ecc.), sia di quelli tecnici (rilievi tecnici, relazione inerente la qualificazione edilizio-urbanistica delle opere abusive, identificazione catastale, ordinanza di sospensione dei lavori, ordinanza di demolizione, permesso a costruire in sanatoria ecc.).
   Capita che venga impedito al personale ispettivo di accedere ai luoghi per accertare compiutamente l’abuso. In tal caso dovrà essere interpellato il Magistrato assegnatario del procedimento o, in mancanza, assenza o impedimento, quello di turno, che valuterà se emettere Decreto di ispezione di cose e luoghi ex artt. 244 e 246 c.p.p. al fine di consentire l’accesso ai luoghi, anche con autorizzazione alla rimozione degli ostacoli fissi.
   Va, in ogni caso, evidenziato che tali comportamenti, potendo astrattamente concretizzare, in talune circostanze, ipotesi delittuose di violenza o minaccia o resistenza a pubblico ufficiale ex artt. 336 e 337 cod. pen., ovvero di impedimento del controllo ex art. 452-septies c.p., dovranno essere tempestivamente denunciati alla Procura della Repubblica.

e) Accertamento della proprietà dell’area ove insiste l’abuso
  
Si tratta di un dato essenziale che dovrà essere sempre acquisito, allegando anche l’atto di proprietà o altra idonea documentazione (visura presso la Conservatoria dei registri immobiliari ecc.). Non sono ammissibili le semplici dichiarazioni dei soggetti presenti sul posto.

d) Qualificazione dei luoghi, vincoli ecc.
   Andrà accertata la destinazione urbanistica dei luoghi oggetto di abuso allegando il relativo certificato di destinazione urbanistica che attesti la destinazione d’uso, sia alla data di realizzazione dell’abuso, sia con riguardo alla data del relativo accertamento. Verrà verificato anche se le opere eseguite siano o meno conformi alla normativa urbanistica e agli strumenti urbanistici locali. Ciò dovrà avvenire attraverso idonea dichiarazione scritta da parte del responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale.
   Gli eventuali vincoli (paesaggistici, ambientali, storico-architettonici, idrogeologici ecc.) se non indicati nel dettaglio nel certificato di destinazione urbanistica andranno indicati in modo completo con gli estremi (articolo, comma e dati completi della legge di riferimento) nella relazione del personale dell’Ufficio Tecnico comunale. In caso di vincolo imposto con provvedimento ministeriale o con altro provvedimento amministrativo andrà allegata copia dello stesso.

e) Identificazione soggetti responsabili
  
Oltre a quanto ho già detto al precedente punto 2.21 a), aggiungo che sarà necessario allegare il certificato anagrafico degli indagati (la cui reperibilità, da parte della Polizia Locale, appare agevole anche attraverso subdelega ad altri comandi territorialmente competenti per la residenza degli indagati), perché ciò rende meno frequenti gli errori di trascrizione e accelera i tempi di registrazione del fascicolo.
   L’assuntore dei lavori potrà essere inizialmente identificato anche attraverso la targa dei mezzi utilizzati per l’esecuzione dei lavori, ovvero tramite la documentazione contabile o di altro tipo in possesso del committente.
   Non è accettabile che, in molte CNR, venga omessa l’individuazione di tutti i responsabili degli abusi e ciò anche in piccoli comuni ove l’acquisizione di tali informazioni è estremamente facile.
   Nelle more di redazione del verbale di identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore e informazioni sul diritto alla difesa ricordo che, nel caso di mancata nomina del difensore di fiducia da parte dell’indagato, è consigliabile per la p.g. procedere alla nomina del difensore d’ufficio, che dovrà essere necessariamente individuato in quello indicato dall’Ordine degli Avvocati del Foro di Bergamo (anche se nominato da un organo di p.g. avente sede altrove).
   Al verbale di identificazione dovrà essere allegata fotocopia di un valido documento di riconoscimento dell’indagato.
   Si richiama l’attenzione degli operanti circa la corretta e completa compilazione di detti verbali evitando, per esempio, parziali indicazioni dell’esatto domicilio eletto o dell’esatto nominativo del difensore nominato (per esempio, eleggo domicilio in via Rossi n. 5 senza indicare la località, ovvero nomino difensore di fiducia lo studio legale Rossi senza indicare l’esatto nominativo del difensore), che comporterebbero la nullità dell’atto medesimo.

f) Accertamento provvedimenti adottati dall’Autorità comunale
   La vigente legislazione urbanistica contempla alcuni provvedimenti, di regola di competenza dell’Autorità comunale (ad esempio, ordinanze di sospensione lavori o di demolizione), la cui emissione da parte della stessa Autorità costituisce, in presenza dei prescritti presupposti, un obbligo e non una facoltà.
   Basti pensare, a tale proposito, che l’eventuale mancata ottemperanza all’ordinanza di demolizione comporta l’acquisizione dell’immobile abusivo e dell’area di sedime al patrimonio del Comune.
   Occorrerà, pertanto, verificare quali provvedimenti siano stati adottati dalle competenti Autorità, allegandone copia munita della relativa relata di notifica.
   Qualora l’abuso non sia ancora noto alle predette Autorità ne verrà data alla stessa specifica informativa da parte della Polizia Locale e prova dell’avvenuta consegna verrà allegata agli atti della CNR.
   L’ordinanza di sospensione dei lavori prevista dagli artt. 27, comma 3, D.P.R. 380/2001, 167 D.Lgs. 42/2004 e 29 L. 394/1991 non va emessa, come spesso accade, esclusivamente allorquando le opere abusive sono in corso di realizzazione all’atto del sopralluogo; al contrario, andrà sempre emessa (e tempestivamente notificata) in tutti i casi in cui le opere abusive non siano già integralmente completate.
   Ricordo che, di regola, la sequenza dei provvedimenti che devono essere emessi dall’Autorità comunale, a norma dell’articolo 27 D.P.R. 380/2001, è la seguente:
      a) ordinanza di sospensione lavori e relativa notifica;
      b) verifica circa l’ottemperanza di detta ordinanza con apposito verbale;
      c) comunicazione alla Procura della Repubblica circa l’eventuale inottemperanza in ordine al reato ex art. 44, lett. b), D.P.R. 380/2001 e valutazione sulla opportunità di procedere con sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p..
      d) ordinanza di demolizione e ripristino e relativa notifica;
      e) verifica circa l’ottemperanza all’ordinanza con apposito verbale;
      f) notifica dell’eventuale verbale di inottemperanza;
      g) applicazione, in caso di inottemperanza, della sanzione amministrativa ex art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001 (nei casi di interventi eseguiti in assenza, totale difformità o variazione essenziale del permesso di costruire);
      h) acquisizione al patrimonio del Comune del fabbricato e dell’area di sedime e successiva demolizione d’ufficio a cura del Comune e spese del responsabile dell’abuso (nei casi di interventi eseguiti in assenza, totale difformità o variazione essenziale del permesso di costruire);
      i) esecuzione d’ufficio della demolizione a cura del Comune e a spese del responsabile dell’abuso medesimo nei casi di interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità da esso nei casi di cui agli artt. 33, comma 1, e 34, comma 1, D.P.R. 380/2001.

   Occorrerà, pertanto, verificare che l’Autorità comunale abbia effettivamente adempiuto ai doveri impostigli dalla vigente normativa urbanistica.
   Non è, in nessun caso, consentito inserire nella segnalazione che “il provvedimento è in corso di redazione” o altre diciture simili. Il provvedimento deve essere acquisito completo delle relate di notifica.

g) Verifica dell’agibilità
   Sebbene l’articolo 221 R.D. 1265/1934 comprenda violazioni depenalizzate, la presenza o meno dell’agibilità andrà verificata e segnalata alla competente Autorità comunale per l’irrogazione delle sanzioni amministrative e per gli altri adempimenti di competenza.

h) Accertamento della data di ultimazione lavori
   La data da accertare è quella effettiva di ultimazione lavori. Detto accertamento potrà essere effettuato acquisendo ogni documento (fatture, scontrini etc.) relativo all’acquisto dei materiali e recante data certa.
   Dovranno, inoltre, essere sentiti a verbale ex art. 351 c.p.p., quali persone informate sui fatti, i vicini, gli esponenti ecc. (non i soggetti da sottoporre a indagine le cui dichiarazioni non sono utilizzabili) sulla data di ultimazione delle opere.
   Si potrà anche verificare se vi siano contratti di fornitura (acqua, luce, gas ecc.) recanti data certa e, nel caso, acquisirne copia.
   Si dovrà sempre procedere, quando disponibili, alla verifica e all’acquisizione di copia a colori dei rilievi aerofotogrammetrici presso il Comune o la Regione.

i) Illecita attivazione di utenze
   L’art. 48 D.P.R. 380/2001 vieta la fornitura di acqua, energia elettrica e gas per gli immobili abusivi. Nel caso in cui ciò avvenga, il responsabile del servizio è passibile di sanzione amministrativa.
   In caso d’immobile abusivamente realizzato sarà, quindi, opportuno verificare se e a quale titolo siano stati stipulati eventuali contratti di utenza per acqua, energia elettrica, gas, al fine di accertare eventuali responsabilità di altri soggetti che hanno agevolato l’utilizzazione del manufatto abusivo.
   Frequentemente i responsabili degli abusi stipulano contratti per l’erogazione di energia elettrica dichiarando falsamente (in violazione dell’art. 483 cod. pen. – falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico) che la fornitura erogata viene utilizzata per “irrigazione”, “sollevamento acqua”, “apertura cancello elettrico”, “cantiere” ecc.
   Sarà, pertanto, essenziale accertare se l’immobile abusivo sia fornito di acqua, luce, gas acquisendo, in caso positivo, copia del contratto, al fine di consentire la successiva valutazione in sede penale della condotta dei soggetti fornitori, nonché quella relativa alle false dichiarazioni rese al fine di ottenere le forniture.

l) Esecuzione dei sequestri
   Qualora l’organo di vigilanza accerti l’esecuzione di opere abusive ovvero, a maggior ragione, la prosecuzione dei lavori illeciti nonostante l’ordine di sospensione degli stessi, lo stesso organo di vigilanza:
      1. non potrà limitarsi a depositare una mera comunicazione alla Procura della Repubblica;
      2. dovrà invece valutare, secondo un prudente apprezzamento circa la sussistenza di concreti pericoli per il bene giuridico tutelato (ambiente, assetto urbanistico ecc.) l’eventuale adozione del provvedimento di sequestro preventivo in via d’urgenza ex art. 321, 3-bis c.p.p.; in tal caso, è consigliabile contattare il P.M. di turno per le sue determinazioni.

   Il sequestro effettuato dalla P.G. rappresenta un atto particolarmente delicato e importante nella complessiva attività d’indagine. Con esso si impedisce la prosecuzione dell’intervento abusivo (sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p.) e si assicurano al processo elementi di rilievo sotto il profilo probatorio (sequestro probatorio ex art. 354 c.p.p.).
   Il sequestro può riguardare non solo il singolo manufatto abusivo, ma anche l’area dove esso insiste, il cantiere e le relative attrezzature.
   Il sequestro preventivo, inoltre, può essere effettuato, secondo un orientamento ormai costante della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, anche sulle opere già ultimate (poiché le conseguenze che tale misura tende ad evitare sono ulteriori rispetto alla fattispecie tipica già realizzata e, in materia urbanistica, l'esistenza di una costruzione abusiva può aggravare il cd. carico urbanistico e, quindi, protrarre le conseguenze del reato).
   Qualora si proceda a sequestro (d’iniziativa, ovvero su ordine dell’A.G.) delle opere abusive e del cantiere, lo stesso andrà effettuato rendendo effettivamente inaccessibili i luoghi, apponendo sigilli e cartelli visibili recanti gli estremi del provvedimento. Ove possibile ci si dovrà, dunque, assicurare che ogni via di accesso all’area e al fabbricato in sequestro sia fisicamente impedita apponendo, se necessario, ostacoli fissi (reti, travi ecc.).
   Si è notato come talvolta si faccia, ancora, ricorso all’anomala figura del “sequestro senza sigilli”, inteso come apposizione solo virtuale del vincolo sul bene sequestrato che viene, in realtà, lasciato nella disponibilità dell’indagato o del detentore, specie nel caso in cui l’immobile abusivo sia utilizzato.
   Tale figura è del tutto sconosciuta al codice di procedura penale (la Suprema Corte di Cassazione ha, da tempo, espressamente escluso, con riferimento al sequestro preventivo, la possibilità che lo stesso sia sottoposto a termini o condizioni quali, ad esempio, la “facoltà d’uso” finalizzata alla eliminazione della situazione che ha determinato l’apposizione del vincolo) e si risolve in un atto del tutto privo di efficacia, in quanto consente comunque la piena utilizzazione del manufatto abusivo.
   Dovrà quindi curarsi che, all’atto del sequestro, il manufatto non sia in nessun caso accessibile o altrimenti utilizzabile e sia, pertanto, libero da persone.
   Dovrà, inoltre, assicurarsi una successiva vigilanza al fine di verificare l’integrità dei sigilli e che permangano le condizioni di conservazione del bene assicurate al momento del sequestro.
   Ricordo, inoltre, che la violazione di sigilli, se commessa dal custode (che va sempre nominato sin dall’esecuzione del sequestro) consente, ai sensi dell’art. 349, comma 2, cod. pen. e in presenza dei presupposti di legge, l’arresto in flagranza.
   Il sequestro (d’iniziativa o disposto dall’ A.G.) dovrà essere tempestivamente eseguito, così come ogni verifica in merito ad abusi in corso di esecuzione. L’eventuale omissione o il ritardo nell’esecuzione può configurare gravi ipotesi di reato.

m) Esecuzione di dissequestri
   Anche i provvedimenti di restituzione delle cose sequestrate andranno immediatamente eseguiti.
   Evidenzio, però, che il relativo provvedimento dovrà pervenire direttamente dall’Autorità che l’ha emesso (P.M. o Giudice) nelle forme previste.
   Non è in nessun caso ammissibile procedere all’esecuzione di dissequestri sulla base di provvedimenti esibiti in copia dall’indagato o dal suo difensore né, tanto meno, su richiesta verbale.
   Detti provvedimenti dovranno pervenire dalla Segreteria del P.M. o dalla Cancelleria del Giudice nelle forme di legge.
   Se la restituzione è disposta nei confronti dell’ ”avente diritto” e lo stesso non sia compiutamente indicato, dovrà accertarsi chi sia tale soggetto, potendosi lo stesso individuare in persona diversa dall’indagato, come nel caso in cui si sia perfezionata l’acquisizione automatica dell’immobile al patrimonio del Comune a seguito d’inottemperanza all’ordinanza di demolizione.
   In caso di dubbio andrà interpellato per iscritto l’Ufficio che ha emesso il provvedimento.

n) Procedura di acquisizione
   La procedura di acquisizione degli immobili e delle relative aree di sedime è obbligatoria e dovrà essere portata a termine nel rispetto di quanto stabilito dal legislatore.
   Tale procedura dovrà essere avviata dal competente funzionario comunale con le cadenze che vengono qui di seguito sinteticamente ricordate:

      − emissione ordinanza di demolizione ai sensi dell’art. 27 D.P.R. 380/2001 e relativa tempestiva notifica. L’ordinanza dovrà contenere tutti gli estremi per l’identificazione dell’abuso (compresi foglio e mappale), nonché l’area di sedime acquisibile in caso di inottemperanza,
      − verifica (attraverso sopralluogo della Polizia Locale) dell’ottemperanza all’ordinanza con redazione del relativo verbale,
      − in caso d’inottemperanza, il relativo verbale (che dovrà contenere gli estremi catastali dell’immobile) dovrà essere notificato ai soggetti interessati,
      − l’accertata inottemperanza determina ope legis l’automatico passaggio della proprietà dell’abuso e dell’area di sedime all’Amministrazione comunale nei termini indicati dall’articolo 31 D.P.R. 380/2001
,
      − il trasferimento di proprietà dovrà essere rapidamente trascritto.

   Ciò posto, si è rilevata spesso una resistenza da parte dei competenti Uffici comunali a effettuare la trascrizione o a porre in essere regolarmente e tempestivamente la procedura di cui sopra.
   È, pertanto, opportuno che il personale di Polizia Locale sia reso edotto del fatto che:
      − l’eventuale omissione o rifiuto da parte del personale competente a procedere potrà configurare, a seconda dei casi, i reati di favoreggiamento, abuso d’ufficio e/o di omissione o rifiuto di atti d’ufficio, in ordine ai quali vi è l’obbligo di tempestiva comunicazione a questa A.G.,
      − il ricorso innanzi al Giudice amministrativo non sospende la procedura di acquisizione, se non nel caso in cui venga emessa Ordinanza cautelare di sospensiva.

   Questa Procura della Repubblica provvederà a segnalare alla competente Procura Regionale della Corte dei Conti omissioni o ritardi che possano comportare danno erariale.


6. Reati di “falso” in ambito edilizio, ambientale e paesaggistico
   L’art. 20, comma 13, D.P.R. 380/2001 punisce penalmente chiunque dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o dei presupposti previsti al comma 1 del medesimo articolo nell’ambito del procedimento per il rilascio del permesso di costruire.
   L’art. 29, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede che, per le opere realizzate nell’ambito di segnalazione certificata di inizio attività, il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi degli articoli 359 e 481 del cod. pen. Ne consegue che, in caso di false dichiarazioni, viene integrato il reato ex art. 481 cod. pen. (falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità).
   L’art. 19, comma 6, L. 241/1990 punisce penalmente chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l’esistenza dei requisiti o presupposti indicati al comma 1° della medesima legge.
   È sempre previsto l’obbligo d’informativa, da parte del responsabile del procedimento, al competente Ordine Professionale per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari. All’informativa può provvedere ovviamente anche la Polizia Locale, quale organo di polizia giudiziaria.
   Restano fermi i restanti reati di falso previsti nel Libro II Titolo VII Capo III (della falsità in atti) del cod. pen.
   È necessario, quindi, che si proceda al controllo sulla veridicità delle dichiarazioni, attestazioni, asseverazioni (e relativi allegati) inserite dalle parti nelle pratiche e si provveda a segnalare tempestivamente a questa Procura della Repubblica gli eventuali reati, nonché a darne immediata informativa al competente Ordine Professionale qualora l’autore del reato sia un professionista.

7. Gli “elenchi mensili” ex art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001
   L’art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 prevede che: … “Il Segretario comunale redige e pubblica mensilmente, mediante affissione nell’albo comunale, i dati relativi agli immobili e alle opere realizzati abusivamente, oggetto dei rapporti degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria e delle relative ordinanze di sospensione e trasmette i dati anzidetti all’autorità giudiziaria competente, al presidente della giunta regionale e, tramite l’ufficio territoriale del governo, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti”.
   Tale norma ha la finalità di consentire il complessivo monitoraggio sul territorio della giurisdizione del fenomeno dell’abusivismo edilizio.
   Gli elenchi di cui all’art. 31, comma 7, D.P.R. 380/2001 non sostituiscono, pertanto, l’obbligo di CNR previsto dall’art. 347 c.p.p.. Né, al contrario, il deposito della CNR da parte degli operanti fa venir meno l’obbligo di trasmissione dei suddetti elenchi mensili da parte del Segretario comunale.
   Tali elenchi dovranno essere mensilmente trasmessi, solo se positivi (ossia solo se vi sono abusi da segnalare), unicamente a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo: (da indicare).
   Tali elenchi non verranno iscritti in alcun registro del S.I.C.P. (Sistema Informativo della Cognizione Penale) e verranno direttamente trasmessi al Procuratore.
   L’elenco mensile deve contenere unicamente i dati relativi all’abuso (identificazione del luogo, sintetica descrizione della tipologia dell’abuso ecc.) e ai soggetti responsabili dello stesso (complete generalità). Al contrario, non deve contenere allegati (ordinanze, rapporti ecc.).
   È necessario che nell’elenco mensile venga inserita, per ogni abuso, un’apposita voce “CNR della Polizia Locale n…. inoltrata in Procura il …”, ovvero “CNR in fase di redazione da parte della Polizia Locale e di prossimo inoltro in Procura”. In tale ultimo caso sarà onere del Comune (attraverso il Segretario comunale, ovvero la Polizia Locale) trasmettere tempestivamente alla Procura apposita integrazione all’elenco mensile con la quale si darà atto dell’avvenuto deposito della relativa CNR mancante.
   Gli elenchi mensili conterranno sia gli abusi che assumono rilevanza penale, sia quelli che costituiscono meri illeciti amministrativi, poiché la norma di riferimento non prevede distinzioni.
   È necessario, però, che nell’elenco mensile venga inserita un’ulteriore apposita voce che indichi esplicitamente se si tratta di abuso avente carattere penale o solo amministrativo.

8. La comunicazione di avvio del procedimento
   L’art. 7 Legge 241/1990 inerente alla comunicazione di avvio del procedimento dispone che … “Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell’inizio del procedimento. Nelle ipotesi di cui al comma 1 resta salva la facoltà dell’amministrazione di adottare, anche prima della effettuazione delle comunicazioni di cui al medesimo comma 1, provvedimenti cautelari”.
   Per costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, IV Sez., 23.01.2012, n. 282; VI Sez., 24.09.2010, n. 7129; VI Sez., 30.05.2011, n. 3223; VI Sez., 24.05.2013, n. 2873; V Sez., 09.09.2013, n. 4470, VI Sez., 08.05.2014) l’adozione di misure repressive edilizie non è assoggettata all’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento, attesa la natura vincolata del provvedimento finale, rispetto al quale la partecipazione dell’interessato non può arrecare alcuna utilità.
   Particolare rigore deve essere posto con riguardo ad accertamenti connessi alle opere in corso di esecuzione, sia nel caso di ordinaria attività di vigilanza, che nel caso di attivazione a seguito di segnalazione di parte.
   In tali casi, al fine di evitare il concretizzarsi di ipotesi penalmente rilevanti a carico del funzionario comunale firmatario del provvedimento di avvio del procedimento (per esempio, di favoreggiamento del potenziale destinatario del provvedimento sanzionatorio che ben potrebbe, se preventivamente informato, eliminare l’abuso prima dell’accertamento, ovvero aggravare il reato con il completamento funzionale delle opere e la potenziale fruibilità delle stesse, con conseguente vantaggio patrimoniale), l’avvio del procedimento è tassativamente vietato.
   Al contrario, non si ravvisano particolari criticità connesse all’eventuale emanazione della comunicazione di avvio del procedimento per ciò che concerne le opere illecite pacificamente già ultimate anche nelle loro rifiniture. Detta prassi è, infatti, utilizzata da molti comuni, soprattutto per la difficoltà a risalire a documentazione giacente presso l’archivio storico e, conseguentemente, per evitare di procedere con la notifica di provvedimenti demolitori riguardanti manufatti regolarmente assentiti, con conseguente necessità di un successivo provvedimento in autotutela. Quanto sopra, ovviamente, fermo restando il rispetto del termine perentorio di cui all’art. 27, comma 4, D.P.R. 380/2001.
   Nel caso di emissione della comunicazione di avvio del procedimento occorrerà, pertanto, indicare un termine perentorio alla controparte per presentare memorie o scritti difensivi utili al procedimento instaurato.
L’utilizzo di detta procedura non può, in nessun caso, portare a una dilazione dei 30 giorni previsti dall’art. 27, comma 4, D.P.R. 380/2001
.
   In generale corre l’obbligo per il Comune di intervenire senza indugio con i controlli e i successivi provvedimenti ripristinatori degli interventi realizzati in assenza di titolo abilitativo.
   La facoltà di presentare istanza di sanatoria, nei casi previsti dalla legge, è in capo infatti all’avente titolo. Non sono, pertanto, giustificati ritardi nell’azione repressiva al fine di agevolare i privati nella presentazione di eventuali istanze di sanatoria.

9. L’accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 e l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, comma 1-quater, D.Lgs. 42/2004
   L’art. 45, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede che … “il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti”.
   Parallelamente, l’art. 181, comma 1-ter, D.Lgs. 42/2004 prevede che, nelle ipotesi di abuso paesaggistico ivi tassativamente elencate e qualora la competente Autorità amministrativa ne accerti la relativa compatibilità paesaggistica, non trovano applicazione le sanzioni penali di cui al comma 1° del medesimo articolo.
   Nel corso degli anni si è registrata, da parte dei singoli comuni, una disomogenea applicazione delle norme e delle procedure in tema di segnalazione dei reati oggetto di richieste di conformità e di compatibilità paesaggistica: alcuni comuni non trasmettono mai la CNR in caso di rilascio delle sanatorie (ovvero delle compatibilità paesaggistiche), altri le trasmettono solo all’esito delle relative pratiche e indistintamente dal loro accoglimento o meno, altri le trasmettono solo all’esito della relativa istruttoria e solo in caso di diniego, altri ancora le trasmettono non appena pervenute al Comune e ancor prima della relativa istruttoria.
   È, pertanto, opportuno chiarire che, solo allorquando la sussistenza di un abuso edilizio o paesaggistico venga portata a conoscenza delle strutture comunali (ovvero del parallelo Ente pubblico competente in materia paesaggistica) unicamente dalla parte tramite richiesta di accertamento di conformità edilizia (ovvero richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica), quindi in assenza di qualsivoglia esposto, segnalazione, ovvero in assenza di accertamenti, sopralluoghi del personale comunale o di altri Organi pubblici, il deposito della CNR sarà posticipato all’esito dei relativi procedimenti amministrativi.
   Tale obbligo di denuncia all’A.G. sussiste, all’esito dell’istruttoria, sia qualora l’abuso venga sanato, o ne venga certificata la compatibilità paesaggistica, sia qualora le relative istanze vengano rigettate. Ciò perché è stato, comunque, commesso un reato, la cui eventuale dichiarazione di estinzione compete unicamente al Giudice.
   È evidente che, in caso di accoglimento delle istanze di conformità e/o compatibilità paesaggistica, l’Organo procedente (Polizia Locale, ovvero il parallelo servizio ispettivo dell’Ente competente in materia paesaggistica) si limiterà a depositare la CNR contenente i dati essenziali: la relazione sarà molto sintetica, con esplicito riferimento all’inutilità di effettuare ulteriori indagini e conterrà proposta di archiviazione del procedimento.
   Andranno, comunque, anche in questo caso, allegati il verbale di identificazione, dichiarazione o elezione di domicilio, nomina del difensore e informazioni sul diritto alla difesa in capo a tutti i soggetti responsabili, copia integrale del provvedimento amministrativo di sanatoria e/o compatibilità, nonché apposita dichiarazione del responsabile dell’ Ufficio Tecnico attraverso la quale si attesta che, con il provvedimento amministrativo rilasciato e trasmesso, è stato sanato (ovvero ne è stata certificata la compatibilità paesaggistica), l’intero abuso e che non residuano ulteriori abusi non sanati.
   Tale procedura appare in assoluto la più logica e, al contempo, ossequiosa del dettato normativo posto che, l’eventuale rilascio dei citati permessi a costruire in sanatoria (ovvero delle certificazioni di compatibilità paesaggistica), comporterebbe il mantenimento nell’area della mera rilevanza sanzionatoria amministrativa dei lavori illeciti eseguiti, senza alcun obbligo d’immediata informativa all’A.G. (che ben può essere posticipata, quindi, all’esito delle procedure amministrative).
   Al contrario, è appena il caso di ricordare che, quando sono già pervenuti esposti, segnalazioni, denunce, ovvero quando il personale comunale ha già espletato accertamenti, sopralluoghi ecc. prima del deposito in Comune di un’eventuale istanza di conformità o di compatibilità, la CNR dovrà necessariamente essere depositata in Procura senza ritardo (indistintamente dal fatto che pervengano, dopo l’esposto o l’accertamento, eventuali istanze di conformità o di compatibilità).
   A norma dell’art. 45, comma 1, D.P.R. 380/2001, ... “l’azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all’art. 36”.
   Di conseguenza, anche il corso della prescrizione del reato rimane sospeso, a norma dell’art. 159 cod. pen., per tale lasso di tempo. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione.
   L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001 prevede, inoltre, che: … “sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia, con adeguata motivazione, entro sessanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
   È opportuno evidenziare, quindi, che la lettura del combinato disposto degli artt. 45, comma 1, e 36, comma 3, D.P.R. 380/2001 consente di affermare che, entro il termine massimo di 60 giorni dalla presentazione dell’istanza di conformità, il responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale dovrà provvedere su tale istanza e trasmettere tempestivamente tutta la documentazione (compreso il provvedimento finale) alla Polizia Locale, affinché quest’ultima possa celermente notiziare la Procura della Repubblica (salvo le ipotesi relative ad aree o immobili vincolati, in ordine alle quali si deve considerare anche il termine di 180 giorni a disposizione della Soprintendenza per il parere obbligatorio e vincolante di sua competenza).
   In caso di insufficienza della documentazione o delle dichiarazioni allegate dalla parte nell’istanza, il responsabile del procedimento avrà cura di inoltrare, con mezzi che ne garantiscano la prova di ricezione, specifica richiesta di integrazione: la stessa dovrà necessariamente indicare il termine tassativo entro cui produrre al Comune tale documentazione e/o dichiarazioni mancanti (che deve essere il più possibile contenuto), in mancanza delle quali, allo scadere del termine concesso, l’istanza dovrà essere rigettata.
   Non è mai tollerabile la prassi, sin qui tenuta da alcuni comuni, di inoltrare alla parte richieste di integrazione prive di un termine entro cui provvedere. Così facendo, infatti, dette pratiche rischiano di rimanere, nel caso di inerzia della parte, in “istruttoria” spesso ben oltre il termine massimo concesso dalla legge per la definizione dei procedimenti, con conseguente elevato rischio di prescrizione del reato.
   Non è consentito l’inoltro, in un’unica CNR, di elenchi relativi a più abusi commessi da soggetti diversi, sanati od oggetto di compatibilità paesaggistica.
   È obbligo del Comune, attraverso la Polizia Locale, aggiornare tempestivamente la Procura della Repubblica circa l’avvenuto rilascio del permesso a costruire in sanatoria, ovvero della certificazione di compatibilità paesaggistica. Ciò senza attendere una specifica delega d’indagine dell’A.G.. A tal fine sarà onere del responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale trasmettere tempestivamente apposita comunicazione alla Polizia Locale, contenente copia integrale del provvedimento emesso e dichiarazione che attesti che non residuano abusi non sanati.

10 Gli interventi di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi
   Gli artt. 27, 31, 33 e 35 D.P.R. 380/2001 prevedono che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale ordina la demolizione delle opere abusive.
   L’art. 31, comma 9, D.P.R. 380/2001 prevede che il Giudice, con la Sentenza di condanna, ordina la demolizione delle opere se ancora non sia stata altrimenti eseguita.
   Analoghi poteri-doveri sono previsti in ambito paesaggistico dagli artt. 167 e 181, comma 2, D.Lgs. 42/2004, nonché dall’art. 29 L. 394/1991, in caso di attività abusive in aree protette.
   L’art. 31, comma 4-bis, D.P.R. 380/2001 prevede, poi, una specifica sanzione amministrativa in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione. E’ indicato, altresì, che … “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile, del dirigente e del funzionario inadempiente”.
   Ho verificato che, spesso, non viene emessa la citata sanzione amministrativa e che ci si limita a emettere le ordinanze di demolizione e/o ripristino senza, però, procedere agli interventi d’ufficio previsti dalle citate norme in caso di inottemperanza del responsabile dell’abuso.
   Ricordo che, in presenza dei presupposti di legge, l’esecuzione d’ufficio delle demolizioni e dei ripristini, così come l’acquisizione al patrimonio pubblico dell’immobile abusivo e della relativa area di sedime e l’emanazione delle prescritte sanzioni amministrative, costituiscono un obbligo per l’Autorità amministrativa e non una mera facoltà discrezionale. Sono evidenti, in astratto, le possibili responsabilità omissive, sia sul piano penale sia su quello erariale.
   La mancata ottemperanza alle ordinanze di demolizione non integra il reato ex art. 650 cod. pen. perché tale fattispecie penale (c.d. “norma penale in bianco”), così come da consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione, punisce l’inosservanza di provvedimenti legalmente dati dall’Autorità per ragioni di giustizia, ordine pubblico, sicurezza pubblica o igiene, esclusivamente allorquando tali inosservanze non siano già punite dall’ordinamento con specifiche sanzioni.
   Nel caso di specie la sanzione prevista dalla norma in caso d’inottemperanza è la demolizione, ovvero il ripristino dei luoghi, eseguiti d’ufficio e a spese del relativo responsabile.
   L’art. 181, comma 1-quinquies, D.Lgs. 42/2004 prevede che la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga condanna, estingue il reato paesaggistico di cui al comma 1 del medesimo articolo.
L’art. 131-bis cod. pen. prevede, poi, l’esclusione della punibilità in taluni casi di particolare tenuità del fatto.
   È obbligo pertanto del Comune, attraverso la Polizia Locale, aggiornare tempestivamente la Procura della Repubblica circa l’eventuale avvenuta demolizione, ovvero ripristino dello stato dei luoghi, sia al fine di valutare l’eventuale estinzione del reato, sia perché tale ottemperanza costituisce comunque comportamento favorevolmente valutabile nei confronti dell’indagato.

11 La segretezza delle indagini di polizia giudiziaria, nonché delle informazioni e della documentazione contenute nelle CNR
   L’art. 329 c.p.p. prevede che … “gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”.
   L’art. 326 cod. pen. punisce penalmente il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza.
   Ne consegue che ogni richiesta di accesso agli atti trasmessi all’A.G., da chiunque proveniente (indagati, difensori, esponenti, soggetti terzi ecc.), deve essere trasmessa al P.M. titolare per il preventivo vincolante nulla osta ex art. 116 c.p.p..
   Talune norme vigenti in materia edilizia (per esempio, gli artt. 27, comma 4, e 31, comma 7, D.P.R. 380/2001) prevedono, peraltro, l’obbligo di informativa alle Autorità amministrative preposte (Regione, Comune, Ordine Professionale ecc.) circa i reati accertati per i provvedimenti di rispettiva competenza. In tali casi, ossia quando l’informativa non riveste carattere di discrezionalità ma deriva da un obbligo ope legis, il nulla osta del P.M. alla trasmissione degli atti alle suddette Autorità e per le finalità indicate nella legge s’intende sin d’ora concesso.
   Evidenzio che gli atti diretti e provenienti dalla Procura della Repubblica, ovvero da altri organi di polizia giudiziaria, possono essere portati a conoscenza del solo personale avente qualifica di agente o ufficiale di polizia giudiziaria.
   Qualsivoglia eventuale comportamento di amministratori locali volto a interferire, limitare o intralciare le attività di polizia giudiziaria e di controllo degli abusi deve essere immediatamente segnalato al Procuratore della Repubblica.

12 Conclusioni
   Prego le Autorità in indirizzo di inoltrare la presente direttiva ai Comandi, Settori, Servizi, Uffici territorialmente e funzionalmente competenti, onde garantirne la più ampia diffusione.
   Le SS.VV. si atterranno alle sopraelencate disposizioni anche in considerazione della rilevanza che assumono i beni giuridici tutelati dalle norme in oggetto.
   La mancata, scorretta o parziale ottemperanza alla presente direttiva costituisce intralcio all’attività dell’Autorità Giudiziaria e, come tale, verrà valutata dal Magistrato titolare del procedimento in ordine ad eventuali responsabilità penali e/o disciplinari.

ANNO 2023
aggiornamento al 30.10.2023

Volente o nolente, è la sacrosanta verità:

l'abolizione da parte del legislatore statale -nel lontano anno 2001- del controllo (esterno) di legittimità sugli atti delle "Province, dei Comuni e degli altri enti locali" a cura del Co.Re.Co. (Comitato Regionale di Controllo) ha costituito il "suggello" al principiato (molto tempo addietro) degrado etico, morale della Pubblica Amministrazione (e non solo) di cui nessuno più si scandalizza, nell'assordante indifferenza generale, poiché -oramai- è divenuto un processo sociale irrimediabilmente non più reversibile.

 Ciò detto alla faccia del recente slogan pubblicitario: "Pubblica Amministrazione: più che un posto fisso, un posto figo"!

     Invero, nella fattispecie che ci interessa, oggigiorno un Tecnico Comunale "normale"(1) e cioè:  
(a)
che rispetta la legge (art. 1, comma 1, L. 07.08.1990 n. 241);
(b)
che agisce in modo efficiente e senza inutili aggravi per i cittadini (art. 1, commi 1 e 2, L. 07.08.1990 n. 241);
(c)
che non perde tempo, non si balocca e agisce a ragion veduta (art. 97 Cost.);
(d)
preparato, efficiente, prudente e zelante (art. 98 Cost.),

è un soggetto raro, pressoché in via di estinzione!

     Non solo, viste le nefandezze -in punto di diritto- di atti amministrativi che si leggono quotidianamente all'albo pretorio on-line (qua e là) non ci stancheremo di rammentare all'infinito che «Qualsiasi pubblica amministrazione "efficiente", ai sensi dell'art. 97 Cost. e per i fini di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., non può non conoscere la legge. Se questa non ammette ignoranza da parte degli amministrati, a fortiori sarà l'ignoranza della legge intollerabile in un amministratore»(2).
---------------
(1) (2) cfr. Corte di Cassazione - Sez. III civile, con la sentenza 06.10.2015 n. 19883

     Sull'argomento, si legga l'interessante recentissimo articolo di giornale riportato a seguire, laddove chi si definisce "persona onesta" non può non condividerlo e, soprattutto, non può (e non deve) rimanere "indifferente".

30.10.2023 - LA SEGRETERIA PTPL

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Non ci sono controlli sui sindaci. Le minoranze sono private dei dati per poter giudicare. L'abolizione dell'art. 130 della Costituzione rende irresponsabili i conti degli enti locali.
L'articolo 130 della Costituzione Italiana prevedeva il controllo di legittimità sugli atti degli Enti Locali. Infatti, esso così recitava: «Un organo della Regione, costituito nei modi stabiliti dalla legge della Repubblica, esercita, anche in forma decentrata, il controllo di legittimità sugli atti delle Province, dei Comuni e degli altri enti locali».
Quando nel 1970 furono istituite, le Regioni con proprie leggi diedero vita ai Comitati Regionali di Controllo (Co.Re.Co.) in ogni Provincia, a cui i Comuni erano obbligati a inviare i propri atti deliberativi per il controllo di legittimità. L'articolo 9, comma secondo, della legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001 ha abrogato l'articolo 130 della Costituzione italiana, eliminando il controllo di legittimità sugli atti degli Enti Locali.
Nel corso dell'anno successivo tutte le Regioni italiane hanno provveduto a sciogliere i Co.Re.Co, per cui da quel momento in poi il controllo di legittimità sugli atti è stato esercitato internamente dai singoli dirigenti delle Province e dei Comuni nelle materie di propria competenza,
con l'assurda coincidenza di controllore e controllato.
L'abrogazione dell'articolo 130 della Costituzione e la cancellazione delle leggi regionali istitutive dei Co.Re.Co. hanno determinato una situazione paradossale nella vita degli Enti Locali con gravissime conseguenze di ordine politico e istituzionale.
In primo luogo, è stato davvero poco rispettoso dei principi della democrazia alterare nella vita degli Enti Locali la dialettica tra le forze politiche di maggioranza e quelle di minoranza, privando queste ultime della possibilità di richiedere ad un organo esterno il controllo di legittimità sugli atti deliberativi assunti dalla maggioranza.
La funzione di controllo delle forze di minoranza è stata del tutto azzerata, in quanto esse sono state private della facoltà del controllo amministrativo e hanno avuto e tuttora hanno a disposizione soltanto due strade: il ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale e/o la denuncia all'Autorità Giudiziaria.
La prima strada non è affatto percorribile, in quanto richiede cospicue risorse finanziarie, di cui non dispongono i gruppi consiliari degli Enti Locali. La seconda strada distorce gravemente la dialettica democratica, dirottando le relazioni politiche tra maggioranza e opposizione sul piano giudiziario. Il che ammorba il clima politico complessivo locale con forte pregiudizio per il bene della Comunità.
In secondo luogo, è stato davvero irresponsabile privare gli atti degli Enti Locali del controllo esterno di legittimità, in quanto
il condizionamento delle mafie e della criminalità organizzata costituisce una costante in quasi tutto il territorio nazionale e, massimamente, nel Mezzogiorno d'Italia. Gli amministratori locali, i dirigenti e i responsabili di servizio sono stati lasciati soli di fronte alle forti pressioni di gruppi criminali, a cui spesso non si sottraggono per paura o, in alcuni casi, per scelta.
In terzo luogo,
è stato del tutto deplorevole aver reso più semplice la violazione di una serie di norme di regolamenti per una gestione poco trasparente degli Enti Locali anche con gravi risvolti corruttivi.
Noi Liberaldemocratici Italiani, per tutte queste ragioni, proponiamo che nella prossima riforma faccia ritorno l'articolo 130 della Costituzione Italiana (articolo ItaliaOggi del 28.10.2023).

aggiornamento al 27.09.2023 (ore 23,59)

In materia di "certificato di destinazione urbanistica":

EDILIZIA PRIVATA: Il certificato di destinazione urbanistica, redatto dal pubblico ufficiale, “è atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano, effetti che discendono, invece, da precedenti provvedimenti, i quali hanno determinato la situazione giuridica acclarata con il certificato; se ne desume che tale atto non ha natura provvedimentale ed è sprovvisto di concreta lesività e, dunque, non è suscettibile di impugnazione, con la conseguenza che la domanda di risarcimento del danno derivante dal rilascio di un certificato urbanistico errato non rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo”.
Pertanto, nel rilascio di un certificato urbanistico, il Comune esplica un’attività indubbiamente certativa, ma non integrante l’esercizio di un “potere” amministrativo rilevante ai fini della giurisdizione in ordine al risarcimento del danno: a tali fini, l’esercizio del potere viene in rilievo quale presupposto che (tramite l’adozione di atti o comportamenti) consente all’Amministrazione di definire l’assetto di interessi, producendo quindi effetti nella sfera giuridica del destinatario in via unilaterale (o autoritativa).
---------------

Con l’ordinanza nr. 9203/2023, il Collegio ha sollevato d’ufficio un dubbio relativo alla giurisdizione, che parte ricorrente, con apposita memoria, ha affermato sussistere, argomentando circa il fatto che il rilascio di un certificato urbanistico errato non costituirebbe un “mero” comportamento dell’Ente, ma sarebbe da ricondurre pur sempre all’esercizio di un potere (certificativo) della PA, con conseguente radicamento della domanda di risarcimento di fronte al G.A.; soccorrerebbero la tesi delle ricorrenti un precedente specifico (TAR Napoli, Sez. II, 29.12.2020, n. 6451) ed i principi di cui alla sentenza dell’Adunanza Plenaria nr. 20 del 29.11.2021 (secondo la quale vanno ricondotte alla giurisdizione del giudice amministrativo tutte quelle ipotesi nelle quali il risarcimento richiesto dipenda da comportamenti i quali costituiscano “comunque espressione di poteri ad essa attribuiti per il perseguimento delle finalità di carattere pubblico devolute alla sua cura”); nel caso in esame, non si verterebbe esclusivamente in ordine all’errata emissione di certificati urbanistici, bensì anche di titoli abilitativi dei quali l’amministrazione aveva emesso preavviso di rilascio prima di disporne il rigetto; ne deriverebbe che nell’ipotesi di richiesta risarcitoria avanzata in ragione della “fiducia” posata in base ad un’azione della P.A. esercitata nell’alveo dell’esercizio del potere amministrativo, quale l’emissione di un certificato urbanistico, si integrerebbe quel “comportamento” che ai sensi dell’art. 7 del c.p.a. radica la giurisdizione nell’A.G.A., vieppiù nelle ipotesi di cui all’art. 133 comma 1 lett. f) del c.p.a.
Nonostante l’evidente impegno difensivo, le argomentazioni che la difesa delle ricorrenti hanno svolto non consentono al Collegio di sciogliere la riserva in senso favorevole alla giurisdizione del giudice amministrativo.
Si osserva, preliminarmente, che la decisione del TAR Catania n. 2550/2015, richiamata nell’ordinanza ex art. 73 c.p.a. si colloca entro un orientamento più ampio (rispetto al quale la decisione di TAR Napoli 6451/2020 appare isolata), che il Collegio ritiene di dover confermare.
Invero, è dirimente –anche rispetto a quanto argomentato dalla difesa dei ricorrenti– quanto chiarito da Consiglio di Stato, sez. IV, 04/02/2014, n. 505, secondo cui il certificato di destinazione urbanistica, redatto dal pubblico ufficiale, “è atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano, effetti che discendono, invece, da precedenti provvedimenti, i quali hanno determinato la situazione giuridica acclarata con il certificato; se ne desume che tale atto non ha natura provvedimentale ed è sprovvisto di concreta lesività e, dunque, non è suscettibile di impugnazione, con la conseguenza che la domanda di risarcimento del danno derivante dal rilascio di un certificato urbanistico errato non rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo” (cfr. altresì, TAR Brescia, sez. I, 24/04/2012, n. 687, e Cassazione civile, sez. un., 23/09/2010, n. 20072).
Pertanto, nel rilascio di un certificato urbanistico, il Comune esplica un’attività indubbiamente certativa, ma non integrante l’esercizio di un “potere” amministrativo rilevante ai fini della giurisdizione in ordine al risarcimento del danno: a tali fini, l’esercizio del potere viene in rilievo quale presupposto che (tramite l’adozione di atti o comportamenti) consente all’Amministrazione di definire l’assetto di interessi, producendo quindi effetti nella sfera giuridica del destinatario in via unilaterale (o autoritativa) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-stralcio, sentenza 10.07.2023 n. 11569 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In merito alla domanda di risarcimento del danno conseguente ad erronea certificazione urbanistica, la giurisprudenza è orientata pacificamente ad ascrivere la relativa fattispecie alla cognizione del giudice ordinario.
Invero, “rientra nella giurisdizione dell'A.G.O. una controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno avanzata nei confronti di un ente locale da un soggetto che, sulla scorta del rilascio di un certificato di destinazione urbanistica dal contenuto non corrispondente alla realtà, è stato indotto all'acquisto di un terreno qualificato erroneamente come edificabile.
Infatti, il rilascio del certificato di destinazione urbanistica integra gli estremi non già dello svolgimento di una qualsivoglia attività provvedimentale della P.A., bensì del comportamento (sicuramente colposo) del funzionario, riconducibile all'ente di appartenenza, astrattamente idoneo a risolversi in un illecito civile, con la conseguenza che spetta al giudice ordinario la cognizione (e l'accertamento in concreto) della sussistenza e della tutelabilità, sul piano risarcitorio, delle posizioni di diritto soggettivo che si assumono lese in tali fattispecie”.
---------------

Rilevato che, nell’odierno giudizio, parte ricorrente agisce contro il Comune intimato per il risarcimento del danno che assume di aver subito per aver confidato nella legittimità di un certificato di destinazione urbanistica che la induceva a sostenere investimenti onerosi nell’acquisto di lotti di terreno e nella predisposizione di progetti di edificazione che, all’esito del relativo procedimento, si rivelava non essere assentibile;
Rilevato che, più precisamente,
   - le ricorrenti si determinavano nelle proprie iniziative imprenditoriali sulla base dell’attestata destinazione urbanistica dei lotti meglio precisati in atti, datata 30.07.2004, (prot. 11460) nella quale il terreno (foglio 11 particelle 482,484, 487 e 488) veniva dichiarato avente “destinazione urbanistica” F5 parco privato;
   - a detto documento veniva allegato l’estratto di PRG a mente del quale si specificava che “Riguarda aree nelle quali possono essere realizzati impianti sportivi ed interventi di iniziativa privata. Sono anche ammessi interventi per la costruzione di case di abitazione e di impianti destinati allo svolgimento di attività culturali ricreative e turistiche, nell’osservanza delle seguenti prescrizioni …” (segue come in atti);
   - presentata la necessaria documentazione edilizia (28.04.2005), e nonostante il Comune avesse in un primo tempo preannunciato l’accoglimento delle relative domande (prot. 7373 e 7376 del 10.05.2005) il procedimento si concludeva con un rigetto della domanda (nota prot. 10229 del 14.06.2006), essendo risultato erroneo il certificato del 30.07.2004 (per omessa considerazione di varianti medio tempore intervenute), in quanto la destinazione di zona del lotto d’interesse risultava “G - Verde privato vincolato” del tutto inedificabile, salvo una parte ad “F4 - Servizi privati” con una minima edificabilità (che le parti assumono comunque insufficiente);
Ritenuto che, in merito alla domanda di risarcimento del danno conseguente ad erronea certificazione urbanistica, la giurisprudenza è orientata pacificamente ad ascrivere la relativa fattispecie alla cognizione del giudice ordinario (cfr. TAR Catania, sez. II, 04/11/2015, n. 2550: “rientra nella giurisdizione dell'A.G.O. una controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno avanzata nei confronti di un ente locale da un soggetto che, sulla scorta del rilascio di un certificato di destinazione urbanistica dal contenuto non corrispondente alla realtà, è stato indotto all'acquisto di un terreno qualificato erroneamente come edificabile; infatti, il rilascio del certificato di destinazione urbanistica integra gli estremi non già dello svolgimento di una qualsivoglia attività provvedimentale della P.A., bensì del comportamento (sicuramente colposo) del funzionario, riconducibile all'ente di appartenenza, astrattamente idoneo a risolversi in un illecito civile, con la conseguenza che spetta al giudice ordinario la cognizione (e l'accertamento in concreto) della sussistenza e della tutelabilità, sul piano risarcitorio, delle posizioni di diritto soggettivo che si assumono lese in tali fattispecie”; cfr. anche Consiglio di Stato , sez. IV, 04/02/2014 , n. 505);
Ritenuto che, secondo tale orientamento, il ricorso andrebbe dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo che andrebbe declinata in favore del giudice ordinario, con facoltà di riassunzione nei limiti ed alle condizioni di cui all’art. 11 del c.p.a.;
Ritenuto di invitare pertanto le parti a dedurre in ordine alla questione esposta, che il Collegio solleva d’ufficio, con termine per presentare memorie entro venti giorni dalla comunicazione della presente ordinanza ex art. 73 del c.p.a., con riserva di ogni altra decisione, in rito, come nel merito e sulle spese;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione II Stralcio) invita le parti a dedurre sulla questione rilevata d’ufficio di cui in parte motiva, nei termini pure ivi indicati e con riserva di ogni altra decisione, in rito, come nel merito e sulle spese (TAR Lazio-Roma, Sez. II-stralcio, ordinanza 30.05.2023 n. 9203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va richiamato l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui “il certificato di destinazione urbanistica, redatto dal pubblico ufficiale, è atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano, effetti che discendono, invece, da precedenti provvedimenti, i quali hanno determinato la situazione giuridica acclarata con il certificato”.
Si desume da ciò che tale atto non avente natura provvedimentale è sprovvisto di concreta lesività e, dunque, non è suscettibile di impugnazione, con la conseguenza che la domanda di risarcimento del danno derivante dal rilascio di un certificato urbanistico errato non rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo.
"Il rilascio del certificato di destinazione urbanistica integra gli estremi non già dello svolgimento di una qualsivoglia attività provvedimentale della p.a., bensì del comportamento (sicuramente colposo) del funzionario, riconducibile all'ente di appartenenza, astrattamente idoneo a risolversi in un illecito civile, con la conseguenza che spetta al g.o. la cognizione della sussistenza e della tutelabilità, sul piano risarcitorio, delle posizioni di diritto soggettivo che si assumono lese”.
---------------

2.2. Le ricorrenti inoltre imputano la concorrente responsabilità del Comune per non aver rappresentato nel certificato di destinazione urbanistica quale fosse lo stato ambientale del terreno affermando che “l’inserimento di detto fondo tra quelli non idonei ad ospitare l’impianto avrebbe determinato le società attrici a non acquistare il terreno” e che “la responsabilità del Comune si fonda sulla violazione di precetti normativi che regolano la specifica attività degli enti predetti”.
Secondo le ricorrenti il diritto al risarcimento dei danni troverebbe la propria fonte nella violazione da parte del Comune dell’obbligo, legislativamente predeterminato, di inserire nel certificato di destinazione urbanistica del terreno acquistato le informazioni sullo stato ambientale.
Al riguardo va richiamato l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui “il certificato di destinazione urbanistica, redatto dal pubblico ufficiale, è atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano, effetti che discendono, invece, da precedenti provvedimenti, i quali hanno determinato la situazione giuridica acclarata con il certificato” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 04/02/2014, n. 505; Tar Lazio, Roma, sez. II, 06/03/2012, n. 2241; Tar Piemonte, sez. II, 18/06/2016, n. 887; Tar Sicilia, Catania, sez. II, 03/07/2019, n. 1696; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 26/11/2020, n. 5564).
Si desume da ciò che tale atto non avente natura provvedimentale è sprovvisto di concreta lesività e, dunque, non è suscettibile di impugnazione, con la conseguenza che la domanda di risarcimento del danno derivante dal rilascio di un certificato urbanistico errato non rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. Cons. Stato, cit. sez. IV, n. 505 del 2014; Cass. civile, sez. un., 23/09/2010, n. 20072); “il rilascio del certificato di destinazione urbanistica integra gli estremi non già dello svolgimento di una qualsivoglia attività provvedimentale della p.a., bensì del comportamento (sicuramente colposo) del funzionario, riconducibile all'ente di appartenenza, astrattamente idoneo a risolversi in un illecito civile, con la conseguenza che spetta al g.o. la cognizione della sussistenza e della tutelabilità, sul piano risarcitorio, delle posizioni di diritto soggettivo che si assumono lese” (cfr. Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 24/04/2012, n. 687).
Pertanto anche in relazione alla rappresentata responsabilità del Comune riguardo alla dedotta omessa specificazione dello stato ambientale del terreno nel certificato urbanistico non sussiste la giurisdizione di questo giudice (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 02.05.2023 n. 7334 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per consolidato orientamento giurisprudenziale, il certificato di destinazione urbanistica è un atto dal carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso risultano, sicché allo stesso non è possibile ricollegare alcun contenuto provvedimentale.
In termini:
   - “Il certificato di destinazione urbanistica si configura come una certificazione redatta da un pubblico ufficiale, avente carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso risultano, visto che la situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la conseguenza di altri precedenti provvedimenti che hanno provveduto a determinarla. Pertanto, il certificato, in quanto privo di efficacia provvedimentale, non ha alcuna concreta lesività, il che rende impossibile la sua autonoma impugnazione. Gli eventuali errori in esso contenuti potranno essere corretti dalla stessa Amministrazione, su istanza del privato, oppure quest'ultimo potrà impugnare davanti al giudice amministrativo gli eventuali successivi provvedimenti concretamente lesivi, adottati sulla base dell'erroneo certificato di destinazione urbanistica”;
   - “Il certificato di destinazione urbanistica è atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano con la conseguenza che, attesa la natura non provvedimentale della certificazione de qua, rispetto ad essa non è ammessa impugnazione”;
   - “La destinazione urbanistica di un'area non è quella risultante dalla certificazione urbanistica ma quella realmente impressa dagli strumenti urbanistici, sicché in caso di contrasto l'indicazione contenuta nella certificazione è del tutto irrilevante e priva di efficacia conformativa, sicché non è necessaria alcuna impugnazione o dichiarazione di falso del certificato per poter far valere la reale previsione urbanistica”;
   - “Il certificato di destinazione urbanistica, di cui ai commi 2º e seguenti dell'art. 30 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si configura quale atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano: effetti che discendono, invece, da precedenti provvedimenti, i quali hanno determinato la situazione giuridica acclarata con il certificato. Se ne desume che tale atto non ha natura provvedimentale ed è sprovvisto di concreta lesività e, dunque, non è suscettibile di impugnazione”.
---------------

1. Il ricorso è inammissibile, rivolgendosi l’impugnativa avverso atto non immediatamente lesivo degli interessi della parte ricorrente.
Ed infatti, con il gravame in disamina la società Ge. spa ha impugnato il certificato di destinazione urbanistica, prot. n. 18875 del 05.12.2017, rilasciato dal Comune di Teano in riferimento al fondo del quale la deducente è proprietaria.
Giova, in proposito, rimarcare che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, il certificato di destinazione urbanistica è un atto dal carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso risultano, sicché allo stesso non è possibile ricollegare alcun contenuto provvedimentale.
In termini:
   - “Il certificato di destinazione urbanistica si configura come una certificazione redatta da un pubblico ufficiale, avente carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso risultano, visto che la situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la conseguenza di altri precedenti provvedimenti che hanno provveduto a determinarla. Pertanto, il certificato, in quanto privo di efficacia provvedimentale, non ha alcuna concreta lesività, il che rende impossibile la sua autonoma impugnazione. Gli eventuali errori in esso contenuti potranno essere corretti dalla stessa Amministrazione, su istanza del privato, oppure quest'ultimo potrà impugnare davanti al giudice amministrativo gli eventuali successivi provvedimenti concretamente lesivi, adottati sulla base dell'erroneo certificato di destinazione urbanistica” (cfr. TAR Catania, (Sicilia) sez. II, 06/06/2022, n. 1539);
   - “Il certificato di destinazione urbanistica è atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano con la conseguenza che, attesa la natura non provvedimentale della certificazione de qua, rispetto ad essa non è ammessa impugnazione” (cfr. TAR Palermo, (Sicilia) sez. II, 07/03/2022, n. 719);
   - “La destinazione urbanistica di un'area non è quella risultante dalla certificazione urbanistica ma quella realmente impressa dagli strumenti urbanistici, sicché in caso di contrasto l'indicazione contenuta nella certificazione è del tutto irrilevante e priva di efficacia conformativa, sicché non è necessaria alcuna impugnazione o dichiarazione di falso del certificato per poter far valere la reale previsione urbanistica” ( cfr. TAR Pescara, (Abruzzo) sez. I, 05/09/2018, n. 260);
   - “Il certificato di destinazione urbanistica, di cui ai commi 2º e seguenti dell'art. 30 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si configura quale atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano: effetti che discendono, invece, da precedenti provvedimenti, i quali hanno determinato la situazione giuridica acclarata con il certificato. Se ne desume che tale atto non ha natura provvedimentale ed è sprovvisto di concreta lesività e, dunque, non è suscettibile di impugnazione” (cfr. TAR Bari, (Puglia) sez. III, 03/01/2018, n. 5).
Del resto, la ricorrente non ha allegato il pregiudizio concreto ai propri interessi a derivare dal rilascio del certificato in commento, ma ha dedotto di aver proposto il ricorso in commento in ragione del fatto che esso “potrebbe incidere negativamente sulla conferenza di servizi (per il rilascio dell’autorizzazione ex art. 208 d.lgs. 152/2016) e pregiudicarne il buon esito”.
2. In questo contesto non è, dunque, dato apprezzare alcuna lesività dell’atto impugnato, con la conseguenza che il gravame deve essere dichiarato inammissibile (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 08.02.2023 n. 904 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il certificato di destinazione urbanistica, secondo una consolidata giurisprudenza, “si configura come una certificazione redatta da un pubblico ufficiale, avente carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso risultano, visto che la situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la conseguenza di altri precedenti provvedimenti che hanno provveduto a determinarla.
Pertanto, il certificato, in quanto privo di efficacia provvedimentale, non ha alcuna concreta lesività, il che rende impossibile la sua autonoma impugnazione.
Gli eventuali errori in esso contenuti potranno essere corretti dalla stessa Amministrazione, su istanza del privato, oppure quest’ultimo potrà impugnare davanti al giudice amministrativo gli eventuali successivi provvedimenti concretamente lesivi, adottati sulla base dell’erroneo certificato di destinazione urbanistica”.
---------------

... per l'annullamento:
   del provvedimento del Comune di -OMISSIS- del 10.11.2010 n. 6004, con cui il responsabile dell’Ufficio Tecnico ha emesso l’attestazione “di esistenza di vincoli” preclusivi alla prosecuzione dell’attività estrattiva nella cava di gneiss denominata “-OMISSIS-”, sita in quel Comune, e delle correlate note dell’A.R.T.A. -OMISSIS- e del Servizio Ispettorato Ripartimentale delle Foreste di Messina n. -OMISSIS-;
con richiesta di risarcimento danni.
...
4.- Il ricorso è inammissibile.
4.1- La Società -OMISSIS-, cui l'odierna Società ricorrente è subentrata con autorizzazione del 27.11.2006, conseguiva, con decreto -OMISSIS- dell'Assessorato regionale territorio e ambiente, il nulla osta all'impianto di una cava di "gneiss" in contrada -OMISSIS- del comune di -OMISSIS-. La -OMISSIS-, ottenuto il nulla osta all'impianto, chiedeva al Distretto Minerario di Catania l'autorizzazione all'esercizio della cava. Il Distretto Minerario autorizzava l'esercizio dell'attività di cava per la durata di quindici anni, con scadenza al 26.02.2011.
Con istanza del 16.11.2010, acquisita in pari data al protocollo del Comune di -OMISSIS- al n. 6004, la -OMISSIS-. chiedeva al Sindaco “il rilascio di un attestato circa la esistenza di vincoli”, ai sensi dell’art. 7 della L.R. 15.05.1991 n. 24, sull’area interessata.
In riscontro a tale richiesta, il Responsabile dell’Area Tecnica, effettuata la relativa istruttoria, con atto spedito alla Società in data 15.12.2010, attestava che la particella in questione “corrispondente all’area in cui risulta ubicata la cava di gneiss in oggetto indicata, ricade in una zona E (agricola) in cui l’attività di cava è da considerarsi vietata in quanto non espressamente compresa nell’elenco tassativo della destinazione d’uso in tale zona consentita, in conformità a quanto previsto dalla tavola 4 (tipologia edilizia) allegata al Programma di fabbricazione, approvato con D.A. n. 105 del 16.05.1977 [..]”, e che “l’area in oggetto indicata, pur non essendo espressamente compresa nel “Bacino Idrografico […] -OMISSIS- (098) per il quale è stato approvato il Piano per l’Assetto Idrogeologico (P.A.I.) con D.P.R.S. del 05.05.2007 […], per il forte degrado ambientale che potrebbe comportare grave rischio per la pubblica e privata incolumità, è da considerarsi, comunque, “sito di attenzione”, concludendo con l’affermazione che “la presente attestazione costituisce dichiarazione di esistenza di vincoli ai sensi dell’art. 7, comma 1, lettera c), Legge Regione Sicilia 15.05.1991, n. 24”.
Parte ricorrente ha, quindi, chiesto l’annullamento di tale nota e degli altri correlati provvedimenti.
Con l’attestato impugnato, l’Ufficio tecnico del Comune di -OMISSIS-, per esitare la richiesta della -OMISSIS-. di cui si è appena detto, ha verificato e attestato, alla luce della disciplina urbanistica vigente, il regime vincolistico dell’area su cui ricade la cava (che non consentiva e non consente l’attività per la quale la Società richiede il rinnovo dell’autorizzazione): sulla scorta delle varie comunicazioni intercorse sia con l’Assessorato territorio e ambiente, sia con il Genio civile, ha concluso che la stessa, per il forte degrado ambientale, era da ritenere, comunque, “sito di attenzione”.
Ciò detto, va rilevato che l’impugnata nota costituisce un atto che si inserisce all’interno del procedimento di rinnovo dell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività di cava (il cui provvedimento finale avrebbe dovuto essere emanato dal Distretto Minerario) e che consiste in una semplice manifestazione di scienza e di conoscenza, priva di manifestazione di volontà e non autonomamente impugnabile.
Fra l’altro, la dichiarazione dell’esistenza di vincoli urbanistici nella zona interessata dalla cava è assimilabile al certificato di destinazione urbanistica che, secondo una consolidata giurisprudenza, “si configura come una certificazione redatta da un pubblico ufficiale, avente carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso risultano, visto che la situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la conseguenza di altri precedenti provvedimenti che hanno provveduto a determinarla. Pertanto, il certificato, in quanto privo di efficacia provvedimentale, non ha alcuna concreta lesività, il che rende impossibile la sua autonoma impugnazione. Gli eventuali errori in esso contenuti potranno essere corretti dalla stessa Amministrazione, su istanza del privato, oppure quest’ultimo potrà impugnare davanti al giudice amministrativo gli eventuali successivi provvedimenti concretamente lesivi, adottati sulla base dell’erroneo certificato di destinazione urbanistica (ex multis, Consiglio di Stato, IV, 04.02.2014, n. 505; TAR Sicilia, Catania, II, 03.07.2019, n. 1696; TAR Lombardia, Milano, I, 24.03.2016, n. 586; TAR Lombardia, Brescia, I, 24.04.2012, n. 687; 21.12.2011, n. 1779; TAR Lombardia, Milano, II, 14.03.2011, n. 729; IV, 06.10.2010, n. 6863) …” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 04.11.2019 n. 2296) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 06.06.2022 n. 1539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento al certificato di destinazione urbanistica, è consolidato il principio secondo cui il detto certificato è atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano con la conseguenza che, attesa la natura non provvedimentale della certificazione de qua, rispetto ad essa non è ammessa impugnazione.
---------------

Passando all’esame dei motivi aggiunti il Collegio ne rileva l’inammissibilità stante la natura non provvedimentale degli atti impugnati.
Ed invero la nota della Soprintendenza n. -OMISSIS- non ha all’evidenza tale natura contenendo esclusivamente la richiesta ai ricorrenti di ulteriore documentazione.
Del pari, con riferimento al certificato di destinazione urbanistica, è consolidato il principio secondo cui il detto certificato è atto meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che da esso risultano con la conseguenza che, attesa la natura non provvedimentale della certificazione de qua, rispetto ad essa non è ammessa impugnazione (cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 08.07.2019, n. 638 che a sua volta richiama Cons. Stato, sez. IV, 04.02.2014 n. 505; TAR Lazio, Latina, 16.05.2013 n. 427; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 19.12.2015 n. 1990)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 07.03.2022 n. 719 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come noto, la destinazione urbanistica di un’area non è quella risultante dalla certificazione urbanistica ma quella realmente impressa dagli strumenti urbanistici, sicché in caso di contrasto l’indicazione contenuta nella certificazione è del tutto irrilevante e priva di efficacia conformativa, sicché non è necessaria alcuna impugnazione o dichiarazione di falso del certificato per poter far valere la reale previsione urbanistica.
---------------

Ciò premesso, si rileva innanzitutto che, come noto, la destinazione urbanistica di un’area non è quella risultante dalla certificazione urbanistica ma quella realmente impressa dagli strumenti urbanistici, sicché in caso di contrasto l’indicazione contenuta nella certificazione è del tutto irrilevante e priva di efficacia conformativa (Consiglio di Stato 476 del 2016), sicché non è necessaria alcuna impugnazione o dichiarazione di falso del certificato per poter far valere la reale previsione urbanistica (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 05.09.2018 n. 260 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aggiornamento al 30.06.2023 (ore 23,59)

Installazione ascensore in facciata:
questioni varie amministrativo-civilistiche "condominiali e non".

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIl condòmino disabile può predisporre l’ascensore sulla facciata del palazzo anche senza l’ok dell’assemblea. La tutela del diritto alla salute e il prinicipio di solidarietà sociale consentono minime compromissioni del decoro architettonico.
L’ascensore esterno, installato sulla facciata condominiale a cura e spese del disabile e volto a eliminare le barriere architettoniche, deve considerarsi indispensabile ai fini della accessibilità e abitabilità dell’appartamento.
È il chiarimento reso dal TRIBUNALE di Roma, Sez. V civile, con la sentenza 30.12.2022 n. 19186.

---------------
SENTENZA
La domanda merita accoglimento.
Il presente giudizio ha ad oggetto l’accertamento del diritto dell’attore, in quanto condòmino, peraltro affetto da gravi patologie che ne impediscono la deambulazione, all’installazione (sulla facciata esterna dell’edificio condominiale di via … n. … in Roma) di un elevatore, diritto già in passato negato dall’assemblea dei condòmini.
Sul punto deve subito osservarsi come l’assemblea di condominio abbia certamente il potere di decidere, nell’interesse collettivo, le modalità concrete di utilizzazione dei beni comuni, nella specie ai fini di autorizzare l’installazione di un ascensore in area condominiale, come anche quello di modificare –revocando una o più precedenti delibere, benché non impugnate da alcuno dei partecipanti, e stabilendone liberamente gli effetti– quelle in atto, ove intenda rivalutare la corrispondenza dell’innovazione ai limiti segnati dagli artt. 1120 e 1121 c.c. Non ha, tuttavia, il potere di impedire tale installazione laddove essa non comporti il superamento i limiti imposti dalla coesistenza di beni comuni e sia in ogni caso volta ad eliminare le barriere architettoniche presenti nell’edificio.
In particolare, l’installazione di un ascensore su parte di aree condominiali, diretta ad eliminare le barriere architettoniche, ai sensi della L. 02.01.1989, n. 13, art. 2 può essere approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 2, oppure, nel caso in cui il condominio rifiuti di adottare la relativa delibera, essere realizzata dai condòmini richiedenti, a proprie spese e con l’osservanza dei limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c.
Alla eventuale “autorizzazione” concessa dall’assemblea ad apportare tale modifica su iniziativa dei soli condòmini richiedenti e sulla base di uno specifico progetto può, quindi, attribuirsi il valore di mero riconoscimento dell’attuale inesistenza di un contrario interesse o di concrete (e legittime) pretese da parte degli altri condòmini a questo tipo di utilizzazione delle parti comuni.
Una tale delibera autorizzativa della realizzazione dell’impianto, pur vincolante nei confronti di tutti i condòmini (art. 1137 c.c., comma 1), non può ritenersi, perciò, simmetricamente produttiva di un autonomo diritto già spettante ai condòmini (rimanendo, peraltro, detta delibera revocabile dalla medesima assemblea sulla base di una rivalutazione di dati ed apprezzamenti obiettivamente rivolti alla realizzazione degli interessi comuni ed alla buona gestione dell’amministrazione; sarebbe del resto precluso al giudice un sindacato nel merito circa l’uso, da parte dell’assemblea dei condòmini, di detta facoltà di nuovo apprezzamento, se non nei limiti consentiti dall’indagine per l’accertamento dell’eccesso di potere, e cioè di un grave pregiudizio, in tal senso, cfr. Cass. civ., Sez. II, 04.02.2021, n. 2636)
Come chiarito dall’ormai consolidata giurisprudenza, anche di legittimità, quindi, l’installazione di un ascensore, o di un impianto avente analoga funzione, può avvenire per iniziativa assembleare (con imputazione dell’opera all’intera collettività, anche con riferimento alla ripartizione di costi) o anche di uno o più condòmini: in questo caso con attribuzione dell’opera e dei relativi costi ai soli condòmini “promotori” e nel rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 c.c. quanto all’utilizzo di parti comuni per la realizzazione dei manufatti (Cass. n. 24006/2004).
Orbene, le innovazioni che incidano sulla cosa comune (tra cui rientra anche l’installazione di un ascensore che apporti modifiche alle parti condominiali), richiedono, di regola, ai sensi dell’art. 1120 c.c. la maggioranza qualificata, ove comportino una spesa da ripartire fra tutti i condòmini su base millesimale; qualora invece (come nella specie) non debba farsi luogo ad un riparto di spesa, trova applicazione la norma di cui all’art. 1102 c.c. E’, infatti, evidente come le modificazioni eseguibili sulla cosa comune in forza dell’art. 1102 c.c. possano costituire anche un’innovazione ex art. 1120 c.c.; in tal caso esse sono consentite anche al singolo condòmino, o ad un gruppo di condòmini, se:
   1) non alterino la destinazione della cosa e non ne impediscano il pari uso agli altri partecipanti al condominio;
   2) rispettino il disposto di cui all’art. 1120, ultimo comma, c.c., perché detta norma (nel vietare le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato ovvero ne alterino il decoro architettonico o rendano talune parti dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condòmino) ha portata generale ed è collocata nell’articolo in esame al fine di rendere evidente che essa costituisce un limite invalicabile anche per la maggioranza dei condòmini.
Nel caso in esame, l’opera proposta dal condòmino consiste in un elevatore (modello Ecovimec Heavy Load), il quale, tenuto conto della grave compromissione della capacità deambulatoria dell’attore, risulta essere –come anche confermato dal CTU nel presente giudizio- l’unico modello realizzabile per consentire l’ingresso su un lato della cabina e l’uscita sul lato opposto, eliminando le barriere architettoniche costituite dalla scalinata che conduce dalla strada al piano di ingresso su via …. .
Come emerso dalla CTU, le cui risultanze devono ritenersi pienamente condivisibili, anche per il rigore metodologico che la caratterizza, l’elevatore, pur incidendo sulla corte comune e sul prospetto anteriore dell’edificio, non muta la destinazione d’uso dei beni comuni: nel primo caso (corte), l’ascensore non occlude direttamente le vedute e le luci dei varchi di ingresso dei negozi, i quali non vedranno invasa la loro proprietà privata, essendo la corte esterna ad essi di uso comune.
Nel secondo caso (prospetto edificio) il vano corsa non impedisce né limita le vedute delle finestre degli appartamenti privati e non comporta alcun pregiudizio relativo all’illuminazione del vano scala posto che, sotto tale profilo, il progetto prevede un vano corsa interamente vetrato, proprio per consentire alla luce solare di penetrare all’interno del vano scala e non limitare eccessivamente le vedute dall’interno del vano scala. Le funzioni originariamente svolte dalle finestre, dunque, non vengono mutate dall’opera de qua, essendo la torre dell’ascensore completamente trasparente.
Né, tanto meno, si ravvisano altri elementi che possano indurre a ritenere che vi sia un pregiudizio per la staticità dell’edificio: trattasi, infatti, di struttura in metallo che, benché ancorata all’edificio, è “autoportante” e contiene un ascensore che grava sulle fondazioni della torre metallica, senza alcun aggravio di peso alla struttura dell’edificio.
Neppure può dirsi, inoltre, sotto un più ampio profilo di “destinazione” della facciata, rilevante anche nell’ipotesi di suo utilizzo ex art. 1102 c.c., che la realizzazione dell’impianto venga a ledere il decoro architettonico dell’edificio. Come è dato, infatti, apprezzare dalle fotografie versate in atti, lo stabile non presenta particolari pregi architettonici, né rivela specifica ricerca di euritmia di linee, donde l’inserimento di una struttura in vetro non comporta un pregiudizio estetico ovvero un’alterazione delle linee dello stabile suscettibili di apprezzamento oggettivo.
Peraltro, nell’ottica del contemperamento degli opposti interessi, anche laddove vi fosse un interesse estetico, esso sarebbe sicuramente recessivo rispetto alla tutela del diritto alla salute, in quanto, nel caso di specie, tenuto conto delle condizioni personali dell’attore, la realizzazione dell’ascensore risulta essere necessaria al fine di garantire il rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione, di tal ché bisognerebbe, comunque, ritenere tollerabile una minima compromissione dell’integrità del decoro architettonico.
Per tali ragioni, in accoglimento della domanda attorea, deve ritenersi accertato il diritto dell’attore di procedere, senza alcuna preventiva autorizzazione assembleare, all’installazione dell’elevatore con le caratteristiche e secondo le modalità meglio specificate nella c.t.u. alla quale si rinvia (tenuto conto che:
   1) il nuovo progetto “garantisce la totale accessibilità all’edificio” da parte dell’attore “sin dal piano strada”;
   2) “le linee architettoniche prescelte sono più coerenti con la linearità dell’edificio esistente”;
   3) “la nuova struttura non interferirà con quella dell’edificio e ciò eviterà di dovere eseguire delle verifiche e degli eventuali adeguamenti sismici su di esso”).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Per l’ascensore l’iter è facilitato. È ammessa l’installazione senza via libera dall’assemblea. Una pronuncia della Cassazione conferma la liberalizzazione dell’uso delle parti comuni.
I condomini interessati possono installare a proprie spese e senza l'autorizzazione assembleare l'impianto di ascensore nell'edificio che ne sia privo, anche se quest'ultimo non rispetta le misure minime previste dalla normativa sull'abbattimento delle barriere architettoniche e anche se ne deriva un disagio minimo nell'utilizzo delle scale.

Questo quanto deciso dalla II Sez, civile della Corte di Cassazione, nella recente ordinanza 14.06.2022 n. 19087, che rappresenta, per così dire, l'ultima frontiera in tema di liberalizzazione dell'uso delle parti comuni per la costruzione di un impianto di ascensore senza il via libera dell'assemblea condominiale.
Il caso. Alcuni condomini avevano agito in giudizio per sentire accertare il proprio diritto a installare a proprie spese un ascensore all'interno dell'edificio, realizzato nell'anno 1960, che ne era sprovvisto. Questi ultimi intendevano utilizzare allo scopo una parte delle aree comuni, ossia la tromba delle scale e una piccola porzione degli scalini, che avrebbero dovuto essere occupati con il vano dell'impianto.
Si erano costituiti in giudizio gli altri condomini, eccependo che l'edificio difettava di uno spazio idoneo ad alloggiare l'ascensore all'interno del vano scala, poiché non vi era la tromba delle scale. I medesimi inoltre avevano rilevato che, a fronte di una larghezza delle scale di 1,20 metri, con il taglio parziale dei gradini si sarebbe realizzata una ulteriore riduzione dello spazio utile a deambulare.
Era stato poi anche contestato il fatto che la cabina dell'ascensore avrebbe dovuto avere una profondità minima di 1,20 metri e una larghezza minima di 0,80 metri, ai sensi della legge n. 13/1989 e del dm n. 236/1989, dimensioni che non sarebbero state rispettate dall'opera avuta in mente dai condomini attori.
Infine, era stato eccepito che l'installazione dell'ascensore avrebbe gravemente compromesso l'uso delle scale e della cabina a uno dei condomini, in ragione della sua grossa corporatura.
Nel corso del giudizio era stata effettuata una consulenza tecnica d'ufficio sulle modalità di realizzazione dell'impianto e a seguito di essa il tribunale aveva autorizzato la realizzazione dell'impianto. La sentenza era stata confermata in appello.
L'evoluzione della giurisprudenza di legittimità. I giudici di legittimità negli ultimi anni si sono pronunciati sempre più spesso in merito all'installazione dell'impianto di ascensore con utilizzo delle parti comuni e, facendo leva sul disposto di cui all'art. 1102 c.c., sono giunti a inquadrare detto intervento come indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'immobile e della reale ed effettiva abitabilità del medesimo.
Con sentenza n. 20713/2017 è stato così precisato che l'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia privo può essere effettuata anche da una parte dei condomini, a condizione che gli stessi ne sopportino per intero la relativa spesa. Tuttavia, gli altri condomini, ove in prosieguo intendano utilizzarlo a loro volta, saranno legittimati a farlo, ma saranno tenuti a rifondere ai primi una quota delle spese sostenute, opportunamente rivalutata, divenendo così a loro volta comproprietari dell'impianto.
Con sentenza n. 7938/2017 è stato quindi ribadito come il tema dell'accessibilità degli edifici e dell'eliminazione delle barriere architettoniche costituisce espressione di un principio di solidarietà sociale e persegue finalità di carattere pubblicistico. Detto principio implica il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all'eliminazione delle barriere architettoniche, trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici e che conferisce comunque legittimità all'intervento innovativo, purché lo stesso sia idoneo, anche se non a eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione (si vedano anche le decisioni nn. 6129/2017 e 18334/2012).
Del resto, nei casi in cui non debba procedersi a una ripartizione tra tutti i condomini della spesa di installazione dell'impianto, trova in ogni caso applicazione il ricordato art. 1102 c.c., in forza del quale ciascun partecipante può servirsi del bene comune, a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso, apportandovi quindi a proprie spese le modificazioni necessarie per il suo miglior godimento (si vedano le decisioni nn. 16815/2022, 4439/2020, 25872/2010 e 24006/2004).
L'ultima decisione della Suprema corte. La Suprema corte, nel dare continuità all'orientamento teso a facilitare l'installazione degli impianti di ascensore negli edifici che ne siano privi, si è occupata in questo caso proprio di contemperare gli opposti interessi dei condomini favorevoli alla realizzazione dell'impianto e di quelli che, viceversa, si lamentavano delle ricadute di tale intervento sulla fruibilità delle parti comuni.
La larghezza delle scale si sarebbe, infatti, ridotta a 77 centimetri, al netto del corrimano, per tutte le rampe, e addirittura a 74 centimetri per la prima rampa, così impedendo il passaggio contemporaneo di due persone e il passaggio orizzontale di una barella, in spregio alla obbligatorietà della larghezza minima delle scale comuni di almeno 120 centimetri.
I condomini contrari all'intervento avevano anche obiettato che l'ascensore avrebbe avuto una cabina di soli 58 centimetri, contro la prescrizione normativa minima di 80 centimetri, con la conseguenza che il relativo uso sarebbe stato limitato alle persone normodotate e di medio-piccola corporatura, dovendosi tra l'altro rilevare che, come riportato dal consulente tecnico d'ufficio, all'interno della cabina avrebbe potuto accedere solo un portatore di handicap in grado di alzarsi dalla carrozzina, ma non certamente anche la carrozzina stessa.
La Cassazione si è quindi richiamata alle valutazioni di merito condotte dai giudici di appello. Nel caso di specie è evidente che era di fatto impossibile contemperare gli opposti interessi, poiché, a fronte dell'installazione di un ascensore, sia pure di dimensioni estremamente ridotte e non in grado di rimuovere in modo completo le barriere architettoniche, sarebbe stato indispensabile ridurre sensibilmente la larghezza delle scale, e viceversa, ove si fosse inteso conservare quest'ultima, sarebbe stato inevitabile rinunciare all'impianto. Che fare?
Secondo i giudici di merito, considerate le abitudini di vita e le esigenze degli abitanti delle grandi città, nonché le attuali caratteristiche della popolazione italiana, composta in misura di gran lunga prevalente da persone non giovani, il sacrificio minore si sarebbe realizzato proprio incidendo sulla larghezza delle scale.
A orientare nel senso della prevalenza del vantaggio connesso all'installazione dell'ascensore erano poi state le fotografie dell'edificio gemello a quello in cui abitavano i contendenti, nel quale era stato già installato un impianto di ascensore identico a quello di cui al progetto, ricavandosi da tali riproduzioni fotografiche che la posizione del vano ascensore avrebbe implicato un disagio veramente minimo nell'uso quotidiano della scala, tanto che una persona di corporatura media avrebbe potuto affrontarle con normale facilità, pur rimanendo precluso il contemporaneo passaggio di due persone, con la conseguenza che la limitata lunghezza delle rampe e le buone condizioni di luminosità, anche in presenza dell'ascensore, avrebbero ridotto al minimo il disagio che la riduzione dei gradini avrebbe comportato.
La Suprema corte a questo proposito ha ricordato come il concetto di inservibilità del bene comune non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione, coessenziale al concetto di innovazione di cui all'art. 1120 c.c., ma è costituito dalla sua concreta inutilizzabilità.
I giudici di legittimità hanno infine chiarito che le prescrizioni di cui alla legge n. 13/1989 si applicano, conformemente al principio di irretroattività, ai soli edifici realizzati successivamente all'entrata in vigore della normativa. In ogni caso le stesse sono derogabili, seppure entro i ristretti limiti consentiti.
Infatti, in tema di accessibilità degli edifici e di eliminazione delle barriere architettoniche, le prescrizioni tecniche dettate dall'art. 8 del dm n. 236/1989, in ordine alla larghezza minima delle rampe delle scale, possono essere derogate mediante scrittura privata (articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2022).
---------------
Il principio
In tema di condominio negli edifici, nell’identificazione del limite all’immutazione della cosa comune, disciplinato dall’art. 1120 c.c.), il concetto di inservibilità della stessa non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione, coessenziale al concetto di innovazione, ma è costituito dalla sua concreta inutilizzabilità, secondo la sua naturale fruibilità.
Inoltre, in tema di accessibilità degli edifici e di eliminazione delle barriere architettoniche, le prescrizioni tecniche dettate dall’art. 8 del dm 236/1989, in ordine alla larghezza minima delle rampe delle scale, possono essere derogate mediante scrittura privata, poiché l’art. 7 del medesimo decreto consente, in sede di progetto, di adottare soluzioni alternative alle suddette specificazioni e soluzioni tecniche, purché rispondenti alle esigenze sottintese dai criteri di progettazione

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAL’installazione di un ascensore all’interno di un cortile condominiale è qualificabile in termini di “innovazione” in quanto, in violazione di quanto previsto dall’art. 1102 c.c., determina una modifica strutturale del cortile medesimo rispetto alla sua primitiva configurazione, risultandone nel contempo alterata la sua naturale funzione e destinazione comune, che è quella di dare luce ed aria alle unità immobiliari che compongono l’edificio.
Sicché, la decisione di assoggettare il cortile condominiale a siffatta “innovazione” deve essere assunta, necessariamente, dal Condominio, sia pure con le maggioranze di cui all’art. 2, comma 1, l. n. 13/1989 (nel testo modificato dall'articolo 27, comma 1, della Legge 11.12.2012 n. 220 e successivamente dall'articolo 10, comma 3, lettera a), del D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.09.2020, n. 120) a norma del quale:
   «1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all'articolo 1, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27.04.1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dal secondo comma dell' articolo 1120 del codice civile. Le innovazioni di cui al presente comma non sono considerate in alcun caso di carattere voluttuario ai sensi dell'articolo 1121, primo comma, del codice civile. Per la loro realizzazione resta fermo unicamente il divieto di innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, di cui al quarto comma dell'articolo 1120 del codice civile».
In proposito, l’art. 1120, comma II, del codice civile prevede che:
«[II]. I condòmini, con la maggioranza indicata dal secondo comma dell'articolo 1136, possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della normativa di settore, hanno ad oggetto:
   1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti;
   2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune;
   3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condòmini di farne uso secondo il loro diritto».
In assenza di siffatta delibera condominiale, giusta il disposto di cui al secondo comma del citato art. 2 L. n. 13/1989, i condòmini interessati all’adozione di strumenti di superamento delle cd. barriere architettoniche sono, dunque, legittimati esclusivamente ad «installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili» o «modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages».
In altri termini, per come del resto ribadito dall’art. 10, comma 3, del DL n. 76/2020, ciascun partecipante alla comunione o al condominio può sì realizzare a proprie spese ogni opera di cui agli articoli 2 della legge 09.01.1989, n. 13, e 119 del decreto-legge 19.05.2020, n. 34, anche servendosi della cosa comune ma pur sempre “nel rispetto dei limiti di cui all'articolo 1102 del codice civile” e, quindi, laddove siffatti limiti non vengano rispettati –come nel caso in esame- e ci si trovi dinnanzi ad una “innovazione”, deve necessariamente intervenire una delibera assembleare.
Le disposizioni sopra citate sono, peraltro, conferma nel disposto di cui all’art. 78 D.P.R. n. 380/2001, secondo cui:
   «1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall'articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
   2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe delle autorimesse».
---------------

... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia
quanto al ricorso n. 9236 del 2020:
   - dell’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del 25.07.2020 protocollo n. 30888, notificata a mezzo pec in pari data avente ad oggetto l’installazione di un ascensore per il superamento delle Barriere Architettoniche nel cortile condominiale del fabbricato in Roma via -OMISSIS-;
   - di ogni altro atto presupposto preparatorio, connesso e consequenziale con quello impugnato e, in particolare, per quanto occorrer possa, dell’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, del 22.06.2020, prot. n. 26449;
nonché per la condanna al rilascio di provvedimento di autorizzazione ex art. 21 D.Lgs. 42/2004, emendato dalle prescrizioni illegittime impugnate, in conformità all'istanza ed al progetto in atti, come in narrativa;
quanto al ricorso n. 9622 del 2020:
   - dell'autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del 25.07.2020, prot. n. 30888 avente ad oggetto l’installazione di ascensore per il superamento delle Barriere Architettoniche nel cortile condominiale del fabbricato in Roma, via -OMISSIS-;
   - dell'autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, del 22.06.2020, prot. n. 26449
...
Con ricorso notificato in data 22.10.2020 e depositato in data 11.11.2020, i ricorrenti -OMISSIS-., in qualità di condòmini del fabbricato multiscale (Scala “A” e Scala “B”), sito in Roma, via -OMISSIS-, censito al -OMISSIS-, risalente al 1700 e sottoposto a vincolo culturale diretto ex L. n. 1089/1939 e D.M. del 10.07.1957, hanno impugnato il provvedimento prot. n. 30888 del 25.07.2020, con cui la Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma -in adesione all’istanza ex art. 21 D.lgs. n. 42/2004, presentata in data 07.11.2018 al prot. n. 28749 e, successivamente, integrata- ha autorizzato il richiedente condòmino arch. -OMISSIS- all’installazione, nel cortile condominiale del fabbricato in parola, di un ascensore per il superamento delle Barriere Architettoniche a condizione, per quanto di interesse, che:
   a) l’ascensore venga realizzato solamente fino al quinto piano, escludendo lo sbarco al piano delle terrazze;
   b) sia garantito il distacco minimo dell’ascensore e dei pianerottoli dalle finestre che affacciano sulla corte interna.
I ricorrenti hanno, altresì, impugnato anche la precedente autorizzazione del 22.06.2020, prot. n. 26449 -pur ritenendola superata da quella prot. n. 30888 del 25.07.2020– con cui la Soprintendenza aveva imposto quale unica condizione che venisse garantito il distacco minimo dell’ascensore e dei pianerottoli dalle finestre che affacciano sulla corte interna.
A sostegno del gravame, affidato a plurimi motivi di diritto (“I. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 7 DELLA LEGGE 241/1990, DELL’ART. 5 DELLA LEGGE 09.01.1989, N. 13 E DELL’ART. 21 E 22 DEL D.LGS. 42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA. ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE”;
   “II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. 42/2004, DELL’ART. 2 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA, TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, INCOERENZA DELLA MOTIVAZIONE, IN CONSIDERAZIONE DELLA NON COINCIDENZA SOGGETTIVA TRA RICHIEDENTE E BENEFICIARI DELL’IMPIANTO, IN CONSIDERAZIONE DELLA VALUTAZIONE DELL’INTERESSE ALLA REALIZZAZIONE DELL’IMPIANTO SULLA SCORTA DI DOCUMENTI SANITARI DI UN SOGGETTO DIVERSO DAL RICHIEDENTE ED IN CONSIDERAZIONE DELLA MANCATA PREVISIONE DELLO SBARCO NEGLI APPARTAMENTI DEI BENEFICIARI POTENZIALI”;
   “III VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 4 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER ASSENZA DEI PRESUPPOSTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CONTRADDITTORIETÀ”;
   “IV) VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. N. 42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E TRAVISAMENTO DEI FATTI
”;
   “V. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 DELLA LEGGE N. 241/1990 PER GENERICITÀ DELLA MOTIVAZIONE. ECCESSO DI POTERE PER TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA”), i ricorrenti, sostanzialmente interessati -al pari del sig. Pi., dichiarato invalido- al procedimento avviato in data 07.11.2018 (prot. n. 28749), dall’arch. -OMISSIS-, hanno dedotto la necessità che la Soprintendenza approvasse il progetto così come da quest’ultimo presentato e, quindi, senza le condizioni sopra specificate, in quanto unica soluzione possibile al fine di superare adeguatamente le barriere architettoniche esistenti presso l’edificio condominiale.
In particolare, il progetto in questione prevedeva che l’ascensore venisse realizzato nell’ambito della chiostrina condominiale, in corrispondenza della Scala “B” (rampa di piani 5, con larghezza di appena 80 cm, tale da non consentire neanche l'ubicazione di un montascale per le persone anziane più disagiate), con sbarco sul terrazzo di copertura comune.
In tal modo, l’impianto in parola, senza alcun modo pregiudicare i valori culturali sottesi al vincolo imposto sul fabbricato condominiale, sarebbe stato idoneo a soddisfare le esigenze non solo dei condòmini della Scala “B”, ma anche dei proprietari degli appartamenti posti ai piani alti della Scala “A” (rampa di quattro piani, che va restringendosi, in corrispondenza del quinto piano, fino ad arrivare a cm 70 e conduce, tramite una ulteriore ed impervia scala a chiocciole al terrazzo condominiale), nella quale non sarebbe possibile installare alcun impianto ascensore, avendo la stessa valore artistico e monumentale.
Ad avviso dei ricorrenti, quindi, il posizionamento dell’ascensore nel sito proposto e la previsione dello sbarco dello stesso sul terrazzo condominiale costituirebbero condizioni indispensabili per superare le barriere architettoniche e consentire, quindi, l’accesso alla propria abitazione ai condòmini proprietari di appartamenti siti ai piani alti della Scala “A” mediante l’ascensore, tra cui la sig.ra -OMISSIS-.
La previsione progettuale dello sbarco dell’impianto sul terrazzo, lungi dal costituire un mero quid pluris, finalizzato a recare utilità aggiuntive ed accessorie, si inserirebbe, in modo organico ed indefettibile nel disegno finalizzato a risolvere i gravi ed insuperabili disagi costituiti dalla presenza di autentiche barriere architettoniche per l’intero stabile.
Le condizioni apposte dalla Soprintendenza all’autorizzazione prot. n. 30888 del 25.07.2020, consistenti tanto nell’inibizione del predetto sbarco quanto nel mantenimento del distacco minimo dell’ascensore e dei pianerottoli dalle finestre che affacciano sulla corte interna, renderebbero non fattibile e non utile l’intervento, così di fatto vanificandolo, senza alcun vantaggio per gli interessi pubblici sottesi al vincolo.
Con atto di intervento ad opponendum depositato in data 19.11.2020, i condòmini -OMISSIS-, dopo aver rappresentato, in fatto:
   a) di aver proposto autonomo ricorso avverso l’autorizzazione oggetto del presente giudizio (ricorso n. 9622/2020 R.R.);
   b) l’inesistenza di una delibera condominiale che avesse approvato i lavori di installazione dell’impianto in contestazione, hanno contestato, sotto vari profili, tanto l’ammissibilità quanto la fondatezza del gravame.
Il -OMISSIS-, costituitosi in giudizio, dopo aver rappresentato di non essere stato mai informato né coinvolto nel procedimento da cui sono derivati i provvedimenti oggetto di gravame, ha sotto vari profili dedotto l’inammissibilità/infondatezza del gravame.
Ciascuna delle parti costituite, con successive memorie difensive e di replica, corredate da corposa documentazione, ha insistito nelle proprie ragioni.
Con successivo ricorso notificato in data 19.11.2020 e depositato in data 20.11.2020, assunto al n. 9622/2020 R.R., riunito a quello precedente giusta ordinanza collegiale n. 7259 del 17.06.2021, i condòmini -OMISSIS-, -OMISSIS- hanno impugnato tanto l’Autorizzazione con prescrizioni rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma del 25.07.2020, prot. n. 30888, conosciuta in data 10.10.2020, quanto la precedente Autorizzazione con prescrizioni prot. n. 26449 del 22/06/2020, rilasciata dalla medesima Soprintendenza e conosciuta in data 22.10.2020.
I condòmini in parola hanno evidenziato, in fatto:
   - di non aver partecipato all’iniziativa sostanzialmente assunta, per come evincibile dagli atti istruttori del procedimento culminato con l’adozione degli atti impugnati, dai condòmini -OMISSIS-
   - di essere contrari a tale installazione, essendo quest’ultima unicamente diretta ad incrementare il valore del patrimonio immobiliare di alcuni dei beneficiari (molti dei quali neppure abiterebbero nel fabbricato ed avrebbero destinato i loro immobili ovvero intenderebbero destinarli a Bed and Breakfast o affittacamere) a danno degli altri condòmini.
Siffatta installazione, per come autorizzata dalla Soprintendenza, arrecherebbe serio pregiudizio al fabbricato perché, essendo ancorato alla parete della facciata ed alle logge, pregiudicherebbe non soltanto il decoro architettonico ma anche la staticità dell’edificio, già oggetto alla fine del 1800 di un intervento di sopraelevazione, scaricando il suo peso sulla (antica) muratura del piano interrato (sorreggente l’intero fabbricato).
L’ascensore de quo vulnererebbe, inoltre, la sicurezza e l’agibilità di alcune unità immobiliari, a causa della sottrazione di parte del già piccolo cortile, privandole dell’aria e della luce ed inoltre precluderebbe ai ricorrenti sia l’uso futuro della nuova opera, che di installare un altro ascensore all’interno del cortile condominiale.
Il ricorso in questione risulta affidato ad una pluralità di motivi di diritto tra cui, il primo, per come appresso rubricato:
   - “I. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 7 DELLA LEGGE 241/1990, DELL’ART. 5 DELLA LEGGE 09.01.1989, N. 13 E DELL’ART. 21 E 22 DEL D.LGS. 42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA. ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE”.
I provvedimenti autorizzativi oggetto di impugnazione sarebbero illegittimi per violazione degli artt. 1120, 1121 c.c. e dell’art. 2 della Legge n. 13/1989 in quanto rilasciati dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma ad esclusiva istanza di alcuni condòmini e non anche previa delibera dell’Assemblea Condominiale, quest’ultima deputata -per come imposto dalla normativa summenzionata e con le maggioranze ivi previste, trattandosi dell’autorizzazione di vere e proprie “innovazioni” della cosa comune- ad impegnare la volontà di tutti i partecipanti al condominio.
Sono stati, altresì, proposti gli ulteriori motivi di gravame appresso sintetizzati.
   - “II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. 42/2004, DELL’ART. 2 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E DI ISTRUTTORIA, TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DEI PRESUPPOSTI, INCOERENZA DELLA MOTIVAZIONE, IN CONSIDERAZIONE DELLA NON COINCIDENZA SOGGETTIVA TRA RICHIEDENTE E BENEFICIARI DELL’IMPIANTO, IN CONSIDERAZIONE DELLA VALUTAZIONE DELL’INTERESSE ALLA REALIZZAZIONE DELL’IMPIANTO SULLA SCORTA DI DOCUMENTI SANITARI DI UN SOGGETTO DIVERSO DAL RICHIEDENTE ED IN CONSIDERAZIONE DELLA MANCATA PREVISIONE DELLO SBARCO NEGLI APPARTAMENTI DEI BENEFICIARI POTENZIA”;
   - “III. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 2 E 4 DELLA LEGGE N. 13/1989 E DELL’ART. 78 DEL D.P.R. N. 380/2001. ECCESSO DI POTERE PER ASSENZA DEI PRESUPPOSTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, CONTRADDITTORIETÀ”;
   - “IV) VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 21 E 22 DEL D.LGS. N. 42/2004. ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA, DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE E TRAVISAMENTO DEI FATTI”;
   - “V. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 DELLA LEGGE N. 241/1990 PER GENERICITÀ DELLA MOTIVAZIONE. ECCESSO DI POTERE PER TRAVISAMENTO DEI FATTI, DIFETTO DI ISTRUTTORIA”;
...
1. Per ragioni di priorità logico-giuridica, ritiene il Collegio di dover principiare dallo scrutinio del ricorso n. 9622/2020 R.R. il quale è fondato e, come tale, deve essere accolto.
2. Coglie, più precisamente, nel segno la censura preliminare ed assorbente rispetto a tutte le altre, secondo cui i provvedimenti autorizzativi oggetto di gravame sono stati rilasciati dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma in favore di soggetti non legittimati, dovendosi ritenere tale esclusivamente il Condominio di Via -OMISSIS- il quale, per come dallo stesso affermato in seno al ricorso n. 9236/2020 R.R., non ha mai deliberato l’installazione dell’impianto in contestazione.
3. L’apprezzamento della carenza di legittimazione a richiedere l’autorizzazione in parola in capo al sig. -OMISSIS-, così come agli altri condòmini sostanzialmente intervenuti nel corso del procedimento, passa dalla preliminare valutazione circa la natura giuridica dell’intervento edilizio in contestazione, coincidente con l’installazione di un ascensore all’interno di un cortile condominiale.
Siffatta valutazione, trattandosi di una questione pregiudiziale involgente diritti soggettivi la cui risoluzione è necessaria per la definizione dell’odierna res controversa, ben può essere effettuata dal Tribunale, ancorché senza efficacia di giudicato, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 8, comma 1, c.p.a.
3.1 Orbene l’installazione di un ascensore all’interno di un cortile condominiale è qualificabile, ad avviso del Collegio, in termini di “innovazione”, in quanto, in violazione di quanto previsto dall’art. 1102 c.c., determina una modifica strutturale del cortile medesimo rispetto alla sua primitiva configurazione, risultandone nel contempo alterata la sua naturale funzione e destinazione comune, che è quella di dare luce ed aria alle unità immobiliari che compongono l’edificio (cfr. Cassazione civile sez. II, 21.01.2022 n. 1849; Cassazione civile sez. II, 24.12.2021 n. 41490).
Ebbene, la decisione di assoggettare il cortile condominiale a siffatta “innovazione” avrebbe dovuto essere assunta, necessariamente, dal Condominio, sia pure con le maggioranze di cui all’art. 2, comma 1, l. n. 13/1989 (nel testo modificato dall'articolo 27, comma 1, della Legge 11.12.2012 n. 220 e successivamente dall'articolo 10, comma 3, lettera a), del D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.09.2020, n. 120) a norma del quale:
   «1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all'articolo 1, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27.04.1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dal secondo comma dell' articolo 1120 del codice civile. Le innovazioni di cui al presente comma non sono considerate in alcun caso di carattere voluttuario ai sensi dell'articolo 1121, primo comma, del codice civile. Per la loro realizzazione resta fermo unicamente il divieto di innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, di cui al quarto comma dell'articolo 1120 del codice civile».
In proposito, l’art. 1120, comma II, del codice civile prevede che:
«[II]. I condòmini, con la maggioranza indicata dal secondo comma dell'articolo 1136, possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della normativa di settore, hanno ad oggetto:
   1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti;
   2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune;
   3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condòmini di farne uso secondo il loro diritto
».
In assenza di siffatta delibera condominiale, giusta il disposto di cui al secondo comma del citato art. 2 L. n. 13/1989, i condòmini interessati all’adozione di strumenti di superamento delle cd. barriere architettoniche sono, dunque, legittimati esclusivamente ad «installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili» o «modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages».
4. In altri termini, per come del resto ribadito dall’art. 10, comma 3, del DL n. 76/2020, ciascun partecipante alla comunione o al condominio può sì realizzare a proprie spese ogni opera di cui agli articoli 2 della legge 09.01.1989, n. 13, e 119 del decreto-legge 19.05.2020, n. 34, anche servendosi della cosa comune ma pur sempre “nel rispetto dei limiti di cui all'articolo 1102 del codice civile” e, quindi, laddove siffatti limiti non vengano rispettati –come nel caso in esame- e ci si trovi dinnanzi ad una “innovazione”, deve necessariamente intervenire una delibera assembleare.
4.1 Le disposizioni sopra citate sono, peraltro, conferma nel disposto di cui all’art. 78 D.P.R. n. 380/2001, secondo cui:
   «1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all'articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all'interno degli edifici privati, sono approvate dall'assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall'articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
   2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l'ampiezza delle porte d'accesso, al fine di rendere più agevole l'accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe delle autorimesse
».
5. L’esegesi della normativa di riferimento sopra trascritta consente, quindi, di affermare che il Condominio di -OMISSIS- costituiva l’unico soggetto giuridico abilitato a chiedere alla Soprintendenza, ai sensi dell’art. 21 D.lgs. n. 42/2004, l’autorizzazione all’installazione dell’ascensore nel cortile condominiale.
In assenza di siffatta deliberazione, l’Autorità tutoria del vincolo culturale cui il fabbricato condominiale risulta assoggettato non avrebbe potuto rilasciare le autorizzazioni oggetto di impugnazione che, per l’effetto, si appalesano illegittime per difetto di legittimazione dei richiedenti (cfr. TAR Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, 13/08/2020, n. 138).
6. In conclusione, il ricorso n. 9622/2020 è fondato e, come tale, deve essere accolto, in adesione alla preliminare ed assorbente censura sopra scrutinata.
Ne consegue l’annullamento dell'autorizzazione, con prescrizioni, prot. n. 30888, rilasciata dalla Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma in data 25.07.2020 e della precedente autorizzazione del 22.06.2020, prot. n. 26449.
6.1 Il ricorso n. 9236/2020, in disparte le plurime questioni di ammissibilità dello stesso sulle quali è possibile soprassedere, è, dunque, improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, avendo ad oggetto provvedimenti amministrativi di cui è stato disposto l’annullamento per i motivi sopra indicati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 21.02.2022 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAscensore esterno, meno vincoli. Impianto anti-barriere a meno di 10 metri dalle finestre. La giurisprudenza: opere che eliminano ostacoli architettonici realizzabili in deroga alle norme.
Sì all'ascensore esterno all'edificio da costruire molto vicino alle finestre degli appartamenti. E ciò perché le opere che eliminano le barriere architettoniche ben possono essere realizzate in deroga ai regolamenti e agli atti di normazione primaria, dunque anche all'art. 9 del dm 1444/1968 che prescrive la «distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate». Il tutto grazie alla sentenza costituzionale 251/2008, che ha indicato i problemi dei diversamente abili come «nodi dell'intera collettività».
È quanto emerge dalla
sentenza 17.07.2019 n. 1659 pubblicata dalla II Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Combinato disposto. Accolto il ricorso dell'invalido dopo che il dirigente dello sportello unico per l'edilizia del Comune ha bloccato la Scia per la realizzazione dell'impianto di sollevamento.
L'anziano, che vive al quarto piano con la moglie, risulta inabile al lavoro al 35% ed è disponibile a realizzare un servoscala: risulta impossibile portare la cabina al livello del pianerottolo. Sbaglia l'ente locale quando nega il titolo abilitativo in deroga alla distanza tra pareti finestrate.
Non c'è dubbio che anche l'ascensore esterno sia un'opera che abbatte le barriere architettoniche, al di là del fatto che sia un disabile a servirsene. E dopo l'intervento della Consulta deve ritenersi che il combinato disposto degli articoli 78 e 79 del Tu per l'edilizia consenta di realizzare anche l'impianto esterno al di là delle distanze previste dai regolamenti e pure dall'art. 9 del dm 1444/1968, a patto che siano rispettate quelle indicate dagli articoli 873 e 907 c.c.
Non conta che l'ascensore serva un solo piano dell'edificio: si può fare in modo che l'impianto risulti utile anche ad altri.
Senza discrezionalità. Possono derogare alle distanze dei regolamenti edilizi non solo gli impianti tecnologici ma anche i volumi tecnici per favorire la mobilità dei disabili: sono opere che consentono di superare le barriere architettoniche. Via libera, dunque, al progetto che prevede sia l'ascensore sia la scala esterni all'immobile realizzati in deroga alle norme sulle distanze minime tra fabbricati previste dai regolamenti edilizi.
È quanto emerge dalla sentenza 27.03.2018 n. 809, pubblicata dalla I Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Bocciato il ricorso del vicino: lecito il piano che prevede la realizzazione dei manufatti che si trovano a nove metri invece di dieci rispetto alla costruzione confinante. Parla chiaro il dm 236/1989 all'articolo 2, lettera A), punti a) e b): sono barriere architettoniche gli ostacoli fisici che costituiscono fonte di disagio per la mobilità di chiunque e in particolare per chi ha capacità motoria ridotta o impedita.
L'intervento è realizzato proprio per adeguare l'edificio di tre piani alla normativa pro disabili: accanto alla costruzione dell'ascensore e della scala esterna sono demolite le vecchie scale condominiali interne troppo strette per montare il servoscala. In tal caso è automatica e specifica la deroga alle distanze fra costruzioni previste dagli strumenti urbanistici, senza la necessità di valutazioni discrezionali da parte dell'amministrazione.
Ma devono essere rispettate le distanze ex articoli 873 e 907 Cc. Il confinante non riesce a dimostrare che vi sarebbero valide alternative al progetto presentato né che i manufatti costituirebbero un'ingiusta servitù a carico della sua proprietà: l'art. 79 del Tu dell'edilizia non esclude il principio di reciprocità nell'applicazione della normativa in deroga al regime sulle distanze.
Bilanciamento inadeguato. Il legislatore guarda con favore alle persone che hanno difficoltà a muoversi. Basta la Scia per realizzare in condominio l'ascensore che serve a superare le barriere: il permesso di costruire è superfluo perché l'impianto rappresenta un mero volume tecnico. Il Comune non può bocciare il progetto dell'ente sul rilievo che non rispetta le dimensioni minime senza verificare se c'è possibilità di deroga o suggerire alternative.
È quanto emerge dalla sentenza 11.01.2019 n. 175 del TAR Campania-Napoli, Sez. IV.
Il ricorso del condominio viene accolto perché risulta insufficiente la motivazione del provvedimento di stop. Da una parte la Scia è sufficiente in quanto l'ascensore serve ad apportare un'innovazione allo stabile che non costituisce una costruzione in senso stretto; dall'altra l'amministrazione viene meno alla necessità di un bilanciamento fra l'interesse pubblico all'osservanza della normativa di riferimento e l'interesse del condominio a limitare l'impatto delle barriere architettoniche.
È lo stesso dm 236/1986, nel dare attuazione alla legge 13/1989, a prescrivere che l'ascensore vada installato negli edifici con più di tre livelli. E l'articolo 7.5 autorizza il sindaco del Comune a concedere una deroga quando per motivi strutturali l'impianto non può rispettare gli standard dimensionali prescritti. Insomma: l'ente deve motivare in modo rigoroso le condizioni che impediscono l'installazione nel vano scale.
Bene primario. Il Comune non può limitarsi a stoppare i lavori se la Scia per l'ascensore a spese del disabile risulta protocollata da più di un mese: è invece tenuto a ricorrere all'autotutela perché il titolo deve ritenersi consolidato. L'autorizzazione al progetto non può essere ostacolata dalle questioni di natura privatistica poste dai condomini contro la realizzazione dell'impianto. Anzi, la giurisprudenza della Cassazione richiede «attenzione civile» nei confronti delle persone con problemi di deambulazione che si fanno carico delle spese laddove l'elevatore può attenuare la loro condizione di disagio.
È quanto emerge dalla sentenza 07.01.2019 n. 9, pubblicata dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Accolto il ricorso della signora con difficoltà di movimento che abita al terzo piano e vuole realizzare l'impianto nel pozzo della luce condominiale.
Alcuni proprietari esclusivi lamentano che ne sarebbe compromesso il loro godimento delle parti comuni dell'edificio perché la cabina può limita la visibilità e toglie aria al cavedio. Ma sono doglianze da rivolgere al giudice civile. E in ogni caso è l'inerzia dell'amministrazione che consente al privato di eseguire l'intervento edilizio in base all'art. 23, comma 6, dpr 380/2001: per un solo giorno di ritardo il provvedimento dell'ente locale risulta illegittimo.
L'istruttoria degli uffici, poi, è lacunosa: non emergono elementi secondo i quali l'ascensore può incidere su stabilità e sicurezza dell'edificio, mentre la relazione tecnica di parte attesta il contrario. E soprattutto le sentenze di legittimità sono dalla parte delle opere che agevolano la fruizione del bene primario dell'abitazione da parte di chi si trova in condizioni di disabilità.
Pregiudizio e serietà. Il favore del legislatore vuol dire anche meno vincoli. La Soprintendenza non può bocciare il progetto dell'ascensore esterno che serve alla persona anziana solo perché la realizzazione dell'impianto in cortile può arrecare un pregiudizio all'immobile vincolato: la legge contro le barriere architettoniche impone all'amministrazione di valutare i rischi che corre il bene tutelato considerando anche la situazione del richiedente, che ha problemi di mobilità.
È quanto emerge dalla sentenza 25.09.2018 n. 9557, Sez. II-quater del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso della signora che chiede di installare l'elevatore nel cortile di un edificio di pregio nel centro storico della Capitale.
La vicenda è finita al Consiglio di stato che ha annullato il parere negativo Mibact: in seguito le Belle Arti si dichiarano disponibili a valutare l'installazione di un montascale invece che dell'ascensore.
Il punto è che in base al regolamento di attuazione della legge 13/1989 il primo tipo d'impianto non equivale al secondo: può essere utilizzato come alternativa solo negli interventi di adeguamento o per superare modeste differenze di quota. Soprattutto l'amministrazione non effettua alcun bilanciamento degli interessi: troppo generico il riferimento alle dimensioni del cortile e alle aperture esistenti, mentre non risulta spesa una parola sulla salute della richiedente.
Normativa di favore anche per le persone non disabili ma solo anziane con disagi fisici e difficoltà motorie: l'amministrazione deve verificare la serietà del pregiudizio all'immobile e l'impatto del progetto rispetto al fabbricato in relazione alle esigenze di tutela richieste dall'interessata. Insomma: i vincoli non possono essere superati in automatico ma il Mibac deve motivare in modo adeguato il diniego (articolo ItaliaOggi Sette del 19.08.2019).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAscensore in cortile, più tutele. Condomino risarcito se l’installazione toglie luce e aria. La Cassazione su una fattispecie ante riforma applicabile anche nel nuovo regime.
Il proprietario di un immobile può sempre chiedere il risarcimento del danno al condominio per l'ascensore installato in cortile se questo toglie aria e luce al suo appartamento e lo priva dei diritti su una parte comune dell'edificio. L'azione di risarcimento, infatti, è un'opzione del tutto autonoma rispetto alla richiesta di demolizione e non è subordinata all'impugnazione della delibera, dal momento che la decisione che ha disposto la realizzazione del manufatto è nulla e la sua invalidità può essere rilevata d'ufficio dal giudice.

È quanto emerge dalla sentenza 26.09.2018 n. 23076 della II Sez. civile della Corte di Cassazione che è intervenuta in una fattispecie anteriore alla riforma del condomino ma che, in base all'ultimo comma dell'articolo 1120 del cc, trova applicazione anche nel nuovo regime.
Il caso. Una signora ha convenuto in giudizio il condominio chiedendo il risarcimento dei danni subiti a causa della realizzazione di un ascensore nella corte interna dell'edificio, danno consistente nella riduzione di aria e luce al suo appartamento posto al piano terra e nell'impedimento all'uso di una rilevante porzione della corte occupata dalla nuova struttura.
I giudici di merito hanno respinto la domanda sul presupposto che le delibere che avevano deciso l'installazione dell'impianto di ascensore non erano state impugnate. La vertenza è così giunta in Cassazione.
Le motivazioni. I giudici di legittimità hanno ricordato che l'installazione di un ascensore su area comune costituisce innovazione che è vietata se rende talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell'utilità, secondo l'originaria costituzione della comunione.
Tale concetto di inservibilità non può consistere nel semplice disagio subito ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità, ovvero dalla sensibile menomazione dell'utilità che il condomino precedentemente ricavava dal bene.
Nella specie, la ricorrente affermava che la realizzazione dell'impianto di ascensore le aveva impedito di far uso di una rilevante porzione di tale area comune e le aveva altresì ridotto sensibilmente la luce e l'aria fruibili dal suo appartamento. La delibera dell'assemblea, pertanto, ha affermato la Cassazione, avendo leso i diritti individuali del singolo, doveva essere considerata nulla e non semplicemente annullabile.
L'irrilevanza della preventiva impugnazione. La nullità di una delibera condominiale comporta che la stessa, a differenza delle ipotesi di annullabilità, non implichi la necessità di tempestiva impugnazione nel termine di trenta giorni previsto dall'articolo 1137 del codice civile.
Una deliberazione nulla non può, pertanto, finché (o perché) non impugnata nel termine di legge, ritenersi valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti. Un conto, infatti, sono le delibere annullabili e un altro le nulle: nel primo caso l'amministratore è tenuto a darvi attuazione fino a quando non sono rimosse con l'accoglimento dell'impugnazione; nel secondo non sorge in capo all'organo di gestione il potere-dovere di eseguire la decisione e la nullità può essere rilevata d'ufficio dal giudice, come avviene per i contratti ex articolo 1421 Cc, quando l'invalidità rientra fra gli elementi costitutivi della domanda su cui bisogna decidere.
L'accertamento dell'invalidità, in sostanza, è pregiudiziale rispetto al risarcimento soltanto in caso di delibere annullabili ma non vale nei casi di nullità.
Il principio. La Suprema corte, alla luce di quanto sopra indicato, ha formulato il principio di diritto secondo cui la delibera dell'assemblea di condominio, che privi un singolo partecipante dei propri diritti individuali su una parte comune dell'edificio, rendendola inservibile all'uso e al godimento dello stesso, integra un fatto potenzialmente idoneo ad arrecare danno al condomino medesimo; quest'ultimo, lamentando la nullità della suddetta delibera, ha perciò la facoltà di chiedere una pronuncia di condanna del condominio al risarcimento del danno, dovendosi imputare alla collettività condominiale gli atti compiuti e l'attività svolta in suo nome, nonché le relative conseguenze patrimoniali sfavorevoli, e rimanendo il singolo condomino danneggiato distinto dal gruppo ed equiparato a tali effetti a un terzo.
Essendo la nullità della delibera dell'assemblea fatto ostativo all'insorgere del potere-dovere dell'amministratore di eseguire la stessa, l'azione risarcitoria del singolo partecipante nei confronti del condominio è ravvisabile non soltanto come scelta subordinata alla tutela demolitoria ex articolo 1137 del codice civile, ma anche come opzione del tutto autonoma.
La rimozione del manufatto che viola la privacy. L'ascensore esterno al palazzo può «inciampare» però anche nella violazione della privacy. Infatti una struttura realizzata davanti alle finestre di un appartamento va rimossa se limita la proprietà immobiliare di un altro condomino quanto a soleggiamento, aerazione e, soprattutto, riservatezza.
Ad affermarlo anche questa volta è stata la Corte di Cassazione con la sentenza 23.10.2017 n. 24972 che ha respinto il ricorso di una donna chiamata in giudizio dalla proprietaria dell'appartamento sottostante per aver realizzato un ascensore esterno al fabbricato.
La limitazione della proprietà. Secondo i giudici di legittimità l'installazione dell'ascensore aveva prodotto una grave limitazione della proprietà della ricorrente, costretta a tenere spesso le finestre chiuse per non subire «intrusioni visive».
Inoltre la scomparsa del coniuge della controparte, portatore di handicap motorio, aveva determinato l'inesistenza di quella «situazione esistenziale» che si voleva porre a fondamento della legittimità dell'installazione dell'ascensore.
Né migliore fortuna poteva avere la circostanza che in precedenza era stata piantata nello stesso luogo una siepe, dal momento che, ha concluso la Cassazione, l'aver piantato una siepe è cosa ben diversa dalla realizzazione di un ascensore.
Stop all'ascensore che ostacola i traslochi. È da annullare inoltre la delibera condominiale che approva i lavori di installazione di un ascensore nel palazzo se l'opera impedisce anche a un solo condomino i trasporti di mobili o un trasloco.
L'impianto sicuramente aumenta la comodità d'uso e valorizza l'immobile ma non si può realizzare quando riduce l'utilità ricavata dal singolo proprietario.
A stabilirlo è stato il Tribunale di Roma con la sentenza n. 379/2018 della V Sez. civile secondo il quale non esiste un diritto assoluto a costruire l'ascensore.
Una compromissione ingiustificata. Per stabilire che l'opera non era fattibile è bastata una perizia che ha accertato l'esistenza di spazi angusti una volta realizzata l'opera.
Nel caso in esame le scale dell'edificio avevano un andamento circolare e il progetto ne riduceva la larghezza a soli ottanta centimetri.
In questo modo uno dei condomini sarebbe stato «prigioniero» in casa, senza la possibilità di farsi consegnare un frigorifero o un letto nuovo e, dunque, il progetto va rifatto perché compromette in modo eccessivo e non giustificabile il diritto del singolo proprietario esclusivo, anche se l'installazione dell'impianto ben può comportare alcune limitazioni sulle parti comuni del palazzo.
Gli interventi consentiti a spese di uno solo. Non tutte le installazioni degli ascensori sono però contrarie alla legge o necessitano del consenso della maggioranza condominiale.
Non può infatti essere demolito il vano ascensore realizzato in cortile a spese di un solo proprietario, senza il consenso degli altri, quando l'opera non pregiudica i diritti di godimento altrui sulle parti comuni.
A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione con la sentenza 12.10.2017 n. 23995 (articolo ItaliaOggi Sette del 08.10.2018).

CONDOMINIOAscensore, spese divise tra tutti. Inclusi nel riparto anche negozi e locali del piano terra. Una pronuncia della Cassazione in merito al rifacimento dell’impianto condominiale.
Anche i proprietari dei negozi o dei locali siti al piano terra con accesso diretto dalla strada sono tenuti a concorrere nelle spese di manutenzione straordinaria o di sostituzione dell'impianto di ascensore.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 12.09.2018 n. 22157.
Il caso concreto. Nella specie una condomina proprietaria di alcuni locali posti al piano terra e con accesso dalla pubblica via si era rifiutata di sostenere la quota di spese condominiali richiestale in occasione del rifacimento dell'impianto di ascensore. La stessa era quindi stata raggiunta da un decreto ingiuntivo ottenuto dall'amministratore, verso il quale aveva spiegato opposizione.
La condomina, richiamato il contenuto del regolamento condominiale (di natura contrattuale), il quale prevedeva l'appartenenza dell'impianto di ascensore in comproprietà pro indiviso e indivisibile a tutti i proprietari di unità immobiliari, ponendo a loro carico in proporzione dei rispettivi valori delle singole porzioni le spese per il rinnovamento o la manutenzione straordinaria, ed esonerando viceversa dalla contribuzione nelle spese ordinarie e di esercizio i condomini che non potessero servirsene, riteneva infatti che dal medesimo non si potesse desumere l'obbligo di partecipazione alle spese anche di quei condomini proprietari di soli locali aventi accesso dalla strada pubblica.
In primo grado l'opposizione era stata accolta, ma la sentenza era stata prontamente appellata dal condominio, il quale era invece risultato vincitore nel giudizio di secondo grado. La Corte di appello, infatti, aveva ritenuto legittima la ripartizione delle spese deliberata dall'assemblea per i lavori di sostituzione dell'impianto e che aveva incluso fra i debitori anche la condomina opponente. Quest'ultima aveva quindi deciso di impugnare la sentenza di secondo grado dinanzi alla Corte di cassazione.
La decisione della Suprema corte. I giudici di legittimità, nel respingere il ricorso in questione, confermando quindi il riparto delle spese operato dal condominio, hanno quindi avuto modo di chiarire meglio quali siano i criteri che presiedono alla suddivisione dei costi degli interventi sull'impianto di ascensore.
Già prima della riformulazione dell'art. 1124 c.c. a opera della legge n. 220/2012 di riforma del condominio la giurisprudenza aveva chiaramente distinto l'ipotesi dell'installazione ex novo di un impianto di ascensore nell'edificio che ne fosse privo da quella della manutenzione straordinaria e/o della sostituzione del medesimo. Mentre nella prima ipotesi la relativa spesa andava suddivisa secondo il tradizionale criterio di cui all'art. 1123 c.c., ovvero proporzionalmente al valore dei millesimi di proprietà di ciascun condomino, nel secondo caso essa andava ripartita secondo il criterio indicato dall'art. 1124 c.c. per la manutenzione straordinaria delle scale.
Ora, come si diceva, detta conclusione è stata per così dire ratificata dal legislatore, poiché il nuovo art. 1124 c.c. fin dalla sua rubrica chiarisce che la disposizione si applica sia alle scale che agli ascensori. La disposizione in questione contiene quindi una deroga al criterio generale di riparto di cui all'art. 1123 c.c., poiché dispone che la relativa spesa debba essere ripartita per metà in base ai millesimi di proprietà e per l'altra metà esclusivamente in ragione dell'altezza di ciascun piano dal suolo.
La medesima disposizione chiarisce che ove l'edificio condominiale sia composto da più scale e impianti di ascensore, gli stessi debbano essere mantenuti soltanto dai condomini al servizio dei quali gli stessi sono stati previsti. L'art. 1124 c.c., inoltre, dispone espressamente che per piano debbano intendersi anche le cantine, o palchi morti, le soffitte o camere a tetto e i lastrici solari, ovviamente quando gli stessi non siano di proprietà comune.
Nell'ordinanza in questione viene evidenziato come l'impianto di ascensore debba quindi essere accomunato, per identità di funzione, alle scale, in quanto anch'esso mezzo indispensabile per accedere al tetto e al terrazzo di copertura (come anticipato, detta parificazione è ora anche di tipo normativo).
Trattasi infatti di parte indiscutibilmente comune, tanto è vero che l'art. 1117 c.c. annovera espressamente detto impianto fra i beni e i servizi che si presumono comuni a tutti i condomini, salvo risulti diversamente dal titolo. Di conseguenza l'ascensore appartiene in comproprietà anche ai condomini proprietari di negozi o locali posti al piano terreno e con accesso dalla via pubblica, poiché anche essi ne fruiscono, «quanto meno», si legge nell'ordinanza, «in ordine alla conservazione e manutenzione della copertura dell'edificio».
Ne discende che anche i predetti condomini devono concorrere alle spese di manutenzione straordinaria e/o sostituzione dell'impianto in rapporto e in proporzione all'utilità che possono in ipotesi trarne, salvo esista un titolo contrario.
Come si è ripetuto più volte, la regola di cui sopra può essere derogata da un titolo contrario. «Come tutti i criteri legali di ripartizione delle spese condominiali», si legge nell'ordinanza in questione, «anche quello di ripartizione delle spese di manutenzione e sostituzione degli ascensori può essere derogato, ma la relativa convenzione modificatrice della disciplina legale deve essere contenuta o nel regolamento condominiale (che perciò si definisce di natura contrattuale) o in una deliberazione dell'assemblea che venga approvata all'unanimità, ovvero con il consenso di tutti i condomini».
Per questo motivo i giudici di legittimità hanno ritenuto corretta la decisione della corte di appello, la quale aveva valutato che nel regolamento condominiale in questione non vi era alcuna disposizione derogatoria del regime legale di ripartizione delle spese dell'impianto di ascensore.
In altri termini, secondo la sesta sezione civile della Cassazione, nella specie la ricorrente era caduta in una sorta di errore di prospettiva, contestando che nel regolamento non vi fosse una disposizione sulla quale si potesse fondare il proprio obbligo di contribuzione alle spese, laddove quest'ultimo, come visto, discende direttamente dalla legge e il regolamento può se mai disporre una deroga, circostanza che comunque non ricorreva nel caso concreto.
L'opposizione al decreto ingiuntivo condominiale. Visto che nella specie si trattava di un procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal condominio verso un comproprietario in mora nel pagamento delle spese comuni, i giudici di legittimità hanno avuto anche il modo di ribadire alcuni principi validi in questo tipo di contenzioso in rapporto alla perdurante efficacia della delibera condominiale sulla quale si fondi l'obbligo impositivo e che non sia stata nel frattempo giudizialmente sospesa.
In detto giudizio, infatti, il condomino che contesti l'ordine giudiziale di pagamento non può far utilmente valere questioni attinenti alla mera annullabilità della delibera assembleare di ripartizione della spesa.
«Tale delibera», spiega la Cassazione, «costituisce infatti titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme nel processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è dunque ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere».
Un diverso comportamento da parte del giudice dell'opposizione è dunque ammissibile soltanto ove si dia la prova che l'efficacia della predetta deliberazione sia stata giudizialmente sospesa o che la stessa sia stata addirittura annullata.
La VI Sez. civile della Suprema corte ha tuttavia a sua volta ribadito il recente orientamento di legittimità per cui, fermo quanto sopra, il giudice dell'opposizione può rilevare, anche d'ufficio, eventuali vizi di legittimità della sottostante delibera assembleare ove gli stessi ne implichino la nullità e non la semplice annullabilità, trattandosi dell'applicazione di atti la cui validità rappresenta un elemento costitutivo della domanda (articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2018).

CONDOMINIOAscensore, subentro possibile. I nuovi comproprietari devono rifondere i costi agli altri. La Cassazione: impianti installabili anche solo a carico di una parte dei condomini.
L'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia privo può essere effettuata anche da una parte dei condomini, che ne sopporteranno per intero la relativa spesa. Gli altri condomini, ove in prosieguo volessero utilizzare a loro volta l'impianto, saranno tenuti a rifondere ai primi una quota delle spese sostenute, opportunamente rivalutata, divenendone così comproprietari.

Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella recente sentenza 04.09.2017 n. 20713.
Il caso concreto. Nella specie alcuni condomini avevano citato in giudizio i comproprietari che avevano provveduto a installare l'ascensore nel fabbricato per sentire accertare il costo dell'impianto e le relative quote di contribuzione nelle spese di gestione e manutenzione.
Il tribunale, espletata la consulenza tecnica d'ufficio, ritenuta implicita nella domanda svolta quella di riconoscimento del diritto degli attori all'acquisizione della comproprietà dell'impianto, aveva dunque accertato il costo complessivo dell'installazione e aveva determinato la quota di contribuzione di ciascuno di essi nelle relative spese.
La sentenza era però stata appellata dai condomini che avevano originariamente provveduto all'installazione dell'ascensore, i quali avevano contestato la mancanza di interesse ad agire degli attori, che non avevano espressamente richiesto l'accertamento del proprio diritto di partecipare alla comunione dell'impianto. Inoltre, secondo gli appellanti, i giudici di primo grado avevano errato nell'applicare al caso in questione la disciplina delle innovazioni di cui all'art. 1121 c.c., trattandosi di un'opera privata.
La Corte di appello aveva però integralmente confermato la decisione. Di qui il ricorso in Cassazione.
L'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia privo. Nella sentenza n. 20713/2017 i giudici di legittimità hanno in primo luogo evidenziato come gli impianti suscettibili di utilizzazione separata, casistica nella quale rientra sicuramente l'ascensore, possano essere realizzati ex novo nell'edificio condominiale anche senza la relativa approvazione assembleare, ovvero a cura e spese di alcuni condomini soltanto.
Infatti l'installazione di un ascensore nel fabbricato che ne sia privo costituisce un'innovazione delle parti comuni, in quanto realizza una modificazione materiale del vano scale. L'opera andrebbe quindi deliberata in assemblea con il quorum di cui al quinto comma dell'art. 1136 c.c., ovvero dalla maggioranza degli intervenuti, che rappresentino almeno i due terzi dei millesimi totali di valore dell'edificio.
Tuttavia, proprio perché trattasi di impianti suscettibili di utilizzazione separata, anche uno solo dei condomini può provvedervi a sua cura e spese. La base normativa di tale conclusione, come evidenziato dalla Suprema corte nella sentenza in questione, deve rintracciarsi nell'art. 1102 c.c., disposizione che fonda il relativo diritto e ne circoscrive i limiti e le modalità di esplicazione. In base a essa, infatti, ciascun partecipante alla comunione può servirsi del bene comune, anche apportandovi a proprie spese le modificazioni necessarie per un migliore godimento, a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il proprio diritto.
In questo caso le spese di installazione dell'impianto, diversamente da quelle relative alla manutenzione e alla ricostruzione dell'ascensore già esistente, non vanno ripartite ai sensi dell'art. 1124 c.c., bensì secondo gli ordinari criteri di cui all'art. 1123 c.c., ovvero secondo il valore proporzionale della proprietà di ciascuno dei compartecipanti. I condomini inizialmente non interessati all'innovazione possono infatti successivamente cambiare idea e, in questo caso, hanno il diritto di usare a loro volta dell'impianto, partecipando alla relativa spesa e diventandone quindi comproprietari.
La ripartizione delle spese tra i vecchi e i nuovi comproprietari. Quindi l'ascensore installato nell'edificio che ne sia privo per iniziativa di uno o più condomini non rientra nella proprietà comune di tutti i partecipanti al condominio (non è un bene condominiale), ma è oggetto di comunione (comproprietà) fra i soli condomini che ne abbiano sopportato le relative spese.
Tuttavia, come detto, l'art. 1121, comma 3, c.c. fa espressamente salva la facoltà per i condomini estranei alla comunione dell'impianto di entrare a farne parte e di utilizzare a propria volta l'ascensore. Da qui però l'obbligo degli stessi sia di rifondere agli altri comproprietari i costi sostenuti per l'originaria installazione dell'impianto e per gli interventi di manutenzione nel frattempo effettuati sia di contribuire nelle successive spese di conduzione (energia elettrica e manutenzione).
Il criterio di riparto della compartecipazione alle spese di installazione, come già preannunciato, è quello ordinario di cui all'art. 1123 c.c., ovvero quello del valore proporzionale delle rispettive proprietà dei condomini che utilizzano l'impianto. La spesa inizialmente sostenuta dai condomini che abbiano provveduto a installare ex novo l'impianto (e sulla quale andrà quindi calcolata la quota che il nuovo comproprietario dovrà rifondere agli originari comunisti) deve essere però aggiornata al suo valore attuale, per evitare ingiustificati arricchimenti in favore del nuovo arrivato. Solitamente per la rivalutazione si fa riferimento agli indici Istat dei prezzi al consumo. Occorre però anche tenere conto del naturale degrado dell'ascensore, normalmente individuato nel deprezzamento dell'impianto causato dagli anni trascorsi dalla sua installazione.
Il procedimento di calcolo utilizzato per l'individuazione della somma dovuta dal condomino subentrante agli originari comproprietari dell'impianto è quello di detrarre dalla somma dei costi di installazione e di manutenzione dell'opera già sostenuti, rivalutata in base agli indici Istat e integrata con gli interessi legali, il valore del deprezzamento subito dal medesimo a seguito dell'utilizzo continuato e della naturale obsolescenza. L'importo così determinato, che rappresenta il valore dell'impianto, dovrà quindi essere moltiplicato per i millesimi di proprietà del condomino subentrante e il relativo risultato dovrà essere diviso per la somma dei millesimi di tutti i nuovi comproprietari (originari e subentrante).
Ciò sulla base di una semplice equazione, nella quale il valore dell'impianto sta ai millesimi totali dei condomini comproprietari (originari e subentrante) come l'importo da rifondere (incognita) sta ai millesimi del solo condomino che chieda di entrare a far parte della comunione.
La somma che ne risulta sarà quella che il nuovo comproprietario dovrà versare ai condomini che si erano inizialmente presi carico dell'installazione dell'ascensore. La stessa dovrà quindi essere ripartita fra questi ultimi sulla base dei rispettivi millesimi di proprietà (si veda la tabella in pagina) (articolo ItaliaOggi Sette del 18.09.2017).
---------------
MASSIMA
L’installazione “ex novo” di un ascensore in un edificio in condominio (le cui spese, a differenza di quelle relative alla manutenzione e ricostruzione dell’ascensore già esistente, vanno ripartite non ai sensi dell’art. 1124 c.c., ma secondo l’art. 1123 c.c., ossia proporzionalmente al valore della proprietà di ciascun condomino) costituisce innovazione che può essere deliberata dall’assemblea condominiale con le maggioranze prescritte dall’art. 1136 c.c., oppure direttamente realizzata con il consenso di tutti i condomini, così divenendo l’impianto di proprietà comune.
Trattandosi, tuttavia, di impianto suscettibile di utilizzazione separata, proprio quando l’innovazione, e cioè la modificazione materiale della cosa comune (nella specie, il vano scale) conseguente alla realizzazione dell’ascensore, non sia stata approvata in assemblea (lo stesso art. 1121 c.c., al comma 2, parla di maggioranza dei condomini che abbia “deliberata o accettata” l’innovazione), essa può essere attuata anche a cura e spese di uno o di taluni condomini soltanto (con i limiti di cui all’art. 1102 c.c.), salvo il diritto degli altri di partecipare in qualunque tempo ai vantaggi dell’innovazione, contribuendo nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell’opera.
L’ascensore, installato nell’edificio dopo la costruzione di quest’ultimo per iniziativa di parte dei condomini, non rientra nella proprietà comune di tutti i condomini, ma appartiene in proprietà a quelli di loro che l’abbiano impiantato a loro spese.
Ciò dà luogo nel condominio ad una particolare comunione parziale dei proprietari dell’ascensore, analoga alla situazione avuta a mente dall’art. 1123, comma 3, c.c., comunione che è distinta dal condominio stesso, fino a quando tutti i condomini non abbiano deciso di parteciparvi.
L’art. 1121, comma 3, c.c. fa, infatti, salva agli altri condomini la facoltà di partecipare successivamente all’innovazione, divenendo partecipi della comproprietà dell’opera, con l’obbligo di pagarne pro quota le spese impiegate per l’esecuzione, aggiornate al valore attuale
(tratta da https://renatodisa.com).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATANel rilascio di titoli edilizi può ritenersi sufficiente che l’Amministrazione verifichi in capo all’istante l’esistenza di un titolo che formalmente lo legittimi al rilascio del titolo abilitante a suo favore, senza dover procedere ad una accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici o a svolgere complesse ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà o di altro diritto reale che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità necessario all’intervento, allegato da chi presenta istanza edilizia, ed è proprio questa la ragione per la quale i titoli edilizi vengono rilasciati con la formula "fatti salvi i diritti dei terzi".
---------------
La giurisprudenza, al fine di escludere la sussistenza di una lesione al decoro dell’edificio, ritiene sufficiente che l’innovazione non comporti una rilevante disarmonia al complesso preesistente e che non pregiudichi l'originaria fisionomia estetica dell’edificio determinandone un deprezzamento.
Tali elementi non appaiono sussistere nel caso all’esame atteso che l’ascensore è stato collocato nel punto di minor impatto sull’edificio e dalla strada, mediante il prolungamento di uno sporto già presente nella muratura, con un intervento che non si rivela incompatibile con le caratteristiche e la tipologia edilizia preesistente.

---------------

Con il secondo motivo il ricorrente sostiene che i controinteressati erano privi di legittimazione nel richiedere ed ottenere il titolo edilizio necessario ad intervenire su parti comuni dell’edificio condominiale, perché l’intervento, alterando il decoro dell’immobile, non avrebbe dovuto essere approvato a maggioranza, come è avvenuto nel caso all’esame (è stato approvato a maggioranza di due terzi del condominio rappresentanti complessivi 689,75 millesimi dell’intero edificio, del condominio), ma all’unanimità.
Al fine di comprovare la lesione al decoro il ricorrente allega una relazione del 25.01.2016 dagli stessi commissionata del Prof. Arch. Gi.Gi..
Anche tali censure non possono essere condivise.
Va premesso che nel rilascio di titoli edilizi può ritenersi sufficiente che l’Amministrazione verifichi in capo all’istante l’esistenza di un titolo che formalmente lo legittimi al rilascio del titolo abilitante a suo favore, senza dover procedere ad una accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici o a svolgere complesse ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà o di altro diritto reale che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità necessario all’intervento, allegato da chi presenta istanza edilizia, ed è proprio questa la ragione per la quale i titoli edilizi vengono rilasciati con la formula "fatti salvi i diritti dei terzi" (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.09.2012, n. 4676; Consiglio di Stato, Sez. IV, 08.06.2011, n. 3508).
Il provvedimento impugnato in ogni caso non si è limitato a considerare l’esistenza della deliberazione condominiale che a maggioranza ha approvato l’intervento, ma, con considerazioni motivate e che appaiono prive di vizi logici, si è spinto ad indicare quali sono i motivi per i quali il Comune ritiene insussistente una lesione al decoro dell’immobile, precisando che si tratta di un edificio che non presenta un particolare pregio e che non è sottoposto né a tutela monumentale, né a grado di protezione dallo strumento urbanistico comunale in base alla caratterizzazione dei valori storici, architettonici, tipologici ed ambientali, che per gli interventi è stata ottenuta l’autorizzazione paesaggistica e che non risultano snaturate le caratteristiche dell’edifico.
La relazione commissionata dal ricorrente del 25.01.2016 del Prof. Arch. Gi.Gi. accede invece ad una non condivisibile nozione di “decoro architettonico” talmente ampia da comportare che ogni modifica alle parti comuni dell’edificio costituisce di per sé un pregiudizio al decoro dello stesso.
Una tale conclusione tuttavia non è in linea con la giurisprudenza, la quale, al fine di escludere la sussistenza di una lesione al decoro dell’edificio, ritiene sufficiente che l’innovazione non comporti una rilevante disarmonia al complesso preesistente e che non pregiudichi l'originaria fisionomia estetica dell’edificio determinandone un deprezzamento, elementi questi che non appaiono sussistere nel caso all’esame atteso che l’ascensore è stato collocato nel punto di minor impatto sull’edificio e dalla strada, mediante il prolungamento di uno sporto già presente nella muratura, con un intervento che non si rivela incompatibile con le caratteristiche e la tipologia edilizia preesistente (peraltro va rilevato che in tal senso sono le conclusioni formulate dal consulente tecnico d’ufficio nel giudizio civile pendente tra le parti: cfr. doc. 1 depositato in giudizio dai controinteressati il 20.10.2016).
L’assunto secondo il quale l’intervento avrebbe dovuto essere approvato all’unanimità anziché a maggioranza dei condomini è pertanto privo di riscontri e deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 10.01.2017 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La lamentata violazione delle distanze dai confini da parte dell’ascensore esterno deve essere respinta.
Invero, trattasi di un vano tecnico necessario al superamento delle barriere architettoniche, cui risulta applicabile la deroga di cui all’art. 79 del DPR 06.06.2001, n. 380, la quale, in base ai criteri interpretativi elaborati dalla giurisprudenza, deve ritenersi applicabile, nella parte in cui prevede interventi volti alla eliminazione delle barriere architettoniche, indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte delle persone in possesso di apposita certificazione di handicap grave, e che rientra anche nella deroga di cui all’art. 12, comma 2, della l.r. 29.11.2013, n. 32, per la quale “gli ascensori esterni e i sistemi di sollevamento realizzati al fine di migliorare l’accessibilità agli edifici sono da considerarsi volumi tecnici, esclusi pertanto dal calcolo del volume o della superficie e soggetti alle norme del codice civile in materia di distanze”.
Parimenti da respingere è la doglianza con la quale il ricorrente lamenta la violazione delle distanze previste dall’art. 907 c.c. dalla propria veduta, in quanto, come è noto, tale norma non trova applicazione in ambito condominiale.

---------------

Anche il terzo motivo con il quale il ricorrente lamenta la violazione delle distanze dai confini da parte dell’ascensore esterno deve essere respinto.
Si tratta infatti di un vano tecnico necessario al superamento delle barriere architettoniche, cui risulta applicabile la deroga di cui all’art. 79 del DPR 06.06.2001, n. 380, la quale, in base ai criteri interpretativi elaborati dalla giurisprudenza, deve ritenersi applicabile, nella parte in cui prevede interventi volti alla eliminazione delle barriere architettoniche, indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte delle persone in possesso di apposita certificazione di handicap grave (in tali termini cfr. Corte Costituzionale 10.05.1999, n, 167; Tar Veneto, Sez. II, 05.04.2007, n. 1122), e che rientra anche nella deroga di cui all’art. 12, comma 2, della legge regionale 29.11.2013, n. 32, per la quale “gli ascensori esterni e i sistemi di sollevamento realizzati al fine di migliorare l’accessibilità agli edifici sono da considerarsi volumi tecnici, esclusi pertanto dal calcolo del volume o della superficie e soggetti alle norme del codice civile in materia di distanze”.
Parimenti da respingere è la doglianza con la quale il ricorrente lamenta la violazione delle distanze previste dall’art. 907 c.c. dalla propria veduta, in quanto, come è noto, tale norma non trova applicazione in ambito condominiale (ex pluribus cfr. Cassazione civile, Sez. II, 30.06.2014, n. 14809).
In definitiva il ricorso e la domanda risarcitoria devono essere respinte (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 10.01.2017 n. 23 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha condivisibilmente negato la natura di costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della tromba delle scale o degli altri ambienti interni.
Tale orientamento è giunto all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore.
La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli sopra quello terreno).
---------------
N
el conflitto tra le esigenze dei condòmini disabili abitanti ad un piano alto e quelle degli altri partecipanti al condominio, per i quali il pregiudizio derivante dall'installazione di ascensore si risolverebbe non già nella totale impossibilità di un ordinario uso della scala comune ma soltanto in disagio e scomodità derivanti dalla relativa restrizione e nella difficoltà di usi eccezionali della stessa, vanno privilegiate le prime, adottando una soluzione conforme ai principi costituzionali della tutela della salute (art. 32) e della funzione sociale della proprietà (art. 42), rimuovendo un grave ostacolo alla fruizione di un primario bene della vita, quello dell'abitazione, da parte di persone versanti in condizioni di minorazione fisica e riconoscendo la facoltà, agli stessi, di apportare a proprie spese una modifica alla cosa comune, sostanzialmente e nel complesso migliorativa, in quanto suscettibile di utilizzazione anche da parte degli altri condomini.
---------------

... per l'annullamento provvedimento n. 8806/2014 avente ad oggetto istanza per realizzazione ascensore per abbattimento barriere architettoniche con richiesta di immediata sospensione dei lavori.
...
Con il ricorso introduttivo del giudizio il condominio odierno ricorrente e altri proprietari impugnavano gli atti di cui in epigrafe, contenenti le note comunali che hanno escluso un intervento inibitorio dei lavori assentiti di realizzazione di un ascensore esterno inteso a superare le barriere architettoniche di accesso, nonché il relativo assenso paesaggistico.
Nel ricostruire in fatto e in diritto la vicenda, all'atto impugnato si muovevano pertanto le seguenti censure:
   - in tema di edilizia, violazione degli artt. 3 l. 241/1990 e 37 tu edilizia, 6 d.l. 138/2011, eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria, per mancato esame delle diffide di parte ricorrente;
   - violazione degli artt. 97 Cost., 10, 11 e 27 tu edilizia, 2 ss. l. 13/1989, 1120 s. c.c., eccesso di potere sotto diversi profili, per assenza di legittimazione a richiedere tale tipologia di intervento;
   - in tema di paesaggio, violazione degli artt. 136 e 146 d.lgs. 42/2004 e diversi profili di eccesso di potere, basandosi l’assenso paesaggistico su di un presupposto errato quale la pretesa invisibilità da visuali prospettiche pubbliche.
Parte controinteressata si costituiva in giudizio e, controdeducendo punto per punto, concludeva per la declaratoria di tardività e per il rigetto del gravame. Il Comune intimato non si costituiva in giudizio.
...
Peraltro, il ricorso appare comunque infondato nel merito, anche in relazione ai dedotti profili edilizi, in specie alla luce della recente giurisprudenza fatta propria dalla Sezione rispetto alla quale, anche per esigenze di certezza del diritto, non sussistono ragioni di mutamento.
In analoga fattispecie (cfr. sent. 1002/2015), è stato evidenziato che “la giurisprudenza (Cass. n. 2566/2011 e CdS n. 6253/2012) ha condivisibilmente negato la natura di costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della tromba delle scale o degli altri ambienti interni. Tale orientamento è giunto all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la nozione di volume tecnico come quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima. Si tratta di quegli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che tuttavia non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore. La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche (nel caso in questione sino a quattro livelli sopra quello terreno)".
Sulla scorta di tale orientamento, appaiono prima facie infondati i rilievi dedotti.
Sia il primo motivo, avendo in ogni caso parte ricorrente formulato le proprie osservazioni, oggetto di valutazione negativa in sede di risposta.
In proposito, va fatto ulteriore riferimento a quell’orientamento prevalente a mente del quale l'obbligo dell'Amministrazione di prendere in considerazione gli scritti defensionali di parte nell'ambito del procedimento amministrativo, non si traduce in puntuale confutazione della mera rimostranza negativa, essendo sufficiente la completezza motivazionale dell'atto complessivamente valutato, allorché da esso possano agevolmente e unicamente desumersi comunque le ragioni giuridiche ed i presupposti di fatto posti a base della decisione.
Sia il secondo motivo, con cui vengono dedotti rilievi di carattere parzialmente civilistico.
In proposito, per un verso va ulteriormente richiamata la giurisprudenza civile predetta, a mente della quale nel conflitto tra le esigenze dei condòmini disabili abitanti ad un piano alto e quelle degli altri partecipanti al condominio, per i quali il pregiudizio derivante dall'installazione di ascensore si risolverebbe non già nella totale impossibilità di un ordinario uso della scala comune ma soltanto in disagio e scomodità derivanti dalla relativa restrizione e nella difficoltà di usi eccezionali della stessa, vanno privilegiate le prime, adottando una soluzione conforme ai principi costituzionali della tutela della salute (art. 32) e della funzione sociale della proprietà (art. 42), rimuovendo un grave ostacolo alla fruizione di un primario bene della vita, quello dell'abitazione, da parte di persone versanti in condizioni di minorazione fisica e riconoscendo la facoltà, agli stessi, di apportare a proprie spese una modifica alla cosa comune, sostanzialmente e nel complesso migliorativa, in quanto suscettibile di utilizzazione anche da parte degli altri condomini.
Nella specie parte ricorrente, nei limiti di sindacato propri della presente sede di legittimità, non ha fornito elementi tali da integrare la violazione dell’uso della cosa comune che va garantito a tutti, invocando questioni tipiche di una controversia civilistica.
Sul restante versante, amministrativo, le censure appaiono generiche –costituenti in prevalenza in un collage di massime giurisprudenziali privo di un concreto riferimento alla fattispecie in esame- e non tali da scalfire i principi di recente espressi dalla sezione (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 29.01.2016 n. 97 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Si intendono per barriere architettoniche –ai sensi dell’art. 2, lett. A), punti a) e b) del d.m. n. 236/1989–
   - “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero
   - “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”
sicché, appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici.
Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della legge n. 13/1989.

---------------

Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sez. II-quater, n. 4347/2007 del 14.05.2007 (che non risulta notificata) è stato in parte accolto ed in parte (limitatamente alla domanda risarcitoria) dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla CO. s.p.a. (Co.Se.As.Pu.), per l’annullamento della nota della Soprintendenza n. 16267/B del 18.02.2004, con cui veniva ordinata la sospensione dei lavori, per l’installazione di ascensori nel vano scala dei complessi edilizi siti in Latina, piazza ... nn. 1 e 9, nonché di ogni atto presupposto (ivi compresa la nota n. prot. 6567/B del 06.08.2003) e per l’accertamento del silenzio-assenso, formatosi ai sensi degli articoli nn. 4 e 5 della legge n. 13/1989 e della circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 1669/U.L. del 22.06.1989, sull’istanza di N.O. presentata il 21.12.2002.
Nella citata sentenza –disposta l’estromissione di due soggetti intervenuti in giudizio– erano ritenute fondate le prospettazioni difensive, riferite ad intervenuto superamento dei termini perentori, imposti dalla citata legge n. 13/1989 per la rimozione delle barriere architettoniche, a tutela dei soggetti disabili.
Avverso la pronuncia in questione proponevano appello (n. 7966/07, notificato il 04.10.2007) il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Lazio, in base alle seguenti argomentazioni difensive:
   I) Sulla normativa applicabile: le opere di cui trattasi non sarebbero rientrate nell’ambito degli interventi per il superamento delle barriere architettoniche, soggetti alla disciplina della legge n. 13/1989 –tenuto conto anche del regolamento di attuazione, emanato con d.m. n. 236 del 14.06.1989– in quanto la quota di prima fermata degli ascensori –coincidendo con il piano rialzato– avrebbe comunque lasciato sussistere sette gradini, non superabili autonomamente da persone disabili, con conseguente applicabilità della disciplina generale, contenuta nel d.lgs. n. 490/1999; il silenzio assenso, di cui all’art. 4 della citata legge n. 13/1989, non si sarebbe comunque formato, non avendo la Co. ottemperato a richieste di integrazione documentale e dovendo ritenersi necessario l’esplicito assenso della Soprintendenza;
   II) Sulla mancata partecipazione al procedimento: con motivazione, “sufficientemente espressa nel provvedimento” l’immediata sospensione dei lavori in corso sarebbe stata giustificata con riferimento all’irreversibile compromissione delle “peculiarità formali e sostanziali di parti del compendio architettonico, sottoposto ad azione di tutela”;
   III) Considerazioni finali: pur non volendo ostacolare l’abolizione delle barriere architettoniche, l’Amministrazione avrebbe inteso tutelare il vincolo artistico gravante sul bene interessato, in rapporto al quale i lavori di cui trattasi sarebbero stati fonte di grave alterazione dello stile e della funzionalità del complesso architettonico tutelato, in presenza di soluzioni alternative, che avrebbero consentito di conciliare gli interessi contrapposti.
La società appellata, costituitasi in giudizio, presentava articolate controdeduzioni in rapporto alle tesi difensive sopra sintetizzate e su tale base la causa è passata in decisione.
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che l’appello non possa trovare accoglimento, con riferimento alla duplice ed assorbente questione sottoposta a giudizio: la riconducibilità di lavori –finalizzati all’installazione di ascensori nei vani scala di alcuni immobili– alla normativa vigente sul superamento delle barriere architettoniche e, in caso affermativo, la conformità dell’atto impugnato a detta normativa.
Sotto il primo profilo, la risposta non può che essere affermativa, tenuto conto della nozione, deducibile dalla legge 09.01.1989, n. 13 (“Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”), nonché dalle relative norme attuative, approvate con d.m. 14.06.1989, n. 236 (“Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità, e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle barriere architettoniche”), ma anche ricorrendo a dati di comune esperienza (rilevanti per il giudizio, sul piano probatorio, ex art. 115, comma 2, c.p.c.).
Si intendono infatti per barriere architettoniche –ai sensi dell’art. 2, lettera A), punti a) e b) del citato d.m. n. 236/1989– “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”: appare evidente che fra tali ostacoli debbano annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento –e, dunque, di “disagio”– per chiunque, a causa dell’età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici.
Non può ragionevolmente negarsi, pertanto, che l’installazione di ascensori –certamente fonte di maggiore comodità per chiunque utilizzi un immobile– costituisca anche rimozione di barriere architettoniche, fonte di difficoltà crescente, a seconda del grado di disabilità: non a caso, detti impianti sono espressamente considerati nell’art. 7, comma 2, della citata legge n. 13/1989.
Al fine di confutare le conclusioni sopra esposte, l’appellante si limita a segnalare, nel primo ordine di censure, che nel caso di specie la quota di prima fermata degli ascensori di cui trattasi “coincide sempre con il piano rialzato e mai con il piano terreno, mantenendo, in tal modo, rampe di sette gradini non superabili autonomamente da persone disabili”, senza “realizzazione contestuale di strumenti alternativi per il superamento di queste barriere”: l’infondatezza di tali argomentazioni emerge con chiarezza dal testo delle norme regolamentari in precedenza riportate, che non impongono la totale rimozione delle barriere architettoniche, cessando di considerarle tali qualora –per le condizioni esistenti nell’immobile interessato– detta rimozione possa essere soltanto parziale e non soddisfare, quindi, pienamente le esigenze di soggetti non deambulanti in modo autonomo. Questi ultimi, tuttavia, non sono gli unici destinatari della norma, che fa riferimento anche a “capacità motoria ridotta”, riconducibile a soggetti in grado di superare sette gradini, ma non anche quattro o più piani di scale.
Posto, dunque, che deve ritenersi positivamente accertata l’applicabilità della legge n. 13/1989 alla installazione di ascensori, resta da stabilire se detta normativa risulti violata, o meno, con l’emanazione degli atti impugnati in primo grado di giudizio. Anche a tale quesito la risposta non può che essere affermativa, a conferma delle conclusioni raggiunte nella sentenza appellata.
Deve essere sottolineato al riguardo che quando, come nel caso di specie, l’immobile sia stato oggetto di notifica ai sensi dell’art. 2 della legge 01.06.1939, n. 1089 (sostituito, alle date che qui interessano, dall’art. 23 del d.lgs. 29.10.1999, n. 490), poiché ritenuto di interesse artistico o storico, il parere della Soprintendenza –prescritto per “opere di qualunque genere che si intendano eseguire” sul medesimo– viene sottoposto ad una disciplina acceleratoria speciale, nel caso appunto che dette opere siano finalizzate a rimuovere barriere architettoniche: l’art. 5 della citata legge n. 13/1989 prescrive infatti che la Soprintendenza debba pronunciarsi entro 120 giorni, “anche impartendo, ove necessario, apposite prescrizioni” e richiamando il precedente articolo 4, nelle parti (commi 2, 4 e 5) in cui la mancata pronuncia nel termine prescritto “equivale ad assenso”, con possibile diniego “solo ove non sia possibile realizzare le opere senza serio pregiudizio del bene tutelato”, specificando nella motivazione “la natura e la serietà del pregiudizio….in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato”.
Nella situazione in esame, non sembra si possa dubitare che la procedura descritta non sia stata rispettata, in presenza di una richiesta di autorizzazione, inoltrata dal professionista incaricato alla Soprintendenza il 21.12.2002 (che nell’atto di appello si afferma ricevuta –senza mutare i termini della questione– in data 08.01.2003), con successiva nota della medesima Soprintendenza del 06.08.2003 (n. prot. 6567/B, che la società interessata, peraltro, afferma di non avere ricevuto) intesa a comunicare lo stato di sospensione della pratica, in attesa di documentazione integrativa.
Nel frattempo, il Comune di Latina aveva prima (il 04.02.2003) diffidato Co. s.p.a. dal dare inizio ai lavori, oggetto di DIA presentata il 15.01.2003, e poi revocato tale diffida, avendo preso atto dell’iter autorizzativo avviato e da ritenere, ormai, concluso per silenzio assenso.
Avuta notizia della revoca il 16.06.2003, la Soprintendenza emetteva quindi il provvedimento di sospensione dei lavori n. prot. 16267/B del 14.02.2004, citando la precedente nota del 06.08.2003: entrambi tali atti erano oggetto di impugnativa da parte di Co. s.p.a., che negava di avere avuto conoscenza prima di allora della richiesta di documentazione integrativa.
In tale contesto, lo stesso atto di appello non contiene alcun riferimento a provvedimenti –anche istruttori– emanati nel termine perentorio previsto dalla legge, limitandosi ad affermare genericamente che le integrazioni documentali sarebbero state richieste al professionista incaricato da Co., ing. St., in un incontro svoltosi nel febbraio del 2003.
Tale operato, privo di qualsiasi riscontro documentale, non può ritenersi conforme alla normativa speciale in precedenza citata, che –in considerazione dei delicati interessi, sottostanti alla rimozione delle barriere architettoniche– non condizionava affatto i lavori all’approvazione espressa del Soprintendente, ma consentiva di ritenere acquisita detta approvazione per silenzio assenso dopo 120 giorni dalla presentazione dell’istanza, delimitando in modo rigoroso le ipotesi di diniego.
La formulazione della norma, che prevede la possibilità di assenso con prescrizioni, o il diniego motivato, ma solo in presenza di “serio pregiudizio” del bene tutelato, rende realmente marginale la possibilità di sospendere il termine perentorio in questione, se non nell’ipotesi eccezionale di istanza gravemente incompleta e inidonea a consentire l’avvio di qualsiasi istruttoria.
Anche detta sospensione, ove pure ritenuta ammissibile, avrebbe dovuto essere disposta con provvedimento circostanziato e motivato, che la stessa Amministrazione non afferma di avere emesso. Ove poi fossero state acquisite in sede di sopralluogo, nel febbraio 2003, informazioni tali da far ravvisare –come si legge nell’atto di appello– “l’impossibilità”, per le caratteristiche formali e per le dimensioni dei vani scala, di inserire impianti elevatori “senza procurare nocumento a parti strutturali di beni tutelati”, appare singolare l’omessa tempestiva adozione di un atto di diniego motivato e l’adozione a circa un anno di distanza di un ordine di sospensione di lavori, che la documentazione fotografica in atti mostra pressoché ultimati, senza che sui problemi strutturali anzidetti venga fornita ulteriore documentazione tecnica.
In tale contesto, il Collegio ritiene che l’Amministrazione abbia esercitato tardivamente –e quindi, data la sussistenza di un termine perentorio non rispettato, illegittimamente– il proprio potere interdittivo, potendo la stessa fare ricorso, dopo la maturazione del silenzio assenso, solo all’esercizio della potestà di autotutela, purché ne sussistessero i presupposti, anche in rapporto all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990.
Le medesime ragioni, che nei termini sopra precisati consentono di respingere le argomentazioni difensive, contenute nel primo ordine di censure, giustificano il rigetto anche delle considerazioni successive, in cui si prospettano, in modo del tutto apodittico, “irreversibile compromissione”, o “grave alterazione” dello stile e della funzionalità dell’immobile tutelato, senza che risultino comprensibili, ancora una volta, i motivi per cui un simile negativo apprezzamento non abbia dato luogo a tempestivo provvedimento di diniego.
In base alle argomentazioni svolte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’impugnativa debba essere respinta; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, la delicatezza degli interessi coinvolti ne rende equa, ad avviso del Collegio stesso, la compensazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2014 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2022
aggiornamento al 29.12.2022

Costruzione di una piscina interrata:
trattasi di "nuova costruzione"
-ex art. 3, comma 1, lett. e-1), dpr 380/2001- soggetta a permesso di costruire e non può qualificarsi in termini di "pertinenza urbanistica".

EDILIZIA PRIVATA: In termini distintivi tra interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione edilizia devono trovare applicazione i principi di diritto, ripetutamente affermati da questo Consiglio di Stato, in forza dei quali:
   - al fine di valutare l'incidenza sull'assetto del territorio di un intervento edilizio, consistente in una pluralità di opere, va compiuto un apprezzamento globale, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprenderne in modo adeguato l'impatto effettivo complessivo. I molteplici interventi eseguiti non vanno considerati, dunque, in maniera "frazionata";
   - l'intervento di nuova costruzione consiste in una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero costruzioni lato sensu intese, che, indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di amovibilità, presentino un simultaneo carattere di stabilità fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato al suolo (il cui tratto distintivo e qualificante viene, dunque, assunto nell'irreversibilità spazio-temporale dell'intervento) che possono sostanziarsi o nella costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati o nell'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma stabilita;
   - l'intervento di ristrutturazione edilizia, invece, sussiste quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso: tuttavia, laddove il manufatto sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell'intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della struttura originaria, l'intervento rientra nella nozione di nuova costruzione; nella nozione di nuova costruzione possono, dunque, rientrare anche gli interventi di ristrutturazione qualora, in considerazione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione dell'immobile, possa parlarsi di una modifica radicale dello stesso, con la conseguenza che l'opera realizzata nel suo complesso sia oggettivamente diversa da quella preesistente;
   - in definitiva, pur consentendo l'art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001 di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma siano di portata limitata e comunque riconducibili all'organismo preesistente;
   - la ristrutturazione edilizia, a sua volta, deve essere distinta dagli interventi di restauro e risanamento conservativo;
   - mentre la ristrutturazione può condurre ad un "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente", il restauro e il risanamento conservativo "non possono mai portare a ridetto "organismo in tutto o in parte diverso dal preesistente", avendo sempre la finalità di "conservare l'organismo edilizio" ovvero di "assicurarne la funzionalità" (cfr. ancora art. 31, lett. c), della L. n. 457 del 1978, traslato testualmente nell'art. 3, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001)";
   - ne deriva che si è in presenza di un restauro e risanamento conservativo qualora l'intervento sia funzionale alla conservazione dell'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità, nel rispetto dei suoi elementi tipologici (in specie, architettonici e funzionali, suscettibili di consentire la qualificazione dell'organismo in base alle tipologie edilizie), formali (tali da contraddistinguere il manufatto, configurandone l'immagine caratteristica) e strutturali (concernenti la composizione della struttura dell'organismo edilizio);
   - in particolare, "la caratteristica degli interventi di mero restauro è quella di essere effettuata mediante opere che non comportano l'alterazione delle caratteristiche edilizie dell'immobile da restaurare, e quindi rispettando gli elementi formali e strutturali dell'immobile stesso, mentre la ristrutturazione edilizia si caratterizza per essere idonea ad introdurre un quid novi rispetto al precedente assetto dell'edificio";
   - questo Consiglio, in definitiva, ha precisato che "la finalità di conservazione, caratteristica degli interventi di recupero e risanamento conservativo, postula il mantenimento tipologico e strutturale del manufatto; conseguentemente dovendosi ascrivere gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica di un immobile (e comportino, altresì, la modifica e ridistribuzione dei volumi) non già nel concetto di "manutenzione straordinaria" (e, a fortiori, di restauro o risanamento conservativo), ma quale "ristrutturazione edilizia" (pertanto ravvisabile nella modificazione della distribuzione della superficie interna e dei volumi e dell'ordine in cui sono disposte le diverse porzioni dell'edificio anche per il solo fine di renderne più agevole la destinazione d'uso esistente)".
---------------
La pavimentazione di un’area di 700 mq e la realizzazione di una piscina danno luogo ad interventi di nuova costruzione che conducono all’edificazione di nuovi organismi edilizi suscettibili di autonoma utilizzazione, per i quali risulta prescritto il previo rilascio del prescritto permesso di costruire ex art. 10, comma 1, lett. a), DPR n. 380/2001, in assenza del quale è dovuta la sanzione ripristinatoria ex art. 31 DPR n. 380/2001.
Non potrebbe diversamente argomentarsi ritenendo che nella specie non si facesse questione di piscina, ma di mera vasca di approvvigionamento idrico, tenuto conto che l’Amministrazione ha sanzionato la realizzazione di un’opera lunga metri 7, larga metri 2,30 e profonda metri 1,50 circa, comportante una rilevante trasformazione edilizia e urbanistica del territorio: a prescindere dall’utilizzo (destinazione alla balneazione o alla raccolta di acqua) l’opera, implicando una modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo, per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale e alla sua qualificazione –considerate la profondità degli scavi e la quantità delle terre movimentate occorrenti per realizzare un’opera quale quella in contestazione– integra gli estremi della nuova costruzione, sottoposta al previo rilascio del permesso di costruire.

---------------

1. Con ordinanza n. 20 del 25.07.2011 il Comune di Massa di Somma, dato atto dell’esistenza di una villa per la quale era stata presentata istanza di condono ai sensi della L. n. 47/1985 dalla Sig.ra De Si., alla stregua di quanto emergente dalla relazione del locale Ufficio tecnico n. 4547 del 2011, ha riscontrato l’avvenuta realizzazione, ad opera del Sig. An.Ga., delle seguenti opere:
   - la pavimentazione con mattonelle in cemento del lato posto a nord della villa, per una superficie di mq 700, nonché la realizzazione su tale superficie di una piscina (lunga metri 7, larga metri 2,30 e profonda metri 1,50 circa), fuoriuscente dal piano di campagna per metri 0,40, di una piattaforma in muratura occupante una superficie di mq 16 e posta a quota +0,60 rispetto al piano campagna accessibile tramite tre scalini sempre in muratura, nonché di un locale bagno diviso in tre vani (antibagno e due wc) e occupante una superficie di mq 7 circa per un’altezza di metri 2,15 (la cui struttura portante era costituita da muratura su cui poggiava la copertura in pannelli coibentati);
   - la realizzazione di un corpo di fabbrica posto sul lato ovest, alto mediamente metri tre e costituito da tre mini appartamenti, ognuno dei quali composto da due vani e un wc, con un piccolo cortiletto esterno, delimitato da un lato dai muri del fabbricato e dagli altri lati da piccoli muretti;
   - la trasformazione di un box abusivo di mq 25, già segnalato dai VV.UU. con nota prot. n. 1990 del 05.11.1988 in un mini appartamento costituito da una stanza e da un piccolo bagno;
   - la trasformazione del piano terra della villa in un appartamento autonomo, costituito da tre vani più due bagni e un piccolo corridoio.
Per l’effetto, l’Amministrazione, con la medesima nota n. 20/11, ha ordinato l’immediata sospensione dei lavori, riscontrando la presenza di opere abusive.
Con successiva ordinanza n. 22 del 09.09.2011 lo stesso Comune, richiamate l’ordinanza di sospensione n. 20 del 2011 e le opere sopra elencate, ha rilevato che:
   - le opere in considerazione dovevano ritenersi abusive, in quanto realizzate in assenza di permesso a costruire e delle necessarie autorizzazioni e nulla osta;
   - il fondo agricolo interessato dagli abusi:
a) risultava destinato, nel vigente Programma di Fabbricazione, a zona E (agricola), nel Piano Territoriale Paesistico dell’area Vesuviana a zona P.I. (protezione integrale);
b) era ubicato all’interno del Parco Nazionale del Vesuvio; nonché
c) risultava sottoposto anche al vincolo idrogeologico di cui al R.D. n. 3267 del 1923;
   - l’intero territorio comunale risultava vincolato ai sensi della L. n. 1497/1939 e della L. n. 431/1985 sulla tutela delle bellezze naturali, ricadeva nella zona rossa ad alto rischio vulcanico, risultava sottoposto ai vincoli di cui alla L.R. n. 21/2013 e alle norme di attuazione del Piano Stralcio Assetto Idrogeologico, nonché era stato dichiarato zona sismica con grado di sismicità pari a S=9 D.M. del 07.03.1981.
Per l’effetto, l’Amministrazione ha disposto la demolizione delle opere de quibus.
Con ordinanza n. 688978 del 13.09.2011 la Regione Campania, Settore provinciale del Genio civile di Napoli, riscontrando l’esecuzione di opere in violazione del D.P.R. 380/2001 e delle leggi vigenti in materia stante il mancato deposito del progetto ai sensi dell’art. 2 L.R. n. 9/1983, al fine di salvaguardare la pubblica e privata incolumità, tra l’altro, ha ordinato al Sig. Ga. la sospensione immediata dei lavori.
2. Il Sig. Ga., ricorrendo dinnanzi al Tar Campania, sede di Napoli, ha impugnato le ordinanze nn. 20/2011, 22/2011 e 688978/2011 citate, deducendone l’illegittimità con l’articolazione di plurimi motivi di censura.
3. Il Tar ha rigettato il ricorso, ravvisando l’infondatezza delle doglianze attoree.
4. Il ricorrente in primo grado ha appellato la sentenza di prime cure, censurandone l’erroneità con l’articolazione di otto motivi di impugnazione.
5. La Regione Campania si è costituita in giudizio, resistendo al ricorso.
6. L’appellante, con istanza del 26.09.2022, ha chiesto il passaggio in decisione della controversia, depositando in pari data copia degli avvisi di ricevimento attestanti il perfezionamento della notificazione del ricorso in appello.
...
9. Con il secondo motivo di appello è censurato il capo decisorio con cui il Tar ha ritenuto che le opere in contestazione fossero soggette al previo rilascio del permesso di costruire.
9.1 Secondo quanto dedotto dall’appellante, ferme la riconducibilità delle opere in parola alla domanda di condono edilizio, le stesse, in parte, preesistevano all’acquisto con conseguente illegittimità dell’ordine di demolizione reso in relazione ad un’attività di nuova edificazione invero inesistente; in altra parte e, comunque, non sarebbero riconducibili al regime del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesistica.
Per l’effetto, l’Amministrazione avrebbe, al più, potuto applicare la sola sanzione pecuniaria ex art. 37 DPR n. 380/2001.
9.2 Il motivo di appello è infondato.
9.3 Nel rinviare alle considerazioni sopra svolte –nella disamina del precedente motivo di impugnazione– in ordine alla portata oggettiva della domanda di condono, nella presente sede occorre evidenziare come le opere in concreto eseguite abbiano integrato interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione edilizia abusivi, per i quali è stata correttamente applicata la sanzione ripristinatoria.
In subiecta materia devono trovare applicazione i principi di diritto, ripetutamente affermati da questo Consiglio di Stato, in forza dei quali:
   - al fine di valutare l'incidenza sull'assetto del territorio di un intervento edilizio, consistente in una pluralità di opere, va compiuto un apprezzamento globale, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprenderne in modo adeguato l'impatto effettivo complessivo. I molteplici interventi eseguiti non vanno considerati, dunque, in maniera "frazionata" (Consiglio di Stato, sez. II, 18.05.2020, n. 3164);
   - l'intervento di nuova costruzione consiste in una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero costruzioni lato sensu intese, che, indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di amovibilità, presentino un simultaneo carattere di stabilità fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato al suolo (il cui tratto distintivo e qualificante viene, dunque, assunto nell'irreversibilità spazio-temporale dell'intervento) che possono sostanziarsi o nella costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati o nell'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma stabilita (Consiglio di Stato, sez. VI, 03.03.2020, n. 1536);
   - l'intervento di ristrutturazione edilizia, invece, sussiste quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso: tuttavia, laddove il manufatto sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell'intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della struttura originaria, l'intervento rientra nella nozione di nuova costruzione; nella nozione di nuova costruzione possono, dunque, rientrare anche gli interventi di ristrutturazione qualora, in considerazione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione dell'immobile, possa parlarsi di una modifica radicale dello stesso, con la conseguenza che l'opera realizzata nel suo complesso sia oggettivamente diversa da quella preesistente (Consiglio di Stato, sez. II, 06.04.2020, n. 2304);
   - in definitiva, pur consentendo l'art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001 di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma siano di portata limitata e comunque riconducibili all'organismo preesistente (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 19.01.2016, n. 328);
   - la ristrutturazione edilizia, a sua volta, deve essere distinta dagli interventi di restauro e risanamento conservativo;
   - mentre la ristrutturazione può condurre ad un "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente", il restauro e il risanamento conservativo "non possono mai portare a ridetto "organismo in tutto o in parte diverso dal preesistente", avendo sempre la finalità di "conservare l'organismo edilizio" ovvero di "assicurarne la funzionalità" (cfr. ancora art. 31, lett. c), della L. n. 457 del 1978, traslato testualmente nell'art. 3, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001)" (Consiglio di Stato, Sez. II, 26.12.2020, n. 8337);
   - ne deriva che si è in presenza di un restauro e risanamento conservativo qualora l'intervento sia funzionale alla conservazione dell'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità, nel rispetto dei suoi elementi tipologici (in specie, architettonici e funzionali, suscettibili di consentire la qualificazione dell'organismo in base alle tipologie edilizie), formali (tali da contraddistinguere il manufatto, configurandone l'immagine caratteristica) e strutturali (concernenti la composizione della struttura dell'organismo edilizio);
   - in particolare, "la caratteristica degli interventi di mero restauro è quella di essere effettuata mediante opere che non comportano l'alterazione delle caratteristiche edilizie dell'immobile da restaurare, e quindi rispettando gli elementi formali e strutturali dell'immobile stesso, mentre la ristrutturazione edilizia si caratterizza per essere idonea ad introdurre un quid novi rispetto al precedente assetto dell'edificio (Cons. Stato Sez. VI, Sent., 02.09.2020, n. 5350)" (Consiglio di Stato, sez. II, 18.06.2021, n. 4701);
   - questo Consiglio (sez. II, 02.04.2021, n. 2735), in definitiva, ha precisato che "la finalità di conservazione, caratteristica degli interventi di recupero e risanamento conservativo, postula il mantenimento tipologico e strutturale del manufatto; conseguentemente dovendosi ascrivere gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica di un immobile (e comportino, altresì, la modifica e ridistribuzione dei volumi) non già nel concetto di "manutenzione straordinaria" (e, a fortiori, di restauro o risanamento conservativo), ma quale "ristrutturazione edilizia" (pertanto ravvisabile nella modificazione della distribuzione della superficie interna e dei volumi e dell'ordine in cui sono disposte le diverse porzioni dell'edificio anche per il solo fine di renderne più agevole la destinazione d'uso esistente)" (Consiglio di Stato, sez. II, 02.04.2021, n. 2735).
9.4 L’applicazione di tali coordinate ermeneutiche al caso di specie conduce al rigetto del motivo di impugnazione.
9.5 In particolare, la pavimentazione di un’area di 700 mq e la realizzazione di una piscina, di una piattaforma in muratura con annesso locale bagno e di un nuovo corpo di fabbrica costituito da tre mini appartamenti danno luogo ad interventi di nuova costruzione, avendo condotto all’edificazione di nuovi organismi edilizi suscettibili di autonoma utilizzazione, per i quali risultava prescritto il previo rilascio del prescritto permesso di costruire ex art. 10, comma 1, lett. a), DPR n. 380/2001, in assenza del quale era dovuta la sanzione ripristinatoria ex art. 31 DPR n. 380/2001.
Non potrebbe diversamente argomentarsi ritenendo che nella specie non si facesse questione di piscina, ma di mera vasca di approvvigionamento idrico, tenuto conto che l’Amministrazione ha sanzionato la realizzazione di un’opera lunga metri 7, larga metri 2,30 e profonda metri 1,50 circa, comportante una rilevante trasformazione edilizia e urbanistica del territorio: a prescindere dall’utilizzo (destinazione alla balneazione o alla raccolta di acqua) l’opera, implicando una modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo, per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale e alla sua qualificazione (Consiglio di Stato, sez. VI, 30.06.2020, n. 4152) –considerate la profondità degli scavi e la quantità delle terre movimentate occorrenti per realizzare un’opera quale quella in contestazione– integrava gli estremi della nuova costruzione, sottoposta al previo rilascio del permesso di costruire.
9.6 Parimenti, la trasformazione di un box preesistente abusivo ripeteva le stesse caratteristiche di illiceità dell’abuso originario, con la conseguenza che, facendosi questione di un nuovo organismo edilizio realizzato sine titulo, come tale soggetto a sanzione ripristinatoria, analogo trattamento sanzionatorio doveva essere riservato alle opere comportanti una sua trasformazione.
9.7 Infine, come osservato, anche in relazione alla trasformazione del piano terra della villa oggetto della domanda di condono non ancora evasa, si imponeva la sanzione demolitoria.
La villa risultava, infatti, abusiva perché non ancora condonata, ragion per cui sarebbe stato necessario attendere l'esito del procedimento di condono, non potendo eseguirsi ulteriori opere in relazione al relativo manufatto: tali opere, nei fatti realizzate e oggetto del provvedimento impugnato in primo grado, ripetendo le caratteristiche di illiceità dell'abuso originario cui strutturalmente inerivano, risultavano parimenti abusive e, come tali, ben potevano essere soggette a sanzione ripristinatoria, come legittimamente disposto dall'Amministrazione comunale con l'ordine di demolizione per cui è causa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.11.2022 n. 10360 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ogni località sottoposta a vincolo paesaggistico la realizzazione di una piscina deve essere qualificata come nuova costruzione che modifica irreversibilmente lo stato dei luoghi, sicché ‒ferma restando la valutazione discrezionale dell'autorità paesaggistica sulla sua fattibilità, qualora vi sia soltanto un vincolo relativo– la relativa abusiva edificazione comporta la sanzione ordinaria, cioè ripristinatoria.
---------------

Ai fini di un corretto inquadramento della presente fattispecie si rileva che con il provvedimento impugnato in primo grado, l’amministrazione contestava alle appellanti la realizzazione delle seguenti opere:
   - struttura serricola di m. 8.40 x 7.80 con copertura in telo plastificato trasparente supportata da struttura in ferro ad arco, di altezza al colmo di m. 3.70 e alla gronda di m. 2.30, ancorata ad un muro perimetrale di altezza pari a m. 1.30;
   - piscina in vetroresina di m. 6.30 x 3.30;
   - manufatto in muratura di m. 9.10 x 13.30 composto da n. 2 vani e servizio igienico, di altezza al colmo pari a m. 3.30 e m. 3.00 alla gronda, con copertura in lamiere coibentate, completo di impianto elettrico, idrico sanitario, pavimentazione e infissi;
   - tettoia con struttura in legno e copertura con tegole in cotto di m. 12.50 x 3.00 di altezza pari a m. 3.30 al colmo e circa m. 3.00 alla gronda, costruito in aderenza al citato manufatto in muratura.
...
Quanto alla piscina non può che richiamarsi il pacifico orientamento giurisprudenziale per il quale «in ogni località sottoposta a vincolo paesaggistico la realizzazione di una piscina vada qualificata come nuova costruzione che modifica irreversibilmente lo stato dei luoghi, sicché ‒ferma restando la valutazione discrezionale dell'autorità paesaggistica sulla sua fattibilità, qualora vi sia soltanto un vincolo relativo– la relativa abusiva edificazione comporta la sanzione ordinaria, cioè ripristinatoria (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 05/03/2013, n. 1316 e 07/01/2014, n. 18)» (Cons Stato, Sez. VI, 03.06.2022, n. 4570) (Cons Stato, VI, 15.11.2021, n. 7584) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.11.2022 n. 9646 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una piscina interrata è da qualificarsi come "nuova costruzione" ai sensi dell’art. 3, comma 1-e), del D.P.R. n. 380/2001 e, quindi, necessitante del permesso di costruire per la sua realizzazione.
La giurisprudenza nettamente prevalente ritiene che la piscina interrata costituisca una nuova costruzione assoggettata al permesso di costruire e non sia qualificabile in termini di pertinenza dell’edificio principale in ragione della significativa trasformazione del territorio giacché “la piscina, in considerazione della sua consistenza modificativa dell'assetto del territorio, rappresenta una nuova costruzione e non può essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria o minori, di cui all'art. 37 del D.P.R. n. 380 del 2001”.
Inoltre è stato rilevato che “le piscine non sono pertinenze in senso urbanistico in quanto comportanti trasformazione durevole del territorio. L'aspetto funzionale relativo all'uso del manufatto è altresì condiviso da altra recente giurisprudenza, secondo cui tutti gli elementi strutturali concorrono al computo di volumetria dei manufatti, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio cui accede. La piscina, infatti, a differenza di altri manufatti, non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire".
Anche la Cassazione penale ha in più occasioni affermato che “la costruzione di una piscina interrata, ai sensi dell'art. 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, costituisce intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia, in quanto crea un aumento di volumetria e comporta la trasformazione permanente del suolo, essendo necessario, pertanto, per la sua realizzazione, il rilascio di permesso di costruire”.
---------------
Una piscina, ancorché interrata, ubicata a meno di 3 metri dalla proprietà pubblica costituita dal marciapiede, siccome disposto dal Regolamento Edilizio Comunale, deve ritenersi contra legem.
Invero, i volumi interrati possono derogare alle norme generali in tema di distanze legali, ma non alle norme speciali stabilite dal Pianificatore locale che, in quanto integrative della normativa del codice civile, non sono eludibili.
In particolare è stato affermato che “in tema di distanza, in mancanza di una norma specifica contenuta nel regolamento edilizio comunale (…) va applicato l’art. 899 del codice civile, che, per le costruzioni interrate quali pozzi, cisterne e fosse, prevede una distanza minima di "almeno due metri tra il confine e il punto più vicino del perimetro interno delle opere predette", con la conseguenza che quando esistono –come nel caso di specie– disposizioni edilizie locali, esse esplicano un’efficacia integrativa della disciplina del codice civile e, in tale prospettiva, non sono derogabili.
Ne consegue che in ragione della contenuta nell’art. 42 del REC che prescrive la distanza minima di 3 metri, l’ordine di demolizione impugnato appare legittimo.

---------------

1) La sig.ra -OMISSIS- è proprietaria del terreno sito in via -OMISSIS-, catastalmente identificato al mappale -OMISSIS-, sub. -OMISSIS-, ove ha realizzato la propria abitazione.
2) Nel medesimo lotto ha realizzato, in assenza di titolo edilizio, anche una piscina interrata, come accertato dal Comune con sopralluogo in data -OMISSIS- 2021.
3) Pertanto la civica amministrazione, con nota -OMISSIS- del -OMISSIS- 2021, ha avviato il procedimento di “verifica della regolarità delle opere di realizzazione di una nuova piscina interrata” contestando che il lotto non ha una dotazione sufficiente di “superficie drenante” e che la distanza tra la piscina e strada pubblica è inferiore a quella stabilita dall’art. 42 del Regolamento Edilizio Comunale (REC).
4) In riscontro a detta nota la ricorrente ha inviato le proprie osservazioni assunte al prot. -OMISSIS- del -OMISSIS- 2021 con le quali, dopo avere ammesso la sussistenza delle violazioni contestate, ha chiesto al Comune se fosse possibile una “deroga dei parametri edilizi e urbanistici non conformi alle normative nazionali e locali in vigore, al fine di poter procedere con la sanatoria della piscina in oggetto”, accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001 che, tuttavia, non è mai stato richiesto, difettando, appunto, la conformità urbanistica dell’intervento.
5) Sennonché il Comune:
   - dapprima con nota n. -OMISSIS- dell’-OMISSIS- 2021, ha negato ogni possibilità di deroga richiesta dalla ricorrente;
   - successivamente, con ordinanza n -OMISSIS- del -OMISSIS- 2021, ha ordinato la demolizione dell’opera ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n 380/2001 in quanto realizzata senza titolo abilitativo e non urbanisticamente conforme perché:
   - il lotto non dispone di una sufficiente dotazione di “superficie drenante”;
   - sono violate le distanze minime di cui all’art. 42 del REC.
6) Con il ricorso di cui in epigrafe la ricorrente ha impugnato la citata ordinanza ingiuntiva della demolizione e gli atti presupposti, con richiesta di sospensione cautelare.
...
10) Con il PRIMO MOTIVO la ricorrente ha dedotto l’illegittimità dell’impugnata ordinanza per difetto di istruttoria e travisamento in quanto la piscina realizzata, avendo dimensioni ridotte, non costituirebbe una nuova costruzione ma solamente una pertinenza dell’edificio non soggetta a permesso di costruire in quanto rientrante nel limite del 20% della volumetria dell’immobile principale di cui all’art. 3, comma 1-e), del D.P.R. n. 380/2001.
Il motivo è infondato.
La giurisprudenza nettamente prevalente, che il Collegio condivide, ritiene che la piscina interrata costituisca una nuova costruzione assoggettata al permesso di costruire e non sia qualificabile in termini di pertinenza dell’edificio principale in ragione della significativa trasformazione del territorio giacché “la piscina, in considerazione della sua consistenza modificativa dell'assetto del territorio, rappresenta una nuova costruzione e non può essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria o minori, di cui all'art. 37 del D.P.R. n. 380 del 2001” (TAR Piemonte, sez. II, 02/08/2022, n. 703; TAR Napoli, sez. VII, 16/03/2017, n. 1503).
Inoltre è stato rilevato che “le piscine non sono pertinenze in senso urbanistico in quanto comportanti trasformazione durevole del territorio. L'aspetto funzionale relativo all'uso del manufatto è altresì condiviso da altra recente giurisprudenza, secondo cui tutti gli elementi strutturali concorrono al computo di volumetria dei manufatti, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio cui accede. La piscina, infatti, a differenza di altri manufatti, non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire" (TAR Campania, Napoli, sez. III, 09.09.2020, n. 3730).
Anche la Cassazione penale ha in più occasioni affermato che “la costruzione di una piscina interrata, ai sensi dell'art. 3 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, costituisce intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia, in quanto crea un aumento di volumetria e comporta la trasformazione permanente del suolo, essendo necessario, pertanto, per la sua realizzazione, il rilascio di permesso di costruire” (Cass. Pen. sez. III, 16.01.2019, n. 1913).
Pertanto, siccome il manufatto contestato è dotato di autonoma rilevanza urbanistica e soggiace al rilascio del Permesso di costruire, è legittimità dell’impugnata ordinanza che ha qualificato il manufatto come nuova costruzione ai sensi dell’art. 3, comma 1-e), del D.P.R. n. 380/2001 e, quindi, ne ha debitamente ingiunto la demolizione ai sensi del successivo art. 31 perché realizzata in assenza di detto titolo abilitativo edilizio.
11) Con il SECONDO MOTIVO la ricorrente ha dedotto la violazione:
   i) dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 in materia di accertamento di conformità;
   ii) dell’art. art. 44 del Regolamento edilizio comunale (REC) in materia di “superficie drenante” del lotto per realizzare nuove edificazioni;
   iii) dell’art. 42 del medesimo REC in punto di distanze dai confini.
Il motivo è infondato.
11.1) La doglianza sub i) è palesemente infondata atteso che la ricorrente non ha mai richiesto alcun accertamento di conformità ex art. 36, ma ha semplicemente formulato un’istanza esplorativa al Comune sulla possibilità di deroga rispetto ad alcuni parametri edilizi ostativi alla sanatoria dell’intervento in questione (deroga, peraltro, esclusa dal Comune con nota n. -OMISSIS- dell’-OMISSIS- 2021).
Ne consegue che nessuna violazione dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 è configurabile, non essendo mai stata attivata il relativo procedimento.
11.2) Infondato è anche il profilo sub ii) secondo cui la superficie drenante richiesta dall’art. 44 del REC –pacificamente mancante nel lotto della ricorrente– sarebbe reperibile nell’area che circonda il compendio immobiliare ad ovest e a sud, operazione che sarebbe consentita dalla Convenzione urbanistica relativa al Piano Attuativo n. 11 che, in origine, aveva regolato l’edificazione della zona e la realizzazione dell’abitazione della ricorrente.
a) In primo luogo si rileva che, se anche tale operazione fosse stata effettuabile durante il periodo di efficacia della Convenzione (e ciò non è in alcun modo dimostrato), siccome detta Convenzione urbanistica è pacificamente scaduta, risultano inapplicabili le relative norme e preclusa qualsiasi possibilità di scambio o cessione di indici edificatori (o di altro tipo) tra fondi diversi che, oltretutto, sono ormai sottratti alla disponibilità della ricorrente perché da tempo sono stati ceduti al Comune in esecuzione della Convenzione suddetta.
b) È infondata anche la tesi secondo cui l’intervento edilizio contestato sarebbe ammesso in quanto effettuato in un “lotto intercluso delle zone residenziali” per il quale l’art. 44 del REC non imporrebbe un limite vincolante per la superficie drenante prevedendo che “Nei casi di interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, di interventi di ristrutturazione urbanistica, di interventi da realizzarsi in aree ricadenti in lotti interclusi delle zone residenziali, i parametri di superficie scoperta e drenante di cui al primo comma costituiscono obbiettivo a cui tendere”.
Sennonché tale disposizione risulta inapplicabile al fondo della ricorrente perché:
   - esso non è intercluso (in senso fisico), atteso che ad esso si accede direttamente dalla strada pubblica;
   - lo stesso non è intercluso neppure sotto il profilo urbanistico giacché il “lotto intercluso” è costituito da enclavi ancora edificate e situate all’interno di in un’area già integralmente urbanizzata che, per tale ragione, sono edificabili anche in assenza di un Piano urbanistico attuativo o di una Convenzione di lottizzazione (ex multis: Cons. Stato, Sez. sez. IV, 02.04.2020, 2228), ma tale situazione non ricorre nel caso di specie sia perché tale qualità del fondo non è stata dimostrata, sia perché il lotto della ricorrente è già stato edificato e non vi è prova che la zona circostante sia stata integralmente urbanizzata, anche perché il Piano attuativo originario è stato attuato solo parzialmente.
11.3) L’art. 42 del REC stabilisce che “Le distanze minime da rispettare, misurate dal bordo interno dell’invaso, sono le seguenti: - mt. 3,00 dal filo esterno degli edifici della medesima proprietà e dai confini con la proprietà pubblica (…)”.
La piscina è ubicata pacificamente a meno di 3 metri dalla proprietà pubblica costituita dal marciapiede, ma la ricorrente ritiene inapplicabile la norma al manufatto in quanto totalmente interrato.
La tesi è infondata.
Come correttamente argomentato dalla difesa della civica amministrazione i volumi interrati possono derogare alle norme generali in tema di distanze legali, ma non alle norme speciali stabilite dal Pianificatore locale che, in quanto integrative della normativa del codice civile, non sono eludibili.
In particolare è stato affermato che “in tema di distanza, in mancanza di una norma specifica contenuta nel regolamento edilizio comunale (…) va applicato l’art. 899 del codice civile, che, per le costruzioni interrate quali pozzi, cisterne e fosse, prevede una distanza minima di "almeno due metri tra il confine e il punto più vicino del perimetro interno delle opere predette" (Cons. Stato, Sez. II, 07.01.2022 n. 109), con la conseguenza che quando esistono –come nel caso di specie– disposizioni edilizie locali, esse esplicano un’efficacia integrativa della disciplina del codice civile e, in tale prospettiva, non sono derogabili.
Ne consegue che in ragione della contenuta nell’art. 42 del REC che prescrive la distanza minima di 3 metri, l’ordine di demolizione impugnato appare legittimo anche sotto tale profilo.
12) Conclusivamente il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 24.10.2022 n. 993 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATATutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede.
Pertanto, la realizzazione di una piscina è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura in cui realizza l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.P.R., in quanto comporta una durevole trasformazione del territorio.
La realizzazione della stessa non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire.
Conseguentemente, l’ordinanza è legittima quanto all’ingiunzione di demolizione della piscina realizzata in assenza del permesso di costruire.

---------------

5.5. Sulla piscina
Essa è menzionata nella d.i.a. del 2006 quale “fontana ornamentale” e riportata negli elaborati grafici. Tuttavia, dalla visione della documentazione fotografica allegata alla relazione tecnica redatta dai verificatori è agevolmente riscontrabile come non si tratti di una fontana bensì di una piscina a tutti gli effetti, sicché risulta applicabile il principio in forza del quale tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede.
Pertanto, la realizzazione di una piscina è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura in cui realizza l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.P.R., in quanto comporta una durevole trasformazione del territorio (TAR Napoli, sez. VI, 07/01/2022, n. 105).
La realizzazione della stessa non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire (TAR Salerno, sez. II, 10/11/2020, n. 1631).
Conseguentemente, l’ordinanza è legittima quanto all’ingiunzione di demolizione della piscina realizzata in assenza del permesso di costruire (TAR Campania-Salerno, Sez. III, sentenza 30.08.2022 n. 2262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di una piscina in un complesso immobiliare preesistente non costituisce pertinenza urbanistica in senso proprio, ma una nuova costruzione, comportando inevitabilmente la modifica durevole del preesistente assetto dei luoghi e avendo essa funzione autonoma rispetto a quella propria dell’edificio cui accede.
A differenza di altri manufatti, la piscina non è necessariamente complementare all’uso delle abitazioni e non costituisce soltanto un’attrezzatura per lo svago, ma integra una struttura edilizia suscettibile di autonoma fruizione, che incide in maniera rilevante e con effetti permanenti sull’area in cui insiste, richiedendo, quindi, il previo rilascio dell’idoneo titolo ad aedificandum.
Poiché la piscina, in considerazione della sua consistenza modificativa dell’assetto del territorio, rappresenta una nuova costruzione e non può essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria o minori, di cui all’art. 37 del D.P.R. n. 380 del 2001, per la sua realizzazione è richiesto il permesso di costruire, così come per tutte le attività qualificabili come interventi di nuova costruzione comportanti la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
---------------

12. Con il primo mezzo, questi ultimi lamentano che l’intervento edilizio oggetto della SCIA n. 6/21 costituirebbe una “nuova costruzione”, in quanto tale soggetta al rilascio di permesso di costruire perché comportante una rilevante modifica dell’assetto territoriale preesistente, con alterazione del piano di campagna e realizzazione di strutture in cemento armato.
L’intervento, dunque, non potrebbe rientrare nell’ambito della manutenzione straordinaria di cui all’articolo 3, comma 1, lett. b), del DPR n. 380/2001, né essere conseguentemente assentibile tramite SCIA, come invece sostenuto dal controinteressato.
12.1. Preliminarmente, risulta dalla relazione tecnica allegata alla SCIA n. 6/2 che il progetto in questione abbia ad oggetto la realizzazione di un nuovo accesso pedonale e di una nuova piscina a uso privato, avente struttura monolitica autoportante in cemento armato, rivestita da pannelli appoggiati e assemblati su plinti livellati bloccati con bulloni e dadi in acciaio; in prossimità dell’accesso è prevista, altresì, la partenza di una scalinata che prosegue lungo i tratti di recinzione ovest e nord.
12.2. Così delineate le caratteristiche oggettive dell’intervento costruttivo di cui si discute, ritiene il Collegio che, in continuità con costante giurisprudenza amministrativa, la realizzazione di una piscina in un complesso immobiliare preesistente non costituisca pertinenza urbanistica in senso proprio, ma una nuova costruzione, comportando inevitabilmente la modifica durevole del preesistente assetto dei luoghi e avendo essa funzione autonoma rispetto a quella propria dell’edificio cui accede. A differenza di altri manufatti, la piscina non è necessariamente complementare all’uso delle abitazioni e non costituisce soltanto un’attrezzatura per lo svago, ma integra una struttura edilizia suscettibile di autonoma fruizione, che incide in maniera rilevante e con effetti permanenti sull’area in cui insiste, richiedendo, quindi, il previo rilascio dell’idoneo titolo ad aedificandum (cfr., ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 18.01.2022, n. 76 con ampi rimandi giurisprudenziali).
12.3. Poiché la piscina, in considerazione della sua consistenza modificativa dell’assetto del territorio, rappresenta una nuova costruzione e non può essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria o minori, di cui all’art. 37 del D.P.R. n. 380 del 2001, per la sua realizzazione è richiesto il permesso di costruire, così come per tutte le attività qualificabili come interventi di nuova costruzione comportanti la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 02.08.2022 n. 703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Necessita del titolo edilizio anche per la realizzazione di una piscina.
Invero, “tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede.
Pertanto, la realizzazione di una piscina è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura in cui realizza l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.P.R., in quanto comporta una durevole trasformazione del territorio”.
---------------
Anche per la costruzione di un box necessita del titolo edilizio che, nonostante le ridotte dimensioni, è pur sempre un volume nuovo, destinato a funzioni durevoli nel tempo (non precarie o temporanee) e come tali comportanti ampliamento di superficie e volume.
Invero, “la precarietà o meno di un manufatto ed il suo regime giuridico dal punto di vista urbanistico è correlata alla destinazione dell'opera, con la conseguenza che l'installazione di un box prefabbricato, attraverso semplice appoggio e senza ancoraggio al suolo, non sottrae, di per sé, l'intervento al regime concessorio”.
---------------

Nei limiti di quanto dedotto nel presente giudizio, il titolo edilizio sarebbe stato peraltro necessario anche per la realizzazione della piscina (TAR Napoli, sez. VI, 07/01/2022, n. 105, secondo la quale “tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede. Pertanto, la realizzazione di una piscina è configurabile come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura in cui realizza l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.P.R., in quanto comporta una durevole trasformazione del territorio”) come pure per il box, che, nonostante le ridotte dimensioni, è pur sempre un volume nuovo, destinato a funzioni durevoli nel tempo (non precarie o temporanee) e come tali comportanti ampliamento di superficie e volume (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 11/06/2020, n. 3730, secondo cui “la precarietà o meno di un manufatto ed il suo regime giuridico dal punto di vista urbanistico è correlata alla destinazione dell'opera, con la conseguenza che l'installazione di un box prefabbricato, attraverso semplice appoggio e senza ancoraggio al suolo, non sottrae, di per sé, l'intervento al regime concessorio”) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-stralcio, sentenza 22.07.2022 n. 10502 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa pertinenza urbanistica è configurabile quando vi sia un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione del bene accessorio ad un uso pertinenziale durevole, sempre che l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico, sicché il concetto di pertinenza urbanistica è ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa meno ampio di quello definito dall’art. 817 c.c., tale da non poter consentire la realizzazione di opere soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato come principale.
---------------
E' da escludere che una piscina, specie quando risulti di rilevanti dimensioni, possa essere considerata “pertinenza urbanistica”, avendo un’autonoma funzione rispetto all’edificio “principale” ed essendo sul punto la giurisprudenza pacifica nell’affermare che <<siffatto intervento deve qualificarsi di nuova costruzione non suscettibile di accertamento postumo di compatibilità paesaggistica, ai sensi dell’art. 167 d.lgs. 42/2004, essendo in grado di modificare irreversibilmente lo stato dei luoghi con diversa destinazione ed uso del suolo>>.
---------------

... per l’annullamento del provvedimento di rigetto dell’istanza di condono edilizio prot. n. 13867 del 27.04.2004, presentata dal sig. Cr.Gi. ai sensi dell’art. 32 del d.l. 269/2003, relativa all’immobile del sig. Cr.Ca., adottato dal Comune di Frascati l’08.11.2006;
...
1. Con l’atto introduttivo del presente giudizio, notificato in data 09.03.2007 e depositato il successivo 05.04.2007, i ricorrenti impugnano il provvedimento meglio indicato in epigrafe, chiedendone l’annullamento.
In particolare, i ricorrenti espongono quanto segue:
   - con istanza inoltrata in data 27.04.2004 dal sig. Cr.Gi., veniva chiesto il rilascio di concessione in sanatoria per una “piscina prefabbricata in metallo, di circa metri sette per quattordici”;
   - tale istanza era respinta con il provvedimento di cui sopra, poiché l’opera ricade “in area vincolata, per tutela paesistico ambientale” e “poiché la stessa opera, realizzata senza titolo abilitativo, risulta non conforme alle norme urbanistiche vigenti, contrastando con l’art. 3 delle NTA della variante stralcio al PRG per le zone agricole”.
...
Per esigenze di completezza, determinate dal rilievo che i ricorrenti –seppure non abbiano mai richiamato e/o invocato la sussistenza di un rapporto pertinenziale tra le opere di cui sopra e altre costruzioni- hanno affermato che si tratta di un intervento che non ha “determinato la creazione di superfici utili o volumi, ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati” (cfr. pag. 1 dell’atto introduttivo del giudizio) e hanno, ancora, evidenziato l’ampiezza del lotto (tre ettari) nonché l’insistenza su di esso di una “vasta casa padronale e numerose e ampie dipendenze”, preme aggiungere che:
   - la pertinenza urbanistica è configurabile quando vi sia un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione del bene accessorio ad un uso pertinenziale durevole, sempre che l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico (cfr. Cons. St. sez. VI, 29/01/2015, n. 406; Cons. St. sez. VI, 05/01/2015, n. 13), sicché il concetto di pertinenza urbanistica è ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa meno ampio di quello definito dall’art. 817 c.c., tale da non poter consentire la realizzazione di opere soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato come principale (cfr. Cons. St. sez. IV, 17/05/2010, n. 3127);
   - invero, è da escludere che una piscina, specie quando –come nell’ipotesi in trattazione– risulti di rilevanti dimensioni, possa essere considerata “pertinenza urbanistica”, avendo un’autonoma funzione rispetto all’edificio “principale” ed essendo sul punto la giurisprudenza pacifica nell’affermare che <<siffatto intervento deve qualificarsi di nuova costruzione non suscettibile di accertamento postumo di compatibilità paesaggistica, ai sensi dell’art. 167 d.lgs. 42/2004, essendo in grado di modificare irreversibilmente lo stato dei luoghi con diversa destinazione ed uso del suolo ….. (TAR Napoli, sez. VII, 16.03.2017, n. 1503; cfr. anche Cons. Stato, sez. VI, 12.01.2011, n. 110)>> (TAR Campania, n. 1293 del 2020) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-stralcio, sentenza 21.06.2022 n. 8325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va ribadito come in ogni località sottoposta a vincolo paesaggistico la realizzazione di una piscina vada qualificata come nuova costruzione che modifica irreversibilmente lo stato dei luoghi, sicché ‒ferma restando la valutazione discrezionale dell'autorità paesaggistica sulla sua fattibilità, qualora vi sia soltanto un vincolo relativo– la relativa abusiva edificazione comporta la sanzione ordinaria, cioè ripristinatoria.
Al riguardo, hanno una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere realizzate sull'area sottoposta a vincolo, anche se trattasi di volumi tecnici ed anche se si tratta di una piscina, poiché le esigenze di tutela dell'area sottoposta a vincolo paesaggistico –da sottoporre alla previa valutazione degli organi competenti- possono anche esigere l’immodificabilità dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore modifica).

---------------

   - infine, per ciò che concerne il quarto ed ultimo motivo, relativo alla piscina, se per un verso assume rilievo dirimente la predetta valutazione unitaria, per un altro verso va ribadito come in ogni località sottoposta a vincolo paesaggistico la realizzazione di una piscina vada qualificata come nuova costruzione che modifica irreversibilmente lo stato dei luoghi, sicché ‒ferma restando la valutazione discrezionale dell'autorità paesaggistica sulla sua fattibilità, qualora vi sia soltanto un vincolo relativo– la relativa abusiva edificazione comporta la sanzione ordinaria, cioè ripristinatoria (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 05/03/2013, n. 1316 e 07/01/2014, n. 18);
   - al riguardo, hanno una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere realizzate sull'area sottoposta a vincolo, anche se trattasi di volumi tecnici ed anche se si tratta di una piscina, poiché le esigenze di tutela dell'area sottoposta a vincolo paesaggistico –da sottoporre alla previa valutazione degli organi competenti- possono anche esigere l’immodificabilità dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore modifica) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.06.2022 n. 4570 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una piscina, ancorché interrata, concreta intervento edilizio ex novo e richiede pertanto il rilascio di un autonomo permesso di costruire, non potendo essere ricompresa nel regime urbanistico delle pertinenze in quanto essa “non è solo una attrezzatura per lo svago, ma innanzi tutto una struttura di tipo edilizio che incide invasivamente sul sito in cui viene realizzata”.
---------------

Per la piscina valgono le medesime considerazioni, potendosi soltanto aggiungere come per questo manufatto occorresse anche il titolo edilizio (cfr. di questa Sezione la sent. 26.07.2021, n. 8921: la realizzazione di una piscina, ancorché interrata, concreta intervento edilizio ex novo e richiede pertanto il rilascio di un autonomo permesso di costruire, non potendo essere ricompresa nel regime urbanistico delle pertinenze in quanto essa “non è solo una attrezzatura per lo svago, ma innanzi tutto una struttura di tipo edilizio che incide invasivamente sul sito in cui viene realizzata”) (TAR Lazio-Roma. Sez. II-quater, sentenza 12.05.2022 n. 5928 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl deposito edile e i ripostigli (realizzati mediante l’installazione di prefabbricati in lamiera e coibentato, aventi superficie totale di circa mq 90,00 ed altezza media m. 2,20, con in adiacenza il posizionamento di materiale di risulta edile), presentano le caratteristiche per essere qualificabili come interventi di “nuova costruzione” necessitanti del del permesso di costruire ai sensi dell’art. 31 e dell’art. 3 del DPR 380/2001.
...
Altresì, la struttura in muratura ad uso ripostiglio (di dimensioni m. 4,50 x 4,40, avente copertura ad una falda, con altezza al colmo di m. 3,10 ed all’imposta di m. 2,40) sostanzia una “nuova costruzione” che non può certo ricondursi tra le attività di edilizia libera, attese le dimensioni e la non precarietà della struttura.
...
Del pari, la piscina con in adiacenza struttura in legno ad uso locale macchina piscina
(avente dimensioni di m. 3,30 x 2,80 con copertura a due falde di altezza al colmo m. 2,70 ed alle imposte m. 2,00) non sostanzia attività edilizia libera, né per le concrete caratteristiche e la finalità delle opere contestate, descritte anche nell’ordinanza impugnata e sopra riportate, può riavvisarsi la natura pertinenziale di tali manufatti.
Invero, la giurisprudenza ha costantemente affermato che per potersi affermare la natura pertinenziale di un manufatto rispetto ad un altro è necessario accertare che vi sia da parte del bene pertinenziale un’obiettiva funzione di migliore utilizzazione della res principalis, tale che in sua assenza risulterebbero impedite o sacrificate talune delle materiali possibilità di sfruttamento o godimento di quest’ultima, e ciò in quanto, ai sensi dell’art. 7, lett. a), L. 25.03.1992 n. 94, deve considerarsi pertinenza urbanistica l’opera che, per l’oggettiva natura e conformazione, non consente altra destinazione che quella adibita in modo durevole al servizio di altro immobile preesistente per renderne possibile un migliore utilizzo ovvero aumentarne il decoro, mentre non costituisce pertinenza l’opera nuova priva del carattere della strumentalità funzionale rispetto alla costruzione esistente, elementi sicuramente carenti nel caso di specie in relazione a tutti i manufatti sopra descritti.
E con più specifico riguardo alla piscina, la giurisprudenza anche più recente ha rilevato che, oltre a costituire una permanente modificazione del suolo, tale manufatto ha un rilievo autonomo tale da escludere la relazione di accessorietà rispetto al fabbricato inteso come principale.
---------------

I ricorrenti hanno agito in giudizio per l’annullamento dell’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi Prot. n. 18398 del 04.06.2015, emessa dal Comune di Cesenatico, Settore Sviluppo del Territorio Edilizia Privata, avente ad oggetto alcune opere abusive, notificata a La.Vi. e Pu.An.Ma. in qualità di presunti autori materiali, ed alla sig.ra La.Ar. in qualità di proprietaria del terreno agricolo su cui insistono i manufatti contestati.
I ricorrenti hanno chiesto altresì la condanna del Comune al risarcimento dei danni derivanti dall'eventuale esecuzione del provvedimento impugnato.
In fatto hanno allegato che La.Ar. è proprietaria del terreno agricolo sito in Cesenatico (FC), Via Mesola, identificato al Catasto Terreni del Comune di Cesenatico, Fg. 10, part. 426, in relazione al quale il Comune ha emesso l’ordinanza di demolizione impugnata in questa sede, con riguardo alle seguenti opere, asseritamente abusive perché prive del necessario permesso di costruire:
   “a) Realizzazione di deposito edile e ripostigli, mediante l'installazione di prefabbricati in lamiera e coibentato, aventi superficie totale di circa mq. 90,00 ed altezza media m. 2,20, con in adiacenza posizionamento di materiale di risulta edile;
   b) Posizionamento di roulotte, avente dimensioni di m. 8,00 x 3,00 e altezza di circa m. 2,00; realizzazione sulla parte dell'ingresso della stessa di piccolo pergolato/gazebo (edilizia libera) in PVC. Si precisa che la roulotte è appoggiata al suolo, risulta fornita di ruote; al momento dei sopralluoghi non era utilizzata, nonostante fosse stata installata in adiacenza una fossa imhoff la roulotte non risulta allacciata alle utenze gas, acqua, scarichi bagno.
   c) Realizzazione di piscina con in adiacenza struttura in legno ad uso locale macchine piscina, avente dimensioni di m. 3,30 x 2,80 con copertura a due falde di altezza al colmo m. 2,70 ed alle imposte m. 2,00.
   d) Realizzazione di struttura in muratura ad uso ripostiglio, di dimensioni m. 4,50 x 4,40, avente copertura ad una falda, con altezza al colmo di m. 3,10 ed all'imposta di m. 2,40;
   e) Realizzazione di struttura precaria in materiale di risulta, priva di fondazione, non stabilmente infissa al suolo, ad uso ricovero/pollaio animali (galline e tre pecore) di dimensioni di m. 8,00 x 3,90, avente copertura ad una falda con altezza al colmo di m. 2,50 ed all'imposta di m. 2,40;
- considerato che in riferimento alla lettera B) la roulotte non risulta idonea alla circolazione in quanto priva di carta di circolazione e targa;
- considerato inoltre che in riferimento alla lettera E) l'Agenzia del Territorio non ritiene di accatastare simili strutture, in quanto precarie ed oggetto di continui spostamenti, dovuti anche alle necessità degli animali
”.
In particolare, il Comune ha ordinato il ripristino dello stato dei luoghi mediante: la demolizione del deposito edile di materiale di risulta e dei prefabbricati in lamiera e coibentato; la rimozione della roulotte; la demolizione della piscina e della struttura in legno ad uso locale macchine piscina; la demolizione della struttura in muratura ad uso ripostiglio.
...
Solo parzialmente fondata è, invece, la seconda doglianza articolata in atti.
In particolare, secondo i ricorrenti alcune opere contestate dal Comune non andrebbero ricondotte nell’ambito dell’attività edilizia (posizionamento della roulotte, punto B dell’ordinanza), mentre le altre sarebbero riconducibili all’attività edilizia libera, trattandosi di manufatti di modeste dimensioni, di natura precaria e pertinenziale, senza alcuna opera edilizia.
Quanto alla
roulotte (punto B dell’ordinanza), il Collegio rileva che nell’ordinanza si legge: “la roulotte è appoggiata al suolo, risulta fornita di ruote; al momento dei sopralluoghi non era utilizzata, nonostante fosse stata installata in adiacenza una fossa imhoff la roulotte non risulta allacciata alle utenze gas, acqua, scarichi bagno” e rispetto a tale manufatto nulla ha argomentato il Comune nella relazione prodotta in corso di causa, sicché sul punto il ricorso va accolto, emergendo dagli atti che il manufatto in discussione è costituito da una struttura leggera atta a soddisfare bisogni meramente temporanei e non durature esigenze abitative (TAR Lazio, Roma Sez. II-bis, 26.03.2014 n. 3328; TAR Lazio, Roma Sez. I-quater, 09.01.2014 n. 217).
Con riferimento poi al punto E dell’ordinanza impugnata si osserva che, come ammesso dagli stessi ricorrenti, il Comune non ha disposto la demolizione del manufatto ivi descritto, verosimilmente proprio in quanto ha ritenuto tale bene costituito da una “struttura precaria in materiale di risulta, priva di fondazione, non stabilmente infissa al suolo, ad uso
ricovero/pollaio animali (galline e tre pecore)”, sicché sul punto non va adottata alcuna pronuncia, esulando tale opera da quelle oggetto dell’ordine di ripristino.
Infondata, invece, risulta la doglianza in esame con riferimento ai manufatti di cui ai punti A (
deposito edile e ripostigli), C (piscina e locale macchine) e D (struttura in muratura ad uno ripostiglio), non potendosi tali opere, ad avviso del Collegio, inquadrare nell’ambito dell’attività edilizia libera, come sostengono i ricorrenti in ricorso, né può affermarsene la natura pertinenziale rispetto al fabbricato principale.
Invero, il
deposito edile e i ripostigli (realizzati mediante l’installazione di prefabbricati in lamiera e coibentato, aventi superficie totale di circa mq 90,00 ed altezza media m. 2,20, con in adiacenza il posizionamento di materiale di risulta edile), presentano le caratteristiche per essere qualificabili come interventi di “nuova costruzione” eseguiti in assenza del permesso di costruire ai sensi dell’art. 31 e dell’art. 3 del DPR 380/2001, nonché ai sensi dell’art. 13 L.R. 23/2004, collocati sui luoghi in contrasto con le norme urbanistiche dell’area sita in zona agricola, in violazione con i parametri edilizio-urbanistici previsti dalle NTA del PRG richiamate dal Comune.
Peraltro, la stessa destinazione dei locali a deposito edile è, all’evidenza, incompatibile col territorio agricolo, né può condividersi la tesi difensiva dei ricorrenti secondo cui si tratterebbe di prefabbricato in lamiera e coibentato, senza alcuna opera edilizia, ritenendo il Collegio, viste le concrete dimensioni e caratteristiche del manufatto, che l’opera risulti invece rilevante dal punto di vista urbanistico-edilizio e non riconducibile nell'attività edilizia libera.
Né trova fondamento la tesi difensiva di parte ricorrente con riguardo all’opera sub D (
struttura in muratura ad uso ripostiglio, di dimensioni m. 4,50 x 4,40, avente copertura ad una falda, con altezza al colmo di m. 3,10 ed all’imposta di m. 2,40), trattandosi anche in questo caso di “nuova costruzione” incompatibile con tipologie ammissibili in zona agricola e che non può certo ricondursi tra le attività di edilizia libera, attese le dimensioni e la non precarietà della struttura.
Del pari, quanto al punto C dell’ordinanza (
piscina con in adiacenza struttura in legno ad uso locale macchina piscina, avente dimensioni di m. 3,30 x 2,80 con copertura a due falde di altezza al colmo m. 2,70 ed alle imposte m. 2,00), sicuramente priva di pregio è la doglianza contenuta in ricorso secondo cui si tratterebbe anche in questo caso di attività edilizia libera, né per le concrete caratteristiche e la finalità delle opere contestate, descritte anche nell’ordinanza impugnata e sopra riportate, può riavvisarsi la natura pertinenziale di tali manufatti.
Invero, la giurisprudenza ha costantemente affermato che per potersi affermare la natura pertinenziale di un manufatto rispetto ad un altro è necessario accertare che vi sia da parte del bene pertinenziale un’obiettiva funzione di migliore utilizzazione della res principalis, tale che in sua assenza risulterebbero impedite o sacrificate talune delle materiali possibilità di sfruttamento o godimento di quest’ultima, e ciò in quanto, ai sensi dell’art. 7, lett. a), L. 25.03.1992 n. 94, deve considerarsi pertinenza urbanistica l’opera che, per l’oggettiva natura e conformazione, non consente altra destinazione che quella adibita in modo durevole al servizio di altro immobile preesistente per renderne possibile un migliore utilizzo ovvero aumentarne il decoro, mentre non costituisce pertinenza l’opera nuova priva del carattere della strumentalità funzionale rispetto alla costruzione esistente, elementi sicuramente carenti nel caso di specie in relazione a tutti i manufatti sopra descritti.
E con più specifico riguardo alla piscina, la giurisprudenza anche più recente ha rilevato che, oltre a costituire una permanente modificazione del suolo, tale manufatto ha un rilievo autonomo tale da escludere la relazione di accessorietà rispetto al fabbricato inteso come principale (TAR Napoli, sez. VII, 17/09/2020, n. 3874; TAR Campania, Napoli, sez. III, 07.01.2020, n. 42; TAR Campania, Salerno, sez. II, 18.04.2019, n. 642; Cassazione penale sez. III, 20/12/2018, n. 1913; Tar Lazio sentenza n. 11586 del 2019).
Pertanto, una volta accertato che tutte le opere contestate sono state realizzate in zona agricola in contrasto con lo strumento urbanistico comunale (Norme Tecniche di Attuazione del Piano Regolatore Generale), il Comune ha legittimamente ordinato il ripristino con l’ordinanza impugnata, adeguatamente argomentando le ragioni di tale decisione e specificando i manufatti da rimuovere, con conseguente infondatezza anche del motivo di difetto di istruttoria e motivazione, nonché della domanda risarcitoria contenuta in atti, non essendo comunque ravvisabile alcun danno concretamente derivante dall’atto impugnato, neppure in relazione al manufatto sub B.
Conclusivamente, quindi, il ricorso va accolto limitatamente al bene di cui al punto B (roulotte), risultando invece infondato per il resto (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 30.09.2021 n. 800 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una piscina è nuova costruzione e necessita del permesso di costruire.
Non v’è dubbio che sia bisognevole del permesso di costruire la realizzazione di una piscina in quanto, come chiarito dal costante orientamento del giudice amministrativo, essa dà luogo ad una struttura edilizia che trasforma permanentemente il sito di relativa ubicazione mediante il previo sbancamento, e, poi, la costruzione della vasca.
E la stessa non è qualificabile come pertinenza.
Invero, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, la nozione di "pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e, dunque, non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale. Il carattere pertinenziale in senso urbanistico va, quindi, riconosciuto alle opere che, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non siano valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono.
In tal senso, si è chiarito che finanche gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture analoghe, quali i gazebo, che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite.
Ebbene, nel caso di specie, rispetto alla piscina, va rilevato che essa, oltre a costituire una permanente modificazione del suolo, ha un rilievo autonomo tale da escludere la relazione di accessorietà rispetto al manufatto inteso come principale.
---------------

1.1. Con il ricorso principale, la ricorrente GU.Li., contesta l’ordinanza n. 92 dell’08.05.2018 con cui il Comune di Napoli ha ingiunto, ai sensi dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, la demolizione delle opere realizzate abusivamente in via ... n. 2 consistenti in:
   - "un manufatto in muratura e vetri occupante una superficie di mq 65,00;
   - una piscina interrata di mq 12,50;
   - un piano seminterrato di mq 170 circa costituito in parte da locale deposito e parte da locale composto da cucina, ambiente letto e w.c.
”.
...
2.1. Nel merito, occorre, innanzitutto, qualificare le opere sopra indicate che costituiscono nuove costruzioni ai sensi dell’art. 3, lett. e), del D.P.R. 380/2001.
In particolare, non v’è dubbio che siano bisognevoli del permesso di costruire il “manufatto in muratura e vetri occupante una superficie di mq 65,00” e la costruzione del piano seminterrato (170 mq). Tali opere, infatti, implicano la creazione di nuova volumetria con ampliamento del manufatto esistente al di là della sagoma (lett. e.1 art. 3 lett. e del D.P.R. 380/2001, cit.).
Parimenti è a dirsi per la piscina in quanto, come chiarito dal costante orientamento del giudice amministrativo, essa dà luogo ad una struttura edilizia che trasforma permanentemente il sito di relativa ubicazione mediante il previo sbancamento, e, poi, la costruzione della vasca.
2.2. Diversamente da quanto sostenuto dalla parte ricorrente, nessuna di tali opere è qualificabile come pertinenza.
In proposito, giova rammentare che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, la nozione di "pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale. Il carattere pertinenziale in senso urbanistico va, quindi, riconosciuto alle opere che, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non siano valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono (Consiglio Stato, sez. IV, 17.05.2010, n. 3127).
In tal senso, si è chiarito, con condivisibile orientamento, che finanche gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture analoghe, quali i gazebo, che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite.
Ebbene, nel caso di specie, le opere sono ben più consistenti rispetto alle mere tettoie in quanto sono valutabili in termini di cubatura e non possono, quindi, essere ritenute, in senso urbanistico, ‘assorbite’ nel manufatto principale o qualificate come meramente accessorie (TAR Campania Napoli, sez. II, 29.01.2009, n. 492; TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999; v. pure i precedenti di TAR Campania, IV sez., n. 831/2015 e 2717/2017).
Con maggiore impegno esplicativo, rispetto alla piscina, va rilevato che essa, oltre a costituire una permanente modificazione del suolo, ha un rilievo autonomo tale da escludere la relazione di accessorietà rispetto al manufatto inteso come principale (TAR Napoli, sez. VII, 17/09/2020, n. 3874; TAR Campania, Napoli, sez. III, 07.01.2020, n. 42; TAR Campania, Salerno, sez. II, 18.04.2019, n. 642; Cassazione penale sez. III, 20/12/2018, n. 1913).
3. Tutte le opere sono, quindi, nuove costruzioni e, in quanto tali, necessitano del permesso di costruire. Tanto dimostra la infondatezza delle censure che si appuntano su una diversa qualificazione dell’opera o sulla legittimità del manufatto (censure VI e IX) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 26.01.2021 n. 527 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una piscina non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire.
---------------

8.3 - Quanto infine alla piscina, in disparte la questione della anteriorità della sua realizzazione rispetto alla data di presentazione della s.c.i.a. (secondo quanto riportato nella nota comunale n. 1493/2014, all. 10 produzione Comune), va precisato che il fatto che trattasi di piscina interrata che non incide sui parametri urbanistici non implica, come ritenuto dalla ricorrente, che la stessa sia legittimabile tramite s.c.i.a.
Giova richiamare sul punto l’orientamento dominante della giurisprudenza amministrativa secondo cui “la realizzazione di una piscina non può essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, in quanto non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni e non è solo una attrezzatura per lo svago, ma integra gli estremi della nuova costruzione, in quanto dà luogo ad una struttura edilizia che incide invasivamente sul sito di relativa ubicazione, e postula, pertanto, il previo rilascio dell'idoneo titolo ad aedificandum, costituito dal permesso di costruire (TAR Campania, Napoli, sez. III, 07.01.2020, n. 42; TAR Campania, Salerno, sez. II, 18.04.2019, n. 642)” – da ultimo, ex multis, Tar Campania, Napoli, sez. VII. Sent. 17/09/2020 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.12.2020 n. 6324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio non sottace che sin dall’epoca della vigenza dell’agevolato regime dell’autorizzazione edilizia, la giurisprudenza aveva riconosciuto che la nozione di pertinenza urbanistica di cui all'art. 7, comma 2, lett. a), d.l. 23.01.1982 n. 9, convertito nella l. 25.03.1982 n. 94, era ed è individuabile non soltanto alla stregua del criterio della sussistenza ed oggettività del rapporto pertinenziale, ma anche sulla base della consistenza dell’opera posta al servizio dell'edificio preesistente, la quale deve essere tale da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio e da non esorbitare rispetto alle esigenze di un concreto uso normale del soggetto che risiede nell'edificio stesso.
In dipendenza di ciò, quindi, era stato nella specie affermato che la posa in opera di una piscina prefabbricata di normali dimensioni costituisce pertinenza di un’abitazione agricola.
In coerenza con tale indirizzo, anche con riguardo all’attuale assetto normativo, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato séguita a tutt’oggi ad affermare, in linea di principio, la natura pertinenziale di tale tipologia di opere (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1951, secondo cui –per l’appunto- l’installazione di una piscina prefabbricata di modeste dimensioni rientra nell'ambito delle pertinenze e non integra violazione né degli indici di copertura né degli standard, atteso che non aumenta il carico urbanistico della zona e che i vani per impianti tecnologici sono sempre e comunque consentiti).
Ovviamente il riconoscimento –o meno- della natura pertinenziale dell’opera rileva agli effetti dell’individuazione del titolo edilizio che è necessario per realizzarla (permesso di costruire per le nuove costruzioni; denuncia d’inizio di attività -all’epoca dei fatti di causa– per le pertinenze
: cfr. artt. 10 e 22 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380, nei rispettivi testi pro tempore vigenti), tenendo comunque presente che, anche a’ sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.6), del medesimo d.P.R. 380 del 2001, già nel testo in vigore all’epoca dei fatti di causa, era ed è comunque consentito alle amministrazioni comunali, mediante le norme tecniche dei propri strumenti urbanistici, di configurare come interventi di “nuova costruzione” anche quelli altrimenti riconducibili alla realizzazione di pertinenze urbanistico-edilizie “in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico” delle aree in cui essi ricadono.
Va da sé, inoltre, che -in linea di principio- se l’opera pretesamente pertinenziale assume una sua autonoma destinazione ed un altrettanto autonomo valore, il carattere pertinenziale dell’opera medesima viene meno: e ciò non può non rilevare agli effetti del titolo edilizio necessario per la sua realizzazione e, conseguentemente, la medesima circostanza non può non assumere valenza pure per le
piscine, ancorché prefabbricate.
---------------

1.1. L’attuale appellante, Sig. Ro. Di Mo., espone di essere imprenditore agricolo e coltivatore diretto.
Egli è proprietario di un terreno ubicato nel territorio comunale di Napoli (NA), situato in prossimità del Casale ..., segnatamente al ... nn. 18 19 destinato a zona F – agricola dalla vigente strumentazione urbanistica e rientrante nel perimetro del Parco metropolitano delle Colline di Napoli, costituito con decreto del Presidente della Regione Campania n. 492 dd. 14.07.2004 previa deliberazione della Giunta Regionale della Campania n. 855 dd. 10.06.2004.
Tale terreno, acquisito dall’appellante nel corso del 1999 a seguito di un’aggiudicazione fallimentare, è coltivato a vitigno e su di esso insistono un fabbricato rurale su due livelli, una casa colonica e un ulteriore fabbricato.
L’appellante riferisce di aver investito consistenti risorse economiche al fine della valorizzazione e dello sviluppo della proprietà, intraprendendo ivi un’attività turistico-ricreativa.
A tale riguardo il Di Mo. espone quindi di aver provveduto, mediante denuncia d’inizio di attività Prot. n. 124 dd. 10.03.2005 presentata al Comune di Napoli e ad una susseguente variante presentata il 03.06.2005, alla realizzazione di opere da lui definite “di manutenzione straordinaria”, ovvero “pertinenziali funzionali al migliore sfruttamento del terreno agricolo” (così a pag. 2 dell’atto d’appello).
Tali opere consisterebbero, a detta dell’appellante, in “un
gazebo in legno di modestissime dimensioni, funzionalmente necessario allo svolgimento delle attività turistico-ricreative connesse all’attività agricola, ed ospitante un punto vendita dei prodotti ortofrutticoli”, nella “realizzazione di tre muri per il contenimento del terreno”, nonché, in corso d’opera, essendosi resi necessari “ulteriori interventi di sistemazione del terreno … sul penultimo terrazzamento prospiciente l’abitazione principale veniva posizionata una vasca – impropriamente definita piscina – per la raccolta delle acque meteoriche” (cfr. ibidem).
Con provvedimento n. 3671 dd. 21.06.2005 la Direzione Centrale IV Lavori Pubblici del Comune di Napoli, S.T.C. Vomero-Arenella ha chiesto la produzione di ulteriore documentazione e ha interinalmente disposto la sospensione dei lavori, a’ sensi dell’art. 2, comma 60, della l. 23.12.1996 n. 662 e successive modifiche, nonché a’ sensi degli artt. 22 e 23 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e successive modifiche, evidenziando comunque che “la tipologia di intervento non è consentita”.
In data 03.08.2008 la Polizia Municipale ha provveduto al sequestro preventivo dell’area.
Con susseguente provvedimento posizione dirigenziale n. 1047 dd. 31.08.2005 il Dirigente preposto alla Direzione Centrale VI del Comune di Napoli – Riqualificazione urbana edilizia periferie – Servizio antiabusivismo edilizio, in base a verbale redatto dalla polizia municipale in data 04.08.2005, ha rilevato che “senza il prescritto permesso di costruire”, in area inserita nella zona C dello strumento di pianificazione del Parco Regionale delle Colline di Napoli ed “assoggettata al vincolo paesaggistico di cui all’art. 142, lett. f), del d.lgs. 22.01.2004, n. 42” erano state realizzate le seguenti opere:
   - “livellamento del suolo mediante sbancamento di terrapieno per ml. 150,00 x 1,50 h;
   - collegamento tra aree terrazzate mediante sbancamento di m. 20,00 x una larghezza di m. 3,00;
   - manufatto in legno di mq. 25,00, alto m. 3,00 su platea in calcestruzzo, muri e panche in muratura;
   - piscina prefabbricata fuori terra di mq. 80,00 in telo plasticato sorretto da tubolari in ferro, completa di docce, lavapiedi e motori;
   - ampliamento di un preesistente terrazzamento di circa ml. 100,00 x ml. 7,00 di larghezza
”.
Contestualmente il medesimo Dirigente ha disposto la demolizione dei sopradescritti manufatti, a’ sensi 27, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
...
4.2. 1. Con il primo motivo d’appello il Di Mo., al di là della corposa sua rubrica, si limita di fatto a contestare l’asserita violazione dell’art. 39, commi 4 e 6, delle norme tecniche di attuazione della variante al Piano regolatore generale del Comune di Napoli, nonché dell’art. 35, comma 6, del Regolamento edilizio del Comune di Napoli, pur con riflessi anche sulla presupposta disciplina di fonte legislativa statuale citata nella rubrica anzidetta.
Secondo l’appellante, le opere qui in contestazione –ossia la realizzazione di
tre muri di contenimento, di un gazebo e di una piscina prefabbricata fuori terra- risulterebbero tutte legittimamente realizzate mediante la denuncia d’inizio di attività da lui presentata,
In tal senso l’appellante rimarca che il comma 4 dell’art. 39 esplicitamente prevede la realizzazione di “interventi di consolidamento di pendici mediante la realizzazione di strutture di contenimento”, nel mentre il susseguente comma 6 ammette per gli insediamenti rurali “interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento conservativo”, nonché “la ristrutturazione edilizia …ai soli fini della realizzazione di attività di cui al comma 1, lettera b), dell’articolo 21” delle medesime norme tecniche, ossia per le seguenti esigenze “abitazioni agricole; attività agricole e di produzione e commercio dei prodotti agricoli all’origine e relative funzioni di servizio; attività ricettive di tipo agrituristico e relative funzioni di servizio”.
A sua volta l’art. 35, comma 6, del Regolamento edilizio del Comune di Napoli, secondo l’appellante, letteralmente consentirebbe la realizzazione, in regime di denuncia d’inizio di attività, di “giardini, opere di arredo, vasche, pergolati grillages e gazebo”, nonché la “realizzazione e consolidamento di muri o di sistemi di contenimento dei terreni
Il Collegio, per il vero, nell’esaminare il testo di tale Regolamento edilizio così come vigente all’epoca dei fatti di causa, non riscontra la sussistenza dei surriportati riferimenti testuali alla realizzazione di vasche, gazebo e opere murarie destinate al contenimento dei terreni; né riscontra nel testo medesimo corrispondente all’art. 35 la stessa esistenza di un suo comma 6.
Comunque sia, risulta indubbio dagli stessi atti di causa che il Di Mo. non aveva realizzato una “vasca”, ma una “piscina”, e cioè un’opera che la stessa fonte regolamentare comunale, ove anche considerata nel testo da lui citato, certamente di per sé non assoggettava al regime della denuncia d’inizio di attività (e comunque, all’evidenza non finalizzata ad alcun utilizzo agricolo).
Altra cosa è, dunque, quanto poi fatto dal medesimo appellante, che dapprima ha  per l’appunto– realizzato senza un titolo edilizio idoneo una piscina –come eloquentemente comprovato dal verbale di accertamento dell’abuso- per poi chiedere al riguardo, soltanto dopo aver ricevuto l’ingiunzione a demolire, l’accertamento di conformità, a’ sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380; ma tutto ciò -per l’appunto- con riguardo ad un’opera strutturalmente e funzionalmente del tutto diversa, e cioè una vasca di raccolta per le acque meteoriche, per la cui effettiva realizzazione dovevano essere per certo apportate delle modificazioni rispetto a quanto precedentemente costruito: operazione, questa, per certo incompatibile con l’istituto dell’accertamento di conformità, che implica soltanto il mero riconoscimento della rispondenza di quanto realizzato alla disciplina urbanistica vigente sia all’epoca della perpetrazione dell’abuso, sia all’epoca della sanatoria richiesta, senza necessità di apportare modifiche al manufatto in questione.
4.2.2. Posto ciò, il Collegio non sottace che sin dall’epoca della vigenza dell’agevolato regime dell’autorizzazione edilizia, la giurisprudenza aveva riconosciuto che la nozione di pertinenza urbanistica di cui all'art. 7, comma 2, lett. a), d.l. 23.01.1982 n. 9, convertito nella l. 25.03.1982 n. 94, era ed è individuabile non soltanto alla stregua del criterio della sussistenza ed oggettività del rapporto pertinenziale, ma anche sulla base della consistenza dell’opera posta al servizio dell'edificio preesistente, la quale deve essere tale da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio e da non esorbitare rispetto alle esigenze di un concreto uso normale del soggetto che risiede nell'edificio stesso (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 13.10.1993, n. 1041).
In dipendenza di ciò, quindi, era stato nella specie affermato che la posa in opera di una
piscina prefabbricata di normali dimensioni costituisce pertinenza di un’abitazione agricola (cfr. sul punto Cons. Stato Sez. V, 13.10.1993, n. 1041).
In coerenza con tale indirizzo, anche con riguardo all’attuale assetto normativo, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato séguita a tutt’oggi ad affermare, in linea di principio, la natura pertinenziale di tale tipologia di opere (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2014, n. 1951, secondo cui –per l’appunto- l’installazione di una
piscina prefabbricata di modeste dimensioni rientra nell'ambito delle pertinenze e non integra violazione né degli indici di copertura né degli standard, atteso che non aumenta il carico urbanistico della zona e che i vani per impianti tecnologici sono sempre e comunque consentiti).
Ovviamente il riconoscimento –o meno- della natura pertinenziale dell’opera rileva agli effetti dell’individuazione del titolo edilizio che è necessario per realizzarla (permesso di costruire per le
nuove costruzioni; denuncia d’inizio di attività -all’epoca dei fatti di causa– per le pertinenze: cfr. artt. 10 e 22 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380, nei rispettivi testi pro tempore vigenti), tenendo comunque presente che, anche a’ sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.6), del medesimo d.P.R. 380 del 2001, già nel testo in vigore all’epoca dei fatti di causa, era ed è comunque consentito alle amministrazioni comunali, mediante le norme tecniche dei propri strumenti urbanistici, di configurare come interventi di “nuova costruzione” anche quelli altrimenti riconducibili alla realizzazione di pertinenze urbanistico-edilizie “in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico” delle aree in cui essi ricadono.
Va da sé, inoltre, che -in linea di principio- se l’opera pretesamente pertinenziale assume una sua autonoma destinazione ed un altrettanto autonomo valore, il carattere pertinenziale dell’opera medesima viene meno: e ciò non può non rilevare agli effetti del titolo edilizio necessario per la sua realizzazione (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 28.09.2018, n. 5090) e, conseguentemente, la medesima circostanza non può non assumere valenza pure per le
piscine, ancorché prefabbricate.
Posto ciò, per il caso di specie assume rilievo dirimente –e, quindi, assorbente nei confronti di tutte le contestazioni formulate dalla parte appellante- la circostanza che la piscina in questione non poteva comunque essere realizzata, a ciò ostandovi il combinato disposto degli artt. 46, comma 6, e 41, comma 2, delle norme tecniche di attuazione del Piano regolatore generale del Comune di Napoli, che nella sottozona Fa -nella quale, per l’appunto, ricade la piscina– ammette la realizzazione di “interventi di nuova edificazione” –e, quindi, assoggettati al rilascio del permesso di costruire, e non già a mera denuncia d’inizio di attività- “a fini agricoli di cui all’articolo 40” della medesima variante (e non è dunque questo per certo il caso della piscina in questione; semmai della vasca), ovvero anche “attrezzature sportive scoperte, ammissibili solo in sede di pianificazione urbanistica esecutiva”, e comunque “ai fini del conseguimento della fruizione pubblica dei fondi”.
In concreto –quindi– se il Di Mo. avesse voluto costruire –come sostiene– una vasca di raccolta per l’acqua piovana, avrebbe potuto realizzare tale manufatto, di per sé coerente con l’utilizzo a fini agricoli dell’area, ma soltanto previo rilascio del permesso di costruire, in quanto provvedimento il cui rilascio è inderogabilmente imposto in via generale dalla strumentazione urbanistica ivi vigente.
Se –viceversa– avesse voluto realizzare una piscina, ciò sarebbe stato parimenti possibile, ma soltanto previa predisposizione a propria cura di una strumentazione urbanistica attuativa e –comunque, ed ancora una volta– mediante il susseguente rilascio del permesso di costruire, in quanto la “fruizione pubblica” imposta per tale manufatto dalla strumentazione urbanistica ivi vigente risulta ex se incompatibile con l’asserita pertinenzialità dello stesso.
Tertium non datur.
Per inciso, la presenza nel fascicolo di causa relativo al primo grado di giudizio di una relazione illustrativa depositata in data 19.11.2008 a cura del patrocinio della stessa parte ivi ricorrente fa ragionevolmente presumere che il Di Mo. abbia da ultimo optato proprio per tale possibilità, progettando –tra l’altro– la realizzazione non più di una piscina prefabbricata da contingentemente ”trasformare” –al bisogno, per così dire, “burocratico”– in una vasca per la raccolta delle acque meteoriche, ma di “una piscina ludico-relax costituita da due vasche poste a quote differenti in modo da creare un salto d’acqua” (cfr. ivi a pag. 8: e ciò senza sottacere che la complessiva lettura del piano medesimo offre la netta impressione che l’attuale appellante si sia con esso discostato dall’originaria connotazione agricola dell’azienda privilegiando un’attività marcatamente ricettiva se non addirittura ludico-ricreativa, tanto da suscitare anche un dubbio non evanescente circa l’effettiva permanenza, nella specie, di un suo effettivo interesse alla coltivazione della presente causa).
Ad ogni buon conto, quindi, anche per il caso di specie va ribadito che dalla realizzazione di opere edilizia in assenza del permesso di costruire, discende –sempre e comunque– la sanzione della demolizione delle opere medesime, a’ sensi dell’art. 31 del t.u. 06.06.2001, n. 380.,
Ma –soprattutto– va considerato che la realizzazione della piscina ora in questione era ed è materialmente inibita sia dall’art. 21, comma 3, del Regolamento edilizio del Comune di Napoli, che, con disposizione oltremodo commendevole, fa divieto di completare le opere abusive realizzate nello stesso suolo, sia dall’art. 24 della variante anzidetta, che al comma 2 dispone a sua volta nel senso che “nelle zone riportate nella tavola 12 con instabilità media e alta” –tra le quali rientra anche il sedime su cui è stata eretta la piscina in questione- “è vietata la realizzazione di qualsiasi tipo di costruzione”: disposizioni, anche queste, che naturalmente implicano la necessità della demolizione del manufatto in questione (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 03.09.2019 n. 6068 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è assentibile una piscina nella fascia di rispetto cimiteriale.
Per giurisprudenza ampiamente consolidata, il vincolo imposto dall'art. 338 R.D. n. 1265/1934 e dall'art. 57 d.P.R. n. 285/1990 determina una situazione di inedificabilità ex lege che non necessita di essere recepito dagli strumenti urbanistici, ed, anzi, si impone ad essi operando come limite legale nei confronti delle previsioni urbanistiche locali eventualmente incompatibili.
Il vincolo ha carattere assoluto e non consente l’allocazione di edifici o costruzioni all’interno della fascia di rispetto, a tutela dei molteplici interessi pubblici cui quest’ultima presiede e che vanno dalle esigenze di natura igienico sanitaria, alla salvaguardia della peculiare sacralità dei luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, al mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
A escludere l’inedificabilità non rilevano la tipologia del fabbricato o la natura pertinenziale della costruzione, e gli unici interventi assentibili all’interno della fascia di rispetto sono quelli indicati dal settimo comma dell’art. 338 cit. sugli edifici esistenti, con il limite della funzionalità all’utilizzo degli edifici stessi, mentre è attivabile nel solo interesse pubblico la procedura di riduzione della fascia inedificabile a non meno di cinquanta metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale.
L’assolutezza del vincolo di inedificabilità all’interno della fascia di rispetto cimiteriale è recepita dalle norme tecniche di attuazione del P.R.G. del Comune, che, dopo aver stabilito il divieto di realizzare “nuovi edifici”, nell’autorizzare gli “interventi previsti dalle presenti norme per le singole destinazioni” vieta, comunque, gli interventi di “nuova edificazione, di ampliamento e di ristrutturazione urbanistica”: il contestuale divieto di “nuovi edifici” e di “nuove edificazioni” nell’ambito degli interventi consentiti non può che essere inteso, infatti, come preclusivo della realizzazione di qualsiasi nuovo manufatto all’interno della fascia di rispetto, in ossequio alla superiore disposizione di legge.
La disciplina delle fasce di rispetto cimiteriali è confermata quindi dall’art. 46 delle N.T.A. del regolamento urbanistico adottato dal Comune all’epoca dei fatti di causa, che ne sancisce l’inedificabilità rinviando, per gli edifici già esistenti, alle rispettive discipline di zona. Restano fermi, evidentemente, i limiti di legge, e segnatamente quello posto dal ricordato comma 7 dell’art. 338 R.D. n. 1265/1934, che consente il recupero, l’ampliamento e la ristrutturazione purché, lo si ripete, funzionali all’utilizzo degli edifici esistenti e non comportanti la realizzazione di nuovi manufatti all’interno della fascia di rispetto.
È già discutibile che la costruzione di una piscina possa dirsi funzionale all’utilizzo dell’edificio esistente nel senso contemplato dal legislatore, che sembra alludere ai soli interventi volti a impedire il degrado e, a lungo andare, l’abbandono degli edifici ricadenti nelle fasce di rispetto.
Certo è in ogni caso che, laddove implichi ex novo una permanente trasformazione di suolo inedificato all’interno della fascia involabile di cinquanta metri dal perimetro del cimitero, essa non è consentita.
---------------

2.1.2. Venendo ai profili sostanziali della vicenda, il ricorrente sostiene che la realizzazione della piscina costituirebbe un intervento di sistemazione dell’area scoperta di pertinenza dell’edificio principale, assentibile a norma dell’art. 23 del regolamento edilizio comunale. Non integrando una “nuova costruzione”, ma appunto una pertinenza, l’opera sarebbe anche compatibile con il vincolo cimiteriale interessante il compendio immobiliare di sua proprietà.
L’invocato art. 23 R.E. subordina, peraltro, le opere di sistemazione delle aree esterne al rispetto delle limitazioni e prescrizioni stabilite dagli strumenti urbanistici, nonché all’ottenimento delle autorizzazioni occorrenti in relazione agli eventuali vincoli gravanti sull’area di intervento. Ed è proprio sulla presenza del non superabile vincolo cimiteriale che si fondano i provvedimenti impugnati.
Per giurisprudenza ampiamente consolidata, anche di questo TAR, il vincolo imposto dall'art. 338 R.D. n. 1265/1934 e dall'art. 57 d.P.R. n. 285/1990 determina una situazione di inedificabilità ex lege che non necessita di essere recepito dagli strumenti urbanistici, ed, anzi, si impone ad essi operando come limite legale nei confronti delle previsioni urbanistiche locali eventualmente incompatibili.
Il vincolo ha carattere assoluto e non consente l’allocazione di edifici o costruzioni all’interno della fascia di rispetto, a tutela dei molteplici interessi pubblici cui quest’ultima presiede e che vanno dalle esigenze di natura igienico sanitaria, alla salvaguardia della peculiare sacralità dei luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, al mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
A escludere l’inedificabilità non rilevano la tipologia del fabbricato o la natura pertinenziale della costruzione, e gli unici interventi assentibili all’interno della fascia di rispetto sono quelli indicati dal settimo comma dell’art. 338 cit. sugli edifici esistenti, con il limite della funzionalità all’utilizzo degli edifici stessi, mentre è attivabile nel solo interesse pubblico la procedura di riduzione della fascia inedificabile a non meno di cinquanta metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale (fra le moltissime, cfr. Cons. Stato sez. IV, 23.04.2018, n. 2407; id., sez. VI, 27.02.2018, n. 1164; id., sez. VI, 06.10.2017, n. 4656; id., sez. V, 18.01.2017, n. 205; TAR Toscana, sez. III, 22.10.2018, n. 1351; id., 02.02.2015, n. 183; id., 12.11.2013, n. 1553; id., 12.07.2010, n. 2446; id., 11.06.2010, n. 1815).
L’assolutezza del vincolo di inedificabilità all’interno della fascia di rispetto cimiteriale è recepita dall’art. 56.6.6 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. del Comune di Firenze, che, dopo aver stabilito il divieto di realizzare “nuovi edifici”, nell’autorizzare gli “interventi previsti dalle presenti norme per le singole destinazioni” vieta, comunque, gli interventi di “nuova edificazione, di ampliamento e di ristrutturazione urbanistica”: il contestuale divieto di “nuovi edifici” e di “nuove edificazioni” nell’ambito degli interventi consentiti non può che essere inteso, infatti, come preclusivo della realizzazione di qualsiasi nuovo manufatto all’interno della fascia di rispetto, in ossequio alla superiore disposizione di legge.
La disciplina delle fasce di rispetto cimiteriali è confermata quindi dall’art. 46 delle N.T.A. del regolamento urbanistico adottato dal Comune di Firenze all’epoca dei fatti di causa, che ne sancisce l’inedificabilità rinviando, per gli edifici già esistenti, alle rispettive discipline di zona. Restano fermi, evidentemente, i limiti di legge, e segnatamente quello posto dal ricordato comma 7 dell’art. 338 R.D. n. 1265/1934, che consente il recupero, l’ampliamento e la ristrutturazione purché, lo si ripete, funzionali all’utilizzo degli edifici esistenti e non comportanti la realizzazione di nuovi manufatti all’interno della fascia di rispetto (alle pronunce già citate, può aggiungersi TAR Toscana, sez. III, 18.05.2018, n. 684).
È già discutibile che la costruzione di una piscina possa dirsi funzionale all’utilizzo dell’edificio esistente nel senso contemplato dal legislatore, che sembra alludere ai soli interventi volti a impedire il degrado e, a lungo andare, l’abbandono degli edifici ricadenti nelle fasce di rispetto. Certo è in ogni caso che, laddove implichi ex novo una permanente trasformazione di suolo inedificato all’interno della fascia involabile di cinquanta metri dal perimetro del cimitero, essa non è consentita.
Ne discende che il provvedimento inibitorio adottato dal Comune di Firenze, e poi l’atto dichiarativo della definitiva inefficacia della S.C.I.A., possono considerarsi adeguatamente motivati mediante la descrizione dell’intervento e il richiamo alla presenza della fascia di rispetto e alle corrispondenti previsioni urbanistiche violate, indipendentemente dalle ulteriori considerazioni contenute nel parere dell’Avvocatura comunale del 18.11.2014.
3. In forza di tutto quanto precede, le impugnazioni proposte non possono trovare accoglimento (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.02.2019 n. 284 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si richiama la sussistenza di una giurisprudenza alquanto diversificata in materia di collocazione di piscine in ambiti tutelati. Con necessità, comunque, di motivazione specifica e contestualizzata, in correlazione alla specifica collocazione dell’opera e alle sue modalità realizzative:
   - “Poiché le esigenze di tutela dell'area sottoposta a vincolo paesaggistico possono anche esigere l'immodificabilità dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore modifica), è doverosa una specifica valutazione di tale aspetto legato alla visibilità (o meno dell'opera), poiché per la tutela dell'ambiente e del paesaggio è essenziale che le valutazioni amministrative risultino consapevoli della concreta incidenza delle opere sul contesto ambientale e della irreversibile riduzione dei tratti naturali esistenti e di quelli percepiti”;
   - “Hanno una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere realizzate sull'area sottoposta a vincolo, anche se non vi è un volume da computare sotto il profilo edilizio (pur se si tratti di volumi tecnici) e anche se si tratta di una piscina, poiché le esigenze di tutela dell'area sottoposta a vincolo paesaggistico possono anche esigere l'immodificabilità dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore modifica)”;
   - “In ogni località sottoposta a vincolo paesaggistico (nella specie, nelle aree sottoposte a "protezione integrale" a Capri) la realizzazione di una piscina va qualificata come nuova costruzione che modifica irreversibilmente lo stato dei luoghi, sicché -ferma restando la valutazione discrezionale dell'autorità paesaggistica sulla sua fattibilità, qualora vi sia soltanto un vincolo "relativo"- essa è radicalmente vietata quando una disposizione normativa o un provvedimento volto alla tutela del paesaggio considera l'area in questione come sottoposta a <protezione integrale>”;
   - “È illegittimo, per difetto di motivazione e di istruttoria, il provvedimento di diniego di un permesso di costruire volto alla realizzazione di una piscina "a raso" da collocarsi su un'area sottoposta a vincolo paesaggistico, laddove la parte motiva si limiti a rinviare ad una generica esigenza di tutela dell'equilibrio paesaggistico dello stato dei luoghi. Nella specie, peraltro:
a) il manufatto non risulta visibile dall'esterno;
b) l'area circostante è già ampiamente antropizzata ed urbanizzata;
c) il sedime destinato ad ospitare la piscina è occupato da prato verde e vegetazione di altro tipo”;
   - “Gli artt. 22 e seguenti delle NTA del Piano paesaggistico regionale sardo, nel proteggere le aree naturali, non comportano un vincolo di inedificabilità assoluta, bensì soltanto interventi suscettibili di pregiudicare la struttura, la stabilità o la funzionalità ecosistemica o la fruibilità paesaggistica delle aree interessate; pertanto, è illegittimo il diniego del nullaosta paesaggistico che si basi apoditticamente sull’esistenza di tale vincolo derogabile, invece di verificare in concreto e con idonea motivazione la compatibilità paesaggistica, o meno, dello specifico intervento rispetto allo stato dei luoghi, non potendo bastare, a tal fine, il generico riferimento all’esistenza di sbancamenti e scavi che, teoricamente, potrebbero incidere sulla protezione dell’area naturale (nella fattispecie, l’intervento in discussione era costituito da un ampliamento edilizio di 31 mq e da una piscina)”;
   - “Il diniego di nullaosta paesaggistico non può essere motivato con il semplice richiamo all'esistenza del vincolo panoramico insistente sull'area, ancor più in quelle ipotesi in cui gli interventi proposti non incidano sulle visuali pubbliche (nella fattispecie, l'intervento proposto consisteva nella realizzazione di una piscina "a livello terra" rivista come pertinenza di un più rilevante -anche visivamente- edificio residenziale già esistente e autorizzato, in una zona caratterizzata dell'esistenza di altri insediamenti edilizi)”;
   - “E' legittimo il provvedimento con cui il Direttore Generale del Ministero per i Beni e Le Attività Culturali ha disposto la demolizione di una piscina, e il ripristino dello stato dei luoghi, realizzata in un immobile sottoposto a vincolo indiretto e in violazione del decreto di vincolo, che non consente alcuna edificazione. Tale manufatto, infatti, per le sue caratteristiche tecniche, costituisce alterazione permanente del territorio, non consentita per effetto del decreto di vincolo”;
   - “La realizzazione di una piscina suddivisa in due parti collegate da un ponte, con uno sviluppo in termini di superficie di circa 30 mq, unitamente all'edificazione di due manufatti pavimentati e dotati di impianto elettrico, integra un intervento di nuova costruzione, implicante una irreversibile trasformazione del territorio e incidente anche sul piano paesaggistico ambientale, venendo in rilievo un'area sottoposta al relativo vincolo”;
   - “Non è compatibile con il vincolo cimiteriale la realizzazione di una piscina, trattandosi di organismo che integra una "nuova costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. n. 380/2001”;
   - “Gli interventi di sbancamento, come pure quelli di realizzazione di una piscina, sono tendenzialmente incompatibili con i valori paesaggistici del contesto in quanto alterano l'andamento naturale del terreno con l'introduzione di una nuova opera e conseguente modifica del rapporto tra costruito e ambiente naturale”.
---------------

B) Analoga conclusione per la collocazione di una vasca idromassaggio (di mq. 21) in terrazza preesistente (di 45 mq.).
La relazione prevede che: “all'esterno sulla parte frontale con il rifacimento del loggiato e nell'ampliamento della terrazza al livello realizzata in legno che ingloba al suo interno una vasca idromassaggio realizzata con un guscio di acciaio appoggiato sul terreno livellato con sabbia in corrispondenza dell'appoggio".
La terrazza posta sul lato mare sarà pavimentata al di sopra della pavimentazione esistente su cui verrà posato in appoggio del teak marino a listoni, sarà incassata una vasca amovibile in acciaio inox poggiata su un letto di sabbia e per la quale non saranno necessari né scavi né sbancamenti del terreno naturale (la quota naturale del terreno è inferiore di 1,20 m al di sotto della quota 0,00 della terrazza esistente)".
Sotto il profilo strettamente edilizio la prevista realizzazione di un’opera pertinenziale, senza sbancamento del terreno, risulta compatibile con il mantenimento di un uso (sussistendo già la terrazza esterna, collocata al di sopra dell’interrato già esistente) che sarà solo parzialmente trasformato.
Trattasi di modifica che non crea nuove volumetrie, ma prevede il solo inserimento, in direzione opposta a quella della collina (ove si trova il nuraghe), di un vasca idromassaggio in acciaio su terrazza (più ampia) preesistente, in appoggio a un letto di sabbia (senza modifica della linea naturale del terreno). Con posizionamento esterno di un elemento effettuato sfruttando la naturale pendenza del terreno, senza alterazione.
Trattasi di pertinenza (non “nuova costruzione” come delineata dall’art. 3, comma 1, lett. e.1), in relazione alla lett. e.6) .
Diversa sarà la sfera valutativa, da parte della competente autorità paesaggistica (Unione dei Comuni), della compatibilità dell’opera pertinenziale, in considerazione della “propria” valutazione (non edilizia) inerente l’impatto sul paesaggio (trovandosi la villa a ridosso del mare).
Ma tale giudizio non è stato espresso (dall’Unione dei Comuni, competente) in quanto, difettando il presupposto provvedimento favorevole di compatibilità edilizia dell’opera, è stata esternata solo una decisione in rito (improcedibilità).
Ne consegue che sussiste la necessità di espressione (futura) del parere dell’autorità paesaggistica, non sostituibile da questo giudice, trattandosi di poteri non ancora esercitati.
Si richiama, in materia, la sussistenza di una giurisprudenza alquanto diversificata in materia di collocazione di piscine in ambiti tutelati. Con necessità, comunque, di motivazione specifica e contestualizzata, in correlazione alla specifica collocazione dell’opera e alle sue modalità realizzative:
   - Consiglio di Stato sez. VI 06.03.2018 n. 1424: “Poiché le esigenze di tutela dell'area sottoposta a vincolo paesaggistico possono anche esigere l'immodificabilità dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore modifica), è doverosa una specifica valutazione di tale aspetto legato alla visibilità (o meno dell'opera), poiché per la tutela dell'ambiente e del paesaggio è essenziale che le valutazioni amministrative risultino consapevoli della concreta incidenza delle opere sul contesto ambientale e della irreversibile riduzione dei tratti naturali esistenti e di quelli percepiti”;
   - Consiglio di Stato sez. VI 07.01.2014 n. 18: “Hanno una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere realizzate sull'area sottoposta a vincolo, anche se non vi è un volume da computare sotto il profilo edilizio (pur se si tratti di volumi tecnici) e anche se si tratta di una piscina, poiché le esigenze di tutela dell'area sottoposta a vincolo paesaggistico possono anche esigere l'immodificabilità dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore modifica)”;
   - Consiglio di Stato sez. VI 05.03.2013 n. 1316: “In ogni località sottoposta a vincolo paesaggistico (nella specie, nelle aree sottoposte a "protezione integrale" a Capri) la realizzazione di una piscina va qualificata come nuova costruzione che modifica irreversibilmente lo stato dei luoghi, sicché -ferma restando la valutazione discrezionale dell'autorità paesaggistica sulla sua fattibilità, qualora vi sia soltanto un vincolo "relativo"- essa è radicalmente vietata quando una disposizione normativa o un provvedimento volto alla tutela del paesaggio considera l'area in questione come sottoposta a <protezione integrale>”;
   - TAR Sardegna sez. II 05.04.2016 n. 324: “È illegittimo, per difetto di motivazione e di istruttoria, il provvedimento di diniego di un permesso di costruire volto alla realizzazione di una piscina "a raso" da collocarsi su un'area sottoposta a vincolo paesaggistico, laddove la parte motiva si limiti a rinviare ad una generica esigenza di tutela dell'equilibrio paesaggistico dello stato dei luoghi. Nella specie, peraltro: a) il manufatto non risulta visibile dall'esterno; b) l'area circostante è già ampiamente antropizzata ed urbanizzata; c) il sedime destinato ad ospitare la piscina è occupato da prato verde e vegetazione di altro tipo”;
   - TAR Sardegna sez. II 11.03.2016 n. 239: “Gli artt. 22 e seguenti delle NTA del Piano paesaggistico regionale sardo, nel proteggere le aree naturali, non comportano un vincolo di inedificabilità assoluta, bensì soltanto interventi suscettibili di pregiudicare la struttura, la stabilità o la funzionalità ecosistemica o la fruibilità paesaggistica delle aree interessate; pertanto, è illegittimo il diniego del nullaosta paesaggistico che si basi apoditticamente sull’esistenza di tale vincolo derogabile, invece di verificare in concreto e con idonea motivazione la compatibilità paesaggistica, o meno, dello specifico intervento rispetto allo stato dei luoghi, non potendo bastare, a tal fine, il generico riferimento all’esistenza di sbancamenti e scavi che, teoricamente, potrebbero incidere sulla protezione dell’area naturale (nella fattispecie, l’intervento in discussione era costituito da un ampliamento edilizio di 31 mq e da una piscina)”;
   - TAR Sardegna sez. II 18.03.2014 n. 226: “Il diniego di nullaosta paesaggistico non può essere motivato con il semplice richiamo all'esistenza del vincolo panoramico insistente sull'area, ancor più in quelle ipotesi in cui gli interventi proposti non incidano sulle visuali pubbliche (nella fattispecie, l'intervento proposto consisteva nella realizzazione di una piscina "a livello terra" rivista come pertinenza di un più rilevante -anche visivamente- edificio residenziale già esistente e autorizzato, in una zona caratterizzata dell'esistenza di altri insediamenti edilizi)”;
   - TAR Veneto sez. II 27.04.2018 n. 457: “E' legittimo il provvedimento con cui il Direttore Generale del Ministero per i Beni e Le Attività Culturali ha disposto la demolizione di una piscina, e il ripristino dello stato dei luoghi, realizzata in un immobile sottoposto a vincolo indiretto e in violazione del decreto di vincolo, che non consente alcuna edificazione. Tale manufatto, infatti, per le sue caratteristiche tecniche, costituisce alterazione permanente del territorio, non consentita per effetto del decreto di vincolo”;
   - TAR Campania sez. VII 31.01.2018 n. 707: “La realizzazione di una piscina suddivisa in due parti collegate da un ponte, con uno sviluppo in termini di superficie di circa 30 mq, unitamente all'edificazione di due manufatti pavimentati e dotati di impianto elettrico, integra un intervento di nuova costruzione, implicante una irreversibile trasformazione del territorio e incidente anche sul piano paesaggistico ambientale, venendo in rilievo un'area sottoposta al relativo vincolo”;
   - TAR Lombardia sez. II 14.11.2011 n. 2734: “Non è compatibile con il vincolo cimiteriale la realizzazione di una piscina, trattandosi di organismo che integra una "nuova costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. n. 380/2001”;
   - TAR Campania sez. IV 07.11.2017 n. 5223: “Gli interventi di sbancamento, come pure quelli di realizzazione di una piscina, sono tendenzialmente incompatibili con i valori paesaggistici del contesto in quanto alterano l'andamento naturale del terreno con l'introduzione di una nuova opera e conseguente modifica del rapporto tra costruito e ambiente naturale” (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 21.11.2018 n. 983 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il fatto che un intervento possa essere assentito (in astratto) con DIA ex art. 22 del DPR 380/2001 non comporta l’automatica ed esclusiva applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso di mancanza o di difformità dalla denuncia.
Infatti, il Comune deve accertare in concreto se l’intervento, sebbene presentato con DIA, sia conforme alla normativa edilizia e urbanistica vigente: in proposito, la disposizione del comma 6 dell’art. 37 del DPR 380/2001 fa espressamente salve le sanzioni demolitorie di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 del medesimo T.U. ove ne ricorrano i presupposti in relazione all’intervento realizzato.
La condizione imprescindibile per rendere operative le previsioni invocate dalla parte ricorrente è il rispetto dei parametri urbanistici ed edilizi esistenti, che nel caso di specie risultano viceversa pacificamente violati. L’art. 22, comma 1, del DPR 380/2001 statuiva che “Sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'art. 10 e all'articolo 6, che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
Sotto diverso profilo, è appena il caso di osservare che, in materia urbanistica, la nozione di pertinenza è più circoscritta di quella definita dall'art. 817 c.c., essendo applicabile solo ad opere di modesta entità e accessorie rispetto a un’opera principale: il manufatto dev’essere non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato nonché dotato comunque di un volume modesto rispetto al primo, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico.
Appare evidente, anche soltanto sulla base degli elaborati tecnici depositati in atti, che la piscina abusivamente realizzata –per natura, funzione e dimensioni (metri 9 x 4,50 con profondità minima di 1,20 metri e massima di 2,20 metri)– ha arrecato modifiche consistenti in termini di volume e di alterazione del preesistente stato dei luoghi.
---------------

Il ricorrente censura il provvedimento del Responsabile dell’area tecnica in data 22/01/2009, recante l’intimazione a demolire l’opera edilizia abusiva (piscina) e a ripristinare lo stato dei luoghi.
1. Il terzo motivo è privo di pregio giuridico.
1.1 Il fatto che un intervento possa essere assentito (in astratto) con DIA ex art. 22 del DPR 380/2001 non comporta l’automatica ed esclusiva applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso di mancanza o di difformità dalla denuncia. Infatti, il Comune deve accertare in concreto se l’intervento, sebbene presentato con DIA, sia conforme alla normativa edilizia e urbanistica vigente: in proposito, la disposizione del comma 6 dell’art. 37 del DPR 380/2001 fa espressamente salve le sanzioni demolitorie di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 del medesimo T.U. ove ne ricorrano i presupposti in relazione all’intervento realizzato (TAR Puglia Bari, sez. II – 02/12/2016 n. 1350).
La condizione imprescindibile per rendere operative le previsioni invocate dalla parte ricorrente è il rispetto dei parametri urbanistici ed edilizi esistenti, che nel caso di specie risultano viceversa pacificamente violati. L’art. 22, comma 1, del DPR 380/2001 statuiva che “Sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'articolo 10 e all'articolo 6, che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
1.2 Sotto diverso profilo (a confutazione di quanto asserito da parte ricorrente nella memoria difensiva prodotta il 10/10/2016), è appena il caso di osservare che, in materia urbanistica, la nozione di pertinenza è più circoscritta di quella definita dall'art. 817 c.c., essendo applicabile solo ad opere di modesta entità e accessorie rispetto a un’opera principale: il manufatto dev’essere non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma deve essere anche sfornito di autonomo valore di mercato nonché dotato comunque di un volume modesto rispetto al primo, in modo da evitare il c.d. carico urbanistico (TAR Campania Napoli, sez. III – 14/09/2017 n. 4374; C.G.A. Sicilia – 26/09/2017 n. 805; TAR Sicilia Palermo, sez. II – 20/03/2017 n. 750); appare evidente, anche soltanto sulla base degli elaborati tecnici depositati in atti, che la struttura abusivamente realizzata –per natura, funzione e dimensioni (metri 9 x 4,50 con profondità minima di 1,20 metri e massima di 2,20 metri)– ha arrecato modifiche consistenti in termini di volume e di alterazione del preesistente stato dei luoghi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 13.12.2017 n. 1443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia e urbanistica - Realizzazione di una piscina - Zona con vincolo culturale.
La realizzazione di una piscina in un complesso immobiliare esistente, in quanto concreta un intervento edilizio "ex novo", non può essere ricompresa nel regime urbanistico delle pertinenze, atteso che non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni.
Ed invero, la piscina non è solo una attrezzatura per lo svago, ma innanzi tutto una struttura di tipo edilizio che incide invasivamente sul sito in cui viene realizzata, con la conseguenza che per la sua realizzazione occorre munirsi del relativo titolo ad aedificandum.
Secondo l’art. 3, lett. e), del D.P.R 380/2011), sono interventi di nuova costruzione <<la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente …>>), e ,come ripetutamente affermato in giurisprudenza, <<tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede>>.
<<Ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del d.p.r. 380/2001, è richiesto il permesso di costruire per tutte le attività qualificabili come interventi di nuova costruzione che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio. Ciò posto, è agevole rilevare che la costruzione della piscina, in relazione alla sua consistenza modificativa e trasformativa dell’assetto del territorio, non si configura come riconducibile fra gli “interventi di manutenzione straordinaria” e fra gli “interventi minori” ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. 380/2001>>.
Di qui, dunque, la esatta riconducibilità di dette opere nel novero di quelle considerate dall'art. 3, lett. e) e lett. e), n. 1) e art. 10 del D.P.R. n. 380/2001.

---------------

... per l'annullamento della determinazione prot. n. 12308/15, conosciuta in data 25/09/2015, con cui il Soprintendente B.A.A.A.S. della Puglia - Lecce ha rigettato l'istanza per la realizzazione di una "piscina a livello terra"; di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale.
...
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
...
Ritiene il Collegio che la realizzazione di una piscina in un complesso immobiliare esistente, in quanto concreta un intervento edilizio "ex novo", non può essere ricompresa nel regime urbanistico delle pertinenze, atteso che non è necessariamente complementare all'uso delle abitazioni.
Ed invero, la piscina non è solo una attrezzatura per lo svago, ma innanzi tutto una struttura di tipo edilizio che incide invasivamente sul sito in cui viene realizzata, con la conseguenza che per la sua realizzazione occorre munirsi del relativo titolo ad aedificandum (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 08.01.2016, n. 35).
Secondo l’art. 3, lett. e), del D.P.R 380/2011), sono interventi di nuova costruzione <<la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente …>>), e ,come ripetutamente affermato in giurisprudenza, <<tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede>> (cfr. C.d.S Sez. VI del 06.06.2013 n. 2980).
<<Ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del d.p.r. 380/2001, è richiesto il permesso di costruire per tutte le attività qualificabili come interventi di nuova costruzione che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio. Ciò posto, è agevole rilevare che la costruzione della piscina, in relazione alla sua consistenza modificativa e trasformativa dell’assetto del territorio, non si configura come riconducibile fra gli “interventi di manutenzione straordinaria” e fra gli “interventi minori” ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. 380/2001>> ( cfr. Cass. pen. - Sez. III, 12.05.2014 n. 19444; C.d.S. n. 26197 del 29/04/2003).
Di qui, dunque, la esatta riconducibilità di dette opere nel novero di quelle considerate dall'art. 3, lett. e) e lett. e), n. 1) e art. 10 del D.P.R. n. 380/2001.
Peraltro, è legittima anche la considerazione espressa dall’Unione dei Comuni circa l’estraneità delle opere dalla c.d. “conduzione del fondo ai fini agricoli”.
La L.R. Puglia n. 6 del 1979 ha subordinato l'edificazione nelle aree agricole alla prova del possesso, da parte del richiedente la concessione, dei requisiti di imprenditore agricolo, coltivatore diretto o bracciante con disposizioni confermate poi dalla successiva L. n. 56 del 1980.
Quanto alla valenza dei vincoli all'edificazione in zona agricola, la giurisprudenza ha affermato il principio secondo cui l'attribuzione di una destinazione agricola a un determinato terreno è volta non tanto e non solo a garantire il suo effettivo utilizzo a scopi agricoli, quanto piuttosto a preservarne le caratteristiche attuali di zona di salvaguardia da ogni possibile nuova edificazione, anche in funzione della valenza conservativa di valori naturalistici che ha tale tipo di destinazione di zona. Difatti, in zona agricola debbono ritenersi ammissibili tutte quelle attività integrative, aggiuntive e/o migliorative che non si pongano insanabilmente in contrasto con la zona e con la sua destinazione, essendo quindi necessario operare una valutazione caso per caso relativa a tale compatibilità in concreto.
Nella specie, basti rilevare che il ricorrente non ha efficacemente dedotto alcuna connessione soggettiva o oggettiva con l'attività agricola.
Orbene, avuto riguardo alle caratteristiche delle opere in esame, nonché all'area al cui interno esse dovrebbero essere realizzate, deve ritenersi che la valutazione tecnica compiuta dall'amministrazione possa senz'altro ritenersi in linea con le risultanze istruttorie, avendo l'Unione dei Comuni Terre di Leuca negato la chiesta autorizzazione paesaggistica sulla base di una corretta rappresentazione di tutti gli elementi di fatto, con valutazione scevra da errori, profili di incoerenza, illogicità, ecc, i soli che giustificherebbero il sindacato giurisdizionale sulle scelte discrezionali amministrative.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 20.09.2016 n. 1446 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa costruzione di una piscina necessita del previo rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, primo comma, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001, in relazione alla previsione del precedente art. 3, lett. e.1) (che definisce "interventi di nuova costruzione" <<la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente …>>), come ripetutamente affermato in giurisprudenza:
   -  <<tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede>>;
   - <<ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del d.p.r. 380/2001, è richiesto il permesso di costruire per tutte le attività qualificabili come interventi di nuova costruzione che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio. Ciò posto, è agevole rilevare che la costruzione della piscina, in relazione alla sua consistenza modificativa e trasformativa dell’assetto del territorio, non si configura come riconducibile fra gli “interventi di manutenzione straordinaria” e fra gli “interventi minori” ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. 380/2001>>;
   - <<Costituiscono infatti lavori edilizi necessitanti di permesso a costruire non soltanto quelli per la realizzazione di manufatti che si elevano al di sopra del suolo, ma anche quelli in tutto o in parte interrati e che trasformano in modo durevole l'area impegnata dai lavori stessi.
Di qui, dunque, la esatta riconducibilità di dette opere, ben diverse da quelle di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, nel novero di quelle considerate dall'art. 3, lett. e) e lett. e), n. 1) e art. 10 del medesimo D.P.R..
---------------

.. per l'annullamento dell'ordinanza del Capo Settore Urbanistica prot. n. 10136 dell'11.05.2009, con la quale si ingiunge la demolizione delle opere edili realizzate alla via ... n. 162; di ogni altro atto, anche endoprocedimentale, consequenziale, connesso, preordinato e presupposto.
...
La ricorrente realizzava sul fondo di sua proprietà una piscina con pensilina sul lato est, nonché due spogliatoi ed altra pensilina sul lato nord, presentando in data 26/11/2008 istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001.
Con l’impugnato provvedimento è stata ingiunta la demolizione delle opere così descritte: "Realizzazione di
   - una piscina interrata di circa mq. 50,00 con pensilina sul lato est, consistente in struttura metallica e copertura in similtegole in plastica di circa mq. 10,00 nonché
   - n. 2 spogliatoi in muratura e copertura in lamiere di circa mq. 3,00.
Risulta, altresì, pensilina sul lato nord di circa mq. 10 con struttura in ferro e copertura in plastica
”.
Avverso il provvedimento è stato proposto il presente ricorso, affidato a quattro motivi con cui è dedotta la violazione delle leggi n. 765/1967 e n. 1150/1942, dell’art. 3 della legge n. 241/1990 e dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, nonché l’eccesso di potere per violazione del principio della certezza del diritto, motivazione erronea ed illogica, illogicità manifesta e difetto di istruttoria.
Nelle censure articolate si sostiene che:
   1) la piscina venne realizzata tra gli anni ’60 e ’70 , in epoca nella quale non era richiesta la licenza edilizia;
   2) la stessa, interrata nell’area strettamente adiacente all’immobile, non determina la realizzazione di un volume, mentre la volumetria degli spogliatoi accessori è inferiore al 20% dell’edificio, dovendosi qualificare le opere come pertinenziali e assoggettate a DIA;
   3) per le stesse era stata presentata in data 26/11/2008 una richiesta di accertamento di conformità urbanistica, conseguendone l’inefficacia della demolizione ingiunta;
   4) difetta un’adeguata istruttoria di verifica della legittimità delle opere.
...
Il ricorso è infondato.
L’affermazione della ricorrente secondo cui la piscina è stata realizzata anni addietro non è sorretta da alcun elemento di prova, il cui onere incombe sul ricorrente ex art. 64 c.p.a. (la circostanza è asserita nella richiesta di accertamento di conformità urbanistica, ma non è neppure esplicitata nell’allegata relazione tecnica). Peraltro è comunque da escludere, in linea di principio, che l’epoca di realizzazione dell’abuso edilizio, consistente in un illecito di tipo permanente, abbia rilevanza ai fini dell’applicazione della prescritta sanzione (cfr. Cons. St., sez. V, 27/08/2014, n. 4381).
Ciò posto, avuto riguardo alla natura e alla consistenza delle opere (che costituiscono nuovi volumi ed arrecano una rilevante trasformazione del territorio), è destituita di fondamento la tesi secondo cui le stesse fossero assoggettabili a DIA.
Esse necessitavano del previo rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, primo comma, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001, in relazione alla previsione del precedente art. 3, lett. e.1) (che definisce "interventi di nuova costruzione" <<la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente …>>), come ripetutamente affermato in giurisprudenza (cfr. la sentenza della Sezione VII di questo Tribunale del 07.01.2014 n. 1: <<tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede>>;
cfr., altresì, la sentenza della Sez. VI del 06.06.2013 n. 2980: <<ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del d.p.r. 380/2001, è richiesto il permesso di costruire per tutte le attività qualificabili come interventi di nuova costruzione che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio. Ciò posto, è agevole rilevare che la costruzione della piscina, in relazione alla sua consistenza modificativa e trasformativa dell’assetto del territorio, non si configura come riconducibile fra gli “interventi di manutenzione straordinaria” e fra gli “interventi minori” ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. 380/2001>>;
cfr. anche Cass. pen. - Sez. III, 12.05.2014 n. 19444: <<Costituiscono infatti lavori edilizi necessitanti di permesso a costruire non soltanto quelli per la realizzazione di manufatti che si elevano al di sopra del suolo, ma anche quelli in tutto o in parte interrati e che trasformano in modo durevole l'area impegnata dai lavori stessi (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 26197 del 29/04/2003, Agresti, Rv. 225388, proprio con riferimento a piscina interrata).
Di qui, dunque, la esatta riconducibilità di dette opere, ben diverse da quelle di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, nel novero di quelle considerate dall'art. 3, lett. e) e lett. e), n. 1) e art. 10 del medesimo D.P.R.
>>).
Da ciò discende che il Comune ha correttamente valutato la tipologia dell’opera, dalla cui abusività (difettando il prescritto titolo edilizio) scaturisce con carattere vincolato l’ordine di demolizione.
Infine, la presentazione della richiesta di accertamento di conformità urbanistica, ai sensi dell’art. 36 del DPR n. 380/2001, non influisce sul provvedimento emanato rendendolo inefficace; ciò in quanto, decorso il termine di sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento tacito di rigetto, che è onere della parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi del potere sanzionatorio della P.A. (cfr. Cons. St., sez. VI, 02/02/2015, n. 466) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 18.11.2015 n. 5308 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon può considerarsi una mera “vasca d’acqua” un manufatto di circa 30 mq, interrata per circa 70 cm. ed avente una profondità massima di un metro e mezzo, dotata, fra l’altro, come risulta dai rilievi fotografici, di scaletta per consentire l’immissione e l’uscita dall’acqua.
Pertanto, correttamente gli atti dell’Amministrazione comunale qualificano il manufatto in questione come “piscina” e non come “elemento di arredo”.
Nessun rilievo, poi, assume, ai fini paesaggistici, il fatto che l’opera realizzata sia per lo più interrata; essa, infatti, ha comunque implicato uno scavo del terreno consistente, che ha alterato lo stato dei luoghi.
---------------

PREMESSO
In data 15.10.2011, la soc. Qu. rivolgeva al Comune di Buggiano (PT) l’accertamento di compatibilità paesaggistica dei lavori effettuati per la realizzazione di una piscina prefabbricata. Con nota n. 13561 del 02.11.2011, veniva comunicato l’avvio del relativo procedimento. Il 30.01.2012, il Comune chiedeva alla Commissione per il paesaggio il relativo accertamento di compatibilità, che, in data 02.02.2012, veniva espresso in senso contrario. Tale parere veniva comunicato il 07.02.2012 alla competente Soprintendenza, con nota n. 1600, ed all’interessato, con nota n. 1586. Il 28 successivo, con nota n. 4407, veniva trasmesso al Pl. il preavviso di provvedimento negativo.
Il 22.03.2012, la Soprintendenza per i beni architettonici, paesaggistici, storici, artistici ed etnoantropologici per le province di Firenze, Pistoia e Prato comunicava, con nota n. 6430, al Comune il proprio “parere negativo vincolante”.
Il 06.04.2012, veniva effettuato un sopralluogo alla presenza di tecnici del Comune, della Soprintendenza e della proprietà, indi veniva adottato il provvedimento, n. 5003 del 12.04.2014, di reiezione dell’istanza, del quale veniva data notizia all’interessato ed alla Soprintendenza il 16.04.2012, con nota n. 5148. Va tenuto presente che, in data 28.03.2012, erano pervenute al Comune ed alla Soprintendenza le osservazioni della soc. Qu..
Con ricorso straordinario al Capo dello Stato, quest’ultima insorgeva contro il provvedimento suddetto, chiedendone in via cautelare la sospensione degli effetti e deducendo:
   a) violazione e falsa applicazione dell’art. 146 d.lgs. 22.01.2004, n. 42 e degli artt. 78 e 79 l. reg. Toscana 03.01.2005, n. 1, nonché eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti e mancanza dei presupposti;
   b) violazione e falsa applicazione del succitato art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 e degli artt. 7 e segg. L. n. 241 del 1990, nonché eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, mancanza dei presupposti, illogicità e perplessità.
Con la relazione citata in epigrafe, l’Amministrazione, anche sulla scorta delle controdeduzioni del Comune e della Soprintendenza, si esprime per l’infondatezza del ricorso.
CONSIDERATO
Il primo motivo di ricorso si basa sul presupposto che il manufatto in questione sia una “vasca d’acqua" inidonea a realizzare una trasformazione del sito e per dimensioni e per i materiali leggeri e “stagionali”, con cui è realizzata, e per le sue funzioni, con la conseguenza della sua estraneità alla disciplina dell’autorizzazione edilizia e paesaggistica. Ciò induce a non ritenere il manufatto “dissonante con l’insediamento storicizzato”.
Al riguardo, va rilevato che non può considerarsi una mera “vasca d’acqua” un manufatto di circa 30 mq, interrata per circa 70 cm. ed avente una profondità massima di un metro e mezzo, dotata, fra l’altro, come risulta dai rilievi fotografici, di scaletta per consentire l’immissione e l’uscita dall’acqua. Pertanto, correttamente gli atti dell’Amministrazione qualificano il manufatto in questione come “piscina” e non come “elemento di arredo”.
Nessun rilievo, poi, assume, ai fini paesaggistici, il fatto che l’opera realizzata sia per lo più interrata (Cass. pen., Sez. III, 19.03.2014, n. 19444); essa, infatti, ha comunque implicato uno scavo del terreno consistente, che ha alterato lo stato dei luoghi (Cons. Stato, VI, 07.01.2014, n. 18). Incongruo appare pertanto il richiamo all’art. 16 NTA del Regolamento urbano del Comune di Buggiano.
Quanto poi alla valutazione, relativa alla dissonanza con l’insediamento storicizzato, si deve far presente come essa costituisca frutto di discrezionalità tecnica, non censurabile in sede di scrutinio di legittimità, se non per violazione delle norme che ne regolano l’espressione o per aver trascurato determinanti elementi di fatto o per lacunosità, contraddittorietà o irragionevolezza della motivazione, rilevabili ictu oculi. Ma, nel caso in esame, nessuno dei suddetti vizi appare sussistere, visto che la motivazione del provvedimento, non soltanto fa rinvio al parere vincolante della Soprintendenza, ma chiarisce le ragioni per le quali è stato chiesto il parere della Commissione per il paesaggio e della Soprintendenza essendo stato non solo il territorio del Comune di Buggiano dichiarato di notevole interesse pubblico, con D.M. 07.03.1963, ma la Villa “Pichi Sermolli” dichiarata edificio di rilevante valore storico, architettonico, ambientale, con il Regolamento urbanistico del Comune.
Di ciò del resto appare consapevole la stessa Società ricorrente, che ha richiesto in sanatoria l’accertamento di compatibilità paesaggistica del manufatto in questione (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 17.03.2015 n. 801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10, d.P.R. n. 380 del 2001, è richiesto il permesso di costruire per tutte le attività qualificabili come interventi di nuova costruzione che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
La costruzione di una piscina, in relazione alla sua consistenza modificativa e trasformativa dell'assetto del territorio, non si configura come riconducibile fra gli "interventi di manutenzione straordinaria" e fra gli "interventi minori" ai sensi dell'art. 37, d.P.R. n. 380 del 2001, atteso che per i lavori di "manutenzione ordinaria e straordinaria" resta comunque fermo l'obbligo di non alterazione delle superfici delle unità immobiliari e delle destinazioni in uso in atto.

---------------
Con il gravame in epigrafe, il ricorrente impugna l’ordinanza di demolizione n. 135 del 02.06.2009 spedita dal Comune di Ischia a fronte della realizzazione, in località via ..., di un complesso di opere consistenti nella realizzazione:
   - di un primo corpo di fabbrica, articolato su due livelli, tra loro collegati a mezzo di scala interna ed adibiti ad abitazione, di superficie pari a 125 mq circa al piano terra e di 75 mq circa al piano primo, oltre a mq. 12,50 circa di area porticata e tettoia in legno e tegole di mq 14,50 circa. Risultano, inoltre, realizzate una copertura con pali di legno ed incannucciate per una superficie di mq. 55 ed una tettoia di mq 7,50 a copertura degli impianti tecnici e posta a monte del fabbricato;
   - di un secondo corpo di fabbrica, di mq 13,50, adibito a locale tecnico (sala caldaia);
   - di muri di contenimento per uno sviluppo di 80 ml circa;
   - di una piscina balneare di forma irregolare della superficie di mq. 30, profonda 1,30 mt circa.
...
Del pari, non possono essere condivise le conclusioni rassegnate dal ricorrente in ordine all’affermata irrilevanza edilizia della piscina abusivamente realizzata, siccome opera di edilizia minore.
Ed, infatti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10, d.P.R. n. 380 del 2001, è richiesto il permesso di costruire per tutte le attività qualificabili come interventi di nuova costruzione che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
La costruzione di una piscina, in relazione alla sua consistenza modificativa e trasformativa dell'assetto del territorio, non si configura come riconducibile fra gli "interventi di manutenzione straordinaria" e fra gli "interventi minori" ai sensi dell'art. 37, d.P.R. n. 380 del 2001, atteso che per i lavori di "manutenzione ordinaria e straordinaria" resta comunque fermo l'obbligo di non alterazione delle superfici delle unità immobiliari e delle destinazioni in uso in atto (cfr. ex multis TAR Napoli Campania sez. VI, n. 29 del 06.06.2013; Consiglio di Stato sez. VI, n. 1316 del 05.03.2013)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 588 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aggiornamento al 13.12.2022

In tema di abusi edilizi (e non solo):
l'esistenza di un’indagine penale “non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine. Invero, solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso".

ATTI AMMINISTRATIVIL'art. 24 della L. n. 241/1990, nella versione riformulata dalla L. 11.02.2005, n. 15, ha sancito, elevando a rango superiore un principio già introdotto a livello regolamentare, l'esclusione dell'esibizione di atti utilizzati nel corso dell'attività giudiziaria o di polizia.
Orbene, essendo stata sancita con legge ordinaria la sottrazione di tali categorie di documenti alla conoscibilità degli stessi interessati, in tale prospettiva non sono ostensibili, ex artt. 114 e 329 c.p.p., gli atti afferenti ad informative penali inoltrate nei confronti degli istanti, ad eventuali indagini in corso, in quanto relative ad un (eventuale) procedimento penale e rientranti perciò nella esclusiva disponibilità dell'organo requirente procedente.
La previsione in esame è infatti chiaramente finalizzata ad escludere la piena ostensibilità delle relazioni di servizio che non costituiscono atti presupposti volti all'adozione di un provvedimento amministrativo, ma piuttosto atti volti a sollecitare l'iniziativa penale da parte dell'autorità giudiziaria, e quindi atti inerenti non allo svolgimento dell'attività amministrativa, quanto alla (diversa) attività di promozione e collaborazione dell'attività di prevenzione e repressione della criminalità.
---------------
Gli atti per cui è causa, consistenti nei verbali e informative di controllo della Polizia, sono sottratti all'accesso proprio perché volti a tutelare quell'interesse pubblico senz'altro meritevole di "maggiore apprezzamento".
In particolare, le annotazioni ovvero le informative di polizia giudiziaria che consistono in accertamenti compiuti dalle forze dell'ordine in sede di controllo del territorio non possono essere resi accessibili anche in funzione di tutela dell'agente di polizia giudiziaria che li redige, delle strutture operanti e delle fonti informative.
Gli atti in questione richiesti dalla ricorrente rispondono esattamente a quelle esigenze di sicurezza e prevenzione della criminalità e dell'ordine pubblico che la normativa di settore si preoccupa di tutelare in primis et ante omnia.
Detti documenti sono esclusi dalla ostensibilità in quanto la loro conoscenza appare suscettibile di arrecare un pregiudizio concreto agli interessi connessi alla sicurezza pubblica né a carico dell'amministrazione intimata appare ravvisabile un onere di motivazione sulla prevalenza dell'interesse pubblico, giacché la normativa di riferimento lo reputa presente in re ipsa nella natura dell'atto richiesto.
D’altronde, la giurisprudenza ha precisato che "l'accesso va effettivamente escluso per tutte le parti della documentazione in possesso dell'Amministrazione coperte da segreto istruttorio, in quanto afferenti a indagini preliminari o procedimenti penali in corso, o in quanto coinvolgenti, a qualunque titolo, terzi soggetti interessati dalle informative di polizia di sicurezza; ovvero, ancora, adducendo specifici motivi ostativi riconducibili ad imprescindibili esigenze di tutela di accertamenti di polizia di sicurezza e di contrasto alla delinquenza organizzata".

---------------

1.- Con il ricorso all'esame, notificato il 2 agosto e depositato il successivo 03.08.2022, la ricorrente società ha esposto in fatto:
   - di essere stata destinataria, in data 04/07/2022, della notifica da parte dei carabinieri della Stazione di Sorrento, ai sensi e per gli effetti degli artt. 7, 8 e 10 l. n. 241/1990, della comunicazione di avvio di procedimento (protoc. n. 125 del 26/05/2022/OM) amministrativo, finalizzato all’applicazione nei suoi confronti del provvedimento ex art. 100 T.U.L.P.S.;
   - nel predetto avviso era precisato che l’avviato procedimento aveva trovato origine dalla proposta del 02/05/2022 prot. n. 15/2 formulata dalla medesima compagnia dei carabinieri nonché dalle successive note (6/5/2022 prot. n. 62/40– I/2022) inoltrate dalla Legione Carabinieri Campania–Stazione Pimonte e dalla relazione dell’08/05/2022 cat Q.2.2/2022 redatta dal Commissariato di P.S. di Sorrento, inviate alla Questura di Napoli onde conseguire l’applicazione, nei confronti della ricorrente, del provvedimento ex art. 100 T.U.L.P.S. in ragione del “grave episodio occorso nella notte del 1 maggio c.a., verso le ore 3,20, quando per futili motivi si consumava una violenta rissa tra avventori, alcuni di questi affetti anche da pregiudizi e/o precedenti di polizia”;
   - di aver quindi in data 05.07.2022 inoltrato al competente dirigente un’istanza di accesso con cui aveva domandato il rilascio di copia degli atti da cui traeva origine il procedimento de quo teso all’adozione del provvedimento ex art. 100 T.U.L.P.S.;
   - in particolare, come precisato con la successiva nota del 13/07/2022, la ricorrente, invocando la necessità di essere posta nelle condizioni di esercitare il suo diritto alla difesa, domandava di ricevere copia dei seguenti atti:
      a) proposta -prot. n. 15/2 del 02/05/2022- di provvedimento ex art. 100 TULPS Compagnia Carabinieri Sorrento;
      b) nota -protoc. 62/40-1/2022 del 06/05/2022- Legione Carabinieri Campania–Stazione di Pimonte;
      c) nota -08/05/2022, cat Q.2.2/2022- Commissariato di P.S. Sorrento per l’applicazione del provvedimento ex art. 100 TULPS;
      d) nota –04/05/2022 cat. Q.2.2- del Commissariato di Polizia di Sorrento;
      d) le relazioni o i rapporti predisposti dal personale dei Carabinieri della Compagnia di Sorrento conseguenti anche la lettura delle immagini della videosorveglianza del locale;
      e) verbale di arresto (per il reato di cui agli artt. 61 n. 1 e 588 c.p.) dei quattro correi;
      f) ordinanza del GIP di convalida dell’arresto.
   - con la nota oggetto della presente impugnazione -18-19/07/2022 sez. VI cat Q/2.2OM- il dirigente della Polizia di Stato aveva consentito l’accesso agli atti limitatamente alla proposta –prot. n. 15/2 del 02/05/2022- di adozione del provvedimento ex art. 100, redatta dalla Compagnia Carabinieri di Sorrento.
Da tanto è scaturita la proposizione dell’odierno ricorso con cui la ricorrente, ribadito di avere un interesse giuridicamente rilevante alla conoscenza dei documenti richiesti in quanto necessari a ricostruire gli accadimenti ed a verificare se sussistessero gli estremi per l’adozione nei suoi confronti del preannunciato provvedimento, ha domandato che il Tribunale, annullato il parziale diniego perché fondato su ragioni contrastanti con principi e regole posti dagli artt. 22 l. n. 241/1990 e ss.mm., D.M n. 415/1994, D.P.R. n. 352/1992 in relazione agli artt. 7, 10 e 24 l. n. 241/1990 e ss.mm.ii., ed acclarata l'illegittimità della nota impugnata, ordinasse all’ente intimato di esibire i documenti richiesti.
Il Ministero dell’Interno ha resistito al ricorso, sostenendo l’inaccoglibilità nei termini richiesti dell’istanza proposta, avendo quest’ultima ad oggetto atti sottratti all'accesso dagli articoli 3 e 4 del D.M. 10.05.1994, n. 415 ("Regolamento per la disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi, in attuazione dell'art. 24, comma 4, della legge 07.08.1990, n. 241, recante nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi") e coperti da segreto investigativo essendo pendente un procedimento penale.
...
2.- Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito precisate.
Ai sensi dell'art. 24, comma 6, lett. c), della legge 07.08.1990, n. 241 il Governo può prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi "quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le azioni strettamente strumentali alla tutela dell'ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte, all'attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini”.
Il Ministero dell'interno, inoltre, con regolamento approvato con D.M. 10.05.1994, n. 415, all'art. 3, comma 1, elenca una serie di documenti inaccessibili per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero ai fini di prevenzione e repressione della criminalità, includendovi:
   a) le "relazioni di servizio ed altri atti o documenti presupposto per l'adozione degli atti o provvedimenti dell'autorità nazionale e delle altre autorità di pubblica sicurezza, nonché degli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza, ovvero inerenti all'attività di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica o di prevenzione e repressione della criminalità, salvo che si tratti di documentazione che, per disposizione di legge o di regolamento, debba essere unita a provvedimenti o atti soggetti a pubblicità";
   b) "le relazioni di servizio, informazioni ed altri atti o documenti inerenti ad adempimenti istruttori relativi a licenze, concessioni od autorizzazioni comunque denominate o ad altri provvedimenti di competenza di autorità o organi diversi, compresi quelli relativi al contenzioso amministrativo, che contengono notizie relative a situazioni di interesse per l'ordine e la sicurezza pubblica e all'attività di prevenzione e repressione della criminalità, salvo che, per disposizioni di legge o di regolamento, ne siano previste particolari forme di pubblicità o debbano essere uniti a provvedimenti o atti soggetti a pubblicità".
Orbene, l'art. 24 della L. n. 241/1990, nella versione riformulata dalla L. 11.02.2005, n. 15, ha sancito, elevando a rango superiore un principio già introdotto a livello regolamentare, l'esclusione dell'esibizione di atti utilizzati nel corso dell'attività giudiziaria o di polizia. Orbene, essendo stata sancita con legge ordinaria la sottrazione di tali categorie di documenti alla conoscibilità degli stessi interessati, in tale prospettiva non sono ostensibili, ex artt. 114 e 329 c.p.p., gli atti afferenti ad informative penali inoltrate nei confronti degli istanti, ad eventuali indagini in corso, in quanto relative ad un (eventuale) procedimento penale e rientranti perciò nella esclusiva disponibilità dell'organo requirente procedente. La previsione in esame è infatti chiaramente finalizzata ad escludere la piena ostensibilità delle relazioni di servizio che non costituiscono atti presupposti volti all'adozione di un provvedimento amministrativo, ma piuttosto atti volti a sollecitare l'iniziativa penale da parte dell'autorità giudiziaria, e quindi atti inerenti non allo svolgimento dell'attività amministrativa, quanto alla (diversa) attività di promozione e collaborazione dell'attività di prevenzione e repressione della criminalità (in tal senso: TAR Lazio, Roma, Sez. II-quater Sent., 14.05.2007, n. 4346).
In tale contesto normativo, il provvedimento impugnato non appare viziato per carenza di motivazione, in quanto si fonda su un conferente richiamo all'art. 3, comma 1, del D.M. n. 415/1994, atteso che la ricorrente, pur avendo avuto accesso alla proposta formulata in ordine all’adozione nei suoi confronti del provvedimento ex art. 100 TULPS, ha domandato l’accesso ad ulteriori atti chiaramente relativi alle indagini in corso nell’ambito del procedimento penale riguardanti la vicenda verificatasi in prossimità della sua sede aziendale (informative di polizia, relazioni probatorie in ordine all’immagini del sistema di videosorveglianza, verbale di arresto, ordinanza cautelare del GIP).
Le ragioni ostative all'accoglimento del chiesto accesso vanno, dunque, correlate ad una corretta interpretazione della normativa dettata in subiecta materia e, precisamente, delle disposizioni di cui all'art. 24 della legge n. 241/1990 sui documenti sottratti all'accesso e di quelle recate, in attuazione della suindicata norma dal Decreto Ministero Interno n. 415 del 1994 ( modificato con D.M. 17.11.1997 n. 508).
Invero, essendo la ratio sottesa alle predette disposizioni volta a realizzare il bilanciamento tra gli interessi privati nonché quelli sottesi alla sicurezza e alla conservazione dell'ordine pubblico con l’interesse alla riservatezza di soggetti terzi che potrebbero essere attinti dalle indagini penali, appare ragionevole ritenere che gli atti per cui è causa, consistenti nei verbali e informative di controllo della Polizia, sono sottratti all'accesso proprio perché volti a tutelare quell'interesse pubblico senz'altro meritevole di "maggiore apprezzamento".
In particolare, le annotazioni ovvero le informative di polizia giudiziaria che consistono in accertamenti compiuti dalle forze dell'ordine in sede di controllo del territorio non possono essere resi accessibili anche in funzione di tutela dell'agente di polizia giudiziaria che li redige, delle strutture operanti e delle fonti informative.
Gli atti in questione richiesti dalla ricorrente rispondono esattamente a quelle esigenze di sicurezza e prevenzione della criminalità e dell'ordine pubblico che la normativa di settore si preoccupa di tutelare in primis et ante omnia.
Detti documenti sono esclusi dalla ostensibilità in quanto la loro conoscenza appare suscettibile di arrecare un pregiudizio concreto agli interessi connessi alla sicurezza pubblica (Cons. Stato, Sez. IV, 28/10/2016 n. 4537, idem, di recente 31/03/2021 n. 2677) né a carico dell'amministrazione intimata appare ravvisabile un onere di motivazione sulla prevalenza dell'interesse pubblico, giacché la normativa di riferimento lo reputa presente in re ipsa nella natura dell'atto richiesto.
D’altronde, la giurisprudenza ha precisato che "l'accesso va effettivamente escluso per tutte le parti della documentazione in possesso dell'Amministrazione coperte da segreto istruttorio, in quanto afferenti a indagini preliminari o procedimenti penali in corso, o in quanto coinvolgenti, a qualunque titolo, terzi soggetti interessati dalle informative di polizia di sicurezza; ovvero, ancora, adducendo specifici motivi ostativi riconducibili ad imprescindibili esigenze di tutela di accertamenti di polizia di sicurezza e di contrasto alla delinquenza organizzata" (Consiglio di Stato, sez. IV, 28/10/2016, n. 4537).
In forza delle suestese considerazioni il ricorso avverso il diniego di accesso si rivela infondato e va, perciò, respinto (TAR Camoania-Napoli, Sez. V, sentenza 05.12.2022 n. 7578 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio e diritto, o meno, del proprietario di accedere ai verbali di accertamento redatti da parte dei Carabinieri.
Il privato che subisce un procedimento di controllo vanta un interesse qualificato a conoscere tutti i documenti utilizzati per l’esercizio del potere, inclusi, di regola, gli esposti, le diffide e le denunce che abbiano determinato l’attivazione di un potere di controllo, ispettivo o di vigilanza dell’autorità, salve ragioni di particolare riservatezza o di segreto istruttorio, nel caso di specie non comprovate dall’Amministrazione neppure in corso di causa.
In relazione a quanto controdedotto dal Ministero della difesa, va evidenziata infatti la evanescenza della ragione ostativa opposta, afferente alla mera pendenza di un, non meglio precisato, procedimento penale e mancando qualsivoglia puntuale evidenziazione di ragioni di segretezza in relazione agli specifici documenti, o parti di documenti, richiesti dalla ricorrente.
Sul punto, costante giurisprudenza ha invero chiarito che l'esistenza di un’indagine penale “non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso”.
Invero, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denuncia all'autorità giudiziaria.
La sussistenza in concreto delle stringenti condizioni in presenza delle quali è possibile negare o differire l’accesso c.d. “difensivo”, non sono state comprovate in giudizio dal Ministero della difesa; né il Comune, che non si è neppure costituito in giudizio, ha opposto alcuna esigenza, anche parziale, di segretezza e/o di riservatezza in riferimento alla documentazione richiesta.

---------------

... per l'annullamento
   - del silenzio–rigetto formatosi sull'istanza di accesso trasmessa dalla Sig.ra -OMISSIS- a mezzo pec in data 16.06.2022;
   - e per la declaratoria del diritto della ricorrente di esercitare il diritto di ostensione (visione ed estrazione copia) della documentazione richiesta.
...
La ricorrente espone che:
   - con istanza del 21.02.del 2022, in qualità di erede aveva chiesto e ottenuto la voltura del permesso di costruire n. -OMISSIS- del 29.08.2019 e del permesso a costruire in variante n. -OMISSIS-/2021 rilasciati al deceduto dott. -OMISSIS- per la realizzazione di un compendio rurale composto da due corpi di fabbrica con opere accessorie e sistemazione degli spazi esterni;
   - nel corso dell'esecuzione dei lavori, il cantiere veniva attinto da numerosi accertamenti/sopralluoghi effettuati dal Comune di Procida e dal Comando dei Carabinieri, da ultimo in data 24.05.2022;
   - in data 16.06.2022 formulava istanza di accesso, ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge 241/1990, evidenziando il suo interesse “difensivo” e chiedendo di “prendere visione ed estrarre copia: 1. di tutti i verbali, accertamenti, relazioni redatti a seguito dei sopralluoghi effettuati con riferimento all'esecuzione delle opere di cui al Permesso di Costruire n. -OMISSIS- del 29.08.2019 e del Permesso di Costruire in variante volturati alla scrivente; 2. di tutti gli eventuali esposti, denunce e/o diffide presentati da terzi (anche oralmente e verbalizzati) nei confronti della mia assistita”, chiedendo anche, ai sensi dell'art. 5, comma 2, D.lgs. n. 33/2013, di conoscere “3. Se i sopralluoghi effettuati siano stati promossi di ufficio e/o ad istanza di parte c/o a seguito di delega di indagini da parte della Procura competente; 4. Laddove siano stati promossi di ufficio e/o ad istanza di parte, se per gli stessi sia stata operata una valutazione tecnico-discrezionale a monte circa la necessità del sopralluogo”;
   - l’Amministrazione non aveva dato risposta e si era formato il silenzio-rigetto sull’istanza di accesso documentale stante il decorso del termine di trenta giorni previsto dall’art. 25, comma 4, della legge n. 241 del 1990.
Di qui la proposizione del presente ricorso, con cui la ricorrente precisa che intende censurare il solo silenzio-rigetto formatosi sull’istanza di accesso ex lege n. 241 del 1990 e ne lamenta l’illegittimità, rimarcando il suo interesse all’accesso alla documentazione richiesta al fine di tutelare la sua posizione giuridico-economica, anche in sede giurisdizionale, e l’assenza delle condizioni che, ex art. 24 della legge n. 241 del 1990, consentono il diniego o il differimento.
Il Comune intimato non si è costituito in giudizio.
Si è costituito il giudizio il Ministero della difesa chiedendo la reiezione del ricorso perché gli atti richiesti non sarebbero stati ostesi dalla Stazione dei Carabinieri perché “coperti da segreto in quanto inerenti un procedimento penale pendente”.
Con memoria depositata il 21.10.2022, la ricorrente ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
Il ricorso va accolto, considerato che la ricorrente vanta un interesse concreto, personale ed attuale ad accedere alla documentazione richiesta ai fini di tutela della sua posizione giuridica, trattandosi di documentazione riguardante i diversi accertamenti compiuti dall’Amministrazione sull’immobile in relazione al quale la ricorrente aveva ottenuto la voltura delle concessioni edilizie del de cuius e stava realizzando i lavori; e considerato che non risultano concretamente opposte dalle Amministrazioni intimate ragioni idonee a negare o differire l’accesso richiesto.
Secondo condivisibile giurisprudenza, infatti, il privato che subisce un procedimento di controllo vanta un interesse qualificato a conoscere tutti i documenti utilizzati per l’esercizio del potere, inclusi, di regola, gli esposti, le diffide e le denunce che abbiano determinato l’attivazione di un potere di controllo, ispettivo o di vigilanza dell’autorità, salve ragioni di particolare riservatezza o di segreto istruttorio, nel caso di specie non comprovate dall’Amministrazione neppure in corso di causa (cfr. Consiglio di Stato, sent. n. 3128 del 2018; Tar Latina, sent. n. 551 del 2022).
In relazione a quanto controdedotto dal Ministero della difesa, va evidenziata infatti la evanescenza della ragione ostativa opposta, afferente alla mera pendenza di un, non meglio precisato, procedimento penale e mancando qualsivoglia puntuale evidenziazione di ragioni di segretezza in relazione agli specifici documenti, o parti di documenti, richiesti dalla ricorrente.
Sul punto, costante giurisprudenza, anche di questa Sezione, ha invero chiarito che l'esistenza di un’indagine penale “non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso” (cfr., tra le altre, Tar Campania, Napoli, sent. n. 1482 del 2022; n. 7712 del 2021).
Invero, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denuncia all'autorità giudiziaria (cfr., tra le altre, Tar Napoli, sent. n. 1253 del 2017).
La sussistenza in concreto delle stringenti condizioni in presenza delle quali è possibile negare o differire l’accesso c.d. “difensivo”, non sono state comprovate in giudizio dal Ministero della difesa; né il Comune, che non si è neppure costituito in giudizio, ha opposto alcuna esigenza, anche parziale, di segretezza e/o di riservatezza in riferimento alla documentazione richiesta.
Per quanto sopra, pertanto, il ricorso va accolto e va ordinato alle Amministrazioni intimate di ostendere alla ricorrente la documentazione richiesta con l’istanza di accesso documentale presentata ex art. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990, entro trenta giorni dalla comunicazione, o dalla notifica di parte se anteriore, della presente sentenza (TAR Campania-Napoli, Sez,. VI, sentenza 30.11.2022 n. 7467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIDeve essere preliminarmente escluso che il silenzio serbato dall’Amministrazione sia illegittimo per violazione del generale obbligo di concludere il procedimento, in quanto l’art. 116 c.p.a., nel dettare la disciplina del rito in materia di accesso ai documenti amministrativi, qualifica il silenzio serbato sull’istanza di accesso come un silenzio-significativo di segno negativo (silenzio-rifiuto).
Né può ritenersi che esso sia privo di adeguata motivazione, in quanto il silenzio-rifiuto formatosi in relazione all’istanza di accesso risulta giustificato dalla segretazione del verbale che ne è oggetto, in quanto atto presupposto, posto alla base dell’indagine penale che riguarda l’odierno ricorrente.
Come chiarito dalla giurisprudenza, infatti, sebbene “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine”, debbono ritenersi sottratti al diritto di accesso quelli coperti da segreto: categoria alla quale debbono essere ricondotte anche le informative penali trasmesse dalla polizia locale, volte a sollecitare l'iniziativa penale da parte dell'autorità giudiziaria, le quali si caratterizzano per essere “atti inerenti non allo svolgimento dell'attività amministrativa, quanto alla (diversa) attività di promozione e collaborazione dell'attività di prevenzione e repressione della criminalità”.
Dunque, non si ravvisa ragione di discostarsi dal principio affermato nella sentenza da ultimo citata, nella quale si legge: “Non sono, dunque, ostensibili, ex artt. 114 e 329 c.p.p., gli atti afferenti ad informative penali inoltrate nei confronti degli istanti, ad eventuali indagini in corso, in quanto relative ad un (eventuale) procedimento penale e rientranti perciò nella esclusiva disponibilità dell'organo requirente procedente”. Circostanza che ricorre anche nella fattispecie.
---------------

... per l'annullamento
   - del silenzio-rigetto con cui è stata di fatto negata l’ostensione della segnalazione del Servizio Operativo di Polizia Locale del Comune di -OMISSIS- del 15.06.2022;
...
Il ricorrente gestisce da sette anni un pubblico esercizio, nel quale asserisce di essere stato aggredito da un gruppo di giovani avventori in data 14.06.2022.
Dopo la querela presentata dal gestore nei confronti degli aggressori, lo stesso è stato destinatario di una sospensione, ex art. 100 del TULPS, della licenza di somministrazione, come da provvedimento notificato il 22.06.2022 e fondato esclusivamente sulla segnalazione del Servizio Operativo della Polizia Locale di -OMISSIS- del 15.06.2022, recante la ricostruzione, secondo gli agenti intervenuti, della dinamica del fatto.
Tale ordinanza è stata impugnata con ricorso sub RG 1013/2022, ma per articolare una compiuta difesa, il sig. -OMISSIS- ha inoltrato al Comune una richiesta di rilascio di copia della citata segnalazione della Polizia Locale che non è stata mai evasa.
L’implicito diniego all’esercizio del diritto di accesso opposto attraverso la mancata risposta all’istanza sarebbe viziato dalla violazione degli articoli 1, 2, 3, 23, 24 e 25 della legge n. 241/1990 e dell’art.24 della Costituzione. Soltanto la piena conoscenza dei contenuti della richiamata relazione potrebbe, infatti, secondo quanto sostenuto in ricorso, consentire al Sig. -OMISSIS- di censurare compiutamente gli atti lesivi assunti nei confronti dello stesso dalla PA, nonché di esercitare le proprie prerogative nel procedimento penale. In ogni caso, in assenza di un esplicito diniego, il rigetto dell’istanza sarebbe totalmente privo di motivazione e il silenzio serbato integrerebbe una violazione dell’obbligo di conclusione del procedimento con un provvedimento espresso.
Si è costituito in giudizio il Comune intimato, rappresentando come il Responsabile del Servizio Operativo di Polizia Locale -previo confronto con il sostituto procuratore responsabile del procedimento penale della cui esistenza era ben a conoscenza anche il ricorrente, che ne dà atto nel ricorso, e che risulta essere ancora pendente- abbia qualificato la documentazione richiesta come “segretata e non disponibile”.
Tutto ciò premesso, deve essere preliminarmente escluso che il silenzio serbato dall’Amministrazione sia illegittimo per violazione del generale obbligo di concludere il procedimento, in quanto l’art. 116 c.p.a., nel dettare la disciplina del rito in materia di accesso ai documenti amministrativi, qualifica il silenzio serbato sull’istanza di accesso come un silenzio-significativo di segno negativo (silenzio-rifiuto).
Né può ritenersi che esso sia privo di adeguata motivazione, in quanto il silenzio-rifiuto formatosi in relazione all’istanza di accesso risulta giustificato dalla segretazione del verbale che ne è oggetto, in quanto atto presupposto, posto alla base dell’indagine penale che riguarda l’odierno ricorrente.
Come chiarito dalla giurisprudenza, infatti, sebbene “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine” (TAR Palermo, I, 12.10.2020, n. 2057, richiamata in TAR Puglia, Lecce, Sezione 2, Sentenza 03.01.2022 n. 8), debbono ritenersi sottratti al diritto di accesso quelli coperti da segreto: categoria alla quale debbono essere ricondotte anche le informative penali trasmesse dalla polizia locale, volte a sollecitare l'iniziativa penale da parte dell'autorità giudiziaria, le quali si caratterizzano per essere “atti inerenti non allo svolgimento dell'attività amministrativa, quanto alla (diversa) attività di promozione e collaborazione dell'attività di prevenzione e repressione della criminalità” (cfr. Tar Aquila, sez. I, 27.10.2017, n. 454).
Dunque, non si ravvisa ragione di discostarsi dal principio affermato nella sentenza da ultimo citata, nella quale si legge: “Non sono, dunque, ostensibili, ex artt. 114 e 329 c.p.p., gli atti afferenti ad informative penali inoltrate nei confronti degli istanti, ad eventuali indagini in corso, in quanto relative ad un (eventuale) procedimento penale e rientranti perciò nella esclusiva disponibilità dell'organo requirente procedente”. Circostanza che ricorre anche nella fattispecie (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 28.11.2022 n. 1814 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - SICUREZZA LAVOROSi devono qui richiamare, in via preliminare, i principi elaborati in via interpretativa dalla giurisprudenza amministrativa relativamente ai presupposti di ammissibilità dell’accesso documentale a norma degli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990.
In base alla disciplina normativa prevista per tale forma di accesso, la pretesa ostensiva risulta circoscritta sul piano soggettivo, richiedendo ai fini del relativo riconoscimento la sussistenza di un interesse conoscitivo finalizzato alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti: ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b), L. n. 241/1990, infatti, vengono definiti “interessati” all’accesso non tutti i soggetti indiscriminatamente, ma soltanto i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse “diretto”, “concreto” e “attuale”, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso.
In base al consolidato orientamento giurisprudenziale maturato sul tema, la richiesta legittimazione attiva è configurata in relazione al requisito della “
strumentalità” dell’accesso, declinato dal citato art. 22, comma 1, lett. b), L. n. 241/1990, come finalizzazione della domanda ostensiva alla cura di un interesse diretto, concreto, attuale -e non meramente emulativo o potenziale- connesso alla disponibilità dell'atto o del documento del quale si richiede l'accesso.
Sul punto è stato evidenziato, in sede giurisprudenziale, che la nozione di “strumentalità” –relativamente alla figura dell’accesso c.d. “ordinario” di cui agli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990– va intesa in senso ampio, in termini di utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante.
In tale prospettiva, la valutazione in ordine al legame tra finalità dichiarata e documento richiesto –quale presupposto di ammissibilità della pretesa ostensiva– va effettuata in astratto, senza apprezzamenti sull’eventuale infondatezza o inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente, una volta conosciuti gli atti in questione, potrebbe proporre, risultando sufficiente che la documentazione richiesta costituisca mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante, non dovendo rappresentare uno strumento di prova diretta della lesione di tale interesse.
L’assetto delineato corrisponde, in particolare, alla definizione in via legislativa –operata nel contesto dell’istituto dell’accesso documentale– “di un delicato equilibrio tra due esigenze contrapposte, l’una alla più ampia trasparenza dell’amministrazione, l’altra ad escludere tutela a quelle istanze meramente pretestuose o comunque ingiustificate”.
In tale prospettiva, è stato evidenziato che “il diritto all’accesso documentale –pur essendo finalizzato ad assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa ed a favorirne lo svolgimento imparziale- non si configura come un’azione popolare, esercitabile da chiunque, indipendentemente da una posizione giuridicamente differenziata; ne consegue che l’accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti si riferiscono direttamente o indirettamente, e comunque solo laddove essi se ne possano avvalere per tutelare una posizione giuridicamente rilevante”.
Nell’ottica delineata, è richiesta –alla luce del disposto contenuto nell’articolo 25, comma 2, L. n. 241/1990 ai sensi del quale «la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata»– una puntuale e specifica deduzione delle finalità dell’accesso nell’ambito dell’istanza di ostensione, in modo da consentire la valutazione in ordine alla ricorrenza del nesso di strumentalità previsto dall’art. 22 L. n. 241/1990, come altresì ribadito nella recente sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 18.03.2021, n. 4.
Il prescritto nesso di strumentalità, dunque, se pure declinato in un’accezione ampia, non può in ogni caso prescindere dall’allegazione di elementi sufficienti ad estrinsecare il collegamento tra interesse dedotto, situazione giuridica azionata e documentazione richiesta.
Viepiù che l’art. 24 della l. 241/1990, nella parte di interesse, stabilisce: “1. Il diritto di accesso è escluso:
a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24.10.1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo.
... 6. Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400, il Governo può prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi:
... c) quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le azioni strettamente strumentali alla tutela dell'ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte, all'attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini.
Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici.
Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall' articolo 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.
La Giurisprudenza ha condivisibilmente precisato che <<la norma in esame debba essere interpretata in senso non strettamente letterale, giacché altrimenti sorgerebbero dubbi sulla sua legittimità, in quanto si determinerebbe una sottrazione sostanzialmente generalizzata alle richieste ostensive di quasi tutti i documenti formati dall'Amministrazione dell'Interno, con palese frustrazione delle finalità perseguite dalla L. n. 241 del 1990>>.
---------------
Nel caso di specie, è evidente l’interesse “difensivo” fatto valere da parte ricorrente, la quale ha chiesto di conoscere gli atti presupposti del disconoscimento delle giornate lavorative nei propri confronti, onde verificare la legittimità di tale operazione e far valere, se del caso, le proprie contrarie ragioni nelle sedi competenti..
Ne deriva che il diniego impugnato è illegittimo, considerato che l’astratta previsione di sottrazione di determinati atti all’accesso non va intesa in senso assoluto, ma va riferita al singolo caso concreto, in relazione al quale l’Ente è chiamato ad effettuare un bilanciamento tra l’interesse fatto valere dal richiedente l’accesso e l’eventuale riservatezza del soggetto controinteressato.
Invero, qualora emergano profili di riservatezza contrastanti con l’ostensione degli atti o cause di ostensibilità dei documenti amministrativi, tali profili possano essere adeguatamente tutelati tramite l’oscuramento.
Né risulta, peraltro, di ostacolo all’ostensione degli atti richiesti l’avere l’INPS, all’esito dell’espletata istruttoria, trasmesso comunicazione di notizia di reato alla competente Procura della Repubblica, avendo la giurisprudenza amministrativa condivisibilmente chiarito che l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell' art. 329 c.p.p, di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990.
---------------

... per l'annullamento:
   - del diniego di accesso agli atti dell'Amministrazione in epigrafe comunicato con pec del 28/02/2022 avente ad oggetto “…Lo. istanza di accesso 27.01.2022.pdf INPS.7201.28/01/2022.0030473] [INPS.7201.28/02 /2022.0071062]”, rispetto all'istanza avente ad oggetto “Sig. Ca.Lo. – Provvedimento di disconoscimento di rapporto di lavoro subordinato – prot. n. INPS 7201.09/11/2021.0297976. Istanza di accesso agli atti ex art. 22 e seguenti della Legge n. 241/1990” proposta (tramite lo scrivente difensore a firma congiunta con il ricorrente) e poi rinviata su richiesta della P.A. tramite apposito modello ed a quest'ultimo ritrasmessa a mezzo pec, consegnata in data 01.02.2022;
   - nonché ove occorra in parte qua (articolo 14, comma 2, richiamato nel provvedimento impugnato) del Regolamento per l'Accesso agli Atti dell'INPS (determinazione prot. n. 366 del 05/08/2011).
...
Il Collegio ritiene di dover richiamare, in via preliminare, i principi elaborati in via interpretativa dalla giurisprudenza amministrativa relativamente ai presupposti di ammissibilità dell’accesso documentale a norma degli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990.
In base alla disciplina normativa prevista per tale forma di accesso, la pretesa ostensiva risulta circoscritta sul piano soggettivo, richiedendo ai fini del relativo riconoscimento la sussistenza di un interesse conoscitivo finalizzato alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti: ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b), L. n. 241/1990, infatti, vengono definiti “interessati” all’accesso non tutti i soggetti indiscriminatamente, ma soltanto i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse “diretto”, “concreto” e “attuale”, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, sent. 11.01.2019, n. 249 e sez. V, sent. 21.08.2017, n. 4043).
In base al consolidato orientamento giurisprudenziale maturato sul tema, la richiesta legittimazione attiva è configurata in relazione al requisito della “strumentalità” dell’accesso, declinato dal citato art. 22, comma 1, lett. b), L. n. 241/1990, come finalizzazione della domanda ostensiva alla cura di un interesse diretto, concreto, attuale -e non meramente emulativo o potenziale- connesso alla disponibilità dell'atto o del documento del quale si richiede l'accesso.
Sul punto è stato evidenziato, in sede giurisprudenziale, che la nozione di “strumentalità” –relativamente alla figura dell’accesso c.d. “ordinario” di cui agli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990– va intesa in senso ampio, in termini di utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, sent. 15.05.2017 n. 2269, sez. III, sent. 16.05.2016 n. 1978 e sez. IV, sent. 06.08.2014 n. 4209).
In tale prospettiva, la valutazione in ordine al legame tra finalità dichiarata e documento richiesto –quale presupposto di ammissibilità della pretesa ostensiva– va effettuata in astratto, senza apprezzamenti sull’eventuale infondatezza o inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente, una volta conosciuti gli atti in questione, potrebbe proporre, risultando sufficiente che la documentazione richiesta costituisca mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante, non dovendo rappresentare uno strumento di prova diretta della lesione di tale interesse (in termini, cfr. ex multis Cons. Stato, sez. III, sent. 13.01.2012, n. 116).
L’assetto delineato corrisponde, in particolare, alla definizione in via legislativa –operata nel contesto dell’istituto dell’accesso documentale– “di un delicato equilibrio tra due esigenze contrapposte, l’una alla più ampia trasparenza dell’amministrazione, l’altra ad escludere tutela a quelle istanze meramente pretestuose o comunque ingiustificate” (in tal senso, cfr. Cons. St., sent. n. 249/2019, cit.).
In tale prospettiva, è stato evidenziato che “il diritto all’accesso documentale –pur essendo finalizzato ad assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa ed a favorirne lo svolgimento imparziale- non si configura come un’azione popolare, esercitabile da chiunque, indipendentemente da una posizione giuridicamente differenziata; ne consegue che l’accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti si riferiscono direttamente o indirettamente, e comunque solo laddove essi se ne possano avvalere per tutelare una posizione giuridicamente rilevante” (cfr. Cons. Stato, sez. V, sent. 14.09.2017, n. 4346).
Nell’ottica delineata, è richiesta –alla luce del disposto contenuto nell’articolo 25, comma 2, L. n. 241/1990 ai sensi del quale «la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata»– una puntuale e specifica deduzione delle finalità dell’accesso nell’ambito dell’istanza di ostensione, in modo da consentire la valutazione in ordine alla ricorrenza del nesso di strumentalità previsto dall’art. 22 L. n. 241/1990, come altresì ribadito nella recente sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 18.03.2021, n. 4.
Il prescritto nesso di strumentalità, dunque, se pure declinato in un’accezione ampia, non può in ogni caso prescindere dall’allegazione di elementi sufficienti ad estrinsecare il collegamento tra interesse dedotto, situazione giuridica azionata e documentazione richiesta.
Viepiù che l’art. 24 della l. 241/1990, nella parte di interesse, stabilisce: “1. Il diritto di accesso è escluso:
a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24.10.1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo.
... 6. Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400, il Governo può prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi:
... c) quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le azioni strettamente strumentali alla tutela dell'ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte, all'attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini.
Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici.
Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall' articolo 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale
”.
La Giurisprudenza (cfr. TAR Bari, III, 06.02.2018, n. 151) ha condivisibilmente precisato che <<la norma in esame debba essere interpretata in senso non strettamente letterale, giacché altrimenti sorgerebbero dubbi sulla sua legittimità, in quanto si determinerebbe una sottrazione sostanzialmente generalizzata alle richieste ostensive di quasi tutti i documenti formati dall'Amministrazione dell'Interno, con palese frustrazione delle finalità perseguite dalla L. n. 241 del 1990 (cfr. TAR Lazio, Latina, Sez. I, 06.10.2010, n. 1653; id., 15.10.2009, n. 949)>>.
Ebbene, facendo applicazione dei principi legislativi e giurisprudenziali testé richiamati, va detto che il ricorso è fondato e, pertanto, deve essere accolto, tenuto conto che, nel caso di specie, è evidente l’interesse “difensivo” fatto valere da parte ricorrente, la quale ha chiesto di conoscere gli atti presupposti del disconoscimento delle giornate lavorative nei propri confronti, onde verificare la legittimità di tale operazione e far valere, se del caso, le proprie contrarie ragioni nelle sedi competenti (come specificato nell’istanza di accesso).
Ne deriva che il diniego impugnato è illegittimo, considerato che l’astratta previsione di sottrazione di determinati atti all’accesso non va intesa in senso assoluto, ma va riferita al singolo caso concreto, in relazione al quale l’Ente è chiamato ad effettuare un bilanciamento tra l’interesse fatto valere dal richiedente l’accesso e l’eventuale riservatezza del soggetto controinteressato.
Invero, qualora emergano profili di riservatezza contrastanti con l’ostensione degli atti o cause di ostensibilità dei documenti amministrativi, tali profili possano essere adeguatamente tutelati tramite l’oscuramento (ex multis, Tar Catania, sentenza 1737/2018).
Né risulta, peraltro, di ostacolo all’ostensione degli atti richiesti l’avere l’INPS, all’esito dell’espletata istruttoria, trasmesso comunicazione di notizia di reato alla competente Procura della Repubblica, avendo la giurisprudenza amministrativa condivisibilmente chiarito che l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell' art. 329 c.p.p, di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990 (TAR Lecce, II, 03.01.2022, n. 8; TAR Palermo, I, 12.10.2020, n. 2057, nonché la giurisprudenza ivi citata).
Consegue l’accoglimento del ricorso, facendo obbligo all’Amministrazione di consentire l’accesso, fatti salvi i soli, specifici atti e documenti sottratti all’ostensione alla stregua dei principi sopra indicati.
L’accoglimento del motivo principale di ricorso consente di poter dichiarare assorbita la domanda, peraltro avanzata in via subordinata, con cui il ricorrente ha chiesto l’annullamento del regolamento per l'Accesso agli Atti dell'INPS (determinazione prot. n. 366 del 05/08/2011) (TAR Campania-Salerno, Sez. III, sentenza 27.06.2022 n. 1850 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - SICUREZZA LAVORO: Colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a partire dagli atti di iniziativa e di “preiniziativa” quali, appunto, denunce, segnalazioni o esposti.
Non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e, come tale, sottratto all'accesso.
In particolare è stato affermato che l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241 e ss., non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990;
Nel caso in esame gli atti richiesti dalla ricorrente non sono gli atti di indagine posti in essere dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, ma sono gli atti amministrativi propedeutici e relativi alle ispezioni disposte, che le Amministrazioni interpellate detengono, tenuto conto che nulla è stato riferito e comprovato dalla difesa erariale in merito alla secretazione o sequestro degli stessi da parte dell’Autorità giudiziaria penale.
A ciò si aggiunga che la presentazione di un esposto non può considerarsi un fatto circoscritto al suo autore e all'Amministrazione competente all'avvio di un eventuale procedimento, ma riguarda direttamente anche i soggetti comunque incisi in qualità di denunciati, per cui anche tale documento può essere oggetto di ostensione.
Si rammenta, sul punto, che, al di fuori di particolari ipotesi in cui il soggetto denunciante potrebbe essere esposto, in ragione dei rapporti con il soggetto denunciato, ad azioni discriminatorie o indebite pressioni, la tutela della riservatezza non può assumere un'estensione tale da includere il diritto all'anonimato dei soggetti che abbiano assunto iniziative comunque incidenti nella sfera giuridica di terzi; ciò perché il principio di trasparenza che informa l'ordinamento giuridico ed i rapporti tra consociati e pubblica amministrazione si frappone, infatti, ad una soluzione che impedisca all'interessato di conoscere i contenuti degli esposti e i loro autori, anche nel caso in cui i conseguenti accertamenti abbiano dato esito negativo.
In sostanza, colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a partire dagli atti di iniziativa e di “preiniziativa” quali, appunto, denunce, segnalazioni o esposti.

---------------

... per l'annullamento
   - della nota prot. n. -OMISSIS- datata XX/12/2021 e della nota prot. n. -OMISSIS- datata XX/12/2021, del Comando Carabinieri per la Tutela della Salute - N.A.S. di Latina, con le quali è stata respinta la richiesta d'accesso della ricorrente datata 18/11/2021, relativa ai documenti presupposti e consequenziali l'ispezione sanitaria eseguita in data 24/08/2021 dai Militari dei N.A.S. di Latina;
   - nonché per il conseguente ordine di esibizione, dettando, ove occorra, le relative modalità, ai sensi dell'art. 116, co. 4, c.p.a. 
...
Considerato che:
   - ai sensi dell’art. 116, comma 4, c.p.a., nel rito in materia di accesso agli atti amministrativi, il giudice decide con sentenza in forma semplificata;
   - dalla documentazione depositata in giudizio, anche dalle Amministrazioni costituite, non risulta la pendenza di alcun procedimento penale nei confronti del rappresentante legale della ricorrente per i fatti oggetto delle ispezioni suddette;
   - il Collegio ricorda che il diritto di accesso in funzione difensiva è garantito dall'art. 24, comma 7, della L. 241/1990 che, nel rispetto dell’art. 24 della Costituzione, prevede, con una formula di portata generale, che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, purché sia dimostrata una effettiva necessità di tutela di interessi che si assumano lesi;
   - pertanto, nel caso di specie, non vi è dubbio che la società istante vanta un interesse personale, concreto ed attuale alla ostensione su ispezioni riguardanti controlli sanitari i cui esiti potrebbero portare a sanzioni amministrative legate all’eventuale provvedimento “in fieri”;
   - non si ritiene applicabile il motivo di esclusione dell’ostensione di cui all’art. 24, comma 1, l. n. 241/1990 legato a quanto previsto dall’art. 329 c.p.p., secondo cui “gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”;
   - risulta, infatti, che nel caso di specie non vi sia alcun procedimento penale a carico del rappresentante legale, in assenza anche di indicazione di riscontro da parte della Procura della Repubblica competente a cui si era rivolto lo stesso NAS di Latina a tale scopo;
   - ne deriva che il diniego risulta fondato solo sull’”interessamento” della stessa Procura come così definito delle note impugnate;
   - a tal fine, però, il Collegio richiama la giurisprudenza per la quale non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratto all'accesso (Cons. Stato, Sez. VI, 29.01.2013, n. 547 e 10.04.2003, n. 1923; TAR Sicilia, Pa, Sez. I, 20.05.2020, n. 1006 e Ct, Sez. III, 01.02.2017, n. 229);
   - in particolare è stato affermato che l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso; infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241 e ss., non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990;
   - nel caso in esame gli atti richiesti dalla ricorrente non sono gli atti di indagine posti in essere dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, ma sono gli atti amministrativi propedeutici e relativi alle ispezioni disposte, che le Amministrazioni interpellate detengono, tenuto conto –come detto– che nulla è stato riferito e comprovato dalla difesa erariale in merito alla secretazione o sequestro degli stessi da parte dell’Autorità giudiziaria penale;
   - a ciò si aggiunga che la presentazione di un esposto non può considerarsi un fatto circoscritto al suo autore e all'Amministrazione competente all'avvio di un eventuale procedimento, ma riguarda direttamente anche i soggetti comunque incisi in qualità di denunciati, per cui anche tale documento può essere oggetto di ostensione (Tar Lazio, Sez. II, 04.06.2020, n. 5955);
   - si rammenta, sul punto, che, al di fuori di particolari ipotesi in cui il soggetto denunciante potrebbe essere esposto, in ragione dei rapporti con il soggetto denunciato, ad azioni discriminatorie o indebite pressioni, la tutela della riservatezza non può assumere un'estensione tale da includere il diritto all'anonimato dei soggetti che abbiano assunto iniziative comunque incidenti nella sfera giuridica di terzi; ciò perché il principio di trasparenza che informa l'ordinamento giuridico ed i rapporti tra consociati e pubblica amministrazione si frappone, infatti, ad una soluzione che impedisca all'interessato di conoscere i contenuti degli esposti e i loro autori, anche nel caso in cui i conseguenti accertamenti abbiano dato esito negativo (TAR Liguria, Sez. I, 07.07.2019, n. 510);
   - in sostanza, colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a partire dagli atti di iniziativa e di “preiniziativa” quali, appunto, denunce, segnalazioni o esposti (TAR Toscana, Sez. I, 03.7.2017, n. 898; TAR Lombardia, Bs, Sez. I, 12.07.2016, n. 980; TAR Lazio, Sez. III, 01.06.2011, n. 4989 e Cons. Stato, Sez. V, 19.05.2009, n. 3081);
   - il ricorso, pertanto, deve essere accolto, e per l’effetto devono annullarsi le note impugnate con le quali l’Amministrazione ha denegato l’accesso ai documenti richiesti, con conseguenziale diritto della società ricorrente all’accesso documentale di cui è causa, in relazione alla documentazione indicata nell’istanza di accesso, mediante esame integrale ed estrazione di copia dei relativi documenti amministrativi e condanna dell’intimata Amministrazione a porre in essere le dovute attività entro il termine di giorni 30 (trenta) dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza (TAR Lazio-Latina, sentenza 23.06.2022 n. 551 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'esistenza di un'indagine penale non è di per sé causa ostativa all’accesso a documenti che siano confluiti nel fascicolo del procedimento penale o che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine.
Invero, secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale “non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratto all’accesso; laddove, infatti, la denuncia sia riconducibile all'esercizio delle istituzionali funzioni amministrative, l'atto non ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 329 c.p.p. e non può ritenersi coperto dal segreto istruttorio. Diversamente, se la pubblica amministrazione trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p.”.
In buona sostanza, in materia di accesso alla documentazione amministrativa deve escludersi che sia coperto dal segreto istruttorio penale l'atto di denuncia dei fatti a carico del richiedente, rimesso dall'amministrazione alla magistratura inquirente, trattandosi di atto non riservato ai sensi dell'art. 329 c.p.p., emanato nello svolgimento di attività istituzionale amministrativa.
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria.
Tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, L. 07.08.1990, n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, L. n. 241 del 1990.
---------------
... per l’esercizio del diritto di accesso
quanto al ricorso n. 58 del 2022:
   - AGLI ATTI DEL PROCEDIMENTO DI VERIFICA URBANISTICO EDILIZIA RIGUARDANTE UN IMMOBILE DI PROPRIETA’;
e per l’annullamento
   - DELLA DETERMINAZIONE DEL RESPONSABILE DELL’UNITA’ OPERATIVA URBANISTICA ED EDILIZIA COMUNICATA VIA PEC IL 14/12/2021, RECANTE IL DINIEGO SULL’ISTANZA OSTENSIVA;
   - DELLA NOTA DIRIGENZIALE TRASMESSA IL 04/01/2022 IN RISPOSTA ALLE CONTRODEDUZIONI, AVENTE CONTENUTO SFAVOREVOLE.
quanto al ricorso n. 157 del 2022:
   - AGLI ATTI DEL PROCEDIMENTO DI VERIFICA URBANISTICO EDILIZIA RIGUARDANTE UN IMMOBILE DI PROPRIETA’;
e per l’annullamento
   - DELLA DETERMINAZIONE DEL RESPONSABILE DELL’UNITA’ OPERATIVA URBANISTICA ED EDILIZIA COMUNICATA VIA PEC L’08/02/2022, RECANTE IL DINIEGO SULL’ISTANZA OSTENSIVA;
   - DELLA DETERMINAZIONE CONFERMATIVA 15/02/2022, IN RISPOSTA AL SOLLECITO;
   - DELLA COMUNICAZIONE 03/02/2022.
...
Dato atto:
   - che l’amministrazione intimata non si è costituita in giudizio;
   - che, con ordinanza collegiale 07/04/2022 n. 330, questo TAR ha disposto il compimento di attività istruttoria “affinché l’Ente locale si soffermi sulle ragioni sottese al rifiuto dell’istanza ostensiva, e chiarisca con precisione i contorni dell’affermata esistenza di un “procedimento penale in corso”;
   - che si trattava in altri termini “di puntualizzare se effettivamente l’attività di controllo sia stata posta in essere nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria previsti dall’ordinamento, nell’ambito di un’indagine penale”;
Atteso:
   - che il Comune intimato –nella propria relazione– ha ricostruito la dinamica fattuale, dando conto dell’avvenuta ostensione del verbale di accertamento (con relativi allegati), formato a seguito di sopralluogo originato da un esposto;
   - che il verbale è stato inoltrato all’autorità giudiziaria da parte degli agenti di Polizia Locale;
   - che, nel prosieguo, si è sviluppato un contraddittorio, all’esito del quale è stata completata l’indagine ed emesso un verbale aggiornato (in data 08/03/2022) a sua volta trasmesso alla Procura della Repubblica competente;
   - che, dopo ulteriori approfondimenti, alcuni degli abusi contestati sono stati dichiarati non rilevanti per la pubblica incolumità, e per altri si sono riscontrate violazioni alla normativa tecnica per l’edilizia, con segnalazione all’autorità giudiziaria;
   - che l’esclusione/differimento dell’accesso sarebbe stata giustificata dalla tutela dell’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini, e risulterebbe limitata a violazioni, irregolarità o infrazioni suscettibili di dare luogo alla suddetta comunicazione alla Procura della Repubblica;
Considerato:
   - che, nel corso della discussione orale in Camera di consiglio, il difensore di parte ricorrente ha dichiarato di non avere più interesse alla decisione dei due ricorsi, avendo l’amministrazione provveduto a depositare la documentazione richiesta all’esito dell’ordinanza istruttoria di questo Collegio, restando salva la liquidazione delle spese di lite;
   - che, pertanto, può essere dichiarata la cessazione della materia del contendere;
   - che le spese di lite devono essere poste da carico del Comune intimato, alla luce della fondatezza della pretesa ostensiva avanzata nei giudizi;
Ritenuto, a quest’ultimo proposito:
   - che l'esistenza di un'indagine penale non è di per sé causa ostativa all’accesso a documenti che siano confluiti nel fascicolo del procedimento penale o che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine;
   - che secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale (cfr. TAR Umbria – 25/07/2018 n. 471) “non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratto all’accesso; laddove, infatti, la denuncia sia riconducibile all'esercizio delle istituzionali funzioni amministrative, l'atto non ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 329 c.p.p. e non può ritenersi coperto dal segreto istruttorio. Diversamente, se la pubblica amministrazione trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. (C.d.S., sez. VI, 29.01.2013, n. 547)”;
   - che tale concetto è stato espresso anche da TAR Lazio-Roma, sez. II-quater – 28/07/2017 n. 9043, TAR Sardegna, sez. I – 13/11/2020 n. 618, TAR Lazio-Roma, sez. III-quater – 18/02/2020 n. 2157;
   - che, in buona sostanza, in materia di accesso alla documentazione amministrativa deve escludersi che sia coperto dal segreto istruttorio penale l'atto di denuncia dei fatti a carico del richiedente, rimesso dall'amministrazione alla magistratura inquirente, trattandosi di atto non riservato ai sensi dell'art. 329 c.p.p., emanato nello svolgimento di attività istituzionale amministrativa (TAR Campania-Salerno, sez. I – 13/01/2020 n. 64);
   - che soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria;
   - che “tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, L. 07.08.1990, n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, L. n. 241 del 1990” (TAR Sicilia-Palermo, sez. I – 20/05/2020 n. 1006, che evoca TAR Sicilia-Catania, sez. III – 01/02/2017 n. 229);
   - che neppure la relazione del Comune di Bellaria Igea Marina attesta l’esistenza di un segreto istruttorio collegato a una puntuale statuizione dell’autorità penale ovvero a un’attività esperita dalla Polizia locale nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 20.05.2022 n. 427 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL'esistenza di un’indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
---------------

... per l'annullamento
   - del provvedimento n. 22856 del 17.10.2021 notificato in pari data, con cui è stato comunicato il diniego di accesso agli atti, richiesto dal ricorrente con nota del 24.09.2021,
   - di tutti gli atti presupposti, connessi e/o consequenziali
   - nonché per l’accertamento e la declaratoria del diritto d’accesso e l’emanazione dell’ordine di esibizione dei documenti ex art. 116, comma 4, c.p.a..  
...
1. Il ricorrente, nella qualitas di diretto confinante dell’immobile sito in Gragnano, alla via -OMISSIS-, e di parte civile nel procedimento penale avanti il Tribunale di Torre Annunziata relativa ad abusi ivi commessi, in data 23.09.2021 presentava al Comune di Gragnano istanza di accesso agli atti ai sensi degli artt. 22 ss. della legge n. 241 del 1990 s.m.i., avente ad oggetto i seguenti documenti: “verbali di sequestro e documenti correlati (relazione tecnica, fotografie, misurazioni eseguite) per abusi commessi all’immobile di via -OMISSIS-, identificato in catasto coi dati di foglio di -OMISSIS-, a seguito di sopralluoghi dell’Ufficio controllo sul territorio del Corpo della Polizia Municipale eseguiti negli anni 2005–2006 per verifiche ai lavori del tetto in secondo piano ed ampliamenti in primo piano, e nell’anno 2009 a seguito di altro accertamento sempre per gli stessi immobili.”
1.1. Con provvedimento del 17.10.2021 la intimata Amministrazione negava l’accesso atteso che: “i controinteressati hanno rappresentato la loro opposizione all’ostensione adducendo, quale relativa motivazione la sussistenza di procedimento penale in essere e la loro pertinenza ovvero la loro acclusione al fascicolo del Pubblico Ministero. Pertanto accertato, a seguito di verifica di ufficio, che gli atti da ella richiesti pertengono effettivamente al proc. Pen nr. 2995/2015 R.G.N.R. gli stessi, allo stato, rimangono sottratti, ex legge dal Diritto D’accesso”.
1.2. Avverso tale diniego insorgeva il ricorrente, rimarcando la propria legittimazione all’accesso.
...
2. Il ricorso è fondato.
Va in limine rimarcato che la domanda di accesso nuovamente presentata dal ricorrente in data 23.09.2021 e, quel che più conta, la actio procedimentale poscia posta in essere dalla civica Amministrazione –all’uopo ritualmente compulsando anche i controinteressati, al fine di acquisirne la eventuale opposizione- e la successiva determinazione provvedimentale del 17.10.2021, valgono ad assorbire e superare la pregressa vicenda procedimentale conchiusasi con la nota del Comune dell’08.07.2021.
Ciò premesso, valga il rilevare quanto appresso.
2.1. Il ricorrente è costituito quale parte civile nel giudizio R.G. 2995/2015 pendente avanti il Tribunale di Torre Annunziata e avente ad oggetto gli abusi asseritamente commessi nel 2015 (riguardanti il solo tetto) dagli odierni controinteressati sull’immobile confinante rispetto alla sua proprietà
2.1.1. La istanza di accesso che ne occupa -eccitata dalle acquisizioni del processo penale- ha ad oggetto, per contro, atti afferenti a precedenti accertamenti compiuti dalla Polizia Municipale di Gragnano negli anni 2005-2006 e 2009, e a diversi abusi (riguardanti vari piani dell’immobile de quo).
2.1.2. Del resto la inesistenza di detti atti all’interno del fascicolo del ridetto procedimento penale del 2015 è stata quivi allegata, con un adeguato principio di prova dalla parte ricorrente (doc. 4, produzione), e non puntualmente contestata dalle resistenti.
2.1.3. Di qui la persistenza dell’interesse ostensivo del ricorrente, che non può aliundeid est, dispiegando le prerogative di parte di un processo penale- essere soddisfatto.
2.2. Indubbia, d’altra parte, è la legittimazione all’accesso del ricorrente (ex plurimis, TAR Campania, VI, 12.11.2021, n. 7229), comecché funzionale:
   - all’esercizio delle proprie indefettibili guarentigie di titolare del diritto dominicale sul bene immobile confinante (art. 42 Cost.);
   - a consentire, indi, la verifica della correttezza della posizione del confinante, e dei lavori da questi eseguiti sotto il profilo edilizio ed urbanistico.
2.3. La domanda ostensiva -di poi e ad onta di quanto eccepito da parte resistente- non veicola una pretesa esplorativa.
2.3.1. E’ ben vero, in linea di principio che la domanda di accesso:
   - non mai può assumere una generica funzione investigativa, ovvero “impiegata e piegata a ‘costruire’ ad hoc, con una finalità esplorativa” le premesse per il disvelamento, ovvero la discovery ex post, di fatti e circostanze non mai concretamente ed in modo circostanziato rappresentate o paventate ex ante; “diversamente, infatti, l'accesso documentale assolverebbe ad una finalità, espressamente vietata dalla legge, perché preordinata ad un non consentito controllo generalizzato sull'attività, pubblicistica o privatistica, delle pubbliche Amministrazioni” (CdS, a.p., 10/2020).
   - non può essere generica, eccessivamente estesa o riferita ad atti non specificamente individuati, ovvero formulata in guisa tale da costringere l'Amministrazione ad attività di ricerca ed elaborazione dati; di qui la improponibilità di una istanza di accesso “al buio”, al fine dichiarato di eventualmente reperire ed individuare nei documenti richiesti, elementi potenzialmente idonei al soddisfacimento dei fini “investigativi” (e perciò esplorativi) perseguiti dall’istante (sulla inammissibilità di una siffatta domanda, TAR Campania, VI, 2318/2021; TAR Lombardia, I, 14.11.2019, n. 2403; id., 27.08.2018, nn. 2023 e 2024).
2.3.2. E tuttavia, nel caso che ne occupa, la domanda di accesso avanzata dal ricorrente è puntualmente formulata in relazione:
   - alla tipologia dei documenti e delle informazioni (verbali di sequestro e documenti correlati: relazione tecnica, fotografie, misurazioni eseguite);
   - all’immobile ove sarebbero stati commessi gli abusi (sito in via -OMISSIS-, identificato in catasto coi dati di foglio di -OMISSIS-);
   - alla natura degli asseriti abusi (lavori del tetto in secondo piano ed ampliamenti in primo piano);
   - al tempus in cui si sarebbero formati (anni 2005-2006 e 2009).
2.4. Alla specificità della richiesta di accesso fa da contraltare, di contro, la genericità e laconicità delle ragioni fondanti il diniego, siccome di poi adombrate in giudizio e in sede di riscontro ad una precedente domanda di accesso (nota dell’08.07.2021), consistenti nella trasmissione di detti atti alla Procura della Repubblica.
2.4.1. La realizzazione delle esigenze conoscitive quivi azionate non è in concreto preclusa da ragioni di segretezza afferenti a non meglio precisate indagini e/o procedimenti penali eventualmente in corso.
2.4.2. Non può non rimarcarsi, invero, la evanescenza di una tale ragione ostativa, afferente alla trasmissione di non meglio precisati atti alla Procura, mancando qualsivoglia puntuale evidenziazione di ragioni di segretezza in relazione a specifici documenti o parti di documenti.
2.4.3. Siccome statuito plurimamente anche da questo TAR (TAR Campania, 01.12.2021, n. 7712; TAR Campania, VI, 14.03.2017, n. 1484) “l'esistenza di un’indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso”.
2.4.4. E di tali invincibili condizioni legittimanti la esistenza, o perduranza, del segreto non vi è traccia veruna nell’agere provvedimentale quivi censurato, né tampoco nelle difese quivi spiegate.
2.4.5. Anche il richiamo all’art. 329 c.p.p., non giova alle tesi delle parti resistenti, atteso che è la stessa disposizione a prevedere testualmente che il segreto operi “fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”.
2.4.6. Sarebbe stato quindi doveroso da parte della Amministrazione puntualizzare la tipologia dei documenti da sottrarre all’accesso e lo stadio del procedimento penale, tenuto altresì conto che gli atti de quibus rimontano al 2005-2006 e al 2009, id est ad epoca assai risalente, rendendo peraltro poco verosimile la perduranza di asserite indagini preliminari e, con esse ed eventualmente, di ragioni di segretezza (TAR Campania-Napoli, sentenza 04.03.2022 n. 1482 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - SICUREZZA LAVOROL’astratta previsione regolamentare di sottrazione di determinati atti all’accesso non va intesa in senso assoluto, ma va riferita al singolo caso concreto, in relazione al quale l’Ente è chiamato ad effettuare un bilanciamento tra l’interesse fatto valere dal richiedente l’accesso e l’eventuale riservatezza del soggetto controinteressato.
Sicché, qualora emergano profili di riservatezza contrastanti con l’ostensione degli atti richiesti, tali profili possano essere adeguatamente tutelati tramite l’oscuramento.
Non risulta, peraltro, di ostacolo all’ostensione degli atti richiesti l’avere l’INPS, all’esito dell’espletata istruttoria, trasmesso comunicazione di notizia di reato alla competente Procura della Repubblica, avendo la giurisprudenza amministrativa condivisibilmente chiarito che:
   “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso. Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell' art. 329 c.p.p, di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990”.
---------------

... per l’accertamento e la dichiarazione
   - ex art. 22 ss. l. 241/1990, del diritto di accesso in capo alla ricorrente e, dunque, alla piena evasione della sua istanza di accesso,
   - e per la conseguente condanna del resistente a rilasciare copia di detti documenti.
...
1) Premesso che:
   - a) con istanza del 11.05.2021, parte ricorrente chiedeva l’accesso agli atti presupposti del provvedimento con cui l’INPS di Lecce disconosceva determinate giornate di lavoro agricolo, con la dicitura “Disconoscimento gg. ditta Ma.Co.”;
   - b) con pec dell’11.06.2021, l’INPS negava l’accesso perché, ai sensi dell’art. 16, punto 1, lett. “g”, del regolamento per l’accesso agli atti (giusta determina n. 366/2021), il verbale di accertamento ispettivo INPS e gli atti ad esso connessi sono esclusi dall’accesso per motivi attinenti alla riservatezza di persone fisiche, giuridiche, gruppi, imprese ed associazioni;
   - c) si è costituito in giudizio l’INPS;
   - d) alla camera di consiglio del 16.12.2021, la causa è stata trattenuta in decisione.
2) Rilevato che, con riferimento al suddetto regolamento INPS, la giurisprudenza (v. TAR Molise, n. 475 del 27.12.2019), ha osservato che:
   - a) conformemente all’art. 24 L. n. 241/1990 (secondo cui, in tutti i casi in cui siano ravvisabili le esclusioni al diritto di accesso ivi contemplati, resta fermo l’obbligo di ostensione dei documenti “la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere propri interessi giuridici”), l’art. 20 del medesimo regolamento «6.2. […] stabilisce che l’accesso debba comunque essere consentito rispetto “ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere propri interessi giuridici” (art. 20)»;
   - b) «6.3. […] in forza della norma di chiusura di cui all’art. 24, co. 7, l. 241/1990, così come richiamata dall’art. 20 del Regolamento INPS, la predetta esigenza di tutela [della riservatezza] risulta cedevole rispetto alla contrapposta esigenza del soggetto datoriale di contestare utilmente in giudizio le risultanze dell’accertamento ispettivo, a patto che (e nei limiti in cui) sia ravvisabile la rilevanza delle dichiarazioni in questione rispetto alla impugnazione del verbale di accertamento (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 10.04.2019 n. 2345)»;
   - c) «6.5. Nel contempo, ai fini del necessario bilanciamento tra i contrapporti interessi, proprio dell’accesso difensivo, è necessario regolare le concrete modalità della ostensione in modo tale da ridurne al minimo l’incidenza nella sfera soggettiva dei lavoratori: “Va ammesso l'accesso alle dichiarazioni dei lavoratori acquisite nel corso dell'attività ispettiva; l'esigenza specifica di tutelare i lavoratori contro eventuali comportamenti ritorsivi del datore di lavoro trova soluzione nella possibilità per l'Istituto di oscurare i riferimenti dei lavoratori dai provvedimenti rispetto ai quali viene chiesto l'accesso” (TAR Genova, Sez. II, 02/12/2016 n. 1197)»;
3) Ritenuto –in ragione di quanto in precedenza riportato, da cui il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi– che:
   - a) nel caso di specie, sia evidente l’interesse “difensivo” fatto valere da parte ricorrente, la quale ha chiesto di conoscere gli atti presupposti del disconoscimento delle giornate lavorative nei propri confronti, onde verificare la legittimità di tale operazione e far valere, se del caso, le proprie contrarie ragioni nelle sedi competenti (come specificato nell’istanza di accesso);
   - b) il diniego impugnato è, quindi, illegittimo, considerato che l’astratta previsione di sottrazione di determinati atti all’accesso non va intesa in senso assoluto, ma va riferita al singolo caso concreto, in relazione al quale l’Ente è chiamato ad effettuare un bilanciamento tra l’interesse fatto valere dal richiedente l’accesso e l’eventuale riservatezza del soggetto controinteressato;
   - c) qualora emergano profili di riservatezza contrastanti con l’ostensione degli atti, tali profili possano essere adeguatamente tutelati tramite l’oscuramento (come sul punto evidenziato dalla menzionata giurisprudenza);
   - d) non risulta, peraltro, di ostacolo all’ostensione degli atti richiesti l’avere l’INPS, all’esito dell’espletata istruttoria, trasmesso comunicazione di notizia di reato alla competente Procura della Repubblica, avendo la giurisprudenza amministrativa condivisibilmente chiarito che: “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso. Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell' art. 329 c.p.p, di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990” (TAR Palermo, I, 12.10.2020, n. 2057, nonché la giurisprudenza ivi citata).
Nel caso di specie, quella svolta dall’INPS è un’attività amministrativa, svolta nell’ambito delle funzioni istituzionali proprie dell’Istituto, con la conseguenza che, non essendovi atti di indagine penale propriamente detti, la documentazione raccolta non si sottrae all’accesso;
4) Ritenuto, in conclusione, che il ricorso vada accolto e che, per l’effetto, vada ordinato all’INPS di Lecce di consentire, entro 30 giorni dalla comunicazione/notificazione della presente sentenza, l’accesso agli atti domandati da parte ricorrente, procedendo all’oscuramento degli eventuali dati attinenti alla riservatezza di soggetti terzi (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 03.01.2022 n. 8 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIInconducenti si appalesano i rilievi del Comune volti ad accreditare una asserita “irrilevanza” dei documenti richiesti dal ricorrente rispetto alle esigenze processuali.
E’ ben vera, infatti, la natura strumentale del “diritto di accesso” ex lege 241/1990, in quanto situazione giuridica che:
   - ex se non garantisce la acquisizione o la conservazione di beni della vita e, dunque, non assicura al suo titolare il conseguimento di utilità finali;
   - è strumentale, piuttosto, al soddisfacimento (o al miglior soddisfacimento) di altri interessi giuridicamente rilevanti (diritti o interessi), rispetto ai quali si pone in posizione ancillare;
   - deve essere correlata -in modo diretto, concreto e attuale- ad altra “situazione giuridicamente tutelata” (art. 22, comma 1, l. 241/1990 e la definizione di “interessati” ivi contenuta): non si tratta, dunque, di una posizione sostanziale autonoma, ma di un potere di natura procedimentale, funzionale alla tutela di situazioni stricto sensu sostanziali, abbiano esse consistenza di diritto soggettivo o interesse legittimo.
E, tuttavia, una tale natura strumentale non mai può essere intesa nel senso di condizionare l’accesso alla valutazione –da parte della Amministrazione- circa la concreta incidenza e/o rilevanza degli atti richiesti ai fini del loro utilizzo in una controversia giurisdizionale.
E, invero, è superfluo il rimarcare che una tale valutazione –in punto di effettiva rilevanza e/o incidenza della documentazione nel giudizio- pertiene alla competente Autorità giurisdizionale, e non certo alla Amministrazione, che non potrà che limitarsi alla delibazione circa la “astratta” attinenza della documentazione richiesta rispetto alla situazione giuridica vantata dall’ostante e oggetto del contenzioso in essere.
D’altra parte, nella fattispecie in esame, la posizione “conoscitiva” azionata dalla controinteressata è chiaramente funzionale alla tutela di altra, diversa, situazione giuridica, afferente al diritto di impresa e alla libertà di autodeterminazione negoziale (artt. 2 e 41 Cost.) lato sensu intesi, oltre che alla legittima aspirazione di verificare –come del resto, expressis verbis rappresentato nella istanza di accesso- la correttezza e la buona fede dell’agere della controparte contrattuale nella fase prodromica alla stipulazione del contratto di cessione di azienda, onde eventualmente disvelare eventuali profili di culpa in contrahendo, oltre che la correttezza dell’agere della Amministrazione.
E tanto basta a disvelare la esistenza di un interesse personale, attuale e concreto, collegato agli atti, e indi costituivo di una posizione legittimante.
---------------
Generico è il richiamo effettuato dal Comune, in sede procedimentale ma non mai ripreso in questa sede giurisdizionale, alla trasmissione di non meglio precisati atti alla Procura, mancando qualsivoglia puntuale evidenziazione di ragioni segretezza in relazione a specifici documenti o parti di documenti.
Siccome statuito anche da questo TAR “l'esistenza di un’indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso”.
Quanto al riferimento all’art. 329 c.p.p. pure effettuato nella nota di riscontro del 17.06.2021, si osserva che è la stessa norma a prevedere testualmente che il segreto operi “fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”.
Sarebbe stato quindi doveroso da parte della Amministrazione puntualizzare la tipologia dei documenti da sottrarre all’accesso e lo stadio del procedimento penale.
---------------

... per l'annullamento del diniego parziale del 17.06.2021 e, per quanto di ragione, del silenzio–rigetto del Comune di Napoli in relazione all'istanza di accesso rivolta all'Ente il 19.05.2021 con riguardo agli atti ed ai provvedimenti di séguito specificati e perché sia ordinato all'amministrazione resistente l'ostensione degli atti ed i documenti amministrativi di seguito specificati in conseguenza della dichiarazione della sussistenza del diritto azionato da chi ricorre.
...
1. Con istanza ex art. 22 l. 241/1990 trasmessa al Comune di Napoli in data 19.05.2021 la ricorrente esponeva quanto appresso:
   - la No.Bo.Ca. srl. si è resa cessionaria dell’azienda ubicata in Napoli alla via ... n. 183 giusta contratto a rogito Notaio ... del Collegio Notarile dei Distretti Riuniti di Napoli, Torre Annunziata e Nola, del 02.10.2018;
   - l’arch. Va.D’An. -all’uopo incaricata della progettazione esecutiva della ristrutturazione- riscontrava che il progetto imprenditoriale non poteva essere realizzato in ragione di un abuso edilizio relativo al soppalco del locale commerciale in questione, oggetto di un sequestro giudiziario e di un’ordinanza di abbattimento del Comune di Napoli risalenti addirittura all’anno 2006;
   - nel novembre 2020 la Polizia Municipale di Napoli redigeva un “Verbale di sopralluogo ed accertamento di opere realizzate in difetto di titoli in Napoli alla via ... n. 183”; dalla disamina dello stato dei luoghi emergeva quanto segue: il locale in parola è gravato da inesitata Disposizione Dirigenziale n. 1383 del 05.06.2006 con C.A. n. 208/06 emessa dal SACE del Comune di Napoli ai sensi dell’art. 33 del DPR 380/2001 nei confronti del precedente conduttore Ma.Fr. nato a Napoli il ... ed ivi domiciliato alla via ... n. 64 per l’accertata realizzazione di soppalco di mq 21,00 impostato a mt. 2,35/2,70 dal calpestio ed a mt. 1,70/2,30 dalla copertura diviso in tre ambienti adibiti a wc;
   - di qui l’avvio, da parte dell’ufficio SUAP, del procedimento per la dichiarazione di inefficacia giuridica della “Segnalazione Certificata di Inizio Attività (PG/860249 – pratica SUAP n. 14645 del 05/10/2018) relativa all’attività di somministrazione di bevande (tipologia B)”;
   - tanto premesso, la ricorrente instava per l’accesso agli atti e ai documenti relativi alla liceità edilizia e urbanistica dell’immobile e quelli afferenti all’attività di somministrazione di bevande in quell’immobile esercitata dal 2006 ad oggi, nonché quelli eventualmente attestanti la notifica dell’ingiunzione a demolire ai proprietari dell’immobile, nonché ogni atto e provvedimento adottato nell’àmbito del procedimento per la dichiarazione di inefficacia giuridica della Segnalazione Certificata di Inizio Attività (PG/860249 – pratica SUAP n. 14645 del 05/10/2018), relativa all’attività di somministrazione di bevande (tipologia B) avviato con PG/35598 del 15.01.2021 dal SUAP del Comune di Napoli.
1.1. Il Comune riscontrava la istanza con nota del 14 giugno, inviando a mezzo pec, solo quanto riferibile all’attività esercitata a far data dal 2011 in poi dalla Ma. e Fi. srl. e, successivamente, alla No.Bo.Ca. s.r.l..
1.2. Con pec del 16.06.2021 la ricorrente instava per l’accesso alla restante documentazione indicata nella primigeni istanza.
1.3. Con atto del 17.06.2021 il Comune negava l’accesso, rappresentando che “gli atti scaturiti a seguito del sopralluogo sono stati inviati alla locale Procura della Repubblica e, dunque, non possono essere annoverati tra quelli amministrativi ostensibili”.
1.4. Avverso i ridetti atti insorge la ricorrente avanti questi TAR, rimarcando la legittimazione ad accedere agli atti de quibus (a far data dal 2006) atteso che la “situazione di incertezza generata dall’inescusabile inerzia del Comune di Napoli, nella specie degli Uffici preposti a dar seguito agli accertamenti che si è appurato risalire al lontano 2006, ha cagionato e cagiona a tutt’oggi gravissimi nocumenti alla società No.Bo.Ca. srl., che –è evidente– non si sarebbe resa cessionaria dell’azienda della Ma. & Fi. srl. ove il Comune avesse tempestivamente dichiarato l’inefficacia delle autorizzazioni che rappresentano presupposto indefettibile per lo svolgimento dell’attività cui l’odierna istante è subentrata”, tenuto conto altresì della pendenza di due liti in sede civile esperite dalla ricorrente contro la società Ma. & Fi. srl. (Tribunale civile di Napoli, RG. 11196/2019) nonché contro la Comunione Eredi Mi. (Tribunale civile di Napoli, RG. 25005/2020, RG 33849/2019), proprietaria del locale commerciale sede dell’attività ceduta.
1.5. Si costituiva il Comune di Napoli, rimarcando la indisponibilità di alcuni documenti, molto risalenti evidentemente conservati nell’archivio storico, ad oggi ancora occupato abusivamente da famiglie di senza tetto e dunque indisponibili per causa di forza maggiore, e depositando nondimeno ulteriore documentazione.
1.6. La causa, al fine, dopo una ulteriore replica delle ricorrente che insisteva per la ostensione degli atti indicati ai punti 4, 6 e 7 della primigenia istanza di accesso, veniva introitata per la decisione all’esito della udienza camerale del 09.11.2021.
2. Il ricorso è in parte fondato e in parte destinato ad una pronunzia di cessazione della materia del contendere.
2.1. E, invero, siccome emerge dalle allegazioni e dalla produzione documentale del Comune resistente:
   - quanto alle richieste di cui al punto 7; il provvedimento di ingiunzione a demolire del soppalco abusivo veniva notificato al solo responsabile dell’illecito nonché gestore della attività commerciale in data 29.06.2006; nel mentre l’atto di avvio del procedimento volto alla declaratoria di inefficacia della scia del 2021 non veniva notificato alla proprietaria dell’immobile de quo.
2.1.1. In relazione a tali allegazioni e attestazioni, indi, può dirsi soddisfatta, in parte qua, la pretesa ostensiva, con la consequenziale cessazione della materia del contendere.
2.2. Fondata, di contro, è la domanda per quanto attiene agli ulteriori atti e documenti indicati nella istanza di accesso, e segnatamente di quelli enumerati sub 4, 6 e 7 della istanza, oltre al generale obbligo di ostensione di ogni altro atto e documento in possesso della Amministrazione e rientrante nel novero di quelli richiesti dalla ricorrente, fatti salvi ovviamente i documenti già ostesi prima del giudizio e quelli successivamente quivi prodotti.
2.3. La domanda di accesso, invero, è fondata, tenuto conto della rilevanza dei documenti de quibus (titoli afferenti alla regolarità edilizia e urbanistica dell’immobile; autorizzazioni commerciali rilasciate in relazione ad esso immobile) comecché afferenti all’immobile che ne occupa, la cui conoscenza si appalesa, indi, strumentale alla tutela dell’interesse della ricorrente che in quell’immobile esplica la propria attività commerciale, alla verifica della legittimità e della concreta natura dei ridetti titoli edilizi e/o commerciali, al fine dichiarato di meglio lumeggiare:
   - la natura ed il momento in cui si sarebbero perpetrati abusi e le vicende afferenti i provvedimenti di autorizzazione commerciale succedutisi;
   - gli eventuali profili di responsabilità, tenuto conto della attuale pendenza di due giudizi instaurati in sede civile dalla ricorrente contro la società Ma. & Fi. srl. (Tribunale civile di Napoli, RG. 11196/2019) nonché tra la prima e la Comunione Er.Mi. (Tribunale civile di Napoli, RG. 25005/2020, RG 33849/2019), proprietaria del locale commerciale sede dell’attività ceduta.
2.3.1. Inconducenti, di poi, si appalesano i rilievi del Comune volti ad accreditare una asserita “irrilevanza” dei documenti de quibus rispetto alle esigenze processuali.
2.3.2. E’ ben vera, infatti, la natura strumentale del “diritto di accessoex lege 241/1990 (CdS, a.p., n. 6/2006), in quanto situazione giuridica che:
   - ex se non garantisce la acquisizione o la conservazione di beni della vita e, dunque, non assicura al suo titolare il conseguimento di utilità finali;
   - è strumentale, piuttosto, al soddisfacimento (o al miglior soddisfacimento) di altri interessi giuridicamente rilevanti (diritti o interessi), rispetto ai quali si pone in posizione ancillare (TAR Lombardia, I, 27.08.2018, n. 2023);
   - deve essere correlata -in modo diretto, concreto e attuale- ad altra “situazione giuridicamente tutelata” (art. 22, comma 1, l. 241/1990 e la definizione di “interessati” ivi contenuta): non si tratta, dunque, di una posizione sostanziale autonoma, ma di un potere di natura procedimentale, funzionale alla tutela di situazioni stricto sensu sostanziali, abbiano esse consistenza di diritto soggettivo o interesse legittimo.
2.3.3. E, tuttavia, una tale natura strumentale non mai può essere intesa nel senso di condizionare l’accesso alla valutazione –da parte della Amministrazione- circa la concreta incidenza e/o rilevanza degli atti richiesti ai fini del loro utilizzo in una controversia giurisdizionale.
2.3.4. E, invero, è superfluo il rimarcare che una tale valutazione –in punto di effettiva rilevanza e/o incidenza della documentazione nel giudizio- pertiene alla competente Autorità giurisdizionale, e non certo alla Amministrazione, che non potrà che limitarsi alla delibazione circa la “astratta” attinenza della documentazione richiesta rispetto alla situazione giuridica vantata dall’ostante e oggetto del contenzioso in essere.
2.3.5. D’altra parte, nella fattispecie in esame, la posizione “conoscitiva” azionata dalla controinteressata è chiaramente funzionale alla tutela di altra, diversa, situazione giuridica, afferente al diritto di impresa e alla libertà di autodeterminazione negoziale (artt. 2 e 41 Cost.) lato sensu intesi, oltre che alla legittima aspirazione di verificare –come del resto, expressis verbis rappresentato nella istanza di accesso- la correttezza e la buona fede dell’agere della controparte contrattuale nella fase prodromica alla stipulazione del contratto di cessione di azienda, onde eventualmente disvelare eventuali profili di culpa in contrahendo, oltre che la correttezza dell’agere della Amministrazione.
2.3.6. E tanto basta a disvelare la esistenza di un interesse personale, attuale e concreto, collegato agli atti, e indi costituivo di una posizione legittimante.
2.4. Generico, poi, è il richiamo effettuato dal Comune, in sede procedimentale ma non mai ripreso in questa sede giurisdizionale, alla trasmissione di non meglio precisati atti alla Procura, mancando qualsivoglia puntuale evidenziazione di ragioni segretezza in relazione a specifici documenti o parti di documenti.
2.4.1. Siccome statuito anche da questo TAR (TAR Campania, VI, 14.03.2017, n. 1484) “l'esistenza di un’indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso”.
2.4.2. Quanto al riferimento all’art. 329 c.p.p. pure effettuato nella nota di riscontro del 17.06.2021, si osserva che è la stessa norma a prevedere testualmente che il segreto operi “fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”. Sarebbe stato quindi doveroso da parte della Amministrazione puntualizzare la tipologia dei documenti da sottrarre all’accesso e lo stadio del procedimento penale.
2.5. Inconducente, di poi, è la linea difensiva tenuta in questa sede dal Comune, che:
   - si è limitato, poi, ad accampare oggettivi impedimenti alla inventio e alla materiale adprehensio dei documenti antecedenti al 2011, che si troverebbero “negli Uffici dell’ex Servizio Commercio, alle Rampe Brancaccio notoriamente e abusivamente occupati da alcuni nuclei familiari fin dall’agosto 2013”;
   - ha addotto elementi ostativi afferenti, indi, non già alla certazione del diritto, bensì alla sua materiale attuazione.
2.5.1. Ora, la allegazione di difficoltà materiali “per così direin executivis, presuppone logicamente, ancor prima che giuridicamente, il previo riconoscimento della esistenza del diritto, la cui concreta attuazione solo si lamenta essere temporaneamente preclusa a cagione di difficoltà organizzative interne all’apparato amministrativo, e che giammai possono ritorcersi in danno del consociato, avente diritto (TAR Campania, VI, 28.07.2020, n. 3363; id., 25.02.2020, n. 859).
2.5.2. Di talché, in coerenza con il tacito assunto della Amministrazione, va quivi giudizialmente confermata la sussistenza del diritto di accesso della ricorrente ai documenti de quibus, fatti salvi quelli già esibiti prima del giudizio e quelli quivi disvelati, di cui al n. 7 della istanza di accesso, attinenti ai dati sulle notificazioni dei provvedimenti repressivi del 2006 e relativi alla scia del 2021 nella versione ad oggi vigente (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 01.12.2021 n. 7712 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possono risultare connessi con i fatti oggetto di indagine. Solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla Polizia Giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una p.a. nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denuncia all'autorità giudiziaria.
Tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'Amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. n. 241 del 1990, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, stessa legge.
Viceversa, qualora si richieda l'ostensione di atti coperti da segreto istruttorio perché posti in essere nell'ambito di un'attività di P.G., i relativi documenti dovranno essere ritenuti sottratti al diritto di accesso ex art. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 e ostensibili unicamente mediante l'attivazione degli strumenti previsti dal c.p.p.

---------------

... per l'annullamento:
   - dell'Ordinanza del Responsabile del Servizio Tecnico del Comune di -OMISSIS- n. -OMISSIS-, prot. n. -OMISSIS- del 04.06.2020, notificata il 05.06.2020, avente ad oggetto: Ordinanza di rimessa in pristino e demolizione di opere edilizie eseguite in assenza di titolo abilitativo;
   - di ogni altro atto presupposto, consequenziale o comunque connesso e, in ispecie, del «verbale di “Relazione tecnica di sopralluogo relativa all'attività di P.G. riferita a violazioni urbanistiche in comune di -OMISSIS- pressi località “-OMISSIS-, Foglio 7, particella -OMISSIS-”, (prot. n. -OMISSIS-/2020 depositato agli atti dell'ente), sull'esito del sopralluogo eseguito in data 07.04.2020 …», richiamato nell'ordinanza n. -OMISSIS-, non conosciuto nel suo contenuto dal ricorrente in quanto la visione e il rilascio di copia sono stati espressamente negati anche in sede di accesso documentale;
   - del provvedimento unico n. 4 del 28.07.2020, prot. n. -OMISSIS- del 28.07.2020, recante la “Determinazione motivata di conclusione della conferenza di servizi – Provvedimento unico n. 4 del 28.07.2020” con il quale il Responsabile del Suape del Comune di -OMISSIS- «RITENUTO che sussistano i presupposti di fatto e di diritto per l'adozione di questo provvedimento negativo NON AUTORIZZA la ditta -OMISSIS- C.F. -OMISSIS- via -OMISSIS-09010 -OMISSIS- (SU), come meglio generalizzata nella precedente sezione A, alla realizzazione del progetto per la realizzazione di un nuovo ingresso e la recinzione di un lotto, ubicato lungo il proseguo di viale -OMISSIS- nel Comune di -OMISSIS- nell'immobile sito in Viale -OMISSIS- s.n.c. Comune -OMISSIS-, distinto al NCT Foglio n. 7 mappale -OMISSIS- come da elaborati di progetto a firma del Geom. -OMISSIS-, allegati al presente atto per farne parte integrante e sostanziale» (doc. 2);
   - di ogni altro atto presupposto, consequenziale o comunque connesso e, in particolare, per quanto occorra, del “Parere tecnico NEGATIVO” del Servizio Tecnico Settore Edilizia Privata del Comune di -OMISSIS- (L.R. n. 24/2016, art. 37, comma 5 - Direttive in materia di sportello unico per le attività produttive e per l'edilizia (SUAPE) 2019 Allegato A alla Delib. G.R. n. 49/19 del 05.12.2019), protocollo n. -OMISSIS- del 10.07.2020 (doc. 3);
nonché, ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.a., per la declaratoria dell'illegittimità e l'annullamento:
   - del diniego di accesso di cui alla nota del Responsabile del Servizio Tecnico del Comune resistente prot. n. -OMISSIS- del 24.07.2020 (doc. 4) riferito alla visione e al rilascio di copia del verbale di “Relazione Tecnica di sopralluogo relativa all'attività di P.G. riferita a violazioni urbanistiche in comune di -OMISSIS- pressi località “-OMISSIS-” foglio 7 part. -OMISSIS- (Prot. N. -OMISSIS-/2020 depositato agli atti dell'Ente), sull'esito del sopralluogo eseguito in data 07.04.2020 in località -OMISSIS-, dal quale è emerso che le opere abusive risultano realizzate nel lotto distinto al N.C.T. foglio 7 mappale -OMISSIS-, consistevano in … omissis…”, richiesto dal ricorrente con istanza di accesso formulata in data 13.07.2020, prot. Comune -OMISSIS- n. -OMISSIS- del 14.07.2020
e per l'accertamento:
   - del diritto del ricorrente ad ottenere il rilascio di copia e/o l'esibizione della documentazione e degli atti richiesti con la suddetta istanza,
e in ogni caso
   - affinché l'Ecc.mo TAR ordini il rilascio e/o l'esibizione del predetto documento richiesto dal ricorrente.
...
22. Il ricorso è in definitiva infondato e deve essere rigettato.
23. Le spese, stante la particolarità del caso sottoposto al Collegio e la cessazione della materia del contendere sulla domanda proposta ai sensi dell’art. 116 c.p.a., in cui il Comune è virtualmente soccombente, possono essere compensate tra le parti in causa.
24. Va difatti ricordato che l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possono risultare connessi con i fatti oggetto di indagine. Solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla Polizia Giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una p.a. nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denuncia all'autorità giudiziaria.
Tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'Amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. n. 241 del 1990, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, stessa legge.
Viceversa, qualora si richieda l'ostensione di atti coperti da segreto istruttorio perché posti in essere nell'ambito di un'attività di P.G., i relativi documenti dovranno essere ritenuti sottratti al diritto di accesso ex art. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 e ostensibili unicamente mediante l'attivazione degli strumenti previsti dal c.p.p. (in questo senso, il condivisibile precedente del TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.01.2020, n. 4) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 08.11.2021 n. 760 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - SICUREZZA LAVOROVa evidenziato, con riferimento alle dichiarazioni rese dai collaboratori della società ricorrente, che secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato l’esclusione dall’accesso delle notizie acquisite nel corso dell'attività ispettiva prevista dall'art. 2 del D.M. 04.11.1994, n. 757 è limitata alle ipotesi in cui sussista un effettivo pericolo di pregiudizio per i lavoratori o per i terzi, sulla base di elementi di fatto concreti.
Pertanto all’amministrazione è rimessa non solo la ponderazione degli opposti interessi, ma anche la verifica, in concreto, del pericolo di azioni discriminatorie o indebite pressioni nei confronti dei dichiaranti e che, conseguentemente, l’ipotesi di cui all'art. 3 del medesimo decreto deve di regola ritenersi insussistente allorché il rapporto di lavoro con tali soggetti sia cessato.
Nel caso di specie, l’interesse difensivo cui l’istanza di accesso è strumentale può esser soddisfatto –per espressa dichiarazione di parte ricorrente– anche limitando l’ostensione, ovvero rilasciando le nominate dichiarazioni previa cancellazione di tutti i dati che possano identificare le persone che li hanno resi.
Né assume rilievo l’obbligo di segreto ex art. 329 c.p.p. per essere i fatti oggetto degli illeciti amministrativi interessati da una contestuale indagine penale, obbligo peraltro invocato dall’amministrazione resistente solo in sede difensiva, atteso che il verbale unico di contestazione espressamente specifica che non sono state indicate le fonti di prova che attengono ad attività investigative di natura penale e che le dichiarazioni dei collaboratori costituiscono documenti utilizzati ai fini dell’attività amministrativa. La mera trasmissione degli atti al vaglio del giudice penale, in assenza di un atto di sequestro, non comporta che gli stessi siano coperti da segreto né che questi siano sottratti all’accesso.
Infatti “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso. Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990”.
Conseguentemente, a fronte di un’esigenza di tutela ex articolo 24 della legge 241/1990 e non essendo configurabile in concreto la causa di esclusione all’accesso richiamata nel diniego impugnato, il provvedimento dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro va annullato e, per l'effetto, va ordinato all'amministrazione resistente di provvedere, ai sensi dell'art. 116, co. 4, c.p.a., al rilascio alla parte ricorrente delle dichiarazioni acquisite nel corso dell’accesso ispettivo, previamente anonimizzate.
---------------

...   per l’accertamento
del diritto ad accedere a tutti gli atti e documenti richiamati:
   - nel verbale unico di accertamento e notificazione n. BS00000/2021-304-01 del 24/05/21,
   - nel verbale unico di accertamento e notificazione n. 2021001593/DDL del 24/05/2021,
dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro – Ispettorato Territoriale del Lavoro di Brescia - processo servizi Utenza;
per l’annullamento
   - dei provvedimenti dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro – Ispettorato Territoriale del Lavoro di Brescia - processo servizi Utenza, entrambi datati 01.07.2021, aventi ad oggetto: «istanza di accesso agli atti pervenuta in data 17.06.2021 ditta Ci.Wo.Gr. srl», e «istanza di accesso agli atti pervenuta in data 19.06.2021 ditta Ci.Wo.Gr. srl», con cui è stato negato l’accesso ai documenti di cui alle citate istanze, inoltrate a mezzo pec, e in particolare alle dichiarazioni rese dai collaboratori nel corso dell’accesso ispettivo e ai documenti indicati come fonte di prova del verbale unico di accertamento e notificazione n. BS00000/2021-304-01 del 24/05/21 e del verbale unico di accertamento e notificazione n. 2021001593/DDL del 24/05/2021;
e per la condanna
   - dell’Amministrazione a consentire l’accesso richiesto.
...
Ci.Wo.Gr. S.r.l. in data 03.06.2021 si è vista notificare dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro – Ispettorato Territoriale del Lavoro di Brescia il verbale unico di accertamento e notificazione n. BS00000/2021-304-01 del 24/05/21 e il verbale unico di accertamento e notificazione n. 2021001593/DDL del 24/05/2021 (INPS), all’esito di un accertamento ispettivo iniziato in data 25/02/2021.
All’esponente sono ivi contestati illeciti amministrativi, in particolare l’erronea qualificazione giuridica dei contratti di lavoro con alcuni collaboratori e, per alcuni di essi, l’instaurazione di un rapporto di lavoro in assenza di comunicazione preventiva di assunzione, con conseguente applicazione di sanzioni e differenze contributive per l’importo complessivo di 136.186,65 euro.
Al dichiarato fine di esercitare il proprio diritto di difesa, in data 17.06.2021. la ricorrente ha presentato all’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Brescia istanza di accesso alle dichiarazioni rese dai suoi collaboratori nel corso dell’accesso ispettivo, evidenziando che per 19 di essi il rapporto di lavoro è già cessato e per 2 non è mai esistito, nonché ai documenti indicati dalla ITL quali fonti di prova; quest’ultima richiesta è stata ribadita con pec del 19 giugno, ove la società ha richiesto di esercitare il diritto di accesso rispetto agli altri atti e fonti di prova del procedimento.
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro – Ispettorato Territoriale del Lavoro di Brescia - processo servizi Utenza, con due provvedimenti datati 01.07.2021, ha negato l’accesso ai documenti di cui alle citate istanze.
Per quanto riguarda la richiesta di ostensione delle dichiarazioni rese dai lavoratori ai sensi dell’art. 13 della L. 689/1981, il diniego è motivato dall’applicazione dell’articolo 2, comma 1, lettera c), del D.M. 04/11/1994, n. 757, che sottrae all’accesso “i documenti contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi”.
Per i restanti documenti richiesti, l’amministrazione ha opposto che gli stessi non sono stati specificati e individuati singolarmente nell’istanza e che pertanto la stessa risulta preordinata ad un inammissibile controllo generalizzato dell’operato dell’amministrazione, vietato dall’art. 24 L. 241/1990.
La ricorrente ha proposto ricorso ai sensi degli articoli 25 della legge 241/1990 e 116 c.p.a. avverso i nominati dinieghi, deducendone l’illegittimità per:
   - violazione dell’articolo 24, comma 7, della legge 241/1990, che garantisce l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici, in ragione dell’imminente scadenza del termine per ricorrere ex articolo 414 c.p. avanti al giudice civile e della necessità di presentare già con l’atto di opposizione tutte le sue difese, evidenziando che la documentazione qui richiesta verrà comunque integralmente prodotta dall’ITL avanti il Tribunale civile nel caso proponga ricorso giudiziale, atteso che ai sensi dell’art. 6, comma 8, del d.lgs. 150/2011 con il decreto di fissazione udienza ex art. 415 c.p.c. il Giudice ordina all’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato di depositare in cancelleria, dieci giorni prima dell’udienza fissata, copia del rapporto con gli atti relativi all'accertamento, nonché alla contestazione o notificazione della violazione;
   - Violazione dell’articolo 3 della legge 241/1990, travisamento di fatto e di diritto, falsità del presupposto, perché la motivazione del diniego all’ostensione delle dichiarazioni dei collaboratori non tiene conto del consolidato orientamento giurisprudenziale che nega la possibilità di invocare la causa di esclusione di cui al DM 757/1994 per le ipotesi in cui i rapporti di lavoro siano già interrotti;
   - Violazione dell’articolo 3 della legge 241/1990, travisamento di fatto e di diritto, falsità del presupposto, con riferimento all’istanza di accesso alle altre fonti di prova, in quanto ancorché i documenti richiesti non siano stati elencati, gli stessi sono identificabili tramite l’inequivoco riferimento al verbale unico di accertamento;
   - Violazione dell’articolo 1, comma 1, e dell’articolo 3, comma 1 e 3, della legge 241/1990, perché conclusi gli accertamenti ispettivi, e quindi la fase sottratta al contraddittorio con il soggetto interessato, deve essere consentito alla parte che ne è destinataria di valutare la congruità delle conclusioni sulla base non solo delle motivazioni del provvedimento, ma anche delle risultanze istruttorie.
La ricorrente ha formulato istanza cautelare, rappresentando l’urgenza di disporre dei documenti richiesti ai fini di proporre ricorso avanti al Tribunale civile in ragione dei termini ridotti e della necessità, secondo il rito del lavoro applicabile alle opposizioni alle ordinanze ingiunzioni ai sensi dell’art. 6 d.lgs. 150/2011, di presentare tutte le sue difese già con l’atto di opposizione.
Con decreto Presidenziale n. 206 di data 12.07.2021 è stato assegnato all’Amministrazione resistente termine fino alle ore 24.00 del 15.07.2021 per controdedurre sull’istanza cautelare, mediante deposito di memoria e documenti, riservando all’esito la decisione sull’istanza stessa.
Nel termine assegnato l’Amministrazione ha effettuato una produzione documentale, ma non ha svolto difese sulla richiesta cautelare; parimenti con successiva memoria di data 19.07.2021 l’amministrazione non si è espressa sull’istanza cautelare, ma ha ribadito la legittimità del diniego all’accesso.
La causa è stata chiamata all’udienza camerale del 29.07.2021.
Nel corso della discussione orale tenutasi da remoto la difesa della società ricorrente ha confermato l’interesse al ricorso e alla pronuncia sull’istanza cautelare, chiedendo la definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata e ribadendo che anche il rilascio dei documenti in forma anonimizzata sarebbe interamente satisfattivo dell’interesse azionato.
Il Collegio ha trattenuto in decisione il ricorso, ritenendo sussistenti i presupposti per una definizione della controversia con sentenza in forma semplificata ai sensi degli articoli 60 e 116 c.p.a., considerato che il contraddittorio si è pienamente spiegato, che la causa è matura per la decisione, che parte ricorrente ha allegato oggettive ragioni di urgenza.
Il gravame è fondato nei limiti di seguito indicati.
Va evidenziato, con riferimento alle dichiarazioni rese dai collaboratori della società ricorrente, che secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato l’esclusione dall’accesso delle notizie acquisite nel corso dell'attività ispettiva prevista dall'art. 2 del D.M. 04.11.1994, n. 757 è limitata alle ipotesi in cui sussista un effettivo pericolo di pregiudizio per i lavoratori o per i terzi, sulla base di elementi di fatto concreti. Pertanto all’amministrazione è rimessa non solo la ponderazione degli opposti interessi, ma anche la verifica, in concreto, del pericolo di azioni discriminatorie o indebite pressioni nei confronti dei dichiaranti e che, conseguentemente, l’ipotesi di cui all'art. 3 del medesimo decreto deve di regola ritenersi insussistente allorché il rapporto di lavoro con tali soggetti sia cessato (Cons. Stato Sez. III, 09.12.2020, n. 7801; TAR Umbria, Sez. I, 10.02.2020, n. 55).
Nel caso di specie, a fronte di contestazioni che riguardano anche la sussistenza di rapporti di lavoro non previamente comunicati, l’interesse difensivo cui l’istanza di accesso è strumentale può esser soddisfatto –per espressa dichiarazione di parte ricorrente– anche limitando l’ostensione, ovvero rilasciando le nominate dichiarazioni previa cancellazione di tutti i dati che possano identificare le persone che li hanno resi, circostanza che rende irrilevante la sussistenza ab origine ovvero la permanenza di un rapporto di lavoro degli stessi con la parte ricorrente.
Né assume rilievo l’obbligo di segreto ex art. 329 c.p.p. per essere i fatti oggetto degli illeciti amministrativi interessati da una contestuale indagine penale, obbligo peraltro invocato dall’amministrazione resistente solo in sede difensiva, atteso che il verbale unico di contestazione espressamente specifica che non sono state indicate le fonti di prova che attengono ad attività investigative di natura penale e che le dichiarazioni dei collaboratori costituiscono documenti utilizzati ai fini dell’attività amministrativa. La mera trasmissione degli atti al vaglio del giudice penale, in assenza di un atto di sequestro, non comporta che gli stessi siano coperti da segreto né che questi siano sottratti all’accesso.
Infatti “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso. Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990” (TAR Catania, sez. III, 01/02/2017, n. 229; TAR Sicilia-Palermo Sez. I, 20/05/2020, n. 1006).
Conseguentemente, a fronte di un’esigenza di tutela ex articolo 24 della legge 241/1990 e non essendo configurabile in concreto la causa di esclusione all’accesso richiamata nel diniego impugnato, il provvedimento ITL_BS.REGISTRO UFFICIALE.2021.0021143 va annullato e, per l'effetto, va ordinato all'amministrazione resistente di provvedere, ai sensi dell'art. 116, co. 4, c.p.a., al rilascio alla parte ricorrente delle dichiarazioni acquisite nel corso dell’accesso ispettivo, previamente anonimizzate, entro cinque giorni dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza.
Il ricorso è invece infondato con riguardo alla seconda richiesta formulata dalla parte ricorrente, riferita ai documenti indicati come fonte di prova, respinta con provvedimento ITL_BS.REGISTRO UFFICIALE.2021.0021192.
La domanda di accesso ivi formulata infatti è inammissibilmente generica, laddove non si intenda riferita alle fonti di prova espressamente indicate dal verbale unico di accertamento e notificazione; queste -peraltro- sono individuate precisamente in tale atto (pag. 15 e 16) e consistono in documenti che, ad eccezione delle dichiarazioni rese dai collaboratori, di cui si è già trattato, sono tutti formati o comunque detenuti dalla stessa parte ricorrente (visura camerale, comunicazioni inviate al centro per l’impiego, libro unico del lavoro, verbale di primo accesso ispettivo, contratti di lavoro stipulati, bonifici emessi dal datore di lavoro, diffide, libro giornale anno 2019, schede contabili relative alle “prestazioni occasionali” e alle “ritenute di terzi” (anno 2020), F24 di pagamento ritenute di acconto, registro delle presenze del mese di febbraio 2021, script di presentazione utilizzato dagli operatori del call center, DVR datato 26/03/2021), per i quali -quindi- difetta un concreto interesse all’ostensione.
Conseguentemente la corrispondente domanda di annullamento non può trovare accoglimento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.07.2021 n. 708 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALILa giurisprudenza amministrativa è unanime nell’affermare che i consiglieri comunali vantano un incondizionato diritto di accesso –prevalente anche sull’eventuale diritto alla riservatezza dei terzi coinvolti dalle istanze ostensive, tenuto conto del segreto d’ufficio cui gli stessi sono tenuti- a tutti gli atti che possono essere utili all'espletamento delle loro funzioni.
Ciò anche al fine di valutare la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio oltre che per promuovere, nell'ambito di quest’ultimo, tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Il diritto di cui all’art. 43 citato T.U.E.L. presenta, dunque, una ratio diversa da quella che contraddistingue l’accesso ai documenti amministrativi di cui agli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990 -riconosciuto a chiunque sia portatore di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso- in quanto strettamente funzionale all'esercizio del munus pubblico di consigliere comunale e, quindi, alla verifica ed al controllo dell’operato degli organi decisionali dell'ente locale, quale espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
Siffatto diritto, quindi, al fine di «evitare che sia la stessa Amministrazione a diventare arbitro dell'ambito del controllo sul proprio operato […] non incontra alcuna limitazione in relazione alla eventuale natura riservata degli atti, stante il vincolo al segreto d'ufficio ex art. 622 cod. pen., e alla necessità di fornire la motivazione della richiesta. In definitiva gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso».
Ancor più di recente è stato ribadito che: «La giurisprudenza, con un sufficiente grado di stabilità, ha ritenuto che i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Di conseguenza sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal termine "utili" contenuto nel prima ricordato art. 43 non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto aggettivo servendo in realtà a garantire l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato.
Ciò in quanto il diritto di accesso del consigliere comunale non riguarda solamente le competenze attribuite al Consiglio comunale, ma, essendo riferito all'espletamento del mandato, investe l'esercizio del munus in tutte le sue potenziali implicazioni, al fine di consentire la valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale.
Corollario di tale impostazione è che non può essere legittimamente opposto un diniego sull'istanza di accesso dei consiglieri motivato con riferimento alla esigenza di assicurare la riservatezza dei dati contenuti nei documenti richiesti e dunque il diritto alla privacy di soggetti terzi, in quanto, con riguardo all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali, tale esigenza è salvaguardata dall'art. 43, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 267 del 2000, che impone ad essi il segreto ove accedano ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi.
La natura del diritto (soggettivo pubblico) di accesso dei consiglieri comunali e le prerogative allo stesso connesse comporta, per un'esigenza di coerenza dell'ordinamento, riflessi anche sul piano processuale, invero in poche occasioni approfonditi in sede applicativa, ma che inducono a condividere l'assunto dell'appellante, secondo cui nella materia dell'accesso dei consiglieri comunali non è configurabile una posizione di controinteresse in capo al soggetto portatore dell'interesse alla riservatezza.
Si intende cioè osservare che, non contemplando il diritto di accesso del consigliere comunale i vincoli e le limitazioni previsti dalla disciplina generale di cui alla legge n. 241 del 1990 (ed in particolare quelli relativi alla riservatezza dei terzi), neppure in sede processuale assume rilievo la posizione del terzo che potrebbe opporsi all'accesso, e pertanto non è configurabile alcun controinteressato».
...
L’applicazione dei principi testé esposti al caso in esame conduce all’accertamento giurisdizionale del diritto degli odierni ricorrenti ad avere accesso, per come dagli stessi richiesto, a tutti gli atti e documenti di cui ai fascicoli edilizi, di condono edilizio e di vigilanza edilizia relativi al complesso immobiliare di proprietà -OMISSIS-, in Catasto al -OMISSIS-, -OMISSIS-, in quanto oggetto di una segnalazione in ordine a possibili abusi e ciò allo scopo di vigilare in ordine alla correttezza dell’attività amministrativa fin qui posta in essere.
L’istanza ostensiva in parola, oltre a soddisfare la ratio legis sottesa all’art. 43, comma 2, citato T.U.E.L. è, inoltre, assentibile anche in quanto precisa, puntuale e, come tale, non comportante alcun aggravio per gli uffici comunali i quali ben possono –rectius devono- evaderla senza alcun differimento di sorta.
Il sostanziale rifiuto di evadere la richiesta ostensiva in questione non può, peraltro, trovare giustificazione nell’asserita esistenza -peraltro evidenziata soltanto in giudizio dalla difesa dell’ente– del segreto istruttorio di cui all’art. art. 329, comma 1, c.p.p.
Ed invero, innanzitutto, dalla produzione documentale agli atti del giudizio si evince la mera pendenza, avuto riguardo al compendio immobiliare -OMISSIS-, di un procedimento di vigilanza urbanistico-edilizia, azionato dall’Ufficio Tecnico comunale in sinergia con la Polizia Municipale, rientrante nell’ordinaria sfera di competenza dell’ente locale, secondo quanto disposto dall’art. 27, comma 1, D.P.R. n. 380/2001, a norma del quale: «Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi».
Risulta, inoltre, che l’amministrazione stia valutando le risultanze di siffatta attività di vigilanza a valle della quale redigerà una relazione finale in cui darà conto degli eventuali abusi riscontrati e dell’eventuale rilevanza penale degli stessi, con i connessi obblighi di informazione nei confronti dell’Autorità Giudiziaria penale.
L’attività di vigilanza in parola, non essendo qualificabile in termini di attività di indagine penale, tale dovendosi ritenere, a mente dell’art. 329 c.p.p., esclusivamente quella compiuta dal “pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria”, è doverosamente ostensibile, per le ragioni sopra esposte, nei confronti dei consiglieri comunali istanti.
A tale conclusione si dovrebbe giungere anche nel caso in cui, a valle della chiusura di siffatto procedimento amministrativo di vigilanza, l’ente dovesse determinarsi a trasmettere all’Autorità Giudiziaria Penale i relativi atti istruttori e provvedimentali, successivamente adottati.
Ed invero, l’eventuale migrazione di tali atti nel fascicolo del procedimento penale che dovesse essere, conseguentemente, avviato non sarebbe idonea a modificare la natura “amministrativa” degli accertamenti compiuti dall’ente i quali, non essendo stati realizzati né dal pubblico ministero né dalla polizia giudiziaria, continuerebbero a rimanere ostensibili dal Comune anche in pendenza di siffatto procedimento penale, giacché non “coperti” dal cd. segreto istruttorio di cui all’art. 329 c.p.p.
Quanto sopra trova riscontro in quel condivisibile orientamento anche di questo Tribunale, secondo cui «L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso. Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990"».
---------------

... per l’annullamento:
   - della nota prot. n. 9372 del 22.02.2021, a firma del Dirigente Arch. Ma. Di St., di diniego dell'istanza di accesso agli atti;
   - della nota prot. n. 10003 del 24.02.2021 a firma del Dirigente Arch. Ma. Di St., di diniego dell'istanza di accesso agli atti e di conclusione del procedimento.
per l'accertamento:
   - dell’illegittimità del diniego di accesso agli atti;
e per la condanna:
   - dell'Amministrazione intimata a consentire l'accesso mediante visione ed estrazione di copie di atti e documenti relativi alla richiesta formulata in data 18.11.2020, prot. n. 52706.
...
1. Con ricorso tempestivamente notificato e depositato in data 24.03.2021, i ricorrenti, nella espressa qualità di consiglieri comunali del Comune di Cerveteri, mercé l’impugnazione delle note comunali in epigrafe indicate, di contenuto sostanzialmente reiettivo, hanno chiesto l’accertamento giurisdizionale del proprio diritto ad avere accesso, ai sensi dell’art. 43, comma 2, D.lgs. n. 267/2002, ai documenti amministrativi appresso indicati, relativi a taluni interventi edilizi, residenziali e non, insistenti nel territorio comunale di Cerveteri, in area contraddistinta al -OMISSIS-, -OMISSIS-(località -OMISSIS- di -OMISSIS-) di proprietà della famiglia -OMISSIS-, in quanto oggetto di segnalazioni anonime che ne denunciano il carattere abusivo:
   1) Visura e copia conforme originale della regolare licenza di costruzione degli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
   2) Visura e copia conforme originale di eventuale condono o condoni inerenti gli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
   3) Visura e copia conforme originale di eventuali verbali di sopralluogo della polizia edilizia (Polizia locale), avvenuto accertamento, sanzioni e ordinanze con relativa trasmissione alle Autorità di competenza inerenti ai presunti abusi edilizi, riguardanti varie costruzioni residenziali e non presenti su -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
   4) Visura e copia conforme originale di eventuali procedure e azioni finalizzate alla demolizione e/o all’acquisizione al Patrimonio Pubblico, messe in atto dal competente Ufficio Urbanistica e dalla Polizia Locale di Cerveteri, inerenti i presunti abusi edilizi riguardanti varie costruzioni residenziali e non presenti su -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina in allegato presente nella pervenuta segnalazione denuncia);
   5) Visura e copia conforme originale, se esistenti, di eventuali ordinanze, procedure, denunce, atti e/o azioni con i quali, a fronte della eventuale constatazione di presunti abusi edilizi, riguardanti varie costruzioni residenziali e non presenti su -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri, sono stati perseguiti gli eventuali responsabili debitamente individuati dai soggetti coinvolti e dalle competenti Autorità.
2. A fronte dell’istanza in parola, l’amministrazione comunale forniva ai ricorrenti dati ed informazioni ritenuti parziali rispetto all’oggetto di ostensione.
Più precisamente, a mezzo pec del 24.02.2021, il Responsabile della Polizia Municipale informava i ricorrenti che gli accertamenti in ordine a possibili violazioni della vigente disciplina urbanistico-edilizia nell’area del territorio comunale attenzionata erano ancora in corso e che si era in attesa che l’Ufficio Tecnico, a valle dell’attività di vigilanza, redigesse una relazione finale ricognitiva dell’esistenza di eventuali abusi che, ove esistenti, sarebbero stati perseguiti, mediante l’adozione delle correlate misure di cui gli istanti sarebbero stati informati.
3. Il gravame risulta affidato a plurimi motivi di diritto, tutti sostanzialmente tendenti all’affermazione del proprio diritto, nella qualità di consiglieri comunali, ad avere accesso incondizionato a tutti gli atti richiesti, attinenti la realizzazione di possibili abusi edilizi, in quanto utili all’espletamento del loro mandato, anche al fine di vigilare sulla correttezza, trasparenza ed efficienza dell’agere dell’ente locale, secondo quanto previsto dall’art. 43, comma 2, D.lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.).
4. Il Comune di Cerveteri ha resistito al gravame mediante articolate deduzioni difensive, tendenti a contestare il diritto dei ricorrenti ad avere accesso agli atti dei fascicoli edilizi relativi agli interventi attenzionati dall’amministrazione, all’uopo opponendo, per un verso, l’inesistenza di parte della documentazione richiesta, avuto specifico riguardo alle misure sanzionatorie eventualmente già adottate, e, per l’altro, il segreto istruttorio cui sarebbero tenuti la Polizia Municipale e l’Ufficio Urbanistica in relazione agli accertamenti in corso.
5. In data 21.05.2021, la difesa dell’ente ha depositato nota prot. n. 25063 del 20.05.2021, con cui il Comandante della Polizia Municipale ha notiziato i ricorrenti in ordine alle date dei sopralluoghi effettuati, congiuntamente a personale dell’Ufficio Tecnico, presso il complesso edilizio di proprietà -OMISSIS-, tra i -OMISSIS-, ribandendo il differimento dell’accesso all’esito dell’elaborazione delle relative risultanze che sarebbero state compendiate nella “specifica relazione tecnica” finale.
6. In occasione della camera di consiglio dell’01.06.2021, in vista della quale i ricorrenti hanno insistito nelle proprie richieste ostensive, ritenendole non soddisfatte dalle comunicazioni interlocutorie inoltrate dall’amministrazione, la causa è stata trattenuta in decisione.
7. Il ricorso è fondato.
8. L’accertamento del diritto dei consiglieri comunali, odierni ricorrenti, ad avere accesso a tutti gli atti e documenti amministrativi richiesti, di fatto coincidenti con tutti quelli inerenti i fascicoli edilizi, di condono edilizio nonché di vigilanza edilizia relativi agli edifici di proprietà -OMISSIS-, insistenti sull’area contraddistinta in Catasto al -OMISSIS-, -OMISSIS- del territorio comunale di Cerveteri, passa dalla preliminare ricognizione della ratio sottesa alla disposizione normativa di cui all’art. 43, comma 2, D.lgs. n. 267/2000, a norma della quale «I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge».
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, è unanime nell’affermare che i consiglieri comunali vantano un incondizionato diritto di accesso –prevalente anche sull’eventuale diritto alla riservatezza dei terzi coinvolti dalle istanze ostensive, tenuto conto del segreto d’ufficio cui gli stessi sono tenuti- a tutti gli atti che possono essere utili all'espletamento delle loro funzioni.
Ciò anche al fine di valutare la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio oltre che per promuovere, nell'ambito di quest’ultimo, tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
8.1 Il diritto di cui all’art. 43 citato T.U.E.L. presenta, dunque, una ratio diversa da quella che contraddistingue l’accesso ai documenti amministrativi di cui agli artt. 22 e ss. L. n. 241/1990 -riconosciuto a chiunque sia portatore di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso- in quanto strettamente funzionale all'esercizio del munus pubblico di consigliere comunale e, quindi, alla verifica ed al controllo dell’operato degli organi decisionali dell'ente locale, quale espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività.
Siffatto diritto, quindi, al fine di «evitare che sia la stessa Amministrazione a diventare arbitro dell'ambito del controllo sul proprio operato […] non incontra alcuna limitazione in relazione alla eventuale natura riservata degli atti, stante il vincolo al segreto d'ufficio ex art. 622 cod. pen., e alla necessità di fornire la motivazione della richiesta. In definitiva gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi, per un verso, nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e, per altro verso, che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso» (così TAR Sicilia, Catania, sez. I, 04/05/2020, n. 926; cfr. anche, TAR Piemonte, Torino, sez. II, 01/03/2021, n. 215; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 20/01/2020, n. 16).
Ancor più di recente è stato ribadito che: «La giurisprudenza, con un sufficiente grado di stabilità, ha ritenuto che i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare, con piena cognizione, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Di conseguenza sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotto una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale; dal termine "utili" contenuto nel prima ricordato art. 43 non può conseguire alcuna limitazione al diritto di accesso dei consiglieri comunali, detto aggettivo servendo in realtà a garantire l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (così, tra le tante, Cons. Stato, V, 17.09.2010, n. 6963).
Ciò in quanto il diritto di accesso del consigliere comunale non riguarda solamente le competenze attribuite al Consiglio comunale, ma, essendo riferito all'espletamento del mandato, investe l'esercizio del munus in tutte le sue potenziali implicazioni, al fine di consentire la valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale.
Corollario di tale impostazione è che non può essere legittimamente opposto un diniego sull'istanza di accesso dei consiglieri motivato con riferimento alla esigenza di assicurare la riservatezza dei dati contenuti nei documenti richiesti e dunque il diritto alla privacy di soggetti terzi, in quanto, con riguardo all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali, tale esigenza è salvaguardata dall'art. 43, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 267 del 2000, che impone ad essi il segreto ove accedano ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi (Cons. Stato, V, 11.12.2013, n. 5931).
La natura del diritto (soggettivo pubblico) di accesso dei consiglieri comunali e le prerogative allo stesso connesse comporta, per un'esigenza di coerenza dell'ordinamento, riflessi anche sul piano processuale, invero in poche occasioni approfonditi in sede applicativa, ma che inducono a condividere l'assunto dell'appellante, secondo cui nella materia dell'accesso dei consiglieri comunali non è configurabile una posizione di controinteresse in capo al soggetto portatore dell'interesse alla riservatezza.
Si intende cioè osservare che, non contemplando il diritto di accesso del consigliere comunale i vincoli e le limitazioni previsti dalla disciplina generale di cui alla legge n. 241 del 1990 (ed in particolare quelli relativi alla riservatezza dei terzi), neppure in sede processuale assume rilievo la posizione del terzo che potrebbe opporsi all'accesso, e pertanto non è configurabile alcun controinteressato
» (così Consiglio di Stato sez. V, 19/04/2021, n. 3161).
9. L’applicazione dei principi testé esposti al caso in esame conduce all’accertamento giurisdizionale del diritto degli odierni ricorrenti ad avere accesso, per come dagli stessi richiesto, a tutti gli atti e documenti di cui ai fascicoli edilizi, di condono edilizio e di vigilanza edilizia relativi al complesso immobiliare di proprietà -OMISSIS-, in Catasto al -OMISSIS-, -OMISSIS-, in quanto oggetto di una segnalazione in ordine a possibili abusi e ciò allo scopo di vigilare in ordine alla correttezza dell’attività amministrativa fin qui posta in essere (in tema di accesso dei consiglieri comunali agli atti di cui alle pratiche edilizie, si veda TAR Puglia, Bari, sez. III, 04/06/2019, n. 795).
10. L’istanza ostensiva in parola, oltre a soddisfare la ratio legis sottesa all’art. 43, comma 2, citato T.U.E.L. è, inoltre, assentibile anche in quanto precisa, puntuale e, come tale, non comportante alcun aggravio per gli uffici comunali i quali ben possono –rectius devono- evaderla senza alcun differimento di sorta.
Il sostanziale rifiuto di evadere la richiesta ostensiva in questione non può, peraltro, trovare giustificazione nell’asserita esistenza -peraltro evidenziata soltanto in giudizio dalla difesa dell’ente– del segreto istruttorio di cui all’art. art. 329, comma 1, c.p.p.
Ed invero, innanzitutto, dalla produzione documentale agli atti del giudizio si evince la mera pendenza, avuto riguardo al compendio immobiliare -OMISSIS-, di un procedimento di vigilanza urbanistico-edilizia, azionato dall’Ufficio Tecnico comunale in sinergia con la Polizia Municipale, rientrante nell’ordinaria sfera di competenza dell’ente locale, secondo quanto disposto dall’art. 27, comma 1, D.P.R. n. 380/2001, a norma del quale: «Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi».
Risulta, inoltre, che l’amministrazione stia valutando le risultanze di siffatta attività di vigilanza, espletata nel corso dei sopralluoghi del 18.02.2021, 04.03.2001 e 20.05.2001, a valle della quale redigerà una relazione finale in cui darà conto degli eventuali abusi riscontrati e dell’eventuale rilevanza penale degli stessi, con i connessi obblighi di informazione nei confronti dell’Autorità Giudiziaria penale.
10.1 L’attività di vigilanza in parola, non essendo qualificabile in termini di attività di indagine penale, tale dovendosi ritenere, a mente dell’art. 329 c.p.p., esclusivamente quella compiuta dal “pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria”, è doverosamente ostensibile, per le ragioni sopra esposte, nei confronti dei consiglieri comunali istanti.
A tale conclusione si dovrebbe giungere anche nel caso in cui, a valle della chiusura di siffatto procedimento amministrativo di vigilanza, l’ente dovesse determinarsi a trasmettere all’Autorità Giudiziaria Penale i relativi atti istruttori e provvedimentali, successivamente adottati.
Ed invero, l’eventuale migrazione di tali atti nel fascicolo del procedimento penale che dovesse essere, conseguentemente, avviato non sarebbe idonea a modificare la natura “amministrativa” degli accertamenti compiuti dall’ente i quali, non essendo stati realizzati né dal pubblico ministero né dalla polizia giudiziaria, continuerebbero a rimanere ostensibili dal Comune anche in pendenza di siffatto procedimento penale, giacché non “coperti” dal cd. segreto istruttorio di cui all’art. 329 c.p.p.
Quanto sopra trova riscontro in quel condivisibile orientamento anche di questo Tribunale, secondo cui «L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso. Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990" (TAR Catania, (Sicilia) sez. III, 01/02/2017, n. 229)» (così TAR Lazio-Roma, sez. II, 02/01/2020, n. 4).
11. Sulla scorta delle superiori considerazioni, il ricorso è fondato, con conseguente accertamento del diritto dei consiglieri comunali ricorrenti ad avere visione ed estrarre copia degli atti e documenti richiesti con l’istanza del 18.11.2020, prot. n. 52706 appresso indicati, ove esistenti:
   - Visura e copia conforme originale della regolare licenza di costruzione degli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina allegata pervenuta segnalazione denuncia);
   - Visura e copia conforme originale di eventuale condono o condoni inerenti gli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri (come da piantina allegata alla segnalazione denuncia);
   - Visura e copia conforme all’originale di tutti i verbali relativi ai sopralluoghi fin qui posti in essere presso gli immobili realizzati sulla -OMISSIS--OMISSIS- in località -OMISSIS- di -OMISSIS- nella via di -OMISSIS- del Comune di Cerveteri, allo stato indicati dal Comune in relazione degli accessi del 18.02.2021; 04.03.2021 e 20.05.2021, e di quelli eventualmente a venire.
Con espressa declaratoria del diritto dei ricorrenti ad avere copia, già richiesta, della relazione conclusiva che verrà elaborata a chiusura della suddetta attività di vigilanza edilizia nonché degli eventuali provvedimenti repressivo-sanzionatori che l’amministrazione ritenesse di adottare, con eventuale nota di trasmissione alle Autorità di competenza.
11.2 Va, dunque, ordinato al Comune di Cerveteri di esibire gli atti sopra indicati, anche mediante estrazione di copia, nel termine di trenta giorni dalla comunicazione e/o notificazione, se anteriore, della presente sentenza ovvero dall’intervenuta formazione degli stessi (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 21.06.2021 n. 7338 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl diritto di accesso in funzione difensiva è garantito dall'art. 24, comma 7, della L. 241/1990, che, nel rispetto dell’art. 24 della Costituzione, prevede, con una formula di portata generale, che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
E’ anche vero che la medesima norma specifica con molta chiarezza come non bastino esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l'accesso, dovendo quest'ultimo corrispondere ad una effettiva necessità di tutela di interessi che si assumano lesi.
Orbene nel caso in esame non vi è dubbio che la società istante vanta un interesse personale, concreto ed attuale alla ostensione, corrispondente ad una posizione giuridica qualificata, siccome derivante dalla comunicazione di avvio del procedimento finalizzato alla revoca di un contributo pubblico in precedenza concesso; diritto all’ostensione che, come noto, prescinde dal requisito della strumentalità rispetto alle connesse ed eventuali iniziative giudiziarie conseguenti, potendo essere tutelato di per sé ed in via autonoma.
L’istanza di accesso formulata dalla società ricorrente non è quindi generica, avendo ad oggetto specifici atti, ed è altresì motivata con riferimento a finalità difensive.
---------------
L'art. 24, co. 1, L. n. 241/1990 così dispone: “1. Il diritto di accesso è escluso: a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24.10.1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo”.
Tra i casi di segreto previsti dall'ordinamento, rientra quello istruttorio in sede penale, delineato dall'art. 329 c.p.p., a tenore del quale <<gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari>>.
La norma in commento segreta gli atti di indagine, che siano posti in essere dal pubblico ministero ovvero dalla polizia giudiziaria. Tuttavia, non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso.
In particolare è stato affermato che “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990”.
Nel caso in esame gli atti richiesti dalla ricorrente non sono gli atti di indagine posti in essere dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, ma sono gli atti amministrativi inerenti il procedimento di revoca del contributo, sicché detti atti amministrativi, salvo non siano stati espressamente sottoposti a secretazione dall’Autorità giudiziaria penale, sono certamente ostensibili; e sul punto nulla è stato riferito e comprovato dalla difesa erariale.
---------------

... per l'annullamento del diniego di accesso ai documenti amministrativi relativi ai procedimenti di revoca delle agevolazioni di cui alla nota 21841 del 28/03/2019, negato con il provvedimento del 24/05/2019, prot. -OMISSIS-.
...
2. Il ricorso è fondato.
2.1. Il diritto di accesso in funzione difensiva è garantito dall'art. 24, comma 7, della L. 241/1990, che, nel rispetto dell’art. 24 della Costituzione, prevede, con una formula di portata generale, che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
E’ anche vero che la medesima norma -come successivamente modificata tra il 2001 e il 2005 (art. 22 l. n. 45/2001, art. 176, comma 1, d.lgs. n. 196/2003 e art. 16 l. n. 15/2005)- specifica con molta chiarezza come non bastino esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l'accesso, dovendo quest'ultimo corrispondere ad una effettiva necessità di tutela di interessi che si assumano lesi (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 28.09.2012 n. 5153).
Orbene nel caso in esame non vi è dubbio che la società istante vanta un interesse personale, concreto ed attuale alla ostensione, corrispondente ad una posizione giuridica qualificata, siccome derivante dalla comunicazione di avvio del procedimento finalizzato alla revoca di un contributo pubblico in precedenza concesso; diritto all’ostensione che, come noto, prescinde dal requisito della strumentalità rispetto alle connesse ed eventuali iniziative giudiziarie conseguenti (cfr. CdS Sez. III n. 116/2012), potendo essere tutelato di per sé ed in via autonoma (Consiglio di Stato sez. VI, 15/11/2018, n. 6444).
L’istanza di accesso formulata dalla società ricorrente non è quindi generica, avendo ad oggetto specifici atti, ed è altresì motivata con riferimento a finalità difensive.
3. Ciò precisato deve rilevarsi che le ragioni addotte dall’amministrazione per negare l’accesso, in relazione alla documentazione richiesta, non appaiono scriminanti rispetto a detto interesse qualificato della ricorrente.
3.1. Il provvedimento di diniego è fondato sull’assunto che “così come precisato dagli organi di polizia giudiziaria competenti, il contenuto degli atti è già nella disponibilità della Società che può acquisirne copia nelle forme previste dal c.p.p.”.
La difesa erariale ha a sua volta sostenuto nella propria memoria che la richiesta di accesso in esame riguarda atti e documenti relativi al procedimento di revoca delle agevolazioni, attivato dall’Assessorato a seguito di una segnalazione della Guardia di Finanza –Tenenza Barcellona Pozzo di Gotto, la quale informava delle circostanze di fatto per le quali è stato instaurato, parallelamente, il procedimento penale -OMISSIS- R.G.N.R. Mod. 21 a carico dell’amministratore della -OMISSIS- per il reato p. e p. dall’art. 640-bis c.p., vale a dire il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.
Ha rappresentato, peraltro, che nell’ambito del procedimento penale l’Autorità procedente ha richiesto e ottenuto un decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca anche in forma equivalente dei beni nella disponibilità dell’indagato.
Orbene sulla scorta di dette premesse la difesa erariale ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse atteso che a suo avviso “…parte ricorrente mira ad ottenere l’ostensione di atti di fatto già in suo possesso” trattandosi di “… informazioni certamente già nella disponibilità della società -OMISSIS- o comunque ottenibili attraverso le ordinarie forme di cui al c.p.p., atteso che a seguito dell’istanza di riesame del provvedimento di sequestro, la documentazione è diventata ostensibile”.
3.2. Le argomentazioni opposte dall’amministrazione sono infondate.
Sotto un primo profilo va tenuto presente che l’istanza di accesso è stata proposta dalla Soc. -OMISSIS- Srl, titolare di una propria soggettività giuridica nonché soggetto direttamente coinvolto nel procedimento di revoca del contributo avviato dall’amministrazione e, pertanto, suscettibile di essere inciso negativamente dall’eventuale provvedimento in fieri; il procedimento penale pendente, invece, è a carico dell’amministratore della società, persona fisica titolare di una distinta e separata soggettività giuridica, che in tesi potrebbe anche porsi in conflitto di interesse rispetto a quello della società ricorrente.
Sotto altro profilo deve rilevarsi che l'art. 24, co. 1, L. n. 241/1990 così dispone: “1. Il diritto di accesso è escluso: a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24.10.1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo”.
Tra i casi di segreto previsti dall'ordinamento, rientra quello istruttorio in sede penale, delineato dall'art. 329 c.p.p., a tenore del quale <<gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari>>.
La norma in commento segreta gli atti di indagine, che siano posti in essere dal pubblico ministero ovvero dalla polizia giudiziaria. Come esattamente rilevato dal Consiglio di Stato, non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso (Consiglio di Stato, sez. VI, 29/01/2013, n. 547; Consiglio di Stato, sez. VI, 10/04/2003, n. 1923).
In particolare è stato affermato che “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso. Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990” (TAR, Catania, sez. III, 01/02/2017, n. 229).
Nel caso in esame gli atti richiesti dalla ricorrente non sono gli atti di indagine posti in essere dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, ma sono gli atti amministrativi inerenti il procedimento di revoca del contributo, sicché detti atti amministrativi, salvo non siano stati espressamente sottoposti a secretazione dall’Autorità giudiziaria penale, sono certamente ostensibili; e sul punto nulla è stato riferito e comprovato dalla difesa erariale.
4. Conclusivamente, ritiene il Collegio che l’istanza di accesso agli atti sia pertinente con il diritto di difesa della società ricorrente sicché, per le surriferite ragioni, il ricorso deve essere accolto, e per l’effetto:
   - va annullata la nota impugnata con cui l’amministrazione ha denegato l’accesso ai documenti richiesti;
   - va affermato il diritto della società ricorrente all’accesso documentale di cui è causa, in relazione alla documentazione indicata nella parte motiva e nei sensi sopra esposti, mediante esame integrale ed estrazione di copia dei relativi documenti amministrativi.
Con condanna dell’intimata amministrazione a porre in essere le dovute attività consequenziali entro il termine di giorni 30 (trenta) dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 20.05.2020 n. 1006 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa questione oggetto del presente giudizio è se possa essere legittimamente negato l’accesso ai documenti amministrativi ai sensi dell’art. 22, comma 3 e 24, comma 6, lett. c), della l. 241/1990, in quanto strumentali ad attività di indagine della polizia giudiziaria.
Come è noto, l'art. 24 della L. n. 241/1990, nella versione riformulata dalla L. 11.02.2005, n. 15 ha sancito, elevando a rango superiore un principio già introdotto a livello regolamentare, l'esclusione dell'esibizione di atti utilizzati nel corso dell'attività giudiziaria o di polizia.
La giurisprudenza ha tuttavia chiarito che “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990”.
Viceversa, qualora si richieda l'ostensione di atti coperti da segreto istruttorio perché posti in essere nell'ambito di un'attività di P.G., i relativi documenti dovranno essere ritenuti sottratti al diritto di accesso ex artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 e ostensibili unicamente mediante l'attivazione degli strumenti previsti dal codice di procedura penale.
---------------

... per l'annullamento del diniego accesso atti del 21.03.2019 prot. -OMISSIS- dell'agenzia del demanio direzione regionale Lazio.
...
Con il ricorso in epigrafe, parte ricorrente agisce per l’accesso ai documenti richiesti all’Agenzia del demanio in data 14.02.2019 e concernenti il sopralluogo e l’ispezione effettuati nello stabilimento balneare della società ricorrente da un tecnico della Agenzia nel settembre del 2018.
La richiesta era motivata sulla base del fatto che il comune di Sabaudia aveva successivamente comunicato un avviso di avvio del procedimento di revoca della concessione demaniale e pertanto la documentazione richiesta era necessaria all’istante per svolgere le proprie attività difensive sia in sede procedimentale che, eventualmente, in sede giudiziale.
In particolare, la ricorrente chiedeva i seguenti atti:
   1)- Nota prot. -OMISSIS- citata nell'esito dell'Ispezione del -OMISSIS-, prot. n. -OMISSIS-, in tutte le sue parti e completa di tutta la documentazione ad essa allegata;
   2)- Nota di servizio e/o verbale di acquisizione degli atti presso il Comune di Sabaudia come indicati nella nota ”esito ispezione” con prot. n. -OMISSIS-;
   3)- Copia degli atti inviati al Comune di Sabaudia successivamente alla data del -OMISSIS-;
   4)- Copia di qualunque altro atto interno, anche se non direttamente conosciuto, successivo e funzionalmente collegato all'esito dell'ispezione del -OMISSIS-.
In data 14.03.2019, a mezzo PEC, l'Agenzia del Demanio dava seguito alla richiesta di accesso indicando la data del 21 marzo per l'espletamento dell'attività richiesta.
Il giorno 21 marzo, il tecnico incaricato dalla ricorrente si recava presso gli uffici d'Agenzia del Demanio in Roma per accedere al fascicolo, ma contrariamente a quanto indicato in precedenza, in quella sede gli veniva negato l’accesso in quanto, a seguito di una telefonata con la Capitaneria di porto, si era venuti a sapere che la documentazione richiesta era oggetto di attività di indagine da parte della Capitaneria di porto a carico del titolare dello stabilimento balneare e che, pertanto, ai sensi dell'art. 22, comma 3, e 24, comma 6, lett. c), della L. 241/1990 l'accesso alla documentazione richiesta deve ritenersi allo stato negato in attesa di acquisire ulteriori informazioni dalla Capitaneria di Porto.
Avverso tale atto, parte ricorrente deduce:
   1)- violazione e falsa applicazione dell’art. 97 e dell'art. 24 della costituzione e del principio del buon andamento dell’amministrazione. Violazione e falsa applicazione dell’art. 22, comma 3, della l. 241/1990. Eccesso di potere. Sviamento.
   3)- falsa ed errata applicazione della legge. Violazione e falsa applicazione dell’art.24, comma 6, lett. c), della l. 241/1990. Eccesso di potere.
Il diniego di accesso sarebbe stato ingiustificato non ricorrente l’ipotesi invocata dalla amministrazione resistente, in quanto gli atti dei quali si richiede l’accesso sono atti amministrativi e non atti di polizia giudiziaria e poiché non si verte nel caso di specie di prevenzione della criminalità, tecniche investigative o identità delle fonti di informazione.
L’Agenzia del demanio si è costituita e ha depositato una memoria per sostenere l’infondatezza del ricorso.
All’udienza del -OMISSIS-, il Collegio ha chiesto, con ordinanza n. -OMISSIS-, chiarimenti circa lo stato delle indagini in corso, specificando in particolare se la documentazione oggetto della istanza di accesso sia stata oggetto di un provvedimento di sequestro probatorio e se sia comunque ancora nella disponibilità della amministrazione intimata.
In data 24.09.2019, l’amministrazione ha reso noto che, secondo quanto riferito dagli uffici competenti, non risultava che alcuna documentazione fosse oggetto di sequestro probatorio, precisando, tuttavia, che “sono in corso indagini della Procura della Repubblica di Latina nei confronti del nominato in argomento, per il quale, da ultimo, il GIP ha disposto il sequestro preventivo dello stabilimento balneare in concessione all’indagato”.
Gli uffici evidenziavano, altresì, che “ogni documentazione, ovvero atto prodotto nel merito delle indagini in parola, essendo ancora nell’ambito delle indagini preliminari, possono essere fornite ad eventuali istanti, con particolare riguardo agli indagati, unicamente giusta autorizzazione della Procura Procedente. Per quanto sopra ogni documento avente validità probatoria inserita nel fascicolo del P.M. dovrà essere richiesto direttamente allo stesso”.
In data 04.10.2019, parte ricorrente ha depositato una memoria nella quale ha specificato che nessun documento del fascicolo del PM era stato richiesto, in quanto la richiesta di accesso riguardava il fascicolo dell'Agenzia del Demanio, che non risulta aver inviato nulla al PM.
Risulta inoltre dagli atti depositati da parte ricorrente che le indagini si sono concluse e che è stato notificato all’indagato l’avviso di conclusione delle indagini, ex art. 415-bis c.p.p. emesso in data 01.10.2019. Pertanto, il segreto sugli atti d’indagini è caduto, mentre permane per parte ricorrente l’interesse ad accedere al fascicolo degli atti amministrativi dell’Agenzia.
La causa, all’odierna udienza, è stata trattenuta in decisione.
La questione oggetto del presente giudizio è se possa essere legittimamente negato l’accesso ai documenti amministrativi ai sensi dell’art. 22, comma 3 e 24, comma 6, lett. c), della l. 241/1990, in quanto strumentali ad attività di indagine della polizia giudiziaria.
Come è noto, l'art. 24 della L. n. 241/1990, nella versione riformulata dalla L. 11.02.2005, n. 15 ha sancito, elevando a rango superiore un principio già introdotto a livello regolamentare, l'esclusione dell'esibizione di atti utilizzati nel corso dell'attività giudiziaria o di polizia.
La giurisprudenza ha tuttavia chiarito che “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso. Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990.” (TAR Catania, (Sicilia) sez. III, 01/02/2017, n. 229).
Viceversa, qualora si richieda l'ostensione di atti coperti da segreto istruttorio perché posti in essere nell'ambito di un'attività di P.G., i relativi documenti dovranno essere ritenuti sottratti al diritto di accesso ex artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 e ostensibili unicamente mediante l'attivazione degli strumenti previsti dal codice di procedura penale (cfr. TAR Roma, (Lazio) sez. III, 23/12/2015, n. 14525).
Ora nel caso di specie non risulta né è stato allegato che gli atti in questione siano confluiti nel fascicolo del PM e siano pertanto da qualificarsi atti di indagine. E’ inoltre stato accertato che nessun provvedimento di sequestro probatorio è stato adottato con riferimento alla documentazione in questione.
Gli atti richiesti da parte ricorrente, dunque, pur avendo una sicura attinenza con indagini della PG, non risultano sottratti al diritto di accesso ai sensi della normativa indicata dalla Agenzia resistente in quanto non sono confluiti nel fascicolo del PM e non riguardano attività posta in essere nell’esercizio di funzioni di PG.
Inoltre, in ogni caso, anche qualora essi fossero stati acquisiti al fascicolo del PM (e così non è, a quanto risulta dagli atti del presente giudizio), il segreto è comunque venuto meno dalla data del 01.10.2019 a seguito della comunicazione dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p..
In conclusione, dunque, il ricorso deve essere accolto e deve essere ordinato all’Agenzia resistente di consentire l’accesso (nelle forme della visione e dell’estrazione di copia) degli atti richiesti con l’istanza del 14.02.2019, entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione della presente sentenza (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 02.01.2020 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - SICUREZZA LAVOROLa giurisprudenza ha sancito, in termini costanti, che se possono esservi dubbi in ordine alla conoscibilità dei dati dei soggetti che abbiano posto in essere, nei confronti dell’imprenditore, eventuali segnalazioni o esposti idonei ad innescare l’accertamento lavoristico, non può invece essere revocata in dubbio la piena accessibilità dei documenti in virtù dei quali l’ente ispettivo abbia irrogato le sanzioni. Detta conoscenza è infatti essenziale per il datore di lavoro ai fini dell’esercizio del proprio diritto di difesa giurisdizionale, costituzionalmente garantito.
---------------
il differimento del diritto di accesso può essere disposto per la salvaguardia degli specifici interessi pubblici indicati dall’art. 24, comma 6, L. 241/1990, ovvero:
   a) sicurezza, difesa e sovranità nazionale oltre alle relazioni internazionali dello Stato;
   b) politica monetaria e valutaria;
   c) ordine pubblico, prevenzione e repressione della criminalità e attività di polizia giudiziaria e conduzione delle indagini;
   d) vita privata e riservatezza di soggetti terzi;
   e) contrattazione collettiva.
L’interesse pubblico per la cui tutela si dispone il differimento deve essere specificamente individuato e reso noto, nello stesso atto di differimento, all’interessato. Inoltre, il differimento non può essere disposto sine die, ma deve necessariamente essere indicato un termine finale.
Nel caso di specie, il provvedimento adottato dalla p.a. prevedeva una scadenza non individuabile e non era motivato, in quanto conteneva un generico riferimento a una non meglio precisata “necessità di tutelare temporaneamente l’interesse pubblico”, senza individuare quale, tra gli interessi pubblici idonei secondo il legislatore (art. 24, comma 6, cit.) alla temporanea compressione del diritto di accesso, venisse in rilievo.
Tuttavia, configurandosi il rito dell’accesso come un processo volto ad accertare in termini sostanziali la sussistenza del diritto, deve ritenersi che la p.a. sia ammessa a integrare la motivazione del provvedimento in sede giurisdizionale: invero, “Il ricorso in materia di accesso è ontologicamente rivolto all'accertamento della fondatezza della pretesa. Il relativo giudizio, infatti, pur seguendo il rito impugnatorio, è in ogni caso strutturato come un giudizio di accertamento della fondatezza della pretesa a prescindere dal contenuto del provvedimento di diniego o, come nel caso di specie, di differimento, sicché l'eventuale difetto di motivazione non assume alcun rilievo ai fini dell'esito del ricorso, imponendo, invece, al giudice di verificare direttamente se sussistono i presupposti di legge per ordinare l'esibizione degli atti.[…] Nel giudizio in materia di accesso, l’integrazione della motivazione del diniego o del differimento deve ritenersi senz’altro consentita all’Amministrazione e, peraltro, ai fini dell’esito del ricorso è sostanzialmente irrilevante, atteso che l’azione giurisdizionale è rivolta ad accertare l’esistenza del diritto di accesso alla luce dei parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o minore correttezza delle ragioni addotte dall’Amministrazione per giustificare il diniego”.
Nella relazione allegata all’atto di costituzione in giudizio depositata dalla difesa erariale, si faceva menzione (peraltro in termini piuttosto vaghi e ipotetici) di accertamenti ancora in corso e dell’eventualità di una delega d’indagine da parte dell’Autorità Giudiziaria penale, assoggettata a segreto istruttorio.
In effetti, gli atti eventualmente posti in essere dalla p.a. in veste di Polizia Giudiziaria sono assoggettati a segreto istruttorio e non sono ostensibili in sede di accesso ex artt. 22 e ss. L. 241/1990: “Qualora si richieda l'ostensione di atti coperti da segreto istruttorio perché posti in essere nell'ambito di un'attività di P.G., i relativi documenti dovranno essere ritenuti sottratti al diritto di accesso ex artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 e ostensibili unicamente mediante l'attivazione degli strumenti previsti dal codice di procedura penale tra cui sono contemplate le cd. indagini difensive ex artt. 391-bis e ss. c.p.p.”.
Dunque, con riferimento ad essi, la p.a. correttamente esercitava il potere di differimento, anche mediante indicazione di un termine ‘elastico’, ovvero legato alla conclusione dell’attività di indagine delegata in sede penale.
Sotto tale profilo, anche il superamento del termine di 30 giorni indicato dall’art. 25 L. 241/1990 non è rilevante, posto che in presenza di segreto istruttorio per gli atti di Polizia Giudiziaria il differimento dell’accesso si profila come un atto dovuto.
Tuttavia, le considerazioni sopra esposte devono intendersi limitate ai soli atti compiuti dalla p.a. resistente in virtù di delega di indagine penale, e dunque in veste di Polizia Giudiziaria, non anche con riferimento all’attività posta in essere dall’Ispettorato del Lavoro nell’esercizio delle proprie ordinarie funzioni amministrative di vigilanza, controllo e irrogazione delle sanzioni in sede amministrativa: in verità, “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso. Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990”.
Con riferimento agli atti compiuti dalla p.a. al di fuori dell’attività investigativa di Polizia Giudiziaria delegata dall’Autorità Giudiziaria penale, atti in relazione ai quali veniva disposta l’irrogazione, nei confronti del ricorrente, delle sanzioni pecuniarie in sede amministrativa che lo stesso ha diritto a contestare in sede giurisdizionale, deve dunque dichiararsi la sussistenza del diritto di accesso del ricorrente, nonché l’illegittimità del silenzio-rigetto e del differimento, in quanto non motivato e privo di un termine ultimo di efficacia.
---------------

... per l'annullamento
per l'accesso
   - agli atti e documenti presenti nel fascicolo in possesso dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro di Taranto originanti la notifica di verbale unico di accertamento e notificazione (prot. N. 25910 del 05/12/2018) avente ad oggetto la contestazione di illecito amministrativo di cui agli art. 39, comma 1, DL 112/2008 e ss.mm.ii. e art. 3, comma 3, DL 12/2002;
nonché per l'annullamento
   - del silenzio-rigetto formatosi in data 18.01.2019 sulla domanda di accesso presentata in data 19.12.2018;
nonché per l'annullamento
   - del provvedimento di differimento comunicato a mezzo pec in data 21.01.2019.
...
1. Ma.Ga. è titolare della ditta individuale E.G. di Ma.Ga. e, in tale qualità, in data 05.12.2018 gli veniva notificato dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Taranto il “Verbale unico di accertamento e notificazione” Prot. 85910 del 05.12.2018. Con il suddetto atto si contestava al Ga.:
   1) la violazione dell’art. 39, comma I, D.L. 112/2008 convertito in Legge 133/2008 – Istituzione e tenuta del LUL;
   2) la Violazione dell’art. 3, comma 3, D.L. 12/2002 convertito in Legge 73/2002 come sostituito dall’art. 22, comma 1, D.Lgs. 14.09.2015 n. 151 – Misure di contrasto del lavoro sommerso e irregolare fino a 30 giornate senza mantenimento in servizio.
2. Con pec del proprio legale ricevuta dall’Ispettorato il 19.12.2018 il Ga. richiedeva, ai sensi degli artt. 22 e ss. L. 241/1990, “copia conforme all’originale di tutti gli atti, nessuno escluso, alla data odierna presenti nel fascicolo in possesso dell’ufficio procedente e riguardanti la contestazione mossa al sig. Ga.”, motivando la propria richiesta con l’intenzione di “esercitare il connesso diritto di difesa”.
3. In data 18.01.2019 scadeva il termine per il perfezionamento del silenzio-rigetto di cui all’art. 25 L. 241/1990, senza che l’amministrazione si pronunciasse.
In seguito, con nota Prot. 1226 del 21.01.2019 l’Amministrazione rispondeva alla domanda di accesso rispondendo che: “l’accesso è differito alla definizione degli accertamenti, attesa la necessità di assicurare una temporanea tutela dell’interesse pubblico”.
4. Avverso il silenzio-rigetto e il suddetto provvedimento di differimento Ma.Ga. proponeva ricorso, chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi: 1) “Violazione degli artt. 1, 2, 3, 22 commi 1, lett. b) e 6, e 24, comma 7, e 25, comma 2, della L. n. 241/1990. Violazione dell’art. 9 del DPR 184/2006. Violazione degli artt. 3, 24, 97 e 113 della Costituzione. Violazione dei principi di trasparenza, ragionevolezza, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa. Assente e/o apparente motivazione; motivazione apodittica. Eccesso di potere per difetto d’istruttoria”, con il quale deduceva la sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 22 e ss. L. 241/1990 per il diritto di accesso e la non ricorrenza delle condizioni di differimento dello stesso.
Chiedeva inoltre l’accertamento della situazione giuridica soggettiva azionata in giudizio e la condanna della p.a. all’ostensione dei documenti richiesti.
L’Ispettorato del Lavoro si costituiva in giudizio con il ministero dell’Avvocatura dello Stato.
...
5. Il ricorso va parzialmente accolto, nei limiti e per le ragioni che seguono.
5.1. Sussiste, nella fattispecie oggetto di causa, il diritto di accesso di Ma.Ga. con riferimento alla documentazione oggetto della richiesta del 19.12.2018 (salvo quanto si dirà al successivo punto 5.2), afferente all’accertamento posto in essere nei di lui confronti dall’ispettorato del Lavoro.
La giurisprudenza ha infatti sancito, in termini costanti e condivisi dal Collegio, che se possono esservi dubbi in ordine alla conoscibilità dei dati dei soggetti che abbiano posto in essere, nei confronti dell’imprenditore, eventuali segnalazioni o esposti idonei ad innescare l’accertamento lavoristico, non può invece essere revocata in dubbio la piena accessibilità dei documenti in virtù dei quali l’ente ispettivo abbia irrogato le sanzioni. Detta conoscenza è infatti essenziale per il datore di lavoro ai fini dell’esercizio del proprio diritto di difesa giurisdizionale, costituzionalmente garantito (si veda in tal senso: TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, 07.11.2011 n. 2641).
5.2. Nel caso di specie, il diritto di accesso, pur implicitamente riconosciuto dalla p.a., era oggetto di apposito provvedimento di differimento.
L’esercizio del potere di differimento dell’accesso da parte della p.a. è disciplinato dalle seguenti disposizioni normative:
   - art. 24, comma 4, L. 241/1990: “L’accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento”;
   - art. 25, comma 3, L. 241/1990: “Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso sono ammessi nei casi e nei limiti stabiliti dall’art. 24 e debbono essere motivati”;
   - art. 9 D.P.R. 12.04.2006 n. 184: “1. Il rifiuto, la limitazione o il differimento dell'accesso richiesto in via formale sono motivati, a cura del responsabile del procedimento di accesso, con riferimento specifico alla normativa vigente, alla individuazione delle categorie di cui all'articolo 24 della legge, ed alle circostanze di fatto per cui la richiesta non può essere accolta così come proposta. 2. Il differimento dell'accesso è disposto ove sia sufficiente per assicurare una temporanea tutela agli interessi di cui all'articolo 24, comma 6, della legge, o per salvaguardare specifiche esigenze dell'amministrazione, specie nella fase preparatoria dei provvedimenti, in relazione a documenti la cui conoscenza possa compromettere il buon andamento dell'azione amministrativa. 3. L'atto che dispone il differimento dell'accesso ne indica la durata”.
Dal combinato disposto delle norme su menzionate, deriva che il differimento del diritto di accesso può essere disposto per la salvaguardia degli specifici interessi pubblici indicati dall’art. 24, comma 6, L. 241/1990, ovvero:
   a) sicurezza, difesa e sovranità nazionale oltre alle relazioni internazionali dello Stato;
   b) politica monetaria e valutaria;
   c) ordine pubblico, prevenzione e repressione della criminalità e attività di polizia giudiziaria e conduzione delle indagini;
   d) vita privata e riservatezza di soggetti terzi;
   e) contrattazione collettiva.
L’interesse pubblico per la cui tutela si dispone il differimento deve essere specificamente individuato e reso noto, nello stesso atto di differimento, all’interessato. Inoltre, il differimento non può essere disposto sine die, ma deve necessariamente essere indicato un termine finale.
Nel caso di specie, il provvedimento adottato dalla p.a. prevedeva una scadenza non individuabile e non era motivato, in quanto conteneva un generico riferimento a una non meglio precisata “necessità di tutelare temporaneamente l’interesse pubblico”, senza individuare quale, tra gli interessi pubblici idonei secondo il legislatore (art. 24, comma 6, cit.) alla temporanea compressione del diritto di accesso, venisse in rilievo.
Tuttavia, configurandosi il rito dell’accesso come un processo volto ad accertare in termini sostanziali la sussistenza del diritto, deve ritenersi che la p.a. sia ammessa a integrare la motivazione del provvedimento in sede giurisdizionale: “Il ricorso in materia di accesso è ontologicamente rivolto all'accertamento della fondatezza della pretesa. Il relativo giudizio, infatti, pur seguendo il rito impugnatorio, è in ogni caso strutturato come un giudizio di accertamento della fondatezza della pretesa a prescindere dal contenuto del provvedimento di diniego o, come nel caso di specie, di differimento, sicché l'eventuale difetto di motivazione non assume alcun rilievo ai fini dell'esito del ricorso, imponendo, invece, al giudice di verificare direttamente se sussistono i presupposti di legge per ordinare l'esibizione degli atti.[…] Nel giudizio in materia di accesso, l’integrazione della motivazione del diniego o del differimento deve ritenersi senz’altro consentita all’Amministrazione e, peraltro, ai fini dell’esito del ricorso è sostanzialmente irrilevante, atteso che l’azione giurisdizionale è rivolta ad accertare l’esistenza del diritto di accesso alla luce dei parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o minore correttezza delle ragioni addotte dall’Amministrazione per giustificare il diniego” (TAR Lazio, Roma, Sez. I, 18.12.2009 n. 13139; cfr: TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 02.12.2010 n. 26573; Consiglio di Stato, Sez. V, 11.05.2004 n. 2966).
Nella relazione allegata all’atto di costituzione in giudizio depositata dalla difesa erariale, si faceva menzione (peraltro in termini piuttosto vaghi e ipotetici) di accertamenti ancora in corso e dell’eventualità di una delega d’indagine da parte dell’Autorità Giudiziaria penale, assoggettata a segreto istruttorio.
In effetti, gli atti eventualmente posti in essere dalla p.a. in veste di Polizia Giudiziaria sono assoggettati a segreto istruttorio e non sono ostensibili in sede di accesso ex artt. 22 e ss. L. 241/1990: “Qualora si richieda l'ostensione di atti coperti da segreto istruttorio perché posti in essere nell'ambito di un'attività di P.G., i relativi documenti dovranno essere ritenuti sottratti al diritto di accesso ex artt. 22 e ss., l. n. 241 del 1990 e ostensibili unicamente mediante l'attivazione degli strumenti previsti dal codice di procedura penale tra cui sono contemplate le cd. indagini difensive ex artt. 391-bis e ss. c.p.p.” (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 23.12.2015 n. 14525).
Dunque, con riferimento ad essi, la p.a. correttamente esercitava il potere di differimento, anche mediante indicazione di un termine ‘elastico’, ovvero legato alla conclusione dell’attività di indagine delegata in sede penale.
Sotto tale profilo, anche il superamento del termine di 30 giorni indicato dall’art. 25 L. 241/1990 non è rilevante, posto che in presenza di segreto istruttorio per gli atti di Polizia Giudiziaria il differimento dell’accesso si profila come un atto dovuto.
5.3. Tuttavia, le considerazioni sopra esposte devono intendersi limitate ai soli atti compiuti dalla p.a. resistente in virtù di delega di indagine penale, e dunque in veste di Polizia Giudiziaria, non anche con riferimento all’attività posta in essere dall’Ispettorato del Lavoro nell’esercizio delle proprie ordinarie funzioni amministrative di vigilanza, controllo e irrogazione delle sanzioni in sede amministrativa: “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso. Infatti, soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990” (TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 01.02.2017 n. 229).
Con riferimento agli atti compiuti dalla p.a. al di fuori dell’attività investigativa di Polizia Giudiziaria delegata dall’Autorità Giudiziaria penale, atti in relazione ai quali veniva disposta l’irrogazione, nei confronti del ricorrente, delle sanzioni pecuniarie in sede amministrativa che lo stesso ha diritto a contestare in sede giurisdizionale, deve dunque dichiararsi la sussistenza del diritto di accesso del Ga., nonché l’illegittimità del silenzio-rigetto e del differimento, in quanto non motivato e privo di un termine ultimo di efficacia.
6. Il ricorso merita dunque, per quanto precede, parziale accoglimento. Nei limiti degli atti indicati al precedente punto 5.3, deve infatti accertarsi la sussistenza del diritto di accesso del Ga. e l’illegittimità del silenzio-rigetto e del differimento opposto dall’ispettorato.
Deve pertanto ordinarsi all’amministrazione resistente di mettere a disposizione del ricorrente gli atti oggetto della richiesta ostensiva, a esclusione di quelli che siano stati compiuti dall’Ispettorato in veste di Polizia Giudiziaria e nell’esercizio della delega di indagine penale, con facoltà, per il Ga., di estrarre copia di quelli di ritenuta utilità, nel termine perentorio di 20 giorni dalla notificazione/comunicazione della presente sentenza (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 21.05.2019 n. 800 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOCon l’archiviazione del procedimento penale non sussistono ragioni ostative all’accesso ai relativi atti in possesso dell’Amministrazione e riconducibili al ricorrente (atti comunque non oggetto di sequestro).
Il diritto di accesso, ferme le ovvie limitazioni derivanti dal segreto d’ufficio o da prevalenti ragioni di privacy, ha infatti una portata ampia collegata in particolare alla necessità dell’interessato di essere posto nelle condizioni di esercitare al meglio ogni forma di tutela consentita.
Peraltro, anche gli atti relativi e denunce ed esposti sono accessibili. Questi ultimi, una volta entrati nella disponibilità dell'Amministrazione, non sono preclusi dall’accesso per esigenze di tutela della riservatezza, giacché il predetto diritto non assume un'estensione tale da includere il diritto all'anonimato di colui che rende una dichiarazione che comunque va ad incidere nella sfera giuridica di terzi.
Né il nostro ordinamento, ispirato a principi democratici di trasparenza, imparzialità e responsabilità ammette la possibilità di denunce segrete. Colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha quindi un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a cominciare dagli atti di iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto, denunce, segnalazioni o esposti.
Il diritto di accesso non soffre, infatti, limitazioni se non quelle espressamente previste con legge o, comunque, in base a legge e non è, in particolare, soggetto ad applicazioni interpretative, manipolative o, comunque, riduttive ad opera dell'Autorità atteso che ogni Amministrazione è tenuta a dar seguito all'istanza del privato (ove rispettosa dei crismi normativi quanto a forma, oggetto, interesse sostanziale sotteso), mediante l'esibizione o la consegna di copia di quella documentazione precisamente richiesta, salvo che non ricorrano le tassative circostanze legislativamente previste per differirne ovvero negarne l'accesso.
---------------

15. Con il ricorso di primo grado, il maresciallo Ca. aveva chiesto anche l’accesso agli atti in possesso dell’Amministrazione relativi al procedimento penale instaurato a suo carico e poi concluso con una archiviazione.
Il Tar, tuttavia, ha ritenuto che tali documenti, in quanto riferiti all'attività investigativa, dovevano, ai sensi dell'art. 24, comma 1, lett. a), della legge n. 241 del 1990, essere esclusi dal diritto di accesso. L’apertura di un procedimento penale, seppure poi archiviato, avrebbe imposto al ricorrente di chiederne l’ostensione all’Autorità giudiziaria.
16. Il giudice di primo grado ha quindi consentito l’accesso solo a quelli fuori dalla vicenda penale e sufficientemente individuati nell’istanza: “In altri termini, a prescindere dalla specifica indicazione della data e del numero di protocollo attribuito agli atti richiesti, non v'è dubbio come l'accesso non possa costringere l'Amministrazione ad attività di ricerca ed elaborazione dati, di guisa che la relativa istanza non può essere generica, eccessivamente estesa o riferita ad atti non specificamente individuati”.
17. Le conclusioni del Tar non possono essere condivise.
Innanzitutto, va rilevato che con l’archiviazione del procedimento penale non sussistono ragioni ostative all’accesso ai relativi atti in possesso dell’Amministrazione e riconducibili al ricorrente incidentale (atti comunque non oggetto di sequestro).
Il diritto di accesso, ferme le ovvie limitazioni derivanti dal segreto d’ufficio o da prevalenti ragioni di privacy, ha infatti una portata ampia collegata in particolare alla necessità dell’interessato di essere posto nelle condizioni di esercitare al meglio ogni forma di tutela consentita.
Peraltro, anche gli atti relativi e denunce ed esposti sono accessibili. Questi ultimi, una volta entrati nella disponibilità dell'Amministrazione, non sono preclusi dall’accesso per esigenze di tutela della riservatezza, giacché il predetto diritto non assume un'estensione tale da includere il diritto all'anonimato di colui che rende una dichiarazione che comunque va ad incidere nella sfera giuridica di terzi (Cons. St., sez. V, 19.05.2009 n. 3081; TAR Sicilia, Catania, sez. III, 11.02.2016 n. 396).
Né il nostro ordinamento, ispirato a principi democratici di trasparenza, imparzialità e responsabilità ammette la possibilità di denunce segrete. Colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha quindi un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a cominciare dagli atti di iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto, denunce, segnalazioni o esposti (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 12.07.2016 n. 980, TAR Campania, sez. VI, 04.02.2016 n. 639).
18. Il diritto di accesso non soffre, infatti, limitazioni se non quelle espressamente previste con legge o, comunque, in base a legge e non è, in particolare, soggetto ad applicazioni interpretative, manipolative o, comunque, riduttive ad opera dell'Autorità atteso che ogni Amministrazione è tenuta a dar seguito all'istanza del privato (ove rispettosa dei crismi normativi quanto a forma, oggetto, interesse sostanziale sotteso), mediante l'esibizione o la consegna di copia di quella documentazione precisamente richiesta, salvo che non ricorrano le tassative circostanze legislativamente previste per differirne ovvero negarne l'accesso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 19.04.2017, n. 1832) (Consiglio di Stato, Sez, IV, sentenza 24.05.2018 n. 3128 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI- il diritto alla trasparenza dell'azione amministrativa costituisce situazione attiva meritevole di autonoma protezione, indipendentemente dalla pendenza e dall'oggetto di una controversia giurisdizionale, e non è condizionata al necessario giudizio di ammissibilità e rilevanza cui è subordinata la positiva delibazione di istanze a finalità probatorie, sicché resta rimessa al libero apprezzamento dell'interessato la scelta di avvalersi del rimedio giurisdizionale offerto dall'art. 25 della legge n. 241 del 1990 ovvero di conseguire la conoscenza dell'atto nel diverso giudizio pendente tra le parti mediante la richiesta di esibizione istruttoria, e con l'ulteriore conseguenza che, non costituendo il diritto di accesso una pretesa meramente strumentale alla difesa in giudizio della situazione sottostante ma essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo bene della vita, la relativa domanda giudiziale si presenta indipendente non solo dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta valere l'anzidetta situazione ma anche dall'eventuale infondatezza od inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente, una volta conosciuti gli atti, potrebbe proporre;
   - in ragione di ciò, il diritto di accesso non è ostacolato dalla pendenza di un giudizio civile o amministrativo nel corso del quale gli stessi documenti potrebbero essere richiesti;
   - non si oppone, poi, all'accoglimento della domanda giudiziale la circostanza che si tratterebbe di atti riguardanti un’indagine penale, avendo la giurisprudenza chiarito che l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso; soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p..

---------------

... per l'annullamento
   - della comunicazione prot.n. 14/9-2 del 26.03.2018, not. 26.03.2018, con la quale la Legione Carabinieri Campania – Stazione di Montefredane ha rigettato l'istanza di accesso agli atti presentata dalla ricorrente in data 28.02.2018;
e per la declaratoria
   - della spettanza dell'accesso con conseguente condanna della P.A. all'ostensione dei documenti richiesti ed alla estrazione di copia;
...
   Considerato che, in ragione della pendenza del giudizio instaurato a seguito dell’impugnativa del provvedimento prot. n. 53571 del 14.12.2017, notificato in data 29.12.2017, con cui la Prefettura di Avellino – UTG Ufficio Antimafia ha informato che nei confronti della soc. -OMISSIS- S.R.L. che “sussistono elementi che fanno ritenere concreto il pericolo di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionarne le scelte e gli indirizzi ai sensi dell’art. 84 d.lgs. n. 159/2011”, la ricorrente domandava (istanza del 28.02.2018) alla competente stazione dei carabinieri di Mercogliano l'accesso relazioni e/o comunicazioni rese nei confronti dei -OMISSIS- nell’ambito dell’attività istruttoria finalizzata alla verifica in punto di sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, poste a fondamento del provvedimento impugnato;
   Rilevato che la sopra menzionata Stazione dei Carabinieri respingeva la domanda, opponendo che "quanto richiesto, ossia gli eventuali atti originati da questo Comando non possono considerarsi a fondamento del provvedimento emesso dalla Prefettura di Avellino" (v. provvedimento prot. n. 14/9-2 del 26.03.2018, not. 26.03.2018);
   Ritenuto che la ricorrente ha esercitato l'actio ad exhibendum, ai sensi dell'art. 25 della legge n. 241 del 1990 e dell'art. 116 cod. proc. amm., con richiesta al giudice amministrativo dell'annullamento del provvedimento sopra epigrafato e dell'accertamento del diritto di accesso agli atti invocati, e con conseguente condanna dell'Amministrazione a consentire l'esibizione e l'estrazione di copia della suindicata documentazione;
   Rilevato che si è costituito in giudizio il Ministero della Difesa, opponendosi all'accoglimento del ricorso e che alla Camera di Consiglio del 04.07.2018, ascoltati i rappresentanti delle parti, la causa è passata in decisione;
   Ritenuto:
- che, come è stato rilevato in giurisprudenza (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. V, 23.02.2010 n. 1067), il diritto alla trasparenza dell'azione amministrativa costituisce situazione attiva meritevole di autonoma protezione, indipendentemente dalla pendenza e dall'oggetto di una controversia giurisdizionale, e non è condizionata al necessario giudizio di ammissibilità e rilevanza cui è subordinata la positiva delibazione di istanze a finalità probatorie, sicché resta rimessa al libero apprezzamento dell'interessato la scelta di avvalersi del rimedio giurisdizionale offerto dall'art. 25 della legge n. 241 del 1990 ovvero di conseguire la conoscenza dell'atto nel diverso giudizio pendente tra le parti mediante la richiesta di esibizione istruttoria, e con l'ulteriore conseguenza che, non costituendo il diritto di accesso una pretesa meramente strumentale alla difesa in giudizio della situazione sottostante ma essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo bene della vita, la relativa domanda giudiziale si presenta indipendente non solo dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta valere l'anzidetta situazione ma anche dall'eventuale infondatezza od inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente, una volta conosciuti gli atti, potrebbe proporre;
- che, in ragione di ciò, il diritto di accesso non è ostacolato dalla pendenza di un giudizio civile o amministrativo nel corso del quale gli stessi documenti potrebbero essere richiesti (v. anche Cons. Stato, Sez. IV, 27.01.2011 n. 619);
- che nella fattispecie si presenta allora illegittimo il diniego opposto alla ricorrente, la quale ha titolo all'ostensione degli atti istruttori posti a fondamento dell’impugnata informativa, anche se resta incerto se e in quali limiti quegli atti potrebbero venire in rilievo nel processo in corso, dovendo il giudice chiamato a pronunciarsi sulla domanda di accesso verificare unicamente la sussistenza dei presupposti legittimanti detta istanza e non anche la rilevanza dei documenti richiesti rispetto all’adozione del provvedimento impugnato e, quindi, al giudizio principale pendente (compito riservato a quella sede);
- che non si oppone, poi, all'accoglimento della domanda giudiziale la circostanza che si tratterebbe di atti riguardanti un’indagine penale, avendo la giurisprudenza chiarito che l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso (cfr. TAR Puglia, Lecce, n. 2331/2014); soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p.;
- che, nella specie, l’amministrazione richiesta si è limitata ad opporre la generica irrilevanza degli atti istruttori richiesti ai fini dell’adozione dell’interdittiva impugnata e non la pendenza di un procedimento penale ovvero la sussistenza del segreto istruttorio;
- che l'art. 22, l. 07.08.1990, n. 241 estende il diritto di accesso agli atti amministrativi ai "documenti amministrativi", in tal modo comprendendovi tutti gli atti istruttori del procedimento, anche se non provenienti dall'amministrazione, se sulla base di questi risulti essersi formata la volontà dell'amministrazione medesima;
   Considerato, in conclusione:
- che va annullato il diniego opposto al ricorrente e quindi ordinata all’amministrazione resistente l'esibizione degli atti oggetto della richiesta di accesso del 28.03.2018;
- che a tanto l'ente resistente provvederà entro trenta giorni dalla comunicazione della presente decisione o dalla sua notificazione, se anteriore, previa segnalazione con congruo preavviso del tempo e del luogo stabiliti per l'esame e l'estrazione di copia della documentazione (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.05.2018 n. 1165 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aggiornamento al 05.12.2022

Abuso edilizio in condominio su parti comuni:
l'ordinanza di demolizione deve essere notificata esclusivamente nei confronti di tutti i singoli condòmini comproprietari (e non dell'amministratore pro-tempore).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Laddove gli abusi edilizi rilevati risultino realizzati su parti comuni, l’ordinanza di ripristino non può essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio ma deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse.
Con riferimento alla disciplina previgente (rispetto alla riforma recata dalla legge 11.12.2012, n. 220, Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), era prevalente in giurisprudenza la tesi della qualificazione del condominio come ente di gestione -che opera in rappresentanza e nell'interesse comune dei partecipanti e limitatamente all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei diritti autonomi di ciascun condomino- privo di personalità giuridica.
Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza formatasi prima della novella del 2012, il condominio “non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini”.
La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha costantemente qualificato il condominio “come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini”.
---------------
L’avversata ordinanza di demolizione si rivela illegittima in quanto:
   - ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti di proprietà esclusiva, l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi abusivamente modificati non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio, non risultando lo stesso qualificato come “responsabile dell’abuso”;
   - anche ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti comuni, l’ordinanza di ripristino non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio, atteso “che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
---------------

... per l'annullamento dell’ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011, registrata al n. -OMISSIS- del 13.12.2011, notificata il 20.01.2012, con la quale il dirigente del Dipartimento Attività Edilizie e Repressione Abusivismo del Comune di Messina ha ordinato al ricorrente nella qualità di provvedere, entro il termine di 90 giorni dalla notificazione dell’ordinanza medesima, al ripristino quo-ante dello stato dei luoghi abusivamente modificati, con l’avvertimento che, decorso infruttuosamente il predetto termine, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, verranno acquisite di diritto al patrimonio comunale;
...
Il deducente avvocato -OMISSIS-, nella qualità di amministratore del condominio dell’isolato 248 in via -OMISSIS-, Messina, ha sottoscritto per la presentazione al Comune intimato una d.i.a., prot. n. -OMISSIS- dell’01.12.2009, relativa al progetto per il restauro dell’organismo architettonico dell’isolato che amministra.
Nel prescritto termine di legge -giorni trenta dalla presentazione- non è pervenuto alcun provvedimento inibitorio dell’attività edilizia oggetto della d.i.a. e, quindi, sono stati regolarmente intrapresi i lavori.
Successivamente, tra fine settembre ed inizio ottobre del 2011, sono stati effettuati due accertamenti da parte dell’Ufficio tecnico comunale, all’esito dei quali il Dipartimento Attività Edilizie e Repressione Abusivismo, senza alcuna preliminare contestazione o comunicazione di avvio del procedimento, ha adottato due distinte ordinanze repressive, aventi entrambe per destinatario il predetto amministratore pro tempore, con le quali, rispettivamente, gli si ordinava
   - il pagamento di una sanzione pecuniaria di € 516,00 (ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011) per la realizzazione di opere abusive in assenza di autorizzazione o d.i.a. nonché
   - (ordinanza prot. n. -OMISSIS- del 30.11.2011, in questa sede impugnata) di procedere al ripristino dello stato dei luoghi, secondo il Comune abusivamente modificati, per alcune “altre” opere, di proprietà esclusiva di alcuni condomini, avvertendo che in caso di inottemperanza il bene e l’area di sedime (non specificamente indicati) nonché quella necessaria alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sarebbero stati acquisiti al patrimonio comunale.
Il ricorrente ha contestato, con memoria trasmessa al Comune di Messina l’01.03.2012, entrambi i provvedimenti, evidenziando che l’eventuale pagamento della sanzione pecuniaria irrogata con la prima ordinanza non avrebbe costituito, comunque, acquiescenza alle contestazioni mosse e che, per la seconda ordinanza, non sussistevano le condizioni l’applicazione della sanzione della rimessione in pristino e l’acquisizione al patrimonio comunale e che, comunque, egli non poteva essere destinatario di una tale ordinanza (riguardante pretesi abusi su immobili di proprietà privati), chiedendone l’annullamento in autotutela ed avvertendo che, in mancanza, si sarebbe visto costretto a proporre azione giurisdizionale.
Nel silenzio dell’Amministrazione comunale il deducente ha proposto l’azione di annullamento.
...
2. Il ricorso merita di essere accolto, nei sensi e nei termini in appresso specificati.
Con riferimento alla disciplina previgente (rispetto alla riforma recata dalla legge 11.12.2012, n. 220, Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), era prevalente in giurisprudenza la tesi della qualificazione del condominio come ente di gestione -che opera in rappresentanza e nell'interesse comune dei partecipanti e limitatamente all'amministrazione e al buon uso della cosa comune senza interferire nei diritti autonomi di ciascun condomino- privo di personalità giuridica (cfr. Cass. civ., sez. II, 03.04.2003, n. 5147; Cass. civ., sez. II, 09.06.2000, n. 7891; Cass. civ., sez. II, 14.12.1993, n. 12304).
Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza formatasi prima della novella del 2012, il condominio “non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini” (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 08.04.2008, n. 9148).
La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha costantemente qualificato il condominio “come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini” (cfr., ex plurimis, Cass. civ. sez. III, 16.05.2011, n. 10717; Cass. civ. sez. II, 26.03.2010, n. 7300; Cass. civ. sez. III, 18.02.2010, n. 3900; Cass. civ. sez. II, 21.01.2010, n. 1011; Cass. civ., sez. trib., 07.12.2004, n. 22942; l’orientamento giurisprudenziale in questione, peraltro, è stato più di recente ribadito da, ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 06.10.2021, n. 27080; Cass. civ., sez. II, 26.09.2018, n. 22911; Cass. civ., sez. III, 31.10.2017, n. 25855).
Orbene, l’avversata ordinanza di demolizione ex art. 7 della legge 28.02.1985, n. 47 si rivela illegittima in quanto:
   - ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti di proprietà esclusiva, l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi abusivamente modificati non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio, non risultando lo stesso qualificato come “responsabile dell’abuso”;
   - anche ove gli abusi rilevati risultino realizzati su parti comuni, l’ordinanza di ripristino non poteva essere rivolta all’amministratore pro tempore del condominio, atteso “che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse” (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 18.05.2022, n. 6276; cfr. anche TAR Basilicata, sez. I, 14.01.2022, n. 14; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 10.07.2020, n. 3005).
3. In conclusione, previo assorbimento delle restanti censure, il ricorso merita di essere accolto per le ragioni sopra evidenziate con conseguente annullamento dell’ordinanza impugnata (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 01.12.2022 n. 3130 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAffinché un bene immobile abusivo possa legittimamente essere oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ai sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, occorre che il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i comproprietari, al pari anche del provvedimento acquisitivo.
Ciò poiché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio nei riguardi dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell'ordinanza di demolizione, l'inottemperanza alla quale costituisce presupposto per l'irrogazione della sanzione acquisitiva; nonché perché con la sanzione dell'acquisizione si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (e cioè il fabbricato e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio, deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una spoliazione solo pro quota.
...
Nel caso di specie, di tale notifica, indirizzata a tutti i comproprietari, il Comune non ha offerto prova. Si tratta, perciò, di valutare se possa ritenersi equipollente ad essa la notifica indirizzata al condominio.
Sul punto, è già stato affermato che, secondo una consolidata giurisprudenza, il condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica.
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria personalità giuridica.
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse.

---------------

Con ricorso notificato il 19.07.2021 e tempestivamente depositato, i ricorrenti, comproprietari del fondo sito presso il Comune di Ariccia, via ... n. 2/F, (fg 19, part. 343), hanno impugnato la determina comunale n. 472 del 2021, con la quale è stata disposta l’acquisizione al patrimonio comunale del bene, a causa della inottemperanza all’ordine di demolizione n. 150 del 10.07.2015.
Quest’ultimo, a sua volta, era stato emesso a seguito di annullamento, da parte del Comune, del permesso di costruire in sanatoria n. 13 del 2013, e notificato al condominio di via ... n. 2F.
In seguito, con verbale del 03.05.2021, il Comune ha accertato l’inottemperanza, e adottato, a causa di ciò, l’atto oggetto di ricorso.
Con un unico motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 31 del T.U. dell’edilizia e dell’art. 15 della legge regionale n. 15 del 2008, perché l’acquisizione al patrimonio pubblico del bene non è stata preceduta da notifica ai comproprietari dell’ordine di demolizione.
In via preliminare, e superando l’eccezione di inammissibilità avanzata dalla difesa comunale, va rimarcato che l’atto impugnato non si limita a dar conto della inottemperanza all’ordine di demolizione, ma dispone l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale. Esso è perciò senza dubbio lesivo, con riferimento ad eventuali vizi suoi propri.
Inoltre, lo stesso Comune ammette di avere notificato l’ordine di demolizione al solo amministratore del condominio.
Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito, in linea generale, che perché un bene immobile abusivo possa legittimamente essere oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al patrimonio comunale ai sensi dell'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, occorre che il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i comproprietari, al pari anche del provvedimento acquisitivo.
Ciò poiché risponde ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio nei riguardi dei comproprietari che non abbiano ricevuto regolare notifica dell'ordinanza di demolizione, l'inottemperanza alla quale costituisce presupposto per l'irrogazione della sanzione acquisitiva; nonché perché con la sanzione dell'acquisizione si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (e cioè il fabbricato e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatorio, deve essere notificato a tutti, atteso che non sarebbe possibile una spoliazione solo pro quota (da ultimo, Tar Napoli, n. 4616 del 2021).
Nel caso di specie, di tale notifica, indirizzata a tutti i comproprietari, il Comune non ha offerto prova, come si è visto. Si tratta, perciò, di valutare se possa ritenersi equipollente ad essa la notifica indirizzata al condominio.
Sul punto, è già stato affermato che, secondo una consolidata giurisprudenza, il condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288; 06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302).
Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), poiché quest'ultima, pur avendo attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria personalità giuridica (Cass. civ., SS.UU., 18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli condomini. A tanto consegue che la misura volta a colpire l'abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse (Tar Napoli, n. 3005 del 2020; Tar Milano, n. 1764 del 2019).
Né rileva in senso contrario la sentenza n. 4303 del 2011 di questo Tribunale, che si limita a riconoscere all’amministratore la legittimazione ad impugnare atti repressivi in ordine ad abusi commessi sulle parti comuni dell’edificio, e non vale, perciò, a superare la necessità della notifica ad ogni condomino dell’ordine di demolizione, nel caso in cui si intenda dichiarare l’effetto ablativo della proprietà.
Infine, non è conferente l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 richiamato dalla difesa comunale, atteso che non si è in presenza di un vizio formale del procedimento, ma della carenza del presupposto stesso perché possa operare la sanzione della acquisizione gratuita.
Di conseguenza, l’atto impugnato va annullato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 18.05.2022 n. 6276 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA Ai sensi dell'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, "Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso".
Costituisce, inoltre, ius receptum che l'ordine di demolizione in questione può essere adottato nei confronti dell’attuale proprietario, anche se non responsabile dell'abuso edilizio, perché l'abuso costituisce illecito permanente e tali misure hanno carattere ripristinatorio, né la loro irrogazione esige l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la realizzazione dell'abuso.
...
In specie, l’ordine impugnato è stato ingiunto (unicamente) nei confronti di un soggetto (i.e. il condominio):
      i) che non rientra in nessuna delle due esposte categorie, dovendosi precisare al riguardo che il condominio costituisce un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica, spettando la proprietà dei beni comuni ai singoli condomini;
      ii) che, dunque, non può dirsi passivamente legittimato rispetto all’ordine stesso. Ciò conclamando, secondo quanto già statuito da condivisibile giurisprudenza, la sua illegittimità per violazione dell’invocato paradigma normativo.
---------------

1. Con il ricorso in esame, depositato in data 07/12/2021, il Condominio deducente (in persona del legale rappresentante pro tempore) ha impugnato il provvedimento del Comune di Potenza, in epigrafe specificato, recante l’ordine di demolizione di un manufatto abusivo ad esso afferente.
1.1. L’impugnazione è affidata a plurimi motivi, tra cui in particolare la deduzione del difetto di legittimazione passiva della parte ricorrente.
...
4. Il ricorso è fondato nei sensi appresso specificati.
Coglie nel segno il primo motivo di impugnazione –con assorbimento di ogni altra censura– atteso che:
   - ai sensi dell'art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, "Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso". Costituisce, inoltre, ius receptum che l'ordine di demolizione in questione può essere adottato nei confronti dell’attuale proprietario, anche se non responsabile dell'abuso edilizio, perché l'abuso costituisce illecito permanente e tali misure hanno carattere ripristinatorio, né la loro irrogazione esige l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la realizzazione dell'abuso;
   - in specie, l’ordine impugnato è stato ingiunto (unicamente) nei confronti di un soggetto:
      i) che non rientra in nessuna delle due esposte categorie, dovendosi precisare al riguardo che il condominio costituisce un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica, spettando la proprietà dei beni comuni ai singoli condomini (cfr. Cassazione civile, sez. un., 18/09/2014, n. 19663);
      ii) che, dunque, non può dirsi passivamente legittimato rispetto all’ordine stesso. Ciò conclamando, secondo quanto già statuito da condivisibile giurisprudenza (cfr. TAR Campania, sez. VIII, 10/07/2020, n. 3005; TAR Lombardia, sez. II, 29/07/2019 n. 1764; TAR Campania, Salerno, sez. II, 29/11/2019, n. 2126), la sua illegittimità per violazione dell’invocato paradigma normativo.
5. In conclusione, il ricorso merita accoglimento per le ragioni esposte e, per l’effetto, va disposto l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR Basilicata, sentenza 14.01.2022 n. 14 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIOL'ordinanza di demolizione adottata nei confronti dell'amministratore del condominio è illegittima poiché non risulta essere né proprietario del bene su cui gli abusi sono stati commessi e neppure il responsabile degli stessi.
Invero,
“…la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
---------------

... per l’annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 49/URB data 28.06.2019 emessa dal Comune di Roccapiemonte;
...
1. Con l’ordinanza di demolizione n. 49/URB del 01.07.2019, l’ente locale indicato in epigrafe, constata la sussistenza di “variazioni del perimetro dell’edificio, nonché modifica del prospetto e diversa sistemazione esterna, comportanti una difformità plani-volumetrica rispetto ai titoli edilizi rilasciati”, con riferimento all’edificio ubicato nel medesimo Comune, in via ..., n. 104/106, ha ingiunto la demolizione delle opere abusive.
L’ordinanza in questione è stata rivolta ai proprietari delle singole porzioni immobiliari dell’edificio, alla società che ha presumibilmente realizzato l’immobile e, infine, “all’amministratore del Condominio nella persona di Al.Li. …”.
2. Contro questa ordinanza ha proposto ricorso proprio quest’ultimo destinatario dell’ordine di demolizione, il quale, con il primo motivo, ha dedotto il suo difetto di legittimazione passiva.
3. Si è costituito in giudizio il Comune intimato, il quale ha contestato il ricorso ex adverso proposto, senza però argomentare alcunché circa la censura appena riassunta.
4. All’udienza del 20.11.2019, constatata la completezza del contraddittorio e degli altri presupposti di legge, il Collegio, previo avviso alle parti ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ha trattenuto la causa in decisione.
Ai sensi dell’art. 31 D.P.R. n. 380 del 2001 “Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”.
La norma è chiara, nel suo dato testuale, nell’individuazione dei possibili destinatari dell’ordine di demolizione, individuandoli nel proprietario del bene sul quale è stata commessa la violazione edilizia e nel responsabile della stessa, ove le due persone non coincidano.
Rispetto a tale inequivocabile dato normativo risulta alquanto inspiegabile la ragione per la quale il Comune di Roccapiemonte abbia rivolto la sua attività provvedimentale nei confronti di un soggetto che non rientra in nessuna delle due categorie prese in considerazione dalla norma di legge. La motivazione del provvedimento non chiarisce, infatti, la ragione di una simile, improvvida iniziativa.
L’assunto appena esposto è confermato anche da alcuni precedenti del G.A., citati nel proprio ricorso dall’odierno ricorrente.
In particolare, il TAR Lombardia–Milano, sez. II, 29.07.2019 n. 1764 rileva che “…la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse”.
5. Il provvedimento adottato risulta allora illegittimo in parte qua, ossia nella misura in cui individua quale destinatario del comando anche l’odierno ricorrente, che non risulta essere né proprietario del bene su cui gli abusi sono stati commessi e neppure il responsabile degli stessi.
Conseguentemente, va accolto il primo motivo di ricorso, con assorbimento delle altre ulteriori doglianze, e va disposto l’annullamento del provvedimento, limitatamente all’interesse dell’odierno ricorrente (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 29.11.2019 n. 2126 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aggiornamento al 28.11.2022

Questioni varie in materia di fabbricati "diruti" o "ruderi" che dir si voglia...

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di preesistente consistenza nella ricostruzione di un rudere.
Secondo la concezione tradizionale, la figura della “ristrutturazione edilizia” presupponeva la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare provvisto di murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Conseguentemente, era stata sempre esclusa dalla giurisprudenza la possibilità che la ricostruzione di un rudere potesse ricondursi entro la nozione di ristrutturazione, trattandosi, al contrario, di un intervento del tutto nuovo.
Tuttavia il legislatore, con l’art. 30, primo comma, del d.l. n. 69 del 2013 convertito con legge n. 98 del 2013, ha profondamente innovato la disciplina modificando l’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale stabilisce ora che nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi <<…anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza>>.
In sostanza, questa disposizione, qualificando come interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli di ricostruzione, consente di sostituire gli immobili in precedenza andati distrutti con nuovi edifici, e ciò anche nel caso in cui gli strumenti urbanistici vigenti non consentano la realizzazione di nuove costruzioni. Si tutela in questo modo, non solo l’interesse del privato, ma anche l’interesse pubblico volto ad evitare la permanenza di ruderi sul territorio.
Tuttavia, affinché la ricostruzione possa qualificarsi come ristrutturazione, è necessario che il nuovo edificio abbia le stesse dimensioni di quello crollato. Questa limitazione si ricava dall’ultima parte della norma la quale, come visto, richiede che sia possibile accertare la “preesistente consistenza” dell’immobile.
...
Poiché, nel caso concreto, la richiesta di rilascio del permesso di costruire presentata dal ricorrente è stata respinta proprio in quanto si è ritenuta non dimostrata la preesistente consistenza dell’immobile, per risolvere la controversia in esame, occorre stabilire cosa si intenda per “preesistente consistenza”, quale sia il livello di precisione preteso dalla norma con riguardo a tale elemento e in che modo ne possa essere fornita la dimostrazione.
Per quanto riguarda il primo punto (nozione di “preesistente consistenza”), possono ritenersi condivisibili le conclusioni alle quali è giunta la giurisprudenza secondo cui gli interventi di ripristino di cui all’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 sono ammissibili a condizione che siano determinabili le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente (fra cui volumetria, altezza, struttura complessiva), con la conseguenza che anche la mancanza di uno solo di questi elementi determina l’insussistenza del requisito previsto dalla norma. Parimenti condivisibile risulta l’affermazione secondo cui la verifica riguardante gli elementi necessari per determinare la preesistente consistenza non può essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma deve invece basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili..
Quando l’edificio crollato è stato realizzato a seguito del rilascio di un titolo edilizio, la preesistente consistenza può essere facilmente dimostrata mediante la produzione di quel titolo e della documentazione progettuale ad esso allegata nella quale sono riportate con precisione le caratteristiche dimensionali del bene.
Il problema si pone però se, come nel caso in esame, l’immobile sia stato edificato in epoca antecedente all’anno 1967, quando la realizzazione di nuove costruzioni non presupponeva il rilascio di un titolo edilizio, non essendo in questo caso possibile disporre della suindicata documentazione.
Ritiene il Collegio che, in queste specifiche ipotesi, l’amministrazione non possa pretendere la produzione di progetti aventi data certa che dimostrino, con assoluta precisione, tutte le caratteristiche dimensionali dell’edificio crollato, posto che questa pretesa renderebbe di fatto inapplicabile la norma di cui all’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R n. 380 del 2001 per gli immobili edificati prima dell’anno 1967. Per questi immobili, occorre quindi ammettere la possibilità di fornire in modo diverso la dimostrazione della preesistente consistenza, producendo prove che inevitabilmente non possiedono quel grado di precisione che caratterizza la documentazione progettuale, fermo restando ovviamente che, anche in questo caso, la prova deve comunque riguardare tutte le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente.
La possibilità di fornire prova diversa da quella consistente nella documentazione progettuale (e che inevitabilmente possiede un minor grado di precisione rispetto a quest’ultima) è del resto ammessa anche dalla giurisprudenza sopra richiamata la quale afferma che la prova della preesistente consistenza può essere fornita anche attraverso la produzione di aerofotogrammetrie. Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza del giudice amministrativo, il quale ammette che l’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato può fondarsi anche su documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio distrutto.
Ritiene il Collegio che, nell’apprezzamento di queste diverse prove, l’Amministrazione debba dare applicazione ai principi di buona fede e proporzionalità, tenendo conto anche delle caratteristiche dell’intervento che si intende realizzare, nel senso che il livello di precisione richiesto della prova fornita deve essere proporzionale all’importanza di tale intervento.
Da quanto illustrato discende che, se l’immobile che si intende realizzare ha dimensioni modeste e incide in maniera poco significativa sul carico urbanistico, il permesso di costruire deve essere rilasciato quando dalla documentazione prodotta in sede procedimentale emerga che il manufatto da realizzare avrà sostanzialmente le stesse dimensioni di quello andato distrutto, e ciò anche nel caso in cui non sia possibile risalire con estrema precisione a tutti i dati dimensionali di quest’ultimo.

---------------
... per l'annullamento
   - del provvedimento di Diniego al Permesso di Costruire del 13.11.2017, a firma del Capo Settore Sviluppo del Territorio arch. Da.La., con cui il Comune di Biassono si pronunciava negativamente sull'istanza avanzata dal ricorrente per ottenere un titolo per la ricostruzione del fabbricato (piccolo magazzino) di sua proprietà, sito in -OMISSIS-, parzialmente crollato a seguito di un evento meteorologico (nevicata) verificatosi nel 1985;
   - se di necessità, del preavviso di diniego del 16.10.2017 (prot. 18217), a firma del Capo Ufficio Servizio Edilizia Privata arch. Gi.Bo.;
   - della nota datata 20.12.2017 con cui il Comune respingeva l'istanza di riesame in autotutela del diniego opposto;
   - di ogni altro atto presupposto, antecedente, consequenziale e connesso a quelli che precedono.
...
Con il primo motivo di ricorso, l’interessato –dopo aver rilevato che la sua istanza è stata respinta in quanto, secondo quanto riportato nel provvedimento, non sarebbe stata fornita la prova della reale consistenza dell’edificio crollato– sostiene che l’Amministrazione avrebbe errato nel ritenere che gli interventi di ristrutturazione edilizia da effettuarsi ai sensi dell’art. 3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 siano ammessi solo nel caso in cui siano state provate con estrema esattezza tutte le misure dell’immobile andato distrutto.
Aggiunge la parte che, nel corso del procedimento, sarebbero stati peraltro forniti alla stessa Amministrazione tutti gli elementi disponibili (fra cui anche una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà ed una aerofotogrammetria risalente all’anno 1973) che, a suo dire, sarebbero sufficienti per determinare le reali dimensioni dell’edificio crollato, e ciò anche considerando che l’immobile sarebbe stato realizzato prima dell’anno 1967, quando non vi era la necessità di conseguire titoli edilizi, e che per questa ragione non esisterebbero attualmente i progetti da cui ricavarne con estrema precisione le esatte misure.
Queste censure sono riprese e sviluppate nel secondo motivo di ricorso, con il quale parte ricorrente sostiene ancora, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali, che l’aerofotogrammetria costituirebbe documento sufficiente per ricavare le dimensioni dell’edificio crollato, tanto più che il rilievo aerofotogrammetrico del territorio comunale sarebbe stato effettuato su incarico all’epoca conferito dallo stesso Comune di Biassono. La decisione assunta dalla pubblica amministrazione sarebbe quindi contraria al principio di collaborazione con il privato cittadino, non avendo il provvedimento di diniego neppure illustrato le ragioni che hanno indotto il Comune a considerare non rilevanti gli elementi probatori prodotti in fase procedimentale dal ricorrente.
Ritiene il Collegio che queste censure siano fondate per le ragioni di seguito esposte.
Secondo la concezione tradizionale, la figura della “ristrutturazione edilizia” presupponeva la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare provvisto di murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Conseguentemente, era stata sempre esclusa dalla giurisprudenza la possibilità che la ricostruzione di un rudere potesse ricondursi entro la nozione di ristrutturazione, trattandosi, al contrario, di un intervento del tutto nuovo.
Tuttavia il legislatore, con l’art. 30, primo comma, del d.l. n. 69 del 2013 convertito con legge n. 98 del 2013, ha profondamente innovato la disciplina modificando l’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 il quale stabilisce ora che nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi <<…anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza>>.
In sostanza, questa disposizione, qualificando come interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli di ricostruzione, consente di sostituire gli immobili in precedenza andati distrutti con nuovi edifici, e ciò anche nel caso in cui gli strumenti urbanistici vigenti non consentano la realizzazione di nuove costruzioni. Si tutela in questo modo, non solo l’interesse del privato, ma anche l’interesse pubblico volto ad evitare la permanenza di ruderi sul territorio.
Tuttavia, affinché la ricostruzione possa qualificarsi come ristrutturazione, è necessario che il nuovo edificio abbia le stesse dimensioni di quello crollato. Questa limitazione si ricava dall’ultima parte della norma la quale, come visto, richiede che sia possibile accertare la “preesistente consistenza” dell’immobile.
Poiché, nel caso concreto, la richiesta di rilascio del permesso di costruire presentata dal ricorrente è stata respinta proprio in quanto si è ritenuta non dimostrata la preesistente consistenza dell’immobile, per risolvere la controversia in esame, occorre stabilire cosa si intenda per “preesistente consistenza”, quale sia il livello di precisione preteso dalla norma con riguardo a tale elemento e in che modo ne possa essere fornita la dimostrazione.
Per quanto riguarda il primo punto (nozione di “preesistente consistenza”), possono ritenersi condivisibili le conclusioni alle quali è giunta la giurisprudenza secondo cui gli interventi di ripristino di cui all’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 sono ammissibili a condizione che siano determinabili le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente (fra cui volumetria, altezza, struttura complessiva), con la conseguenza che anche la mancanza di uno solo di questi elementi determina l’insussistenza del requisito previsto dalla norma. Parimenti condivisibile risulta l’affermazione secondo cui la verifica riguardante gli elementi necessari per determinare la preesistente consistenza non può essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma deve invece basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili (cfr. Cass. pen. Sez. III, 28.04.2020, n. 13148; id., 08.10.2015, n. 45147).
Quando l’edificio crollato è stato realizzato a seguito del rilascio di un titolo edilizio, la preesistente consistenza può essere facilmente dimostrata mediante la produzione di quel titolo e della documentazione progettuale ad esso allegata nella quale sono riportate con precisione le caratteristiche dimensionali del bene.
Il problema si pone però se, come nel caso in esame, l’immobile sia stato edificato in epoca antecedente all’anno 1967, quando la realizzazione di nuove costruzioni non presupponeva il rilascio di un titolo edilizio, non essendo in questo caso possibile disporre della suindicata documentazione.
Ritiene il Collegio che, in queste specifiche ipotesi, l’amministrazione non possa pretendere la produzione di progetti aventi data certa che dimostrino, con assoluta precisione, tutte le caratteristiche dimensionali dell’edificio crollato, posto che questa pretesa renderebbe di fatto inapplicabile la norma di cui all’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R n. 380 del 2001 per gli immobili edificati prima dell’anno 1967. Per questi immobili, occorre quindi ammettere la possibilità di fornire in modo diverso la dimostrazione della preesistente consistenza, producendo prove che inevitabilmente non possiedono quel grado di precisione che caratterizza la documentazione progettuale, fermo restando ovviamente che, anche in questo caso, la prova deve comunque riguardare tutte le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente.
La possibilità di fornire prova diversa da quella consistente nella documentazione progettuale (e che inevitabilmente possiede un minor grado di precisione rispetto a quest’ultima) è del resto ammessa anche dalla giurisprudenza sopra richiamata la quale afferma che la prova della preesistente consistenza può essere fornita anche attraverso la produzione di aerofotogrammetrie (cfr. Cass. pen. Sent. n. 45147 del 2015 cit.). Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza del giudice amministrativo, il quale ammette che l’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato può fondarsi anche su documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio distrutto (in tal senso, cfr. TAR Lombardia-Brescia, sez. I, 06.07.2020, n. 517; TAR Campania-Napoli, sez. II, 23.12.2019, n. 6098; TAR Liguria, sez. I, 11.06.2020, n. 364).
Ritiene il Collegio che, nell’apprezzamento di queste diverse prove, l’Amministrazione debba dare applicazione ai principi di buona fede e proporzionalità, tenendo conto anche delle caratteristiche dell’intervento che si intende realizzare, nel senso che il livello di precisione richiesto della prova fornita deve essere proporzionale all’importanza di tale intervento.
Da quanto illustrato discende che, se l’immobile che si intende realizzare ha dimensioni modeste e incide in maniera poco significativa sul carico urbanistico, il permesso di costruire deve essere rilasciato quando dalla documentazione prodotta in sede procedimentale emerga che il manufatto da realizzare avrà sostanzialmente le stesse dimensioni di quello andato distrutto, e ciò anche nel caso in cui non sia possibile risalire con estrema precisione a tutti i dati dimensionali di quest’ultimo.
Venendo ora al caso concreto, va osservato che dalle foto prodotte in sede procedimentale si evince che, nell’area dove si intende realizzare l’intervento, sono ancora presenti i ruderi di alcuni muri perimetrali e di alcune colonne di sostegno della copertura dell’immobile crollato. In quella sede è stata inoltre prodotta una aerofotogrammetria, da cui è possibile ricavare che l’immobile distrutto era un modesto edificio, avente altezza simile a quella degli immobili adiacenti. Dal rilievo fotogrammetrico è altresì possibile ricavare la pendenza delle falde del tetto (cfr. doc. 4 di parte ricorrente).
L’Amministrazione, nel provvedimento impugnato, non spiega le ragioni per le quali si è ritenuto che la documentazione prodotta in sede procedimentale dal ricorrente non sia utile alla prova della preesistente consistenza del manufatto. Solo nelle memorie difensive, il Comune di Biassono ha precisato che ciò si è considerato dirimente ai fini del rigetto dell’istanza è stata la mancata dimostrazione dell’altezza. Anche nelle memorie, tuttavia, non si precisano le ragioni per la quali si è ritenuto che la documentazione prodotta dal ricorrente non sia idonea a dimostrare l’altezza del fabbricato crollato. Queste mancanze sarebbero già sufficienti per dichiarare l’illegittimità del provvedimento.
In ogni caso, il Collegio deve osservare che –poiché il fabbricato che si intende ricostruire è stato realizzato in epoca risalente, prima che vi fosse la necessità di ottenimento del titolo edilizio– non è possibile pretendere la prova assolutamente esatta dei suoi dati dimensionali, fra cui l’altezza, per affermare l’applicabilità dell’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Ciò che si sarebbe dovuto infatti verificare, anche considerando lo scarso rilievo dimensionale del fabbricato e la sua concreta destinazione (magazzino), è se il privato, con la documentazione depositata nel procedimento, abbia dimostrato di voler realizzare un immobile avente un’altezza che, in sostanza, non si discosta da quella del bene distrutto così come ricavabile dagli elementi a disposizione (altezza delle colonne di sostegno della copertura, rilievo fotogrammetrico, ecc…).
Per queste ragioni deve essere ribadita la fondatezza delle censure in esame. Il ricorso va pertanto accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.11.2022 n. 2566 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASi discute di un rudere ubicato su un’area sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004.
Nel caso di specie, ritiene il Collegio che, in primo luogo non si sia in presenza di un edificio “esistente”, e che, in ogni caso, l’intervento progettato dai ricorrenti non costituisca “ristrutturazione edilizia”, ma “nuova costruzione”, come giustamente ritenuto dall’Amministrazione esistente.
Intanto, appunto, manca un edificio “esistente” da ristrutturare. Certamente è esistito sull’area in questione un edificio in epoca remota, attestato dalla sua iscrizione nel Catasto Napoleonico (1811–1853) e successivamente nel Catasto Lombardo–Veneto (1854–1886); ma già nel cessato Catasto (1887–1904) l’immobile perde la sua identificazione strutturale e catastale precedentemente abbinata alla particella n. 1875 (“edificio con corte di pertinenza di mq 290 di superficie”) e nel Nuovo Catasto (dal 1905 in poi) viene depennato come fabbricato e incorporato con la relativa area di pertinenza nella particella n. 1877 del Catasto Terreni.
In effetti, come attestato dalla documentazione (anche fotografica) in atti, il rudere in questione si riduce a tracce della preesistente muratura perimetrale, ormai inglobate da decenni all’interno della vegetazione arborea che ha completamente colonizzato l’area.
Manca, quindi, il presupposto previsto dall’art. 12.5 del P.T.C. (“edificio esistente”) affinché si possa persino ipotizzare un intervento di ristrutturazione.
Peraltro, è noto che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del dlgs 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di ristrutturazione edilizia e quelli di ripristino di edifici crollati o demoliti (come nel caso di specie) sono ammissibili “soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Così disponeva, infatti, l’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. 380/2021 nel testo in vigore alla data di adozione del provvedimento impugnato (“Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del dlgs 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente;”).
La norma è stata mantenuta e anzi resa ancora più stringente nella nuova formulazione introdotta dall'art. 10, comma 1, lett. b), n. 2), D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.09.2020, n. 120, il quale ha previsto che, “con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al dlgs 22.01.2004, n. 42, nonché a quelli ubicati nelle zone omogenee A, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.
...
Nel caso di specie, appare oggettivamente impossibile desumere dal rudere attualmente esistente quale fosse la consistenza volumetrica dell’edificio preesistente e, soprattutto, quale fosse la sua sagoma la quale, come detto, in ambito vincolato costituisce un parametro inderogabile da rispettare in sede di ristrutturazione edilizia e di ripristino di immobili demoliti o crollati.
Invero, per sagoma di intende “la conformazione planovolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale, così che le sole aperture che non prevedano superfici sporgenti vanno escluse dalla nozione stessa di sagoma”; in sostanza, la sagoma indica la forma della costruzione complessivamente intesa, ovvero il contorno che assume l'edificio.
In tale contesto, la valutazione effettuata dall’Ente Parco circa la configurabilità, nel caso di specie, di una “nuova costruzione” (vietata) e non di una “
ristrutturazione edilizia” (consentita) appare corretta e immune dalle censure di parte ricorrente.
Sicché, in definitiva, in mancanza di documentazione probatoria idonea ad attestare sia la consistenza volumetrica originaria dell’edificio preesistente e sia soprattutto la sagoma dell’edificio preesistente, correttamente è stata esclusa, alla luce delle norme applicate, l’assentitibilità di un intervento di “
ristrutturazione edilizia” all’interno del contesto vincolato per cui è causa, trattandosi di un intervento di “nuova costruzione” espressamente vietato dallo strumento urbanistico attuativo del Parco.
---------------

... per l'annullamento:
   - del provvedimento di diniego n. 365 Prot. del 06.02.2019, con il quale il Parco dei Colli ha rigettato l'istanza per l'ottenimento di decreto di conformità al Piano di Coordinamento del Parco e conseguente autorizzazione paesaggistica di intervento di ristrutturazione di edificio di antica formazione ai sensi dell'art. 146 del D.lgs. n. 42/2004;
   - di ogni altro atto presupposto, consequenziale e comunque connesso, nonché, di eventuali atti medio tempore intervenuti e non conosciuti.
...
1. Con il primo motivo, la parte ricorrente ha dedotto vizi di “Violazione e/o falsa applicazione delle Norme Tecniche di Attuazione al Piano delle Regole - Capo II – Definizioni Urbanistiche – 2.1 parametri edificatori - del Piano di Gestione del Territorio del Comune di Ponteranica; dell’art. 12, comma 3 e 5, L.R. 8/1991 - Norme Tecniche di Attuazione del Piano di Coordinamento del Parco dei Colli di Bergamo; dell’art. 146 comma del D.lgs. n. 42/2004; Contraddittorietà tra più atti. Eccesso di potere per travisamento ed erronea valutazione dei fatti”:
   - il provvedimento impugnato ed il presupposto parere della Commissione per il Paesaggio sarebbero illegittimi nella parte in cui hanno ritenuto non assentibile l’intervento di ristrutturazione edilizia proposto dai ricorrenti sul presupposto che, allo stato, sarebbe impossibile la verifica della sagoma dell’edificio originario, di modo che l’intervento costituirebbe una “nuova costruzione”, non ammissibile in zona ex art. 12, comma 3, delle TTA del PTC del Parco;
   - tali valutazioni sarebbero erronee e illegittime perché in contrasto con le opposte considerazioni formulate dal Comune di Ponteranica nella nota del 09.01.2018, con la quale è stata accertata la “precedente esistenza del fabbricato e l’esatta identificazione planivolumetrica”, sulla scorta della documentazione storico-fotografica allegata dai richiedenti alla propria istanza;
   - nel formulare tali valutazioni, il Comune di Ponteranica ha fatto applicazione del punto V dell’art. 2.1. delle NTA del proprio PGT (in materia di “Volume degli edifici (mc)”, laddove si prevede che “Il volume degli edifici di antica formazione divenuti ruderi, dovrà essere dimostrato attraverso il rinvenimento delle murature perimetrali ancora esistenti, nonché da documentazione probatoria (accatastamenti, fotografie, relazioni storiche) attestante la consistenza planivolumetrica e la destinazione d’uso preesistente.”;
   - il provvedimento impugnato sarebbe pertanto in contrasto con la normativa applicata dal Comune di Ponteranica, in forza della quale quest’ultimo ha riconosciuto l’esistenza planivolumetrica delle rimanenze edilizie del vecchio Borgo di Rosciano e la facoltà per i ricorrenti di attuarne la ristrutturazione edilizia;
   - in definitiva, l’intervento richiesto dai ricorrenti avrebbe dovuto essere assentito ai sensi dell’art. 12, comma 5, delle NTA del PTC del Parco (L.R. 8/1991), il quale ammette gli interventi di ristrutturazione edilizia degli edifici esistenti.
La censura, osserva il Collegio, non può essere condivisa.
1.1. Si discute di un rudere ubicato su un’area di proprietà dei ricorrenti ricompresa all’interno del perimetro del Parco dei Colli di Bergamo e sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004. In particolare, l’area in questione è inclusa nella Zona C 1 “zona a parco agricolo forestale”, disciplinata dall’art. 12 delle Norme Tecniche di Attuazione del P.T.C. del Parco dei Colli di Bergamo (approvato con L.R. 13.04.1991 n. 8). Tale norma prevede che nella zona a parco agricolo-forestale (C1) “sono vietate le nuove costruzioni” (art. 12.1); sono invece consentiti, previo parere del consorzio, gli interventi –tra l’altro– di “ristrutturazione edilizia (…) degli edifici esistenti” (art. 12.5).
1.2. Nel caso di specie, ritiene il Collegio che, in primo luogo non si sia in presenza di un edificio “esistente”, e che, in ogni caso, l’intervento progettato dai ricorrenti non costituisca “ristrutturazione edilizia”, ma “nuova costruzione”, come giustamente ritenuto dall’Amministrazione esistente.
1.3. Intanto, appunto, manca un edificio “esistente” da ristrutturare. Certamente è esistito sull’area in questione un edificio in epoca remota, attestato dalla sua iscrizione nel Catasto Napoleonico (1811–1853) e successivamente nel Catasto Lombardo–Veneto (1854–1886); ma già nel cessato Catasto (1887–1904) l’immobile perde la sua identificazione strutturale e catastale precedentemente abbinata alla particella n. 1875 (“edificio con corte di pertinenza di mq 290 di superficie”) e nel Nuovo Catasto (dal 1905 in poi) viene depennato come fabbricato e incorporato con la relativa area di pertinenza nella particella n. 1877 del Catasto Terreni.
In effetti, come attestato dalla documentazione (anche fotografica) in atti, il rudere in questione si riduce a tracce della preesistente muratura perimetrale, ormai inglobate da decenni all’interno della vegetazione arborea che ha completamente colonizzato l’area.
Manca, quindi, il presupposto previsto dall’art. 12.5 del P.T.C. (“edificio esistente”) affinché si possa persino ipotizzare un intervento di ristrutturazione.
1.4. Peraltro, è noto che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di ristrutturazione edilizia e quelli di ripristino di edifici crollati o demoliti (come nel caso di specie) sono ammissibili “soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Così disponeva, infatti, l’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. 380/2021 nel testo in vigore alla data di adozione del provvedimento impugnato (“Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente;”).
La norma è stata mantenuta e anzi resa ancora più stringente nella nuova formulazione introdotta dall'art. 10, comma 1, lett. b), n. 2), D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.09.2020, n. 120, il quale ha previsto che, “con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, nonché a quelli ubicati nelle zone omogenee A, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.
1.5. Nel caso di specie, appare oggettivamente impossibile desumere dal rudere attualmente esistente quale fosse la consistenza volumetrica dell’edificio preesistente e, soprattutto, quale fosse la sua sagoma.
1.6. Sulla consistenza volumetrica dell’edificio preesistente il parere preventivo reso dal Responsabile dell’Area tecnica del Comune di Ponteranica nella fase istruttoria del procedimento de quo perviene a conclusioni meramente congetturali, laddove ritiene di potere risalire alla consistenza volumetrica del fabbricato originario assumendo come parametri di riferimento la superficie del fabbricato desumibile dalle tracce perimetrali dell’attuale rudere, e un’altezza “virtuale” pari a 3 metri, “non essendo dimostrabile la consistenza dei piani e quindi l’altezza”.
1.7. Ma se già questa valutazione deduttiva e congetturale appare alquanto opinabile, è oggettiva e indiscutibile l’impossibilità di desumere dall’attuale stato del rudere quale fosse la sagoma dell’edificio preesistente, la quale, come detto, in ambito vincolato, costituisce un parametro inderogabile da rispettare in sede di ristrutturazione edilizia e di ripristino di immobili demoliti o crollati.
Per sagoma di intende “la conformazione planovolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale, così che le sole aperture che non prevedano superfici sporgenti vanno escluse dalla nozione stessa di sagoma” (Cassazione penale, sez. III, 20/05/2015, n. 20846); in sostanza, la sagoma indica la forma della costruzione complessivamente intesa, ovvero il contorno che assume l'edificio.
Nel caso di specie, della sagoma originaria non vi è traccia nella documentazione in atti, sia nella progettazione di parte ricorrente sia nelle –pur benevoli– valutazioni del tecnico comunale.
1.8. In tale contesto, la valutazione effettuata dall’Ente Parco circa la configurabilità, nel caso di specie, di una “nuova costruzione” (vietata) e non di una “ristrutturazione edilizia” (consentita) appare corretta e immune dalle censure di parte ricorrente.
1.9. Né si rinviene alcun contrasto tra il diniego espresso dall’Ente Parco e il parere favorevole espresso dal tecnico del Comune di Ponteranica, tenuto conto:
   - che nella valutazione della sussistenza dei presupposti per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica all’interno del proprio territorio, l’Ente Parco è tenuto ad applicare le previsioni del proprio strumento urbanistico, e non è condizionata dalle valutazioni -eventualmente diverse- svolte al riguardo da altri enti con riguardo ad altri piani o strumenti regolatori;
   - che lo stesso tecnico comunale, nel ritenere la “coerenza” del progetto di ristrutturazione rispetto allo strumento urbanistico comunale, ha comunque richiamato espressamente la necessità del rispetto delle norme urbanistiche e ambientali sovraordinate del “superiore PTC Parco”, e quindi dell’”ottenimento dell’atto amministrativo (Decreto) di compatibilità per la ricostruzione del rudere, allo stesso PTC Parco (…) rilasciato dall’Ente parco preposto”;
   - che in ogni caso, il provvedimento dell’Ente Parco appare coerente anche con le previsioni della strumentazione urbanistica del Comune di Ponteranica, tenuto conto che quest’ultima prevede che la volumetria degli edifici di antica formazione divenuti ruderi possa essere desunta in via deduttiva in presenza di due condizioni, entrambe insussistenti nella specie in esame, vale a dire:
1) murature perimetrali ancora esistenti;
2) documentazione probatoria (quali accatastamenti, fotografie, relazioni storiche) attestante la consistenza planovolumetrica e la destinazione d’uso preesistente; nel caso di specie, della muratura perimetrale restano solo tracce sparute e inglobate da vegetazione ultradecennale, e soprattutto manca del tutto documentazione probatoria relativa alla preesistente consistenza volumetrica del fabbricato, tanto che lo stesso tecnico comunale l’ha dovuta dedurre in via meramente congetturale.
1.10 In definitiva, alle stregua di tali considerazioni, ritiene il Collegio che, in mancanza di documentazione probatoria idonea ad attestare sia la consistenza volumetrica originaria dell’edificio preesistente e sia soprattutto la sagoma dell’edificio preesistente, correttamente sia stata esclusa, alla luce delle norme applicate, l’assentitibilità di un intervento di “ristrutturazione edilizia” all’interno del contesto vincolato per cui è causa, trattandosi di un intervento di “nuova costruzione” espressamente vietato dallo strumento urbanistico attuativo del Parco.
1.11. D’altra parte, la semplice visione dei rendering tridimensionali del progetto di parte ricorrente (doc. 7, pag. 20) induce a dubitare fortemente che l’edificio in progetto costituisca la “riproduzione fedele della casa colonica così come appariva fini dai primi anni dell’’800”.
La censura in esame va quindi disattesa (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 02.11.2022 n. 1068 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittimo il diniego della richiesta "ristrutturazione edilizia" circa la ricostruzione di un immobile diruto poiché materialmente non possibile determinarne, con certezza, l’ingombro planivolumetrico ed il sedime.
La disciplina regionale, in accordo con quanto previsto dal Legislatore nazionale, estende il concetto di ristrutturazione edilizia all'ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un'indagine tecnica.
La giurisprudenza ha chiarito che l'accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell'edificio diruto.
E’ necessario e sufficiente, quindi, per qualificare l’intervento come ristrutturazione edilizia, che l’originaria consistenza dell’edificio sia individuabile sulla base di riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili; ove, invece non sia possibile l’individuazione certa dei connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura) attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare, scatta la qualificazione dell’intervento di ricostruzione come nuova edificazione.
---------------
Secondo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato già richiamato, «affinché si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi (a seguito delle modifiche all'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001 apportate dal d.l. 69/2013, conv. con l. 98/2013), ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è necessario che sia possibile accertare l’originaria consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizia “nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”».
---------------
Come già rammentato, il discrimine perché possa parlarsi di ristrutturazione edilizia e non di nuova costruzione –ad eccezione delle ipotesi di premialità contemplate all’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001– è da rintracciarsi proprio il rispetto delle preesistenti volumetrie.
Ciò, del resto, in linea con gli arresti giurisprudenziali per i quali la ristrutturazione edilizia «presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire; non è sufficiente quindi che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum e cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione; occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione».
Altresì, «spetta alla parte richiedente provare la preesistenza del fabbricato, le sue esatte dimensioni e sagoma. I ruderi del preesistente fabbricato, poi, devono essere idonei a consentire l’esatta configurazione di ciò che si asserisce era già esistente, dovendosi in caso contrario parlare di nuova costruzione … è quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente. In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata».

---------------

3. E’ controversa la legittimità del diniego opposto dal Comune di Città della Pieve all’istanza proposta dal sig. Le. per il rilascio di un permesso di costruire per opere di ristrutturazione edilizia consistenti nella «ricostruzione di un edificio con la medesima sagoma e volumetria dell’esistente» (così nella Relazione tecnica, doc. 10 di parte ricorrente), ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. d), della l.r. n. 1 del 2015.
L’odierno ricorrente, che ha acquistato il complesso immobiliare nel 2012, ha chiesto al Comune di Città della Pieve la ricostruzione di un manufatto non più esistente –già dalla data dell’acquisto, considerato che dal 2007 l’area è accatastata quale “prato”– producendo la documentazione richiamata in fatto a riprova della preesistenza dello stesso e della sua consistenza.
L’Amministrazione comunale ha negato il rilascio del permesso di costruire in quanto: «la documentazione progettuale allegata all’istanza contiene una ricostruzione planimetria dell’ingombro a terra del preesistente edificio basata sulla materializzazione di coordinate topografiche fornite dall’Agenzia del Territorio, Ufficio Provinciale di Perugia e da rinvenimenti di alcuni “tratti di fondazione in loco, mentre la ricostruzione delle parti in elevazione è stata desunta esclusivamente dalla documentazione fotografica allegata alle precedenti pratiche edilizie depositate agli atti di questo Ufficio Tecnico e da una foto aerea risalente al volo del 17.10.1984 … pertanto … sulla scorta della documentazione allegata all’istanza, la ricostruzione dell’ingombro volumetrico del fabbricato indicata nelle tavole grafiche progettuali sia stata eseguita sulla base di elementi che non dimostrino inequivocabilmente ed oggettivamente la preesistente consistenza del fabbricato».
Di conseguenza, l’intervento proposto è stato ritenuto non conforme alla vigente normativa in quanto non qualificabile come “ristrutturazione edilizia”.
4. I primi due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente e si presentano infondati, anche alla luce delle risultanze della verificazione disposta dal Collegio, per quanto di seguito esposto.
4.1. Giova rammentare che ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. d), della l.r. n. 1 del 2015 (nel testo vigente ratione temporis), negli interventi di “ristrutturazione edilizia” sono altresì ricompresi «quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza».
La previsione normativa riprende la definizione di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, per cui «[c]ostituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza».
Pertanto la disciplina regionale, in accordo con quanto previsto dal Legislatore nazionale, estende il concetto di ristrutturazione all'ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un'indagine tecnica (in tal senso cfr., ex multis, C.d.S., sez. VI, 03.10.2019, n. 6654; TAR Toscana, sez. III, 26.05.2020, n. 631); la giurisprudenza ha chiarito che l'accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell'edificio diruto (in tal senso cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 23.12.2019, n. 6098; TAR Liguria, 11.06.2020, n. 364; Cass. pen., sez. III, 28.04.2020, n. 13148).
E’ necessario e sufficiente, quindi, per qualificare l’intervento come ristrutturazione, che l’originaria consistenza dell’edificio sia individuabile sulla base di riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili (Cass. pen, sez. III, 25.06.2015, n. 26713; Cass. pen., sez. III, 30.09.2014, n. 40342); ove, invece non sia possibile l’individuazione certa dei connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura) attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare, scatta la qualificazione dell’intervento di ricostruzione come nuova edificazione (cfr. C.d.S., sez. IV, 17.09.2019, n. 6188; Id. 21.10.2014, n. 5174; C.d.S., sez. I, parere 27.05.2020 n. 1095; TAR Veneto, sez. II, 09.07.2021, n. 910).
La disciplina regionale, all’art. 22, comma 4, del reg. reg. n. 2 del 2015, è intervenuta a specificare quanto sopra, disponendo che «[q]uando l'edificio non è individuabile nella sua interezza originaria, perché parzialmente diruto, la sua consistenza, in assenza di chiari elementi tipologici e costruttivi è definita da elementi sufficienti a determinare la consistenza edilizia e l'uso dei manufatti, quali:
   a) studi e analisi storico-tipologiche supportate anche da documentazioni catastali o archivistiche;
   b) documentazione fotografica che dimostri la consistenza originaria dell'edificio;
   c) atti pubblici di compravendita;
   d) certificazione catastale
».
4.2 Come già rammentato, il Collegio ha ritenuto di disporre verificazione «al fine di accertare se -alla luce degli elementi prodotti in sede procedimentale dall’odierno ricorrente e considerato il disposto degli artt. 7, comma 1, l.r. n. 1 del 2015 e 22 del reg. reg. n. 2 del 2015- sia possibile determinare in modo oggettivo la consistenza dell’immobile demolito (ingombro planivolumetrico e sedime) e se la stessa corrisponda con quanto dichiarato in sede di istanza di titolo abilitativo edilizio».
Nella relazione depositata in data 31.03.2022 il Verificatore, dato conto dell’esame degli atti di causa e di quanto emerso dall’incontro con le parti nel corso delle operazioni di verifica, ha evidenziato che:
   - dall’esame delle istanze presentate dal dante causa dell’odierno ricorrente nel 1983 «si è riscontrata la totale mancanza di quegli elaborati grafici (piante, prospetti e sezioni) che normalmente sono parte integrante dei titoli abilitativi e che avrebbero potuto dare certezza sulla consistenza del fabbricato rurale al tempo»;
   - per quanto attiene al censimento del bene al Catasto Fabbricati dell’Agenzia delle Entrate «lo stesso risulta essere stato registrato solo al Catasto Terreni e, quindi, privo dei grafici indicanti le destinazioni d’uso di ogni locale e relative altezze»;
   - dall’esame della restante documentazione (fotografie, mappe storiche e rilievi) sono emerse incongruità, per cui «l’estratto di mappa catastale non corrisponde con certezza allo stato dei luoghi relativi agli anni ‘80», non essendo inoltre possibile «una valida lettura delle altezze»;
   - «non essendo presenti riprese fotografiche di tutti i prospetti che rappresentino per intero il bene, non è possibile conoscere tutte le effettive altezze del fabbricato, sia in gronda che al colmo, indispensabili per poter ricostruirne la sagoma».
In conclusione, il Verificatore ha evidenziato che «dall’esame complessivo della documentazione e per quanto sopra esposto, [si] ritiene che non sia oggettivamente possibile determinare con certezza l’ingombro planivolumetrico e del sedime dell’edificio né, tanto meno, se quanto dichiarato in sede di istanza di titolo abilitativo edilizio possa corrispondere con le reali fattezze dell’immobile preesistente», confermando in tal modo quanto affermato dal Comune circa l’impossibilità di definire la consistenza del preesistente manufatto e disvelando l’infondatezza delle censure attoree.
Secondo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato già richiamato, «affinché si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi (a seguito delle modifiche all'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001 apportate dal d.l. 69/2013, conv. con l. 98/2013), ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è necessario che sia possibile accertare l’originaria consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizia “nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”» (TAR Veneto, sez. II, 09.07.2021, n. 910; cfr. C.d.S., sez. IV, 17.09.2019, n. 6188; Id. 21.10.2014, n. 5174; Id., sez. I, parere 27.05.2020, n. 1095).
Non si presentano meritevoli di condivisione le contestazioni mosse dalla difesa attorea all’attività ed alle risultanze della verificazione.
Va evidenziato, in primo luogo, che l’ordinanza istruttoria non prevedeva la necessità dell’effettuazione di un sopralluogo, rimettendone la facoltà alla valutazione del tecnico incaricato, posto che le valutazioni del verificatore dovevano essere effettuate sulla base delle risultanze degli atti di causa; inoltre, risulta essere stato comunque garantito il contraddittorio con le parti, che però nulla hanno ritenuto di aggiungere a quanto già depositato in atti (cfr. verbale del 28.03.2022).
Né può condividersi l’affermazione di parte ricorrente circa l’ultroneità dell’accertamento delle altezze del manufatto preesistente, stante l’asserita sufficienza della verifica della S.U.C. (superficie utile coperta) riferibile al preesistente manufatto al fine della comparazione con quella progettualmente dichiarata dall’odierno ricorrente.
Come già rammentato, il discrimine perché possa parlarsi di ristrutturazione edilizia e non di nuova costruzione –ad eccezione delle ipotesi di premialità contemplate all’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001– è da rintracciarsi proprio il rispetto delle preesistenti volumetrie (cfr. da ultimo TAR Puglia, Bari, sez. III, 28.10.2021, n. 1571).
Ciò, del resto, in linea con gli arresti giurisprudenziali per i quali la ristrutturazione edilizia «presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire; non è sufficiente quindi che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum e cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione; occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione» (TAR Campania, Salerno, sez. II, 08.07.2021 n. 1680; TAR Abruzzo, L'Aquila, sez. I, 18.12.2020, n. 530; C.d.S., sez. VI, 05.12.2016, n. 5106).
La giurisprudenza amministrativa ha anche recentemente ribadito che «spetta alla parte richiedente provare la preesistenza del fabbricato, le sue esatte dimensioni e sagoma. I ruderi del preesistente fabbricato, poi, devono essere idonei a consentire l’esatta configurazione di ciò che si asserisce era già esistente, dovendosi in caso contrario parlare di nuova costruzione … è quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 5174 del 21.10.2014, e TAR Lombardia, Brescia, sentenza n. 1167 del 26.09.2017).
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata
» (C.G.A.R.S., sez. giur., 07.02.2022, n. 163; C.d.S., sez. IV, 17.09.2019, n. 6188) (TAR Umbria, sentenza 01.10.2022 n. 723 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza si è già espressa nel senso che un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente. In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata.
E viepiù l’intervento non può rientrare tra gli “interventi di restauro e di risanamento conservativo” che sono quelli rivolti a “conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità, mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi…”, considerato quanto già esposto sulla impossibilità di apprezzare l’effettiva consistenza del manufatto preesistente, che già nel 1973 era allo stato di rudere, privo di copertura e con murature ampiamente crollate e considerato che lo stesso è stato oggetto di successivi interventi abusivi che ne hanno radicalmente modificato la consistenza.
Invero, la finalità “del restauro e del risanamento conservativo è quella di rinnovare l'organismo edilizio in modo sistematico e globale, pur sempre però nel rispetto (perché sempre di conservazione si tratta) dei suoi elementi essenziali tipologici, formali e strutturali” e “la ricostruzione di un rudere non può rientrare, a livello concettuale, nell'ambito della categoria del "restauro e risanamento conservativo", alla stregua della caratterizzazione di quest'ultima, secondo quanto stabilito dal riportato art. 3, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001…omissis…Il concetto di costruzione esistente postula, invero, la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l'intervento edificatorio sulla stessa non costituisce trasformazione urbanistico edilizia del territorio rilevante in termini di nuova costruzione”.
---------------

Le censure di cui i primi quattro motivi di ricorso, che si esaminano congiuntamente in quanto tra loro connesse, con cui si lamenta, in sostanza, il difetto di motivazione e di istruttoria del provvedimento impugnato e la asserita contraddittorietà con precedenti determinazioni con riferimento alla erronea qualificazione dell’intervento in questione da parte dell’amministrazione comunale, non sono fondate secondo quanto segue.
Diversamente da quanto dedotto dal ricorrente, infatti, l’intervento in questione non può essere qualificato come di restauro e risanamento conservativo ex art. 3, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 e neppure di ristrutturazione edilizia ex lett. d) del medesimo articolo, dal momento che il manufatto cui si riferiscono gli interventi e che si assume di voler “ricostruire”, eliminando le superfetazioni e riportandolo alla “consistenza originaria” di cui alle tavole allegate all’istanza risalente al 1973, in realtà già nel 1973 era un edificio privo di copertura e con murature ampiamente crollate, come si ricava dalla relativa pratica da cui emerge anche che la Soprintendenza ha espresso parere contrario all’approvazione del progetto presentato nel 1973 “per alterazione paesistica”, per cui già allora non era possibile raggiungere un significativo grado di sicurezza sui limiti dimensionali e morfologici dell’originario manufatto che ora si vorrebbe “risanare”. L’impossibilità di apprezzare l’effettiva consistenza del manufatto preesistente conduce già ad escludere nel caso di specie la configurabilità di un intervento di “ristrutturazione edilizia” e viepiù di “risanamento e restauro conservativo”.
La ristrutturazione edilizia, infatti, ricomprende ex art. art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001, nella dizione pro tempore vigente, anche gli interventi volti “al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”, con la precisazione che con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni “gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.
E la giurisprudenza si è già espressa nel senso che un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente. In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 6188 del 2019).
E viepiù l’intervento non può rientrare tra gli “interventi di restauro e di risanamento conservativo” che sono quelli rivolti a “conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità, mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi…”, considerato quanto già esposto sulla impossibilità di apprezzare l’effettiva consistenza del manufatto preesistente, che già nel 1973 era allo stato di rudere, privo di copertura e con murature ampiamente crollate e considerato che lo stesso è stato oggetto di successivi interventi abusivi che ne hanno radicalmente modificato la consistenza.
...
Come anche di recente ribadito dal Consiglio di Stato (cfr. sent. n. 6455 del 2020) la finalità “del restauro e del risanamento conservativo, infatti, è quella di rinnovare l'organismo edilizio in modo sistematico e globale, pur sempre però nel rispetto (perché sempre di conservazione si tratta) dei suoi elementi essenziali tipologici, formali e strutturali” e “la ricostruzione di un rudere non può rientrare, a livello concettuale, nell'ambito della categoria del "restauro e risanamento conservativo", alla stregua della caratterizzazione di quest'ultima, secondo quanto stabilito dal riportato art. 3, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001…omissis…Il concetto di costruzione esistente postula, invero, la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l'intervento edificatorio sulla stessa non costituisce trasformazione urbanistico edilizia del territorio rilevante in termini di nuova costruzione(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 02.09.2022 n. 5565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ambito della ristrutturazione va esteso all'ipotesi della ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire alla consistenza iniziale. Tuttavia, per quanto allargato, il concetto di ristrutturazione non può ontologicamente prescindere dall'apprezzabile traccia di una costruzione preesistente, mancando la quale non si ravvisa il tratto distintivo fondamentale che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla nuova edificazione. Questo è rappresentato, a norma della definizione generale dettata dall'art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001, dalla "trasformazione" di organismi edilizi, la quale presuppone che l'intervento si riferisca a una porzione di territorio a sua volta già compiutamente trasformata.
Detto altrimenti: “Con particolare riferimento alla ricostruzione di un rudere, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente sostanza, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente. In particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”.

---------------

È infondato anche il settimo motivo [Violazione di legge (art. 146 D.lgs. 42/2004 in relazione all’art. 3, D.P.R. 380/2001 e ss.mm.ii.) – Eccesso di potere (difetto di motivazione - illogicità - contraddittorietà - difetto di istruttoria - travisamento – sviamento - straripamento di potere) - Incompetenza], con cui si afferma l’erroneità delle argomentazioni poste a fondamento del parere.
In particolare, secondo la ricorrente, l’intervento andrebbe qualificato come risanamento conservativo e consolidamento o come ristrutturazione.
Tuttavia, secondo la stessa giurisprudenza richiamata in ricorso: “L'ambito della ristrutturazione va esteso all'ipotesi della ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire alla consistenza iniziale. Tuttavia, per quanto allargato, il concetto di ristrutturazione non può ontologicamente prescindere dall'apprezzabile traccia di una costruzione preesistente, mancando la quale non si ravvisa il tratto distintivo fondamentale che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla nuova edificazione. Questo è rappresentato, a norma della definizione generale dettata dall'art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001, dalla "trasformazione" di organismi edilizi, la quale presuppone che l'intervento si riferisca a una porzione di territorio a sua volta già compiutamente trasformata” (TAR Toscana, Firenze, Sez. III, 06/09/2021, n. 1151).
Detto altrimenti: “Con particolare riferimento alla ricostruzione di un rudere, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente sostanza, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente. In particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente” (TAR Lazio, Roma, Sez. II-quater, 06/11/2018, n. 10729) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 13.06.2022 n. 1655 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPresupposto degli interventi di restauro e di intervento conservativo è che sia possibile rispettare gli originari elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio, al fine di conservare l’organismo edilizio e assicurarne la funzionalità. Il risanamento conservativo costituisce un’interventi di recupero sul patrimonio edilizio esistente, onde postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, in modo da poterla individuare come costruzione esistente, di modo che l'intervento edificatorio sulla stessa non costituisca trasformazione urbanistico edilizia del territorio rilevante in termini di nuova costruzione.
Le nozioni di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia, costituendo interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, postulano pertanto la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e coperture. E ciò senza considerare, nella prospettiva assunta dall’Amministrazione, che detti presupposti sono richiesti perfino per la ristrutturazione, attività diversa e più incisiva, come sopra illustrato, dal restauro e dal risanamento conservativo.
Di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o su un edificio demolito costituisce nuova opera. “La ricostruzione dei ruderi di cui non si riesca a provare l’originaria consistenza, ovvero dei quali siano venuti a mancare tutti gli elementi idonei a verificarne sagoma e volumi va intesa invece come nuova costruzione soggetta alle comuni regole edilizie”.
La dimostrazione della preesistenza del fabbricato nella sua consistenza originaria e con le caratteristiche volumetriche e architettoniche proprie del manufatto che si vuole risanare è impedita anche se manca uno solo degli elementi da cui desumere l’originaria consistenza come quello relativo all’altezza (desumibile dalla copertura). “La ricostruzione di un rudere non è riconducibile nell'alveo della ristrutturazione edilizia laddove il manufatto sia costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, oppure sia presente solo parte della predetta muratura e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, atteso che lo stesso, in tale stato, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”.
Per quanto riguarda gli interventi di ripristino di edifici diruti, “occorre distinguere l'ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione (nel qual caso è possibile parlare di demolizione e ricostruzione, e dunque, di ristrutturazione) dall'ipotesi in cui, invece, sussista un organismo edilizio dotato di sole mura perimetrali e privo di copertura (nel qual caso, gli interventi in questione non possono essere classificati come interventi di restauro e risanamento conservativo, ma di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare)”.
La giurisprudenza, pertanto, ritiene rilevante la misurazione di ogni dimensione del precedente fabbricato per ritenere il medesimo esistente e quindi restaurabile e risanabile.
---------------

In ogni caso, anche a ritenere che il Piano paesaggistico ammetta la ristrutturazione, ai sensi dell’art. 3, comma 4, della l.r. n. 20 del 2000 (pure richiamata nel preambolo del provvedimento impugnato), istitutiva del Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento, in relazione alla Zona I archeologica non sono ammesse nuove costruzioni e interventi di ristrutturazione ma “possono essere autorizzati, nel rispetto dell'ambiente archeologico e paesaggistico, soltanto: a) (omissis); b) (omissis); c) (omissis) d) gli interventi di manutenzione ordinaria, restauro e risanamento conservativo di cui all'articolo 20, lettere a) e b), della legge regionale 27.12.1978, n. 71”, che regola la materia urbanistica sul territorio siciliano.
La normativa archeologica richiama quindi la nozione urbanistico-edilizia di restauro e risanamento conservativo.
Ai sensi dell’art. 20, lett. c), della legge regionale urbanistica n. 71 del 1978 sono definiti interventi di restauro e di risanamento conservativo “quelli rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio”. In base alla medesima disposizione si distingue il restauro e risanamento conservativo così come sopra definito dalla ristrutturazione di cui alla successiva lett. d (“quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”).
La definizione (dettata in materia urbanistica ed edilizia, e fatta propria dalla l.r. n. 20 del 2000, istitutiva del Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento) di restauro e risanamento conservativo contenuta nella legge regionale n. 71 del 1978 è riproposta con la lett. c), art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001, recepito nell’ordinamento regionale con il rinvio dinamico di cui all’art. 1 l.r. n. 16 del 2016.
Secondo detta disciplina sono interventi di restauro e di risanamento conservativo “gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio”.
Anche in forza dell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 detti interventi (di restauro e risanamento conservativo) si distinguono dagli interventi di ristrutturazione edilizia di cui alla successiva lett. d) dell’art. 3 (modificata dall'art. 1, comma 1, lett. a), del d.lgs. 27.12.2002 n. 301 e dall'art. 30, comma 1, lett. a), del d.l. 21.06.2013 n. 69).
Per molti dei corpi compresi nel progetto controverso l’Amministrazione ha motivato il diniego qualificando gli interventi come nuove costruzioni e facendo riferimento alla sopra richiamata normativa che vieta nell’area interessata la realizzazione di nuove costruzioni.
La giurisprudenza amministrativa ha infatti affermato che “In materia urbanistica sono interventi di nuova costruzione quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, non rientranti fra gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia” (Cons. St., sez. II, 22.04.2021 n. 3264).
Alla qualificazione in termini di nuova costruzione di molti degli interventi proposti ha contribuito la constatazione dell’impossibilità di ricostruire la consistenza del manufatto originario, che rende non classificabile come restauro e risanamento conservativo l’intervento progettato.
In presenza di detta constatazione, è recessivo il richiamo alla circolare della Soprintendenza 21.03.2014 n. 13879, con la quale è stato affermato che rimane “affidato al responsabile del giudizio di ciascuna Soprintendenza l’accertamento e la verifica della sussistenza di elementi fisici e documenti che diano l’assoluta consistenza originaria dell’edifico da ricostruire”, ma dopo aver precisato che un fabbricato privo di mura perimetrali, strutture orizzontali e manto di copertura “non può essere considerato edificio e, pertanto, non può essere oggetto di ristrutturazione, ma soltanto di nuova costruzione” (in termini anche la precedente nota 03.06.2013 n. 27162).
In tale contesto la circolare del 2014 contiene un riferimento a una pronuncia del Consiglio di Stato la quale, in relazione alla ricostruzione dei ruderi, ha stabilito, quale presupposto generale, la necessità di poter determinare i connotati essenziali del precedente manufatto sulla base dei muri perimetrali e delle strutture orizzontali e di copertura, al fine di non qualificare l’intervento edilizio come nuova costruzione. Nella stessa occasione, dopo avere precisato che “nel caso contrario potrebbe essere discutibile la possibilità di evidenziare la consistenza”, ha ritenuto che “la parziale mancanza fisica dei connotati essenziali di un edificio può essere superata se è possibile darne evidenza certa”.
In base alla richiamata (risalente) giurisprudenza, a parte che detta possibilità è ricondotta a una mancanza parziale dei connotati, è comunque richiesta un’evidenza certa dei caratteri essenziale dell’edificio, che nel caso di specie l’Amministrazione ha ritenuto non essere stata raggiunta.
Presupposto degli interventi di restauro e di intervento conservativo è infatti che sia possibile rispettare gli originari elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio, al fine di conservare l’organismo edilizio e assicurarne la funzionalità. Il risanamento conservativo costituisce un’interventi di recupero sul patrimonio edilizio esistente, onde postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, in modo da poterla individuare come costruzione esistente, di modo che l'intervento edificatorio sulla stessa non costituisca trasformazione urbanistico edilizia del territorio rilevante in termini di nuova costruzione (Cons. St., sez. II, 24.10.2020 n. 6455).
Le nozioni di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia, costituendo interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, postulano pertanto la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e coperture. E ciò senza considerare, nella prospettiva assunta dall’Amministrazione, che detti presupposti sono richiesti perfino per la ristrutturazione, attività diversa e più incisiva, come sopra illustrato, dal restauro e dal risanamento conservativo.
Di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o su un edificio demolito costituisce nuova opera. “La ricostruzione dei ruderi di cui non si riesca a provare l’originaria consistenza, ovvero dei quali siano venuti a mancare tutti gli elementi idonei a verificarne sagoma e volumi va intesa invece come nuova costruzione soggetta alle comuni regole edilizie” (CGARS 07.11.2019 n. 949).
La dimostrazione della preesistenza del fabbricato nella sua consistenza originaria e con le caratteristiche volumetriche e architettoniche proprie del manufatto che si vuole risanare è impedita anche se manca uno solo degli elementi da cui desumere l’originaria consistenza come quello relativo all’altezza (desumibile dalla copertura). “La ricostruzione di un rudere non è riconducibile nell'alveo della ristrutturazione edilizia laddove il manufatto sia costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, oppure sia presente solo parte della predetta muratura e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, atteso che lo stesso, in tale stato, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente” (Cons. St., sez. IV, 17.09.2019 n. 6188).
Per quanto riguarda gli interventi di ripristino di edifici diruti, “occorre distinguere l'ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione (nel qual caso è possibile parlare di demolizione e ricostruzione, e dunque, di ristrutturazione) dall'ipotesi in cui, invece, sussista un organismo edilizio dotato di sole mura perimetrali e privo di copertura (nel qual caso, gli interventi in questione non possono essere classificati come interventi di restauro e risanamento conservativo, ma di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare)” (Cons. St., sez. VI, 02.09.2020 n. 5350).
La giurisprudenza, pertanto, ritiene rilevante la misurazione di ogni dimensione del precedente fabbricato per ritenere il medesimo esistente e quindi restaurabile e risanabile (CGARS, sentenza 11.04.2022 n. 444 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla ricostruzione di un rudere.
Per costante e tralatizia giurisprudenza del giudice amministrativo, spetta alla parte richiedente provare la preesistenza del fabbricato, le sue esatte dimensioni e sagoma.
I ruderi del preesistente fabbricato, poi, devono essere idonei a consentire l’esatta configurazione di ciò che si asserisce era già esistente, dovendosi in caso contrario parlare di nuova costruzione.
Nella presente fattispecie manca la prova delle dimensioni e della sagoma del preesistente fabbricato.
Il concetto di rudere che consentirebbe una legittima ricostruzione è stato definito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato: “E' quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente. In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata”.
---------------

1.Il signor Se.Ir. ricorre in appello per chiedere la riforma della sentenza emessa dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, in data 05.12.2018.
2. L’odierna parte appellante, unitamente al coniuge, si era rivolta al giudice amministrativo per chiedere l’annullamento dell'ordinanza di demolizione n. 82 del 21.11.2016 emanata dal Comune di Mascali.
L’ordine di demolizione aveva ad oggetto opere edilizie realizzate sul terreno sito in Mascali, Via ... n. ..., individuato in catasto al foglio 3 part. 128 di proprietà dei coniugi Se.Ir. e Ma.Za..
Le opere venivano così descritte: “un fabbricato composto da un piano terra, della superficie di mq. 126,88, desitanto a civile abitazione realizzato in cls armato (fondazioni, pilastri, travi e solaio in latero-c.a.) ed un parte della copertura e a tetto in legno rifinito con manto di tegole; da un piano primo-sottotetto della superficie di mq. 97,50 realizzato con struttura portante in cls armato (pilastri e travi) e copertura in legno rifinita con manto di tegole, altro manufatto destinato a deposito, della superficie di mq. 89,38, realizzato con struttura in ferro, copertura in lamierino e parzialmente completato con muratura perimetrale in blocchi di cls”.
3. Il ricorso, proposto da Se.Ir. e Ma.Za., veniva affidato ad un unico motivo nel quale venivano articolate censure di violazione di legge, eccesso di potere, difetto di motivazione, con le quali parte ricorrente contestava che il Comune di Mascali aveva erroneamente qualificato le opere realizzate in assenza di titolo edilizio mentre si tratterebbe di lavori di restauro e recupero di un precedente ed esistente fabbricato per il quale i coniugi appellanti avevano presentato "istanza al comune di Mascali per il recupero e ricostruzione del vecchio fabbricato".
...
16. Per completezza di decisione il Collegio rileva che merita conferma anche l’assunto del primo giudice che ha ritenuto infondate nel merito le doglianze sottoposte al suo giudizio con il ricorso di primo grado e sostanzialmente riproposte con l’atto di gravame.
L’assunto difensivo fondamentale è che nella presente fattispecie le opere sarebbero da qualificare come opere di restauro e recupero di un precedente ed esistente fabbricato.
Per costante e tralatizia giurisprudenza del giudice amministrativo spetta alla parte richiedente provare la preesistenza del fabbricato, le sue esatte dimensioni e sagoma.
I ruderi del preesistente fabbricato, poi, devono essere idonei a consentire l’esatta configurazione di ciò che si asserisce era già esistente, dovendosi in caso contrario parlare di nuova costruzione.
Nella presente fattispecie manca la prova delle dimensioni e della sagoma del preesistente fabbricato.
Il concetto di rudere che consentirebbe una legittima ricostruzione è stato definito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato.
E' quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 5174 del 21.10.2014, e TAR Lombardia, Brescia, sentenza n. 1167 del 26.09.2017).
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata
” (Cons. St., sez. IV sent. 17.09.2019, n. 6188)
Nell’atto di compravendita, più volte richiamato da parte appellante a sostegno delle proprie argomentazioni si legge di “insistenti ruderi di fabbricato rurale”.
Nell’ordinanza di demolizione, frutto del verbale di sopralluogo, si descrive quanto realizzato nei seguenti termini: “un fabbricato composto da un piano terra, della superficie di mq. 126,88, destinato a civile abitazione realizzato in cls. armato (fondazioni, pilastri, travi e solaio in latero-c.a.) ed un parte della copertura e a tetto in legno rifinito con manto di tegole; da un piano primo- sottotetto della superficie di mq. 97,50 realizzato con struttura portante in cls. armato (pilastri e travi) e copertura in legno rifinita con manto di tegole, altro manufatto destinato a deposito, della superficie di mq. 89,38, realizzato con struttura in ferro, copertura in lamierino e parzialmente completato con muratura perimetrale in blocchi di cls.” .
E’ da condividere la parte della sentenza impugnata ove si afferma che: “in ogni caso, a prescindere da ogni questione sulla tipologia di opere risulta dirimente la circostanza che nessun titolo edilizio risulta rilasciato per le opere in questione con conseguente legittimità dell'ordine di demolizione delle opere abusivamente realizzate”.
17. Sulla base della considerazione appena esplicitata il Collegio ritiene, conseguentemente, infondati anche gli ulteriori profili di doglianza riproposti con l’atto di appello (CGARS, sentenza 07.02.2022 n. 163 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIntegra i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del d.Lgs. n. 42 del 2004 la ricostruzione di un "rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della S.C.I.A. richiede, nelle zone vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura.
---------------

1.3. Il terzo motivo -con cui si contesta la sussunzione degli interventi edilizi nella nozione di nuova costruzione anziché in quella di manutenzione straordinaria- è, del pari, inammissibile, dal momento che trattasi di censura già sollevata e motivatamente disattesa dalla Corte d'appello.
Quest'ultima ha rilevato (pag. 5) che, dall'esame delle pratiche amministrative e delle relazioni tecniche riguardanti interventi nelle medesime aree di cui si discute, il fabbricato descritto in imputazione coinciderebbe con un vecchio e diruto manufatto rurale presente nella medesima particella catastale che, al momento in cui venne redatta la relazione tecnica citata, doveva ancora essere oggetto di ristrutturazione al fine di renderlo idoneo alla destinazione di casa-vacanza.
Dunque il fabbricato non sarebbe il risultato di un mero intervento di manutenzione straordinaria, comunicato con C.I.L.A. e riguardante un diverso immobile, bensì di un vero e proprio intervento di nuova costruzione, per il quale erano necessari sia il permesso di costruire che l'autorizzazione paesaggistica, essendovi stato anche un aumento di volume (come ben evidenziato a pag. 3 della sentenza di primo grado).
Dunque, deve ritenersi che la Corte distrettuale ha fatto corretta applicazione del principio in base al quale integra i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del d.Lgs. n. 42 del 2004 la ricostruzione di un "rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della S.C.I.A. richiede, nelle zone vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto), o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura (Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Rv. 260552)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.02.2022 n. 3763).

EDILIZIA PRIVATADal punto di vista generale, nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale.
---------------
L’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013 n. 69, conv. nella l. 09.08.2013 n. 98, nel modificare l’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 cit., in tema di ristrutturazione edilizia, ha previsto che rientrino in tale nozione anche gli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente”.
Per effetto di tale modifica legislativa, può ritenersi ormai superato l’orientamento giurisprudenziale, maturato nel vigore del testo originario del citato articolo, che riteneva necessaria, ai fini della qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia, la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di alcune componenti essenziali, quali murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura, posto che essa ha esteso l’ambito della ristrutturazione anche alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire ad una consistenza iniziale.
Tuttavia, anche dopo la novella de qua risulta comunque necessario che la consistenza iniziale dell’edificio in rovina sia dimostrata tanto sotto il profilo dell’an –ossia che un certo immobile sia esistito– tanto sotto quello del quantum, inteso come destinazione d’uso ed ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato, potendo la prova della esatta consistenza originaria, in assenza di elementi strutturali idonei, essere raggiunta anche attraverso riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili, tra i quali documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto.
Pertanto, sebbene in astratto sia divenuto ammissibile un intervento di ristrutturazione edilizia consistente nella ricostruzione di un rudere, anche dopo il sopravvenire dell’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. n. 69 del 2013, conv. nella l. n. 98 del 2013, è comunque indispensabile in concreto la fornitura di una prova oggettiva dell’esatta consistenza originaria dell’antica costruzione.
---------------
E' noto che in materia urbanistica incombe sul privato l’onere della prova dell’ultimazione di un’opera entro una certa data, al fine di dimostrare, ad esempio, che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui, ratione temporis, non era richiesto un atto di assenso, in quanto realizzata legittimamente senza titolo, essendo egli l’unico soggetto che ha la disponibilità di documenti e di elementi di prova e che può dimostrare con ragionevole certezza l’epoca di realizzazione del manufatto.
Nel caso che ci occupa, parte ricorrente non ha assolto all’onere probatorio in argomento, perché a sostegno delle proprie ragioni cita, innanzitutto, le dichiarazioni rese dal procedente proprietario del terreno, oltre che di altri soggetti, che offrono una ricostruzione dei fatti palesemente discordante con i dati oggettivi utilizzati dall’Amministrazione, sui quali non potrebbero prevalere neppure se fossero trasfuse in una testimonianza.
Sicché,
non avendo parte ricorrente apportato al processo quantomeno un principio di prova utile a sollevare fondati dubbi sull’esattezza del quadro fattuale ricostruito dal Comune resistente, non sussistono i presupposti per disporre una verificazione, come pur da ella richiesto.
Al riguardo, infatti, è noto che ad una situazione di assoluta carenza probatoria non può porsi rimedio con l’attività istruttoria giudiziale, giacché una tale opzione si tradurrebbe nell’inversione del principio dell’onere della prova come regolato dagli artt. 2697 cod. civ. e 115 cod. proc. civ., e ciò ancorché nel processo amministrativo il sistema probatorio sia retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, in considerazione dell’assetto non paritetico dei rapporti fattuali e giuridici intercorrenti tra il privato e l’Amministrazione; pertanto, affinché possano essere attivati i poteri istruttori giudiziali, la parte ricorrente deve quantomeno avanzare un principio di prova a sostegno delle proprie deduzioni.

---------------

Avendo, poi, parte ricorrente argomentato anche sull’infondatezza di tali ragioni ostative, si esamina nel merito la questione della consistenza e dell’epoca di realizzazione del manufatto oggetto di intervento.
Sul punto si osserva che, dal punto di vista generale, nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511; TAR Lazio, Latina, sez. I, 30.03.2021 n. 207; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 29.03.2021 n. 2085; TAR Lazio, Latina, sez. I, 13.07.2020 n. 271; TAR Piemonte, sez. II, 27.03.2013 n. 390; TAR Umbria, sez. I, 02.11.2011 n. 354).
Nel caso di specie, come si evince dalla lettura del verbale di sopralluogo del 12.02.2014, il fabbricato rurale del quale i ricorrenti hanno previsto la demolizione e ricostruzione è stato individuato in sito grazie alla presenza di tracce di muratura in pietrame, collocate su un’area in cui non esistono opere di urbanizzazione di nessun tipo e che è raggiungibile solo percorrendo sentieri che si diramano dalla strada sterrata di accesso alla proprietà. Le suddette tracce hanno consentito di identificare un perimetro dell’edificio diruto che è discordante con quanto rappresentato dall’ing. M.C. nella d.i.a. del 21.01.2013 e nelle successive integrazioni documentali.
In particolare, è stato accertato che le murature de quibus non presentano segni di fondazione e/o ringrossi e che, confrontando i rilievi aerofotogrammetrici degli anni 1955, 1984, 1997 e 2004 con la mappa catastale del 1923, utilizzata a fini di perimetrazione per l’apposizione del vincolo idrogeologico, le tracce del fabbricato rurale distinto in catasto al foglio n. 18, particella n. (ex) 223, risultano meno evidenti già nel 1997. Inoltre, è emerso che il suddetto manufatto rurale di appena mq 17 ha poi generato un immobile distinto in catasto al foglio n. 18, particella n. 1125, di ben mq 76, come da scheda del 23.03.2012, e che l’ampliamento della consistenza iniziale può ritenersi posteriore al 2011, alla luce del raffronto tra la citata aerofotogrammetria e le ortofoto geo-referenziate fornite dal Corpo forestale dello Stato.
Tali circostanze appaiono decisive in senso ostativo all’ammissibilità dell’intervento de quo nonostante la modifica normativa ricordata da parte ricorrente ed intervenuta dopo la diffida del 22.02.2013, ma prima dell’ordine di demolizione del 04.03.2014.
Infatti, l’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013 n. 69, conv. nella l. 09.08.2013 n. 98, nel modificare l’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 cit., in tema di ristrutturazione edilizia, ha previsto che rientrino in tale nozione anche gli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente”.
Per effetto di tale modifica legislativa, può ritenersi ormai superato l’orientamento giurisprudenziale, maturato nel vigore del testo originario del citato articolo, che riteneva necessaria, ai fini della qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia, la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di alcune componenti essenziali, quali murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura, posto che essa ha esteso l’ambito della ristrutturazione anche alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire ad una consistenza iniziale (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 06.7.2020 n. 517; in termini Cons. Stato, sez. VI, 03.10.2019 n. 6654; TAR Toscana, sez. III, 26.05.2020 n. 631).
Tuttavia, anche dopo la novella de qua risulta comunque necessario che la consistenza iniziale dell’edificio in rovina sia dimostrata tanto sotto il profilo dell’an –ossia che un certo immobile sia esistito– tanto sotto quello del quantum, inteso come destinazione d’uso ed ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato, potendo la prova della esatta consistenza originaria, in assenza di elementi strutturali idonei, essere raggiunta anche attraverso riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili, tra i quali documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 06.07.2020 n. 517; TAR Liguria, sez. I, 11.06.2020 n. 364).
Pertanto, sebbene in astratto sia divenuto ammissibile un intervento di ristrutturazione edilizia consistente nella ricostruzione di un rudere, anche dopo il sopravvenire dell’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. n. 69 del 2013, conv. nella l. n. 98 del 2013, è comunque indispensabile in concreto la fornitura di una prova oggettiva dell’esatta consistenza originaria dell’antica costruzione.
Ebbene, nel caso che ci occupa l’esigenza di una simile dimostrazione è già presente nella diffida del 22.02.2013, ove si fa riferimento alla “mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare”, ma è compiutamente esplicitata nel verbale del 12.02.2004, successivo all’art. 30, comma 1, lett. a), d.l. n. 69 cit., in cui la consistenza iniziale del fabbricato rurale diruto è fatta risalire a data anteriore al 1923 ed è fissata in mq 17, laddove il nuovo accatastamento del 23.03.2012 e la d.i.a. del 21.01.2013 si riferiscono a una superficie di mq 76.
Così ricostruiti i termini della vicenda all’esame, è noto che in materia urbanistica incombe sul privato l’onere della prova dell’ultimazione di un’opera entro una certa data, al fine di dimostrare, ad esempio, che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui, ratione temporis, non era richiesto un atto di assenso, in quanto realizzata legittimamente senza titolo, essendo egli l’unico soggetto che ha la disponibilità di documenti e di elementi di prova e che può dimostrare con ragionevole certezza l’epoca di realizzazione del manufatto (ex multis: Cons. Stato, sez. VI, 20.01.2020 n. 454; sez. II, 24.07.2019 n. 5220; TAR Lazio, Latina, sez. I, 30.03.2021 n. 207; sez. I, 08.06.2020 n. 194; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 03.06.2019 n. 2986).
Nel caso che ci occupa, parte ricorrente non ha assolto all’onere probatorio in argomento, perché a sostegno delle proprie ragioni cita, innanzitutto, le dichiarazioni rese dal procedente proprietario del terreno, oltre che di altri soggetti, prodotte in atti il 13.11.2014, che offrono una ricostruzione dei fatti palesemente discordante con i dati oggettivi utilizzati dall’Amministrazione, sui quali non potrebbero prevalere neppure se fossero trasfuse in una testimonianza (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511; TAR Lazio, Latina, sez. I, 13.07.2020 n. 271).
Nessuna prova oggettiva è stata, poi, addotta da parte ricorrente in ordine al fatto che la maggiore consistenza accatastata dopo l’acquisto del fondo nel 2011 e dichiarata in d.i.a. risalga effettivamente al 1952, epoca nella quale non era richiesto il preventivo rilascio di concessione edilizia per gli interventi di ampliamento e nuova costruzione ed anche successiva al 1950, soglia cronologica rilevante ai fini dell’applicabilità dell’art. 4, comma 1, lett. d), l.reg. n. 21 cit., che è preclusa per i manufatti antecedenti. Infatti, l’unico dato oggettivo e documentale su tali punti è costituito dal sopralluogo condotto il 07.02.2014, dalle aerofotogrammetrie e dalla cartografia poste dal Comune di Gaeta a fondamento delle proprie determinazioni, che dimostrano la risalenza del manufatto rurale diruto a data anteriore al 1923 una sua consistenza di soli mq 17 e non di mq 76, come dichiarato dall’ing. M.C. Si tratta, quindi, di dati del tutto incompatibili con quelli del ben più esteso immobile realizzato, asseritamente in ricostruzione, sulla base della d.i.a. del 21.01.2013, anche tenendo conto della facoltà di ampliamento previste dall’art. 4, comma 1, lett. d), l.reg. n. 21 cit.
A smentire la correttezza dell’accertamento operato dall’Amministrazione non vale neppure la perizia tecnica a firma dell’ing. Wa.So. prodotta in atti il 14.11.2014 e che, a dire di parte ricorrente, lascerebbe emergere “macroscopici errori ed approssimazioni” dei rilievi utilizzati dal Comune e dal Corpo forestale dello Stato.
In realtà, tale perizia, che investe anche la questione se l’area in parola sia mai stata percorsa dal fuoco negli anni 2007 e 2012, dedica alla questione che ci occupa il § 3 (pag. 5-6), ove si afferma che:
   a) l’epoca di costruzione dell’edificio diroccato è databile intorno agli anni 50 del secolo scorso a cagione dei materiali e della tecnica costruttiva impiegata (pietrame locale e malta bastarda con tecnica a secco), i quali “mostrerebbero chiaramente un invecchiamento di oltre 50 anni”;
   b) le reali dimensioni del fabbricato non sono apprezzabili dalle foto satellitari per la presenza della vegetazione locale che ostacola l’esatto rilievo, rinviandosi contestualmente sul punto alla dichiarazione del precedente proprietario B.M.
Tuttavia, a ben vedere, sia l’epoca di costruzione sia la maggiore consistenza del fabbricato in tal modo ipotizzate non appaiono sostenute da specifiche evidenze utili a minare la credibilità dell’accertamento operato dall’Amministrazione, atteso che, innanzitutto, un invecchiamento dei ruderi di oltre 50 anni è pienamente compatibile con la datazione dell’immobile indicata dal Comune di Gaeta e riportata a data anteriore al 1923. Inoltre, la perizia tralascia di considerare che l’Amministrazione non è giunta alle proprie conclusioni esclusivamente in via cartolare, cioè mediante la valutazione di materiale fotografico e di mappe, perché, come si evince dal verbale del 12.02.2014, la considerazione di detti documenti è successiva all’accesso ai luoghi ed alle misurazioni ivi eseguite da personale dall’Amministrazione civica e dal Corpo forestale dello Stato il 07.02.2014, in presenza dell’ing. M.C. nella sua qualità di proprietario e direttore dei lavori.
Al riguardo si rileva che, peraltro, detto sopralluogo si è tenuto poco dopo che l’area di interesse era stata ripulita dalla vegetazione, operazione questa che parte ricorrente dichiara essere stata compiuta in occasione dell’accatastamento nel 2012 e della presentazione della d.i.a. nel 2013 (cfr. pag. 11 della memoria del 13.11.2021), sì che le considerazioni sul punto svolte dal tecnico di parte per sollevare dubbi sulla risoluzione delle foto satellitari, in realtà, non possono obliterare gli accertamenti eseguiti sul posto e con una vegetazione ridotta rispetto a quella esistente al momento delle riprese da satellite o da aereo. Inoltre, resta inteso che il riferimento operato dal perito alla dichiarazione del precedente proprietario non può certo conferire alla relazione tecnica alcuna oggettiva attendibilità sul punto.
Stante quanto sopra, non avendo parte ricorrente apportato al processo quantomeno un principio di prova utile a sollevare fondati dubbi sull’esattezza del quadro fattuale ricostruito dal Comune resistente, non sussistono i presupposti per disporre una verificazione, come pur da ella richiesto.
Al riguardo, infatti, è noto che ad una situazione di assoluta carenza probatoria non può porsi rimedio con l’attività istruttoria giudiziale, giacché una tale opzione si tradurrebbe nell’inversione del principio dell’onere della prova come regolato dagli artt. 2697 cod. civ. e 115 cod. proc. civ., e ciò ancorché nel processo amministrativo il sistema probatorio sia retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, in considerazione dell’assetto non paritetico dei rapporti fattuali e giuridici intercorrenti tra il privato e l’Amministrazione; pertanto, affinché possano essere attivati i poteri istruttori giudiziali, la parte ricorrente deve quantomeno avanzare un principio di prova a sostegno delle proprie deduzioni (TAR Lazio, Roma, sez. II, 26.06.2020 n. 7232; sez. II, 08.01.2020 n. 133; conf.: Cons. Stato, sez. IV, 04.01.2018 n. 36; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 26.09.2019 n. 845; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 02.07.2018 n. 4375).
In definitiva, può ritenersi accertato che l’intervento edificatorio in questione sia consistito nella realizzazione di una nuova costruzione in zona agricola e non in una ristrutturazione edilizia nella forma della ricostruzione di un rudere, poiché la consistenza e la collocazione cronologica per esso dichiarate dal ricorrente nella d.i.a. del 21.01.2013 e nella successiva integrazione documentale si sono rivelate non corrette, non essendo sorrette da elementi oggettivi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’antico edificio da recuperare mediante le speciali facoltà edificatorie consentite dall’art. 4, comma 1, lett. d), l.reg. n. 21 cit. (TAR Lazio-Latina, sentenza 27.12.2021 n. 700 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAÈ stato affermato da autorevole giurisprudenza che vi è ristrutturazione edilizia quando “la stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma –in quest’ultimo caso– con ricostruzione, se non fedele (per effetto della modifica apportata al testo unico dal dlgs 27.12.2002 n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente”.
In base alla normativa statale di principio, dunque, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell’edificio preesistente –intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale– configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
Nel caso di specie, non solo non si interviene su un singolo edificio ma si muta pesantemente la configurazione planivolumetrica complessiva dell’intera area, quindi si è in presenza di ristrutturazione urbanistica la quale sussiste allorquando, come nel caso in esame, l’intervento è “rivolto a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con un altro diverso”.
---------------
Afferma ancora la giurisprudenza che “l’esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate”.
È stato, altresì, precisato che “il criterio discretivo tra l’intervento di demolizione e ricostruzione e la nuova costruzione è costituito proprio, nel primo caso, dall’assenza di variazioni del volume, dell’altezza o della sagoma dell’edificio, per cui, in assenza di tali indefettibili e precise condizioni si deve parlare di intervento equiparabile a nuova costruzione, da assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente attività edilizia. Tali criteri hanno un ancora maggiore pregio interpretativo a seguito dell’ampliamento della categoria della demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301 del 2002 in quanto proprio perché non vi è più il limite della ‘fedele ricostruzione’ si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti gli elementi fondamentali, in particolare per i volumi, per cui la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell’edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi”.
---------------

V - Con il primo motivo del ricorso introduttivo, è contestata la presunta violazione degli artt. 1 e 4 della L.R. 30.07.2009 n. 14, in quanto il progetto presentato risulterebbe in deroga rispetto alle previsioni urbanistiche comunali, come consentito, secondo l’argomentare della ricorrente, dalle richiamate norme regionali e, pertanto, non necessitante del preventivo strumento urbanistico attuativo.
Con il terzo motivo del gravame introduttivo, è altresì rilevata la presunta violazione dell’art. 3, comma 1, lett. f), del T.U. dell’edilizia n. 380/2001. Si tratterebbe, a dire della ricorrente, di un intervento straordinario di demolizione e ricostruzione da realizzare in deroga “alla destinazione, agli indici e altri parametri dello strumento di pianificazione”.
Sennonché, la realizzazione in deroga degli interventi di demolizione e ricostruzione è ammessa dall’art. 1 della L.R. n. 14/2009 con riferimento esclusivo agli indici e ai parametri relativi alla volumetria espressa. Inoltre, l’art. 4 della medesima legge regionale sul “Piano Casa” ammette interventi di demolizione e ricostruzione di edifici residenziali e non residenziali, con incremento volumetrico con chiaro riferimento alle ipotesi di ristrutturazione edilizia, non per la ristrutturazione urbanistica.
Nel caso di specie, invece, si è in presenza di un complessivo cambio di destinazione dell’area interessata che da produttiva diviene residenziale-commerciale, con inevitabile aggravio del peso urbanistico a causa dei nuovi insediamenti abitativi. Inoltre, viene progettato un edificio destinato ad attività commerciali, vale a dire una media struttura di vendita. Infine, è posta la necessità di strutturare una nuova viabilità interna, in relazione alla ridefinizione del layout della zona.
Si tratta, con ogni evidenza, di un insieme di interventi rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con un altro e diverso disegno della zona, del lotto e della rete stradale interna.
È stato affermato da autorevole giurisprudenza che vi è ristrutturazione edilizia quando “la stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma –in quest’ultimo caso– con ricostruzione, se non fedele (per effetto della modifica apportata al testo unico dal decreto legislativo 27.12.2002 n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente” (cfr.: Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2014 n. 2397; id., sez. IV, 30.03.2013, n. 2972).
In base alla normativa statale di principio, dunque, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell’edificio preesistente –intesa quest’ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale– configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
Nel caso di specie, non solo non si interviene su un singolo edificio ma si muta pesantemente la configurazione planivolumetrica complessiva dell’intera area, quindi si è in presenza di ristrutturazione urbanistica la quale sussiste allorquando, come nel caso in esame, l’intervento è “rivolto a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con un altro diverso” (cfr.: Cons. Stato, IV sezione, 01.09.2015 n. 4077; idem sez. V, 16.12.2010 n. 8948).
L’espressa convinzione della sussistenza di una ristrutturazione urbanistica, quindi l’inapplicabilità dell’art. 1 della L.R. n. 9/2014 in ordine alla deroga, impone il rispetto delle previsioni di cui allo strumento urbanistico generale, secondo il quale, nella zona B/4, vi è necessità dello strumento urbanistico attuativo e non può procedersi al rilascio diretto del permesso.
Afferma ancora la giurisprudenza che “l’esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate” (cfr.: Cons. Stato, sez. V, 29.02.2012 n. 1177; idem, IV, 13.10.2010 n. 7486).
È stato, altresì, precisato che “il criterio discretivo tra l’intervento di demolizione e ricostruzione e la nuova costruzione è costituito proprio, nel primo caso, dall’assenza di variazioni del volume, dell’altezza o della sagoma dell’edificio, per cui, in assenza di tali indefettibili e precise condizioni si deve parlare di intervento equiparabile a nuova costruzione, da assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente attività edilizia. Tali criteri hanno un ancora maggiore pregio interpretativo a seguito dell’ampliamento della categoria della demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301 del 2002 in quanto proprio perché non vi è più il limite della ‘fedele ricostruzione’ si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti gli elementi fondamentali, in particolare per i volumi, per cui la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, debba conservare le caratteristiche fondamentali dell’edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell’edificio debba riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 09.08.2018, n. 4880)” (cfr.: Cons. Stato, sez. II, 20.05.2019, n. 3208).
L’intervento edilizio proposto dalla ricorrente e denegato dal Comune resistente non può considerarsi alla stregua di una mera istanza di incremento volumetrico, mercé l’utilizzo della L.R. n. 9/2014. L’iniziativa privata in esame, contiene, difatti, da un lato, la richiesta dell’incremento volumetrico (soltanto per il quale la legge consente di procedere in deroga agli strumenti urbanistici locali) ma, al contempo, ridisegna l’impatto urbanistico dell’area il cui progetto non può che essere sottoposto alle norme comunali che impediscono il rilascio diretto del permesso.
Infondate, in conclusione, appaiono la prima e la terza censura riferite alla violazione della L.R. n. 14/2009 e del T.U. sull’edilizia (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 28.10.2021 n. 1571 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn conformità al consolidato (e condiviso) orientamento della giurisprudenza, si deve ritenere che gli interventi ricostruttivi, sussumibili nel novero della ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. d), D.p.r. n. 380/2001 (in esito alle novità apportate con d.l. n. 69/2013, convertito dalla l. n. 98/2013), presuppongono “un minimo di preesistenza edificata, ossia un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
Il concetto di costruzione esistente presuppone la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l’intervento edificatorio sulla stessa non rileva quale trasformazione urbanistico-edilizia del territorio in termini di nuova costruzione. Deve, cioè, trattarsi di un manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia abitato o abitabile, possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione.
---------------

Ad avviso del Collegio nella fattispecie difetta il presupposto oggettivo di applicazione dell’art. 7, co. 8-bis l.r. Campania n. 19/2009, come novellata con l.r. n. 5/2011, conformemente a quanto ritenuto, sul punto, dall’estensore del provvedimento impugnato.
In base a tale disposizione, “è consentito il recupero edilizio soltanto agli aventi titolo alla data di entrata in vigore della presente legge, in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, mediante intervento di ricostruzione in sito, di edifici diruti e ruderi, purché…”.
Ora, in conformità al consolidato (e condiviso) orientamento della giurisprudenza, si deve ritenere che gli interventi ricostruttivi, sussumibili nel novero della ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. d), D.p.r. n. 380/2001 (in esito alle novità apportate con d.l. n. 69/2013, convertito dalla l. n. 98/2013), presuppongono “un minimo di preesistenza edificata, ossia un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura (Cons. Stato, sez. II, n. 8035 del 15.12.2020). Il concetto di costruzione esistente presuppone la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l’intervento edificatorio sulla stessa non rileva quale trasformazione urbanistico-edilizia del territorio in termini di nuova costruzione. Deve, cioè, trattarsi di un manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia abitato o abitabile, possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione” (da Consiglio di Stato, 26.12.2020, n. 8337; cfr. Cons. Stato, 10.02.2004, n. 475 e 15.03.1990, n. 293; più di recente, sez. II, 24.10.2020, n. 6455).
Nella fattispecie, il manufatto indicato nell’atto d’acquisto (come anche nei registri catastali) non si presenta all’attualità nello stato di rudere, bensì in quello di rovine, trattandosi di meri “resti di mura” (cfr., sulla distinzione fra ruderi e rovine, Consiglio di Stato, 10.02.2004, n. 475; conf., Tar Bolzano, 07.03.2006, n. 97). Dal corredo fotografico allegato alla perizia di parte, versata in atti il 17.03.2014, si evince infatti che, allo stato, non è presente null’altro che uno spigolo/porzione di un muro.
La mancanza del presupposto oggettivo di applicazione richiesto dall’art. 7, co. 8-bis, l.r. Campania n. 19/2009 determina la legittimità del provvedimento impugnato, anche in relazione al motivo di ricorso sub 3.4, posto che tale ragione è stata ritualmente esposta nella comunicazione ex art. 10-bis l. n. 241/1990, consentendo altresì l’assorbimento degli ulteriori profili dedotti dalla p.a. e censurati dai ricorrenti (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 04.08.2021 n. 1881 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAffinché si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi (a seguito delle modifiche all'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001 apportate dal d.l. 69/2013, conv. con l. 98/2013), ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è necessario che sia possibile accertare l’originaria consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizia “nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”.
Nel caso di specie, il ricorrente non ha assolto all’onere probatorio che grava su colui debba dimostrare la preesistente consistenza del fabbricato andato distrutto o demolito, tenuto conto che, secondo la giurisprudenza, “...gli interventi sul patrimonio edilizio esistente presuppongono necessariamente un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura ovvero la possibilità di individuare l’edificio preesistente nella sua identità strutturale, quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità; declinandosi altrimenti l’intervento come volto a realizzare una nuova costruzione e non la ricostruzione di un precedente immobile”.
---------------

Il succitato provvedimento negativo si sottrae a tutte le censure mosse dal ricorrente.
Secondo un indirizzo giurisprudenziale consolidato, condiviso dal Collegio, affinché si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi (a seguito delle modifiche all'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001 apportate dal d.l. 69/2013, conv. con l. 98/2013), ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è necessario che sia possibile accertare l’originaria consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizianel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2019, n. 6188; Id. 21.10.2014, n. 5174; Consiglio di Stato, I Sezione, parere del 27.05.2020 n. 1095).
Il provvedimento impugnato ha fatto corretta applicazione, al caso di specie, dei suesposti principi.
Le fonti storiche allegate dal ricorrente alla domanda di premesso di costruire (fotografie che raffigurano l’immobile ad una certa distanza; pianta catastale; articoli di giornale e una sentenza che ricostruiscono il fatto di sangue avvenuto in prossimità del fabbricato nel 1926; dichiarazioni di terzi che confermano l’esistenza del predetto fabbricato) non offrono sicuri elementi per ricostruire con un sufficiente grado di attendibilità i parametri edilizi fondamentali dell’edificio diruto, ormai da circa novant’anni.
Dall’istruttoria svolta, e in particolare dagli esiti del sopralluogo svolto dai tecnici comunali il 18.05.02018, documentando fotograficamente lo stato dei luoghi, è emersa l’impossibilità di ricostruire con certezza la consistenza originaria del fabbricato crollato sin dagli anni ’30 del secolo scorso (nella relazione di sopralluogo di legge, in particolare, che “...1) Non ci sono tracce planimetriche dell'esistenza del vecchio edificio riportato nelle due foto storiche prodotte dal sig. Re.Gi., per la pratica edilizia tendente a chiederne la ricostruzione in sito.
- Sono accertabili sassi per lo più derivanti dal generale dissesto e crollo delle vecchie "marogne" presenti in sito e che delimitano le balze in pendio.
- Ci sono tre spezzoni dì stipiti di porta o di finestra, con cardini, ma al riguardo non si ha la certezza che effettivamente siano appartenuti al fabbricato in questione.
- Alcune pietre paiono essere state in qualche maniera sistemate in fila, e mancano gli angolari murari che il tecnico geom. Ca. ha rappresentato sui suoi disegni nello stato di fatto.
- Non c'è nessun elemento che consenta di verificare le dimensioni planimetriche di quella che si vorrebbe essere una precedente costruzione nel punto individuato dalla mappa catastale.
- Non sono verificabili le dimensioni del fabbricato riportate nella mappa catastale mancando ogni elemento verificabile...
”).
L’impossibilità di ricostruire con un sufficiente grado di attendibilità la preesistente consistenza dell’immobile crollato ormai da circa novant’anni è desumibile anche dal fatto che nelle tre richieste di titolo edilizio presente dal ricorrente, dal 2016 al 2020, egli ha prospettato tre diversi dimensionamenti del fabbricato originario:
   - nella pratica edilizia n. 194/2016 le dimensioni dell’immobile sono state calcolate in: lunghezza 10 metri, larghezza 5 metri ed altezza matematicamente calcolata in 5,57 metri;
   - nella pratica edilizia n. 230/2017, le dimensioni che precedono sono state dapprima confermate e poi modificate con progetto (appena abbozzato) allegato alla nota del 31.05.2018, che prevedeva una base di 9,80 x 4,10 metri ed un’altezza calcolata di 4,51 metri;
   - nella pratica edilizia n. 22/2020, oggetto dell’impugnativa all’esame, la base dell’edificio è stata individuata in 10,00/10.02 x 5,10/5,15 metri, con altezza calcolata di 5,74 metri.
Il ricorrente non ha, in definitiva, assolto all’onere probatorio che grava su colui debba dimostrare la preesistente consistenza del fabbricato andato distrutto o demolito, tenuto conto che, secondo la giurisprudenza, “...gli interventi sul patrimonio edilizio esistente presuppongono necessariamente un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura ovvero la possibilità di individuare l’edificio preesistente nella sua identità strutturale, quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità; declinandosi altrimenti l’intervento come volto a realizzare una nuova costruzione e non la ricostruzione di un precedente immobile” (Cons. Stato Sez. II, 24.10.2020, n. 6455).
A ciò si aggiunga che, secondo quanto risulta dagli atti, i luoghi sono stati modificati, attraverso la perimetrazione della base del presunto edificio, mediante il collocamento di sassi e pietre varie, rendendo viepiù impossibile approfondire e verificare ulteriormente l’originario stato dei luoghi.
L’obiettiva impossibilità di verificare la consistenza dell’immobile diruto, accertata nel corso del sopralluogo del maggio 2018, giustifica il superamento delle valutazioni operate dal Comune, previo parere favorevole vincolante della Soprintendenza. nelle precedenti autorizzazioni paesaggistiche rilasciate sulla base di una ricostruzione dell’effettiva consistenza dell’immobile diruto che si sono rivelate difformi rispetto alla realtà accertata sul luogo dai tecnici comunali.
Del resto, si osserva che l’autorizzazione paesaggistica, pur essendo un provvedimento prodromico al rilascio del titolo edilizio, non esaurisce l’ambito d’indagine necessario ad assentire l’intervento, che dal punto di vista edilizio deve essere scrutinato secondo le coordinate desumibili dall’articolo 3, comma 1, lett. d), del T.U. Edilizia e dai principi elaborati dalla giurisprudenza formatasi in materia.
Nel caso in esame, dagli atti di causa, si evince che l’intervento non presentava criticità sotto il profilo della compatibilità con la tutela paesaggistica, ma, come correttamente rilevato dal Comune, non poteva essere qualificato come ristrutturazione edilizia, attesa l’impossibilità di stabilire con un sufficiente grado di certezza i parametri edilizi fondamentali dell’edificio diruto da circa novant’anni, presupposto essenziale ai fini della qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia.
Il provvedimento impugnato è immune dalle censure dedotte anche laddove ha riscontrato la mancanza dei requisiti previsti dall’articolo 12 del DPR n. 380/2001 per il rilascio del permesso di costruire, in relazione alle opere di urbanizzazione primaria concernenti la sistemazione della strada comunale denominata “strada comunale di Mirabello”.
La documentazione prodotta dal ricorrente è stata, infatti, ritenuta dal Comune inidonea rispetto all’obiettivo di realizzare una strada percorribile in sicurezza per raggiungere l’abitazione oggetto d’intervento, con valutazione che il Collegio reputa sorretta da adeguata istruttoria, non affetta da travisamento del fatto né altrimenti illegittima.
Per tutto quanto sin qui esposto, il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 09.07.2021 n. 910 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer univa giurisprudenza, l’onere della prova dell’epoca di realizzazione di un’opera edilizia incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto.
Tale prova non è stata fornita dall’interessato non potendosi a tal fine ritenere sufficiente le risalenti risultanze catastali in quanto tali dati non costituiscono fonte di prova certa sulla situazione di fatto esistente sul piano immobiliare, rappresentando l’accatastamento un adempimento di tipo fiscale-tributario, che fa stato ad altri fini, senza assurgere a strumento idoneo —al di là di un mero valore indiziario— per evidenziare la reale consistenza degli immobili interessati e la relativa conformità alla disciplina urbanistico-edilizia. Parte ricorrente non ha, invero, fornito alcun elemento a comprova della legittima edificazione della preesistenza.
Come chiarito anche dal Giudice d’Appello, deve escludersi che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare. In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata.
L’impossibilità di apprezzare la consistenza del manufatto preesistente determina in radice l’esclusione della configurabilità di un intervento di “ristrutturazione edilizia”, venendo in rilievo un intervento di nuova costruzione.
---------------
3. La domanda di sanatoria ordinaria ha, infatti, ad oggetto un intervento di ristrutturazione di un manufatto composto dal solo piano terra avente la consistenza di circa 40 mq., con contestuale richiesta di compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004.
3.1. Le deduzioni di parte ricorrente muovono dalla preesistenza del manufatto, originariamente di maggiore consistenza ma in gran parte diroccato, che sarebbe asseritamente stato sottoposto ad un mero intervento di recupero.
3.2. Come emerge dalla documentazione versata in atti e, segnatamente, dal provvedimento gravato, l’amministrazione ha rigettato la domanda di sanatoria ordinaria in considerazione dell’assenza di evidenze a comprova sia della legittimità della preesistenza asserita sia della effettiva pregressa edificazione dell’immobile, tenuto conto, in specie, dei rilievi aerofotogrammetrici esaminati nell’ambito dell’istruttoria svolta, tali da evidenziare l’avvenuta edificazione del manufatto nel periodo intercorrente tra l’11.08.2014 ed il 03.11.2015.
3.3. Per univa giurisprudenza (il che esime da citazioni specifiche) l’onere della prova dell’epoca di realizzazione di un’opera edilizia incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto.
3.4. Tale prova non è stata fornita dall’interessato non potendosi a tal fine ritenere sufficiente le risalenti risultanze catastali in quanto tali dati non costituiscono fonte di prova certa sulla situazione di fatto esistente sul piano immobiliare, rappresentando l’accatastamento un adempimento di tipo fiscale-tributario, che fa stato ad altri fini, senza assurgere a strumento idoneo —al di là di un mero valore indiziario— per evidenziare la reale consistenza degli immobili interessati e la relativa conformità alla disciplina urbanistico-edilizia (cfr., ex multis, Consiglio di Stato sez. VI, 09/02/2015, n. 631). Parte ricorrente non ha, invero, fornito alcun elemento a comprova della legittima edificazione della preesistenza.
3.5. Contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, inoltre, l’istruttoria svolta dall’amministrazione, adeguatamente approfondita, ha fatto emergere che il manufatto oggetto della domanda di sanatoria non risulta dai rilievi aerofotogrammetrici esaminati, circostanza, questa, che, oltre ad ulteriormente evidenziare l’inadeguatezza delle allegazioni probatorie di parte del ricorrente consente di rilevare un ulteriore rilevante profilo.
3.6. Come chiarito anche dal Giudice d’Appello, deve escludersi che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare (cfr., ex multis, Cons. St., 17.09.2019, n. 6188). In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata (Cons. St., sez. V, sentenza n. 1025 del 15.03.2016).
3.7. L’impossibilità di apprezzare la consistenza del manufatto preesistente determina in radice l’esclusione della configurabilità di un intervento di “ristrutturazione edilizia”, venendo in rilievo un intervento di nuova costruzione (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 14.06.2021 n. 4047 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo condivisa giurisprudenza:
   - <<Rientrano nella definizione di "ristrutturazione edilizia" le opere di demolizione e di fedele ed originale ricostruzione della parte in muratura d'un preesistente edificio pericolante o di compromessa stabilità, le quali, per questa stessa loro natura, non implicano alcun impatto negativo sull'interesse paesaggistico della zona -consistendo quest'ultimo nella tutela e nella conservazione dell'aspetto esteriore dei luoghi, con specifico riferimento alla conservazione dei caratteristici tipi edilizi esistenti-, né di conseguenza determinano la violazione dell'autorizzazione resa dall'autorità>>; ed, ancora,
   - <<Per qualificare l'intervento di ricostruzione di un rudere come ristrutturazione, è necessario e sufficiente che l'originaria consistenza dell'edificio sia accertabile nei suoi elementi essenziali, con adeguato grado di sicurezza, sulla base di riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili>>.
Secondo quanto rilevato in tale sentenza alla luce della modifica legislativa dell'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, intervenuta ad opera dell'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013, conv. in l. n. 98 del 2013, può ritenersi ormai superato l'orientamento giurisprudenziale maturato nel vigore del testo originario del citato articolo, che riteneva necessaria, ai fini della qualificazione dell'intervento come ristrutturazione edilizia, la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di alcune componenti essenziali, quali murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
La novella legislativa ha difatti esteso l'ambito della ristrutturazione alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire ad una consistenza iniziale. La giurisprudenza richiede poi che la consistenza iniziale debba essere dimostrata tanto sotto il profilo dell'an (ossia che un certo immobile sia esistito) tanto sotto il profilo del quantum, inteso come destinazione d'uso ed ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato.
La sentenza in esame ammette la possibilità che la prova della esatta consistenza originaria, in assenza di elementi strutturali idonei, possa essere raggiunta anche attraverso riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili..
---------------

Quanto sopra rilevato potrebbe valere nel caso in cui si intendesse offrire una dimostrazione che le opere contestate sono state realizzate in un arco temporale in cui non si richiedeva alcun titolo abilitativo edilizio ovvero il titolo era stato, all’epoca, rilasciato e le opere successive siano mero recupero e ripristino di volumi e superfici a lui legittimamente edificati.
Ma non sembra ciò essere avvenuto nel caso in esame.
Al riguardo con ordinanza n. 707 del 16.05.2017 questa sezione riteneva l’istanza cautelare meritevole di accoglimento ai fini del riesame da parte dell’Amministrazione comunale, alla luce delle circostanze allegate e della documentazione depositata dal ricorrente, al tempo stesso onerando la predetta Amministrazione di depositare agli atti della causa l’esito dell’istruttoria e di tutta la documentazione ritenuta utile in esito al riesame.
In ottemperanza alla predetta ordinanza, il Comune procedente ha depositato una articolata relazione istruttoria resa dal Settore Pianificazione Urbanistica del Comune di Ercolano prot. n. 30181 del 05/06/2017, con relativi allegati tecnico-giuridici, costituiti da pertinente documentazione fotografica descrittiva dello stato attuale dello immobile, nonché da rilievi catastali relativi allo stato originario dello stesso cespite, in uno allo stralcio della normativa urbanistica e paesaggistica vigente e riconducibile alla zona interessata dalle contestate opere edilizie.
Ciò ha condotto la Sezione, con successiva ordinanza n. 1865 del 29.11.2017, a respingere l’istanza cautelare dopo aver considerato che: <<alla luce della documentazione depositata dall’amministrazione comunale in esito all’ordinanza n. 707/2017, ….. emerge che il manufatto oggetto di contestazione, sia per diverso posizionamento -in quanto occupante una parte dell’originaria area di sedime del fabbricato esistente al 1940 e riportata nella relativa scheda di accatastamento- sia per le modalità costruttive e la tipologia di materiale utilizzato e riscontrato sui luoghi (realizzazione di opere in cemento armato), appare costituire non un mero ampliamento del manufatto originario, bensì un edificio difforme ed eseguito ex novo rispetto al comodo rurale preesistente sul terreno di cui alla p.lla 421 ex 19>>.
Approfondendo la predetta Relazione istruttoria si apprende che in sede di sopralluogo, effettuato in data 03.02.2017, come da documentazione fotografica allegata “si riscontrano lavori in corso per la realizzazione ex novo di un manufatto allo stato grezzo, con struttura portante in c.a. (travi di fondazioni, pilastri e solai di copertura, quest'ultimi in parte già realizzati ed in parte con sola orditura di putrelle), muratura esterna di tompagno e divisori interni, nel mentre non risultano visibili strutture inerenti un vecchio manufatto”.
In merito alla preesistenza di un manufatto risalente al 1940, da ricerche di Ufficio si è evidenziato che catastalmente nell'area in argomento è riportato un fabbricato rurale di mq. 40, individuato nel NCT al fg. 14 del Comune di Ercolano, particella n. 421, ex n 19 all'impianto meccanografico del 12.02.1985 (allegati nn. 3 e 4).
Il manufatto, riscontrato in sede di sopralluogo, di forma rettangolare, occupa tutta l'area posta in fondo al giardino, anche quella a confine con l'ex Bosco Reale ove è posizionato il manufatto riportato nel mappale catastale. Le modalità di costruzione del nuovo manufatto, che è realizzato anche sull'area di sedime del manufatto riportato in catasto, non possono considerarsi un ampliamento del vecchio manufatto e ciò per tipologia di materiali (muri in c.a., struttura in c.a.) e soprattutto per la presenza di travi di fondazioni in c.a., la cui realizzazione ha dovuto comportare di fatto la demolizione di quanto preesistente e quindi dal punto di vista urbanistico l'intervento consistite nella demolizione di un manufatto preesistente e la costruzione di un nuovo e diverso manufatto (per dimensioni, per tipologia di materiali).
Inoltre a pag. 5 del ricorso si afferma: "Verso la prima metà del mese di gennaio 2017, a seguito delle avverse condizioni metereologiche verificatesi durante i mesi di dicembre 2016 e gennaio 2017, (all. 7 della CTP) nonché all'avanzato stato di degrado in cui versavano gli immobili riportati nella scheda di accatastamento n. 10304079 del 10.02.1940, (documentazione fotografica all. 7 CTP) i solai degli stessi collassarono, creando così il crollo di gran parte delle murature perimetrali; successivamente al crollo parziale degli immobili sopra descritti, il sig. Ve., intervenne —in assenza di nessun titolo abilitativo—per rimuovere le parti ancora pericolanti e ricostruire il tutto.", confermando di fatto quanto già detto in precedenza.
Si comprende, allora la ragione per la quale –contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente che fa riferimento a preesistenze del manufatto- nel provvedimento impugnato si rileva che “le opere abusive in parola costituiscono costruzione ex novo che quindi anche esse ricadono negli interventi di “nuova costruzione” di cui all'art. 10, comma I, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, per il quale si richiede il permesso di costruire".
Nel caso in cui si voglia tener conto del solo manufatto esistente (che si ribadisce essere una demolizione e ricostruzione) -prosegue la Relazione- l'intervento effettuato su di esso rientra nella tipologia degli "interventi di ristrutturazione edilizia", giusta articolo 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380/2001 (allegato n. 5) che così recita: "interventi di ristrutturazione edilizia, gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente".
Secondo condivisa giurisprudenza: <<Rientrano nella definizione di "ristrutturazione edilizia" le opere di demolizione e di fedele ed originale ricostruzione della parte in muratura d'un preesistente edificio pericolante o di compromessa stabilità, le quali, per questa stessa loro natura, non implicano alcun impatto negativo sull'interesse paesaggistico della zona -consistendo quest'ultimo nella tutela e nella conservazione dell'aspetto esteriore dei luoghi, con specifico riferimento alla conservazione dei caratteristici tipi edilizi esistenti-, né di conseguenza determinano la violazione dell'autorizzazione resa dall'autorità>> (Consiglio di Stato sez. V, 15/01/1997, n. 45); ed, ancora, <<Per qualificare l'intervento di ricostruzione di un rudere come ristrutturazione, è necessario e sufficiente che l'originaria consistenza dell'edificio sia accertabile nei suoi elementi essenziali, con adeguato grado di sicurezza, sulla base di riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili>> (TAR Brescia, (Lombardia) sez. I, 06/07/2020, n. 517).
Secondo quanto rilevato in tale sentenza alla luce della modifica legislativa dell'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, intervenuta ad opera dell'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013, conv. in l. n. 98 del 2013, può ritenersi ormai superato l'orientamento giurisprudenziale maturato nel vigore del testo originario del citato articolo, che riteneva necessaria, ai fini della qualificazione dell'intervento come ristrutturazione edilizia, la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di alcune componenti essenziali, quali murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
La novella legislativa ha difatti esteso l'ambito della ristrutturazione alle ipotesi di ricostruzione di edifici, anche ridotti a rudere, dei quali sia possibile risalire ad una consistenza iniziale. La giurisprudenza richiede poi che la consistenza iniziale debba essere dimostrata tanto sotto il profilo dell'an (ossia che un certo immobile sia esistito) tanto sotto il profilo del quantum, inteso come destinazione d'uso ed ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato.
La sentenza in esame ammette la possibilità che la prova della esatta consistenza originaria, in assenza di elementi strutturali idonei, possa essere raggiunta anche attraverso riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili. Ne consegue che il Comune resistente ha correttamente applicato le disposizioni del Testo Unico sull’edilizia e il provvedimento impugnato, diversamente da quanto dedotto, non necessitava di alcuna motivazione ulteriore, anche in virtù del fatto che gli abusi accertati ricadono in territorio soggetto a vincoli paesaggistici.
Sotto il profilo più strettamente paesaggistico, mette conto evidenziare come l’impugnato provvedimento è stato emanato, dopo aver considerato che l'intero territorio comunale di Ercolano, inoltre, è soggetto ai vincoli del vigente P.R.G., approvato con D.P.R. Campania n. 2376 del 14.05.1975, pubblicato sulla G.U. n. 177 del 1975, e del Piano Territoriale Paesistico dei Comuni Vesuviani, approvato con D.M. BB.AA.CC. del 04.07.2002, pubblicato sulla G.U. del 18.09.2002, serie generale n. 219.
L'immobile in argomento ricade nel vigente P.R.G. in zona omogenea "Intensiva esistente" e nel P.T.P. Comuni Vesuviani in zona "P.I. — Protezione Integrale".
A tal proposito, proprio in relazione alle prescrizioni imposte dal citato PTP dei Comuni Vesuviani, va ribadito che l’area su cui ricadono le opere realizzate dal ricorrente, oltre che essere ricompresa nella zonizzazione "P.I. Protezione Integrale”, è, altresì, disciplinata dall’ art. 7, 6° comma, delle Norme Tecniche di Attuazione del predetto Piano paesistico, secondo cui “... la ristrutturazione edilizia, con riferimento all’ art. 31, lett. d), 457/1978, (trasposto nell’ art. 3, 1° comma, DPR 380/2001), dovrà ammettersi soltanto per gli edifici di recente impianto (realizzazione dopo il 1945), con l’esclusione degli edifici di valore storico-artistico ed ambientale paesistico nonché di quelli di cui ai punti 2 e 3 dell’art. 1 L. n. 1497/1939” (cfr. art. 7, 6° comma, delle NTA del PTP dei Comuni Vesuviani, così come testualmente richiamato alla pag. 2, penultimo capoverso della allegata Relazione istruttoria comunale del 05/06/2017).
Sicché, come puntualmente rappresentato e dedotto nella richiamata Relazione istruttoria comunale, tenuto conto della circostanza secondo cui, come rilevabile dalla scheda di accatastamento n. 10304079 del 10/02/1940, l’edificio preesistente, ricadente in proprietà Ve., è stato costruito in periodo antecedente al 1940, consegue evidente la non autorizzabilità delle contestate opere di ristrutturazione edilizie, in quanto aventi ad oggetto un fabbricato realizzato antecedentemente all’anno 1945 e, dunque, non assoggettabile, sotto il profilo paesaggistico, ai predetti interventi di demolizione con ricostruzione.
Infine, secondo giurisprudenza condivisa, stante l’effettivo impatto che le opere edilizie realizzate ingenerano sul bene tutelato, a legittimare l’ordine di riduzione in pristino dello stato dei luoghi è sufficiente la realizzazione di interventi di “nuova costruzione”, realizzati in totale assenza del titolo abilitativo edilizio in zona peraltro assoggettata a vincoli paesaggistici ed al D.L.vo 42/2004 e s.m. ed i., richiamato nelle premesse dell'ordine demolitorio (cfr. TAR Roma, sez. I, 04/05/2016, n. 5114) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 26.04.2021 n. 2730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale.
---------------

... per l’annullamento dell’ordinanza urbanistica n. 1, prot. n. 813, del 09.03.2011, notificata il 02.04.2011, con cui è stato ingiunto ai ricorrenti di ripristinare lo stato dei luoghi, in relazione all’avvenuta realizzazione di una pista sterrata lunga circa m. 300 e larga circa m. 2,40, con scarpate dell’altezza variabile tra m 0,2 e m 1,00, giacente sui terreni distinti in catasto al foglio n. 11, mappali nn. 179, 404, 96, 403, 223, 405, 371 e 95, tutti sottoposti a tutela idrogeologica e paesaggistica.
...
   Considerato che nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511; TAR Lazio, Latina, sez. I, 13.07.2020 n. 271; TAR Piemonte, sez. II, 27.03.2013 n. 390; TAR Umbria, sez. I, 02.11.2011 n. 354);
   Ritenuto che, pertanto, la richiesta istruttoria in argomento non sia utilmente valutabile, poiché non è possibile provare per testi fatti che si pongano in contrasto con le risultanze oggettive poste dalla p.a. a fondamento del provvedimento impugnato e segnatamente con gli esiti degli accertamenti svolti in luogo da personale del Corpo forestale dello Stato e dell’Amministrazione civica resistente, che in data 19.01.2011 hanno appurato, tra l’altro, che “i lavori sono di recente realizzazione in quanto il terreno delle scarpate non si è ancora inerbito e la terra sembra essere stata movimentata da poco tempo”, dunque circostanze incompatibili con la ricostruzione di un semplice intervento manutentivo che i ricorrenti vorrebbero comprovare per testimoni (TAR Lazio-Latina, sentenza 30.03.2021 n. 207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come noto, l’onere di provare l’avvenuta ultimazione dei lavori in tempo utile (ovvero di un indefettibile requisito di ammissibilità del condono), grava esclusivamente sul richiedente. “Ciò in quanto solo l’interessato può fornire inconfutabili documenti che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso. La giurisprudenza ha peraltro anche affermato che tale prova deve essere rigorosa, non risultando a tal fine sufficienti dichiarazioni sostitutive di atto notorio, ma «richiedendosi invece una documentazione certa ed univoca, sull’evidente presupposto che nessuno meglio di chi richiede la sanatoria e ha realizzato l’opera può fornire elementi oggettivi sulla data di realizzazione dell’abuso». In difetto della stessa, l’Amministrazione ha il dovere di negare la sanatoria ...”.
Ed ancora: “Nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale”. Da tali condivisibili principi giurisprudenziali discende che:
   a) la prova dell’epoca di realizzazione si desume da dati oggettivi;
   b) essi resistono a dati quali quelli risultanti dagli estratti catastali, ovvero alla prova testimoniale;
   c) è onere del privato che contesti il dato dell’Amministrazione fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell’immobile, "superando” quella fornita dalla parte pubblica”.
Per quanto attiene, nello specifico, ai mezzi di prova di cui parte ricorrente ha inteso avvalersi (dichiarazione sostitutiva a sua firma e dichiarazioni testimoniali rese in sede civile), è sufficiente richiamarsi alle costanti affermazioni giurisprudenziali sul tema:
“E’ costante la giurisprudenza del Consiglio di Stato nell’affermare l’inutilizzabilità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà nell’ambito del processo amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione.
Lo stesso principio si estende anche alle dichiarazioni testimoniali giurate, come quelle in atti.
D’altro canto, l'attitudine certificativa e probatoria della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e delle autocertificazioni o auto dichiarazioni è limitata a specifici status o situazioni rilevanti in determinate attività o procedure amministrative e non vale a superare quanto attestato dall'Amministrazione, sino a querela di falso, dall'esame obiettivo delle risultanze documentali.
Inoltre, la testimonianza scritta, acquisita nelle forme prescritte dal c.p.c., non può assolvere al ruolo, che le sarebbe proprio, di mezzo di prova, sulla base del quale definire il giudizio sulla fondatezza della doglianza, ma regredisce a mero principio di prova idoneo soltanto a legittimare l’esercizio dei poteri istruttori del giudice.
Dette dichiarazioni, pertanto, non possono avere nessuna minima valenza dimostrativa in ordine alla prova di un fatto che deve essere ragionevolmente certa, perché da essa dipende l’ammissibilità del condono cui aspira parte appellante”.
---------------

1 - Po.Fr. ha impugnato la determina n. 306 del 14/11/2017 a firma del Responsabile del Settore Tecnico del Comune di Durazzano con cui sono state respinte le istanze di condono edilizio n. 722 (protocollata in data 01/04/1986) e n. 1993 (protocollata il 30/09/1986).
...
6.1.1 - Nel caso in esame, il manufatto oggetto della prima istanza di condono –per come “rilevato” e fotografato dai tecnici comunali all’atto del sopralluogo del 26/09/2017 (all. 9 e 10 alla memoria di costituzione del Comune)- risulta significativamente trasformato rispetto a quello oggetto della domanda, essendo stato ampliato mediante annessione di altro manufatto, unitamente al quale costituisce un unicum dal punto di vista funzionale.
Il manufatto oggetto dell’istanza di condono ha, così, perso la sua originaria consistenza per effetto della trasformazione avvenuta successivamente alla presentazione della domanda di condono. Il provvedimento di diniego –per tale parte- è quindi legittimo, in quanto il condono non avrebbe potuto essere più rilasciato per l’opera indicata nella domanda, ormai materialmente non più esistente.
6.1.2 - Né può convenirsi con parte ricorrente laddove afferma che la sostituzione di una finestra con una porta non determini una radicale trasformazione del bene e ciò perché –nello specifico- l’operata trasformazione si è resa funzionale all’unificazione di due manufatti adiacenti, creando, così, un aliquid novi.
6.2 - La tesi attorea si scontra, poi, con l’ulteriore “criticità” della fattispecie in esame, rappresentata dalla non sicura datazione del manufatto oggetto dell’istanza di condono prot. n. 1993.
6.2.1 - Come noto, l’onere di provare l’avvenuta ultimazione dei lavori in tempo utile (ovvero di un indefettibile requisito di ammissibilità del condono), grava esclusivamente sul richiedente. “Ciò in quanto solo l’interessato può fornire inconfutabili documenti che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso. La giurisprudenza ha peraltro anche affermato che tale prova deve essere rigorosa, non risultando a tal fine sufficienti dichiarazioni sostitutive di atto notorio, ma «richiedendosi invece una documentazione certa ed univoca, sull’evidente presupposto che nessuno meglio di chi richiede la sanatoria e ha realizzato l’opera può fornire elementi oggettivi sulla data di realizzazione dell’abuso» (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 01.10.2019, n. 6578). In difetto della stessa, l’Amministrazione ha il dovere di negare la sanatoria ...”, Consiglio di Stato sez. II, sent. 15/02/2021 n. 1403.
Ed ancora: “Nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale” (TAR Torino sez. II 27/03/2013 n. 390, TAR Perugia, sez. I, 02/11/2011 n. 354). 1.2. Da tali condivisibili principi giurisprudenziali discende che:
   a) la prova dell’epoca di realizzazione si desume da dati oggettivi;
   b) essi resistono a dati quali quelli risultanti dagli estratti catastali, ovvero alla prova testimoniale;
   c) è onere del privato che contesti il dato dell’Amministrazione fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell’immobile, “superando” quella fornita dalla parte pubblica
” – Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 511/2016.
6.2.1.1 - Per quanto attiene, nello specifico, ai mezzi di prova di cui parte ricorrente ha inteso avvalersi (dichiarazione sostitutiva a sua firma, già allegata all’istanza prot. n. 1993 e dichiarazioni testimoniali rese in sede civile, depositate unitamente al ricorso), è sufficiente richiamarsi alle costanti affermazioni giurisprudenziali sul tema:
E’ costante la giurisprudenza del Consiglio di Stato nell’affermare l’inutilizzabilità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà nell’ambito del processo amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione (ex multis Cons. Stato, sez. IV, 07.08.2012, n. 4527; id., sez. VI, 08.05.2012, n. 2648; id., sez. IV, 03.08.2011, n. 4641; id., sez. IV, 03.05.2005, n. 2094; id., sez. IV, 29.04.2002, n. 2270).
Lo stesso principio si estende anche alle dichiarazioni testimoniali giurate, come quelle in atti.
D’altro canto, l'attitudine certificativa e probatoria della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e delle autocertificazioni o auto dichiarazioni è limitata a specifici status o situazioni rilevanti in determinate attività o procedure amministrative e non vale a superare quanto attestato dall'Amministrazione, sino a querela di falso, dall'esame obiettivo delle risultanze documentali (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 20.05.2008, n. 2352).
Inoltre, come ha chiarito di recente l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, la testimonianza scritta, acquisita nelle forme prescritte dal c.p.c., non può assolvere al ruolo, che le sarebbe proprio, di mezzo di prova, sulla base del quale definire il giudizio sulla fondatezza della doglianza, ma regredisce a mero principio di prova idoneo soltanto a legittimare l’esercizio dei poteri istruttori del giudice (cfr. Adunanza Plenaria 20.11.2014, n. 32).
Dette dichiarazioni, pertanto, non possono avere nessuna minima valenza dimostrativa in ordine alla prova di un fatto che deve essere ragionevolmente certa, perché da essa dipende l’ammissibilità del condono cui aspira parte appellante. [omissis]
” (Cons. St., Sez. VI, 17.12.2019, nr. 211, da ultimo richiamato da TAR Veneto, sez. II, sent. 1252/2020).
6.2.1.2 – Quanto alle dichiarazioni rese nel giudizio civile conclusosi, in secondo grado, con la sentenza della Corte d’Appello di Napoli n. 493/15 (dichiarazioni la cui utilizzabilità come fonte di convincimento anche nel processo amministrativo è stata già affermata –in punto di diritto- dalla Sezione con sent. 03/06/2019 n. 2986), si osserva che le stesse non giovano alla tesi di parte ricorrente: i riferimenti ivi contenuti risultano estremamente generici, datando la realizzazione dei fabbricati agli anni 1982/1983 ovvero 1983/1984 (secondo altro teste); il teste Bu. (per quanto si ricava dalla lettura della sentenza) ha dichiarato, invece, che i lavori alla falegnameria iniziarono nel 1982 e che lui stesso si occupò della realizzazione del capannone nel 1984.
6.2.1.3 - Il solo dato documentale offerto dal Po. a sostegno della sua tesi è un rilievo aerofotogrammetrico scaturito da un volo effettuato il 18/05/1984, che evidentemente, nulla dice circa l’esistenza di entrambi i manufatti alla data dell’01/10/1983.
6.2.2 - Giova, infine, rimarcare (quanto alla conseguenza che il Comune trae dall’esistenza della finestra sul manufatto abusivamente edificato sulla part. 491) che se è vero che il ricorrente non era tenuto a rappresentare eventuali manufatti collocati su particella diversa da quella su cui insiste l’immobile da condonare, non è men vero che la presenza della finestra sul prospetto sud (prospiciente la particella n. 490), evincibile dallo stralcio planimetrico allegato alla relazione tecnica integrativa della pratica di condono n. 722 (datata 28/07/1986), induce logicamente ad escludere che –a tale data– potesse esservi alcuna costruzione “in appoggio” sul muro perimetrale lato sud su cui si apre la finestra.
6.2.3 - Alla luce delle suesposte coordinate ermeneutiche e risultanze istruttorie, può affermarsi che non a ragione si duole parte ricorrente delle conclusioni cui è addivenuto il Comune con riguardo all’epoca di ultimazione del manufatto insistente sulla particella n. 490.
6.2.3.1 – Tutto quanto innanzi esposto è sufficiente a fondare la legittimità del provvedimento di diniego impugnato, risultando le scrutinate ragioni sufficienti a sorreggerlo.
6.2.4 – In applicazione dell’art. 21-octies, co. 2, l. 241/1990 secondo cui «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato», possono assorbirsi le restanti censure di carattere procedimentale articolate in ricorso (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 29.03.2021 n. 2085 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, nel testo vigente ratione temporis, disponeva che tra gli “interventi di ristrutturazione edilizia” erano ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione, con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica.
In ordine all’interpretazione di tale norma è più volte intervenuta la giurisprudenza amministrativa, la quale ha chiarito che il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, con la conseguenza che la ricostruzione su ruderi o su un edificio che risulta da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce a tutti gli effetti una nuova opera, che, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesaggistiche vigenti al momento della riedificazione.
---------------

Il ricorso, che ha ad oggetto un diniego di sanatoria per la ricostruzione di un rudere ubicato in zona agricola, va rigettato.
Invero, l’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, nel testo vigente ratione temporis, disponeva, per quanto d’interesse, che tra gli “interventi di ristrutturazione edilizia” erano ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione, con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica.
In ordine all’interpretazione di tale norma è più volte intervenuta la giurisprudenza amministrativa, la quale ha chiarito che il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, con la conseguenza che la ricostruzione su ruderi o su un edificio che risulta da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce a tutti gli effetti una nuova opera, che, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesaggistiche vigenti al momento della riedificazione (Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2019, n. 5588, 25.06.2013, n. 3456 e 13.10.2010, n. 7476).
Nella specie il diniego è stato motivato con riferimento al fatto che non era stata data adeguata dimostrazione della reale consistenza e conformazione della sagoma dell’immobile da ricostruire, non essendo, all’uopo, sufficiente, il mero rinvenimento di parti di muratura o di tracce di fondazioni più o meno vetuste, in mancanza di altri elementi certi.
Trattasi di una puntuale motivazione, che non è stata scalfita dalle osservazioni procedimentali del ricorrente, il quale si è limitato a fare riferimento alla documentazione fotografica prodotta, da cui risultavano parti di fondazioni nei lati sud e ovest, nonché a un saggio dal lato nord, da cui emergeva la sottostante muratura di fondazione; né ulteriori elementi probatori sono stati forniti nel corso del giudizio.
Concludendo, per le ragioni suesposte, il ricorso è infondato e va rigettato (TAR Sicilia-Palermo Sez. II, sentenza 11.02.2021 n. 527 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn conformità a un indirizzo giurisprudenziale consolidatissimo, grava sulla parte privata l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per conseguire la sanatoria di un abuso edilizio, a partire dall’epoca della sua realizzazione e dall’effettiva consistenza delle opere realizzate.
Gli elementi probatori necessari a documentare l’attività realizzata si trovano infatti nella disponibilità dell’autore degli abusi, di modo che la distribuzione dell’onere probatorio risponde al principio della vicinanza alla prova, da tempo invalso in ambito processualcivilistico e oggi espressamente recepito dall’art. 64, co. 1, c.p.a..
Ne deriva che spetta all’interessato provare che l’intervento abusivo abbia riguardato un fabbricato preesistente, come pure dimostrare la consistenza originaria di quest’ultimo.
La prova, peraltro, non può essere data attraverso autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive rese dallo stesso autore dell’abuso, ovvero dai tecnici incaricati da costui, le quali sono sprovviste di valore certificativo o probatorio nei confronti dell’amministrazione procedente e, al più, possono concorrere alla formazione di un più ampio quadro indiziario, se unite ad altri e affidabili riscontri oggettivi.
...
Per inciso, anche a voler prestare piena fede a dette dichiarazioni, potrebbe considerarsi dimostrata la preesistenza delle fondazioni, ovvero di “mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici”, vale a dire, nella migliore delle ipotesi, dei resti di una costruzione non meglio identificata e identificabile nelle sue componenti essenziali.
L’intervento, come anche sostenuto dalla difesa comunale, finirebbe così per atteggiarsi a ricostruzione di un rudere, pacificamente riconducibile nell’alveo della nuova opera soggetta a permesso di costruire.

---------------

2.1.1. Il ricorso è infondato.
L’art. 2, co. 1, della legge regionale toscana n. 53/2004 ammette a sanatoria straordinaria le opere e gli interventi sottoposti a concessione edilizia, ovvero a denuncia di inizio di attività, che siano stati realizzati con variazioni essenziali dal titolo abilitativo o, comunque, in difformità rispetto ad esso, anche se non conformi agli strumenti urbanistici; nonché le opere e gli interventi sottoposti a denuncia di inizio attività realizzati in assenza o in difformità dal titolo abilitativo, anche se non conformi agli strumenti urbanistici.
Il legislatore toscano nell’esercizio delle sue prerogative (cfr. Corte Cost., 28.06.2004, n. 196) ha dunque escluso dal “terzo condono”, per quanto qui interessa, gli interventi soggetti al regime della concessione edilizia/permesso di costruire realizzati in assenza del titolo. E, come riferito inizialmente, il diniego qui impugnato si fonda proprio sulla ritenuta inammissibilità a sanatoria dell’intervento realizzato dalla ricorrente, qualificato dal Comune in termini di “costruzione ex novo”, in quanto tale bisognosa di concessione/permesso di costruire, nella specie mai richiesto e rilasciato.
La qualificazione dell’intervento riveste pertanto, ai fini della decisione, un ruolo dirimente e preliminare rispetto agli ulteriori temi controversi.
Il Comune desume che si sarebbe in presenza di una nuova costruzione dalla stessa istanza di sanatoria e dalla relazione tecnica alla stessa allegata, che si limitano a riportare la descrizione del manufatto abusivo nel suo stato attuale e finale, senza alcun riferimento a un’attività di restauro di un fabbricato preesistente. E già nel contraddittorio procedimentale, originato dalle osservazioni al preavviso di diniego, aveva appunto rilevato come l’istanza di condono non facesse alcuna menzione di preesistenze edilizie.
Di contro, la ricorrente sostiene che nell’istanza di sanatoria non si parlerebbe mai di nuova costruzione, e che la prova della preesistenza sarebbe stata fornita con la relazione tecnico-amministrativa del 19.04.2012, trasmessa al Comune a integrazione della pratica e successivamente unita alle osservazioni formulate a norma dell’art. 10-bis l. n. 241/1990, ove si attesta l’ubicazione del manufatto “nel medesimo luogo ove risultavano mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici", come attestato peraltro da atto pubblico di compravendita del 14.12.1999 (trascritto a Grosseto il 28.12.1999 RGN 18757, registrato ad Orbetello il 30.12.1999 al n. 597) intercorso tra la società ‘Is.Ro. di Ma. E.C. s.a.s.” e la sig.ra An.An. (...)”.
Nella medesima relazione tecnico-amministrativa si legge altresì che la costruzione “risulta essere stata riedificata su fondazioni comunque preesistenti (restituzione in pristino)”.
Ricostruiti nel dettaglio gli argomenti delle parti, il collegio in primo luogo ricorda che –in conformità a un indirizzo giurisprudenziale consolidatissimo, dal quale non vi è ragione di discostarsi– grava sulla parte privata l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per conseguire la sanatoria di un abuso edilizio, a partire dall’epoca della sua realizzazione e dall’effettiva consistenza delle opere realizzate. Gli elementi probatori necessari a documentare l’attività realizzata si trovano infatti nella disponibilità dell’autore degli abusi, di modo che la distribuzione dell’onere probatorio risponde al principio della vicinanza alla prova, da tempo invalso in ambito processualcivilistico e oggi espressamente recepito dall’art. 64, co. 1, c.p.a..
Ne deriva che spetta all’interessato provare che l’intervento abusivo abbia riguardato un fabbricato preesistente, come pure dimostrare la consistenza originaria di quest’ultimo. La prova, peraltro, non può essere data attraverso autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive rese dallo stesso autore dell’abuso, ovvero dai tecnici incaricati da costui, le quali sono sprovviste di valore certificativo o probatorio nei confronti dell’amministrazione procedente e, al più, possono concorrere alla formazione di un più ampio quadro indiziario, se unite ad altri e affidabili riscontri oggettivi (fra le molte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.04.2020, n. 2660; id., sez. II, 18.03.2020, n. 1929; id., sez. IV, 01.04.2019, n. 2115).
Nel caso in esame, le sole dichiarazioni asseverate riferibili alla ricorrente o ai suoi tecnici sono quelle originariamente contenute nella pratica di sanatoria (l’istanza di condono e la relazione tecnica allegata), che, come si è visto, si limitano a descrivere lo stato attuale del fabbricato e non fanno riferimento a preesistenze, né qualificano l’intervento nei termini pretesi dalla signora An. (restauro e risanamento conservativo).
La relazione tecnico-amministrativa dell’aprile 2012 e le osservazioni al preavviso di diniego riferiscono, dal canto loro, che la preesistenza del fabbricato sarebbe attestata dal contratto di acquisto della proprietà, risalente al 14.12.1999, ma l’affermazione non può essere verificata, stante la mancata produzione in giudizio del contratto, che pure deve presumersi nella disponibilità della ricorrente.
Del pari, non è stata prodotta la relazione di accompagnamento a un’istanza a suo tempo presentata da certo arch. Te. ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, anch’essa citata nelle osservazioni ex art. 10-bis e nella relazione tecnico-amministrativa, e che confermerebbe l’avvenuta riedificazione del fabbricato su fondazioni preesistenti.
Facendo applicazione dell’indirizzo interpretativo richiamato da principio, gli elementi probatori a disposizione –che si riducono a dichiarazioni provenienti dalla stessa parte interessata o dai suoi professionisti di fiducia– sono del tutto inadeguati a dimostrare la preesistenza del fabbricato.
Per inciso, anche a voler prestare piena fede a dette dichiarazioni, potrebbe considerarsi dimostrata la preesistenza delle fondazioni, ovvero di “mura fatiscenti di originale struttura di fabbricati colonici”, vale a dire, nella migliore delle ipotesi, dei resti di una costruzione non meglio identificata e identificabile nelle sue componenti essenziali. L’intervento, come anche sostenuto dalla difesa comunale, finirebbe così per atteggiarsi a ricostruzione di un rudere, pacificamente riconducibile nell’alveo della nuova opera soggetta a permesso di costruire (cfr. TAR Toscana, sez. III, 22.02.2019, n. 286).
Né vale sostenere, da parte della ricorrente, che attraverso la nozione di rudere il Comune abbia inteso integrare a posteriori la motivazione dell’atto impugnato. Ribadito che la preesistenza del fabbricato non è stata dimostrata, gli argomenti difensivi spesi dal Comune sono volti (non a integrare il provvedimento impugnato, ma) a evidenziare come gli unici elementi ricavabili dalla relazione tecnico-amministrativa della ricorrente non permettano di risalire a una preesistenza definita nei suoi elementi costitutivi, di modo che, a tutto voler concedere, non ne risentirebbe la qualificazione dell’intervento in termini di nuova costruzione.
2.1.2. In forza di tutto quanto precede, il ricorso non può trovare accoglimento (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.01.2021 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire.
Non è sufficiente, quindi, che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum e cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione.
Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione.

---------------

... per l'annullamento, previa sospensiva, del diniego permesso di costruire n. 117 del 25.09.2019 del Comune dell’Aquila;
...
Viene in decisione il ricorso avverso il diniego opposto all’istanza di rilascio del permesso titolo in sanatoria con cambio di destinazione d’uso di un piccolo manufatto in legno, che la ricorrente afferma di aver ricostruito in sostituzione di un preesistente volume in muratura, del quale, prima della demolizione, restavano alcuni muri perimetrali ed era visibile la linea di appoggio della falda di copertura sul muro perimetrale di un adiacente fabbricato.
Preliminarmente deve essere chiarito che, come eccepito dal Comune, non hanno alcun rilievo ai fini del decidere le critiche mosse dalla ricorrente all’annullamento del permesso di costruire rilasciato per la fedele ricostruzione di un preesistente fabbricato già adibito ad uso commerciale e alla pedissequa ordinanza di demolizione.
Infatti sia l’annullamento, sia la pedissequa ordinanza di demolizione non sono stati impugnati.
Pertanto il procedimento avviato ad istanza della ricorrente per la sanatoria dell’intervento edilizio, ormai privo di titolo legittimante, si inquadra nel modello tipico delineato dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001 dell’accertamento di conformità che presuppone la dimostrazione della doppia conformità dell’intervento edilizio, alla normativa vigente sia al momento in cui fu realizzato, sia alla data del rilascio del titolo in sanatoria.
Secondo quanto sostenuto nel ricorso il nuovo manufatto sarebbe la replica dell’immobile -del quale sono visibili nelle ortofoto in atti (all. 5 della memoria del 03.11.2020) i resti di mura perimetrali- non già, come invece asserito nel provvedimento di diniego, della baracca di lamiere di minori volume e superficie in quanto in parte appoggiata e in parte interna al perimetro del fabbricato originario.
Su tale evidenza il tribunale ha accolto l’istanza cautelare, riservando al merito l’accertamento della corrispondenza dei parametri plano-volumetrici del nuovo edificio rispetto a quelli del manufatto preesistente, requisito indispensabile che il diniego impugnato ritiene insussistente, per potersi qualificare l’intervento come ristrutturazione ammessa sul sedime e con i distacchi originari e non nuova costruzione soggetta al rispetto delle distanze previste per la zona urbanistica ove ricade l’area interessata dall’intervento.
La giurisprudenza è concorde nel ritenere che “La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire. Non è sufficiente quindi che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum e cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione; occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione” (Consiglio di Stato, sez. VI, 05/12/2016, n. 5106).
Sulla base di detto orientamento il diniego gravato appare carente in punto di istruttoria e di motivazione perché non considera che i muri superstiti del preesistente manufatto sono assemblati con pietre e mattoni –come è evidente dalle ortofoto in atti- e pertanto non può escludersi che il manufatto del quale facevano parte, sia stato realizzato in epoca precedente al 1967 in regime di edilizia libera e dunque assistito da un titolo legittimante.
Sempre in via presuntiva, contrariamente a quanto affermato nel diniego, neppure può escludersi che il nuovo fabbricato abbia un volume non eccedente quello del preesistente manufatto in muratura.
Il Comune si è infatti concentrato erroneamente sul confronto fra il volume del manufatto oggetto di sanatoria e quello della baracca in lamiere che non ha alcuna rilevanza ai fini del procedimento di accertamento di conformità richiesto dalla ricorrente.
L’istanza si sanatoria, come del resto l’istanza di rilascio del permesso di costruire annullato, ha ad oggetto, come si evince chiaramente dalle osservazioni endoprocedimentali a firma del tecnico incaricato (all. 21 del ricorso), la verifica di conformità dell’edificio realizzato in sostituzione del più ampio e più risalente manufatto in muratura, il cui volume peraltro si sarebbe potuto accertare prendendo in considerazione il perimetro delineato dai muri superstiti e la linea di ammorsamento della copertura ancorata al fabbricato adiacente, ancora visibile sul muro perimetrale (cfr. ortofoto precedenti al sisma del 2009 – all. 5 del ricorso).
Con specifico riferimento a detta linea di ammorsamento è presumibile che si trattasse proprio e univocamente della copertura del manufatto crollato, non essendovi elementi per inferire che su detta linea fosse ancorato un preesistente balcone o camminamento esterno, in quanto detto muro perimetrale è completamente privo di aperture.
In conclusione nessuna delle motivazioni addotte a sostegno del diniego resiste alle censure dedotte nel ricorso:
   - non la mancata dimostrazione della legittimità dell’esistente, ovvero la conformità al regime urbanistico del fabbricato preesistente all’intervento di demolizione perché il Comune ha erroneamente individuato l’immobile “ante demolizione” nella baracca in lamiere e non nel manufatto in pietra presumibilmente preesistente al 1967, che sia nell’istanza di rilascio del permesso di costruire, sia nell’istanza di sanatoria viene indicato come il volume preesistente oggetto di ricostruzione;
   - non per contrasto con l’art. 3 d.P.R. n. 380/2001 per la ricostruzione con diverso volume, perché il volume preesistente è stato calcolato nel diniego impugnato sulle dimensioni della baracca di lamiere e non su quelle del preesistente fabbricato in muratura che la ricorrente ha inteso demolire e ricostruire riproducendone le dimensioni presumibilmente accertabili sulla base dei muri superstiti e della quota della copertura misurabile dalla linea di ancoraggio all’edificio adiacente;
   - non per contrasto con l’art. 3 d.P.R. n. 380/2001 per il mancato rispetto delle distanze dai confini e dalla strada, perché il Comune non ha considerato, che trattandosi di demolizione e ricostruzione, l’area di sedime e, quindi, anche le distanze da osservare sono quelle originarie del manufatto in muratura, ai sensi dell’art. 3 d.P.R. n. 380/2001 vigente ratione temporis e dell’art. 46 delle NTA del PRG del Comune dell’Aquila che, per gli interventi d demolizione e ricostruzione nella zona residenziale delle frazioni, ove ricade l’area interessata dall’intervento edilizio in esame, ammette la conservazione delle distanze preesistenti e la ricostruzione sul ciglio stradale, esclusi gli aggetti e le proiezioni sugli spazi pubblici
(TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 18.12.2020 n. 530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa questione del rilievo da dare alla fatiscenza del patrimonio edilizio preesistente ai fini della configurabilità di un singolo intervento come incidente sullo stesso, e non “nuova costruzione”, è già stata affrontata più volte da questo Consiglio di Stato, con riferimento a quel particolare tipo di attività edilizia che, con neologismo urbanistico ormai diffuso a livello di disciplina comunale, va sotto la definizione di “ripristino filologico”.
Esso si connota nel complesso delle attività, in verità anche di eliminazione di volumetrie mediante abbattimento di eventuali superfetazioni, per riportare alla consistenza “storica” complessi ormai diruti, o irrimediabilmente manomessi.
Non essendo il “ripristino filologico” una categoria edilizia definita, alla quale possa ascriversi una determinata disciplina normativa, il relativo inquadramento necessita di un’indagine specifica che abbia riguardo al risultato che si intende conseguire, ma anche alla “base di partenza” dell’intervento.
La giurisprudenza amministrativa sviluppatasi proprio con riferimento a tale tipologia di intervento, riconducibile a seconda dei casi a risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia, ribadisce comunque come in entrambi i casi si tratti di interventi di recupero sul patrimonio edilizio “esistente”, traslati nell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal previgente art. 31 della legge n. 457/1978, che già li contemplava. La loro finalità di “conservazione”, seppur lato sensu intesa, postula dunque pur sempre la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
Il concetto di costruzione esistente presuppone a sua volta la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l’intervento edificatorio sulla stessa non rileva quale trasformazione urbanistico-edilizia del territorio in termini di nuova costruzione. Deve, cioè, trattarsi di un manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia abitato o abitabile, possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione.
In buona sostanza, il rilascio di un titolo edilizio per procedere alla ristrutturazione è subordinato alla possibilità di individuare, in maniera pressoché certa, l’esatta cubatura e sagoma d’ingombro del fabbricato su cui intervenire. Solo se è chiara la base di partenza, è possibile discutere l’entità e la qualità delle modifiche apportabili senza travalicare i limiti definitori della ristrutturazione.
Costituisce pertanto vera e propria costruzione ex novo e non già ristrutturazione, né tanto meno restauro o risanamento conservativo e, come tale, è soggetta a concessione edilizia secondo le regole urbanistiche vigenti al momento dell’istanza del privato, «la ricostruzione di un intero fabbricato, diruto da lungo tempo e del quale residuavano, al momento della presentazione dell’istanza del privato, solo piccole frazioni dei muri, di per sé inidonee a definire l’esatta volumetria della preesistenza, in quanto l’effetto ricostruttivo così perseguito mira non a conservare o, se del caso, a consolidare un edificio comunque definito nelle sue dimensioni, né alla sua demolizione e fedele ricostruzione […] bensì a realizzarne uno del tutto nuovo e diverso».
---------------

8. Il Collegio ritiene l’appello fondato, e come tale da accogliere.
9. La Sezione ritiene che la vicenda ruoti intorno a due nozioni essenziali: da un lato, la definizione di ristrutturazione edilizia e la conseguente riconducibilità alla stessa di un’attività di “recupero”, inteso in senso etimologico, di un antico complesso, solo in parte ancora empiricamente percepibile, in altra invece “intuibile”, in ragione delle poche vestigia residue di crolli generalizzati dovuti all’usura del tempo; dall’altro, le regole rivenienti dalla legge regionale n. 20 del 1998, col preciso intento di agevolare gli interventi di conversione in strutture ricettive di vecchi fabbricati tipici dell’antica architettura rurale della zona (trulli, masserie e simili).
Afferma il primo giudice che i confini della ristrutturazione edilizia, per come definita all’art. 3, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001, sono diversi nell’ipotesi in cui essa si concretizzi nella ricostruzione, previa demolizione, rispetto a quella in cui, invece, non si demolisca alcunché. In tale seconda ipotesi non è infatti necessario rispettare i limiti originari di sagoma e di volume. Da qui, la ritenuta insufficienza istruttoria da parte del Comune che non avrebbe adeguatamente valutato la documentazione fornita allo scopo di attestare la preesistenza di corpi di fabbrica.
10. La ricostruzione non è sufficiente a fotografare la peculiarità della fattispecie, limitandosi ad un’analisi definitoria teorica al punto da inserirvi, quale elemento di forza, la non necessità di demolire previamente alcunché, essendo gli edifici in controversia già a terra.
Né assume rilievo il distinguo che il primo giudice ha inteso enfatizzare tra ristrutturazione c.d. “leggera” e ristrutturazione “pesante”, riveniente dal combinato disposto tra l’art. 3, lett. d), del T.U.E., che declina la relativa definizione in termini generali, e l’art. 10, che ritaglia al suo interno i casi in cui per le modifiche intervenute (alla sagoma, al volume, ai prospetti, alle superfici e, nelle zone omogenee A, anche alla destinazione d’uso) si rende necessario il permesso di costruire.
Nel caso di specie, infatti, come ribadito dall’appellata nelle proprie memorie, essa non rivendica la possibilità di realizzare la progettualità proposta mediante semplice d.i.a. (oggi s.c.i.a.); la qualificazione dell’intervento come ristrutturazione, ancorché “pesante” costituisce il necessario grimaldello per accedere ai benefici della legge regionale n. 20 del 1998, approcciandosi ad una destinazione d’uso per la quale gli indici di fabbricabilità previsti dalle N.T.A. del P.R.G. sono diversi e le limitazioni, anche funzionali, alla edificabilità del suolo, strumentali alla realizzazione della struttura ricettiva.
In sintesi, l’angolazione prospettica dalla quale va riguardata la vicenda non è quella degli effetti dell’attività di recupero, bensì della configurazione dell’immobile da recuperare, recte, ancora prima, della esistenza “materiale” dell’immobile stesso, le cui “cubature virtuali” devono traslare nella nuova edificazione, in quanto continuativa della precedente.
11. La questione del rilievo da dare alla fatiscenza del patrimonio edilizio preesistente ai fini della configurabilità di un singolo intervento come incidente sullo stesso, e non “nuova costruzione”, è già stata affrontata più volte da questo Consiglio di Stato, con riferimento a quel particolare tipo di attività edilizia che, con neologismo urbanistico ormai diffuso a livello di disciplina comunale, va sotto la definizione di “ripristino filologico”.
Esso si connota nel complesso delle attività, in verità anche di eliminazione di volumetrie mediante abbattimento di eventuali superfetazioni, per riportare alla consistenza “storica” complessi ormai diruti, o irrimediabilmente manomessi.
Non essendo il “ripristino filologico” una categoria edilizia definita, alla quale possa ascriversi una determinata disciplina normativa, il relativo inquadramento necessita di un’indagine specifica che abbia riguardo al risultato che si intende conseguire, ma anche alla “base di partenza” dell’intervento.
12. La giurisprudenza amministrativa sviluppatasi proprio con riferimento a tale tipologia di intervento, riconducibile a seconda dei casi a risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia, ribadisce comunque come in entrambi i casi si tratti di interventi di recupero sul patrimonio edilizio “esistente”, traslati nell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal previgente art. 31 della legge n. 457/1978, che già li contemplava. La loro finalità di “conservazione”, seppur lato sensu intesa, postula dunque pur sempre la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
Il concetto di costruzione esistente presuppone a sua volta la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nella attualità, sicché l’intervento edificatorio sulla stessa non rileva quale trasformazione urbanistico-edilizia del territorio in termini di nuova costruzione. Deve, cioè, trattarsi di un manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia abitato o abitabile, possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10.02.2004, n. 475 e 15.03.1990, n. 293; più di recente, sez. II, 24.10.2020, n. 6455).
In buona sostanza, il rilascio di un titolo edilizio per procedere alla ristrutturazione è subordinato alla possibilità di individuare, in maniera pressoché certa, l’esatta cubatura e sagoma d’ingombro del fabbricato su cui intervenire. Solo se è chiara la base di partenza, è possibile discutere l’entità e la qualità delle modifiche apportabili senza travalicare i limiti definitori della ristrutturazione.
Costituisce pertanto vera e propria costruzione ex novo e non già ristrutturazione, né tanto meno restauro o risanamento conservativo e, come tale, è soggetta a concessione edilizia secondo le regole urbanistiche vigenti al momento dell’istanza del privato, «la ricostruzione di un intero fabbricato, diruto da lungo tempo e del quale residuavano, al momento della presentazione dell’istanza del privato, solo piccole frazioni dei muri, di per sé inidonee a definire l’esatta volumetria della preesistenza, in quanto l’effetto ricostruttivo così perseguito mira non a conservare o, se del caso, a consolidare un edificio comunque definito nelle sue dimensioni, né alla sua demolizione e fedele ricostruzione […] bensì a realizzarne uno del tutto nuovo e diverso» (Cons. Stato, Sez. V, 03.04.2000, n. 1906; id., 15.04.2004, n. 2142, 01.12.1991, n. 2021, 10.03.1997, n. 240 e 04.11.1994, n. 1261).
13. Né può addebitarsi al Comune alcuna carenza di istruttoria, tenuto altresì conto che l’onere probatorio della consistenza del complesso immobiliare gravava interamente sul privato richiedente.
I documenti prodotti, infatti, quali le mappe del catasto onciario e del catasto urbano, gli elaborati grafici del P.R.G. e le riprese aeree originali, da un lato confermano l’incontestata presenza in loco del manufatto; dall’altro rilevano l’effettivo stato di macerie, talvolta addirittura di singoli massi facenti presumibilmente parte di mura fondanti, ma nulla dicono della effettiva consistenza del fabbricato, alla cui ricostruzione si addiviene pertanto solo con un corposo sforzo di fantasia, ispirandosi alle caratteristiche morfologiche comuni a quella specifica tipologia.
Quanto alla relazione “sulla preesistenza planovolumetrica della masseria Gh.” redatta dai progettisti di parte in data 02.03.2009 per riscontrare la richiesta di integrazione istruttoria avanzata dagli uffici comunali, a prescindere dalle interessanti digressioni storiche sulle masserie in genere e su quella di cui è causa, in particolare, essa nulla aggiunge alla ricostruzione della base “obiettiva” su cui si è fondata l’ipotesi progettuale. Molti elementi architettonici vengono richiamati per evocare il tipico assetto delle masserie e, quindi, presumibilmente, anche di quella di cui è causa; ma sul piano descrittivo non può che darsi atto, almeno con riferimento ad una consistente parte del complesso, che gli edifici sono pressoché totalmente abbattuti.
In particolare, nel breve paragrafo rubricato proprio “documentazione comprovante la volumetria da ricostruire” si fa riferimento ai “resti delle fondamenta in situ” e alle riprese fotografiche aeree originali: le quali peraltro, una volta prodotte (in prima battuta non erano state neppure allegate alla relazione) non forniscono alcun elemento integrativo di conoscenza, consentendo una visione vaga, e per linee piane, piuttosto che per spessori.
Infine, si dà atto che alcune strutture originarie sono “quasi totalmente” crollate (es., i vani con copertura a tetto a doppia falda, ovvero i “voluminosi corpi di fabbrica, risalenti ai primi del ‘900”). Di alcune di esse si ipotizza la presenza, elencandole descrittivamente (“sicuramente vi erano”), quali quelle per la lavorazione e lo stoccaggio dei prodotti caseari, i vani per alloggi del massaro e dei lavoratori, braccianti agricoli, ecc. Ne emerge un quadro descrittivo di sicura suggestione storica, ma assai scarsa aderenza alla realtà fattuale, che tenta di ricostruire, non descrive per come è, valorizzando anche il futuro utilizzo di materiali e tecniche architettoniche idonee ad evocarne le presumibili sembianze originarie.
14. Da quanto detto emerge la correttezza del diniego opposto dal Comune di Lecce alla richiesta di permesso di costruire per ristrutturazione edilizia, riferita peraltro al complesso nella sua interezza e non limitata, come forse sarebbe stato più opportuno, alle sole parti dello stesso effettivamente insistenti ancora in loco. A ciò consegue anche l’inapplicabilità della invocata legge regionale n. 20 del 1998, avente ad oggetto le sole attività di consolidamento, restauro e ristrutturazione di edifici rurali variamente denominati, rientranti nel regime giuridico della l. 01.06.1939, n. 1089, da destinare a strutture ricettive.
Ne consegue altresì anche quella delle N.T.A. invocate dall’appellata, in quanto riferite al recupero di cubature da destinare a ricettività, non estensibili alla normale attività edilizia consentita in ragione della destinazione (agricola) della zona. Di tutto ciò peraltro si dava dettagliato conto nel preavviso di diniego del 24.05.2010, evidenziando come con la progettualità complessiva proposta si sarebbe realizzato un aumento della volumetria esistente, così ponendosi comunque in contrasto con il più volte richiamato art. 1 della l.r. 22.07.1998, n. 20, che la vieta, almeno in riferimento alle aree superficiarie.
15. Che tale sia la cornice ordinamentale corretta nella quale calare l’odierna fattispecie è confermato altresì dal tenore letterale della legge regionale.
Il richiamo ivi contenuto al rispetto comunque della volumetria fuori terra “esistente”, evoca dunque la necessità che se ne possa computare l’esatta consistenza; la necessità di salvaguardare prospetti e caratteristiche architettoniche e artistiche dell’immobile, egualmente ne implica la piena visualizzazione. La ratio, dunque, appare quella di recuperare da situazioni di degrado il patrimonio storico-culturale di settore, laddove esso ancora sussista, non ricostruirlo ex novo, seppur con modalità quanto più rispettose possibile della loro plausibile configurazione effettiva.
16. Per quanto sopra detto l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, deve essere riformata la sentenza n. 1023 del 2011 della sez. staccata di Lecce del TAR per la Puglia, con conseguente reiezione del ricorso n.r.g. 1829/2010 e conferma della determina del 14.07.2010, di diniego del permesso di costruire richiesto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 15.12.2020 n. 8035 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale.
---------------

4.2 Neppure è suscettibile di condivisione il secondo motivo di ricorso, posto che, all’esito dell’istruzione probatoria disposta dal collegio su richiesta del ricorrente, gli elementi emersi attraverso l’assunzione delle testimonianze de quibus non sono in grado di superare le risultanze oggettive offerte dal Comune di Pontinia.
Al riguardo è sufficiente ricordare che nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie e mappe catastali, tanto che la prova per testimoni è del tutto residuale (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511; TAR Piemonte, sez. II, 27.03.2013 n. 390; TAR Umbria, sez. I, 02.11.2011 n. 354).
Nella specie, i dati oggettivi versati dall’Amministrazione offrono una ricostruzione dei fatti non collimante con la prova testimoniale (peraltro di due sui tre testi indicati), in quanto le fotografie satellitari dell’area di cui è causa, risalenti al 2002, 2004 e 2019, dimostrano l’esistenza del manufatto in questione soltanto a partire da quest’ultimo anno, con la conseguenza che la prova dell’epoca di realizzazione della suddetta autorimessa resiste al dato desumibile dalle suddette testimonianze (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2016 n. 511) (TAR Lazio-Latina, sentenza 13.07.2020 n. 271 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001, nel testo modificato dall'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013, conv. in L. n. 98 del 2013, ricomprende fra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli "volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.” Il successivo comma 2 dispone che “Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi (…)”.
La legge 98/2013 ha superato la previgente nozione di ristrutturazione, che non ricomprendeva gli interventi finalizzati a ricostruire edifici allo stato di rudere, sul presupposto che la demolizione e successiva ricostruzione richiedesse necessariamente la sussistenza di un immobile da ristrutturare.
La novella legislativa, infatti, “ha allargato il concetto di ristrutturazione all'ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un'indagine tecnica.
L'accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell'edificio diruto”.
E’ necessario e sufficiente, quindi, per qualificare l’intervento come ristrutturazione, che l’originaria consistenza dell’edificio sia individuabile sulla base di riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili.
Il vincolo della intellegibilità delle caratteristiche del fabbricato demolito non include invece alcun limite in relazione alla maggiore o minore risalenza nel tempo dell’intervento di demolizione.
In definitiva,
la qualificazione dell’intervento di ricostruzione come nuova edificazione scatta ove sia impossibile l’individuazione certa dei connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura), attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare.
---------------

... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 9887 di data 28.09.2016, di diniego dell’istanza di autorizzazione del piano attuativo presentata per un intervento di ricostruzione di fabbricato preesistente.
...
Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
L'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001, nel testo modificato dall'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013, conv. in L. n. 98 del 2013, ricomprende fra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli "volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.” Il successivo comma 2 dispone che “Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi (…)”.
La legge 98/2013 ha superato la previgente nozione di ristrutturazione, che non ricomprendeva gli interventi finalizzati a ricostruire edifici allo stato di rudere, sul presupposto che la demolizione e successiva ricostruzione richiedesse necessariamente la sussistenza di un immobile da ristrutturare.
La novella legislativa, infatti, “ha allargato il concetto di ristrutturazione all'ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un'indagine tecnica (in tal senso cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 03.10.2019, n. 6654; TAR Toscana, sez. III, 26.05.2020, n. 631).
L'accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell'edificio diruto (in tal senso cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 23.12.2019, n. 6098)
.” (TAR Liguria Sez. I, 11.06.2020, n. 364; conforme Cass. pen. Sez. III, 28.04.2020, n. 13148).
E’ necessario e sufficiente, quindi, per qualificare l’intervento come ristrutturazione, che l’originaria consistenza dell’edificio sia individuabile sulla base di riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili (Cass. pen. Sez. III, 25.06.2015, n. 26713; Cass. pen. Sez. III, 30.09.2014, n. 40342).
Il vincolo della intellegibilità delle caratteristiche del fabbricato demolito non include invece alcun limite in relazione alla maggiore o minore risalenza nel tempo dell’intervento di demolizione.
L’intervento di ricostruzione proposto dai ricorrenti mira a ricostruire un edificio demolito presumibilmente negli anni ‘50, la cui consistenza è evincibile sia dallo stato dei luoghi (conformazione della corte e segni presenti sulla muratura del fabbricato adiacente) sia dalle mappe del cessato catasto fabbricati, dal N.C.U.E. vigente e dalle schede catastali risalenti all’anno 1994. Da tali elementi è possibile rilevare la consistenza planimetrica del fabbricato originario.
La documentazione fotografica storica prodotta anche nel presente giudizio è invece idonea ad attestarne la consistenza volumetrica e le caratteristiche costruttive.
Inoltre il permesso di costruire del 1972, secondo le allegate tavole prodotte in giudizio, già prevedeva la ricostruzione dell’immobile.
Sicché la consistenza originaria dell’edificio può dirsi accertabile.
La qualificazione dell’intervento di ricostruzione come nuova edificazione scatta -infatti- ove sia impossibile l’individuazione certa dei connotati essenziali del manufatto originario (mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura), attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare, circostanza che qui non si verifica. Il fabbricato previsto ha infatti una sagoma, un ingombro ed un impatto che risultano nella sostanza del tutto coincidenti con la situazione pregressa.
Né in specie, trattandosi di area vincolata, l’intervento deve considerarsi precluso in relazione alla prevista riduzione dell’altezza originaria dell’edificio, atteso che la sagoma originaria è stata mantenuta e l’allineamento con l’edificio limitrofo è stato introdotto modificando il progetto originario, al fine di corrispondere ad una specifica prescrizione imposta dalle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo paesistico, e quindi mira ad una più efficace tutela dello stesso.
Priva di pregio risulta anche la motivazione allegata dal comune in relazione all’interesse pubblico al mantenimento della destinazione della corte ad area di sosta privata, atteso che detta valutazione risulta inidonea a superare la ricorrenza dei presupposti di applicazione del disposto normativo richiamato dai ricorrenti. Così come il richiamo alle previsioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi, sulle quali prevale –per espressa disposizione normativa– la qualificazione operata dal TU.
Per le esposte considerazioni, in accoglimento dei motivi I, III e V e con assorbimento dei restanti motivi di gravame, il ricorso va accolto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 06.07.2020 n. 517 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACome ha chiarito la giurisprudenza, mentre in precedenza la riedificazione di un rudere era qualificata come nuova costruzione, la novella legislativa del 2013 ha allargato il concetto di ristrutturazione edilizia all’ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un’indagine tecnica.
L’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto.
In proposito, prive di pregio sono le deduzioni della difesa civica, secondo cui le risultanze catastali e la dichiarazione sostitutiva sarebbero totalmente sfornite di qualsivoglia valore probatorio.
Infatti, è certamente vero che l’accatastamento fa stato solo ai fini fiscali. Tuttavia, dati, planimetrie e mappe catastali possono comunque costituire un elemento di prova in ordine alla situazione degli immobili, specialmente se, come nella specie, si inseriscano in modo coerente nel materiale probatorio acquisito agli atti.
Parimenti, in materia di dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, la giurisprudenza ha chiarito che le stesse, seppur non sufficienti, da sole, a costituire piena prova, possono comunque assumere valore indiziario, contribuendo a formare un quadro complessivo di elementi concordanti.
In generale, sull’ammissibilità delle dichiarazioni scritte di terzi, si richiama la consolidata giurisprudenza civile in materia di prove c.d. atipiche, tra cui Cass. n. 792/2020 e n. 17932/2015, secondo cui tali scritti, pur non avendo efficacia di prova testimoniale, sono rimessi alla libera valutazione del giudice e possono fornire utili elementi di convincimento, con la precisazione che tale orientamento, in quanto espressione di principi generali, risulta applicabile al processo amministrativo ex art. 39, comma 1, c.p.a..
---------------

... per l’annullamento del provvedimento del Comune di Varazze prot. n. 24276 del 26.10.2016, comunicato in data 11.11.2016, recante diniego di permesso di costruire per demolizione e ricostruzione, con cambiamento di destinazione d’uso, di fabbricato diruto;
...
1. Con i motivi I), II) e III) della narrativa in fatto, la società ricorrente si duole che il Comune, in base ad una scorretta interpretazione dell’art. 2, comma 1, lett. b), della L.R. n. 49/2009, avrebbe negato rilievo alla determinazione del volume del magazzino diroccato effettuata dal proprio tecnico, travisando le risultanze documentali ed i calcoli conseguentemente eseguiti.
Le censure sono fondate.
1.1. Al fine di promuovere l’adeguamento ed il rinnovo del patrimonio edilizio, la L.R. n. 49/2009 (c.d. Piano casa) consente una serie di interventi in deroga ai piani urbanistici comunali, tra i quali la demolizione e ricostruzione di fabbricati, con possibilità di incremento fino al 35% della volumetria esistente (art. 7, comma 1).
In virtù dell’art. 2, comma 1, lett. b), della medesima L.R. n. 49/2009 è suscettibile di intervento edilizio (nella specie, di demo-ricostruzione) anche l’edificio diruto, vale a dire quello “di cui parti, anche significative e strutturali, siano andate distrutte nel tempo ma di cui sia possibile documentare l’originario inviluppo volumetrico complessivo e la originaria configurazione tipologica, a fini della sua ricostruzione”.
La formulazione della norma è sostanzialmente analoga a quella dell’art. 3, comma 1, lett. d), del d.p.r. n. 380/2001, nel testo modificato dall’art. 30 del d.l. n. 69/2013, conv. in l. n. 98/2013, che ricomprende fra gli interventi di ristrutturazione anche quelli “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Come ha chiarito la giurisprudenza, mentre in precedenza la riedificazione di un rudere era qualificata come nuova costruzione, la novella legislativa del 2013 ha allargato il concetto di ristrutturazione all’ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un’indagine tecnica (in tal senso cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 03.10.2019, n. 6654; TAR Toscana, sez. III, 26.05.2020, n. 631).
L’accertamento della consistenza iniziale del manufatto demolito o crollato deve fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto (in tal senso cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 23.12.2019, n. 6098).
1.2. In applicazione dei richiamati principi, ritiene il Collegio che la deducente abbia prodotto plurimi e coerenti elementi che, oltre a costituire una chiara testimonianza del manufatto sul territorio, permettono di individuarne in maniera attendibile la pregressa effettiva consistenza.
In particolare, i seguenti documenti consentono di accertare dimensioni e caratteristiche dell’edificio da ripristinare:
   - la visura catastale della particella 244 del foglio 49 (doc. 10 ricorrente), classata quale ente urbano con superficie di mq. 29;
   - la mappa catastale del foglio 49 (doc. 2 ricorrente), dalla quale risulta che sulla particella 244 insisteva un fabbricato con antistante corte scoperta;
   - i rilievi fotografici del rudere (doc. 6 ricorrente), nei quali sono visibili, seppur rovinate a terra, tre delle quattro colonne in cemento armato e le tegole del tetto in laterizio alla marsigliese;
   - le fotografie storiche (doc. 4 ricorrente), che, pur riprendendo il rustico a lunga distanza, consentono comunque di tratteggiarne la sagoma;
   - le aerofotogrammetrie del 1975 (doc. 5 ricorrente), nelle quali risulta distintamente riconoscibile il tetto a due falde con copertura in tegole marsigliesi;
   - la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà delle due precedenti proprietarie (doc. 10 ricorrente), le quali hanno attestato che il magazzino aveva una pianta di circa mt. 5 x 5, era coperto da un tetto a due falde e aveva un’altezza massima di mt. 3,5.
In proposito, prive di pregio sono le deduzioni della difesa civica, secondo cui le risultanze catastali e la dichiarazione sostitutiva sarebbero totalmente sfornite di qualsivoglia valore probatorio.
Infatti, è certamente vero che l’accatastamento fa stato solo ai fini fiscali. Tuttavia, dati, planimetrie e mappe catastali possono comunque costituire un elemento di prova in ordine alla situazione degli immobili (in argomento cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 16.04.2015, n. 1957; TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 22.05.2020, n. 5424; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 05.05.2020, n. 780), specialmente se, come nella specie, si inseriscano in modo coerente nel materiale probatorio acquisito agli atti (in generale, sulla sinergia tra risultanze catastali ed assetto urbanistico-edilizio del territorio, cfr. Cons. St., sez. II, 08.04.2020, n. 2326).
Parimenti, in materia di dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, la giurisprudenza ha chiarito che le stesse, seppur non sufficienti, da sole, a costituire piena prova, possono comunque assumere valore indiziario, contribuendo a formare un quadro complessivo di elementi concordanti (in tal senso cfr., ex aliis, Cons. St., sez. VI, 19.10.2018, n. 5988; TAR Liguria, sez. I, 27.05.2020, n. 327; TAR Piemonte, sez. II, 10.01.2018, n. 45; in generale, sull’ammissibilità delle dichiarazioni scritte di terzi, si richiama la consolidata giurisprudenza civile in materia di prove c.d. atipiche, tra cui Cass. n. 792/2020 e n. 17932/2015, secondo cui tali scritti, pur non avendo efficacia di prova testimoniale, sono rimessi alla libera valutazione del giudice e possono fornire utili elementi di convincimento, con la precisazione che tale orientamento, in quanto espressione di principi generali, risulta applicabile al processo amministrativo ex art. 39, comma 1, c.p.a.).
Pertanto, sulla base delle risultanze documentali sopra indicate e delle misurazioni eseguite in loco (essendo le colonne crollate ma ancora sostanzialmente integre), il tecnico della ricorrente ha individuato la pianta del fabbricato in un rettangolo di mt. 5,27 x 4,05, con una superficie di mq. 21,34, ed ha conseguentemente calcolato il volume dell’edificio preesistente in mc. 67,01 (cfr. la tavola 5 di progetto, doc. 8 ricorrente).
La planimetria catastale prodotta dal Comune (doc. 8 resistente), lungi dal porsi in contrasto con la suddetta ricostruzione, ne costituisce anzi piena conferma, in quanto raffigura, sulla particella 244, sia il manufatto con pianta rettangolare, avente base e altezza di dimensioni quasi uguali, sia il cortile antistante.
Tale elaborato planimetrico risulta quindi perfettamente concordante con i risultati delle misurazioni del professionista, che, come si è detto, ha determinato la superficie della pianta del manufatto in mq. 21,34, nell’ambito della maggior superficie dell’intero mappale pari a mq. 29, in quanto comprendente anche la corte esterna.
Né la suddetta planimetria contrasta con la dichiarazione delle danti causa, secondo cui la pianta dell’edificio era di circa mt. 5 x 5, dal momento che proprio tale elaborato catastale dimostra che la base e l’altezza della pianta avevano dimensioni quasi uguali, sì da risultare visivamente molto simili ai lati di un quadrato.
Per quanto riguarda l’altezza del fabbricato, i tre pilastri in c.l.a. presenti in situ misurano mt. 3 e, pertanto, comprovano che tale era l’altezza di gronda. L’altezza di colmo è stata invece individuata dal tecnico in circa mt. 3,5, partendo dal dato oggettivo che l’inclinazione delle tegole marsigliesi non è mai inferiore al 30% e procedendo alla ricostruzione grafica sulla base di tale parametro (cfr. doc. 10 ricorrente).
Anche la rappresentazione del tetto, quindi, coincide perfettamente con la dichiarazione delle precedenti proprietarie, secondo cui la copertura aveva un’altezza massima di mt. 3,5.
Infine, come osservato da parte ricorrente, il Comune ha travisato l’elaborato predisposto dal professionista, in quanto ha ritenuto che questi abbia incluso nel computo del volume anche l’area corrispondente alla corte esterna. Dalla tavola n. 5 (doc. 8 ricorrente) risulta invece palese che il perito ha correttamente quantificato la cubatura del manufatto preesistente, prendendo come base la sola pianta di mq. 21,34 (e non l’intera superficie del mappale di mq. 29).
È pertanto evidente che il tecnico della deducente ha ricostruito la volumetria dell’edificio diroccato in maniera attendibile e tecnicamente verificabile, sulla base di documenti e dati oggettivi.
Per contro, il diniego dell’amministrazione resistente si fonda su un’erronea lettura del progetto presentato dall’esponente e si risolve, in sostanza, in un’interpretazione abrogante dell’art. 2, comma 1, lett. b), della L.R. n. 49/2009.
2. In relazione a quanto precede, il ricorso si appalesa fondato e va, dunque, accolto (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 11.06.2020 n. 364 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPerché si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è necessario sia possibile accertare l’originaria consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizia “nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente”.
In mancanza di sufficienti elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza originaria dell’edificio da consolidare ed eventuali ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata.
---------------

8.1 Con l’unico ordine di doglianze, la ricorrente contesta il diniego di permesso di costruire in sanatoria impugnato laddove avrebbe erroneamente qualificato l’intervento edilizio di cui alla istanza del 02.09.2016 come “nuova costruzione”, omettendo di fare applicazione della disciplina vigente in materia di ristrutturazioni edilizie e di interventi di restauro e risanamento conservativo.
8.2 La censura è priva di pregio.
8.3 Per indirizzo giurisprudenziale consolidato, pienamente condiviso dal Collegio, perché si possa configurare un intervento di ristrutturazione edilizia –che oggi ricomprende anche l’attività di ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione– è necessario sia possibile accertare l’originaria consistenza del manufatto edilizio, con il corollario che deve essere esclusa in radice la riconducibilità dell’attività di ricostruzione di un rudere nell’alveo della ristrutturazione edilizianel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2019, n. 6188; Id. 21.10.2014, n. 5174).
In mancanza di sufficienti elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza originaria dell’edificio da consolidare ed eventuali ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.03.2016, n. 1025).
8.4 Traslando i superiori principi all’odierno gravame, le conclusioni cui perviene il provvedimento di diniego impugnato sfuggono alle proposte censure.
Ed invero, l’intervento edilizio oggetto della istanza di sanatoria presentata dalla ricorrente aveva le caratteristiche di una nuova costruzione ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380 del 2001 e non di una ristrutturazione edilizia.
In tal senso depongono le risultanze degli accertamenti istruttori eseguiti dall’Amministrazione procedente, e segnatamente il verbale di sopralluogo compiuto in data 06.09.2016 da personale dello Sportello Unico Edilizia e della Polizia Municipale, da cui si evince che “sul rudere oggetto dei lavori e nell’adiacente corte, in luogo di un mero consolidamento delle strutture murarie si realizzavano opere murarie prima non esistenti. In particolare la porzione sud del rudere veniva ricostruita ed elevata uniformemente fino alla quota massima di ml. 4,50 dal piano di calpestio (ml. 5,90 misurati dal piede della scarpata sud, sottostante) ricostruendo una consistente parte del paramento murario. La struttura realizzata si configura come struttura muraria in elevazione (superiore a m. 3) e non come consolidamento di muratura esistente di cui alla iniziale CILA prot. 35034/2016)”. Dal medesimo verbale risulta che sulla struttura muraria in elevazione veniva realizzato un pergolato di 19,18 mq, inserito in un contesto di opere di sistemazione del terreno fatte di nuova pavimentazione, gradini e muri perimetrali.
Dalla documentazione fotografica della Polizia Municipale, acquisita al procedimento e versata in atti, si evince altresì che prima dell’intervento edilizio oggetto della istanza di sanatoria esisteva in loco esclusivamente il rudere di una porzione di muro sul solo lato sud di un vecchio fabbricato. Poiché tale rudere, per caratteristiche dimensionali, non permetteva di risalire all’originaria consistenza del vecchio fabbricato (ampiezza ed altezza), ne discende, in ossequio ai ricordati indirizzi giurisprudenziali, l’impossibilità di fare nella specie applicazione della disciplina della ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001.
In altri termini, come correttamente dedotto dal Ministero riferente, la ricostruzione di un rudere può essere ascritta alla ristrutturazione edilizia soltanto se preesistano all’intervento le caratteristiche dimensionali e strutturali dell’organismo edilizio originario che si intende recuperare. Non nei casi in cui, come nella vicenda controversa, il rudere consisteva nella rimanenza di un muro perimetrale, insistente soltanto su uno dei quattro lati, privo di copertura e di strutture orizzontali. In tale evenienza, deve essere difatti negata in radice la stessa preesistenza di un organismo edilizio e, pertanto, deve ritenersi preclusa l’applicazione della disciplina relativa alle ristrutturazioni edilizie.
8.5 Per gli argomenti che precedono, l’Amministrazione comunale ha correttamente qualificato l’intervento edilizio oggetto dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria come “nuova costruzione”, facendo conseguente applicazione della relativa disciplina sulle distanze dai confini e dai fabbricati (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 08.06.2020 n. 1095 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASembra opportuno richiamare l'evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia di "ristrutturazione" avente ad oggetto un "rudere".
Prima della modifica legislativa intervenuta nel 2013, la formulazione dell'art. 3 D.P.R. n. 380/2001 non apriva alla possibilità di ricondurre la ricostruzione di un rudere entro la nozione di ristrutturazione, venendo al contrario qualificata come intervento del tutto nuovo per il quale, pertanto, doveva ritenersi indefettibile la sussistenza del permesso di costruire.
In seguito alla modifica del suddetto art. 3, lett. d), con il c.d. Decreto "del fare" (D.L. n. 69/2013), il concetto di ristrutturazione è stato ampliato, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ai sensi del D.lgs. n. 42/2004, introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
La disposizione in esame, nella formulazione attualmente vigente, definisce come "interventi di ristrutturazione edilizia" quelli «rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del dlgs 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».
Il testo della norma consente di individuare due distinte ipotesi di ristrutturazione:
   - la prima attiene ad una tipologia di intervento che può comportare il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, nonché l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti;
   - la seconda, invece, considera la possibilità della demolizione e ricostruzione nel rispetto dell'originaria volumetria ed, in presenza di vincolo, anche della sagoma.
La giurisprudenza amministrativa ha denominato la prima ristrutturazione "conservativa" e la seconda ristrutturazione "ricostruttiva".
Questa Corte, inoltre, ha avuto modo di precisare che, considerata la disciplina vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio.
Diversamente, sono assoggettati alla procedura semplificata della SCIA gli interventi aventi ad oggetto opere non rientranti in zona paesaggisticamente vincolata, rispettando la preesistente volumetria, anche ove venga modificata la sagoma dell'edificio.
---------------

2.2. Deduce il ricorrente, con il secondo motivo, il vizio di cui all'art. 606, lett. b) c.p.p. in relazione agli artt. 3, co. 1, lett. b) e/o d), 10, 22, 23 D.P.R. n. 380/2001, nella parte in cui si disapplicano i criteri imposti dalla predetta normativa, ai fini del riconoscimento della tipologia di ristrutturazione de quo senza variazione di volume.
Si censura, in quanto contrario all'art. 3, co. 1, lett. b) e/o d), D.P.R. n. 380/2001, l'apprezzamento operato dal giudice del riesame circa la non riconducibilità dell'intervento edilizio alla tipologia della "manutenzione straordinaria" e/o della "ristrutturazione edilizia" in conseguenza della diversità di sagome dell'edificato risultante dai lavori eseguiti. Sia la lett. b) che la lett. d) del summenzionato art. 3 escluderebbero, infatti, l'apprezzabilità della sagoma ai fini della qualificazione dell'intervento quale manutenzione straordinaria o ristrutturazione edilizia. Elemento da valutare sarebbe infatti la sola volumetria.
Erroneamente, pertanto, il Tribunale di Messina avrebbe posto in essere una comparazione tra la forma della pianta e la superficie della stessa, essendo tali parametri sconosciuti alla disciplina di riferimento sopra richiamata. Il ricorrente richiama, inoltre, l'art. 10, d.P.R. n. 380/2001 il quale, nel catalogare gli interventi subordinati a permesso di costruire, vi riconduce le ristrutturazioni che "comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici" ovvero che "non comportino modificazioni della sagoma" relativamente agli immobili "sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42". Tra questi ultimi non rientrerebbe quello oggetto del presente giudizio.
In ogni caso, ad avviso del ricorrente, ove vi fosse stata una modifica della volumetria tra l'esistente ed il ristrutturato, l'intervento sarebbe da ritenere legittimo in ragione dell'avvenuta presentazione della SCIA ai sensi dell'art. 23, co. 1, lett. a), D.P.R. n. 380/2001. L'ordinanza sarebbe dunque illegittima nella parte in cui sostituisce all'accertamento circa la corrispondenza della volumetria il parametro della superficie e della sagoma.
...
5. Non merita accoglimento anche il secondo motivo del ricorso.
Sembra opportuno richiamare l'evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia di "ristrutturazione" avente ad oggetto un "rudere".
Prima della modifica legislativa intervenuta nel 2013, la formulazione dell'art. 3 D.P.R. n. 380/2001 non apriva alla possibilità di ricondurre la ricostruzione di un rudere entro la nozione di ristrutturazione, venendo al contrario qualificata come intervento del tutto nuovo per il quale, pertanto, doveva ritenersi indefettibile la sussistenza del permesso di costruire (Cass., Sez. III, 26.10.2007, n. 45240; Cass., Sez. III, 23.01.2007, n. 15054; Cass., Sez. III, 13.01.2006, n. 20776).
In seguito alla modifica del suddetto art. 3, lett. d), con il c.d. Decreto "del fare" (D.L. n. 69/2013), il concetto di ristrutturazione è stato ampliato, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ai sensi del D.lgs. n. 42/2004, introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
La disposizione in esame, nella formulazione attualmente vigente, definisce come "interventi di ristrutturazione edilizia" quelli «rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».
Il testo della norma consente di individuare due distinte ipotesi di ristrutturazione:
   - la prima attiene ad una tipologia di intervento che può comportare il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, nonché l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti;
   - la seconda, invece, considera la possibilità della demolizione e ricostruzione nel rispetto dell'originaria volumetria ed, in presenza di vincolo, anche della sagoma.
La giurisprudenza amministrativa ha denominato la prima ristrutturazione "conservativa" e la seconda ristrutturazione "ricostruttiva" (Cons. di Stato, Sez. V, 05.12.2014, n. 5988).
Questa Corte, inoltre, ha avuto modo di precisare che, considerata la disciplina vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio.
Diversamente, sono assoggettati alla procedura semplificata della SCIA gli interventi aventi ad oggetto opere non rientranti in zona paesaggisticamente vincolata, rispettando la preesistente volumetria, anche ove venga modificata la sagoma dell'edificio (Cass., Sez. III, 03.06.2014, n. 40342) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.04.2020 n. 13148).

EDILIZIA PRIVATACiò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente"), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele", comunque rispettosa della volumetria e, nell'ipotesi di immobili vincolati, anche della sagoma della costruzione preesistente.
Infatti, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente.
È stato affermato in proposito che “La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire”; non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum, cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione.
Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (in casi analoghi la giurisprudenza ha preteso che l'immobile esista quanto meno in quelle strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di consistenza, possano farlo giudicare presente nella realtà materiale).
Del resto la c.d. demo-ricostruzione -ovvero un'incisiva forma di recupero di preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione edilizia- tradizionalmente pretende la pressoché fedele ricostruzione di un fabbricato identico a quello già esistente, dalla cui strutturale identificabilità, come organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, non si può dunque, in ogni caso, prescindere.
L'attività di ricostruzione di ruderi deve considerarsi, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, avendo questi perduto i caratteri dell'entità urbanistico-edilizia originaria sia in termini strutturali che funzionali; imprescindibile condizione perché sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato, è che tale accertamento venga effettuato con il massimo rigore e si fondi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie, etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente, e non dunque "studi storici" o rilevazioni inerenti ad edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura per delineare la consistenza del manufatto crollato.
In definitiva, non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum, cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione; bisogna procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio.
---------------

... per l'annullamento, previa sospensione, del provvedimento 20/06/2018 prot. n. 2748 di diniego della richiesta di permesso di costruire prot. n. 1665 dell’11/04/2018; del preavviso di diniego 29/05/2018 prot. n. 2387, nonché degli atti presupposti.
...
1. Con il ricorso in esame parte ricorrente deduce la violazione dell’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380/2001, della Legge n. 241/1990, nonché l’eccesso di potere per difetto dei presupposti e di istruttoria.
2. Il Collegio, preso atto della rinuncia di parte ricorrente all’applicazione dell’art. 7, comma 8-bis, della L.R. n. 19/2009 e della concentrazione del provvedimento di diniego sul rimanente motivo, ritiene in via preliminare, quanto alla normativa rilevante ai fini del decidere, di osservare che il D.L. n. 69/2013 (conosciuto anche come "Decreto del fare"), convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 98/2013, intervenendo sul DPR n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), ha considerevolmente ampliato il concetto di ristrutturazione, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
Oggi gli interventi di ristrutturazione sono essenzialmente quelli "rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente".
2.1 E’ ben chiaro a questo Organo giudicante che ciò che contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente"), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele", comunque rispettosa della volumetria e, nell'ipotesi di immobili vincolati, anche della sagoma della costruzione preesistente.
Infatti, rientrano nella nozione di nuova costruzione non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente (Cass. civile, II, 30/06/2017, n. 16268).
È stato affermato in proposito che “La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire” (Cons. Stato, IV, 15/09/2006, n. 5375); non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum, cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione.
Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente "abitato" o "abitabile", esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione (in casi analoghi la giurisprudenza ha preteso che l'immobile esista quanto meno in quelle strutture essenziali che, assicurandogli un minimo di consistenza, possano farlo giudicare presente nella realtà materiale: Cons. Stato, V, 21/10/2014, n. 5174; 15/03/1990, n. 293; 20/12/1985, n. 485).
2.2 Del resto la c.d. demo-ricostruzione -ovvero un'incisiva forma di recupero di preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione edilizia- tradizionalmente pretende la pressoché fedele ricostruzione di un fabbricato identico a quello già esistente, dalla cui strutturale identificabilità, come organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, non si può dunque, in ogni caso, prescindere (Cons. Stato, V, 10/02/2004, n. 475).
L'attività di ricostruzione di ruderi deve considerarsi, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, avendo questi perduto i caratteri dell'entità urbanistico-edilizia originaria sia in termini strutturali che funzionali (Cons. Stato, VI, 05/12/2016, n. 5106); imprescindibile condizione perché sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato, è che tale accertamento venga effettuato con il massimo rigore e si fondi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie, etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente, e non dunque "studi storici" o rilevazioni inerenti ad edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura per delineare la consistenza del manufatto crollato.
In definitiva, non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all'an anche il quantum, cioè l'esatta consistenza dell'immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione; bisogna procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio.
3. Ciò premesso, l'onere della prova dell'ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale, ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (cfr. Cons. Stato, VI, 05/03/2018, n. 1391).
Accade che il privato da un lato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili (aeorofotgrammetrie e dichiarazioni sostitutive di edificazione ante 01/09/1967) e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio.
Nella fattispecie, ciò ai fini dell’accoglimento del ricorso, parte ricorrente ha fornito elementi quali:
   - la planimetria catastale richiamata nell’atto pubblico del 24/10/1996 che comprova la reale consistenza in scala 1:200 dell’immobile oggetto dell’intervento di ristrutturazione edilizia, ovvero piano terra e primo piano rispettivamente di altezza mt. 3,80 e 3,70;
   - la specificazione sempre in detto atto che il fabbricato è composto di nove vani tra piano terra e primo piano;
   - i rilievi fotografici dello stato di fatto indicati nella stessa tavola in cui si nota che l’altezza dei muri perimetrali è maggiore dei mt. 3,80 del piano terra;
   - la ricostruzione grafica dell’immobile sulla base dei voli effettuati dall’Aeronautica militare.
3.1 Il Collegio con tali premesse, come peraltro ritenuto al concorrere di simili presupposti da giurisprudenza (Cons. Stato, VI, 19/10/2018, n. 5988) richiamata da parte ricorrente, è dell’avviso che, conformemente ai principi sopra richiamati, la parte privata abbia fornito una serie di elementi coerenti e plurimi in ordine alla consistenza dell'immobile preesistente, previa ricognizione degli elementi strutturali dell'edificio, risultando integrate le caratteristiche essenziali minime per poter essere oggetto di un intervento di ristrutturazione.
Rispetto a tali elementi, non risulta che il Comune abbia svolto il necessario approfondimento istruttorio e motivazionale, essendosi limitato a formule generiche e sostanzialmente di stile; in pratica, dopo che successivamente al preavviso di diniego del 29/05/2018 parte ricorrente aveva rinunciato alla volumetria aggiuntiva dichiarando di voler rispettare la sagoma ed il preesistente posizionamento sull’area di sedime, nella parte dispositiva del provvedimento definitivo del 20/06/2018 (pag. 3) si è insistito nel sottolineare ai punti 1.b) e 1.c) la non applicabilità della L.R. n. 19/2009, ormai non più rilevante, mentre, al contrario, non sono state puntualmente esplicitate le ragioni giuridiche a giustificazione della reiezione a seguito di un’istruttoria che non poteva prescindere dai sopraindicati documenti forniti dall’istante, non risultando così possibile verificare l’avvenuto rispetto dei limiti della discrezionalità e della giustificata restrizione della sfera giuridica della parte privata.
Inoltre, si è genericamente asserito che lo stabile sarebbe stato demolito tra il 1981 ed il 1982, laddove tale assunto è smentito in atti, ove si consideri che il fabbricato è tutt’oggi presente nella sua realtà materiale; semmai una parte era stata oggetto di demolizione nell’ambito di un procedimento di espropriazione finalizzato all’ampliamento della confinante strada Madonna della Neve, ma trattasi di sezione che non era stata oggetto di valutazione ai fini del calcolo della volumetria assentibile.
3.2 In altri termini, a fronte dei plurimi e coerenti documenti in ordine alla consistenza dell'immobile preesistente, il Comune ha erroneamente valutato che nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti, tanto nello spazio quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, nelle fondamenta, nelle aerofotogrammetrie e nelle mappe catastali, ragion per cui la prova dell'epoca di realizzazione si desume da dati oggettivi in ordine ai quali è onere del privato, che contesti il dato dell'Amministrazione, fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell'immobile, superando quella fornita dalla parte pubblica (Cons. Stato, IV, 09/02/2016, n. 511).
Nel caso di specie, in particolare, la Pubblica Amministrazione non ha fornito la necessaria prova, limitandosi a valutare come irrilevanti gli elementi concreti forniti attraverso formule di stile non sufficienti alla luce dei principi sopra richiamati, ciò sul presupposto che oggi sarebbe presente solo parte della muratura perimetrale e l’intervento richiesto ricadrebbe nella categoria della nuova costruzione.
4. In conclusione, il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento dei provvedimenti oggetto di impugnazione (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 23.12.2019 n. 6098 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA seguito della modifica legislativa, dovuta al d.l. 21.07.2013 n. 69, che ha inserito nella lett. d) del comma 1 dell’art. 3 T.U.ED. il riferimento agli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione” quest'ultimi, ad oggi, rientrano nel concetto di "ristrutturazione edilizia" “purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Rispetto al regime previgente, quindi, il concetto di "ristrutturazione edilizia" è stato allargato al caso di edificio che più non esiste, di cui però la consistenza originaria si può ricostruire, evidentemente con un’indagine tecnica, ipotesi che la giurisprudenza in precedenza escludeva.
---------------

1. L’appello è fondato e va accolto, ai sensi e nei limiti di quanto segue.
2. Il primo motivo di appello, centrato in sintesi sulla impossibilità di assentire la costruzione sanata in base alle norme edilizie vigenti in quel momento, è fondato ed assorbente.
2.1 Anzitutto, non è controverso in fatto quanto si è spiegato in narrativa, ovvero che il fabbricato originario di proprietà della controinteressata appellata è crollato il giorno 11.05.2006, che l’istanza per ottenere il primo permesso di costruire è stata presentata circa sei mesi dopo, precisamente il giorno 13.11.2006, e che il primo permesso di costruire è stato rilasciato il 22.04.2008. Sul punto si è pronunciata la sentenza di I grado (motivazione, § 4.2) e anche nel permesso di costruire originario appena citato si legge, come detto in premesse, che il fabbricato esistente era stato “oggetto di crollo” (doc. 1 in I grado ricorrente appellante allegato al ricorso principale, cit.).
2.2 Ciò posto, nemmeno è controverso che l’immobile in questione si trovasse in zona classificata dallo strumento urbanistico come zona omogenea B1, disciplinata dall’art. 81 NTA, per cui gli interventi da realizzare all’interno di essa erano subordinati all’approvazione di uno strumento attuativo, indicato come piano particolareggiato o piano di recupero: il testo della norma è riportato, per tutti, a p. 59 dell’appello, e sul punto, dato per pacifico anche dalla sentenza di I grado (motivazione § 4), non vi è contestazione.
2.3 A fronte di ciò, la sentenza di I grado ricorda in astratto che ai sensi degli artt. 27, comma 4, e 31, comma 1, lett. d), della l. 05.08.1978 n. 458 quando la pianificazione urbanistica subordina il rilascio della concessione edilizia, e quindi l’intervento di nuova costruzione per cui essa è necessaria, all’approvazione di uno strumento attuativo, anche quando essa non è ancora intervenuta sono consentiti gli interventi minori, e in particolare gli interventi di ristrutturazione.
Tanto premesso, la sentenza in questione ritiene che l’intervento per cui è causa rientri appunto in quest’ultima categoria, e quindi che la sanatoria sia stata legittimamente rilasciata, trattandosi di intervento consentito, dato che “avuto riguardo al limitato scarto temporale esistente tra il crollo e l’istanza di ristrutturazione (circa sei mesi, verosimilmente impegnati per la redazione del progetto, e tenuto conto altresì della pausa estiva), è evidente che non si tratta di intervento ex novo attuato su area precedentemente non interessata da alcun manufatto, ma di semplice ristrutturazione di immobile (poco tempo prima) esistente” (motivazione, § 4.2 in fine).
2.4 Ad avviso del Collegio, che condivide sul punto quanto sostenuto dalla difesa della ricorrente appellante, tale conclusione non va condivisa, alla luce della giurisprudenza che si è soffermata su come vada qualificato l’intervento che porta, genericamente, a ripristinare un immobile crollato.
La norma applicabile alla fattispecie è l’art. 3 del T.U. 06.06.2001 n. 380, vigente all’epoca dei fatti, che aveva sostituito con identici contenuti l’art. 31 della l. 458/1978. Al comma 1, lettera d), di questa norma, si legge che si definiscono "interventi di ristrutturazione edilizia" quelli che sono rivolti a “trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quella preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
2.5 Argomentando dalla norma così formulata, la giurisprudenza riteneva quindi che per parlare di ristrutturazione fosse sempre necessaria l'esistenza dell'immobile nel suo complesso e non nelle singole parti, con un minimo di consistenza idoneo a farlo ritenere presente nella realtà, consistenza che comunque doveva essere dimostrata con esattezza; nel caso di ristrutturazione di un rudere, qualificava invece l’intervento come nuova costruzione, trattandosi di intervenire su un manufatto che ormai aveva perduto i caratteri dell’originaria unità urbanistico edilizia: in questi termini, per tutte, C.d.S. sez. VI 05.12.2016 n. 5106 e sez. IV 05.07.2000 n. 3735.
2.6 La situazione è cambiata invece a seguito di una ben precisa modifica legislativa, dovuta al d.l. 21.07.2013 n. 69, e quindi posteriore al provvedimento impugnato, che ha inserito nella lett. d) del comma 1 dell’art. 3 T.U appena esaminato il riferimento agli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione” che quindi ora rientrano nel concetto di ristrutturazione “purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Rispetto al regime previgente, quindi, il concetto di ristrutturazione è stato allargato al caso di edificio che più non esiste, di cui però la consistenza originaria si può ricostruire, evidentemente con un’indagine tecnica, ipotesi che la giurisprudenza in precedenza escludeva: si veda per tutte la citata C.d.S. 5106/2016, secondo la quale “a nulla rileva che, attraverso complesse attività tecniche, si riesca a risalire all'originaria consistenza dell'edificio”.
2.7 Applicando i principi appena delineati al caso di specie, non risulta che il permesso di costruire originario abbia in qualche modo dato conto della possibilità di riconoscere sul posto, nonostante il crollo, i caratteri essenziali della costruzione preesistente, il che si sarebbe richiesto all’epoca dei fatti, dato che, come detto in narrativa, si riferisce in modo esplicito alla costruzione di un “nuovo fabbricato” (doc. 1 in I grado ricorrente appellante allegato al ricorso principale, cit.).
Il motivo va quindi accolto, perché in tali termini –mancando un difforme accertamento della realtà dei fatti- si sarebbe dovuto rispettare l’art. 82 delle NTA, e quindi l’intervento assentito va ritenuto non conforme alle norme vigenti all’epoca di realizzazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.10.2019 n. 6654 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAncora oggi, è da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente.
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata.
Nel caso di specie, deve quindi convenirsi con il TAR che la risalente assenza di copertura, unitamente al parziale crollo delle mura perimetrali, costituisse già di per sé condizione sufficiente ad escludere la riconducibilità dell’intervento assentito agli interventi di ristrutturazione edilizia rientrando piuttosto tra quelli di nuova costruzione.

---------------
L’impossibilità di apprezzare la consistenza del manufatto preesistente conduce ad escludere, in radice, la configurabilità di un intervento di “ristrutturazione edilizia” sia alla stregua dell’art. 31, comma 1, lett. d), della n. 457 del 1978 (richiamato dal PTP), sia in base l’attuale formulazione della normativa statale in materia di ristrutturazione edilizia.
Quest’ultima, come noto, ricomprende oggi anche gli interventi volti «al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza», con la precisazione che «con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente» (art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 380/2001, come modificato dall'art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 09.08.2013, n. 98.
Alla stregua delle prefate disposizioni, è quindi ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 5174 del 21.10.2014, e TAR Lombardia, Brescia, sentenza n. 1167 del 26.09.2017).
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata (Cons. St., sez. V, sentenza n. 1025 del 15.03.2016).
Nel caso di specie, deve quindi convenirsi con il TAR che la risalente assenza di copertura, unitamente al parziale crollo delle mura perimetrali, costituisse già di per sé condizione sufficiente ad escludere la riconducibilità dell’intervento assentito agli interventi di ristrutturazione edilizia rientrando piuttosto tra quelli di nuova costruzione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.09.2019 n. 6188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo il tradizionale e consolidato indirizzo della giurisprudenza, la nozione di ristrutturazione edilizia non può prescindere dalla preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato di quelle componenti essenziali –murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura– idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza ed a farlo giudicare presente nella realtà materiale. Con la conseguenza che la ricostruzione di ruderi, vale a dire residui edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell’edificio, deve essere ricondotta nell’alveo della nuova costruzione, non rilevando in contrario la possibilità di risalire attraverso complesse indagini tecniche all’originaria consistenza di un manufatto oramai non più esistente come tale.
Tale orientamento non è mutato neppure a seguito della novella apportata all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal d.l. n. 69/2013, giacché, per potersi parlare di ristrutturazione, occorre pur sempre che i resti della costruzione crollata o demolita presentino caratteristiche tali da consentire di determinarne l’effettiva consistenza.
Nondimeno, se pure si volesse ritenere che le modifiche legislative del 2013 abbiano esteso la nozione di ristrutturazione all’attività di ricostruzione dei ruderi, nel caso in esame il manufatto da ricostruire manca del tutto, essendone stata a suo tempo eliminata ogni traccia. Il che impedisce in radice di rinvenire nell’intervento in questione i contenuti della “trasformazione” di un organismo edilizio esistente, che, lo si è visto, rappresenta il tratto distintivo della ristrutturazione edilizia alla stregua della definizione generale dettata dall’art. 3 d.P.R. n. 380/2001.
---------------

La società estera An., con sede nella Repubblica Slovacca, e i signori Ro.Do. e Fr. Di Tr. sono, rispettivamente, proprietaria la prima e usufruttuari i secondi di un complesso immobiliare ubicato nel Comune di Montecarlo, alla via ... 18, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
Nel luglio del 2017, essi hanno chiesto il rilascio del permesso di costruire per riedificare un preesistente corpo di fabbrica costruito in aderenza al fabbricato principale, e crollato nel 1988.
L’istanza è stata respinta dal Comune sul presupposto dell’assenza di prova in ordine all’originaria consistenza dell’immobile, richiesta ai fini dell’assenso alla ricostruzione dall’art. 134 della legge regionale toscana n. 65/2014, e della qualificazione dell’intervento come nuova costruzione non assentibile in zona vincolata.
...
2.1.1. Il ricorso è infondato.
L’art. 3, co. 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001 definisce interventi di ristrutturazione edilizia quelli “rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”, e, nel testo modificato dal d.l. n. 69/2013, vi include il ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza e, per gli immobili sottoposti a vincoli, all’ulteriore condizione che sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente.
Correlativamente, la legge regionale toscana qualifica oggi come interventi di “ristrutturazione edilizia ricostruttiva” quelli consistenti nel “ripristino di edifici, o parti di essi, crollati o demoliti, previo accertamento della originaria consistenza e configurazione”, dai quali distingue “il ripristino di edifici, o parti di essi, crollati o demoliti, previo accertamento della originaria consistenza e configurazione, attraverso interventi di ricostruzione comportanti modifiche della sagoma originaria, laddove si tratti di immobili sottoposti ai vincoli di cui al Codice” (art. 134, co. 1, lett. h), n. 4, e lett. i) l.r. n. 65/2014).
Secondo il tradizionale e consolidato indirizzo della giurisprudenza, la nozione di ristrutturazione edilizia non può prescindere dalla preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, cioè di un fabbricato dotato di quelle componenti essenziali –murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura– idonee come tali ad assicurargli un minimo di consistenza ed a farlo giudicare presente nella realtà materiale. Con la conseguenza che la ricostruzione di ruderi, vale a dire residui edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell’edificio, deve essere ricondotta nell’alveo della nuova costruzione, non rilevando in contrario la possibilità di risalire attraverso complesse indagini tecniche all’originaria consistenza di un manufatto oramai non più esistente come tale (fra le moltissime, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 05.12.2016, n. 5106, e i numerosi precedenti ivi citati; id., sez. V, 21.10.2014, n. 5174 id., sez. V, 11.06.2013, n. 3221).
Tale orientamento non è mutato neppure a seguito della novella apportata all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 dal ricordato d.l. n. 69/2013, giacché, per potersi parlare di ristrutturazione, occorre pur sempre che i resti della costruzione crollata o demolita presentino caratteristiche tali da consentire di determinarne l’effettiva consistenza (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.03.2016, n. 1025; TAR Lombardia–Milano, sez. II, 29.11.2017, n. 2287; TAR Toscana, sez. I, 18.04.2017, n. 588).
Nondimeno, se pure si volesse ritenere che le modifiche legislative del 2013 abbiano esteso la nozione di ristrutturazione all’attività di ricostruzione dei ruderi, nel caso in esame il manufatto da ricostruire manca del tutto, essendone stata a suo tempo eliminata ogni traccia. Il che impedisce in radice di rinvenire nell’intervento in questione i contenuti della “trasformazione” di un organismo edilizio esistente, che, lo si è visto, rappresenta il tratto distintivo della ristrutturazione edilizia alla stregua della definizione generale dettata dall’art. 3 d.P.R. n. 380/2001.
L’argomento è dirimente. Per completezza della disamina, deve comunque aggiungersi che l’originaria consistenza dell’immobile da ricostruire neppure è stata adeguatamente dimostrata dai ricorrenti, la cui pretesa risulta pertanto infondata sotto ogni profilo.
Del fabbricato demolito non vi sono rappresentazioni iconografiche, fatta eccezione per la planimetria allegata alla denuncia di variazione catastale presentata nel 1988, proprio a seguito della demolizione, che ne mostra l’area di sedime.
A partire dall’area di sedime, i ricorrenti ricavano l’altezza massima del fabbricato dai travicelli della copertura ancora visibili nella muratura dell’edificio principale, per poi presumere che la copertura scendesse fino al termine di quest’ultimo con la stessa pendenza della vecchia copertura dell’adiacente porzione est. Il volume del fabbricato è ottenuto moltiplicando la superficie dell’area di sedime per l’altezza media (si veda la relazione tecnica a firma dell’ing. Le., in atti).
Come si vede, muovendo da un dato approssimativo, ma in qualche modo verificabile (l’ampiezza dell’area di sedime si può ricavare dalla misura delle pareti dell’edificio principale, in aderenza al quale era costruito quello crollato), il calcolo del volume finisce per essere frutto di un’ipotesi meramente congetturale, non essendovi elementi oggettivi dai quali desumere la reale pendenza della copertura originaria. E, oltretutto, non vi è prova che all’epoca della costruzione del fabbricato, poi demolito, la copertura utilizzata dal tecnico dei ricorrenti come riferimento avesse la medesima pendenza attuale (si tratta di porzione immobiliare ristrutturata nel 2013, stando alla stessa relazione tecnica di parte ricorrente, ma la consistenza delle opere di ristrutturazione non è nota).
Se tanto basta per evidenziare la sostanziale arbitrarietà del calcolo volumetrico eseguito dai ricorrenti, a maggior ragione gli scarsissimi elementi disponibili non permettono di verificare il rispetto dell’identità di sagoma (intesa come perimetro dell’edificio considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il suo contorno, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti: per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.01.2017, n. 353), requisito indefettibilmente richiesto dal citato art. 3, co. 1, lett. d), d.P.R. n. 380/2001 per gli edifici vincolati, ovvero ricadenti in area vincolata (cfr. TAR Toscana, sez. III, 05.04.2016, n. 582; Cass. pen., sez. III, 09.07.2018, n. 39340).
Il diniego del permesso di costruire, in definitiva, appare assunto del tutto legittimamente dal Comune di Montecarlo con riferimento all’impossibilità di risalire alla consistenza dell’edificio da ricostruire e all’irriducibilità dell’intervento nei confini della ristrutturazione edilizia.
In contrario non rileva, evidentemente, il positivo giudizio reso dalla Commissione comunale per il paesaggio, al quale sono estranee valutazioni di tipo urbanistico-edilizio, ma che si limita all’accertamento della compatibilità dell’intervento con il vincolo gravante sull’area. Nessuna contraddittorietà è pertanto ravvisabile nelle scelte del Comune.
3. Alla luce delle considerazioni esposte, il ricorso non può trovare accoglimento (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.02.2019 n. 286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: MODALITÀ ACCERTATIVE DELLA PREESISTENTE CONSISTENZA DI UN EDIFICIO CROLLATO O DEMOLITO DA RICOSTRUIRSI CON RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA.
L’accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell’ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in esame attiene alla questione dell’individuazione del titolo edilizio necessario al fine di realizzare interventi di ricostruzione e demolizione di manufatti abusivi.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato la sentenza del tribunale che, a sua volta, aveva affermato la responsabilità penale di un imputato per il reato di cui all’art. 480 c.p.
Al medesimo veniva contestato il concorso nell’illecito rilascio di un parere paesaggistico sulla base una relazione tecnica, integrativa della domanda presentata dal progettista, nella quale si attestava falsamente che le opere previste nella proposta progettuale non comportavano variazione di sagoma né aumenti delle volumetrie esistenti, fatti indicati nell’imputazione come smentiti dall’esame degli atti, trattandosi di intervento modificativo della sagoma e degli indici planovolumetrici rispetto all’esistente, considerando l’altezza non rilevabile, in quanto il vecchio fabbricato rurale da ristrutturare risultava crollato, come documentato dalle fotografie a corredo della pratica edilizia.
Sarebbero stati così costituiti gli indispensabili falsi presupposti che consentivano al tecnico comunale di rilasciare il provvedimento autorizzatorio.
Avverso la detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo che i giudici erroneamente non avrebbero preso in esame il contenuto del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), come modificato dal D.L. n. 69 del 2013, art. 30, segnatamente per quanto concerne la ristrutturazione dei ruderi.
Osservava, a tale proposito, che trattandosi di edificio crollato, non potevano che prendersi in esame i parametri murari ancora esistenti per risalire, attraverso uno studio storico e rilevazioni inerenti edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura, per delineare l’originaria consistenza del manufatto da ristrutturare.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dato atto del significativo dato fattuale della obiettiva impossibilità di individuare le originarie caratteristiche costruttive dell’immobile crollato, definito nelle sentenze di merito come “un mero ammasso di pietre a secco con un accenno di andamento solo di due muri perimetrali e di piccola parte di un terzo muro”.
Una tale evenienza giustificava, di per sé, secondo la Cassazione, la possibilità di qualificare l’intervento come ristrutturazione.
Quanto, poi, alla possibilità di risalire alla originaria consistenza dell’edificio, ormai ridotto a rudere, attraverso lo “studio storico” o rilevazioni inerenti ad edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura per delineare la consistenza del manufatto crollato, i giudici della S.C. hanno ricordato la giurisprudenza consolidata in materia che impone estremo rigore nella verifica della consistenza del preesistente manufatto, da effettuarsi su dati oggettivi inconfutabili e completi (Cass. pen., Sez. III, 22.01.2014, n. 5912, M. e altri, CED, 258597; Id., Sez. III, 25.06.2015, n. 26713, P., inedita; Id., Sez. III, 13.10.2015, n. 48947, P.M. in proc. P.,CED, 266031), ma hanno altresì aggiunto che ciò si risolverebbe nel consentire la edificazione di volumi della cui preesistenza non vi sarebbe alcuna certezza, sulla base di mere supposizioni, tali essendo i risultati di eventuali comparazioni con altri edifici le cui caratteristiche siano analoghe e note.
La sentenza aveva, dunque, giustamente escluso la correttezza della soluzione prospettata dalla difesa, proprio sulla base della impossibilità di “dare contezza specifica degli esatti limiti del preesistente” ed escludendo, altrettanto correttamente, ogni validità del mero richiamo dell’esistenza del manufatto nell’atto di compravendita del terreno per la genericità del richiamo e l’assenza di descrizione dello stesso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39340 - Urbanistica e appalti 6/2018).

aggiornamento al 12.11.2022

Sulla nozione di "lotto intercluso" ai fini della sua edificabilità con o senza preventivo piano attuativo.

EDILIZIA PRIVATASotto il profilo urbanistico, il “lotto intercluso” è costituito da enclavi non ancora edificate e situate all’interno di un’area già integralmente urbanizzata che, per tale ragione, sono edificabili anche in assenza di un Piano urbanistico attuativo o di una Convenzione di lottizzazione.
---------------

11) Con il SECONDO MOTIVO la ricorrente ha dedotto la violazione:
   i) dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 in materia di accertamento di conformità;
   ii) dell’art. art. 44 del Regolamento edilizio comunale (REC) in materia di “superficie drenante” del lotto per realizzare nuove edificazioni;
   iii) dell’art. 42 del medesimo REC in punto di distanze dai confini.
Il motivo è infondato.
11.1) La doglianza sub i) è palesemente infondata atteso che la ricorrente non ha mai richiesto alcun accertamento di conformità ex art. 36, ma ha semplicemente formulato un’istanza esplorativa al Comune sulla possibilità di deroga rispetto ad alcuni parametri edilizi ostativi alla sanatoria dell’intervento in questione (deroga, peraltro, esclusa dal Comune con nota n. -OMISSIS- dell’-OMISSIS- 2021).
Ne consegue che nessuna violazione dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 è configurabile, non essendo mai stata attivata il relativo procedimento.
11.2) Infondato è anche il profilo sub ii) secondo cui la superficie drenante richiesta dall’art. 44 del REC –pacificamente mancante nel lotto della ricorrente– sarebbe reperibile nell’area che circonda il compendio immobiliare ad ovest e a sud, operazione che sarebbe consentita dalla Convenzione urbanistica relativa al Piano Attuativo n. 11 che, in origine, aveva regolato l’edificazione della zona e la realizzazione dell’abitazione della ricorrente.
a) In primo luogo si rileva che, se anche tale operazione fosse stata effettuabile durante il periodo di efficacia della Convenzione (e ciò non è in alcun modo dimostrato), siccome detta Convenzione urbanistica è pacificamente scaduta, risultano inapplicabili le relative norme e preclusa qualsiasi possibilità di scambio o cessione di indici edificatori (o di altro tipo) tra fondi diversi che, oltretutto, sono ormai sottratti alla disponibilità della ricorrente perché da tempo sono stati ceduti al Comune in esecuzione della Convenzione suddetta.
b) È infondata anche la tesi secondo cui l’intervento edilizio contestato sarebbe ammesso in quanto effettuato in un “lotto intercluso delle zone residenziali” per il quale l’art. 44 del REC non imporrebbe un limite vincolante per la superficie drenante prevedendo che “Nei casi di interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, di interventi di ristrutturazione urbanistica, di interventi da realizzarsi in aree ricadenti in lotti interclusi delle zone residenziali, i parametri di superficie scoperta e drenante di cui al primo comma costituiscono obbiettivo a cui tendere”.
Sennonché tale disposizione risulta inapplicabile al fondo della ricorrente perché:
   - esso non è intercluso (in senso fisico), atteso che ad esso si accede direttamente dalla strada pubblica;
   - lo stesso non è intercluso neppure sotto il profilo urbanistico giacché il “lotto intercluso” è costituito da enclavi non ancora edificate e situate all’interno di un’area già integralmente urbanizzata che, per tale ragione, sono edificabili anche in assenza di un Piano urbanistico attuativo o di una Convenzione di lottizzazione (ex multis: Cons. Stato, Sez. sez. IV, 02.04.2020, 2228), ma tale situazione non ricorre nel caso di specie sia perché tale qualità del fondo non è stata dimostrata, sia perché il lotto della ricorrente è già stato edificato e non vi è prova che la zona circostante sia stata integralmente urbanizzata, anche perché il Piano attuativo originario è stato attuato solo parzialmente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 24.10.2022 n. 993 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La fattispecie del c.d. “lotto intercluso” costituisce un’evenienza del tutto eccezionale, subordinata alla dimostrazione che sussista una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, non essendo sufficiente, al fine di superare la preclusione rappresentata dalla mancata adozione della pianificazione attuativa, fare leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa.
Il rilascio del permesso di costruire in assenza dello strumento urbanistico attuativo rappresenta una deroga eccezionale alla regola generale e imperativa, scolpita dall'art. 9 del d.P.R. n. 380/2001, secondo cui il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che si sia concluso il procedimento per la adozione dello strumento urbanistico attuativo e che lo stesso sia divenuto perfetto ed efficace, deroga la cui applicazione è subordinata al ricorrere di stringenti e rigorosi presupposti, tra i quali la presenza, nell'area da edificare, di tutte le opere di urbanizzazione (primaria e secondaria) previste dagli strumenti urbanistici.
Tra le deroghe al principio sancito dall’art. 9 del d.P.R. n. 380/2001 risiede la fattispecie del c.d. “lotto intercluso” che si realizza, secondo l’opinione largamente prevalente nel formante giurisprudenziale, “allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g. In sintesi, si consente l'intervento costruttivo diretto purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico.
Quindi, lo strumento urbanistico deve considerarsi superfluo posto che è stata ormai raggiunta la piena edificazione e urbanizzazione della zona interessata, raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo)”.
Ed ancora, “In presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa. L'assenza del piano attuativo non è surrogabile con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo, infatti, a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo. Non sono configurabili equipollenti al piano attuativo, circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritardata, può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema”.
Dalle coordinate ermeneutiche sopra tratteggiate emerge come la fattispecie del c.d. “lotto intercluso” costituisca un’evenienza del tutto eccezionale, subordinata alla dimostrazione che sussista una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, non essendo sufficiente, al fine di superare la preclusione rappresentata dalla mancata adozione della pianificazione attuativa, fare leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa.
---------------

7.3. Passando all’ultimo motivo di doglianza mosso avverso il provvedimento impugnato, esso va accolto, pur se per ragioni non pienamente coincidenti con quelle prospettate dalla parte ricorrente.
Essa, infatti, sostiene l’illegittimità del provvedimento gravato e, di contro, la fondatezza della propria pretesa alla formazione del silenzio-assenso sull’istanza di permesso di costruire dalla medesima presentata basandosi sull’istituto del c.d. “lotto intercluso” per cui, in presenza di una porzione di territorio circondata in ogni lato da appezzamenti di terreno edificati e dotata di tutte le infrastrutture occorrenti all’urbanizzazione primaria e secondaria della zona, l’amministrazione non potrebbe rifiutarsi di rilasciare il richiesto permesso di costruire, rendendo di fatto inutile subordinare l’intervento edificatorio diretto all’attuazione di piani esecutivi allorché –come nel caso di specie– la proprietà del ricorrente sia l’unica rimasta inedificata.
Sennonché tale rilievo non persuade.
E’ costante in giurisprudenza l’affermazione secondo cui il rilascio del permesso di costruire in assenza dello strumento urbanistico attuativo rappresenta una deroga eccezionale alla regola generale e imperativa, scolpita dall'art. 9 del d.P.R. n. 380/2001, secondo cui il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che si sia concluso il procedimento per la adozione dello strumento urbanistico attuativo e che lo stesso sia divenuto perfetto ed efficace, deroga la cui applicazione è subordinata al ricorrere di stringenti e rigorosi presupposti, tra i quali la presenza, nell'area da edificare, di tutte le opere di urbanizzazione (primaria e secondaria) previste dagli strumenti urbanistici (si veda, da ultimo, TAR Lazio-Roma, sez. II-quater, sent. n. 5917/2022).
Tra le deroghe al principio sancito dall’art. 9 del d.P.R. n. 380/2001 risiede la fattispecie del c.d. “lotto intercluso” che si realizza, secondo l’opinione largamente prevalente nel formante giurisprudenziale, “allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g. In sintesi, si consente l'intervento costruttivo diretto purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.01.2008, n. 268; sez. V, 03.03.2004, n. 1013; sez. IV, Sent., 10.06.2010, n. 3699).
Quindi, lo strumento urbanistico deve considerarsi superfluo posto che è stata ormai raggiunta la piena edificazione e urbanizzazione della zona interessata, raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo) (si esprime così Cons. St., sez. IV, sent. n. 5488/2014. Parimenti in termini, più recentemente, TAR Lazio–Roma, sez. II-quater, sent. n. 12665/2020)
”.
Quanto alla dimostrazione dell’effettiva superfluità della pianificazione attuativa al fine di dotare l’area delle opere di urbanizzazione occorrenti per consentire l’edificazione con intervento diretto, sempre la giurisprudenza ha precisato che “In presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa. L'assenza del piano attuativo non è surrogabile con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo, infatti, a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo. Non sono configurabili equipollenti al piano attuativo, circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritardata, può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema” (Cons. St., sent. n. n. 5488/2014, cit).
Dalle coordinate ermeneutiche sopra tratteggiate emerge come la fattispecie del c.d. “lotto intercluso” costituisca un’evenienza del tutto eccezionale, subordinata alla dimostrazione che sussista una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, non essendo sufficiente, al fine di superare la preclusione rappresentata dalla mancata adozione della pianificazione attuativa, fare leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 20.07.2022 n. 10349 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla non necessità di un previo piano attuativo, circa l'edificazione di un lotto, si è consolidato un orientamento interpretativo che individua distinte soluzioni interpretative in rapporto alle diverse situazioni concrete di volta in volta emergenti.
   - Costituisce ormai principio pacifico ed acquisito che la necessità della presentazione di un previo piano attuativo si impone qualora si tratti di asservire per la prima volta all'edificazione, mediante la costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate, che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
In tal caso non può prescindersi dalla previa predisposizione di un piano esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato) quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia.
Si tratta delle situazioni in cui si impone la esigenza di non infrangere la integrità originaria del territorio, sicché occorre rispettare rigorosamente la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione dello strumento urbanistico generale e della susseguente predisposizione dello strumento urbanistico d'attuazione, utile a garantire e una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico ed edilizio.
   - Diversamente, qualora si verta in presenza di un lotto intercluso o in altri analoghi casi in cui la zona risulti totalmente urbanizzata attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività -quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, etc.- lo strumento urbanistico esecutivo non può ritenersi più necessario e non può, pertanto, legittimarsi un rifiuto da parte del Comune che sia basato su un mero argomento formale.
   - Esistono, tuttavia, delle situazioni intermedie, non necessariamente identificabili né sovrapponibili con le fattispecie di “lotto intercluso” oppure con altre similari, nelle quali l'area interessata dall'intervento può risultare anche solo in parte, edificata, e, parallelamente, può essere più o meno asservita da opere di urbanizzazione.
In tali casi, ove si è in presenza di una anche parziale edificazione e non completa urbanizzazione, si è affermata una soluzione interpretativa, ispirata alla esigenza di assicurare un equilibrato contemperamento dei diversi interessi in gioco, volta a valorizzare e rendere più pregnante l'onere motivazionale gravante a carico della amministrazione interessata.
In tali casi, si ritiene che la amministrazione sia tenuta altresì a verificare e valutare quale sia lo stato di urbanizzazione già presente nella zona e debbia congruamente evidenziare e motivare quali siano le concrete e ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione.
   - È stato anche osservato al riguardo che l'Ente locale, avendo la disponibilità dei dati tecnici attestanti la reale consistenza del reticolo connettivo del suo territorio, sia per quanto concerne la urbanizzazione primaria, sia per le opere di urbanizzazione secondaria, è senza dubbio in grado di stabilire se e in che misura un ulteriore, un eventuale carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto del territorio già realizzato o in via di realizzazione.
Ed infatti la esistenza delle opere di urbanizzazione, rilevante ai fini della necessità o meno della previa redazione di un piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo, prima del rilascio della concessione edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione di un'area -valutazione rimessa all'apprezzamento di merito dell'amministrazione- non può che essere effettuata alla stregua della normativa sugli “standards” urbanistici di cui al combinato disposto del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e art. 17 l. 06.08.1967 n. 765, onde l'equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione non è configurabile quando non si riscontri l'esistenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle quantità minime prescritte.
Tale valutazione di congruità e sufficienza rispetto agli standards previsti dalla normativa ed ai bisogni della collettività locale, è riservata al Comune al quale è consentito rifiutare ulteriori assensi edilizi, purché motivi adeguatamente le ragioni del diniego, in rapporto alla situazione generale del comprensorio a quel momento esistente.

---------------
3. L'area individuata come "attività primaria di tipo A", che non risulta essere mai stata oggetto di ritipizzazione e per la quale non è in corso alcuna procedura di variante urbanistica, secondo l’istante avrebbe subito una totale metamorfosi urbanistica, poiché, attualmente, è quasi interessata da una intensa edificazione.
Secondo il ricorrente la zona interessata dalla richiesta di accertamento di conformità si sarebbe venuta urbanizzando attraverso un processo di progressiva edificazione che, a distanza ormai di decenni dalla data di approvazione dello strumento urbanistico, renderebbe inattuale l’osservanza degli strumenti urbanistici, essendo sopravvenuti interventi che hanno modificato sostanzialmente la conformazione e strutturazione edilizia ed urbanistica dell'area.
4. Ciò premesso occorre, a questo punto, richiamare l'orientamento giurisprudenziale fatto proprio anche da questo Tribunale sulla questione di diritto sottesa al presente giudizio.
Osserva il Collegio che in materia si è consolidato un orientamento interpretativo che individua distinte soluzioni interpretative in rapporto alle diverse situazioni concrete di volta in volta emergenti.
Costituisce ormai principio pacifico ed acquisito che, la necessità della presentazione di un previo piano attuativo si impone qualora si tratti di asservire per la prima volta all'edificazione, mediante la costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate, che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
In tal caso non può prescindersi dalla previa predisposizione di un piano esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato) quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia (cfr., C.d.S., Ad. Plen., 20.05.1980, n. 18 e 06.12.1992 n. 12; Idem, Sez. V, 07.01.1999 n. 1; TAR Campania, Napoli, IV Sezione, 02.03.2000, n. 596).
Si tratta delle situazioni in cui si impone la esigenza di non infrangere la integrità originaria del territorio, sicché occorre rispettare rigorosamente la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione dello strumento urbanistico generale e della susseguente predisposizione dello strumento urbanistico d'attuazione, utile a garantire e una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico ed edilizio.
4.1. Diversamente, qualora si verta in presenza di un lotto intercluso o in altri analoghi casi in cui la zona risulti totalmente urbanizzata attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività -quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, etc.- lo strumento urbanistico esecutivo non può ritenersi più necessario e non può, pertanto, legittimarsi un rifiuto da parte del Comune che sia basato su un mero argomento formale (cfr., per tutte, TAR Campania, Napoli IV Sezione, 06.06.2000, n. 1819).
4.2. Esistono, tuttavia, delle situazioni intermedie, non necessariamente identificabili né sovrapponibili con le fattispecie di “lotto intercluso” oppure con altre similari, nelle quali l'area interessata dall'intervento può risultare anche solo in parte, edificata, e, parallelamente, può essere più o meno asservita da opere di urbanizzazione.
In tali casi, ove si è in presenza di una anche parziale edificazione e non completa urbanizzazione, si è affermata una soluzione interpretativa, ispirata alla esigenza di assicurare un equilibrato contemperamento dei diversi interessi in gioco, volta a valorizzare e rendere più pregnante l'onere motivazionale gravante a carico della amministrazione interessata.
In tali casi, si ritiene che la amministrazione sia tenuta altresì a verificare e valutare quale sia lo stato di urbanizzazione già presente nella zona e debbia congruamente evidenziare e motivare quali siano le concrete e ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione (cfr. C.d.S., Ad. Plen., 06.10.1992, n. 12; idem, V Sezione, 03.10.1997, n. 1097, 25.10.1997 n. 1189 e 18.08.1998 n. 1273; TAR Lazio, Roma, II Sezione, 29.09.2000 n. 76-OMISSIS-; TAR Campania, Napoli, IV Sezione, 02.03.2000, n. 596).
4.3. È stato anche osservato al riguardo che l'Ente locale, avendo la disponibilità dei dati tecnici attestanti la reale consistenza del reticolo connettivo del suo territorio, sia per quanto concerne la urbanizzazione primaria, sia per le opere di urbanizzazione secondaria, è senza dubbio in grado di stabilire se e in che misura un ulteriore, un eventuale carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto del territorio già realizzato o in via di realizzazione.
Ed infatti la esistenza delle opere di urbanizzazione, rilevante ai fini della necessità o meno della previa redazione di un piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo, prima del rilascio della concessione edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione di un'area -valutazione rimessa all'apprezzamento di merito dell'amministrazione- non può che essere effettuata alla stregua della normativa sugli “standards” urbanistici di cui al combinato disposto del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e art. 17 l. 06.08.1967 n. 765, onde l'equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione non è configurabile quando non si riscontri l'esistenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle quantità minime prescritte (cfr. Consiglio Stato sez. V, 29.04.2000, n. 2562).
4.4. Tale valutazione di congruità e sufficienza rispetto agli standards previsti dalla normativa ed ai bisogni della collettività locale, è riservata al Comune al quale è consentito rifiutare ulteriori assensi edilizi, purché motivi adeguatamente le ragioni del diniego, in rapporto alla situazione generale del comprensorio a quel momento esistente (TAR Puglia-Bari, Sezz. unite, sentenza 14.05.2022 n. 664 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona.
Ciò in quanto l’esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
Invero, “Per costante giurisprudenza, i casi in cui è consentito prescindere dalla formazione del piano attuativo al quale, in linea di principio, lo strumento urbanistico di livello superiore subordini il rilascio del permesso di costruire su un dato lotto sono assolutamente eccezionali, e si riducono a quelli in cui la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con il piano attuativo stesso: si fa l'esempio usuale del lotto residuale ed intercluso, che sia compreso in un'area per il resto completamente urbanizzata.
Di contro, il piano attuativo continua ad essere richiesto, e non è consentito prescindere dalla previsione del piano di livello superiore, nei casi in cui la zona sia effettivamente in gran parte edificata, ma ci si trovi di fronte ad un'edificazione disomogenea, che esige un intervento di riordino, per potenziare e armonizzare le opere di urbanizzazione esistenti. Apprezzare se sussista una situazione di quest'ultimo tipo, ovvero una quasi completa edificazione che consente di non richiedere il piano attuativo è poi espressione dell'ampia discrezionalità di cui il Comune dispone in materia urbanistica, fermo restando che è richiesta una puntuale motivazione”.
---------------

Al riguardo la giurisprudenza condivisa dal Collegio ritiene che anche in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona; ciò in quanto l’esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata (Consiglio di Stato, Sez. II, 09.12.2020, n. 7843).
Per costante giurisprudenza, i casi in cui è consentito prescindere dalla formazione del piano attuativo al quale, in linea di principio, lo strumento urbanistico di livello superiore subordini il rilascio del permesso di costruire su un dato lotto sono assolutamente eccezionali, e si riducono a quelli in cui la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con il piano attuativo stesso: si fa l'esempio usuale del lotto residuale ed intercluso, che sia compreso in un'area per il resto completamente urbanizzata.
Di contro, il piano attuativo continua ad essere richiesto, e non è consentito prescindere dalla previsione del piano di livello superiore, nei casi in cui la zona sia effettivamente in gran parte edificata, ma ci si trovi di fronte ad un'edificazione disomogenea, che esige un intervento di riordino, per potenziare e armonizzare le opere di urbanizzazione esistenti. Apprezzare se sussista una situazione di quest'ultimo tipo, ovvero una quasi completa edificazione che consente di non richiedere il piano attuativo è poi espressione dell'ampia discrezionalità di cui il Comune dispone in materia urbanistica, fermo restando che è richiesta una puntuale motivazione
” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.11.2021, n. 7620) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 13.04.2022 n. 2533 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il principio generale per il quale lo strumento urbanistico attuativo diviene superfluo e non più esigibile da parte dell'amministrazione comunale tenuta al rilascio del titolo edilizio “…. non assume valenza assoluta e deve essere contemperato con l'altro consolidato principio, secondo il quale l'esigenza di un piano urbanistico attuativo, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si impone anche per garantire un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate per le quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di una pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l'ipotesi di lotto intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa urbanizzazione.
In altri termini, il principio secondo cui può prescindersi nelle zone di espansione dalla previa presentazione di un piano particolareggiato o di lottizzazione, qualora la zona sia completamente urbanizzata, recede nel caso in cui sussista una specifica previsione della strumentazione urbanistica che imponga l'assolvimento di tale onere prima di avviare l'attività edilizia”.
---------------

1.7 Infine, non può essere valorizzata la prospettata tesi del “lotto intercluso”.
Sul punto è sufficiente richiamare l’orientamento per cui nella fattispecie il principio generale per il quale lo strumento urbanistico attuativo diviene superfluo e non più esigibile da parte dell'amministrazione comunale tenuta al rilascio del titolo edilizio “…. non assume valenza assoluta e deve essere contemperato con l'altro consolidato principio, secondo il quale l'esigenza di un piano urbanistico attuativo, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si impone anche per garantire un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate per le quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di una pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l'ipotesi di lotto intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa urbanizzazione.
In altri termini, il principio secondo cui può prescindersi nelle zone di espansione dalla previa presentazione di un piano particolareggiato o di lottizzazione, qualora la zona sia completamente urbanizzata, recede nel caso in cui sussista una specifica previsione della strumentazione urbanistica che imponga l'assolvimento di tale onere prima di avviare l'attività edilizia (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.04.2016 n. 1434; Consiglio di Stato, Sez. V, 29.02.2012 n. 1177; Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.01.2012 n. 26; TAR Campania-Napoli, Sez. II, 03.07.2017 n. 3538 e 05.04.2016 n. 1662; TAR Campania Salerno, Sez. I, 23.03.2015 n. 633; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 03.07.2012 n. 3140)
” (TAR Campania-Napoli, sez. II – 16/06/2020 n. 2449; cfr. anche Consiglio di Stato, sez. II – 18/03/2020 n. 1926) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 09.03.2022 n. 247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa necessità dello strumento attuativo è superata nei casi in cui la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, renda inutile il ricorso ad una pianificazione di dettaglio.
In particolare, il titolo abilitativo edilizio può essere oggetto di rilascio anche in assenza del piano attuativo, richiesto dalle norme di piano regolatore, quando il lotto del richiedente possa definirsi “intercluso”, ossia quando l’area sia l’unica a non essere stata ancora edificata, trovandosi in una zona integralmente interessata da costruzioni e dotata delle opere di urbanizzazione.
Il lotto, al fine di essere considerato “intercluso”, deve presentare alcune caratteristiche, ed in particolare ciò “si realizza allorquando l’area edificabile di proprietà del richiedente il permesso di costruire:
   a) sia l’unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g.”.
In altri termini, è possibile prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme tecniche di piano solo ove nell’area interessata sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante dall’attuazione della lottizzazione stessa, quando, in particolare, nell’area siano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti.
Tuttavia, il titolo abilitativo edilizio non può essere rilasciato in assenza di un piano attuativo nell’ipotesi in cui, “per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all’edificazione”.
Infatti, il piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si rivela necessario al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti, nonché di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate.
---------------

Il Collegio osserva che, come più volte affermato in sede pretoria, la necessità dello strumento attuativo è superata nei casi in cui la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, renda inutile il ricorso ad una pianificazione di dettaglio.
In particolare, il titolo abilitativo edilizio può essere oggetto di rilascio anche in assenza del piano attuativo, richiesto dalle norme di piano regolatore, quando il lotto del richiedente possa definirsi “intercluso”, ossia quando l’area sia l’unica a non essere stata ancora edificata, trovandosi in una zona integralmente interessata da costruzioni e dotata delle opere di urbanizzazione.
Il lotto, al fine di essere considerato “intercluso”, deve presentare alcune caratteristiche, ed in particolare ciò “si realizza allorquando l’area edificabile di proprietà del richiedente il permesso di costruire: a) sia l’unica a non essere stata ancora edificata; b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni; c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici; d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g.” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 07/11/2014, n. 5488; Cons. Stato, Sez. II, 18/08/2020, n. 5073; Cons. Stato, Sez. II, 08/06/2021, n. 4378; Cons. Stato, Sez. IV, 23/12/2021, n. 8544).
In altri termini, è possibile prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme tecniche di piano solo ove nell’area interessata sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante dall’attuazione della lottizzazione stessa, quando, in particolare, nell’area siano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti.
Tuttavia, il titolo abilitativo edilizio non può essere rilasciato in assenza di un piano attuativo nell’ipotesi in cui, “per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all’edificazione” (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 03/06/2020, n. 3472).
Infatti, il piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si rivela necessario al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti, nonché di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 12/07/2018, n. 4271; Cons. Stato, Sez. IV, 13/04/2016, n. 1434; Cons. Stato, Sez. IV, 17/07/2013, n. 3880) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 01.03.2022 n. 362 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACome chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, «in termini urbanistico-edilizi, la nozione di lotto intercluso, siccome strettamente correlata alla possibilità di edificare un fondo in assenza di un piano urbanistico attuativo o di un piano di lottizzazione, non richiede affatto l'interclusione del terreno da tutti i lati, ma l'esistenza di un'area c.d. "relitto" e autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita: ossia, compiutamente e definitivamente collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione (strade, servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili adiacenti».
---------------

Anche con riferimento al rispetto della disciplina relativa al lotto minimo, con l’ordinanza n. 394 del 2019 (punto 5) è stato demandato al verificatore il calcolo delle superfici interessate.
Il verificatore ha convenuto sulla circostanza che il lotto della società Ri. ha una superficie complessiva pari a 1170 mq, pertanto inferiore al lotto minimo prescritto dall’art. 55, comma 18, NTA, ritenendo, tuttavia, che la normativa urbanistica non sia stata violata, stante l’applicabilità della disciplina specificamente posta per il lotto intercluso dal successivo comma 19.
Le conclusioni del verificatore sono meritevoli di condivisione.
Va evidenziato che il comma 19 dell’art. 55 NTA prevede che: «Nelle zone di cui al comma precedente potranno essere consentite nuove costruzioni o ampliamenti su singolo lotto, inferiore al minimo prescritto, che risulti intercluso sia da altri già edificati o destinati ad edifici pubblici, sia per effetto di vincoli di inedificabilità imposti dal nuovo PRG. Nel caso il lotto edificabile risulti inferiore al lotto minimo richiesto per una percentuale fino al 10%, l'intervento può essere realizzato compensando per la superficie mancante con aree da asservire della medesima zona urbanistica».
I due periodi del citato comma disciplinano due fattispecie differenti: al primo periodo è prevista una deroga al lotto minimo per i lotti interclusi -senza ulteriori limitazioni- mentre il secondo periodo disciplina la possibilità di integrazione del lotto minimo mediante gli asservimenti nella limitata misura del 10%.
Nel caso in esame risulta applicabile la prima previsione derogatoria in quanto, come evidenziato dal verificatore, «[d]alla disamina delle immagini disponibili sia su Google Earth o su Google Maps e da quanto verificato in sede di sopralluogo si ha evidenza che il lotto in esame, di forma pressoché rettangola, è inserito per tre lati tra tre costruzioni già esistenti, mentre il quarto lato fronteggia la pubblica via Ippocrate ed un fosso. Oltre a questo, sfruttando la visualizzazione delle immagini storiche presente in Google Earth (vedi documentazione fotografica n. 18 e n. 19) si può facilmente verificare che tutti e tre gli edifici sopra erano già presenti prima dell’inizio della costruzione di quello in esame. Si può quindi ritenere che quello in esame possa rientrare nella definizione di “lotto intercluso”».
Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, «in termini urbanistico-edilizi, la nozione di lotto intercluso, siccome strettamente correlata alla possibilità di edificare un fondo in assenza di un piano urbanistico attuativo o di un piano di lottizzazione, non richiede affatto l'interclusione del terreno da tutti i lati, ma l'esistenza di un'area c.d. "relitto" e autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita: ossia, compiutamente e definitivamente collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione (strade, servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili adiacenti» (TAR Sicilia, Catania, sez. IV, 18.01.2019, n. 64; cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. I, 26.11.2019, n. 1903)
(TAR Umbria, sentenza 31.01.2022 n. 47 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Consiglio di Stato ha fornito un interessante, quanto utile, riepilogo degli orientamenti giurisprudenziali sulla necessità o meno dell’approvazione dei piani attuativi prima del rilascio del permesso di costruire, individuando tre possibili situazioni che si possono in concreto verificare e le relative conseguenze sulla richiesta del titolo.

La prima, attiene alle zone inedificate.
Nel caso di zone assolutamente inedificate, da asservire per la prima volta all'edificazione, mediante costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate, l’esistenza del piano esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato, PUE) è senza dubbio presupposto indispensabile per il rilascio del titolo edilizio. In tali situazioni deve essere rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione del piano regolatore generale e della realizzazione dello strumento urbanistico d'attuazione, che garantisce una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico.
Pertanto, in tali casi, è da ritenersi legittimo il rigetto della istanza edificatoria fondato sulla mancanza di strumento urbanistico di attuazione.

La seconda riguarda zone totalmente urbanizzate e l’ipotesi del lotto intercluso (propugnata anche dall’appellante).
La fattispecie del lotto intercluso rappresenta una deroga eccezionale al principio generale per cui il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che si sia concluso il procedimento per la adozione dello strumento urbanistico attuativo e che lo stesso sia divenuto perfetto ed efficace.
Per “lotto intercluso” o “lotto residuo”, la giurisprudenza amministrativa intende un’area compresa in zona totalmente dotata di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti, cioè da opere e servizi realizzati per soddisfare i necessari bisogni della collettività quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, etc...
In particolare si realizza la fattispecie del lotto intercluso solo se l'area edificabile:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al Piano Regolatore Generale.
In termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare l’area in termini di lotto intercluso non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i lati, bensì l’esistenza di un’area c.d. "relitto", autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione (strade, servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili adiacenti.
In presenza del lotto intercluso, poiché la completa e razionale edificazione e urbanizzazione del comprensorio interessato ha già creato una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione del piano esecutivo (piano particolareggiato, piano di lottizzazione, etc.), lo strumento urbanistico esecutivo si ritiene superfluo. Ne deriva, in casi del genere, l'illegittimità della pretesa del Comune di subordinare il rilascio del titolo edilizio alla predisposizione di un piano di lottizzazione, pur astrattamente previsto dallo strumento generale.

La terza situazione è quella che si può definire “situazione intermedia” (pure questa propugnata dall’appellante).
Nelle situazioni intermedie, nelle quali il territorio risulti già più o meno urbanizzato, il piano attuativo diviene lo strumento indispensabile per l'ordinato assetto del territorio e il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento.
Tuttavia è stato ritenuto che quando sia ravvisabile una sostanziale, anche se non completa, urbanizzazione dell’intero comprensorio a cui appartiene l'area oggetto della richiesta edilizia, la mancanza dello strumento attuativo, in se e per sé, non può essere invocata ad esclusivo fondamento del diniego di concessione edilizia. In tal caso, l'Amministrazione dovrà condurre adeguata istruttoria al fine di valutare lo stato di urbanizzazione già presente nella zona ed evidenziare le concrete ed ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione.
Infatti solo il Comune, essendo in possesso delle informazioni concernenti l'effettiva consistenza del suo territorio, delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, dei servizi pubblici, e delle edificazioni pubbliche e private già esistenti, è in grado di stabilire se e in quale misura un ulteriore eventuale carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto del territorio già presente.

Il Comune, quindi, dovrà preventivamente esaminare, in relazione alla dimensione dell'intervento richiesto, allo stato dei luoghi, alla documentazione prodotta dall'interessato ed alle prescrizioni di zona del piano di fabbricazione, se il Piano regolatore fornisca indicazioni esaustive sulle modalità edificatorie nonché lo stato di urbanizzazione e di edificazione dell'area interessata in relazione all'adeguatezza e fruibilità delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di conseguenza valutare se persiste o meno la necessità di adottare il piano attuativo prima del rilascio del permesso di costruire, dando atto delle dette verifiche nelle motivazioni della propria decisione.

Sempre in tema, avuto riguardo al profilo del silenzio-assenso, la giurisprudenza ha affermato che, in linea di principio, l’equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di sufficiente urbanizzazione ai fini del rilascio del titolo edilizio non opera nel procedimento di formazione del silenzio-assenso sulla domanda di costruzione.
---------------

9. L’appello è fondato, nei sensi e limiti che di seguito verranno esposti.
9.1. L’area in argomento è classificata come zona D2.2 (artigianali e commerciali di nuovo impianto e di ristrutturazione urbanistica) del P.R.G.
Ai sensi dell’art. 49 delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G., nella zona D2.2 non sono ammessi interventi diretti ma si rende necessaria la preventiva approvazione del Piano Urbanistico Esecutivo (P.U.E.) per l’intera zona risultante dalla cartografia di P.R.G. (vedi memoria-documento depositato dal Comune nel giudizio di primo grado in data 22.05.2020).
9.2. Il Consiglio di Stato (sez. IV, sentenza 03/12/2019, n. 8270) ha fornito un interessante, quanto utile, riepilogo degli orientamenti giurisprudenziali sulla necessità o meno dell’approvazione dei piani attuativi prima del rilascio del permesso di costruire, individuando tre possibili situazioni che si possono in concreto verificare e le relative conseguenze sulla richiesta del titolo.
La prima, attiene alle zone inedificate.
Nel caso di zone assolutamente inedificate, da asservire per la prima volta all'edificazione, mediante costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate, l’esistenza del piano esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato, PUE) è senza dubbio presupposto indispensabile per il rilascio del titolo edilizio. In tali situazioni deve essere rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione del piano regolatore generale e della realizzazione dello strumento urbanistico d'attuazione, che garantisce una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico.
Pertanto, in tali casi, è da ritenersi legittimo il rigetto della istanza edificatoria fondato sulla mancanza di strumento urbanistico di attuazione.
La seconda riguarda zone totalmente urbanizzate e l’ipotesi del lotto intercluso (propugnata anche dall’appellante).
La fattispecie del lotto intercluso rappresenta una deroga eccezionale al principio generale per cui il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che si sia concluso il procedimento per la adozione dello strumento urbanistico attuativo e che lo stesso sia divenuto perfetto ed efficace.
Per “lotto intercluso” o “lotto residuo”, la giurisprudenza amministrativa intende un’area compresa in zona totalmente dotata di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti, cioè da opere e servizi realizzati per soddisfare i necessari bisogni della collettività quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, etc...
In particolare si realizza la fattispecie del lotto intercluso solo se l'area edificabile:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al Piano Regolatore Generale.
In termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare l’area in termini di lotto intercluso non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i lati, bensì l’esistenza di un’area c.d. "relitto", autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione (strade, servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili adiacenti.
In presenza del lotto intercluso, poiché la completa e razionale edificazione e urbanizzazione del comprensorio interessato ha già creato una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione del piano esecutivo (piano particolareggiato, piano di lottizzazione, etc.), lo strumento urbanistico esecutivo si ritiene superfluo. Ne deriva, in casi del genere, l'illegittimità della pretesa del Comune di subordinare il rilascio del titolo edilizio alla predisposizione di un piano di lottizzazione, pur astrattamente previsto dallo strumento generale.
La terza situazione è quella che si può definire “situazione intermedia” (pure questa propugnata dall’appellante).
Nelle situazioni intermedie, nelle quali il territorio risulti già più o meno urbanizzato, il piano attuativo diviene lo strumento indispensabile per l'ordinato assetto del territorio e il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento.
Tuttavia è stato ritenuto che quando sia ravvisabile una sostanziale, anche se non completa, urbanizzazione dell’intero comprensorio a cui appartiene l'area oggetto della richiesta edilizia, la mancanza dello strumento attuativo, in se e per sé, non può essere invocata ad esclusivo fondamento del diniego di concessione edilizia. In tal caso, l'Amministrazione dovrà condurre adeguata istruttoria al fine di valutare lo stato di urbanizzazione già presente nella zona ed evidenziare le concrete ed ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione.
Infatti solo il Comune, essendo in possesso delle informazioni concernenti l'effettiva consistenza del suo territorio, delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, dei servizi pubblici, e delle edificazioni pubbliche e private già esistenti, è in grado di stabilire se e in quale misura un ulteriore eventuale carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto del territorio già presente.
Il Comune, quindi, dovrà preventivamente esaminare, in relazione alla dimensione dell'intervento richiesto, allo stato dei luoghi, alla documentazione prodotta dall'interessato ed alle prescrizioni di zona del piano di fabbricazione, se il Piano regolatore fornisca indicazioni esaustive sulle modalità edificatorie nonché lo stato di urbanizzazione e di edificazione dell'area interessata in relazione all'adeguatezza e fruibilità delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di conseguenza valutare se persiste o meno la necessità di adottare il piano attuativo prima del rilascio del permesso di costruire, dando atto delle dette verifiche nelle motivazioni della propria decisione.
9.3. Sempre in tema, avuto riguardo al profilo del silenzio-assenso anche questo propugnato dall’appellante, la giurisprudenza ha affermato che, in linea di principio, l’equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di sufficiente urbanizzazione ai fini del rilascio del titolo edilizio non opera nel procedimento di formazione del silenzio-assenso sulla domanda di costruzione (Cons. Stato, sez. IV. 1642/2008; sez. IV, n. 3699/2010) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.12.2021 n. 8544 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAHa chiarito la giurisprudenza consolidata che "in tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute nel piano regolatore, nei piani attuativi o in altro strumento generale individuato dalla normativa regionale, si distinguono
   - le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata (nel cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione, la destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici, la localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo) e
   - le altre regole che, più in dettaglio, disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria, generalmente contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio (disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze, sull'osservanza di canoni estetici, sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali, regole tecniche sull'attività costruttiva, ecc.).
Per le disposizioni appartenenti alla prima categoria si impone, in relazione all'immediato effetto conformativo dello ius aedificandi dei proprietari dei suoli interessati che ne deriva, ove se ne intenda contestare il contenuto, un onere di immediata impugnativa in osservanza del termine decadenziale a partire dalla pubblicazione dello strumento pianificatorio. Mentre, a diversa conclusione si perviene con riguardo alle prescrizioni di dettaglio contenute nelle norme di natura regolamentare destinate a regolare la futura attività edilizia, che sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto applicativo e, dunque, possono essere oggetto di censura in occasione della sua impugnazione".
---------------
Nel sistema di pubblicità-notizia disciplinato dalla legislazione urbanistica nazionale e regionale, nonché ai sensi dell'art. 124 t.u.e.l. n. 267/2000, il termine per l'impugnazione dello strumento urbanistico generale decorre non dalla notifica ai singoli proprietari interessati dalla disciplina del territorio, ma dalla data di pubblicazione del decreto di approvazione o, al più tardi, dall'ultimo giorno della pubblicazione all'albo pretorio dell'avviso di deposito presso gli uffici comunali dei documenti riferiti al piano approvato, salvo che esso non incida specificatamente, con effetti latamente espropriativi, su singoli, determinati beni”.
Sostanzialmente, si deve far valere, non rientrando il caso di specie tra quelli che possono giustificare la deroga rappresentata dalla comunicazione individuale “il principio generale secondo cui la presunzione di conoscenza dello strumento urbanistico consegue alla mera pubblicazione dell’atto di approvazione.
---------------

6. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Le doglianze espresse dal ricorrente paiono appuntarsi, nella sostanza espositiva, su due profili di illegittimità dell'atto: l’erroneo inserimento del proprio lotto in zona C, anziché in zona B del PRG, nonché, comunque, la mancata applicazione della disciplina del cd. “fondo intercluso”.
7. Deve allora essere subito rilevato come, per quanto riguarda la presunta erronea valutazione effettuata in sede di redazione del piano, questa non può essere fatta valere nel presente giudizio. In primo luogo infatti, tale censura sarebbe inammissibile, stante l’omessa impugnazione, anche nel presente giudizio, dell’atto presupposto, ossia lo stesso Piano Regolatore Generale.
7.1. Quand’anche si riconoscesse autonomia al predetto motivo di impugnazione, si dovrebbe comunque ritenere che questa risulti irrimediabilmente tardiva, risalendo il Piano Regolatore Generale del Comune di Tropea al 1998. L’immediatezza degli effetti lesivi del piano sulla sfera giuridica di parte ricorrente porta a considerare che sarebbe stato necessario, qualora vi fossero stati motivi di doglianza, impugnare l’atto in seguito alla sua emanazione.
In tal senso infatti, ha chiarito la giurisprudenza consolidata che "in tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute nel piano regolatore, nei piani attuativi o in altro strumento generale individuato dalla normativa regionale, si distinguono le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata (nel cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione, la destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici, la localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo) e le altre regole che, più in dettaglio, disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria, generalmente contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio (disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze, sull'osservanza di canoni estetici, sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali, regole tecniche sull'attività costruttiva, ecc.).
Per le disposizioni appartenenti alla prima categoria si impone, in relazione all'immediato effetto conformativo dello ius aedificandi dei proprietari dei suoli interessati che ne deriva, ove se ne intenda contestare il contenuto, un onere di immediata impugnativa in osservanza del termine decadenziale a partire dalla pubblicazione dello strumento pianificatorio. Mentre, a diversa conclusione si perviene con riguardo alle prescrizioni di dettaglio contenute nelle norme di natura regolamentare destinate a regolare la futura attività edilizia, che sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto applicativo e, dunque, possono essere oggetto di censura in occasione della sua impugnazione
" (Cons. Stato, sez. VI, 28.06.2021, n. 4887; Cons. Stato, sez. IV, 12.02.2021, n. 1276).
Orbene, nel caso di specie la censura investe proprio la circostanza per cui la zonizzazione operata in zona C e non B determinerebbe l'impossibilità per il ricorrente di porre in essere alcuna attività di edificazione nel suo fondo, salva l'applicazione della disciplina del lotto intercluso, anch'essa oggetto di censura e di cui si dirà infra; di tal che, il PRG assume, sotto questo profilo, immediata portata lesiva, ma non è stato impugnato, tanto meno tempestivamente.
Né sarebbe opponibile, come del resto non è stato fatto, la mancata comunicazione o notificazione individuale.
Infatti, deve ricordarsi come “nel sistema di pubblicità-notizia disciplinato dalla legislazione urbanistica nazionale e regionale, nonché ai sensi dell'art. 124 t.u.e.l. n. 267/2000, il termine per l'impugnazione dello strumento urbanistico generale decorre non dalla notifica ai singoli proprietari interessati dalla disciplina del territorio, ma dalla data di pubblicazione del decreto di approvazione o, al più tardi, dall'ultimo giorno della pubblicazione all'albo pretorio dell'avviso di deposito presso gli uffici comunali dei documenti riferiti al piano approvato, salvo che esso non incida specificatamente, con effetti latamente espropriativi, su singoli, determinati beni” (Cons. di Stato, sez. VI, 13.02.2017, n. 622).
Sostanzialmente, si deve far valere, non rientrando il caso di specie tra quelli che possono giustificare la deroga rappresentata dalla comunicazione individuale “il principio generale secondo cui la presunzione di conoscenza dello strumento urbanistico consegue alla mera pubblicazione dell’atto di approvazione” (Cons. di Stato, sez. VI, 17.05.2021, n. 3834).
7.2. Da quanto esposto consegue che gli ipotetici vizi del piano regolatore non possono essere esaminati in questa sede, non essendo stati fatti valere nei termini previsti per la loro impugnazione (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 23.12.2021 n. 2348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve rilevarsi come la giurisprudenza, nell’ammettere casi in cui non sia necessario un piano attuativo dello strumento urbanistico generale, specifichi i requisiti necessari per poter adottare questo regime facilitato. Non bisogna, infatti, trascurare, come quella del fondo intercluso si ponga come una deroga alla disciplina generale e che, pertanto, possa essere accettata soltanto al ricorrere di determinate condizioni.
In tal senso, infatti, la giurisprudenza amministrativa "ritiene realizzata la fattispecie del lotto intercluso solo se l'area edificabile di proprietà del richiedente:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al Piano Regolatore Generale.
In termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare l’area in termini di lotto intercluso non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i lati, bensì l’esistenza di un’area c.d. "relitto", autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione (strade, servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili adiacenti.
In presenza del lotto intercluso, poiché la completa e razionale edificazione e urbanizzazione del comprensorio interessato ha già creato una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione del piano esecutivo (piano particolareggiato, piano di lottizzazione, etc.), lo strumento urbanistico esecutivo si ritiene superfluo”.
---------------

8. Il ricorrente ha compiutamente invece lamentato la mancata applicazione nel suo caso della disciplina riguardante il fondo intercluso.
Sul punto, deve rilevarsi come la giurisprudenza, nell’ammettere casi in cui non sia necessario un piano attuativo dello strumento urbanistico generale, specifichi i requisiti necessari per poter adottare questo regime facilitato. Non bisogna, infatti, trascurare, come quella del fondo intercluso si ponga come una deroga alla disciplina generale e che, pertanto, possa essere accettata soltanto al ricorrere di determinate condizioni.
8.1. In tal senso, infatti, la giurisprudenza amministrativa "ritiene realizzata la fattispecie del lotto intercluso solo se l'area edificabile di proprietà del richiedente:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al Piano Regolatore Generale.
In termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare l’area in termini di lotto intercluso non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i lati, bensì l’esistenza di un’area c.d. "relitto", autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione (strade, servizi, piazze, giardini) e/o con altri immobili adiacenti.
In presenza del lotto intercluso, poiché la completa e razionale edificazione e urbanizzazione del comprensorio interessato ha già creato una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione del piano esecutivo (piano particolareggiato, piano di lottizzazione, etc.), lo strumento urbanistico esecutivo si ritiene superfluo
” (Cons. Stato, sez. II, 03.12.2019, n. 8270) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 23.12.2021 n. 2348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo condivisibile giurisprudenza, "in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l’esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare questa prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa né surrogare l’assenza del piano attuativo con l’imposizione di opere di urbanizzazione all’atto del rilascio del titolo edilizio. L’inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare, vanificando la funzione del piano attuativo”.
Peraltro, la giurisprudenza configura come del tutto eccezionali le fattispecie in cui sono superabili le previsioni degli strumenti urbanistici che condizionano il rilascio del titolo edilizio alla presentazione di piani attuativi. Tali fattispecie riguardano i casi “nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata)”.
In altre parole, l’omissione dello strumento attuativo, così come la configurazione dell’ipotesi del c.d. “lotto intercluso”, rappresentano, alla stregua dell’insegnamento giurisprudenziale, ipotesi eccezionali, associate peraltro a rilevanti oneri probatori ricadenti sulla parte privata.
---------------

3.2. Secondo la condivisibile giurisprudenza del Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa, “in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l’esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare questa prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa né surrogare l’assenza del piano attuativo con l’imposizione di opere di urbanizzazione all’atto del rilascio del titolo edilizio. L’inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare, vanificando la funzione del piano attuativo” (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. II, 31.10.2019, n. 7463).
3.3. Reputa il Collegio che, in difetto del piano attuativo o di misure equipollenti, debba escludersi la possibilità di accedere alla richiesta, formulata da ultimo dalla ricorrente, di verificazione o CTU nel presente grado di giudizio, giacché la portata imperativa e inderogabile della normativa urbanistica in subiecta materia porta a ritenere infondate le censure riguardanti vizi della motivazione e dell’istruttoria del provvedimento impugnato, non essendo nella disponibilità dell’Amministrazione porre nel nulla la prescrizione di strumenti di attuazione contenuta negli atti di pianificazione.
3.4. Peraltro, la giurisprudenza citata dalla ricorrente a sostegno dei motivi di ricorso configura come del tutto eccezionali (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 19.03.2018, n. 1707) le fattispecie in cui sono superabili le previsioni degli strumenti urbanistici che condizionano il rilascio del titolo edilizio alla presentazione di piani attuativi. Tali fattispecie riguardano i casi “nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata)” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 8469/2019).
3.5. In altre parole, l’omissione dello strumento attuativo, così come la configurazione dell’ipotesi del c.d. “lotto intercluso”, rappresentano, alla stregua dell’insegnamento giurisprudenziale, ipotesi eccezionali, associate peraltro a rilevanti oneri probatori ricadenti sulla parte privata (Cons. Stato, Sez. VI, n. 1707/2018 cit.) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 09.12.2021 n. 1801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' principio ormai acquisito che la necessità di preventiva presentazione di un piano attuativo si impone qualora si tratti di asservire per la prima volta all’edificazione, mediante la costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate che obiettivamente richiedano la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria; in tal caso, non può prescindersi dalla previa predisposizione della pianificazione attuativa, sotto forma di piano particolareggiato o di piano/convenzione di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire.
Diversamente, quando si verta in presenza di un lotto intercluso o in altri casi analoghi in cui la zona risulti totalmente urbanizzata attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività, quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione dell’acqua, dell’energia elettrica e del gas, scuole, ecc., lo strumento urbanistico attuativo deve ritenersi superfluo e non più esigibile da parte dell’amministrazione comunale tenuta al rilascio del titolo edilizio.
Tuttavia, il delineato principio generale non assume valenza assoluta e deve essere contemperato con l’altro consolidato principio, secondo il quale l’esigenza di un piano urbanistico attuativo, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si impone anche per garantire un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate per le quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di una pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l’ipotesi di lotto intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa urbanizzazione.
In altri termini, il principio secondo cui può prescindersi nelle zone di espansione dalla previa presentazione di un piano particolareggiato o di lottizzazione qualora la zona sia completamente urbanizzata, recede nel caso in cui sussista una specifica previsione della strumentazione urbanistica che imponga l’assolvimento di tale onere prima di avviare l’attività edilizia.

---------------

Considerato che:
   - tale censura va disattesa;
   - infatti, è ben vero che è principio ormai acquisito che la necessità di preventiva presentazione di un piano attuativo si impone qualora si tratti di asservire per la prima volta all’edificazione, mediante la costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate che obiettivamente richiedano la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria; in tal caso, non può prescindersi dalla previa predisposizione della pianificazione attuativa, sotto forma di piano particolareggiato o di piano/convenzione di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire.
Diversamente, quando si verta in presenza di un lotto intercluso o in altri casi analoghi in cui la zona risulti totalmente urbanizzata attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività, quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione dell’acqua, dell’energia elettrica e del gas, scuole, ecc., lo strumento urbanistico attuativo deve ritenersi superfluo e non più esigibile da parte dell’amministrazione comunale tenuta al rilascio del titolo edilizio (cfr. per tutte TAR Sicilia Catania, Sez. I, 29.10.2015 n. 2518).
Tuttavia, il delineato principio generale non assume valenza assoluta e deve essere contemperato con l’altro consolidato principio, secondo il quale l’esigenza di un piano urbanistico attuativo, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si impone anche per garantire un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate per le quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di una pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l’ipotesi di lotto intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa urbanizzazione; in altri termini, il principio secondo cui può prescindersi nelle zone di espansione dalla previa presentazione di un piano particolareggiato o di lottizzazione qualora la zona sia completamente urbanizzata, recede nel caso in cui sussista una specifica previsione della strumentazione urbanistica che imponga l’assolvimento di tale onere prima di avviare l’attività edilizia (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.04.2016 n. 1434; Consiglio di Stato, Sez. V, 29.02.2012 n. 1177; Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.01.2012 n. 26; TAR Campania Napoli, Sez. II, 03.07.2017 n. 3538 e 05.04.2016 n. 1662; TAR Campania Salerno, Sez. I, 23.03.2015 n. 633; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 03.07.2012 n. 3140).
Orbene, applicando le suesposte coordinate ermeneutiche al caso in questione, deve essere affermata l’inattaccabilità della ragione ostativa al rilascio del titolo edilizio in sanatoria individuata dall’amministrazione con riguardo alla carenza della pianificazione attuativa, se solo si pone mente al dato pacifico che l’art. 42 delle NTA del PRG subordina espressamente l’espletamento dell’attività edificatoria nella zona D2 di interesse alla previa approvazione di piani urbanistici esecutivi (di iniziativa pubblica o privata) o di un progetto unitario per superfici non inferiori a 60.000 mq.;
   - quanto sopra esposto riveste carattere assorbente ed esime il Collegio dall’esaminare le rimanenti censure con cui parte ricorrente contesta il gravato diniego di sanatoria in ordine ai profili motivazionali emarginati alle lettere ii) e iii) del superiore “Rilevato che”, dal momento che comunque l’impianto complessivo di tale atto risulta validamente sorretto dalla mancanza della pianificazione attuativa.
Soccorre, al riguardo, il condiviso principio secondo il quale, laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento (cfr. Consiglio di Stato, A.P., 29.02.2016 n. 5; Consiglio di Stato, Sez. V, 06.03.2013 n. 1373 e 27.09.2004 n. 6301; Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.07.2010 n. 4243);
   - nemmeno l’ultima doglianza rivolta nei confronti del diniego di sanatoria, incentrata sulla violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990 in ragione dell’omesso invio del preavviso di rigetto, a ben vedere si profila convincente; difatti, il provvedimento in parola non riesce ad essere inficiato dalla dedotta omissione, in quanto appare evidente, alla luce delle circostanze del caso e di quanto poco sopra esplicitato, che il contenuto della negativa (e vincolata) disposizione comunale non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sicché la partecipazione della società interessata non avrebbe comunque influito nel determinare un esito diverso dell’istanza di accertamento di conformità, secondo il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990 (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.11.2021 n. 7608 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di solito contenute nelle n.t.a.- sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo.
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
   a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento;
   b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa;
   c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; invero, l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo;
   d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo, circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritardata, può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema;
   e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
La giurisprudenza ha individuato, tuttavia, un’eccezione a tale stringente necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del territorio: il cd “lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo la detta impostazione, allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico, essendo stato raggiunto lo scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi/attuativi.
Per altro, la giurisprudenza si è spinta a puntualizzare il bisogno di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, anche al fine ricordato dal Comune ossia “allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti ... onde essa potrebbe essere rinvenuta finanche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata”.
Comunque, più in generale, con riferimento al grado di urbanizzazione, la relativa valutazione, a fronte della ratio e della natura eccezionale della regola sottesa al c.d. “lotto intercluso”, in assenza di strumento attuativo, deve ritenersi rimessa all’esclusivo apprezzamento discrezionale del comune, che, semmai, ove intenda rilasciare il titolo edilizio, deve compiere una penetrante istruttoria per accertare che la pianificazione esecutiva non conservi una qualche utile funzione, anche in relazione a situazioni di degrado che possano recuperare margini di efficienza abitativa, riordino e completamento razionale e non sia in grado di esprimere scelte programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel p.r.g..

---------------
Lo strumento urbanistico attuativo non è necessario sia in caso di c.d. "lotto intercluso" sia in altri casi analoghi, per i quali, essendo la zona d'intervento totalmente urbanizzata, il piano esecutivo sarebbe ormai privo d'oggetto.
In altri termini, la completa urbanizzazione del sito rende inutile il piano di lottizzazione, quale strumento di regia della regolamentazione armonica di dettaglio del territorio.
Peraltro, la completa urbanizzazione non sempre comporta la possibilità di soprassedere al piano attuativo, ove il Comune, ovviamente adeguatamente motivando un diniego, fornisca idonee giustificazioni circa le ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione.
Quindi, “il principio secondo cui va esclusa la necessità di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone già urbanizzate è applicabile solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (si pensi al caso del lotto residuale ed intercluso in area compiutamente urbanizzata), ma non anche alle ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che assai più di altre esige un piano attuativo idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora addirittura definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona”.
In conclusione, “l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della "maglia", e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata
.

---------------

 IV. Ciò posto, la Sezione ha avuto modo di chiarire (cfr. TAR Catania, I, 29/05/2019, n. 1313) «che costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di solito contenute nelle n.t.a.- sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo (cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625)
».
«Corollari immediati di tale principio fondamentale, come ricordato da recente giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. IV, 07.11.2014, n. 5488; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 02.03.2017, n. 352), sono:
   a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento (cfr. Cons. St., sez. V, 01.04.1997, n. 300);
   b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471);
   c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; invero, l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo (cfr. Cons. St., sez. IV, 26.01.1998, n. 67; Cass. pen., sez. III, 26.01.1998, n. 302; Cons. St., sez. V, 15.01.1997, n. 39);
   d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo, circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritardata, può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema (cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625);
   e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (cfr. Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n. 35880)
».
«La giurisprudenza ha individuato, tuttavia, un’eccezione a tale stringente necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del territorio: il cd “lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo la detta impostazione, allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.01.2008, n. 268; sez. V, 03.03.2004, n. 1013; sez. IV, Sent., 10.06.2010, n. 3699), essendo stato raggiunto lo scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi/attuativi
».
Per altro, continua la detta decisione n. 1313/2019, «la giurisprudenza si è spinta a puntualizzare il bisogno di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, anche al fine ricordato dal Comune ossia “allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti ... onde essa potrebbe essere rinvenuta finanche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata” (C.S., sez. V, n. 5450 del 2011 e giurisprudenza ivi richiamata; C.S. sez. IV, n. 1906/2018).
Comunque, più in generale, con riferimento al grado di urbanizzazione, la relativa valutazione, a fronte della ratio e della natura eccezionale della regola sottesa al c.d. “lotto intercluso”, in assenza di strumento attuativo, deve ritenersi rimessa all’esclusivo apprezzamento discrezionale del comune (cfr. Cons. St., sez. IV, 01.08.2007, n. 4276; Cons. St. sez. IV, 10.06.2010, n. 3699), che, semmai, ove intenda rilasciare il titolo edilizio, deve compiere una penetrante istruttoria per accertare che la pianificazione esecutiva non conservi una qualche utile funzione, anche in relazione a situazioni di degrado che possano recuperare margini di efficienza abitativa, riordino e completamento razionale e non sia in grado di esprimere scelte programmatorie distinte rispetto a quelle contenute nel p.r.g. (cfr. Cons. St. sez. V, 27.10.2000, n. 5756; sez. V, 08.07.1997, n. 772, sez. IV, 10.06.2010, n. 3699)
».
In altri termini, posto che non viene contestato, e quindi rimane incontestabile, che il PRG preveda la possibilità di assenso soltanto mediante un piano di lottizzazione, la perfetta urbanizzazione della zona, ad avviso di parte ricorrente, renderebbe, per giurisprudenza costante, inutile il ricorso a detta forma autorizzatoria per un intervento edificatorio nel territorio, essendo sufficiente la semplice concessione edilizia.
Come già ritenuto (cfr. TAR Catania, I, 11.01.2011, n. 8; 03.12.2010, n. 4610), <<l’art. 21, comma 3, della l.r. 27.12.1978, n. 71, così recita: "A modifica di quanto prescritto nel punto II dell'art. 28 della legge regionale 26.05.1973, n. 21, ferme restando le altre disposizioni agevolative contenute nella predetta norma, l'attuazione degli strumenti urbanistici generali, relativamente alle zone territoriali "B", può effettuarsi a mezzo di singole concessioni, quando esistano le opere di urbanizzazione primaria (almeno rete idrica, viaria e fognante) e risultino previste dallo strumento urbanistico generale quelle di urbanizzazione secondaria.".
Lo strumento urbanistico attuativo, quindi, non è necessario sia in caso di c.d. "lotto intercluso" sia in altri casi analoghi, per i quali, essendo la zona d'intervento totalmente urbanizzata, il piano esecutivo sarebbe ormai privo d'oggetto (cfr., ex multis, Consiglio Stato, sez. V, 22.06.2004, n. 4350; TAR Lazio Roma, sez. II, 06.03.2007, n. 2195).
«In altri termini, la completa urbanizzazione del sito rende inutile il piano di lottizzazione, quale strumento di regia della regolamentazione armonica di dettaglio del territorio».
Peraltro, la completa urbanizzazione non sempre comporta la possibilità di soprassedere al piano attuativo, ove il Comune, ovviamente adeguatamente motivando un diniego, fornisca idonee giustificazioni circa le ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione (cfr., TAR Puglia Lecce, sez. III, 02.02.2005, n. 440 e giurisprudenza ivi citata).
Quindi (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 07.11.2001, n. 5721), “il principio secondo cui va esclusa la necessità di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone già urbanizzate è applicabile solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (si pensi al caso del lotto residuale ed intercluso in area compiutamente urbanizzata: Sez. V, 26.09.1995, n. 1351), ma non anche alle ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che assai più di altre esige un piano attuativo idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora addirittura definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona”.
In conclusione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.10.2010, n. 7486), “l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della "maglia", e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata (Consiglio Stato: sez. IV, 01.10.2007, n. 5043 e 15.05.2002, n. 2592; sez. V, 01.12.2003, n. 7799 e 06.10.2000, n. 5326)
>>.
Ciò posto, il provvedimento impugnato contesta la possibilità di soprassedere al piano di lottizzazione, ritenendolo necessario, come per altro si evince anche in sede di accoglimento dell’osservazione al P.R.G., laddove le opere di completamento urbanistico secondario vengono delegate alla fase attuativa del Piano regolatore.
Vi è di più.
Come premesso, l’area in questione non si identifica né come residuale, né come, appunto, completamente urbanizzata (altrimenti, per altro, più debitamente sarebbe stata classificata come “B”, circostanza, questa, come chiarito, comunque non dirimente, sicché, a fortiori, non può dirsi lo sia per la zona “C”), di guisa che non sussiste alcuno dei presupposti sopra rappresentati per ritenere inutile una pianificazione d’insieme attuativa, rimanendo sufficiente il semplice titolo edilizio diretto.
Né, conclusivamente, sussistono i presupposti per la configurazione di un lotto intercluso, le cui specifiche caratteristiche non sono state dimostrate, né, invero, sostenute (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 08.11.2021 n. 3326 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento alle caratteristiche di “lotto intercluso”, il Collegio rileva che la pretermissione della pianificazione attuativa che sia imposta da un P.R.G. (a mezzo, in particolare, di un Piano particolareggiato o di una lottizzazione convenzionata) configura una fattispecie eccezionale (che consegue appunto solo alla comprovata ricorrenza, nel lotto interessato, dei caratteri propri del cd. “fondo intercluso”).
In sostanza, il soggetto interessato a procedere ad attività di costruzione senza la previa predisposizione degli strumenti attuativi richiesti dalla locale disciplina urbanistica, ha l’onere di dimostrare che il proprio terreno è l’unico a non essere ancora stato edificato nell’ambito di una zona dotata di tutte le opere di urbanizzazione nella misura individuata dalla normativa di settore e dal locale P.R.G. come standard minimo.
Altrimenti detto, l’interessato ha l’onere di dimostrare sia che nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall’attuazione della lottizzazione stessa, in considerazione della presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti, sia che il proprio fondo sia l’unico a non essere stato ancora edificato.
---------------

Quanto al dedotto difetto di motivazione del provvedimento impugnato con riferimento alle caratteristiche di “lotto intercluso” di cui godrebbe il lotto della ricorrente, il Collegio rileva che la pretermissione della pianificazione attuativa che sia imposta da un P.R.G. (a mezzo, in particolare, di un Piano particolareggiato o di una lottizzazione convenzionata) configura una fattispecie eccezionale (che consegue appunto solo alla comprovata ricorrenza, nel lotto interessato, dei caratteri propri del cd. “fondo intercluso”).
In sostanza, il soggetto interessato a procedere ad attività di costruzione senza la previa predisposizione degli strumenti attuativi richiesti dalla locale disciplina urbanistica, ha l’onere di dimostrare che il proprio terreno è l’unico a non essere ancora stato edificato nell’ambito di una zona dotata di tutte le opere di urbanizzazione nella misura individuata dalla normativa di settore e dal locale P.R.G. come standard minimo.
Altrimenti detto, l’interessato ha l’onere di dimostrare sia che nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall’attuazione della lottizzazione stessa, in considerazione della presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti, sia che il proprio fondo sia l’unico a non essere stato ancora edificato (Cons. Stato Sez. IV, 14/11/2018, n. 6417) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 29.10.2021 n. 2933 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va riconosciuto che in termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare un lotto come “intercluso” non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i lati e l’assenza di un’uscita sulla strada pubblica, secondo la nozione “civilistica” (interclusione “assoluta”), bensì l'esistenza di un'area c.d. "relitto", autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione o con altri immobili adiacenti.
La giurisprudenza, nell’individuare la condizione del lotto intercluso quale ipotesi derogatoria alla necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del territorio, ne ha indicato i presupposti nel fatto che l'area sia l'unica a non essere stata ancora edificata in una zona integralmente interessata da costruzioni, che sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie) previste dagli strumenti urbanistici e che sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al piano regolatore generale.
In tale ipotesi “lo strumento urbanistico deve considerarsi superfluo posto che è stata ormai raggiunta la piena edificazione e urbanizzazione della zona interessata, raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo)”.
---------------

Ciò premesso, con il primo motivo di ricorso gli esponenti denunciano che l’area di loro proprietà, in quanto interclusa e comunque inserita in un contesto interamente residenziale, avrebbe le caratteristiche proprie dell’ambito di completamento, corrispondendo esattamente alla definizione prevista dalla normativa regionale, risultando -per contro- errata la qualificazione recata dalla contro-deduzione comunale, ove si afferma che l’area dovrebbe essere considerata come “Ambito di Trasformazione” e, come tale, essere sottoposta a nuove valutazioni in sede di VAS.
Va riconosciuto che in termini urbanistico-edilizi, per poter qualificare un lotto come “intercluso” non è necessaria l'interclusione del terreno da tutti i lati e l’assenza di un’uscita sulla strada pubblica, secondo la nozione “civilistica” (interclusione “assoluta”), bensì l'esistenza di un'area c.d. "relitto", autonomamente edificabile perché già urbanisticamente definita, ossia compiutamente e definitivamente collegata e integrata con già esistenti opere di urbanizzazione o con altri immobili adiacenti (Cons. Stato, Sez. II, 03.12.2019, n. 8270).
La giurisprudenza, nell’individuare la condizione del lotto intercluso quale ipotesi derogatoria alla necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del territorio, ne ha indicato i presupposti nel fatto che l'area sia l'unica a non essere stata ancora edificata in una zona integralmente interessata da costruzioni, che sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie) previste dagli strumenti urbanistici e che sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al piano regolatore generale. In tale ipotesi “lo strumento urbanistico deve considerarsi superfluo posto che è stata ormai raggiunta la piena edificazione e urbanizzazione della zona interessata, raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo)” (Cons. Stato, Sez. IV, 07.12.2014 n. 5488).
Dette caratteristiche non ricorrono nel caso di specie e, comunque, le allegazioni dei ricorrenti sono inidonee a documentarne specificamente e comprovarne la sussistenza, considerato tra l’altro che la qualificazione del lotto quale “reliquato” rimasto inedificato, dagli stessi invocata, confligge con il fatto che il terreno di cui è questione non solo confina a sud con la strada comunale ma che anche la più ampia adiacente area a nord risulta attualmente non edificata (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 30.03.2020, n. 255) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.06.2021 n. 563 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa verifica della condizione di perdurante insufficienza dell’urbanizzazione primaria e secondaria, alla quale è funzionalmente collegata l’esigenza di approvare gli strumenti attuativi, è stata affrontata dalla giurisprudenza amministrativa che, già in epoca risalente, ha affermato, in via generale, che ai fini del rilascio di una concessione edilizia uno stato di sufficiente urbanizzazione della zona, che rende superflua la pianificazione di dettaglio, deve ritenersi equivalente all’operatività di un piano attuativo ancorché previsto dal piano regolatore generale.
Spetta tuttavia al Comune verificare l’effettiva concreta completa urbanizzazione dell’area in cui si dovrebbe inserire l'intervento costruttivo del privato e accertare quindi la compatibilità effettiva del nuovo insediamento edilizio rispetto allo stato di urbanizzazione della zona.
La valutazione della situazione di fatto e, quindi, la ritenuta sussistenza o meno dello stato di sufficiente urbanizzazione, rientra dunque nella potestà discrezionale tecnico amministrativa del Comune e, come tale, non è sindacabile davanti al giudice amministrativo salvi i casi di abuso macroscopico.
Il vincolo imposto dalla precitata disciplina urbanistica potrebbe essere superato solo nell’ipotesi in cui il lotto oggetto di intervento fosse del tutto “intercluso”, nel senso che è stato precisato dalla giurisprudenza oramai pacifica, ossia in presenza dei seguenti presupposti:
   a) sia l’unico, nel comparto di riferimento, a non essere ancora stato edificato;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni e dotata di tutte le opere di urbanizzazione, primaria e secondaria, previste dagli strumenti urbanistici.
---------------
Ben può giustificarsi e risultare pienamente legittima la previsione della necessità di un piano attuativo, anche con riferimento a zone del tessuto urbano che risultino già edificate e dotate delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Costituisce ius receptum che:
   a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il p.r.g. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo;
   b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell’ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all’edificazione);
   c) l’esigenza di un piano particolareggiato, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
Nel dettaglio, si è statuito che “Pure in presenza di una zona già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standard minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione".

---------------

18. La verifica della condizione di perdurante insufficienza dell’urbanizzazione primaria e secondaria, alla quale è funzionalmente collegata l’esigenza di approvare gli strumenti attuativi, è stata affrontata dalla giurisprudenza amministrativa che, già in epoca risalente (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 13.10.1988, n. 561; Consiglio di Stato, Sezione V, 05.05.1990, n. 425), ha affermato, in via generale, che ai fini del rilascio di una concessione edilizia uno stato di sufficiente urbanizzazione della zona, che rende superflua la pianificazione di dettaglio, deve ritenersi equivalente all’operatività di un piano attuativo ancorché previsto dal piano regolatore generale.
19. Spetta tuttavia al Comune verificare l’effettiva concreta completa urbanizzazione dell’area in cui si dovrebbe inserire l'intervento costruttivo del privato e accertare quindi la compatibilità effettiva del nuovo insediamento edilizio rispetto allo stato di urbanizzazione della zona (cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, 04.05.1995, n. 699).
20. La valutazione della situazione di fatto e, quindi, la ritenuta sussistenza o meno dello stato di sufficiente urbanizzazione, rientra dunque nella potestà discrezionale tecnico amministrativa del Comune e, come tale, non è sindacabile davanti al giudice amministrativo salvi i casi di abuso macroscopico (cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 11.06.2002, n. 3253).
21. Il vincolo imposto dalla precitata disciplina urbanistica potrebbe essere superato solo nell’ipotesi in cui il lotto oggetto di intervento fosse del tutto “intercluso”, nel senso che è stato precisato dalla giurisprudenza oramai pacifica (per tutte: Consiglio di Stato, Sezione II, n. 4224 del 20.062019), ossia in presenza dei seguenti presupposti:
   a) sia l’unico, nel comparto di riferimento, a non essere ancora stato edificato;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni e dotata di tutte le opere di urbanizzazione, primaria e secondaria, previste dagli strumenti urbanistici.
22. Orbene, nel caso di specie, l’assenza di queste condizioni è stata chiaramente evidenziata nella parte motiva del provvedimento impugnato, ove si legge testualmente: “Si precisa che nell’ambito “I.5” sono presenti altri Lotti non edificati oltre al Lotto oggetto d’intervento ed inoltre le opere di Urbanizzazione sia primarie che secondarie estese all’intero ambito sono, allo stato attuale, parzialmente realizzate”.
23. In particolare, come si legge nelle difese comunali, nell’ambito “I.5” sono attualmente presenti, oltre a quello oggetto di intervento, altri 5 lotti totalmente inedificati (per una superficie complessiva di 20.111 mq pari al 15% circa della superficie complessiva dell’ambito I.5 pari a 134.840 mq).
Inoltre, nell’ambito “I.5” le opere di urbanizzazione, sia primarie che secondarie, sono attualmente realizzate solo parzialmente.
24. Sollecitato sul punto l’ufficio comunale ha precisato che “In merito allo stato delle Opere di Urbanizzazione del Comparto in questione, si specifica che non esiste un progetto unitario delle opere ma solo interventi sporadici”.
25. Del resto la stessa ricorrente, in punto di opere di urbanizzazione primaria, fa riferimento esclusivamente a quelle di cui è dotato il lotto di intervento e non a quelle generali dell’ambito territoriale “I.5” nel quale lo stesso è inserito (e in relazione al quale, come detto, dev’essere valutata l’interclusione del lotto) e, quanto alle opere di urbanizzazione secondaria, conferma che sono localizzate in altri comparti della sottozona CF e non sono quindi comprese nel comparto in questione.
26. La ricognizione fattuale dell’area da parte dell’amministrazione, alla quale come detto la giurisprudenza attribuisce in via esclusiva la valutazione urbanistica, esclude quindi che possa ravvisarsi all’interno del comparto I.5 quella trama edilizia e urbanistica continua e coerente che esclude e rende superflua la prescrizione dello strumento di attuazione e, conseguentemente, impedisce il rilascio della concessione edilizia diretta.
27. Non è infine superfluo riportare quanto recentemente riaffermato nella materia in esame dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 1668 del 26.02.2021):
Ben può giustificarsi e risultare pienamente legittima la previsione della necessità di un piano attuativo, anche con riferimento a zone del tessuto urbano che risultino già edificate e dotate delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Costituisce ius receptum (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 14.04.2020, n. 2390; Cons. Stato, sez. IV, 25.02.2020, n. 1398; Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2018, n. 2397, che richiama Cons. Stato, sez. IV, 08.02.2018, n. 825; sez. IV, 13.04.2016, n. 1434; sez. IV, 04.07.2017, n. 3256; sez. IV, 17.07.2013, n. 3880; sez. IV, 21.08.2013, n. 4200; sez. V, 29.02.2012, n. 1177) che:
   a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il p.r.g. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo;
   b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell’ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all’edificazione);
   c) l’esigenza di un piano particolareggiato, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
Nel dettaglio, si è statuito che “Pure in presenza di una zona già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standard minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione” (Cons. Stato, Sez. IV, 26.10.2020, n. 6502)
” (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 15.06.2021 n. 437 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 9, comma 2, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, “nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione” sono consentiti interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione.
In base alla disciplina legislativa, non sono, dunque, consentiti interventi di nuova costruzione, in mancanza di strumento urbanistico attuativo.
La giurisprudenza considera tale norma dell’art. 9, comma 2, del Testo Unico edilizia come una norma generale ed imperativa in materia di governo del territorio, che impone, ai fini degli interventi diretti costruttivi, il rispetto delle previsioni del piano regolatore generale richiedenti, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio, con la conseguenza che in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda, per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare questa prescrizione, mentre sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il PRG consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo.
In base a tale giurisprudenza, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, quale il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata, ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standard minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione.
Infatti, l’esigenza di un piano particolareggiato, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
---------------

Dagli accertamenti istruttori effettuati nel corso del giudizio, risulta quindi evidente che non si possa ritenere il lotto di proprietà degli appellanti interamente intercluso, non essendo collocato in una area interamente urbanizzata e completa di opere di urbanizzazione.
Come è noto, ai sensi dell’art. 9, comma 2, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, correttamente citato dal giudice di primo grado, “nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l'edificazione” sono consentiti interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione.
In base alla disciplina legislativa, non sono, dunque, consentiti interventi di nuova costruzione, in mancanza di strumento urbanistico attuativo.
La giurisprudenza, anche della Sezione, considera tale norma dell’art. 9, comma 2, del Testo Unico edilizia come una norma generale ed imperativa in materia di governo del territorio, che impone, ai fini degli interventi diretti costruttivi, il rispetto delle previsioni del piano regolatore generale richiedenti, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio, con la conseguenza che in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda, per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare questa prescrizione (cfr. Cons. Stato, sez. II, 31.10.2019, n. 7463; id. Sez II, 18.02.2020, n. 1241; Sez. IV, 26.10.2020, n. 6502), mentre sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il PRG consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo (Cons. Stato Sez. IV, 14.04.2020, n. 2390).
In base a tale giurisprudenza, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, quale il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata, ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standard minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26.10.2020, n. 6502; id. Sez. IV, 14.04.2020, n. 2390; id. Sez. IV 13.04.2016 n. 1434).
Infatti, l’esigenza di un piano particolareggiato, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.04.2020, n. 2390; 20.04.2018, n. 2397) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 25.02.2021 n. 1634 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza amministrativa ha individuato situazioni in presenza delle quali il permesso di costruire può essere legittimamente rilasciato anche in assenza del piano attuativo richiesto dallo strumento urbanistico sovraordinato, in particolare quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Qualora, cioè, nel comprensorio interessato, sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo strumento urbanistico generale, ovvero siano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti, sì da rendere superflui gli strumenti attuativi (…) In questo senso, e con queste precisazioni, il piano attuativo ammette equipollenti, per dir così, in via di fatto.

---------------

Le censure di parte ricorrente possono essere esaminate congiuntamente.
Ai fini del corretto inquadramento normativo della fattispecie, giova preliminarmente evidenziare che l’art. 28-bis del d.P.R. n. 380/2001, ripetutamente evocato da parte ricorrente sia nel ricorso introduttivo sia nella memoria di replica alla relazione ministeriale istruttoria, dispone, tra l’altro, che “1. Qualora le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata, è possibile il rilascio di un permesso di costruire convenzionato.
2. La convenzione, approvata con delibera del consiglio comunale, salva diversa previsione regionale, specifica gli obblighi, funzionali al soddisfacimento di un interesse pubblico, che il soggetto attuatore si assume ai fini di poter conseguire il rilascio del titolo edilizio, il quale resta la fonte di regolamento degli interessi.
3. Sono, in particolare, soggetti alla stipula di convenzione:
   a) la cessione di aree anche al fine dell'utilizzo di diritti edificatori;
   b) la realizzazione di opere di urbanizzazione fermo restando quanto previsto dall'articolo 32, comma 1, lett. g), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163;
   c) le caratteristiche morfologiche degli interventi;
   d) la realizzazione di interventi di edilizia residenziale sociale (…)
”.
Occorre in primo luogo osservare che dalla piana lettura della norma discende che il rilascio di un “permesso di costruire convenzionato” costituisce una facoltà (stante la locuzione “è possibile”) –e non già un obbligo– per l’ente interessato.
Purtuttavia, questo non toglie che, alla luce delle argomentazioni della società richiedente, peraltro corredate da un’articolata relazione tecnica, il Comune avrebbe avuto l’onere di effettuare, nel caso di specie, una verifica preliminare sull’effettiva necessità o meno del piano urbanistico attuativo, in relazione all’effettivo livello di urbanizzazione della zona interessata dall’intervento proposto ed alla natura (di lotto intercluso) dell’area in questione.
In ordine a tale profilo soccorre l’orientamento, peraltro richiamato dall’odierna ricorrente, secondo cui “la giurisprudenza amministrativa, qui condivisa (v., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 5471 del 2008 e sez. V, n. 5251 del 2013), ha individuato situazioni in presenza delle quali il permesso di costruire può essere legittimamente rilasciato anche in assenza del piano attuativo richiesto dallo strumento urbanistico sovraordinato, in particolare quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria; qualora, cioè, nel comprensorio interessato, sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo strumento urbanistico generale, ovvero siano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti, sì da rendere superflui gli strumenti attuativi (…) In questo senso, e con queste precisazioni, il piano attuativo ammette equipollenti, per dir così, in via di fatto” (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3977/2016).
Ebbene, applicando alla fattispecie in esame tali principi, che il Collegio condivide, deve rilevarsi che prima di considerare indispensabile la previa adozione del PUA l’amministrazione avrebbe dovuto verificare in modo puntuale e approfondito la natura del lotto interessato e lo stato reale di urbanizzazione della intera zona, allo scopo di accertare la sussistenza delle condizioni –di “piena” o comunque “adeguata” urbanizzazione– per poter derogare alle previsioni contenute nella disciplina comunale di settore.
Dagli atti di causa, invero, anche alla luce della perizia tecnica depositata da parte ricorrente, detta verifica non sembra essere stata effettuata dal Comune in modo adeguato e sufficientemente approfondito o comunque non se ne rinviene traccia nella motivazione del provvedimento di diniego adottato all’esito dell’istruttoria, che, pertanto, non può considerarsi sorretto da un sostegno motivazionale e istruttorio adeguato.
Alla luce di quanto precede, la censura relativa al difetto di motivazione del provvedimento avversato deve essere accolta, con salvezza, tuttavia, di una eventuale rinnovazione dell’azione amministrativa che dovrà conformarsi alle considerazioni svolte da questo Collegio.
Il ricorso deve essere, quindi, accolto entro i limiti così individuati, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 11.08.2020 n. 1397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostituisce ius receptum che:
   a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il P.R.G. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo;
   b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione);
   c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata”.
Altresì, “la giurisprudenza amministrativa ha individuato situazioni in presenza delle quali il permesso di costruire può essere legittimamente rilasciato anche in assenza del piano attuativo richiesto dallo strumento urbanistico sovraordinato, in particolare quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria; qualora, cioè, nel comprensorio interessato, sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo strumento urbanistico generale, ovvero siano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standards urbanistici minimi prescritti, sì da rendere superflui gli strumenti attuativi”.
Sicché, il piano attuativo non serve solo per garantire un equilibrato sviluppo urbanistico del territorio, ma anche per garantire un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, attraverso, ad esempio, il potenziamento delle opere di urbanizzazione già esistenti.
Per valutare l’adozione di siffatti piani occorre valutare e verificare lo stato di edificazione della zona interessata dall’intervento, nonché il grado di urbanizzazione primaria e secondaria, in relazione all’adeguatezza ed alla fruibilità delle opere esistenti, anche a fronte della consistenza dell’intervento stesso e dell’incremento del carico urbanistico da questo discendente.
---------------

Tale conclusione non è condivisibile.
Costituisce ius receptum (cfr., ex plurimis e da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 04.07.2017, n. 3256; sez. IV, 17.07.2013, n. 3880; sez. IV, 21.08.2013, n. 4200; sez. V, 29.02.2012, n. 1177) che:
   a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il P.R.G. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo;
   b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione);
   c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata
” ( Cons. Stato, sez. IV, 6737/2019).
Precisa inoltre il Consiglio di Stato “la giurisprudenza amministrativa, […] (v., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 5471 del 2008 e sez. V, n. 5251 del 2013), ha individuato situazioni in presenza delle quali il permesso di costruire può essere legittimamente rilasciato anche in assenza del piano attuativo richiesto dallo strumento urbanistico sovraordinato, in particolare quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria; qualora, cioè, nel comprensorio interessato, sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo strumento urbanistico generale, ovvero siano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standards urbanistici minimi prescritti, sì da rendere superflui gli strumenti attuativi” (Cons. Stato, sez. VI, 3997/2016).
Il piano attuativo non serve solo per garantire un equilibrato sviluppo urbanistico del territorio, ma anche per garantire un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, attraverso, ad esempio, il potenziamento delle opere di urbanizzazione già esistenti.
Per valutare l’adozione di siffatti piani occorre valutare e verificare lo stato di edificazione della zona interessata dall’intervento, nonché il grado di urbanizzazione primaria e secondaria, in relazione all’adeguatezza ed alla fruibilità delle opere esistenti, anche a fronte della consistenza dell’intervento stesso e dell’incremento del carico urbanistico da questo discendente (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 14.07.2020 n. 1324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn presenza di una zona già urbanizzata, va esclusa la necessità dello strumento attuativo solo nei casi nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione).
Ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.

---------------

7. Il primo giudice ha fatto corretta applicazione dei principi risultanti dalla giurisprudenza consolidata di questo Consiglio, nell’accertamento dell’esistenza o meno delle condizioni che consentono l’intervento diretto in mancanza di strumenti attuativi, nella specie in assenza del Piano Particolareggiato nella sottozona dove è collocato il lotto di interesse.
Infatti, secondo tali principi (ex plurimis e da ultimo, Cons. Stato, sez. IV nn. 2397 e 825 del 2018), in presenza di una zona già urbanizzata, va esclusa la necessità dello strumento attuativo solo nei casi nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione).
Ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 4200 del 2013, ove numerosi riferimenti ulteriori, cui adde sez. V, n. 1177 del 2012) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.04.2020 n. 2228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUn titolo edilizio può essere rilasciato, anche in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore, solo se è stato accertato che il lotto del richiedente è l'unico a non essere stato ancora edificato e si trova in una zona che, oltre ad essere integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti.
E, comunque, anche in presenza di una zona già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, ma non anche nell'ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione.
Ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.

---------------

11. Come, infatti, la più recente giurisprudenza amministrativa ha chiarito, un titolo edilizio può essere rilasciato, anche in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore, solo se è stato accertato che il lotto del richiedente è l'unico a non essere stato ancora edificato e si trova in una zona che, oltre ad essere integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti.
E, comunque, anche in presenza di una zona già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, ma non anche nell'ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione.
Ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata (TAR Lecce, (Puglia) sez. I, 02/10/2018, n. 1394; conformi, Cons. St., sez. IV, 27.03.2018, n. 1906; Cons. St., 13.04.2016, n. 1434) (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.11.2019 n. 47280).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi del combinato disposto degli artt. 9 e 3 d.P.R. n. 380/2001 in assenza di strumenti urbanistici attuativi sono consentite attività di manutenzione ordinaria, attività di manutenzione straordinaria, attività di restauro conservativo ed in forza del secondo comma dell’art. 9 attività di ristrutturazione edilizia. In assenza di strumenti urbanistici attuativi non sono consentiti interventi di nuova costruzione.
Alla luce della giurisprudenza di questo Consiglio, formatasi sull’art. 9 d.P.R. n. 380/2001:
   - il piano attuativo prescritto dallo strumento generale è indefettibile (e ciò era già desumibile dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942);
   - il piano attuativo è strumento indispensabile per l’affermazione dell’ordinato assetto del territorio;
   - è irrilevante ogni indagine di fatto sulla sussistenza o meno ‘nei pressi’ o ‘nella zona’ delle opere di urbanizzazione, anche se, in precedenza, l’amministrazione abbia violato le previsioni dello strumento generale, rilasciando permessi di costruire in assenza del prescritto piano attuativo, tranne il caso del “piccolo” lotto intercluso, da intendere quale area di limitata estensione, circondata da edifici all’interno di un tessuto completamente edificato.
---------------

2. Con nota prot. n. 12902 dell’11.04.2008 il Dirigente dell‘Ufficio Tecnico del Comune di Pompei, comunicava il rigetto dell‘istanza di permesso di costruire presentata dal sig. Gi.An. sulla base delle seguenti considerazioni:
   a) il lotto è classificato nel vigente p.r.g. “zona di ristrutturazione Bl”, e ai sensi dell’art. 15 del regolamento edilizio, approvato con D.P.G.R. n. 4160 del 29.01.1976, è soggetto a intervento urbanistico preventivo;
   b) il piano attuativo non è mai stato approvato;
   c) l’art. 9, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e ss.mm. e ii. vieta nuove edificazioni nelle zone per le qual era previsto ma non è stato emanato un piano attuativo.
3. Lamenta il ricorrente violazione e falsa applicazione dell’art. 9 d.P.R. n. 380/2001, violazione e falsa applicazione del P.R.G. di Pompei, violazione e falsa applicazione degli artt. 5, 9, 13,15 delle N.T.A., violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. 241/1990; eccesso di potere per carenza di istruttoria, eccesso di potere per difetto di motivazione.
4. Sostiene il ricorrente che il Comune avrebbe dovuto rilasciare il permesso di costruire nonostante l’assenza di un piano attuativo del piano regolatore generale.
Ai sensi del combinato disposto dell’articolo 9 e dell’art. 3 d.P.R. n. 380/2001 in assenza di strumenti urbanistici attuativi sono consentite attività di manutenzione ordinaria, attività di manutenzione straordinaria, attività di restauro conservativo ed in forza del secondo comma dell’articolo 9 attività di ristrutturazione edilizia. In assenza di strumenti urbanistici attuativi non sono consentiti interventi di nuova costruzione.
Alla luce della giurisprudenza di questo Consiglio, formatasi sull’articolo 9 d.P.R. n. 380/2001:
   - il piano attuativo prescritto dallo strumento generale è indefettibile (e ciò era già desumibile dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942: decisioni sez. V, 23.03.2000, n. 1594; sez. V, 08.07.1997, n. 772; sez. V, 16.06.1997, n. 640; sez. V, 30.04.1997, n. 412; sez. V, 22.03.1995, n. 451);
   - il piano attuativo è strumento indispensabile per l’affermazione dell’ordinato assetto del territorio (sez. IV, 10.05.2012, n. 2707; sez. IV, 05.03.2008, n. 940; sez. V, 03.03.2004, n. 1013; sez. IV, 25.08.2003, n. 4812);
   - è irrilevante ogni indagine di fatto sulla sussistenza o meno ‘nei pressi’ o ‘nella zona’ delle opere di urbanizzazione (sez. IV, 21.12.2009, n. 8531), anche se, in precedenza, l’amministrazione abbia violato le previsioni dello strumento generale, rilasciando permessi di costruire in assenza del prescritto piano attuativo, tranne il caso del “piccolo” lotto intercluso (sez. IV, nn. 6625 e 2674 del 2008; sez. IV, 05.03.2008, n. 940), da intendere quale area di limitata estensione, circondata da edifici all’interno di un tessuto completamente edificato (Cons. Stato, sez. IV, 2026/2019).
Alla luce della giurisprudenza appena richiamata deve ritenersi infondata la censura di violazione e falsa applicazione dell’articolo 9 d.P.R. n. 380/2001.
In assenza di piano attuativo l’amministrazione non ha l’obbligo di fondare la propria valutazione circa l’ammissibilità della istanza di permesso di costruzione sulla circostanza che l’area sia già stata edificata e che una parte delle opere di urbanizzazione siano state realizzate: né certamente è fondante la circostanza che in casi analoghi l’amministrazione abbia rilasciato permessi di costruire illegittimi, perché il giudice non può estendere illegittimità commesse (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 14.06.2019 n. 1718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della «maglia», e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
---------------

Anche il secondo motivo di ricorso va disatteso.
La Sezione ricorda la giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia secondo cui “l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della «maglia», e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata (C. di S., IV, 01.10.2007, n. 5043 e 15.05.2002 , n. 2592; V, 01.12.2003, n. 7799 e 06.10.2000, n. 5326)” (Consiglio di Stato, Sez. V, 1177/2012) (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 12.01.2018 n. 142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa fattispecie del cd. "lotto intercluso" si realizza allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al piano regolatore generale.

---------------

La Sezione considera preliminarmente che il Consiglio di Stato è più volto intervenuto sulla tematica del c.d. “lotto intercluso” e sui riflessi di tale situazione sulla disciplina urbanistica (tra le più recenti, Cons. St., Sez. IV, 07.11.2014, n. 5488).
Tale fattispecie si realizza allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
   a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
   b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
   c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
   d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al piano regolatore generale.
Nel caso in esame, è palese dalla documentazione fotografica e grafica che la proprietà del ricorrente non risponde agli stringenti requisiti individuati dalla giurisprudenza affinché l’area possa ritenersi lotto intercluso, in quanto, pur essendo ubicata in un contesto urbanizzato ed edificato, confina a nord-est con un lotto non edificato, come correttamente osservato dal Comune.
Mancando il presupposto del “lotto intercluso”, che avrebbe potuto consentire di derogare alle prescrizioni del piano regolatore generale, il quale prevede per il rilascio del titolo edilizio nella zona in questione l’esistenza di un piano attuativo, non è consentito neppure superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471) (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 13.06.2017 n. 1398 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Palazzo Spada scioglie i dubbi sul concetto di 'lotto intercluso'. Non si può qualificare come 'lotto intercluso' il lotto che confina con un’altra area più vasta anch’essa inedificata.
Il lotto che confina con un’altra area più vasta anch’essa inedificata non si può qualificare, dal punto di vista urbanistico, come 'lotto intercluso'.
Lo ha ribadito il Consiglio di Stato (IV Sez.) con la sentenza 20.07.2016 n. 3293.
La nozione di lotto intercluso in tema di pianificazione urbanistica “ha una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore pianificazione (Cons. Stato Sez. IV 17/07/2013 n. 3880; idem 21712/2012 n. 6656), stante la presenza di sufficienti opere di urbanizzazione primaria e secondaria”.
Anche se la zona è parzialmente urbanizzata, non si può prescindere “dalla previa approvazione di uno strumento attuativo proprio perché l’ulteriore edificazione espone la zona in cui è inserita l’area de qua al rischio di compromissione definitiva dei valori urbanistici, mentre la pianificazione attuativa può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto nonché di assicurare un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo”.
---------------
7. Passando agli aspetti sostanziali della controversia, appare utile qui richiamare in maniera riassuntiva le ragioni poste a fondamento del diniego di cui al provvedimento dirigenziale n. 211586 del 23/09/2013, così identificabili:
   a) - contrasto del progettato intervento con le previsioni di cui all’art. 39 delle NTA del PRG che impongono nella zona in cui insiste l’area de qua la preventiva presentazione e approvazione di piani particolareggiati o di lottizzazioni;
   b) - mancanza in capo al lotto in questione delle caratteristiche della interclusione ( che potrebbe eventualmente consentire l’intervento diretto);
   c) - assenza della dotazione per la maglia urbanistica in questione di adeguati standard di urbanizzazione ex D.M. n. 1444/1968 imposte anch’esse dall’art. 39 delle NTA citato, condizione quest’ultima riconducibile alla predetta norma per connessione logica.
Il sig. Ca., allo scopo di demolire le circostanze ostative opposte dall’Amministrazione comunale sia in primo grado che in questa sede deduce, con due motivi formulati in termini pressoché eguali, tre argomentazioni che infra si va ad indicare.
Con il primo mezzo d’impugnazione l’interessato fa valere la questione c.d. dei “tessuti edificati”: sostiene, in particolare, che l’area di sua proprietà è inclusa in tale tipologia urbanistica e per ciò stesso usufruirebbe della possibilità di intervento diretto senza l’intermediazione di un piano esecutivo, ai sensi delle disposizioni recate dall’art. 6 della l.r. n. 6/1985.
Così non è.
Invero, la normativa di favore invocata (erroneamente) dal ricorrente comporta unicamente l’esclusione dall’obbligo per tali aree di essere incluse in un piano pluriennale di attuazione, laddove la presenza di opere di urbanizzazione esonera appunto l’area così caratterizzata dall’inserimento in detto strumento di attuazione delle previsioni della pianificazione urbanistica generale.
Ora in base alla normativa regionale nel frattempo intervenuta è venuto meno l’obbligo di formazione del p.p.a , tenuto conto che per il Comune di Bari il piano pluriennale di attuazione è decaduto dal 2005, sicché al momento della richiesta di rilascio di permesso di costruire per l’area de qua (dicembre 2012) il suindicato regime normativo di esonero non era più operativo, dovendosi applicare a questo punto le regole stabilite dalla giurisprudenza in tema di deroga dall’obbligo di approvazione (interclusione del lotto e/o presenza di adeguata dotazione di standard ex d.m. n. 1444/1968).
Ed è proprio sulla base della circostanza relativa all’assenza delle suindicate condizioni (ovvero l’interclusione del lotto e la sufficiente presenza in loco di opere di urbanizzazione primaria e secondaria) che viene rilevata (correttamente) dal Comune a mezzo dell’assunto provvedimento di diniego l’impossibilità di assentire in via diretta il progettato intervento edilizio.
Al riguardo il ricorrente con il secondo motivo di gravame, variamente articolato, contesta la fondatezza dei rilievi operati dall’Amministrazione, ma i profili di doglianza non valgono ad inficiare la sussistenza e validità delle suindicate condizioni ostative.
Invero, il lotto in questione non reca, dal punto di vista urbanistico, le caratteristiche del lotto intercluso per la semplice ragione che è confinante con un’altra area più vasta anch’essa inedificata per cui non può dirsi che il terreno edificabile del sig. Ca. sia l’unico a non essere stato ancora edificato e se così è non può qualificarsi come “lotto intercluso” (Cons. Stato Sez. IV 07/11/2014 n. 5488).
Peraltro la nozione di lotto intercluso in tema di pianificazione urbanistica ha una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore pianificazione (Cons. Stato Sez. IV 17/07/2013 n. 3880; idem 21712/2012 n. 6656), stante la presenza di sufficienti opere di urbanizzazione primaria e secondaria, ma non è questo il caso che ci occupa, posto che in loco non è possibile ravvisare la sussistenza di un’adeguata dotazione degli standard urbanistici prescritti dal d.m. n. 1444/1968.
Invero, anche a voler ammettere, come in sostanza rivendica il ricorrente, che la zona sia parzialmente urbanizzata, questo non equivale a consentire di prescindere dalla previa approvazione di uno strumento attuativo proprio perché l’ulteriore edificazione espone la zona in cui è inserita l’area de qua al rischio di compromissione definitiva dei valori urbanistici, mentre la pianificazione attuativa può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto nonché di assicurare un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.07.2016 n. 3293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza amministrativa ha accolto una nozione di interclusione più ampia di quella civilistica (c.d. fondo intercluso), ritenendo che ove una norma di P.R.G. prenda in considerazione il lotto intercluso per disciplinarne l’edificabilità, questo non può intendersi quello compreso tra altri edifici e senza affaccio sulla pubblica via, essendo un’area così situata non utilizzabile a fini edilizi.
Intercluso è invece il lotto, pure affacciante sulla pubblica via, compreso tra edifici che sorgono su almeno due lati.
---------------

Con riguardo al primo motivo di gravame si osserva, preliminarmente, che nella relazione tecnica allegata al progetto si dichiara che l’ampliamento che si vuole realizzare ricade all’interno di un esiguo lotto con superficie complessiva inferiore ai mq. 200,00 e sarebbe, quindi, da considerarsi “lotto intercluso” con superficie inferiore ai 200 mq. e con una volumetria massima realizzabile di mc. 1.000 in conformità al disposto dell’art. 28 della l.r. n. 21/1973.
La censura non è meritevole di accoglimento.
Infatti, una delle ragioni del diniego di concessione consiste nella circostanza rilevata nel provvedimento impugnato che il lotto indicato per la progettazione, ricadente in zona “B1.3” dello strumento urbanistico è contiguo ad altra area libera avente la medesima destinazione urbanistica “…e quindi complessivamente il lotto edificabile risulta superiore al minimo previsto dall’art. 28 l.r. n. 21/1973 (200 mq.) …”.
Si osserva in proposito che la giurisprudenza amministrativa ha accolto una nozione di interclusione più ampia di quella civilistica (c.d. fondo intercluso), ritenendo che ove una norma di P.R.G. prenda in considerazione il lotto intercluso per disciplinarne l’edificabilità, questo non può intendersi quello compreso tra altri edifici e senza affaccio sulla pubblica via, essendo un’area così situata non utilizzabile a fini edilizi.
Intercluso è invece il lotto, pure affacciante sulla pubblica via, compreso tra edifici che sorgono su almeno due lati” (cfr. Cons. St., sez. V, 21.10.1985 n. 339; TAR Catania, sez. I, 04.01.2008, n. 56) (CGARS, parere 09.05.2016 n. 557 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica – Nuovi insediamenti e strumenti attuativi – Urbanizzazione primaria – Necessità – DPR n. 380/2001 – L. n. 1150/1942.
L’approvazione di interventi destinati a creare nuovi insediamenti in una zona per la quale P.R.G., subordina l’attività edificatoria all’adozione di Piani Particolareggiati ovvero di Piani di Lottizzazione Convenzionati, in assenza dei prescritti strumenti attuativi, rende necessaria, ai fini della legittimità dell’intervento, la prova rigorosa della preesistenza e sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, tali da rendere del tutto superfluo lo strumento attuativo (Cass. Sez. 3 n. 35880 del 25.06.2008).
...
Lotto intercluso – Esonero dal piano di lottizzazione – Presupposti e limiti – Approvazione del piano di lottizzazione – Rientra tra i poteri discrezionale dell’autorità.
L’esonero dal piano di lottizzazione previsto in un piano regolatore generale può avvenire riguardo ai casi assimilabili a quello del “lotto intercluso”, nel quale nessuno spazio si rinviene per un’ulteriore pianificazione, mentre detto esonero è precluso in caso di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (Cons. Stato, Sez. 5, 01/12/2003, n. 7799, Soc. P. C. Comune di Roma; conf. sez. 6, 03.11.2003 n. 6833, Min. Beni Culturali c. Maniviro s.r.l.).
Peraltro, la approvazione del piano di lottizzazione, a differenza del permesso di costruire, non è atto dovuto, pur se conforme al piano regolatore generale, ma costituisce sempre espressione di potere discrezionale dell’autorità chiamata a valutare l’opportunità di dare attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico generale (cfr. Cons. Stato, Sez. 4, 02/03/2004, n. 957; Cons. Stato, Sez. 4, 02/03/2001, n. 1181)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.02.2013 n. 5870 - link a www.ambientediritto.it).

aggiornamento all'08.11.2022

Ancòra sul tema di quando, anni addietro, scattava l'obbligo di munirsi della "licenza edilizia" e sul correlato significato di "centro abitato":

EDILIZIA PRIVATAPur avendo, il ricorrente, fornito un principio di prova circa la realizzazione dell’immobile anteriormente al 1967 e, dunque, prima che l. n. 765/1967 (c.d. “legge ponte”) introducesse un obbligo generalizzato di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la realizzazione di opere in qualsiasi parte del territorio comunale- lo stesso non ha, invece, in alcun modo dimostrato che esso si trovasse al di fuori del centro abitato, atteso che, nei centri abitati, prima di allora l’art. 31 della legge urbanistica n. 1150/1942 già prevedeva tale obbligo, disponendo che “chiunque intenda eseguire nuove costruzioni ovvero ampliare quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri abitati e dove esiste il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza edilizia”.
---------------
La giurisprudenza amministrativa è da sempre consolidata nel ritenere che l’onere di fornire la prova rigorosa della collocazione dei manufatti -tanto nello spazio, quanto nel tempo- incomba sull’interessato, l’unico in grado di fornire atti e documenti che offrano al riguardo una ragionevole certezza dell’epoca e delle condizioni di realizzazione di un manufatto, e non già sull’amministrazione, che, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha, invece, il dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ne ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione.
---------------

Sia il ricorso introduttivo che il successivo ricorso per motivi aggiunti sono infondati, attesa la legittimità, sotto i profili contestati, degli impugnati provvedimenti di demolizione e conseguente acquisizione al patrimonio comunale.
Non sono, infatti, meritevoli di accoglimento le censure con cui si tenta di dimostrare la piena legittimità delle opere sanzionate, non valendo quanto affermato e prodotto in giudizio a smentire il carattere abusivo del manufatto per cui è causa, effettivamente eseguito (come riconosciuto dallo stesso ricorrente) in assenza di un titolo edilizio.
Rileva, infatti, come egli -pur avendo fornito un principio di prova circa la realizzazione dell’immobile anteriormente al 1967 e, dunque, prima che l. n. 765/1967 (c.d. “legge ponte”) introducesse un obbligo generalizzato di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la realizzazione di opere in qualsiasi parte del territorio comunale- non abbia, invece, in alcun modo dimostrato che esso si trovasse al di fuori del centro abitato di Scafati, atteso che, nei centri abitati, prima di allora l’art. 31 della legge urbanistica n. 1150/1942 già prevedeva tale obbligo, disponendo che “chiunque intenda eseguire nuove costruzioni ovvero ampliare quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri abitati e dove esiste il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza edilizia”.
Parte ricorrente si limita, infatti, a tal proposito a riferire “che il manufatto in questione è posto assolutamente al di fuori del centro abitato: ancor oggi, tra l’altro, la località ove è ubicato l’immobile di proprietà del ricorrente è rappresentata all’esterno del centro abitato”, senza depositare alcun documentazione atta a dimostrare, almeno nell’attualità, tale circostanza.
La giurisprudenza amministrativa è, infatti, da sempre consolidata nel ritenere che l’onere di fornire la prova rigorosa della collocazione dei manufatti -tanto nello spazio, quanto nel tempo- incomba sull’interessato, l’unico in grado di fornire atti e documenti che offrano al riguardo una ragionevole certezza dell’epoca e delle condizioni di realizzazione di un manufatto, e non già (come vorrebbe parte ricorrente) sull’amministrazione, che, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha, invece, il dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ne ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione (in tal senso, TAR Napoli, Campania, sezione VIII, n. 4122/2017) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 14.10.2022 n. 2668 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAVa ribadito l’orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato secondo cui grava sul proprietario, e non sulla P.A., l’onere di dimostrare l’epoca di realizzazione dell’opera edilizia abusiva: “In tema di costruzione abusive, l'onere della prova circa la data di realizzazione dell'opera edilizia abusiva grava sul privato; la p.a., non deve dare indicazioni in ordine all'epoca di realizzazione dell'illecito, non rientrando tale verifica tra i contenuti dell'ordinanza di demolizione”
---------------
Va ribadita la legittimità e l’applicabilità delle disposizioni regolamentari comunali prescrittive del rilascio del titolo abilitativo alle costruzioni al di fuori del perimetro urbano e, quindi, derogatorie rispetto al regime liberalizzato sancito dall’art. 31, comma 1, della l. n. 1150/1942, atteso che,
   - come è già stato condivisibilmente osservato “queste ben possono assoggettare ad autorizzazione sindacale una serie di opere edili o di attività costruttive, che presentino la comune caratteristica di provocare mutamenti ambientali –tali da concretarsi in veri e propri interventi edificatori, o in innovazioni funzionali, o in migliorie meramente estetiche–, con ciò introducendo un controllo oggettivo più forte di quello stabilito da norme primarie in materia edilizia, all'evidente fine di sottoporre l'assetto del territorio comunale ad una più penetrante e rigorosa tutela”;
   - così come, nello stesso senso, milita pure il tenore letterale dell’art. 31, comma 5, della l. n. 47/1985, che ammette al regime di sanatoria le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto il rilascio della licenza di costruzione non solo «ai sensi dell’art. 31, primo comma, della l. 17.08.1942, n. 1150», ma anche ai sensi «dei regolamenti edilizi comunali».
---------------
L’adozione dell’ordinanza di demolizione non presuppone l’accertamento della responsabilità nella commissione dell’illecito, ma l’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia.
L’ordine di demolizione inoltre è un atto vincolato, ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la sussistenza del concreto interesse pubblico alla rimozione neppure quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione, non potendo configurarsi alcun legittimo affidamento in relazione a situazioni contra legem, essendo stata la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
---------------

8. Va in primo luogo ribadito l’orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato che stabilisce che grava sul proprietario, e non sulla P.A., l’onere di dimostrare l’epoca di realizzazione dell’opera edilizia abusiva: “In tema di costruzione abusive, l'onere della prova circa la data di realizzazione dell'opera edilizia abusiva grava sul privato; la p.a., non deve dare indicazioni in ordine all'epoca di realizzazione dell'illecito, non rientrando tale verifica tra i contenuti dell'ordinanza di demolizione” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 16/02/2022, n. 1152).
Nel caso in esame, la ricorrente non ha provato, contrariamente a quanto genericamente asserito nel ricorso, la data di realizzazione delle opere contestate.
9. Piuttosto, la prospettazione della parte, secondo cui tutte le opere contestate risulterebbero esistenti dagli inizi degli anni sessanta o quantomeno dal 1994, allorché fu svolta la perizia del C.T.U. del Tribunale di Nocera Inferiore (cfr. all. 2 ricorso), risulta smentita per tabulas, dal momento che le tavole aerofotogrammetriche relative al volo del 2003, allegate al verbale di accertamento tecnico prot. n. 176974 del 25/11/2015 dimostrano l’assenza, a tale data, della superfetazione in lamiera metallica, indicata al punto 2, e della tettoia a struttura metallica, indicata al punto 3 dell’ordinanza impugnata.
A conferma di ciò, dalla stessa perizia del 1994, risulta che sull’immobile in questione, «interamente compreso in area di rispetto ferroviario, non edificabile» (cfr. p. 7 perizia), erano all’epoca presenti solo una baracca in blocchi di cemento con copertura in lamiera ondulata e luci di accesso chiuse da due saracinesche in ferro, di dimensioni circa m 6,5 x 5, altezza m. 3, e un piccolo locale w.c. in blocchi di cemento, opere che, oltre a essere evidentemente differenti rispetto alle strutture rilevate nel 2015 dai tecnici della P.A., comprovano piuttosto l’inesistenza all’epoca delle opere abusive indicate al secondo, terzo e quarto punto dell’impugnata ordinanza n. 16/2016.
Ne è risultato, come accertato nel verbale 176974/2015, un complessivo intervento abusivo realizzato in più epoche, caratterizzato da “un’unica organicità dell’opera”.
10. È evidente quindi come la ricorrente non abbia compiutamente provato il carattere risalente -ante cd. Legge Ponte del 1967- dei manufatti, né conseguentemente la legittimità delle opere contestate attraverso idonei titoli edilizi, opere che ricadono, tra l’altro, in area di rispetto ferroviario e soggiacciono certamente al disposto dell’art. 49 del DPR n. 753/1980, secondo cui: “Lungo i tracciati delle linee ferroviarie è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie ad una distanza, da misurarsi in proiezione orizzontale, minore di metri trenta dal limite della zona di occupazione della più vicina rotaia”.
11. Sul punto, non può poi condividersi quanto osservato in replica dalla ricorrente circa la non obbligatorietà dell’allora vigente Regolamento Edilizio Comunale, approvato con deliberazione del Commissario Prefettizio n. 800 del 12/04/1954, che prevedeva l’obbligo di munirsi di licenza edilizia per gli interventi di costruzione o modifica da effettuarsi nell’ambito dell’intero territorio comunale, in quanto -ad avviso della parte- previsione in contrasto con la legge urbanistica n. 1150/1942 che limitava invece la necessità del titolo edilizio ai soli centri abitati.
Vale infatti ribadire la legittimità e l’applicabilità delle disposizioni regolamentari comunali prescrittive del rilascio del titolo abilitativo alle costruzioni al di fuori del perimetro urbano e, quindi, derogatorie rispetto al regime liberalizzato sancito dall’art. 31, comma 1, della l. n. 1150/1942, atteso che,
   - come è già stato condivisibilmente osservato “queste ben possono assoggettare ad autorizzazione sindacale una serie di opere edili o di attività costruttive, che presentino la comune caratteristica di provocare mutamenti ambientali –tali da concretarsi in veri e propri interventi edificatori, o in innovazioni funzionali, o in migliorie meramente estetiche–, con ciò introducendo un controllo oggettivo più forte di quello stabilito da norme primarie in materia edilizia, all'evidente fine di sottoporre l'assetto del territorio comunale ad una più penetrante e rigorosa tutela” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.10.1995, n. 1425);
   - così come, nello stesso senso, milita pure il tenore letterale dell’art. 31, comma 5, della l. n. 47/1985, che ammette al regime di sanatoria le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto il rilascio della licenza di costruzione non solo «ai sensi dell’art. 31, primo comma, della l. 17.08.1942, n. 1150», ma anche ai sensi «dei regolamenti edilizi comunali» (Tar Campania, Salerno, sentenza n. 1678/2018).
12. Quanto al profilo della responsabilità del proprietario, vale osservare che l’adozione dell’ordinanza di demolizione non presuppone l’accertamento della responsabilità nella commissione dell’illecito, ma l’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia (Tar Campania, Salerno, sentenza n. 215/2022).
12. L’ordine di demolizione inoltre è un atto vincolato, ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la sussistenza del concreto interesse pubblico alla rimozione neppure quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione, non potendo configurarsi alcun legittimo affidamento in relazione a situazioni contra legem, essendo stata la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore (TAR Campania-Salerno, Sez. III, sentenza 13.10.2022 n. 2661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer consolidato insegnamento giurisprudenziale, l'onere di dimostrare che le opere rientrano fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto a essere nella disponibilità di documenti e di elementi probatori in grado di attestare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto.
In secondo luogo, l'art. 31 l. 1150/1942, nella formulazione precedente alla modifica apportata dalla l. Ponte, assoggettava a licenza edilizia le opere realizzate «nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale». Pertanto, anteriormente al 01.09.1967, potevano essere legittimamente edificate senza titolo costruzioni al di fuori dei centri abitati e sempre purché il relativo comune non fosse già dotato di piano regolatore.
Ebbene, il primo piano regolatore generale del Comune, esteso a tutto il territorio comunale risale al 1959, sicché la dimostrazione dell'anteriorità dell'opera al 01.09.1967 non spiegherebbe alcun effetto in favore del ricorrente.
---------------

8. L'unico profilo per cui il momento di esecuzione dell'opera può assumere rilevanza attiene all'applicabilità della l. 765/1967 (l. Ponte) che, modificando l'art. 31 l. 1150/1942, ha per la prima volta imposto il rilascio della licenza edilizia per le costruzioni, iniziate a partire dal 01.09.1967 (data di entrata in vigore della l. Ponte), anche al di fuori dei centri abitati dei comuni privi di piano regolatore. Su tale aspetto è incentrato il secondo motivo di ricorso, per mezzo del quale il ricorrente deduce che l'opera sia stata realizzata anteriormente al 01.09.1967 e non abbisognasse il rilascio di alcun titolo edilizio.
La censura è infondata per due ragioni.
In primo luogo, l'affermazione attorea è priva di prova e, per consolidato insegnamento giurisprudenziale, l'onere di dimostrare che le opere rientrano fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto a essere nella disponibilità di documenti e di elementi probatori in grado di attestare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (ex multis, tra le ultime, Cons. Stato, Sez. VI , 27.01.2022, n. 570; TAR Milano, Sez. II, 26.08.2020, n. 1616).
In secondo luogo, l'art. 31 l. 1150/1942, nella formulazione precedente alla modifica apportata dalla l. Ponte, assoggettava a licenza edilizia le opere realizzate «nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale». Pertanto, anteriormente al 01.09.1967, potevano essere legittimamente edificate senza titolo costruzioni al di fuori dei centri abitati e sempre purché il relativo comune non fosse già dotato di piano regolatore. Ebbene, il primo piano regolatore generale del Comune di Torino, esteso a tutto il territorio comunale –ivi inclusa la zona collinare a est del Po, ove si trova la palazzina di via ...– risale al 1959 (doc. 21 Comune), sicché la dimostrazione dell'anteriorità dell'opera al 01.09.1967 non spiegherebbe alcun effetto in favore del ricorrente (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 07.10.2022 n. 822 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l'obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sul territorio comunale. Prima di allora, l'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva tale obbligo limitatamente ai centri abitati.
Nel caso di specie, è pacifico che all’epoca in cui sono stati posti in essere gli abusi, il Comune fosse già dotato di Regolamento edilizio e piano di fabbricazione, come evidenziato nell’ordinanza di demolizione.
Pertanto, per tutto il territorio del Comune, la necessità del titolo abilitativo edilizio risale al 1955, in forza dell’approvazione del relativo regolamento edilizio. Il comune infatti, pur in assenza di una norma primaria che imponesse ai proprietari di munirsi di titolo abilitativo per effettuare interventi edificatori, aveva adottato il citato regolamento edilizio con cui si prevedeva l’obbligo di chiedere apposita licenzia per costruire, ricostruire o modificare sostanzialmente edifici (art. 3).
È orientamento giurisprudenziale pacifico e condiviso dal Collegio che l’obbligo imposto dal regolamento edilizio fosse valido e cogente anche in assenza della legge urbanistica. Infatti, la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati contenuta nella legge del 1942 certamente non impediva ai Comuni di estendere all'intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell'attività edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi di una tipica prerogativa ad essi spettante.
Da quanto sopra, consegue che le opere realizzate in difformità dalla licenza edilizia del 18.02.1965 devono considerarsi abusive, in quanto in quella data era cogente nel territorio comunale l’obbligo di dotarsi di titolo edilizio.
---------------

1. Il ricorso è articolato in tre motivi, con i quali si deduce
   (i) che non fosse necessario alcun titolo per la realizzazione dell’immobile, in quanto edificato in epoca antecedente all’entrata in vigore della Legge n. 765/1967, e quindi non sarebbero rilevanti le difformità rispetto alla licenza edilizia,
   (ii) che la sanzione demolitiva irrogata sarebbe incongrua in relazione al lasso di tempo decorso e che
   (iii) l’avvenuto rilascio del certificato di abitabilità configurerebbe un implicito atto di sanatoria.
2. Il ricorso è infondato.
3. In relazione al primo motivo, va osservato in termini generali che l'art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l'obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sul territorio comunale. Prima di allora, l'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva tale obbligo limitatamente ai centri abitati.
Nel caso di specie, è pacifico che all’epoca in cui sono stati posti in essere gli abusi, il Comune di Merate fosse già dotato di Regolamento edilizio e piano di fabbricazione, come evidenziato nell’ordinanza di demolizione.
Pertanto, per tutto il territorio del Comune di Merate, la necessità del titolo abilitativo edilizio risale al 1955, in forza dell’approvazione del relativo regolamento edilizio. Il comune infatti, pur in assenza di una norma primaria che imponesse ai proprietari di munirsi di titolo abilitativo per effettuare interventi edificatori, aveva adottato il citato regolamento edilizio con cui si prevedeva l’obbligo di chiedere apposita licenzia per costruire, ricostruire o modificare sostanzialmente edifici (art. 3).
È orientamento giurisprudenziale pacifico e condiviso dal Collegio che l’obbligo imposto dal regolamento edilizio fosse valido e cogente anche in assenza della legge urbanistica. Infatti, la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati contenuta nella legge del 1942 certamente non impediva ai Comuni di estendere all'intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell'attività edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi di una tipica prerogativa ad essi spettante (cfr. in tema, ex plurimis, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 12.06.2014, n. 3245; Consiglio di Stato, Sez. VII, 23.05.2022, n. 4083; TAR Venezia, Sez. II, 01.04.2022, n. 524; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23.12.2019, n. 2730).
Da quanto sopra, consegue che le opere realizzate in difformità dalla licenza edilizia del 18.02.1965 devono considerarsi abusive, in quanto in quella data era cogente nel territorio comunale di Merate l’obbligo di dotarsi di titolo edilizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.06.2022 n. 1345 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn termini generali, è noto che l’art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sul territorio comunale.
Prima di allora, l’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva tale obbligo limitatamente ai centri abitati, disponendo che: «chiunque intenda eseguire nuove costruzioni ovvero ampliare quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri abitati e dove esiste il Piano Regolatore Comunale anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza edilizia».
La definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione.
---------------

8. Con il primo motivo di appello si eccepisce la falsa applicazione dell’art. 31 della l. 1150/1942.
In particolare si contesta l’assunto secondo il quale prima del 01.09.1967 -e più precisamente dal 1942- le nuove costruzioni e gli ampliamenti di costruzioni esistenti erano già soggette all’ottenimento del titolo edilizio, se ricadenti all’interno del centro abitato ovvero delle zone di espansione.
Si sostiene che:
   - l’art. 31 della l. 1150/1942, nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla l. 765/1967, imponeva la licenza edilizia «nei centri abitati ed ove esista il Piano Regolatore Comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell’art. 7»;
   - nei comuni (come quello di Grassobbio) non soggetti all’obbligo di dotarsi di Piano Regolatore Generale ex art. 8, comma 2, l. 1150/1942, la licenza edilizia era obbligatoria esclusivamente nel “centro abitato” e non nelle “zone di espansione”;
   - il Programma di Fabbricazione del 1961 dimostra sia che l’area in cui sorge il fabbricato era collocata in “zona semintensiva”, diversa e distinta dal centro abitato, sia che in Grassobbio non vigeva, all’epoca, alcun Piano Regolatore Generale;
   - il fondo per cui è causa ricadeva, all’epoca, nella parte del territorio comunale completamente inedificata, posta ad Est dell’asse autostradale, a considerevole distanza dall’abitato di Grassobbio e che nella “zona semintensiva” non esisteva alcun aggregato di case continue e vicine.
Alla luce di queste considerazioni si censurano gli argomenti addotti dal primo giudice per sostenere che, nella specie, la costruzione necessitasse di licenza edilizia:
   - il “centro abitato” che la legge urbanistica ha assoggettato all’obbligo di licenza sin dalla sua entrata in vigore non coincide affatto con le tutte zone regolate dai programmi di fabbricazione, e il fabbricato di cui si discute era fuori dal centro abitato;
   - l’obbligo di licenza non esiste in tutte le aree di nuovo impianto, bensì soltanto in quelle ove esista il P.R.G.
Il motivo è fondato.
8.1 In termini generali, è noto che l’art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sul territorio comunale. Prima di allora, l’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva tale obbligo limitatamente ai centri abitati, disponendo che: «chiunque intenda eseguire nuove costruzioni ovvero ampliare quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri abitati e dove esiste il Piano Regolatore Comunale anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza edilizia».
La definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione (Cons. Stato, Sezione VI, 21.02.2022, n. 1222).
Nel caso di specie è indubbio che all’epoca in cui fu posto in essere l’asserito abuso originario il Comune fosse privo di Piano Regolatore e che, sulla base della documentazione prodotta dall’appellante, l’immobile de qua si trovasse in una zona chiaramente distinta dal centro abitato inteso in senso formale e sostanziale (a quest’ultimo riguardo nell’accezione accolta da questa Sezione e prima richiamata).
Ne deriva che nessun abuso è configurabile nell’ipotesi in cui siano stati realizzati, senza titolo, interventi edilizi in area posta fuori dal centro abitato, in un momento storico in cui nessuna norma comunale prevedeva la necessità del titolo abilitativo fuori dal centro abitato. Tali opere sono legittime e pertanto il provvedimento di primo grado poggia su un presupposto erroneo
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.05.2022 n. 3807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl tempo trascorso fra la realizzazione dell'abuso e l'adozione dell'ordine di demolizione non determina, in capo al privato, l'insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e né innesta in capo all'amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo rafforza il carattere abusivo dell'intervento edilizio.
---------------
L’introduzione dell’obbligo del possesso del titolo abilitativo per l’esercizio dello ius aedificandi, pena la riduzione in pristino, è da farsi risalire in generale al 1942 per i centri storici con la legge urbanistica e, per tutto il territorio nazionale, al 1967, in seguito all’entrata in vigore della l. n. 765 del 1967.
---------------

Peraltro, in relaziona al caso di specie, non può aver alcuna incidenza la asserita risalenza nel tempo degli abusi realizzati, di per sé da considerarsi smentita per tabulas dalla documentazione prodotta in atti dall’odierno interventore ad opponendum, non potendo ammettersi la sussistenza di alcun legittimo affidamento a vedere conservata una situazione di fatto contra ius che il trascorrere del tempo non può legittimare.
Come evidenziato in giurisprudenza, “il tempo trascorso fra la realizzazione dell'abuso e l'adozione dell'ordine di demolizione non determina, in capo al privato, l'insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e né innesta in capo all'amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo rafforza il carattere abusivo dell'intervento edilizio” (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. II, 09.05.2019, n. 2500), trattandosi peraltro, di per sé, di un illecito avente carattere permanente.
Era onere della ricorrente, dunque, fornire piena prova della preesistenza al 1935 -e non già, al 1967- dell’opera in questione, in applicazione della regola generale contenuta nell’art. 2697 c.c. (per quanto riguarda il processo amministrativo, dall’art. 64, comma 1, d.lgs. n. 104 del 2010, secondo cui “Spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni”).
È del resto largamente noto che nel territorio del Comune di Napoli l’obbligo di munirsi di un titolo edilizio sia in vigore dal 1935, ossia da ben prima della legge ponte del 06.08.1967, n. 765.
Invero, per le costruzioni da realizzare nel territorio del Comune di Napoli, l’obbligo per gli interessati di richiedere la licenza edilizia è stato introdotto dall’art. 1, Regolamento Edilizio del Comune di Napoli dal 1935, con la conseguenza che ai fini della legittimità -sotto il profilo urbanistico-edilizio- di un’opera non è sufficiente dimostrarne la realizzazione in data antecedente al 1967, ma è necessario provare che la stessa sia stata eseguita in epoca anteriore al 1935; occorre in proposito conseguentemente ribadire che “l’introduzione dell’obbligo del possesso del titolo abilitativo per l’esercizio dello ius aedificandi, pena la riduzione in pristino, è da farsi risalire in generale al 1942 per i centri storici con la legge urbanistica e, per tutto il territorio nazionale, al 1967, in seguito all’entrata in vigore della l. n. 765 del 1967. Per tutto il territorio del Comune di Napoli, la necessità del titolo abilitativo edilizio risale addirittura al 1935, in forza del regolamento edilizio, ben prima quindi della l. n. 47 del 1985” (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745).
A tutto voler concedere, l’assunto della vetustà, poi, oltre ad essere indimostrato nel suo risalire ad epoca anteriore al 1935, è comunque autonomamente smentito dalle planimetrie allegate all’atto di compravendita del 2008. In dette planimetrie il lucernaio oggetto di controversia è assente, potendosene di conseguenza presumere in modo realistico la realizzazione solo successivamente a tale data (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 16.05.2022 n. 3274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer consolidata giurisprudenza, rispetto al periodo antecedente al 1967, la definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci, dovendosi fare riferimento a criteri empirici, per cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, anche distante dal centro, con interposte strade, piazze o simili.
---------------

Il primo motivo di ricorso è infondato.
Non è in contestazione tra le parti che il fabbricato oggetto di causa sia stato edificato negli anni 1954/1955.
L’art. 31 della legge urbanistica del 1942, nel testo vigente al momento in cui il fabbricato oggetto è stato realizzato, ossia nell’anno 1955, richiedeva la licenza per “eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale”.
Osserva che Collegio che «Per consolidata giurisprudenza, rispetto al periodo antecedente al 1967, la definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci, dovendosi fare riferimento a criteri empirici, per cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, anche distante dal centro, con interposte strade, piazze o simili» (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 11.10.2021, n. 6770 di recente Cons. Stato Sez. VI, 21.06.2021, n. 4771; Sez. II, 09.06.2020, n. 3677) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 21.04.2022 n. 1357 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA- in termini generali, è noto che l’art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sul territorio comunale;
   - prima di allora, l’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva tale obbligo limitatamente ai centri abitati, disponendo che: «chiunque intenda eseguire nuove costruzioni ovvero ampliare quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri abitati e dove esiste il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza edilizia»;
   - la definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione;
   - ciò posto, l’onere di provare la data di realizzazione e la consistenza dell’immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso, mentre solo la deduzione da parte di quest’ultimo di concreti elementi di riscontro trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione.
---------------

Considerato in diritto che
   - in via preliminare, va rimarcato che, non avendo il Comune di Arce proposto appello incidentale, sono passati in giudicati i capi di sentenza che hanno accolto i primi due motivi di ricorso (segnatamente: l’incompetenza del Comune a contestare la mancanza dell’autorizzazione sismica; l’omesso previo annullamento del titolo edilizio consistente nel permesso di costruire in sanatoria n. 2/2017, con cui era stato regolarmente assentito il porticato in legno);
   - in termini generali, è noto che l’art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sul territorio comunale;
   - prima di allora, l’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva tale obbligo limitatamente ai centri abitati, disponendo che: «chiunque intenda eseguire nuove costruzioni ovvero ampliare quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri abitati e dove esiste il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza edilizia»;
   - la definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione;
   - ciò posto, l’onere di provare la data di realizzazione e la consistenza dell’immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso, mentre solo la deduzione da parte di quest’ultimo di concreti elementi di riscontro trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.02.2022 n. 1222 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' noto che l’obbligo generalizzato di richiedere la licenza edilizia per eseguire nuove costruzioni, ampliare, modificare o demolire quelle esistenti, ovvero per procedere all’esecuzione di opere di urbanizzazione sul terreno, è stato generalizzato dall’art. 10 L. 06.08.1967 n. 765 (mentre in precedenza l’art. 31, comma 1, L. 17.08.1942 n. 1150 imponeva di premunirsi di licenza edilizia solo per gli interventi nei centri abitati e nelle zone di espansione previste dal piano regolatore).
---------------

Priva di pregio risulta la considerazione secondo la quale poiché gli interventi in questione si collocherebbero all’interno di una zona del territorio comunale classificata “zona di espansione”, andrebbero automaticamente qualificati come “modifiche di lieve entità”.
Ed invero è noto che l’obbligo generalizzato di richiedere la licenza edilizia per eseguire nuove costruzioni, ampliare, modificare o demolire quelle esistenti, ovvero per procedere all’esecuzione di opere di urbanizzazione sul terreno, è stato generalizzato dall’art. 10 L. 06.08.1967 n. 765 (mentre in precedenza l’art. 31, comma 1, L. 17.08.1942 n. 1150 imponeva di premunirsi di licenza edilizia solo per gli interventi nei centri abitati e nelle zone di espansione previste dal piano regolatore).
E nel caso di specie le opere realizzate dalla ricorrente, alterando lo stato dei luoghi, con incremento del carico urbanistico, avrebbero richiesto per la loro consistenza, il previo rilascio del permesso di costruire, sicché legittimamente ne è stata ordinata la demolizione (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 29.10.2021 n. 2933 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAÈ noto che l’art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sul territorio comunale.
Prima di allora, l’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva tale obbligo limitatamente ai centri abitati, disponendo che: «chiunque intenda eseguire nuove costruzioni ovvero ampliare quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri abitati e dove esiste il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza edilizia».
La definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione.
---------------

8.‒ In ragione dell’epoca di realizzazione del portico-manufatto, nell’anno 1954, la sua costruzione non richiedeva alcun titolo abilitativo. È dunque erronea la qualificazione di ‘abusività’ presupposta negli atti impugnati.
8.1‒ I rilievi mossi dall’Amministrazione nella memoria depositata in vista dell’udienza pubblica ‒in cui si sostiene che le risultanze istruttorie non confermerebbero la fondatezza delle argomentazioni di parte appellante‒ non colgono nel segno.
8.2.‒ Il distacco del manufatto dall’edificio limitrofo (al quale si fa riferimento nella relazione) non pone in discussione la circostanza che l’edificio rappresentato nelle Ortofoto sia lo stesso fatto oggetto dei provvedimenti impugnati.
8.3.‒ La circostanza che il manto di copertura con onduline e vetroresina sia stato realizzato in epoca successiva all’anno 1967, non ha rilievo ai fini del presente giudizio: il diniego e l’ordine di demolizione si riferiscono infatti all’intero edificio, senza distinguere tra la parte muraria (stimata in epoca anteriore al 1967) ed il manto di copertura realizzato con onduline e vetroresina (strutture quest’ultime che, peraltro, gli appellanti affermano che sarebbero state eliminate una volta assentita la trasformazione del portico in garage).
8.4.‒ La deduzione secondo cui gli immobili di cui si discute sarebbero stati situati all’interno del centro abitato del Comune di Cassolnovo, ragione per cui nemmeno la loro datazione ad epoca antecedente al 1954 sarebbe idonea a far ritenere la loro edificazione ‘libera’, è sfornita di qualunque riscontro.
È noto che l’art. 10 della legge 06.08.1967, n. 765, ha introdotto l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sul territorio comunale. Prima di allora, l’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150 prevedeva tale obbligo limitatamente ai centri abitati, disponendo che: «chiunque intenda eseguire nuove costruzioni ovvero ampliare quelle già esistenti o modificare la struttura nei centri abitati e dove esiste il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7 deve chiedere apposita licenza edilizia».
La definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione.
Ebbene, nel caso di specie, l’Amministrazione ‒oltre a non allegare la vigenza di un piano regolatore all’epoca dei fatti‒ non ha depositato alcun elaborato cartografico da cui risulti che, storicamente, i terreni di proprietà degli appellanti fossero compresi in una zona contrassegnata dalla presenza di case continue e vicine (circostanza contestata dagli appellanti secondo cui trattavisi di portico agricolo eretto in aperta campagna, come dimostrato dalla struttura tipicamente rurale che il piccolo borgo di Cassolnovo) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.06.2021 n. 4771 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha chiarito che nel sistema giuridico vigente la definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci, per cui occorre fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, comunque suscettibile di espansione.
Nell'ambito urbanistico edilizio, in riferimento alla nozione di 'centro abitato', si fonda essenzialmente sulla presenza di immobili, opere e strutture già idonee a fare ritenere che la zona sia in qualche modo già antropizzata.
Anche questa sezione ha recentemente affermato che in assenza di un atto urbanistico di perimetrazione del centro abitato, la nozione di centro abitato urbanisticamente rilevante deve essere ancorata alla sussistenza di circostanze di fatto (aggregato di case continue e vicine), piuttosto che a formali qualificazioni provvedimentali, che possono semmai fungere da supporto probatorio di carattere integrativo.
---------------

Il motivo di ricorso non può essere accolto.
A prescindere da ogni approfondimento circa la preesistenza dell’immobile in questione alla data del 1967, infatti, risulta dagli atti di causa che l’immobile non si trova al di fuori dalla perimetrazione del centro abitato.
Come rilevato il Comune nelle sue difese e comprovato dagli atti di causa, l’area su cui fu costruito il manufatto oggetto del presente gravame era già all’epoca della sua costruzione qualificabile come un agglomerato urbano/residenziale. La circostanza è provata dalla foto aerea dell’Istituto Geografico Militare (datata 1964), dal testamento del 1973 e dai rilievi catastali (datati 1982), da cui emerge che la proprietà è circondata da altri beni immobili.
La giurisprudenza ha sul punto chiarito che nel sistema giuridico vigente la definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci, per cui occorre fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, comunque suscettibile di espansione (Consiglio di Stato sez. IV, 19/08/2016, n. 3656).
Nell'ambito urbanistico edilizio, in riferimento alla nozione di 'centro abitato', si fonda essenzialmente sulla presenza di immobili, opere e strutture già idonee a fare ritenere che la zona sia in qualche modo già antropizzata (TAR Campania, Salerno, sez. II, 22/01/2021, n. 199).
Anche questa sezione ha recentemente affermato che in assenza di un atto urbanistico di perimetrazione del centro abitato, la nozione di centro abitato urbanisticamente rilevante deve essere ancorata alla sussistenza di circostanze di fatto (aggregato di case continue e vicine), piuttosto che a formali qualificazioni provvedimentali, che possono semmai fungere da supporto probatorio di carattere integrativo (TAR Campania Napoli, sez. II, 02/10/2020, n. 4183).
Alla luce di tali principi giurisprudenziali, deve ritenersi che anche ante 1967 nell’area in cui si trova l’immobile in esame occorreva il rilascio di un titolo edilizio, dovendo qualificarsi l’area entro la quale esso è situato come “centro abitato” (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 08.06.2021 n. 3840 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Regolamento Edilizio comunale del 25.05.1938, dal quale risulta l’obbligo di munirsi di titolo edilizio anche per le opere realizzate fuori dal centro abitato, non può ritenersi illegittimo in quanto -secondo la giurisprudenza- non può fondatamente sostenersi che il regolamento edilizio comunale fosse divenuto illegittimo e non più applicabile una volta entrata in vigore la L. n. 1150/1942, che, all’art. 31, limitava la necessità della licenza edilizia all’attività edificatoria svolta all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione previste dai piani.
Infatti, la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell’attività edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi di una tipica prerogativa ad essi spettante.

---------------

7.2 Ad abundantiam occorre specificare che il motivo è infondato anche nella parte in cui afferma che le opere realizzate fuori dal centro storico negli anni tra il 1950 ed il 1960 non richiedevano titolo edilizio in quanto il Comune ha depositato il Regolamento Edilizio del Comune di Senago 25.05.1938 dal quale risulta l’obbligo di munirsi di titolo edilizio anche per le opere realizzate fuori dal centro abitato.
Né in merito può ritenersi che tale regolamento fosse illegittimo in quanto secondo la giurisprudenza (TAR Abruzzo-Pescara - Sez. I, 14.01.2010, n. 23; TAR Veneto, Sez. II, 30.01.2014 n. 121) non può fondatamente sostenersi che il regolamento edilizio comunale fosse divenuto illegittimo e non più applicabile una volta entrata in vigore la L. n. 1150/1942, che, all’art. 31, limitava la necessità della licenza edilizia all’attività edificatoria svolta all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione previste dai piani. Infatti, la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell’attività edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi di una tipica prerogativa ad essi spettante (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.12.2019 n. 2730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer quanto riguarda, il capannone, rileva come parte ricorrente non abbia fornito alcuna prova circa la realizzazione dello stesso anteriormente al 1967 e, dunque, prima che l. n. 765/1967 (c.d. “legge ponte”) introducesse un obbligo generalizzato di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la realizzazione di opere in qualsiasi parte del territorio comunale (prima, invece, sussistente, ai sensi dell’art. 31 della legge urbanistica n. 1150/1942, solo per edificare nei centri abitati, a prescindere dalla dotazione o meno di strumenti urbanistici da parte dei Comuni).
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa è da sempre consolidata nel ritenere che l’onere di fornire la prova rigorosa dell’ultimazione delle opere abusive incomba sull’interessato, l’unico in grado di fornire atti e documenti che offrano la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto, e non già sull’amministrazione che, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha, invece, il dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ne ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione.
---------------

Il ricorso è infondato, in ragione della legittimità sotto i profili contestati dell’impugnata ordinanza di demolizione.
Non sono, innanzi tutto, meritevoli di accoglimento le censure articolare in ricorso con cui parte ricorrente tenta di dimostrare la piena legittimità delle opere sanzionate, non valendo quanto affermato e prodotto in giudizio da parte ricorrente a smentire il carattere abusivo di tali interventi, effettivamente eseguiti in assenza di un titolo edilizio nonostante rientrino (come correttamente ritenuto dall’amministrazione comunale) in parte -per quanto riguarda, il capannone, il manufatto destinato a spogliatoi e wc e il locale destinato alla guardiania- “tra quelle indicate nell’art. 31 del DPR 06.06.2001 n. 380” (“Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”) ed, in parte -per quel che concerne le tettoie ed il locale tecnologico antincendio- “tra quelle indicate nell’art. 33 del DPR 06.06.2001 n. 380” (“Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità”).
Per quanto riguarda, il capannone, rileva, infatti, come parte ricorrente non abbia fornito alcuna prova circa la realizzazione dello stesso anteriormente al 1967 e, dunque, prima che l. n. 765/1967 (c.d. “legge ponte”) introducesse un obbligo generalizzato di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la realizzazione di opere in qualsiasi parte del territorio comunale (prima, invece, sussistente, ai sensi dell’art. 31 della legge urbanistica n. 1150/1942, solo per edificare nei centri abitati, a prescindere dalla dotazione o meno di strumenti urbanistici da parte dei Comuni), essendo la giurisprudenza amministrativa da sempre consolidata nel ritenere che l’onere di fornire la prova rigorosa dell’ultimazione delle opere abusive incomba sull’interessato, l’unico in grado di fornire atti e documenti che offrano la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto, e non già -come vorrebbe parte ricorrente- sull’amministrazione che, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha, invece, il dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ne ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione (in tal senso, da ultimo, TAR Napoli, Campania, sezione VIII, n. 4122/2017, nonché, in epoca più risalente, TAR Toscana, sezione II, n. 158/1992).
A ciò si aggiunga come parte ricorrente abbia dichiarato che lo stabilimento produttivo sarebbe “composto da vari capannoni, per una superficie coperta di oltre 10.000 mq” per poi produrre in atti titoli edilizi cumulativamente idonei ad assentirne soltanto 5.545 metri quadri circa (in tal senso la denunzia prodotta in giudizio da parte ricorrente, alla quale avrebbe fatto seguito la citata ordinanza comunale del 14.05.1972) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 15.06.2018 n. 951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn punto di diritto, il Collegio rileva come l’introduzione del regime relativo alla necessità di un titolo abilitativo edilizio per l’esercizio dello ius edificandi è da farsi risalire, in generale, al 1942 per i centri storici con la legge urbanistica e, per tutto il territorio nazionale, al 1967 in seguito all’entrata in vigore della legge n. 765/1967.
Peraltro, per tutto il territorio del Comune, la necessità del titolo abilitativo edilizio risale addirittura al 1935 in forza di regolamento edilizio.
Il Comune già prima del 1942, pur in assenza di una norma primaria che imponesse ai proprietari di munirsi di titolo abilitativo per effettuare interventi edificatori, aveva adottato un regolamento edilizio, approvato appunto nel 1935, con cui aveva previsto l’obbligo di munirsi di licenza edilizia per gli interventi da effettuarsi sull’intero territorio comunale.
L'art. 1 del regolamento edilizio del 1935 aveva stabilito, difatti, al comma 2, che nel territorio del Comune di Napoli, non era permesso eseguire, senza licenza del Sindaco, e con modalità diverse da quelle stabilite: "a) costruzione di nuovi edifici, sopralzi od ampliamenti di quelli esistenti;
   b) demolizione, ricostruzione parziale o totale, modifica, trasformazione o restauro di edifici esistenti;
   c) spostamento o rimozione di elementi di fabbricato di altre cose e materie che abbiano comunque carattere storico, archeologico, artistico od anche semplicemente panoramico, e che siano esposti alla vista del pubblico;
   d) restauro, decorazione o attintatura delle facciate dei fabbricati rivolte alla strada pubblica o comunque visibili da strade giardini, o spazi pubblici;
   e) apposizione sulle facciate esterne dei fabbricati, o impianto, comunque in vista del pubblico, di fanali insegne ecc....
   f) esecuzione di scavi od opere sotterranee in genere; g) qualunque altra opera che possa interessare lo sviluppo, l'igiene e l'estetica della Città in relazione al contenuto del regolamento”.
Alla stregua di tali considerazioni, le opere oggetto di contestazione devono ritenersi tutte eseguite senza titolo, in quanto databili ad epoca per la quale era già stato introdotto nel Comune l’obbligo di dotarsi di licenza edilizia.

---------------

Riguardo al secondo aspetto, attinente la contestazione dell’epoca di realizzazione della costruzione, la consulenza tecnica espletata a firma dell’Ing. Gi.Gu. ha consentito di giungere a conclusioni attendibili sulla valutazione degli elementi su cui porte ricorrente basava la propria tesi, e segnatamente delle foto aeree dalle quali lo stesso assumeva desumibile la presenza di ombre, a suo dire identificative della struttura de qua.
In particolare, l’indagine del consulente ha esattamente riguardato tutti i corpi di fabbrica presenti nella contestazione di cui al secondo provvedimento, impugnato con i motivi aggiunti, ancorché durante l’accesso del 08.11.2012 esperito dinanzi al precedente CTU, fosse stato erroneamente assunto a base di indagine un grafico ove non era indicata la tettoia, contraddistinta come corpo C.
Basti in proposito rilevare come le parti non hanno potere dispositivo circa l’ampiezza dell’indagine affidata dal Collegio al Consulente di ufficio, indagine che chiaramente involgeva tutti i manufatti oggetto del secondo ordine di demolizione, che ha sostituito il precedente.
Circa le valutazioni del Consulente di ufficio ing. Gu. sulla databilità delle strutture, le stesse possono essere pienamente condivise dal Collegio, in quanto fondate su una scrupolosa disamina delle foto aeree e della cartografia dal consulente acquisita, e su ampia acquisizione documentale, oggetto di analisi fondata su validi criteri logici e tecnici.
Al riguardo, dalla relazione di consulenza tecnica di ufficio emerge:
   - il corpo verandato A deve distinguersi in una parte sviluppata verso oriente, da ritenersi realizzata nel periodo 1956-1967, ed in una porzione occidentale, che risulta realizzata tra il 1981 ed il 1985;
   - il corpo B sottostante la tettoia C, è databile solo nel senso che sia certamente antecedente al 1985;
   - la tettoia C è da ritenersi realizzata tra il 1956 ed il 1967.
La medesima parte ricorrente non ha, inoltre, dimostrato, in punto di fatto, l’effettiva risalenza della specifica opera abusiva a data anteriore.
In punto di diritto, inoltre, il Collegio rileva come l’introduzione del regime relativo alla necessità di un titolo abilitativo edilizio per l’esercizio dello ius edificandi è da farsi risalire, in generale, al 1942 per i centri storici con la legge urbanistica e, per tutto il territorio nazionale, al 1967 in seguito all’entrata in vigore della legge n. 765/1967 (e non all’anno 1968).
Peraltro, per tutto il territorio del Comune di Napoli, la necessità del titolo abilitativo edilizio risale addirittura al 1935 in forza di regolamento edilizio.
Il Comune di Napoli difatti, già prima del 1942, pur in assenza di una norma primaria che imponesse ai proprietari di munirsi di titolo abilitativo per effettuare interventi edificatori, aveva adottato un regolamento edilizio, approvato appunto nel 1935, con cui aveva previsto l’obbligo di munirsi di licenza edilizia per gli interventi da effettuarsi sull’intero territorio comunale (TAR Campania–Napoli, Sez. IV, n. 2051/2010; TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 11362/2010; TAR Campania-Napoli, Sez. IV, n. 6879/2009).
L'art. 1 del regolamento edilizio del 1935 aveva stabilito, difatti, al comma 2, che nel territorio del Comune di Napoli, non era permesso eseguire, senza licenza del Sindaco, e con modalità diverse da quelle stabilite: "a) costruzione di nuovi edifici, sopralzi od ampliamenti di quelli esistenti;
   b) demolizione, ricostruzione parziale o totale, modifica, trasformazione o restauro di edifici esistenti;
   c) spostamento o rimozione di elementi di fabbricato di altre cose e materie che abbiano comunque carattere storico, archeologico, artistico od anche semplicemente panoramico, e che siano esposti alla vista del pubblico;
   d) restauro, decorazione o attintatura delle facciate dei fabbricati rivolte alla strada pubblica o comunque visibili da strade giardini, o spazi pubblici;
   e) apposizione sulle facciate esterne dei fabbricati, o impianto, comunque in vista del pubblico, di fanali insegne ecc....
   f) esecuzione di scavi od opere sotterranee in genere; g) qualunque altra opera che possa interessare lo sviluppo, l'igiene e l'estetica della Città in relazione al contenuto del regolamento
”.
Alla stregua di tali considerazioni, le opere oggetto di contestazione devono ritenersi tutte eseguite senza titolo, in quanto databili ad epoca per la quale era già stato introdotto nel Comune di Napoli l’obbligo di dotarsi di licenza edilizia (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 12.06.2014 n. 3245 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aggiornamento al 31.10.2022

IN EVIDENZA

COMPETENZE PROGETTUALI: Sulla questione della nullità del contratto d’opera professionale stipulato con in geometra avente ad oggetto la progettazione di una costruzione contenente strutture in cemento armato.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), del r.d. n. 274 del 1929- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle.
A questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato, assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. n. 64 del 1974, la quale impone calcoli complessi, che esulano dalle competenze professionali dei geometri.

---------------
2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. e 345 c.p.c. e 1421 c.c. (in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c.), nonché degli artt. 16, comma 1, lett. l) e m), del r.d. n. 274/1929; 1 del r.d. n. 2229/1939; 1418, 15421, 2229, 2230 e 2231 c.c. e della legge n. 1086/1971 (in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.).
Non essendo in contestazione che l’edificio da progettare si fondasse su una struttura in cemento armato, avrebbe errato, secondo il ricorrente, la sentenza di merito a ritenere l’eccezione di nullità proposta in violazione dell’art. 345 c.p.c., per l’assorbente considerazione che trattasi di questione rilevabile d’ufficio, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità di cui a Cass., Sez. Un., n. 14828/2012 e Cass., Sez. Un., n. 21095/2014.
Pertanto, dal momento che l’edificio in questione eccedeva certamente la nozione di “modesta costruzione civile” di cui all’art. 16, comma 1, lett. m), del r.d. n. 274/1929, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto dichiarare nullo il contratto di prestazione d’opera intercorso tra le parti, con conseguente impossibilità per i controricorrenti di reclamare qualsivoglia compenso, ai sensi dell’art. 2231 c.c.
...
7. Il primo motivo è fondato, e il suo accoglimento determina l’assorbimento di tutti gli altri.
La Corte d’Appello di Perugia, nella sentenza impugnata, non ha esaminato la questione relativa alla nullità del contratto costituente il titolo della pretesa fatta valere dai controricorrenti con l’originario ricorso monitorio, dichiarando l’inammissibilità della relativa eccezione in quanto non sollevata in seno al processo di primo grado e non più sollevabile in appello, “secondo il disposto di cui all’art. 345 c.p.c. trattandosi di eccezione nuova”.
Tale statuizione, tuttavia, non tiene conto della rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, con conseguente applicabilità del secondo comma della disposizione citata, il quale, a contrario, consente la proposizione di nuove eccezioni, nella misura in cui si tratti -per l’appunto- di eccezioni rilevabili d’ufficio (si veda, di recente, Cass., n. 19161/2020, alla cui stregua “il giudice di appello è tenuto a procedere al rilievo officioso di una nullità contrattuale nonostante sia mancata la rilevazione in primo grado e l'eccezione di nullità sia stata sollevata in sede di gravame, venendo in rilievo un'eccezione in senso lato, come tale proponibile in appello a norma dell'art. 345, comma 2, c.p.c.”).
Già Cass., Sez. Un., n. 26242/2014, aveva affermato che “nel giudizio di appello ed in quello di cassazione, il giudice, in caso di mancata rilevazione officiosa, in primo grado, di una nullità contrattuale, ha sempre facoltà di procedere ad un siffatto rilievo”. A fronte dell’eccezione dell’appellante, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto, pertanto, esaminare la questione della nullità del contratto d’opera professionale stipulato con i geometri odierni controricorrenti, avente ad oggetto la progettazione di una costruzione contenente strutture in cemento armato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, infatti, “a norma dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, che non è stato modificato dalla legge n. 1068 del 1971, la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato. Pertanto, la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità” (in questi termini:
   - la recente Cass., n. 100/2021, ma si veda anche Cass., n. 29227/2019 -secondo cui “la disposizione, contenuta nell'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929, secondo cui i geometri non sono abilitati a redigere "progetti di massima" ove riguardanti costruzioni in cemento armato, fuori dalle ipotesi eccezionalmente consentite dalla lett. l), risponde ad evidenti ragioni di pubblico interesse e lascia all'interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità, indicando, invece, un preciso requisito, ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti. Ne consegue l'inammissibilità di un'interpretazione estensiva o evolutiva di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme -art. 2 della l. n. 1086 del 1971 e art. 17 della l. n. 64 del 1974- che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale”- nonché, con precipuo riguardo al rilievo officioso della nullità,
   - Cass., n. 20438/2019, nella quale si legge che “è nullo il contratto di affidamento della direzione dei lavori di costruzioni civili ad un geometra, ove la progettazione richieda l'esecuzione, anche parziale, dei calcoli in cemento armato, attività demandata agli ingegneri, attese le limitate competenze attribuite ai geometri dall'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929. Tale nullità è rilevabile, ai sensi dell'art. 1421 c.c., anche d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, incontrando siffatto principio, in sede di legittimità, il limite del divieto degli accertamenti di fatto, sicché nel giudizio di cassazione la nullità è rilevabile solo se siano acquisiti agli atti tutti gli elementi di fatto dai quali possa desumersene l'esistenza”).
8. Alla cassazione della sentenza impugnata consegue, pertanto, il rinvio alla Corte d’Appello di Perugia (in diversa composizione), cui è demandata la valutazione di merito circa la tipologia ed entità delle opere in cemento armato contemplate dal progetto commissionato ai geometri Pa. e Ar., in ossequio alla regula iuris per cui “
il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), del r.d. n. 274 del 1929- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato, assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. n. 64 del 1974, la quale impone calcoli complessi, che esulano dalle competenze professionali dei geometri” (Cass., n. 5871/2017) (Corte di cassazione, Sez. II civile, ordinanza 20.09.2022 n. 27502).

COMPETENZE PROGETTUALIA norma dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, che non è stato modificato dalla legge n. 1068 del 1971, la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato.
Pertanto, la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità.
Si è anche, in particolare, specificato –contrariamente a quanto assunto nell’impugnata sentenza- che i limiti posti dall'art. 16, lett. m), del r.d. 11.02.1929, n. 274 alla competenza professionale dei geometri rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità, indicando invece un preciso requisito, ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti (aspetto, questo, pacificamente da escludere con riferimento alla fattispecie), per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato.
È da ritenersi, pertanto, esclusa la possibilità di un'interpretazione estensiva o "evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme –quali l’art. 2 della legge 05.11.1971, n. 1086 e l’art. 17 della legge 02.02.1974, n. 64– che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale.
Ne consegue che, qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la progettazione –richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato– sia riservata alla competenza degli ingegneri. Ed è anche pacifico che, a norma dell'art. 2231 c.c., quando l'esercizio di un'attività professionale è condizionato all'iscrizione in un albo o elenco, la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento del compenso, onde, in tali ipotesi, non può ritenersi esperibile neppure l'azione generale di arricchimento di cui all'art. 2041 c.c.
---------------

1. Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 16 del R.D. 11.02.1929, n. 274 e dell’art. 1 del R.D. 16.11.1939, n. 2229, in relazione agli artt. 11, 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale e agli artt. 1418, 2229 e 2231 c.c.
In particolare, la ricorrente, con questa doglianza, ha inteso dedurre che, sulla base delle caratteristiche dell’immobile in relazione al quale il geom. Pa. aveva prestato la sua opera professionale, consistenti –come accertato in sede di c.t.u.- nella realizzazione di una soletta di fondazione in cemento armato, di murature d’ambito sempre in cemento armato per il seminterrato, di solai latero-cementizi, di travi e di una scala in cemento armato, al citato geometra non avrebbe potuto essere riconosciuto il necessario titolo abilitativo per l’esecuzione delle contestate prestazioni, ragion per cui –alla stregua delle richiamate norme– egli non poteva aver diritto alla percezione di alcun compenso per la predetta attività svolta oltre i limiti delle proprie competenze.
...
3. Rileva il collegio che il primo motivo è fondato e deve essere, quindi, accolto per le ragioni che seguono.
Va, infatti, osservato che -essendo rimasto accertato in fatto che la prestazione del Pa., in qualità di geometra, fu eseguita in epoca antecedente al dicembre 2010 (ovvero prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 212/2010, con la quale fu disposta l’abrogazione dell’art. 1 del R.D. n. 2229/1939) e che la stessa non aveva ad oggetto una piccola costruzione accessoria nell’ambito di edifici agricoli (sulla scorta delle inequivoche caratteristiche precedentemente descritte, involgenti plurimi interventi edilizi comportanti l’utilizzo di cemento armato relativi alla ristrutturazione di un immobile adibito a civile abitazione)– la doglianza è meritevole di accoglimento alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Corte occupatasi della questione (cfr., ad es., Cass. n. 286/1984, Cass. n. 3021/2005, 19292/2009 e Cass. n. 5871/2016).
Secondo il principio univocamente dalla stessa affermato (al quale dovrà uniformarsi il giudice di rinvio), a norma dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, che non è stato modificato dalla legge n. 1068 del 1971, la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato.
Pertanto, la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità.
Si è anche, in particolare, specificato –contrariamente a quanto assunto nell’impugnata sentenza- che i limiti posti dall'art. 16, lett. m), del r.d. 11.02.1929, n. 274 alla competenza professionale dei geometri rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità, indicando invece un preciso requisito, ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti (aspetto, questo, pacificamente da escludere con riferimento alla fattispecie), per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato.
È da ritenersi, pertanto, esclusa la possibilità di un'interpretazione estensiva o "evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme –quali l’art. 2 della legge 05.11.1971, n. 1086 e l’art. 17 della legge 02.02.1974, n. 64– che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale.
Ne consegue che, qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la progettazione –richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato– sia riservata alla competenza degli ingegneri. Ed è anche pacifico che, a norma dell'art. 2231 c.c., quando l'esercizio di un'attività professionale è condizionato all'iscrizione in un albo o elenco, la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento del compenso, onde, in tali ipotesi, non può ritenersi esperibile neppure l'azione generale di arricchimento di cui all'art. 2041 c.c. (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 21.03.2022 n. 9072).

COMPETENZE PROGETTUALI: La categoria del «progetto architettonico» non ha riscontro ai fini ed agli effetti dell'art. 16 del regolamento professionale di cui al r.d. 11.02.1929 n. 274, in base al quale i geometri non possono redigere progetti, sia di massima che esecutivi, di costruzioni che comportino l'impiego di conglomerati cementizi, semplici o armati, in strutture statiche e portanti.
La competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre„ in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato.
Ne deriva che, "qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la progettazione -richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato- sia riservata alla competenza degli ingegneri".
---------------
Il giudice di appello ha ritenuto di dover escludere tale nullità sul rilievo che, nel caso di specie, "l'attività dei professionisti si è incentrata esclusivamente sulla progettazione architettonica di un immobile da adibire a civile abitazione, sull'ottenimento delle relative autorizzazioni paesaggistico-ambientali, sulle pratiche edilizie, sull'autorizzazione sismica rilasciata a seguito della presentazione di calcoli antisismici ai sensi della legge 66/1974-d.lgs. 380/2001, non avendo, al contrario, mai avuto ad oggetto la progettazione strutturale dell'opera".
Così argomentando, tuttavia, la sentenza impugnata non ha considerato che "la categoria del «progetto architettonico» non ha riscontro, ai fini di causa, nella legge e nella giurisprudenza delle sezioni civili di questa Corte, la quale ha sempre affermato che i geometri, ai sensi dell'art. 16 del regolamento professionale di cui al r.d. 11.02.1929 n. 274, non possono redigere progetti, sia di massima che esecutivi, di costruzioni che comportino l'impiego di conglomerati cementizi, semplici o armati, in strutture statiche e portanti".
La Corte, inoltre, neppure ha chiarito in cosa si sia sostanziata la successiva attività di "progettazione strutturale" (e da chi sia stata svolta), ovvero se essa abbia messo capo ad un autonomo progetto e, eventualmente, da chi lo stesso sia stato firmato. Circostanze, ambedue, di grande rilievo, posto che, da un lato, "l'eventuale successivo intervento, nella fase esecutiva ed in quella della direzione dei lavori di un tecnico di livello superiore a quello del redattore del progetto originario, non può valere a sanare ex post la nullità per violazione di norme imperative, del contratto d'opera professionale, da valutarsi con esclusivo riferimento al momento genetico del rapporto", così come, dall'altro, non idonea ad assicurare il rispetto della suddetta normativa imperativa è la circostanza che "un progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità".
D'altra parte, la sentenza impugnata non sembra attribuire adeguato rilievo al fatto che l'attività edilizia in questione risulti avvenuta in zona sismica, circostanza che di per sé comporta il "conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla legge n. 64 del 1974, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri".
Il terzo motivo di ricorso deve essere, pertanto, accolto, nei termini appena indicati, cassando in relazione la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello perché decida nel merito, alla stregua del seguente principio di diritto: "la categoria del «progetto architettonico» non ha riscontro ai fini ed agli effetti dell'art. 16 del regolamento professionale di cui al r.d. 11.02.1929 n. 274, in base al quale i geometri non possono redigere progetti, sia di massima che esecutivi, di costruzioni che comportino l'impiego di conglomerati cementizi, semplici o armati, in strutture statiche e portanti
".
---------------

5.3. Il terzo motivo, invece, è fondato, nei termini di seguito indicati.
5.3.1. Non è, infatti, corretto l'assunto con cui la Corte perugina ha escluso la nullità del contratto per cui è causa, derivante dalla violazione dell'art. 1 del regio decreto 16.11.1939, n. 2229 (norma applicabile, "ratione temporis", alla presente fattispecie, risultando il contratto "de quo" stipulato prima che tale norma fosse abrogata dal decreto legislativo 13.12.2010, n. 212, "atteso che la menzionata abrogazione, comportando l'introduzione di una disciplina innovativa e non già interpretativa della normativa previgente, non ha prodotto effetti retroattivi idonei ad incidere sulla qualificazione degli atti compiuti prima della sua entrata in vigore e non ha, dunque, influito sulla invalidità del contratto, regolata dalla legge del tempo in cui lo stesso è stato concluso"; cfr., da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 12.11.2019, n. 29227, Rv. 656184-01; nello stesso senso già Cass. Sez. 2, sent. 30.08.2013, n. 19989; Rv. 627757-01).
Sul punto, invero, occorre muovere dalla constatazione che la previsione normativa suddetta va coordinata con quella di cui all'art. 16, comma 1, lett. m), del regio decreto 11.02.1929, n. 274, secondo cui "la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre„ in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato".
Ne deriva che, "qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la progettazione -richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato- sia riservata alla competenza degli ingegneri" (così, da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 08.01.2021, n. 100, Rv. 659984-01).
5.3.2. Ciò premesso, il giudice di appello ha ritenuto di dover escludere tale nullità sul rilievo che, nel caso di specie, "l'attività dei professionisti si è incentrata esclusivamente sulla progettazione architettonica di un immobile da adibire a civile abitazione, sull'ottenimento delle relative autorizzazioni paesaggistico-ambientali, sulle pratiche edilizie, sull'autorizzazione sismica rilasciata a seguito della presentazione di calcoli antisismici ai sensi della legge 66/1974-d.lgs. 380/2001, non avendo, al contrario, mai avuto ad oggetto la progettazione strutturale dell'opera".
Così argomentando, tuttavia, la sentenza impugnata non ha considerato che "la categoria del «progetto architettonico» non ha riscontro, ai fini di causa, nella legge e nella giurisprudenza delle sezioni civili di questa Corte, la quale ha sempre affermato (cfr. sentenze di questa Corte n. 3262 del 1979 e 286 del 1984, non recenti, ma mai contraddette) che i geometri, ai sensi dell'art. 16 del regolamento professionale di cui al r.d. 11.02.1929 n. 274, non possono redigere progetti, sia di massima che esecutivi, di costruzioni che comportino l'impiego di conglomerati cementizi, semplici o armati, in strutture statiche e portanti" (così, in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 05.11.2004, n. 21185, Rv. 577961-01; si veda anche Cass. Sez. 2, sent. 07.09.2009, n. 19229, Rv. 609967-01, che nega, del pari, rilievo anche alla nozione di "progetto di massima").
La Corte perugina, inoltre, neppure ha chiarito in cosa si sia sostanziata la successiva attività di "progettazione strutturale" (e da chi sia stata svolta), ovvero se essa abbia messo capo ad un autonomo progetto e, eventualmente, da chi lo stesso sia stato firmato. Circostanze, ambedue, di grande rilievo, posto che, da un lato, "l'eventuale successivo intervento, nella fase esecutiva ed in quella della direzione dei lavori di un tecnico di livello superiore a quello del redattore del progetto originario, non può valere a sanare ex post la nullità per violazione di norme imperative, del contratto d'opera professionale, da valutarsi con esclusivo riferimento al momento genetico del rapporto" (Cass. Sez. 2, sent. n. 19229 del 2009, cit.), così come, dall'altro, non idonea ad assicurare il rispetto della suddetta normativa imperativa è la circostanza che "un progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità" (Cass. Sez. 2, ord. n. 100 del 2021, cit.).
D'altra parte, la sentenza impugnata non sembra attribuire adeguato rilievo al fatto che l'attività edilizia in questione risulti avvenuta in zona sismica, circostanza che di per sé comporta il "conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla legge n. 64 del 1974, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri" (da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 2, sient. 08.03.2017, n. 5871, Rv. 643365-01; nello stesso senso Cass. Sez. 2, sent. 08.04.2009, n. 8543, Rv. 607639-01).
5.3.3. Il terzo motivo di ricorso deve essere, pertanto, accolto, nei termini appena indicati, cassando in relazione la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Perugia perché decida nel merito, alla stregua del seguente principio di diritto: "la categoria del «progetto architettonico» non ha riscontro ai fini ed agli effetti dell'art. 16 del regolamento professionale di cui al r.d. 11.02.1929 n. 274, in base al quale i geometri non possono redigere progetti, sia di massima che esecutivi, di costruzioni che comportino l'impiego di conglomerati cementizi, semplici o armati, in strutture statiche e portanti" (Corte di Cassazione, Sez. III civile, ordinanza 10.12.2021 n. 39230).

COMPETENZE PROGETTUALICon riferimento alla sottoscrizione dell'offerta tecnica, consistente in migliorie da apportarsi al progetto esecutivo, da parte di un architetto piuttosto che di un ingegnere, trattandosi di opere idrauliche di competenza esclusiva di tale ultima categoria professionale, la stessa risulta illegittima tale da imporre alla stazione appaltante l'esclusione della concorrente poi divenuta aggiudicataria, senza alcuna possibilità di soccorso istruttorio, trattandosi di criticità direttamente inerenti all'offerta.
Invero, il riparto di competenze fra la professione di architetto e quella di ingegnere è stabilito ex lege in modo vincolante, non potendo neppure essere derogato –afferendo alla qualificazione funzionale delle diverse categorie professionali– dalla lex specialis di gara, peraltro nel caso di specie del tutto <<neutrale>> attesa la formulazione letterale della relativa disposizione (sopra cit.), di talché giova osservare, sotto un primo e generale profilo, che la categoria di opere previste dalla lex specialis coincida con la OG8 (i.e., «Opere fluviali, di difesa, di sistemazione idraulica e di bonifica»), quindi afferisca all’evidenza a opere che non rientrano nella nozione di «edilizia civile» di cui all’art. 52, comma 1, r.d. n. 2537 del 1925 (a tenore del quale «Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative»), e che esulano pertanto dalla competenza degli architetti.
Sicché la categoria OG8, considerata sul piano astratto, insomma, già esula dalle lavorazioni di edilizia civile ricadenti nella “competenza concorrente” di architetto e ingegnere.
La costante giurisprudenza del Consiglio di Stato riconosce, in coerenza con quanto appena osservato, che <<Il R.D. 23.10.1925 n. 2537 recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche>>.
In definitiva, la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri, in base all’interpretazione letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D..
...
Priva di pregio l’argomentazione spesa in senso contrario secondo la quale, non trattandosi di appalto integrato, ai concorrenti veniva richiesta non già l’elaborazione di un nuovo progetto, ma solo l’inserimento di elementi migliorativi od aggiuntivi ad un progetto esecutivo già redatto dalla stazione appaltante e posto a base di gara, con conseguente possibilità che l’offerta tecnica, concernente proposte migliorative e non varianti, fosse sottoscritta da un architetto.
A prescindere dalla configurazione come vere e proprie varianti ovvero mere migliorie, il dato incontrovertibile attiene all’incidenza oggettiva della tipologia di lavorazione prospettata, afferente la progettazione di opere idrauliche prive di connessione con attività di edilizia civile e pertanto esulanti dalla competenza degli architetti.
In tal senso è stato affermato che <<non è tanto l'incisività della proposta migliorativa, ossia la capacità della stessa di modificare l'originario progetto esecutivo, a costituire il criterio di individuazione della categoria professionale di appartenenza del tecnico redattore competente -tra l'altro, una variante sostanziale al progetto esecutivo non sarebbe nemmeno configurabile in termini di proposta migliorativa- quanto l'oggetto specifico di tale attività professionale, a prescindere dagli effetti modificativi che il contributo del tecnico possa determinare sull'assetto progettuale delle opere oggetto di affidamento; in altri termini, non conta se e quanto le proposte migliorative redatte dall'architetto fossero modificative del progetto esecutivo posto a base di gara, essendo rilevante piuttosto che qualsiasi contributo di natura tecnico progettuale fosse oggetto di elaborazione di un tecnico qualificato come competente, ossia un ingegnere>>.
---------------

6. – Ciò posto, è fondato il primo motivo del ricorso principale, incentrato sull’incompetenza dell’architetto che ha sottoscritto l’offerta tecnica presentata dall’aggiudicataria.
6.1. – Premesso che il riparto di competenze fra la professione di architetto e quella di ingegnere è stabilito ex lege in modo vincolante, non potendo neppure essere derogato –afferendo alla qualificazione funzionale delle diverse categorie professionali– dalla lex specialis di gara (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15.12.2020, n. 8027), peraltro nel caso di specie del tutto <<neutrale>> attesa la formulazione letterale della relativa disposizione (sopra cit.), giova osservare, sotto un primo e generale profilo, giustamente valorizzato da parte ricorrente, che la categoria di opere previste dalla lex specialis coincida con la OG8 (i.e., «Opere fluviali, di difesa, di sistemazione idraulica e di bonifica»), quindi afferisca all’evidenza a opere che non rientrano nella nozione di «edilizia civile» di cui all’art. 52, comma 1, r.d. n. 2537 del 1925 (a tenore del quale «Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative»), e che esulano pertanto dalla competenza degli architetti (Cons. St., Sez. V, 22.07.2021, n. 5510).
6.1.1. – Sicché la categoria OG8, considerata sul piano astratto, insomma, già esula dalle lavorazioni di edilizia civile ricadenti nella “competenza concorrente” di architetto e ingegnere.
La costante giurisprudenza del Consiglio di Stato riconosce, in coerenza con quanto appena osservato, che <<Il R.D. 23.10.1925 n. 2537 recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche>> (Cons. Stato, Sez. V, 19.05.2016 n. 2095; Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2018, n. 6593; cfr. anche Id., III, 01.07.2020, n. 4208).
In definitiva, la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri, in base all’interpretazione letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D. (cfr. già Cons. Stato, Sez. IV, 22.05.2000, n. 2938; id., Sez. V, 06.04.1998, n. 416; id., Sez. IV, 19.02.1990, n. 92).
6.1.2. – Tale conclusione non muta, ma anzi è avvalorata, laddove (lungi dal far riferimento unicamente alla tipologia dell’opera nel suo complesso come genericamente descritta dall’attestazione SOA) si prendano in considerazione, come necessario, le proposte migliorative in concreto articolate dall’aggiudicataria.
Si consideri, in chiave puramente esemplificativa, la miglioria A1.5 <<Protezione dell’alveo con graticciate per il contenimento del terreno a monte delle gabbionate>>, di per sé involgente opera idraulica, ovvero il semplice tenore letterale della miglioria A1.8 <<Sistemazione idraulica di tratto aggiuntivo>>, ovvero ancora la miglioria A3.1 <<Realizzazione di briglie nei tratti con maggiore pendenza e a rischio erosione>> (con la quale si propone di realizzare delle briglie aggiuntive nei tratti dell'alveo caratterizzati da maggiore pendenza e nei tratti immediatamente precedenti alle anse più strette).
Trattasi, come evidente sulla base della mera descrizione delle singole proposte, di lavorazioni attinenti alla materia idraulica e del tutto prive di connessioni con il concetto di edilizia civile di cui al richiamato art. 52 del stesso regio decreto n. 2537 del 1925, pur se estensivamente interpretato alla luce della giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 15.03.2013 n. 1550: <<si può affermare che il concetto di ‘opere di edilizia civile’ si estenda sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell’edificazione>>).
6.2. – Priva di pregio l’argomentazione spesa in senso contrario dalla Ba.Ho. s.r.l., secondo la quale, non trattandosi di appalto integrato, ai concorrenti veniva richiesta non già l’elaborazione di un nuovo progetto, ma solo l’inserimento di elementi migliorativi od aggiuntivi ad un progetto esecutivo già redatto dalla stazione appaltante e posto a base di gara, con conseguente possibilità che l’offerta tecnica, concernente proposte migliorative e non varianti, fosse sottoscritta da un architetto.
A prescindere dalla configurazione come vere e proprie varianti ovvero mere migliorie, il dato incontrovertibile attiene all’incidenza oggettiva della tipologia di lavorazione prospettata, afferente la progettazione di opere idrauliche prive di connessione con attività di edilizia civile e pertanto esulanti dalla competenza degli architetti.
In tal senso è stato affermato che <<non è tanto l'incisività della proposta migliorativa, ossia la capacità della stessa di modificare l'originario progetto esecutivo, a costituire il criterio di individuazione della categoria professionale di appartenenza del tecnico redattore competente -tra l'altro, una variante sostanziale al progetto esecutivo non sarebbe nemmeno configurabile in termini di proposta migliorativa- quanto l'oggetto specifico di tale attività professionale, a prescindere dagli effetti modificativi che il contributo del tecnico possa determinare sull'assetto progettuale delle opere oggetto di affidamento; in altri termini, non conta se e quanto le proposte migliorative redatte dall'architetto Co. fossero modificative del progetto esecutivo posto a base di gara, essendo rilevante piuttosto che qualsiasi contributo di natura tecnico progettuale fosse oggetto di elaborazione di un tecnico qualificato come competente, ossia un ingegnere>> (TAR Campania, Napoli, sez. I, 03.05.2017, n. 2329).
6.3. – È fondato, conclusivamente, il primo motivo di impugnazione, con riferimento alla sottoscrizione dell'offerta tecnica, consistente in migliorie da apportarsi al progetto esecutivo, da parte di un architetto piuttosto che di un ingegnere, trattandosi di opere idrauliche di competenza esclusiva di tale ultima categoria professionale. Tale profilo di illegittimità avrebbe dovuto imporre alla stazione appaltante l'esclusione della concorrente poi divenuta aggiudicataria, senza alcuna possibilità di soccorso istruttorio, trattandosi di criticità direttamente inerenti all'offerta (Consiglio di Stato, sez. V, 21.11.2018, n. 6593) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 08.10.2021 n. 2113 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIIn termini generali, il riparto di competenze professionali fra architetti e ingegneri è regolato, in termini vincolanti, dal r.d. n. 2537 del 1925, in particolare dagli artt. 51 , 52 e 54, non superati dal d.P.R. n. 328 del 2001 (recante Modifiche ed integrazioni della disciplina dei requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove per l’esercizio di talune professioni, nonché della disciplina dei relativi ordinamenti, incluse le professioni di ingegnere ed architetto ex art. 1), anche alla luce dei richiami di cui ai relativi artt. 16, comma 1, e 46, comma 2, che lasciano ferme «le riserve e le attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa».
Il riparto di competenze fra l’una e l’altra professione è dunque stabilito ex lege in modo vincolante, non potendo neppure essere derogato -afferendo alla qualificazione funzionale delle diverse categorie professionali- dalla lex specialis di gara.
In tale contesto, la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato riconosce, in chiave generale, che “la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri, in base all’interpretazione letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D.”.
In questa prospettiva, “nello stabilire l’ampiezza delle competenze riconosciute, rispettivamente, agli ingegneri e agli architetti ai sensi del combinato disposto degli articoli 51 e 52 dello stesso regio decreto n. 2537 del 1925, la giurisprudenza ha confermato l’orientamento tradizionale, in ordine alla ricomprensione nell’esclusivo appannaggio della professione di ingegnere delle opere di carattere più marcatamente tecnico-scientifico”, fra cui quelle “di ingegneria idraulica, di ammodernamento e ampliamento della rete idrica comunale”.
Alla luce del riparto di competenze così tracciato, in relazione alle opere esulanti dall’ambito funzionale dell’architetto quest’ultimo non è abilitato alla sottoscrizione di documenti tecnici neppure se relativi a proposte progettuali migliorative o varianti.
D’altra parte, solo in presenza di opere rigorosamente accessorie a quelle edili è ammissibile un’abilitazione estensiva in capo al professionista architetto, atteso che “il concetto di ‘opere di edilizia civile’ si estend[e] sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici” se “a corredo del fabbricato”; occorre quindi che vi sia un nesso di precipua accessorietà fra l’intervento e l’edificio, e cioè che il primo risulti “strettamente servente un’opera di edilizia civile” per poter rientrare nel perimetro di competenza (anche) dell’architetto.
Alla luce di ciò, questa V Sezione ha affermato chiaramente che “Il r.d. 23.10.1925 n. 2537 recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche".
Allo stesso modo, s’è affermato come “la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, sia di pertinenza degli ingegneri, alla luce delle disposizioni di cui agli artt. 51, 52 e 54 r.d. 23.10.1925, n. 2537. Infatti, il discrimine tra le professioni di ingegnere e di architetto è rimasto segnato anche nelle sopravvenute disposizioni del d.P.R. n. 328 cit.; pertanto, se adeguamenti sono certamente possibili in riferimento al concetto di ‘edilizia civile’, interpretabile estensivamente, restano di pertinenza della professione di ingegnere le opere che richiedono una competenza tecnica specifica e che esulano dall’edilizia civile rientrante nella comune competenza. In particolare, le opere idrauliche, specialmente se interferenti con fiumi e corsi d’acqua, richiedono capacità professionali per l’analisi dei fenomeni idrologici ed idraulici e presuppongono l’applicazione di specifici metodi di calcolo (statistico, idrologico e idraulico); per contro, gli architetti non possono essere compresi tra i soggetti abilitati alla progettazione di opere idrauliche in quanto, sia ai sensi degli artt. 51 e 52 r.d. 23.10.1925, n. 2537, che ai sensi dell’art. 16 d.P.R. 05.06.2001, n. 328, non hanno competenze riconosciute in materia".
---------------

4. Col terzo motivo l’appellante censura la sentenza nella parte in cui ha accolto il primo motivo di ricorso principale in primo grado.
Deduce al riguardo la De.Co. che le opere oggetto di affidamento ben rientrano nelle competenze del professionista architetto, cui compete l’intero ambito dell’edilizia civile; peraltro nel caso di specie non è prevista alcuna attività di progettazione esecutiva, bensì la mera presentazione di migliorie, varianti od opere aggiuntive, sicché le competenze dell’architetto risultano ben conformi ed appropriate alle opere previste.
A ciò si aggiunga che gli interventi programmati coincidono con opere di mitigazione del rischio frane a protezione degli edifici a monte dell’abitato, e ben rientrano perciò nel perimetro di competenza (anche) degli architetti ai sensi dell’art. 52 r.d. n. 2537 del 1925; né rilevano al riguardo le categorie Soa di pertinenza (i.e., OG8 e OS21) che riguardano piuttosto l’opera nel suo complesso.
In tale contesto, la riqualificazione degli interventi nel senso che essi non rientrerebbero fra le opere di edilizia civile riconducibili alle competenze (anche) del professionista architetto costituisce un vulnus allo spazio riservato alla valutazione discrezionale della stazione appaltante.
4.1. Col quarto motivo l’appellante prosegue nel dolersi dell’accoglimento del primo motivo di ricorso principale deducendo che, in ogni caso, il professionista firmatario dei documenti d’offerta è nella specie in possesso di laurea in “Architettura e Ingegneria Edile” (cod. “4/S”), che lascia libero il titolare di scegliere a quale dei due ordini professionali iscriversi.
Al riguardo la “abilitazione” richiamata dal disciplinare di gara è da ritenersi connessa alla competenza professionale posseduta, non già all’iscrizione a un albo piuttosto che a un altro; e d’altra parte l’art. 16 d.P.R. n. 328 del 2001 elenca fra le competenze dell’architetto iscritto al “settore architettura” -qual è il professionista firmatario dei documenti della De.Co.- anche attività di collaborazione rispetto a quelle di progettazione di opere edilizie, comprese le opere pubbliche, così includendovi senz’altro gli interventi oggetto dell’affidamento controverso.
4.2. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.
4.2.1. In termini generali, il riparto di competenze professionali fra architetti e ingegneri è regolato, in termini vincolanti, dal r.d. n. 2537 del 1925, in particolare dagli artt. 51 , 52 e 54, non superati dal d.P.R. n. 328 del 2001 (recante Modifiche ed integrazioni della disciplina dei requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove per l’esercizio di talune professioni, nonché della disciplina dei relativi ordinamenti, incluse le professioni di ingegnere ed architetto ex art. 1), anche alla luce dei richiami di cui ai relativi artt. 16, comma 1, e 46, comma 2, che lasciano ferme «le riserve e le attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa» (cfr., inter multis, Cons. Stato, V, 11.02.2021, n. 1255; 17.07.2019, n. 5012).
Il riparto di competenze fra l’una e l’altra professione è dunque stabilito ex lege in modo vincolante, non potendo neppure essere derogato -afferendo alla qualificazione funzionale delle diverse categorie professionali- dalla lex specialis di gara (cfr. Cons. Stato, V, 15.12.2020, n. 8027).
In tale contesto, la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato riconosce, in chiave generale, che “la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri, in base all’interpretazione letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D. (cfr. Cons. Stato, IV, 22.05.2000, n. 2938; id., V, 06.04.1998, n. 416; id., IV, 19.02.1990, n. 92)” (Cons. Stato, n. 5012 del 2019, cit.).
In questa prospettiva, “nello stabilire l’ampiezza delle competenze riconosciute, rispettivamente, agli ingegneri e agli architetti ai sensi del combinato disposto degli articoli 51 e 52 dello stesso regio decreto n. 2537 del 1925, la giurisprudenza ha confermato l’orientamento tradizionale, in ordine alla ricomprensione nell’esclusivo appannaggio della professione di ingegnere delle opere di carattere più marcatamente tecnico-scientifico”, fra cui quelle “di ingegneria idraulica, di ammodernamento e ampliamento della rete idrica comunale” (cfr. Cons. Stato, V, 27.09.2018, n. 6552; VI, 15.03.2013, n. 1550).
Alla luce del riparto di competenze così tracciato, in relazione alle opere esulanti dall’ambito funzionale dell’architetto quest’ultimo non è abilitato alla sottoscrizione di documenti tecnici neppure se relativi a proposte progettuali migliorative o varianti (cfr. Cons. Stato, n. 1255 del 2021, cit.).
D’altra parte, solo in presenza di opere rigorosamente accessorie a quelle edili è ammissibile un’abilitazione estensiva in capo al professionista architetto (Cons. Stato, V, 12.03.2015, n. 1692; n. 1255 del 2021, cit.), atteso che “il concetto di ‘opere di edilizia civile’ si estend[e] sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici” se “a corredo del fabbricato” (Cons. Stato, n. 1550 del 2013, cit.; n. 6552 del 2018, cit.); occorre quindi che vi sia un nesso di precipua accessorietà fra l’intervento e l’edificio, e cioè che il primo risulti “strettamente servente un’opera di edilizia civile” per poter rientrare nel perimetro di competenza (anche) dell’architetto (Cons. Stato, n. 1692 del 2015, cit.).
Alla luce di ciò, questa V Sezione ha affermato chiaramente che “Il r.d. 23.10.1925 n. 2537 recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche" (Cons. Stato, V, 19.05.2016 n. 2095).
Allo stesso modo, s’è affermato come “la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, sia di pertinenza degli ingegneri, alla luce delle disposizioni di cui agli artt. 51, 52 e 54 r.d. 23.10.1925, n. 2537. Infatti, il discrimine tra le professioni di ingegnere e di architetto è rimasto segnato anche nelle sopravvenute disposizioni del d.P.R. n. 328 cit.; pertanto, se adeguamenti sono certamente possibili in riferimento al concetto di ‘edilizia civile’, interpretabile estensivamente, restano di pertinenza della professione di ingegnere le opere che richiedono una competenza tecnica specifica e che esulano dall’edilizia civile rientrante nella comune competenza. In particolare, le opere idrauliche, specialmente se interferenti con fiumi e corsi d’acqua, richiedono capacità professionali per l’analisi dei fenomeni idrologici ed idraulici e presuppongono l’applicazione di specifici metodi di calcolo (statistico, idrologico e idraulico); per contro, gli architetti non possono essere compresi tra i soggetti abilitati alla progettazione di opere idrauliche in quanto, sia ai sensi degli artt. 51 e 52 r.d. 23.10.1925, n. 2537, che ai sensi dell’art. 16 d.P.R. 05.06.2001, n. 328, non hanno competenze riconosciute in materia" (Cons. Stato, V, 21.11.2018, n. 6593; cfr. anche Id., III, 01.07.2020, n. 4208).
4.2.2. Facendo applicazione dei suesposti principi alla caso in esame, va escluso che possa ravvisarsi nella specie una competenza in capo al professionista architetto per le opere oggetto dell’affidamento.
4.2.2.1. Va premesso anzitutto che lo stesso disciplinare di gara richiedeva, all’art. 16, che la documentazione d’offerta fosse sottoscritta da “tecnici abilitati”, quali “ingegneri, architetti, geometri” o altri, “per le rispettive competenze”.
4.2.2.2. In tale contesto, sotto un primo generale profilo, va rilevato come le categorie di opere previste dalla lex specialis coincidano con la OG8 (i.e., «Opere fluviali, di difesa, di sistemazione idraulica e di bonifica») e la OS21 («Opere strutturali speciali», categoria cd. “super-specialistica” che afferisce alla «costruzione di opere destinate a trasferire i carichi di manufatti poggianti su terreni non idonei a reggere i carichi stessi, di opere destinate a conferire ai terreni caratteristiche di resistenza e di indeformabilità tali da rendere stabili l’imposta dei manufatti e da prevenire dissesti geologici, di opere per rendere antisismiche le strutture esistenti e funzionanti»).
Trattasi all’evidenza di opere che non rientrano nella nozione di «edilizia civile» di cui all’art. 52, comma 1, r.d. n. 2537 del 1925 (a tenore del quale «Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative»), e che esulano pertanto dalla competenza degli architetti.
4.2.2.3. D’altra parte, le opere migliorative su cui la sentenza si sofferma evidenziandone la eccentricità rispetto agli interventi di competenza degli architetti si collocano effettivamente al di fuori delle opere di edilizia civile ex art. 52 r.d. n. 2537 del 1925, né configurano opere accessorie o strumentali a edifici civili; si tratta, piuttosto, di opere di carattere essenzialmente idraulico quali
   - la “Realizzazione di dreni sub orizzontali”, di cui al capitolo 2/18 della relazione tecnica (“Si offre la realizzazione di dreni sub orizzontali tra i pali in numero di 64 per una lunghezza di 6.00. L’offerta prevede la perforazione e la posa in opera di tubo dreno del diametro di 125 mm avvolto in uno speciale tessuto che ne garantisce l’efficienza nel tempo”), oppure
   - l’opera aggiuntiva consistente nella “Realizzazione canaletta in trenchmat a valle della paratia”, sub capitolo 4/18 (“La canaletta che verrà eseguita con tecniche di ingegneria naturalistica raccoglierà tutte le acque di drenaggio a tergo della paratia per convogliarle alla tubazione anch’essa offerta come ulteriore proposta migliorativa. La canaletta è costituita da una geogriglia tridimensionale ottenuta per l’accoppiamento di uno strato impermeabile inferiore ed una geogriglia superiore che evita l’erosione del terreno. Per la stabilizzazione del telo è prevista la posa in opera di pali di castagno nella sezione trasversale e longitudinale […]”).
Lo stesso è a dirsi per opere aggiuntive quali
   - la “Realizzazione sistema di smaltimento delle acque di drenaggio” (sub capitolo 5/18), coincidenti con la “realizzazione di una condotta in polietilene da 315 mm SN8 lunga 140 m che, percorrendo la strada vicinale Fontaniello, recapita le acque dei drenaggi posti alle varie quote, per sversarli nel canale a valle dell’area d’intervento”; o
   - la “Realizzazione canaletta in trenchmat a monte della terra rinforzata” (sub capitolo 7/18), consistente anch’essa in una “canaletta che verrà eseguita con tecniche di ingegneria naturalistica raccoglierà tutte le acque di drenaggio superficiali che sul versante raggiungeranno la terra rinforzata. La canaletta è costituita da una geogriglia tridimensionale ottenuta per l’accoppiamento di uno strato impermeabile inferiore ed una geogriglia superiore che evita l’erosione del terreno. Per la stabilizzazione del telo è prevista la posa in opera di pali di castagno nella sezione trasversale e longitudinale […]”.
Si tratta all’evidenza di opere nient’affatto riconducibili all’edilizia civile, e che neppure risultano di carattere accessorio rispetto ad edifici civili.
Né una siffatta valutazione impinge del resto nella sfera di giudizio tecnico-discrezionale rimessa alla competenza della stazione appaltante, afferendo piuttosto alla cognizione dei profili di riparto funzionale secundum legem fra le varie figure professionali a norma del r.d. n. 2537 del 1925, così come interpretato e applicato dalla costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato.
Allo stesso modo, non assume rilievo di per sé la circostanza che il progetto esecutivo risultasse nella specie predisposto dall’amministrazione, atteso che -come già posto in risalto (retro, sub § 4.2.1)- neppure le singole varianti o proposte migliorative possono essere sottoscritte dal professionista non legittimato ratione materiae (cfr. Cons. Stato, n. 1255 del 2021, cit.; n. 6552 del 2018, cit.).
Né ancora può rilevare che lo scopo ultimo degli interventi fosse quello di assicurare la stabilità di edifici, atteso che tale rilievo, di carattere meramente finalistico, non vale a qualificare l’intervento -avente un diverso e ben definito oggetto strutturale- alla stregua di “edilizia civile”.
4.2.3. In tale contesto, a diversa conclusione non conduce neanche il richiamo alla circostanza che il professionista firmatario dei documenti fosse in possesso di laurea in “Architettura e Ingegneria Edile” sub cod. “4/S”, che prevede insegnamenti anche in materia ingegneristica consentendo l’iscrizione all’uno o all’altro albo professionale.
Come correttamente rilevato dalla sentenza, infatti, i documenti d’offerta andavano sottoscritti da professionisti abilitati allo svolgimento della professione riservata, non rilevando al riguardo il solo possesso del diploma di laurea, ancorché in materie pertinenti all’oggetto dell’affidamento: nel caso di specie, il professionista firmatario non risulta abilitato alla professione d’ingegnere né iscritto al relativo albo, e il che è sufficiente all’esclusione dell’offerta per mancata sottoscrizione dei relativi documenti da un professionista all’uopo abilitato.
Allo stesso modo, non valgono a superare le previsioni di legge relative al riparto di competenze fra architetti e ingegneri le solo esperienze professionali nel settore concretamente sviluppate dal singolo professionista.
Quanto al richiamo delle previsioni dell’art. 16 d.P.R. n. 238 del 2001 in ordine alle competenze dell’architetto iscritto al “settore architettura”, queste non valgono a superare il riparto funzionale fra ingegneri e architetti come sopra ricostruito sulla base della vigente normativa, e dunque a radicare la competenza dell’architetto per le opere qui in rilievo pur al di fuori degli ambiti riconosciutigli dal r.d. n. 2537 del 1925.
Per tali ragioni, entrambi i motivi di doglianza risultano infondati.
5. In conclusione, per i suesposti motivi l’appello è infondato e va respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.07.2021 n. 5510 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALISecondo la comune interpretazione offerta dalla giurisprudenza in tema di competenza dei geometri alla progettazione di strade, agli stessi non è preclusa l’opera professionale, ai sensi dell’art. 16, lett. b), del R.D. 11.2.1929 n. 274, nella progettazione di strade di non particolare complessità, circostanza che si appaleserebbe (ad esempio) in caso di collegamenti di grande lunghezza o difficoltà progettuali, per la presenza di ponti, gallerie o grossi muri di contenimento.
---------------

13. Con il quarto motivo di ricorso i ricorrenti eccepiscono la violazione dell'art. 16, lett. m), del R.D. 11.2.1929 n. 274, nella misura in cui il progetto è stato sottoscritto da un geometra, anziché da un ingegnere ovvero da un architetto.
Parte resistente replica, deducendo che, al contrario, l’opera è riconducibile nell’alveo delle competenze professionali del geometra, ai sensi dell’art. 16, lett. b), trattandosi di opere di collegamento di strade, rilevando altresì la non particolare complessità dell’intervento, anche sotto il profilo della lunghezza della strada (appena circa 600 metri).
Il Collegio non condivide la doglianza prospettata dai ricorrenti, osservando che, secondo la comune interpretazione offerta dalla giurisprudenza in tema di competenza dei geometri alla progettazione di strade, agli stessi non è preclusa l’opera professionale, ai sensi dell’art. 16, lett. b), del r.d. citato, nella progettazione di strade di non particolare complessità, circostanza che si appaleserebbe (ad esempio) in caso di collegamenti di grande lunghezza o difficoltà progettuali, per la presenza di ponti, gallerie o grossi muri di contenimento (v., in tal senso, Tar Salerno, 17.11.2004, n. 2016; conf., Tar Lecce, 10.02.2006, 902).
Nella fattispecie, parte ricorrente non ha apportato particolari ed idonei elementi probatori per fare ritenere che la progettazione dell’opera de qua possa rientrare fra le opere di particolare complessità, come tali non progettabili dal geometra (sugli anzidetti criteri di accertamento di tale complessità, cfr., Consiglio di Stato, 21.02.2020, n. 1341) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 15.07.2021 n. 1742 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALILaddove l’intervento edilizio richieda l’esecuzione di opere in cemento armato, è quindi ben possibile affidare la progettazione e direzione dei lavori relativi a queste ultime al tecnico in grado di eseguire i calcoli necessari e di valutare i pericoli per la pubblica incolumità, affidando invece al geometra l’attività di progettazione e direzione dei lavori incentrata sugli aspetti architettonici della costruzione, purché questa possa considerarsi “modesta” alla stregua del sopra citato art. 16 r.d. n. 274 del 1929.
Ma in tal caso “non si tratta, tuttavia, di assicurare la mera presenza di un ingegnere progettista delle opere in cemento armato, che controfirmi o si limiti ad eseguire i calcoli”.
Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del cemento armato, deve pertanto essere competente a progettare e deve assumersi la responsabilità del segmento del progetto complessivo riferito alle opere in cemento armato, nel senso appunto che l’incarico non può essere affidato al geometra, che si avvarrà della collaborazione dell’ingegnere, ma deve essere sin dall’inizio affidato anche a quest’ultimo per la parte di sua competenza e sotto la sua responsabilità.
---------------

212. Il quattordicesimo motivo concerne la violazione dell’art. 16, comma 1, lett. m), del r.d. n. 274/1929 per essere stato il progetto redatto e sottoscritto da un geometra, quando sono previste strutture in cemento armato la cui progettazione e direzione è riservata agli ingegneri e architetti.
213. Appare opportuno ricordare che l’oggetto ed i limiti dell’esercizio professionale di geometra sono regolati dall’art. 16 del r.d. 11.02.1929, n. 274 (Regolamento per la professione di geometra), che all’attività di progettazione, direzione e vigilanza (o sorveglianza) dedica al comma 1, le lett. l) e m).
214. La lettera l) ricomprende l’attività di “progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso di industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone; nonché di piccole opere inerenti alle aziende agrarie, come strade vicinali senza rilevanti opere d’arte, lavori d’irrigazione e di bonifica, provvista d’acqua per le stesse aziende e riparto della spesa per opere consorziali relative, esclusa, comunque, la redazione di progetti generali di bonifica idraulica ed agraria e relativa direzione.”
215. La lettera m) concerne invece l’attività di “progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili”.
216. Nell’ambito del quadro normativo in cui si inserisce la questione da esaminare, rientra anche la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso e a struttura metallica, contenuta nella legge n. 1086 del 1971 (Norme per la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica), confluita oggi nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) che all’art. 64, intitolato “Progettazione, direzione, esecuzione responsabilità”, stabilisce -per quanto qui di interesse- che la costruzione delle opere di cui all’articolo 53, comma 1 (tra cui le opere in conglomerato cementizio armato normale), deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un tecnico abilitato, iscritto nel relativo albo, nei limiti delle proprie competenze stabilite dalle leggi sugli ordini e collegi professionali e l’esecuzione delle stesse deve aver luogo sotto la direzione di un tecnico abilitato.
217. Inoltre, l’art. 65 del predetto T.U. n. 380/2001 in relazione alle opere realizzate con materiali e sistemi costruttivi disciplinati dalle norme tecniche in vigore, dispone che, prima del loro inizio, devono essere denunciate dal costruttore allo sportello unico tramite posta elettronica certificata (PEC) e che alla denuncia dev’essere allegato il progetto dell’opera firmato dal progettista, dal quale risultino in modo chiaro ed esauriente le calcolazioni eseguite, l’ubicazione, il tipo, le dimensioni delle strutture, e quanto altro occorre per definire l’opera sia nei riguardi dell’esecuzione sia nei riguardi della conoscenza delle condizioni di sollecitazione, nonché una relazione illustrativa firmata dal progettista e dal direttore dei lavori, dalla quale risultino le caratteristiche, le qualità e le prestazioni dei materiali che verranno impiegati nella costruzione.
218. Ovviamente il complessivo quadro regolamentare non esclude la collaborazione fra professionisti, come riconoscono peraltro gli stessi ricorrenti.
219. Laddove l’intervento edilizio richieda l’esecuzione di opere in cemento armato, è quindi ben possibile affidare la progettazione e direzione dei lavori relativi a queste ultime al tecnico in grado di eseguire i calcoli necessari e di valutare i pericoli per la pubblica incolumità, affidando invece al geometra l’attività di progettazione e direzione dei lavori incentrata sugli aspetti architettonici della costruzione, purché questa possa considerarsi “modesta” alla stregua del sopra citato art. 16 r.d. n. 274 del 1929 (cfr. Cons. Stato, Sezione II, 04.09.2015, n. 2359).
220. Ma in tal caso “non si tratta, tuttavia, di assicurare la mera presenza di un ingegnere progettista delle opere in cemento armato, che controfirmi o si limiti ad eseguire i calcoli (Cass. civ., Sez. II, 02.09.2011, n. 18038)” (cfr. TAR Campania, Napoli, Sezione VIII, 26.06.2020, n. 2684 e Cons. Stato, Sezione IV, 21.02.2020, n. 1341).
221. Il professionista, che svolge la progettazione con l’uso del cemento armato, deve pertanto essere competente a progettare e deve assumersi la responsabilità del segmento del progetto complessivo riferito alle opere in cemento armato (cfr. TRGA Bolzano 13.02.2020, n. 45 con ampi richiami; TAR Lombardia, Brescia, Sezione II, 18.04.2013, n. 361, ed implicitamente TAR Marche, Ancona, 11.07.2013, n. 559), nel senso appunto che l’incarico non può essere affidato al geometra, che si avvarrà della collaborazione dell’ingegnere, ma deve essere sin dall’inizio affidato anche a quest’ultimo per la parte di sua competenza e sotto la sua responsabilità (Cass. Civ., Sezione II, 30.08.2013, n. 19989) (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 29.04.2021 n. 128 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIPer consolidato intendimento, la progettazione delle opere viarie che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri, in base all'interpretazione letterale, sistematica e teleologica degli art. 51, 52 e 54, r.d. 23.10.1925, n. 2537 (Regolamento per le professioni d'ingegnere e di architetto), in quanto le ridette previsioni regolamentari sono espressamente mantenute in vigore dall'art. 1, d.p.r. n. 328 del 05.06.2001, oltre che dagli art. 16 (per gli architetti) e 46, comma 2 (per gli ingegneri iscritti alla sezione A), di cui allo stesso d.p.r..
In particolare,
   - l’art. 51 cit. prevede che “sono di spettanza della professione d'ingegnere il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo”; e
   - l’art. 54, ai commi 2 e 3, precisa che, mentre gli ingegneri “sono autorizzati a compiere anche le mansioni indicate nell'art. 51 del presente regolamento, eccettuate le applicazioni industriali”, le competenze dell’architetto sono espressamente escluse “per le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere idrauliche”.
Se, perciò, è ancora ammissibile (alla luce di una nozione estensiva di “edilizia civile”) abilitare la figura professionale dell’architetto alla sottoscrizione dei progetti relativi alla realizzazioni tecniche di carattere rigorosamente accessorio, preordinate al mero collegamento di opere edilizie alla viabilità ad esse strettamente servente, alcuna estensione si legittima in relazione alle “proposte progettuali migliorative” ovvero alle “varianti” di cui all’art. 95, comma 14, e 94, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 50/2016, che, nella loro attitudine integrativa o modificativa, sono in ogni caso accessorie all’opera viaria, e non certamente alle opere di edilizia civile.

---------------

2.- Con il primo motivo di gravame l’appellante si duole che la sentenza impugnata abbia disatteso la propria doglianza, con la quale aveva lamentato che l’offerta tecnica della controinteressata Tr.To. s.r.l. era stata sottoscritta da un architetto, non abilitato a curare la relativa progettazione in quanto privo delle specifiche competenze richieste per il tipo di lavorazioni poste a base di gara, secondo le prescrizioni di cui al R.D. n. 2537 del 1925.
In particolare, si duole che il primo giudice –premessa una articolata (quanto irrilevante) digressione in ordine alla distinzione tra i diversi concetti di “variante” e “proposta migliorativa”– avrebbe respinto la censura sull’assunto che le modifiche progettuali affidate alla elaborazione dell’arch. Vi., incaricato dalla Tr.To. per la predisposizione della offerta tecnica, attenessero, in concreto, ad opere di carattere meramente accessorio.
2.1.- Il motivo è fondato.
Importa rammentare che il disciplinare di gara individuava, relativamente alle opere da realizzare sulla base del progetto esecutivo validato dalla stazione appaltante, le categorie OG3, classe II (inerente la “costruzione, la manutenzione o la ristrutturazione di interventi a rete che siano necessari per consentire la mobilità su gomma, ferro e aerea, qualsiasi sia il loro grado di importanza, completi di ogni opera connessa, complementare o accessoria”) e OS2, classe I (inerente la “costruzione di opere destinate a trasferire i carichi di manufatti poggianti su terreni non idonei a reggere i carichi stessi, di opere destinate a conferire ai terreni caratteristiche di resistenza e di indeformabilità tali da rendere stabili l’imposta dei manufatti e da prevenire dissesti geologici, di opere per rendere antisismiche le strutture esistenti e funzionanti”).
Lo stesso disciplinare imponeva (al punto VI) la sottoscrizione, a pena di esclusione, degli elaborati tecnici posti a corredo dell’offerta a cura di un “tecnico abilitato”, alla luce della vigente normativa.
Ciò posto, per consolidato intendimento, la progettazione delle opere viarie che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri, in base all'interpretazione letterale, sistematica e teleologica degli art. 51, 52 e 54, r.d. 23.10.1925, n. 2537 (Regolamento per le professioni d'ingegnere e di architetto), in quanto le ridette previsioni regolamentari sono espressamente mantenute in vigore dall'art. 1, d.p.r. n. 328 del 05.06.2001, oltre che dagli art. 16 (per gli architetti) e 46, comma 2 (per gli ingegneri iscritti alla sezione A), di cui allo stesso d.p.r. (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.12.2020, n. 8027; Id., sez. V, 17.07.2019, n. 5012).
In particolare, l’art. 51 cit. prevede che “sono di spettanza della professione d'ingegnere il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo”; e l’art. 54, ai commi 2 e 3, precisa che, mentre gli ingegneri “sono autorizzati a compiere anche le mansioni indicate nell'art. 51 del presente regolamento, eccettuate le applicazioni industriali”, le competenze dell’architetto sono espressamente escluse “per le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere idrauliche”.
Se, perciò, è ancora ammissibile (alla luce di una nozione estensiva di “edilizia civile”) abilitare la figura professionale dell’architetto alla sottoscrizione dei progetti relativi alla realizzazioni tecniche di carattere rigorosamente accessorio, preordinate al mero collegamento di opere edilizie alla viabilità ad esse strettamente servente (cfr. Cons. Stato, sez. II, 12.03.2015, n. 1692/12 e Id., sez. VI, 15.03.2013, n. 1550), alcuna estensione si legittima in relazione alle “proposte progettuali migliorative” ovvero alle “varianti” di cui all’art. 95, comma 14, e 94, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 50/2016, che, nella loro attitudine integrativa o modificativa, sono in ogni caso accessorie all’opera viaria, e non certamente alle opere di edilizia civile (cfr., in termini, Cons. Stato, sez. V, 15.12.2020, n. 8027; Id., sez. V, 20.11.2018, n. 6552).
Nel caso di specie l’integrazione dell’offerta tecnica, operata da parte appellata ed affidata all’architetto Vi., è consistita:
   a) per un verso nella “rimodulazione della progettazione della strada in ragione degli scavi e delle sezioni reali terreno-roccia”, nonché nella “nuova progettazione degli scavi in riferimento alle indagini geognostiche effettuate in sito […] per i micropali a supporto dei muri di contenimento previsti in progetto a base di appalto” (considerati inutili in quanto “tutti i muri poggia[va]no sulla roccia”;
   b) per altro verso, nella “realizzazione dei muri perimetrali alla strada secondo la nuova progettazione”, con l’installazione di “gabbionature rinverdite alla sommità delle scarpate”.
Si tratta, con ogni evidenza –di là dal non rilevante distinguo che ha erroneamente orientato l’apprezzamento del primo giudice– di attività riservata, alla luce della richiamata normativa, alla figura professionale dell’ingegnere: il che è, di per sé, sufficiente a giustificare, in accoglimento del formulato motivo di doglianza e con assorbimento degli ulteriori motivi formulati, l’estromissione dell’aggiudicataria dalla procedura, con conseguente annullamento della disposta aggiudicazione a suo favore (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.02.2021 n. 1255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIPer un verso, a norma dell'art. 16, lett. m), del r.d. 11.02.1929, n. 274 (che non è stato modificato dalla legge n. 1068 del 1971), la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato.
Con la conseguenza che la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente da affidare dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità.
E con la conseguenza ulteriore che, qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la progettazione -richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato- sia riservata alla competenza degli ingegneri.
Evidentemente, alla luce dell'insegnamento testé riferito a nulla vale che si adduca che all'ingegnere contestualmente officiato è stato conferito l'incarico di provvedere alle progettazioni strutturali e che ad egli ricorrente è stato conferito l'incarico di occuparsi dell'aspetto architettonico e della direzione dei lavori.
Per altro verso, il contratto di progettazione e direzione dei lavori relativo a costruzioni civili che adottino strutture in cemento armato, stipulato da un geometra anteriormente all'abrogazione -ad opera del d.lgs. 13.12.2010, n. 212- del r.d. 16.11.1939, n. 2229 è nullo in quanto contrario a norme imperative.
Invero, la menzionata abrogazione, comportando l'introduzione di una disciplina innovativa e non già interpretativa della normativa previgente, non ha prodotto effetti retroattivi idonei ad incidere sulla qualificazione degli atti compiuti prima della sua entrata in vigore e non ha, dunque, influito sulla invalidità del contratto, regolata dalla legge del tempo in cui lo stesso è stato concluso.
---------------

19. In tal guisa si osserva quanto segue.
Da un canto, nessuna delle figure di "anomalia motivazionale" destinate ad acquisire significato alla stregua della pronuncia delle sezioni unite testé menzionata -e tra le quali non è annoverabile il semplice difetto di "sufficienza" della motivazione- si scorge in relazione alle motivazioni cui la corte siciliana ha ancorato il suo dictum.
In particolare, con riferimento al paradigma della motivazione "apparente" -che ricorre allorquando il giudice di merito non procede ad una approfondita disamina logico-giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. 21.07.2006, n. 16672)- la corte d'appello ha compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il proprio iter argomentativo.
Più esattamente ha esplicitato che la struttura progettata -un piano di lottizzazione con la previsione di realizzazione di tre corpi di fabbrica in cemento armato di quaranta unità immobiliari- non poteva certo definirsi "modesta costruzione civile", in quanto postulante calcoli complessi e la soluzione di problematiche estranee, per definizione, alla competenza di un geometra. Ed ha soggiunto che l'invalidità dell'incarico professionale non era esclusa dalla presenza collaborativa di un ingegnere; segnatamente che l'invalidità del progetto redatto e presentato dal geometra La Ro. non era superata dalla circostanza per cui un ingegnere avesse effettuato e sottoscritto i calcoli strutturali e diretto i lavori relativi alle strutture in cemento armato.
D'altro canto, la corte di merito di certo non ha omesso la disamina del fatto controverso de quo agitur.
20. In ogni caso l'iter motivazionale che sorregge il dictum del secondo giudice risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica (tanto con precipuo riferimento al dedotto carattere flessibile del parametro legislativo espresso dalla locuzione "modesta costruzione civile": cfr. ricorso, pag. 10).
21. E' sufficiente ribadire gli insegnamenti di questa Corte.
21.1. Per un verso, l'insegnamento -menzionato pur dalla corte distrettuale- a tenor del quale, a norma dell'art. 16, lett. m), del r.d. 11.02.1929, n. 274 (che non è stato modificato dalla legge n. 1068 del 1971), la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole [il che non è nella fattispecie di cui al presente ricorso] che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato; con la conseguenza che la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente da affidare dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità; e con la conseguenza ulteriore che, qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la progettazione -richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato- sia riservata alla competenza degli ingegneri (cfr. Cass. 26.07.2006, n. 17028).
Evidentemente, alla luce dell'insegnamento testé riferito a nulla vale che An. La Ro. adduca che all'ingegnere contestualmente officiato è stato conferito l'incarico di provvedere alle progettazioni strutturali e che ad egli ricorrente è stato conferito l'incarico di occuparsi dell'aspetto architettonico e della direzione dei lavori (cfr. ricorso, pagg. 11-12).
21.2. Per altro verso, l'insegnamento a tenor del quale il contratto di progettazione e direzione dei lavori relativo a costruzioni civili che adottino strutture in cemento armato, stipulato da un geometra anteriormente all'abrogazione -ad opera del d.lgs. 13.12.2010, n. 212- del r.d. 16.11.1939, n. 2229 [è il caso oggetto del presente ricorso], è nullo in quanto contrario a norme imperative; invero, la menzionata abrogazione, comportando l'introduzione di una disciplina innovativa e non già interpretativa della normativa previgente, non ha prodotto effetti retroattivi idonei ad incidere sulla qualificazione degli atti compiuti prima della sua entrata in vigore e non ha, dunque, influito sulla invalidità del contratto, regolata dalla legge del tempo in cui lo stesso è stato concluso (cfr. Cass. 30.8.2013, n. 19989; Cass. (ord.) 12.11.2019, n. 29227) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 08.01.2021 n. 100).

COMPETENZE PROGETTUALILe proposte migliorative sottoscritte dall’architetto redattore, per quanto estremamente limitate, sono tutte inerenti a interventi di tipo impiantistico o di bonifica: in quanto tali esse rientrano nella competenza esclusiva di un ingegnere abilitato, e non possono rientrare anche nella competenza di un architetto abilitato, secondo quanto stabilito dal R.D. 23.10.1925, n. 2537 Regolamento per le professioni di ingegnere ed architetto.
Sicché, merita piena condivisione l’assunto della sentenza di prime cure secondo cui nel caso di interventi di carattere non edilizio, quali erano quelli di cui all’offerta migliorativa dell’a.t.i. aggiudicataria, la proposta doveva essere sottoscritta da un ingegnere, unico tecnico a ciò abilitato, non potendo la lex specialis derogare al riparto di competenze, fissato dalle norme, delle figure professionali dell’architetto e dell’ingegnere.
---------------

13.5. Come esposto in fatto, la Sezione, considerato che la soluzione di tali aspetti controversi richiedesse l’apporto di specifiche cognizioni tecniche e specialistiche, ha disposto una verificazione al fine di accertare in concreto quale fosse il contenuto delle proposte migliorative, demandando al verificatore nominato di evidenziare “se e quali delle proposte migliorative sottoscritte dall’architetto redattore si debbano ritenere inerenti a interventi di tipo impiantistico o di bonifica e, in caso positivo, se esse rientrino nella competenza esclusiva dell’ingegnere abilitato ovvero se possano rientrare anche nella competenza dell’architetto abilitato”.
Ed infatti, considerato che, come bene rilevato dal primo giudice, il bando non conteneva alcun vincolo specifico quanto alla categoria di appartenenza dei tecnici di cui le imprese concorrenti si sarebbero dovute avvalere per la presentazione delle offerte tecniche, il Collegio ha ritenuto dirimente ai fini della decisione dell’appello la delibazione in concreto delle proposte migliorative presentate dall’aggiudicataria, al fine di individuare quali avrebbero dovuto essere le competenze del tecnico redattore e quale la categoria professionale di appartenenza.
Ciò in quanto, se è vero che il disciplinare consentiva la sottoscrizione da parte di un tecnico abilitato (ingegnere o architetto), tuttavia un tale riferimento non può che riferirsi al contenuto dell’offerta migliorativa concretamente proposta.
13.6. In risposta ai quesiti formulati dal Collegio, la relazione di verificazione depositata in atti, premesse talune considerazioni di carattere generale sulla discarica controllata (la cui progettazione è “tipicamente una progettazione impiantistica dei sistemi di drenaggio e captazione”), ha evidenziato che, come desumibile dal titolo dell’intervento a base di gara e dalla categoria prevalente dei lavori (OG12 - opere ed impianti di bonifica e protezione ambientale), nonché dal Bando e Disciplinare di gara (art. 11.2. ove si legge che “nell’attribuzione del previsto punteggio saranno favorevolmente valutate le soluzioni che tendono ad incrementare i livelli prestazionali attesi dei vari interventi di bonifica previsti nel progetto a base di gara”), il progetto di cui trattasi non può che essere considerato un intervento di tipo impiantistico o di bonifica: tale è dunque anche il progetto migliorativo presentato da tutti i partecipanti alla gara.
D’altro canto anche le lavorazioni accessorie (categorie scorporabili) non possono considerarsi di tipo edilizio, appartenendo alle categorie OS21 -opere strutturali speciali- e OG8 -opere fluviali, di difesa, di sistemazione idraulica e di bonifica.
13.7. Procedendo quindi ad analizzare la specifica offerta migliorativa dell’a.t.i. La Ca., il verificatore ha rilevato come nella stessa si legge testualmente che “particolare attenzione è stata posta ai sistemi di drenaggio, regimazione e collettamento delle acque e di captazione e dispersione del biogas, migliorando tutti gli aspetti possibili”, non lasciando perciò adito a dubbi sul fatto che si tratti di interventi impiantistici o di bonifica. Del resto, gli stessi estensori della proposta migliorativa definivano come impiantistici un’intera serie di interventi migliorativi (specificamente indicati nella relazione di verificazione: cfr. pag. 6).
Quanto poi ai c.d. interventi accessori la mera presenza, accanto a quelli tipicamente impiantistici o infrastrutturali e di bonifica (come quelli relativi alla messa in sicurezza permanente della discarica), anche di interventi di tipo edilizio, non consente di superare il rilievo per cui la progettazione, nel suo complesso e considerati tutti gli elementi e le componenti che ne costituiscono oggetto, è una progettazione di tipo impiantistico o di bonifica.
A conferma ulteriore di ciò, il verificatore ha accertato, nell’analizzare il progetto migliorativo risultante dalle tavole a firma dell’architetto e dal computo metrico estimativo, la presenza di varianti migliorative (“relative a modifiche dei diametri e dei materiali adoperati per le condotte”), comportanti, per quanto di modesta entità, un diverso regime idraulico all’interno della tubazione.
Tali interventi migliorativi, come pure quelli relativi al sistema di impermeabilizzazione, dovevano essere necessariamente sottoposti a verifica e a specifici calcoli progettuali: si infrange così l’assunto dell’a.t.i. appellante sulla natura di mera fornitura degli interventi impiantistici di cui alla proposta migliorativa, sul rilievo per cui non potrebbero comunque essere considerati accettabili unicamente i calcoli progettuali effettuati dai fornitori dei materiali, perché riferiti sempre a condizioni di esercizio standard, normalmente diverse da quelle che si realizzano, di volta in volta, nei vari interventi realizzativi.
13.8. A tale riguardo, nelle note in vista dell’udienza di discussione l’appellante riconosce che, nella redazione della proposta migliorativa, il professionista incaricato si sarebbe astenuto totalmente dalla redazione dei calcoli specialistici, limitandosi ad effettuare una mera attività di composizione funzionale delle diverse sezioni tecnologiche e attrezzature, progettate e realizzate direttamente dai costruttori delle stesse: tuttavia, da ciò non sarebbe potuto derivare l’esclusione dell’offerta migliorativa dell’a.t.i. La Ca., ma al più la mancata attribuzione di alcun punteggio in relazione alle prestazioni offerte, ma non verificate mediante effettuazione di calcoli specialistici.
L’assunto non ha pregio.
Contrariamente a quanto sostenuto da parte appellante, il verificatore nominato non si è limitato ad accertare la mancanza dei predetti calcoli, ma ha espressamente auspicato (evidenziandone così la necessità) che gli interventi migliorativi in parola, essenziali alla realizzazione della discarica e della bonifica oggetto dell’appalto da affidarsi, fossero stati sottoposti a verifica e a calcoli adeguati da parte del redattore del progetto migliorativo.
Le conseguenze che derivavano da tale carenza non possono dunque essere quelle indicate da parte appellante: a maggior ragione, in difetto dei calcoli progettuali, la proposta migliorativa non solo non meritava alcun punteggio, ma non poteva, infatti, essere oggetto di alcuna considerazione e valutazione da parte della Commissione esaminatrice, risultando tamquam non esset.
13.9. Su queste basi, il verificatore nominato ha concluso che le proposte migliorative sottoscritte dall’architetto redattore, per quanto estremamente limitate, sono tutte inerenti a interventi di tipo impiantistico o di bonifica: in quanto tali esse rientrano nella competenza esclusiva di un ingegnere abilitato, e non possono rientrare anche nella competenza di un architetto abilitato, secondo quanto stabilito dal R.D. 23.10.1925, n. 2537 Regolamento per le professioni di ingegnere ed architetto.
14. Alla luce degli approfondimenti istruttori disposti da questo Consiglio di Stato, merita dunque piena condivisione l’assunto della sentenza di prime cure secondo cui nel caso di interventi di carattere non edilizio, quali erano quelli di cui all’offerta migliorativa dell’a.t.i. aggiudicataria, la proposta doveva essere sottoscritta da un ingegnere, unico tecnico a ciò abilitato, non potendo la lex specialis derogare al riparto di competenze, fissato dalle norme, delle figure professionali dell’architetto e dell’ingegnere.
15. In conclusione, per le su esposte ragioni, l’appello va respinto e la sentenza impugnata deve essere integralmente confermata, con assorbimento degli altri motivi di censura non esaminati dal giudice di primo grado e qui riproposti ex art. 101, comma 2, Cod. proc. amm. dall’appellata (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.12.2020 n. 8027 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALILe opere proposte (“modifica di alcune finestre e di taluni balconi siti al primo piano, alla realizzazione di una scala interna ed alla sostituzione di quella esterna”) non possono essere ascritte –sia per la loro natura, sia per l’oggettiva inerenza a profili di staticità e sicurezza– al novero delle “modeste costruzioni civili” che suffragano, quale competenza sufficiente per l’attività di progettazione, quella dei geometri ai sensi del R.D. 214/1929.
---------------

Con ricorso ritualmente proposto il sig. Sa.Mo. ha impugnato e chiesto l’annullamento della disposizione dirigenziale n. 474 del 23.03.2017, con la quale il Servizio Sportello Unico Edilizia Privata, Direzione Centrale Pianificazione e Gestione del Territorio, ha rigettato la richiesta di rilascio di un permesso di costruire, ex art. 4 della legge regionale 19/2009 (c.d. Piano Casa), avente ad oggetto l’ampliamento volumetrico di un immobile sito in Napoli, alla Strada ... n. 27/b.
L’immobile oggetto del contendere, classificato in zona B (agglomerati urbani di recente formazione, sottozona Bb), è “individuato tra le attrezzature pubbliche come tra le attrezzature di quartiere”; in più, risulta azzonato in ambito territoriale “destinato a istruzione, interesse comune, parcheggi”.
Il ricorrente ha proposto di realizzare una “sopraelevazione ad un manufatto esistente composto da due piani fuori terra”: un intervento che per il Comune “non è compatibile con la specifica previsione del Prg”, oltre al fatto che “per la complessità dei calcoli strutturali e per le implicazioni che deriverebbero da un maggior carico sulle strutture esistenti è riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali”.
A fondamento del ricorso sono stati proposti i seguenti motivi:
1°) Difetto d’istruttoria e di motivazione; eccesso di potere per contraddittorietà; violazione dell’art. 4 della legge regionale 19/2009, dell’art. 9 del DPR 327/2001 e dell’art. 2 della legge 1187/1968.
   Il ricorrente ha evidenziato che il fabbricato in questione avrebbe conservato la propria destinazione iniziale, risultante dell’originario titolo abilitativo edilizio, in quanto impressa prima dell’adozione della variante generale al PRG della Città di Napoli: destinazione che resterebbe immutata per effetto del regime derogatorio introdotto dall’art. 4 della legge regionale 19/2009.
2°) Eccesso di potere per difetto d’istruttoria e violazione della legge 144/1949.
   Il ricorrente ha contestato la preclusione della competenza del geometra, sottolineando la necessità di scindere le attività progettuali.
...
Infondato è, altresì, il secondo motivo, dovendosi ritenere che le opere proposte (“modifica di alcune finestre e di taluni balconi siti al primo piano, alla realizzazione di una scala interna ed alla sostituzione di quella esterna”) non possono essere ascritte –sia per la loro natura, sia per l’oggettiva inerenza a profili di staticità e sicurezza– al novero delle “modeste costruzioni civili” che suffragano, quale competenza sufficiente per l’attività di progettazione, quella dei geometri ai sensi del R.D. 214/1929 (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 05.10.2020 n. 4232 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa possibilità di formulare offerte integrative del progetto organizzativo a base d'asta è espressamente riconosciuta dall'art. 95, comma 14, lett. a), del d.lgs. 50/2016, il vigente Codice dei contratti pubblici, sicché, anche nel caso in cui le varianti non siano ammesse dalla lex specialis, è tuttavia da considerarsi comunque possibile per i partecipanti presentare proposte, soluzioni ovvero variazioni migliorative.
Al riguardo, il punctum dolens della questione richiede di delimitare esattamente la differenza tra le varianti ammissibili solo negli stretti limiti della disposizione richiamata e di quelle ad essa correlate, e i miglioramenti dell'offerta, sempre proponibili dai concorrenti.
In questo senso, in una gara d'appalto, costituiscono proposte migliorative le precisazioni, le integrazioni e gli adattamenti che siano elaborati allo scopo di rendere il progetto prescelto meglio rispondente alle esigenze proprie della Stazione appaltante, sempre che non vengano modificati ed alterati i caratteri essenziali delle prestazioni richieste, in quanto ciò implicherebbe una totale divergenza con radicale discostamento dall'oggetto della gara stessa.
Per distinguersi tra varianti (non consentite) e migliorie (consentite), il Consiglio di Stato ha chiarito che “…in sede di gara d'appalto e allorquando il sistema di selezione delle offerte sia basato sul criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, le soluzioni migliorative si differenziano dalle varianti perché le prime possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall'Amministrazione, mentre le seconde si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione contenuta nel bando di gara e l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dalla Pubblica Amministrazione, pur tuttavia consentito”.
Ne consegue che “le proposte migliorative consistono pertanto in soluzioni tecniche che, senza incidere sulla struttura, sulla funzione e sulla tipologia del progetto a base di gara, investono singole lavorazioni o singoli aspetti tecnici dell'opera, lasciati aperti a diverse soluzioni, configurandosi come integrazioni, precisazioni e migliorie che rendono il progetto meglio corrispondente alle esigenze della stazione appaltante, senza tuttavia alterare i caratteri essenziali delle prestazioni richieste”.
E’ stato anche precisato che “…la valutazione delle offerte tecniche come pure delle ragioni che giustificano la soluzione migliorativa proposta quanto alla sua efficienza e alla rispondenza alle esigenze della stazione appaltante costituisce espressione di un'ampia discrezionalità tecnica, con conseguente insindacabilità nel merito delle valutazioni e dei punteggi attribuiti dalla commissione, ove non inficiate da macroscopici errori di fatto, da illogicità o da irragionevolezza manifesta”.
---------------

2.1.- Giova premettere che, secondo affermata e condivisa giurisprudenza, la possibilità di formulare offerte integrative del progetto organizzativo a base d'asta è espressamente riconosciuta dall'art. 95, comma 14, lett. a), del d.lgs. 50/2016, il vigente Codice dei contratti pubblici, sicché, anche nel caso in cui le varianti non siano ammesse dalla lex specialis, è tuttavia da considerarsi comunque possibile per i partecipanti presentare proposte, soluzioni ovvero variazioni migliorative.
Al riguardo, il punctum dolens della questione richiede di delimitare esattamente la differenza tra le varianti ammissibili solo negli stretti limiti della disposizione richiamata e di quelle ad essa correlate, e i miglioramenti dell'offerta, sempre proponibili dai concorrenti.
In questo senso, in una gara d'appalto, costituiscono proposte migliorative le precisazioni, le integrazioni e gli adattamenti che siano elaborati allo scopo di rendere il progetto prescelto meglio rispondente alle esigenze proprie della Stazione appaltante, sempre che non vengano modificati ed alterati i caratteri essenziali delle prestazioni richieste, in quanto ciò implicherebbe una totale divergenza con radicale discostamento dall'oggetto della gara stessa (cfr. questa Sezione, 14.11.2019, n. 5366; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 22.05.2019, n. 146).
2.2.- Per distinguersi tra varianti (non consentite) e migliorie (consentite), il Consiglio di Stato ha chiarito che “…in sede di gara d'appalto e allorquando il sistema di selezione delle offerte sia basato sul criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, le soluzioni migliorative si differenziano dalle varianti perché le prime possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall'Amministrazione, mentre le seconde si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione contenuta nel bando di gara e l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dalla Pubblica Amministrazione, pur tuttavia consentito” (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 24.10.2013, n. 5160; Idem, 20.02.2014, n. 819; Idem, sez. VI, 19.06.2017, n. 2969; Idem, sez. III, 19.12.2017, n. 5967; Idem, sez. V, 18.02.2019, n. 1097; Idem, 15.01.2019, n. 374; per una disamina tra varianti migliorative e varianti non conformi al progetto posto a base di gara cfr: Cons. di Stato, V, 26.10.2018, n. 6121; sulla non fattibilità tecnica della soluzione progettuale dell'offerente a causa della previsioni di varianti non consentite: Cons. di Stato, V, 18.03.2019, n. 1749).
2.3.- Ne consegue che “le proposte migliorative consistono pertanto in soluzioni tecniche che, senza incidere sulla struttura, sulla funzione e sulla tipologia del progetto a base di gara, investono singole lavorazioni o singoli aspetti tecnici dell'opera, lasciati aperti a diverse soluzioni, configurandosi come integrazioni, precisazioni e migliorie che rendono il progetto meglio corrispondente alle esigenze della stazione appaltante, senza tuttavia alterare i caratteri essenziali delle prestazioni richieste”.
E’ stato anche precisato che “…la valutazione delle offerte tecniche come pure delle ragioni che giustificano la soluzione migliorativa proposta quanto alla sua efficienza e alla rispondenza alle esigenze della stazione appaltante costituisce espressione di un'ampia discrezionalità tecnica (Cons. Stato, sez. V, 14.05.2018, n. 2853), con conseguente insindacabilità nel merito delle valutazioni e dei punteggi attribuiti dalla commissione, ove non inficiate da macroscopici errori di fatto, da illogicità o da irragionevolezza manifesta (Cons. Stato, sez. III, 07.03.2014, n. 1072; 14.11.2017, n. 5258)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 10.07.2020 n. 3006 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Sulla questione che il muro in cemento armato di contenimento, la cui sagoma non è alterata rispetto al disegno contenuto nel progetto esecutivo, viene spostato dalla destra alla sinistra del plinto con l’effetto di non fungere più da immediato contenimento alla scarpata e che ciò non comporta alcuna variazione in termini di stabilità dell’opera ma richiede, quantomeno, le preliminari verifiche necessarie da parte di un tecnico abilitato (laureato).
Per disciplinare la professione di geometra, il legislatore è intervenuto per la prima volta col Regio decreto 11.02.1929 n. 274, il cui art. 16 ne circoscrive l’oggetto ed i limiti relativi alla competenza tecnica.
In seguito, il legislatore, col regio decreto 16.11.1939 n. 2229 –contenente le “Norme per la esecuzione delle opere in conglomerato cementizio semplice od armato”- all’art. 1 ha introdotto un limite generale alla competenza dei geometri per le opere “di conglomerato cementizio semplice od armato la cui stabilità possa comunque interessare l'incolumità delle persone”, in precedenza inesistente, disponendo che tali opere dovessero “... essere costruite in base ad un progetto esecutivo firmato da un ingegnere, ovvero da un architetto iscritto nell'albo, nei limiti delle rispettive attribuzioni, ai sensi della Legge 24.06.1923 n. 1395 e del Regio decreto 23.10.1925 n. 2537, sull’esercizio delle professioni di ingegnere e di architetto e delle successive modificazioni”.
La disciplina regolamentare è stata successivamente modificata con l’approvazione della Legge 05.11.1971 n. 1086 e della Legge 02.02.1974 n. 64.
In particolare, riguardo alle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica, la menzionata legge n. 1086 del 1971, all’art. 2, ha chiarito che: “La costruzione delle opere di cui all'articolo 1 deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritti nel relativo albo, nei limiti delle rispettive competenze. L'esecuzione delle opere deve aver luogo sotto la direzione di un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritto nel relativo albo, nei limiti delle rispettive competenze.”.
Il quadro normativo sopra delineato è rimasto sostanzialmente inalterato a seguito dell’intervento di riordino della materia operato dal d.p.r. 06.06.2001 n. 380, il testo unico dell’edilizia.
Con queste premesse, è quindi evidente che, in relazione ad una variazione significativa dell’assetto delle costruzioni in cemento armato poste a supporto e contenimento della palificazione, sarebbe stato necessario l’intervento professionale di un ingegnere o di un architetto, almeno ai fini della verifica circa l’immodificabilità delle condizioni di stabilità e quindi di sicurezza pubblica.
---------------

9.- Rimane da analizzare la contestazione, contenuta nel terzo motivo del ricorso incidentale, concernente le variazioni alle opere in cemento armato per arretrare, rispetto al progetto esecutivo, il posizionamento sul marciapiede dei pali per la pubblica illuminazione, con conseguente inidoneità della firma apposta, su questa specifica proposta migliorativa, da un tecnico geometra in luogo di un ingegnere o architetto.
9.1.- Sul punto, It.Ap.i replica nel senso che la soluzione migliorativa proposta:
   - intende eliminare la condizione di pericolo presente nel progetto esecutivo in modo da realizzare una superficie calpestabile del marciapiede completamente libera da ostacoli e, quindi, evitare che i pedoni, per aggirare l’ostacolo rappresentato dal palo dell’illuminazione, fossero costretti a spostarsi verso la carreggiata stradale;
   - non comporta variazioni alle opere in cemento armato previste in progetto, in quanto la parete del muro di contenimento, posto a sostegno del marciapiede, non risulta interrotta dall’inserimento del blocco palo; pertanto per il profilo squisitamente tecnico-qualitativo, il posizionamento adottato per i pali d’illuminazione e ai relativi blocco del palo non comporta problematiche di tipo strutturale.
9.2.- La censura appare tuttavia meritevole di considerazione e, dunque, fondata posto che –come emerge dai grafici- il muro in cemento armato di contenimento, la cui sagoma effettivamente non è stata alterata rispetto al disegno contenuto nel progetto esecutivo, viene spostato dalla destra alla sinistra del plinto con l’effetto di non fungere più da immediato contenimento alla scarpata.
Se è vero che, come sostiene la ricorrente, tutto ciò non comporta alcuna variazione in termini di stabilità dell’opera, ciò avrebbe richiesto quantomeno le verifiche necessarie da parte di un tecnico abilitato.
9.3.- Giova sul punto ricordare che, per disciplinare la professione di geometra, il legislatore è intervenuto per la prima volta col Regio decreto 11.02.1929 n. 274, il cui art. 16 ne circoscrive l’oggetto ed i limiti relativi alla competenza tecnica.
In seguito, il legislatore, col regio decreto 16.11.1939 n. 2229 –contenente le “Norme per la esecuzione delle opere in conglomerato cementizio semplice od armato”- all’art. 1 ha introdotto un limite generale alla competenza dei geometri per le opere “di conglomerato cementizio semplice od armato la cui stabilità possa comunque interessare l'incolumità delle persone”, in precedenza inesistente, disponendo che tali opere dovessero “... essere costruite in base ad un progetto esecutivo firmato da un ingegnere, ovvero da un architetto iscritto nell'albo, nei limiti delle rispettive attribuzioni, ai sensi della Legge 24.06.1923 n. 1395 e del Regio decreto 23.10.1925 n. 2537, sull’esercizio delle professioni di ingegnere e di architetto e delle successive modificazioni”.
La disciplina regolamentare è stata successivamente modificata con l’approvazione della Legge 05.11.1971 n. 1086 e della Legge 02.02.1974 n. 64.
In particolare, riguardo alle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica, la menzionata legge n. 1086 del 1971, all’art. 2, ha chiarito che: “La costruzione delle opere di cui all'articolo 1 deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritti nel relativo albo, nei limiti delle rispettive competenze. L'esecuzione delle opere deve aver luogo sotto la direzione di un ingegnere o architetto o geometra o perito industriale edile iscritto nel relativo albo, nei limiti delle rispettive competenze.”.
Il quadro normativo sopra delineato è rimasto sostanzialmente inalterato a seguito dell’intervento di riordino della materia operato dal d.p.r. 06.06.2001 n. 380, il testo unico dell’edilizia.
Con queste premesse, è quindi evidente che, in relazione ad una variazione significativa dell’assetto delle costruzioni in cemento armato poste a supporto e contenimento della palificazione, sarebbe stato necessario l’intervento professionale di un ingegnere o di un architetto, almeno ai fini della verifica circa l’immodificabilità delle condizioni di stabilità e quindi di sicurezza pubblica
(TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 10.07.2020 n. 3006 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIE' nullo il contratto di affidamento della direzione dei lavori di costruzioni civili ad un geometra, ove la progettazione richieda l'esecuzione, anche parziale, dei calcoli in cemento armato, attività demandata agli ingegneri, attese le limitate competenze attribuite ai geometri dall'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929.
Tuttavia, verificare in quali limiti l'opera sia da considerare modesta ovvero implichi l'utilizzo di cemento armato implica evidentemente accertamenti in fatto, essendosi specificamente precisato che la violazione delle norme imperative sui limiti dei poteri del professionista, stabiliti dalla legge professionale (nella specie, l'art. 16 del R.D. 11.02.1929 n. 274, che consente al geometra la progettazione, la direzione o la vigilanza di modeste costruzioni civili), determina la nullità del contratto di opera professionale, rilevabile, ai sensi dell'art. 1421 cod. civ., anche d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, incontrando tale principio, in sede di legittimità, il limite del divieto degli accertamenti di fatto (nella specie, l'accertamento relativo alla modesta importanza della costruzione), sicché nel giudizio di cassazione la nullità è rilevabile solo se siano acquisiti agli atti tutti gli elementi di fatto dai quali possa desumersene l'esistenza.

---------------
2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1141 (rectius 1421 c.c.) e dell'art. 16 del r.d. n. 274/1929.
Rileva la ricorrente che nel corso del giudizio di merito aveva eccepito che il contratto intercorso tra le parti aveva ad oggetto la progettazione di un capannone industriale di rilevanti dimensioni e con struttura in cemento armato che esorbitava dalle competenze che la legge riserva al geometra.
Ciò implica la nullità del contratto e l'assenza del diritto al corrispettivo da parte dell'opposto.
Il motivo è infondato.
La Corte d'Appello è pervenuta al rigetto della deduzione circa la nullità del contratto professionale intercorso tra le parti, in quanto avente ad oggetto la progettazione di opere che esulavano da quelle che la legge riserva alla competenza del geometra, non già ritenendo di escludere il rilievo d'ufficio della nullità ex art. 1421 c.c., né tanto meno ritenendo che l'eccezione di nullità fosse stata tardivamente sollevata (e ciò avendo ribadito che quella in esame costituisce un'eccezione in senso lato, liberamente deducibile in sede di appello e comunque rilevabile in ogni stato e grado anche d'ufficio), ma piuttosto osservando che non era stata in precedenza, e nei termini segnati dal codice di rito, contestata la ricorrenza dei fatti costitutivi della pretesa attorea, ed in particolare il possesso in capo al Pe. della qualifica professionale per svolgere l'incarico per il quale era stato richiesto ed ottenuto il decreto ingiuntivo.
Ed, invero, ribadita la correttezza del principio richiamato in ricorso, circa la possibilità per il giudice, anche in sede di legittimità di poter rilevare d'ufficio la nullità del contratto i cui effetti sono oggetto di causa (come nel caso in cui venga richiesto il pagamento del corrispettivo), principio che ha ricevuto ampia e definitiva consacrazione negli interventi delle Sezioni Unite di cui alle sentenze nn. 26242 e 26243 del 2014, va del pari ribadita la correttezza della conclusione secondo cui (cfr. da ultimo Cass. n. 5871/2016) è nullo il contratto di affidamento della direzione dei lavori di costruzioni civili ad un geometra, ove la progettazione richieda l'esecuzione, anche parziale, dei calcoli in cemento armato, attività demandata agli ingegneri, attese le limitate competenze attribuite ai geometri dall'art. 16 del r.d. n. 274 del 1929 (conf. Cass. n. 6402/2011; Cass. n. 19292/2009).
Tuttavia, verificare in quali limiti l'opera sia da considerare modesta ovvero implichi l'utilizzo di cemento armato implica evidentemente accertamenti in fatto (così Cass. n. 8543/2009), essendosi specificamente precisato che (cfr. Cass. n. 8576/1994) la violazione delle norme imperative sui limiti dei poteri del professionista, stabiliti dalla legge professionale (nella specie, l'art. 16 del R.D. 11.02.1929 n. 274, che consente al geometra la progettazione, la direzione o la vigilanza di modeste costruzioni civili), determina la nullità del contratto di opera professionale, rilevabile, ai sensi dell'art. 1421 cod. civ., anche d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, incontrando tale principio, in sede di legittimità, il limite del divieto degli accertamenti di fatto (nella specie, l'accertamento relativo alla modesta importanza della costruzione), sicché nel giudizio di cassazione la nullità è rilevabile solo se siano acquisiti agli atti tutti gli elementi di fatto dai quali possa desumersene l'esistenza.
Alla luce di tali considerazioni, il riferimento alla non contestazione operato dal giudice di appello deve correttamente essere inteso come correlato alla circostanza che i fatti sulla scorta dei quali il Pe. reclamava il suo diritto al compenso, ivi inclusa la loro idoneità a giustificare la validità dell'incarico, non fossero mai stati in precedenza contestati, e che quindi l'asserzione solo in comparsa conclusionale circa l'invalidità del contratto, in assenza della dimostrazione dell'effettiva ricorrenza delle condizioni per ritenere invalidamente assunto l'incarico di progettazione, non consentiva alla Corte di merito di accedere alla tesi della nullità.
Il motivo di ricorso appare peraltro sul punto evidentemente carente del requisito di specificità, assumendo apoditticamente che si tratterebbe della progettazione di un capannone industriale di rilevanti dimensioni con struttura in cemento armato, senza però in alcun modo individuare le fonti di prova già raccolte nel giudizio di merito dalle quali si potrebbe evincere l'effettiva ricorrenza dei presupposti fondanti il rilievo di nullità (e ciò anche a tacere del fatto che in controricorso il Pe. richiama i progetti e le planimetrie progettuali elaborate e sottoscritte da un professionista abilitato al compimento di tali attività, adducendo che l'incarico conferitogli non implicasse lo svolgimento di alcuna attività di tipo progettuale concernente parti strutturali fondanti o comunque in cemento armato, né lo svolgimento dell'attività di direttore dei lavori) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 29.07.2019 n. 20438).

COMPETENZE PROGETTUALISi rammenta che
   - il citato art. 51 stabilisce: “Sono di spettanza della professione d'ingegnere, il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo”;
   - l’art. 54, secondo e terzo comma, prevede: “Coloro che abbiano conseguito il diploma di laurea d'ingegnere-architetto presso gli istituti d'istruzione superiore indicati nell'art. 1 della legge entro il 31.12.1924, ovvero lo conseguiranno entro il 31.12.1925, giusta le norme stabilite dall'art. 6 del R.D. 31.12.1923, n. 2909, sono autorizzati a compiere anche le mansioni indicate nell'art. 51 del presente regolamento, eccettuate le applicazioni industriali. La presente disposizione è applicabile anche a coloro che abbiano conseguito il diploma di architetto civile nei termini suddetti, ad eccezione però di quanto riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere idrauliche”.
Ciò detto, esse sfuggono alla competenza degli architetti, non rientrando nel concetto di edilizia civile di cui all’art. 52 (“Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”), ancorché tale concetto sia considerato nella sua accezione più vasta, richiamata dalla giurisprudenza. Invero, “si può affermare che il concetto di ‘opere di edilizia civile’ si estenda sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell’edificazione”.
Deve ancora rammentarsi che, nello stabilire l’ampiezza delle competenze riconosciute, rispettivamente, agli ingegneri e agli architetti ai sensi del combinato disposto degli articoli 51 e 52 dello stesso regio decreto n. 2537 del 1925, la giurisprudenza ha confermato l’orientamento tradizionale, in ordine alla ricomprensione nell’esclusivo appannaggio della professione di ingegnere delle opere di carattere più marcatamente tecnico-scientifico, di ingegneria idraulica, di ammodernamento e ampliamento della rete idrica comunale.
Recentemente la Sezione ha affermato che “Il r.d. 23.10.1925 n. 2537 recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche”.
---------------

Nessuna di tali considerazioni risulta tuttavia convincente e condivisibile.
2.1.1. Quanto alla prima, è priva di qualsiasi valenza dirimente la circostanza che la legge di gara abilitava anche gli architetti alla sottoscrizione dell’offerta tecnica, atteso che la società odierna appellante contesta proprio tale previsione.
La questione deve essere pertanto essere risolta facendo riferimento (indipendentemente da ogni considerazione circa la astratta differenza tra le migliorie e le varianti, come risultante dalla giurisprudenza amministrativa cui la sentenza fa riferimento, Cons. Stato, V, 10.01.2017 n. 42; ma vedasi anche tra altre, V, 09.09.2014 n. 4578 e, più di recente, V, 14.05.2018 n. 2853) alla concreta disciplina rinvenibile dal bando di gara e alla puntuale funzione rimessa agli elaborati tecnici siccome ivi previsti.
L’appalto de quo, avente a oggetto i lavori “Grande viabilità urbana – 1° lotto funzionale (tratto via Due Pozzi – via Paradiso)”, attiene alla realizzazione di opere viarie e idrauliche: in particolare, le opere rientranti nell’appalto rientrano (pag. 3 della lex specialis) nelle categorie SOA: prevalente OG3 (strade, autostrade e ponti); scorporabile OG6 (acquedotti); subappaltabile OG10 (impianti per la trasformazione alta/media tensione e per la distribuzione di energia elettrica in corrente alternata e continua e impianti di pubblica illuminazione).
L’offerta tecnica, secondo la previsione del bando (pag. 17), consta di una relazione tecnica contenente “proposte migliorative e aggiuntive” che vengono preconizzate anche in relazione: alla viabilità e al pacchetto stradale; all’inserimento di una pista ciclabile; alla regolazione degli innesti tra la viabilità e la pista ciclabile; all’aumento delle condizioni di sicurezza stradale; agli impianti fognari; all’impianto di smaltimento delle acque meteoriche; all’impianto di fogna nera.
Ciò posto, la conclusione che l’offerta tecnica delle partecipanti non avrebbe potuto sovvertire le caratteristiche progettuali già stabilite dall’Amministrazione non risulta innanzitutto decisiva, considerato che, quand’anche non nella forma più radicale della variante, le previste migliorie e integrazioni -e soprattutto queste ultime- avevano proprio l’obiettivo di impattare sulla viabilità e sulle opere idrauliche come risultante dal progetto posto a gara. Proprio per tali ragioni esse non possono che rientrare nella competenza esclusiva degli ingeneri, ai sensi degli artt. 51 e 54 del regio decreto 23.10.1925, n. 2537, “Approvazione del regolamento per le professioni di ingegnere e di architetto”.
Si rammenta che
   - il citato art. 51 stabilisce: “Sono di spettanza della professione d'ingegnere, il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo”;
   - l’art. 54, secondo e terzo comma, prevede: “Coloro che abbiano conseguito il diploma di laurea d'ingegnere-architetto presso gli istituti d'istruzione superiore indicati nell'art. 1 della legge entro il 31.12.1924, ovvero lo conseguiranno entro il 31.12.1925, giusta le norme stabilite dall'art. 6 del R.D. 31.12.1923, n. 2909, sono autorizzati a compiere anche le mansioni indicate nell'art. 51 del presente regolamento, eccettuate le applicazioni industriali. La presente disposizione è applicabile anche a coloro che abbiano conseguito il diploma di architetto civile nei termini suddetti, ad eccezione però di quanto riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere idrauliche”.
Per altro verso esse sfuggono alla competenza degli architetti, non rientrando nel concetto di edilizia civile di cui all’art. 52 (“Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”), ancorché tale concetto sia considerato nella sua accezione più vasta, richiamata dalla giurisprudenza (Cons. Stato, VI, 15.03.2013 n. 1550: “si può affermare che il concetto di ‘opere di edilizia civile’ si estenda sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell’edificazione”).
Deve al riguardo ancora rammentarsi che, nello stabilire l’ampiezza delle competenze riconosciute, rispettivamente, agli ingegneri e agli architetti ai sensi del combinato disposto degli articoli 51 e 52 dello stesso regio decreto n. 2537 del 1925, la giurisprudenza ha confermato l’orientamento tradizionale, in ordine alla ricomprensione nell’esclusivo appannaggio della professione di ingegnere delle opere di carattere più marcatamente tecnico-scientifico, di ingegneria idraulica, di ammodernamento e ampliamento della rete idrica comunale (Cons. Stato, VI, n. 1550/2013, cit.).
Recentemente la Sezione ha affermato che “Il r.d. 23.10.1925 n. 2537 recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche” (Cons. Stato, V, 19.05.2016 n. 2095) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.11.2018 n. 6552 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Si rammenta che:
   - l'art. 51 RD 23.10.1925 n. 2537
stabilisce che: “Sono di spettanza della professione d'ingegnere, il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo”;
   - l’art. 54, secondo e terzo comma, prevede che: “Coloro che abbiano conseguito il diploma di laurea d'ingegnere-architetto presso gli istituti d'istruzione superiore indicati nell'art. 1 della legge entro il 31.12.1924, ovvero lo conseguiranno entro il 31.12.1925, giusta le norme stabilite dall'art. 6 del R.D. 31.12.1923, n. 2909, sono autorizzati a compiere anche le mansioni indicate nell'art. 51 del presente regolamento, eccettuate le applicazioni industriali. La presente disposizione è applicabile anche a coloro che abbiano conseguito il diploma di architetto civile nei termini suddetti, ad eccezione però di quanto riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere idrauliche”.
Ciò detto, esse sfuggono alla competenza degli architetti, non rientrando nel concetto di edilizia civile di cui all’art. 52 (“Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”), ancorché tale concetto sia considerato nella sua accezione più vasta, richiamata dalla giurisprudenza. Invero, “si può affermare che il concetto di ‘opere di edilizia civile’ si estenda sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell’edificazione”.
Deve ancora rammentarsi che, nello stabilire l’ampiezza delle competenze riconosciute, rispettivamente, agli ingegneri e agli architetti ai sensi del combinato disposto degli articoli 51 e 52 dello stesso regio decreto n. 2537 del 1925, la giurisprudenza ha confermato l’orientamento tradizionale, in ordine alla ricomprensione nell’esclusivo appannaggio della professione di ingegnere delle opere di carattere più marcatamente tecnico-scientifico, di ingegneria idraulica, di ammodernamento e ampliamento della rete idrica comunale.
Recentemente la Sezione ha affermato che “Il r.d. 23.10.1925 n. 2537 recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche”.
---------------

2. Passando all’esame del primo motivo dell’appello principale, lo stesso si rivela fondato.
2.1. La sentenza appellata ha respinto il corrispondente primo motivo del ricorso della La.Ed. e St., ancorando la legittimità della sottoscrizione dell’offerta tecnica del Consorzio aggiudicatario da parte di un architetto (invece che ad un ingegnere) a due ordini di considerazioni:
   - la prima, secondo cui il fatto che l’offerta tecnica contenesse offerte migliorative non sovvertiva per definizione le caratteristiche essenziali del progetto esecutivo posto a base di gara (con la conseguenza che nel concreto l’offerto poteva essere indifferentemente sottoscritta da un ingegnere o da un architetto);
   - la seconda, secondo cui l’oggetto dell’appalto consisteva in un’articolata opera di (ri)sistemazione urbana, così che il contributo in termini di apporto tecnico progettuale sarebbe stato astrattamente fornibile tanto da un architetto quanto da un ingegnere, essendo le prestazioni professionali richieste del tutto equipollenti.
Nessuna di tali considerazioni risulta tuttavia convincente e condivisibile.
2.1.1. Quanto alla prima, è priva di qualsiasi valenza dirimente la circostanza che la legge di gara abilitava anche gli architetti alla sottoscrizione dell’offerta tecnica, atteso che la società odierna appellante contesta proprio tale previsione.
La questione deve essere pertanto essere risolta facendo riferimento (indipendentemente da ogni considerazione circa la astratta differenza tra le migliorie e le varianti, come risultante dalla giurisprudenza amministrativa cui la sentenza fa riferimento, Cons. Stato, V, 10.01.2017 n. 42; ma vedasi anche tra altre, V, 09.09.2014 n. 4578 e, più di recente, V, 14.05.2018 n. 2853) alla concreta disciplina rinvenibile dal bando di gara e alla puntuale funzione rimessa agli elaborati tecnici siccome ivi previsti.
L’appalto de quo, avente a oggetto i lavori “Grande viabilità urbana – 1° lotto funzionale (tratto via Due Pozzi – via Paradiso)”, attiene alla realizzazione di opere viarie e idrauliche: in particolare, le opere rientranti nell’appalto rientrano (pag. 3 della lex specialis) nelle categorie SOA: prevalente OG3 (strade, autostrade e ponti); scorporabile OG6 (acquedotti); subappaltabile OG10 (impianti per la trasformazione alta/media tensione e per la distribuzione di energia elettrica in corrente alternata e continua e impianti di pubblica illuminazione).
L’offerta tecnica, secondo la previsione del bando (pag. 17), consta di una relazione tecnica contenente “proposte migliorative e aggiuntive” che vengono preconizzate anche in relazione: alla viabilità e al pacchetto stradale; all’inserimento di una pista ciclabile; alla regolazione degli innesti tra la viabilità e la pista ciclabile; all’aumento delle condizioni di sicurezza stradale; agli impianti fognari; all’impianto di smaltimento delle acque meteoriche; all’impianto di fogna nera.
Ciò posto, la conclusione che l’offerta tecnica delle partecipanti non avrebbe potuto sovvertire le caratteristiche progettuali già stabilite dall’Amministrazione non risulta innanzitutto decisiva, considerato che, quand’anche non nella forma più radicale della variante, le previste migliorie e integrazioni -e soprattutto queste ultime- avevano proprio l’obiettivo di impattare sulla viabilità e sulle opere idrauliche come risultante dal progetto posto a gara. Proprio per tali ragioni esse non possono che rientrare nella competenza esclusiva degli ingeneri, ai sensi degli artt. 51 e 54 del regio decreto 23.10.1925, n. 2537, “Approvazione del regolamento per le professioni di ingegnere e di architetto”.
Si rammenta che
   - il citato art. 51 stabilisce: “Sono di spettanza della professione d'ingegnere, il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo”;
   - l’art. 54, secondo e terzo comma, prevede: “Coloro che abbiano conseguito il diploma di laurea d'ingegnere-architetto presso gli istituti d'istruzione superiore indicati nell'art. 1 della legge entro il 31.12.1924, ovvero lo conseguiranno entro il 31.12.1925, giusta le norme stabilite dall'art. 6 del R.D. 31.12.1923, n. 2909, sono autorizzati a compiere anche le mansioni indicate nell'art. 51 del presente regolamento, eccettuate le applicazioni industriali. La presente disposizione è applicabile anche a coloro che abbiano conseguito il diploma di architetto civile nei termini suddetti, ad eccezione però di quanto riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere idrauliche”.
Per altro verso esse sfuggono alla competenza degli architetti, non rientrando nel concetto di edilizia civile di cui all’art. 52 (“Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative. Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”), ancorché tale concetto sia considerato nella sua accezione più vasta, richiamata dalla giurisprudenza (Cons. Stato, VI, 15.03.2013 n. 1550: “si può affermare che il concetto di ‘opere di edilizia civile’ si estenda sicuramente oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere l’intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell’edificazione”).
Deve al riguardo ancora rammentarsi che, nello stabilire l’ampiezza delle competenze riconosciute, rispettivamente, agli ingegneri e agli architetti ai sensi del combinato disposto degli articoli 51 e 52 dello stesso regio decreto n. 2537 del 1925, la giurisprudenza ha confermato l’orientamento tradizionale, in ordine alla ricomprensione nell’esclusivo appannaggio della professione di ingegnere delle opere di carattere più marcatamente tecnico-scientifico, di ingegneria idraulica, di ammodernamento e ampliamento della rete idrica comunale (Cons. Stato, VI, n. 1550/2013, cit.).
Recentemente la Sezione ha affermato che “Il r.d. 23.10.1925 n. 2537 recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche” (Cons. Stato, V, 19.05.2016 n. 2095).
2.1.2. Ad analoghe conclusioni, di non condivisibilità del convincimento del primo giudice, deve giungersi anche per il secondo ordine di considerazioni che, oltre a sottovalutare immotivatamente e in concreto la portata delle specifiche varianti migliorative e integrative costituenti, a termini del bando di gara, precipuo oggetto della offerta tecnica delle partecipanti alla procedura, si profila del tutto immotivata anche nel disattendere le distinzioni insistenti tra le due considerate categorie professionali, come pure lamentato dal primo motivo dell’appello in esame.
3. L’appello, assorbita ogni altra questione pure introdotta dalla parte appellante (e tra esse quella della possibilità di una contemporanea iscrizione agli ordini delle due considerate professioni di ingegnere e architetto), va pertanto accolto, con conseguente riforma della sentenza appellata e accoglimento della domanda demolitoria formulata in primo grado (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.09.2018 n. 6552 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIA norma dell’art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, e come si desume anche dalle ll. 05.11.1971, n. 1086 e 02.02.1974, n. 64, che hanno rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche, nonché dalla l. 02.03.1949, n. 144 (recante la tariffa professionale), … la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l’adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato; solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si tratti di piccole costruzioni accessorie nell’ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone …
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l’esecuzione dell’opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri.

---------------

Sulla qualificazione, infine, del professionista incaricato, il Comune rileva che il progetto -assentito in base alla legge n. 219/1981 e riguardante interventi di ricostruzione in area colpita dal terremoto del novembre 1980 e del febbraio 1981- è sottoscritto da un perito edile, non abilitato a tal fine.
Al riguardo, il Consiglio di Stato ha precisato che «a norma dell’art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, e come si desume anche dalle ll. 05.11.1971, n. 1086 e 02.02.1974, n. 64, che hanno rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche, nonché dalla l. 02.03.1949, n. 144 (recante la tariffa professionale), … la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l’adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato; solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si tratti di piccole costruzioni accessorie nell’ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone …
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l’esecuzione dell’opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri
» (Cons. di Stato, V, sent. n. 883/2015) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 26.03.2018 n. 430 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIIl criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), del r.d. n. 274 del 1929- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle e a tale fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato, assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla legge n. 64 del 1974, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri.
---------------

4. Le doglianze, che possono essere esaminate congiuntamente per l'evidente connessione, sono infondate.
4.1. La Corte d'appello ha escluso il requisito della modestia della costruzione con motivazione corretta sotto il profilo dell'applicazione dei principi che regolano la materia, e immune da vizi logici.
Richiamata la documentazione in atti e la CTU disposta in primo grado, la Corte territoriale ha chiarito che, oltre all'importo in sé rilevante, la tipologia dei lavori di completamento del primo piano dell'edificio e di sopraelevazione dell'ultimo coinvolgevano anche la statica dell'edificio, e quindi comportavano difficoltà tecniche di progettazione e di esecuzione che esulano dalla competenza professionale del geometra, dovendosi anche tenere conto della sismicità dei luoghi, con conseguente assoggettamento alla normativa contenuta nella legge n. 64 del 1974.
4.2. La sentenza impugnata si colloca nel solco della giurisprudenza di questa Corte, che afferma, con orientamento consolidato, che il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), del r.d. n. 274 del 1929- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle e a tale fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato, assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla legge n. 64 del 1974, la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri (ex plurimis, Cass., sent. 08/04/2009 n. 8543) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 08.03.2017 n. 5871).

COMPETENZE PROGETTUALISecondo giurisprudenza, solo per gli interventi di ordine strutturale “in taluni casi (e non sempre) potrebbe ipotizzarsi un'assenza di competenze dei geometri”, mentre con riferimento a lavori di manutenzione straordinaria “detta competenza non può astrattamente escludersi, a meno che la concreta connotazione dell'intervento non lo imponga”.
Medesima giurisprudenza, al fine di delimitare la competenza dei geometri, ha affermato che “il criterio per accertare se la progettazione di una costruzione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929 n. 274, consiste, infatti, nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle. La delimitazione della competenza dei geometri e geometri laureati in tale materia va effettuata anche in base al criterio economico e tecnico-qualitativo della modestia o tenuità dell'opera, cosicché agli stessi è preclusa la realizzazione di un complesso di opere che richieda una visione di insieme, che ponga problemi di carattere programmatorio, che imponga una valutazione complessiva di una serie di situazioni la cui soluzione, sotto il profilo tecnico, può incontrare difficoltà non facilmente superabili con la competenza professionale dei medesimi professionisti”;
---------------

   Vista, nel merito, la censura con la quale viene dedotto che nessuno degli elaborati contenuti nella busta n. 2, concernenti la documentazione tecnica dell’impresa aggiudicataria, risulta firmato da un progettista abilitato, come richiesto a pena di esclusione dal punto XII.3 della lettera di invito, tale non potendo considerarsi il legale rappresentante della suddetta impresa, essendo egli in possesso della sola qualifica di geometra (e non di quella, asseritamente necessaria, di ingegnere);
   Rilevato preliminarmente che la lex specialis, al punto XII.3, effettivamente dispone che “tutti i documenti precedentemente indicati (relativi all’offerta tecnica: n.d.e.) dovranno essere sottoscritti, a pena di esclusione, con firma leggibile e per esteso, dal legale rappresentante del concorrente (…) nonché da un tecnico abilitato”;
   Evidenziato altresì che i documenti costitutivi dell’offerta tecnica dell’impresa aggiudicataria risultano effettivamente sottoscritti dal solo legale rappresentante dell’impresa, geom. Gu.Fa.;
   Considerato quindi che si rende necessario verificare se la sottoscrizione dei suddetti documenti da parte del solo rappresentante dell’impresa, in possesso del titolo di geometra, sia idonea ad assolvere sia al ruolo di elemento di riconoscimento della paternità del documento e di assunzione della responsabilità in ordine al suo contenuto, propria della sottoscrizione da parte del legale rappresentante dell’impresa offerente, sia a quello di garanzia della attendibilità ed affidabilità tecnica delle proposte migliorative trasfuse nell’offerta tecnica;
   Ritenuto che al quesito, con particolare riguardo al solo (ed unico controverso) secondo aspetto, debba darsi risposta affermativa;
   Evidenziato infatti che il progetto a base di gara, e la connessa offerta migliorativa dell’impresa aggiudicataria, ha ad oggetto “lavori di adeguamento normativo e di efficienza energetica” dell’edificio scolastico interessato, articolati nelle seguenti tipologie di interventi (cfr. II.1 della lex specialis):
- “isolamento termico dell’involucro edilizio”, ovvero “sostituzione degli infissi esistenti con infissi in alluminio a taglio termico con vetrate termoisolanti e di sicurezza”;
- “adeguamento impianto elettrico”, ovvero “impianto video-citofonico”, “lampade e lampade d’emergenza”, "sostituzione lampade interne per uffici, aule e disimpegni e lampade esterne per corte, scale metalliche, ascensore, area attualmente destinata a parcheggio”;
- “n. 2 scale esterne di sicurezza";
- “impianti idrici antincendio”: “impianti di rilevazione, segnalazione incendi e opere complementari”;
- “servizi igienici e opere complementari”;
- “ascensore”;
- “rifacimento facciate esterne conseguente alla realizzazione di ascensore”;
- “rifacimento superficie delle aree esterne relativamente a corte interna e spazio attualmente destinato a parcheggio e manovra di autoveicoli e raccordi rispetto alle scale metalliche esterne di sicurezza”;
   Evidenziato che i lavori suindicati sono riconducibili alla categoria edilizia della “manutenzione straordinaria”, senza implicazioni di carattere strutturale;
   Richiamato quindi, al fine di dimostrare l’infondatezza della censura in esame, quanto statuito dalla giurisprudenza (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, n. 3422 del 22.12.2014), nel senso che solo per gli interventi di ordine strutturale “in taluni casi (e non sempre) potrebbe ipotizzarsi un'assenza di competenze dei geometri”, mentre con riferimento a lavori di manutenzione straordinaria “detta competenza non può astrattamente escludersi, a meno che la concreta connotazione dell'intervento non lo imponga”;
   Rilevato che la medesima giurisprudenza, al fine di delimitare la competenza dei geometri, ha affermato che “il criterio per accertare se la progettazione di una costruzione rientri nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929 n. 274, consiste, infatti, nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle. La delimitazione della competenza dei geometri e geometri laureati in tale materia va effettuata anche in base al criterio economico e tecnico-qualitativo della modestia o tenuità dell'opera, cosicché agli stessi è preclusa la realizzazione di un complesso di opere che richieda una visione di insieme, che ponga problemi di carattere programmatorio, che imponga una valutazione complessiva di una serie di situazioni la cui soluzione, sotto il profilo tecnico, può incontrare difficoltà non facilmente superabili con la competenza professionale dei medesimi professionisti”;
   Ribadito in proposito che, nella specie, i lavori che vengono in rilievo non presentano profili di particolare difficoltà o complessità né importano una “visione d’insieme”, mentre, con specifico riferimento alle opere impiantistiche, non può non rilevarsi che l’impresa aggiudicataria, avente forma di impresa individuale, è abilitata all’esecuzione delle opere impiantistiche di cui all’art. 1 d.m. n. 37 del 22.01.2008 ed il legale rappresentante della stessa, firmatario come si è detto dell’offerta tecnica e dei documenti che la compongono, ne è anche il responsabile tecnico (cfr. il certificato della Camera di Commercio di cui all’all. n. 5 della produzione difensiva dell’amministrazione intimata), ad ulteriore dimostrazione del possesso da parte dello stesso delle competenze e delle conoscenze tecniche necessarie per predisporre l’offerta migliorativa (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 29.07.2016 n. 1803 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALILa nozione di opere di edilizia civile, che ai sensi dell'art. 52 R.D. 23.10.1925 n. 2537 formano oggetto della professione sia dell'ingegnere che dell'architetto, si estende oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere <l'intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell'edificazione>.
Sicché, "è illegittimo il rifiuto dell'ISPESL di procedere a verifica di un impianto di riscaldamento installato, in un plesso scolastico solo perché il relativo progetto era firmato da un architetto, trattandosi di opera accessoria all'edificazione".
---------------

... per l'annullamento della determinazione del Responsabile Servizio, Area tecnica, del Comune di Lauro n. 80 del 29.02.2016, avente ad oggetto l’aggiudicazione definitiva dell’”appalto lavori di realizzazione di un nuovo plesso scolastico nel Comune di Lauro”, di tutti gli atti connessi e presupposti, nonché per la declaratoria di inefficacia del contratto eventualmente stipulato e per la condanna al risarcimento del danno.
...
   Vista la censura con la quale viene dedotto che l’impresa aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara, avendo prodotto un contratto di avvalimento sottoposto alla condizione sospensiva dell’aggiudicazione dei lavori a favore dell’impresa ausiliata, con la conseguenza che, nel corso del procedimento di gara, la stessa era da ritenersi priva del requisito OG 1, classifica IV-bis, per il cui prestito era stato stipulato il suddetto contratto di avvalimento;
   Ritenuta l’infondatezza della censura suindicata;
   Considerato infatti che il contratto di avvalimento oggetto di contestazione è subordinato ad una condizione sospensiva di efficacia di carattere non meramente potestativo, siccome coincidente con un evento (l’aggiudicazione dell’appalto a favore dell’impresa avvalente) di carattere oggettivo ed indipendente dalla mera volontà dell’impresa concorrente, con la conseguenza che esso costituisce un mezzo giuridicamente idoneo a garantire che l’impresa ausiliata disporrà, una volta intervenuta l’eventuale aggiudicazione a suo favore dell’appalto, delle risorse e dei mezzi necessari all’esecuzione della prestazione, in relazione al requisito oggetto di avvalimento;
   Rilevato che siffatta conclusione trova fondamento nel carattere obbligatorio del contratto di avvalimento, così come tipizzato dall’art. 49, comma 2, lett. f), d.lvo n. 163/2006 (che lo definisce come il “contratto in virtù del quale l'impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell'appalto”) e nella necessaria coincidenza temporale della sua concreta operatività, come previsto dalla norma richiamata, con la “durata dell’appalto”, piuttosto che con quella del procedimento di aggiudicazione;
   Vista la censura con la quale l’esclusione dell’impresa aggiudicataria viene altresì invocata dalla parte ricorrente sulla scorta della sottoscrizione dell’offerta tecnica da essa presentata da parte di due architetti, piuttosto che da professionisti abilitati ed iscritti all’Albo degli Ingegneri, come sarebbe stato necessario prevedendo essa la realizzazione: a) di un impianto fotovoltaico; b) di un impianto solare termico; c) di un impianto di climatizzazione, ovvero di opere ad elevato contenuto innovativo e tecnologico;
   Ritenuta l’infondatezza della censura suindicata, alla luce della assenza di specifiche prescrizioni sul punto della lex specialis e, soprattutto, di quanto statuito dalla giurisprudenza (cfr. TAR Puglia-Lecce, Sez. III, n. 708 del 18.04.2012), nel senso che “la nozione di opere di edilizia civile, che ai sensi dell'art. 52 R.D. 23.10.1925 n. 2537 formano oggetto della professione sia dell'ingegnere che dell'architetto, si estende oltre gli ambiti più specificamente strutturali, fino a ricomprendere <l'intero complesso degli impianti tecnologici a corredo del fabbricato, e quindi non solo gli impianti idraulici ma anche quelli di riscaldamento compresi nell'edificazione>” (conforme Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4866 del 31.07.2009, secondo cui "di conseguenza, è illegittimo il rifiuto dell'ISPESL di procedere a verifica di un impianto di riscaldamento installato, in un plesso scolastico solo perché il relativo progetto era firmato da un architetto, trattandosi di opera accessoria all'edificazione");
   Rilevato infatti che le suddette opere impiantistiche sono destinate ad integrarsi nella (ed hanno quindi carattere accessorio rispetto alla) realizzazione dell’opus principale oggetto di appalto, rappresentato dalla edificazione di un plesso scolastico (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 25.05.2016 n. 1294 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIIl r.d. 23.10.1925 n. 2537, recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere, esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche.
---------------

Au.Soc.Coop. e Pr. S.r.l. partecipavano alla procedura di gara, indetta dal Comune di Arienzo, per l’affidamento del servizio di direzione lavori, misurazione e contabilità, assistenza al collaudo, nonché coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori per l'intervento di potenziamento e sistemazione della rete idrica cittadina.
La gara era stata bandita con procedura aperta e con il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
La Pr. S.r.l. risultava aggiudicataria provvisoria e quindi definitiva, con un punteggio complessivo di 95, mentre la Au.Soc.Coop., unica altra concorrente rimasta in gara, si classificava seconda con un punteggio complessivo di 73,26.
Au.Soc.Coop. impugnava i risultati della gara con ricorso al TAR della Campania, iscritto al R.G. 745 del 2015, lamentando la mancata esclusione dell’aggiudicataria, in quanto quest’ultima aveva indicato quale direttore dei lavori un architetto e non un ingegnere, come invece avrebbe richiesto l’oggetto dell'appalto inerente al “potenziamento e sistemazione della rete idrica cittadina”, ai sensi degli artt. 51 e 54 del R.D. n. 2537/1925, alla luce dei quali sarebbe dovuta essere interpretata la normativa dettata dal bando di gara, da ritenersi illegittima ove interpretata nel senso inteso dalla stazione appaltante; inoltre la mancata esclusione dell’aggiudicataria anche per l’ulteriore ragione che questa non avrebbe dimostrato il possesso dei requisiti tecnici necessari, in quanto avrebbe riferito il requisito posseduto dal socio alla società, pur se ormai era scaduto il periodo di cinque anni dalla costituzione della società, previsto dall’art. 253, comma 15, del codice dei contratti pubblici, ribadendo, inoltre, anche sotto tale profilo, la violazione la violazione degli artt. 51 e 54 del R.D. n. 2537/1925.
...
Anche detti motivi sono fondati.
Il r.d. 23.10.1925 n. 2537, recante il regolamento delle professioni di architetto e di ingegnere, esclude per via degli artt. 51 e 54, comma 3, senza dubbi interpretativi la possibilità che un architetto possa, in luogo di un ingegnere, condurre i lavori relativi ad opere idrauliche: e la Pr. s.r.l. aveva indicato l’architetto Fr.Za., proprio amministratore unico e direttore tecnico, quale direttore dei lavori di sistemazione della rete idrica di Arienzo per cui è controversia.
Per le considerazioni suesposte i due appelli riuniti devono essere raccolti per quanto concerne la revoca dell’aggiudicazione definitiva, mentre va altresì accolto l’appello di Au.Soc.Coop. avverso quest’ultima in quanto affidata alla Pr. s.r.l. (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.05.2016 n. 2095 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATALa distanza minima voluta dal d.m. 01.04.1968 (delle costruzioni rispetto al manto stradale), a prescindere dall'esistenza di pericoli e/o ostacoli alla circolazione, è intesa non solo a costituire una zona di rispetto -indipendentemente dalla circostanza che le costruzioni sorgano a ridosso del manto stradale- ma anche ad impedire che le stesse possano frapporsi ad eventuali opere di ampliamento ovvero di ammodernamento della strada.
----------------
La ratio principale sottesa alla individuazione di fasce di rispetto consiste nella necessità di porre distanze minime tra gli edifici e il manto stradale onde garantire l'incolumità degli utenti della strada e delle zone circostanti: a tale ragione principale se ne affiancano altre (quali quella di assicurare un'area contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori) che non sono immediatamente correlate alla esigenza di sicurezza del traffico, pur costituendone logica conseguenza.
In tale ottica, rappresentano un potenziale ostacolo all'esigenza di tutelare la sicurezza stradale non solo quelle opere che, per sporgere dal suolo, limitano la visibilità o in qualche modo disturbano la regolarità della circolazione ma anche quelle che, pur non elevandosi rispetto al piano stradale, incidono sull'assetto del territorio circostante, atteggiandosi come un potenziale ostacolo, suscettibile di costituire, per la sua prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone.
Come già affermato in giurisprudenza, dunque, l'espressione "edificazione", stante la ratio della norma, va intesa nell'accezione più lata del termine "sì da farvi certamente rientrare ogni stabile modificazione dello stato dei luoghi, con esclusione dei soli interventi che, in quanto totalmente interrati, non incidono in alcun modo sulla superficie, neppure in misura minima".

---------------

5. Neppure è condivisibile la seconda censura, con la quale viene dedotta l’illegittimità, nel merito, del provvedimento in esame.
Si osserva sul punto che, la distanza minima voluta dal d.m. 01.04.1968 (delle costruzioni rispetto al manto stradale), a prescindere dall'esistenza di pericoli e/o ostacoli alla circolazione, è intesa non solo a costituire una zona di rispetto -indipendentemente dalla circostanza che le costruzioni sorgano a ridosso del manto stradale- ma anche ad impedire che le stesse possano frapporsi ad eventuali opere di ampliamento ovvero di ammodernamento della strada.
Ancora, l'art. 23, comma 8, della l.r. n. 37/1985, nel testo vigente all’epoca dei fatti per cui è causa, così disponeva: “possono conseguire la concessione o l'autorizzazione in sanatoria le costruzioni ricadenti nelle fasce di rispetto stradali definite dal decreto ministeriale 01.04.1968 sempre che a giudizio degli enti preposti alla tutela della viabilità le costruzioni stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico”.
La circolare n. 3357/25 del 30.07.1985 -interpretativa della legge 47/1985 il cui articolo 32, comma 2, lett. c), fa riferimento al medesimo concetto di “minaccia alla sicurezza del traffico” di cui alla predetta norma regionale- ha chiarito che “quando l'abuso sia costituito da un fabbricato di piccole dimensioni su strada diritta senza intersezioni, curve o singolarità plano-volumetriche prossime, la concessione edilizia in sanatoria sarà ammissibile ove il manufatto disti dalla strada almeno 5 metri, ovvero almeno metà della larghezza della strada, se superiore tale frazione a 5 metri”.
6. In questo contesto normativo, la giurisprudenza chiamata a pronunciarsi sul punto ha precisato che: “La ratio principale sottesa alla individuazione di fasce di rispetto consiste nella necessità di porre distanze minime tra gli edifici e il manto stradale onde garantire l'incolumità degli utenti della strada e delle zone circostanti: a tale ragione principale se ne affiancano altre (quali quella di assicurare un'area contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori) che non sono immediatamente correlate alla esigenza di sicurezza del traffico, pur costituendone logica conseguenza. In tale ottica, rappresentano un potenziale ostacolo all'esigenza di tutelare la sicurezza stradale non solo quelle opere che, per sporgere dal suolo, limitano la visibilità o in qualche modo disturbano la regolarità della circolazione ma anche quelle che, pur non elevandosi rispetto al piano stradale, incidono sull'assetto del territorio circostante, atteggiandosi come un potenziale ostacolo, suscettibile di costituire, per la sua prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone. Come già affermato in giurisprudenza, dunque, l'espressione "edificazione", stante la ratio della norma, va intesa nell'accezione più lata del termine "sì da farvi certamente rientrare ogni stabile modificazione dello stato dei luoghi, con esclusione dei soli interventi che, in quanto totalmente interrati, non incidono in alcun modo sulla superficie, neppure in misura minima" (cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, 26.01.2006, n. 370)” (cfr. TAR Palermo n. 3197/2014, confermata dal CGARS con sentenza n. 955/2019 che ha ribadito che “Non è dubbio pertanto che, ai fini dell’ammissibilità in sanatoria di un immobile, è necessario che la distanza dello stesso dal limite stradale deve essere almeno di 5 m”).
7. Nella fattispecie in esame, l’ufficio tecnico, con il diniego di nulla osta impugnato, ha rilevato innanzitutto che “l'ampliamento in sanatoria, confinante con la S.P. n. 54, consiste nella trasformazione di un terrazzo coperto con cannizzo, ancorato su strutture lignee (travi e traverse), tipico dell'isola di Pantelleria, preesistente da almeno 30 anni, modificato attraverso l'apposizione di ante in legno e scorrevoli, su una struttura costituita da travi in legno e muretto di delimitazione della proprietà, con l'aggiunta di copertura con pannelli coibentati, ubicata a ridosso di un complesso edilizio vetusto preesistente, sottolineando la precarietà della struttura in relazione ai materiali e alla possibilità di amovibilità. La preesistenza della porzione in sanatoria da almeno 30 anni, ed il suo posizionamento a ridosso da altra porzione vetusta, non hanno alcuna rilevanza ai fini dell'applicabilità delle limitazioni al rilascio delle concessioni per opere eseguite su aree sottoposte a vincolo di inedificabilità, dettate dalle norme in materia di recupero e sanatoria delle opere abusive di cui alla L. n. 47/1985”.
Ha precisato che tutte le argomentazioni relative al diniego si riferiscono all’abuso nella sua interezza, che ricomprende anche il muro che, oltre che da delimitazione del lotto, funge da tamponatura del vano, da supporto agli infissi e/o da sostegno delle travi di copertura.
Ha altresì evidenziato che il punto 4.3 della Circolare del Ministero dei LL.PP. 30.07.1985 n. 3357/25 “precisa che sono sanabili le costruzioni realizzate nelle fasce poste a protezione del nastro stradale, a condizione che non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico” e che, per la costruzione su strada in rettilineo, "il criterio per l'ammissibilità della concessione edilizia in sanatoria … decorre ove il manufatto disti dalla strada almeno 5m”.
Ha infine constatato che “la distanza del fabbricato dalla strada dalla strada è pari a m 0,00, inferiore a m 5,00” ed ha concluso esprimendo il proprio parere negativo.
8. Orbene, ritiene il Collegio che la distanza dell'immobile de quo dal confine stradale, essendo sensibilmente inferiore ai 5,00 metri previsti dalla normativa vigente quale vincolo assoluto di inedificabilità, ha giustamente comportato il diniego del nulla osta da parte del Libero Consorzio Comunale di Trapani.
Invero, come correttamente evidenziato dalla difesa del Consorzio, la predetta circolare n. 3357/25 al paragrafo 4.3, nel prevedere che sono sanabili le costruzioni realizzate nelle fasce poste a protezione del nastro stradale a condizione che non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico, “ha precisato i criteri per stabilire se esiste tale minaccia e se, perciò, la concessione in sanatoria debba essere negata, indicando le diverse tipologie: A) Abusi singoli su strada in rettilineo; B) Abusi singoli su intersezione stradale; C) Abusi plurimi o di dimensioni notevoli su strade in rettilineo; D) Abusi plurimi su intersezione stradale; E) Abusi singoli o plurimi in corrispondenza di curve, dossi, disuniformità planovolumetriche”.
La tipologia cui si riconduce il caso in esame è indubbiamente la A), secondo cui: “Quando l'abuso sia costituito da un fabbricato di piccole dimensioni su strada diritta senza intersezioni, curve o singolarità plano-volumetriche prossime, la concessione edilizia in sanatoria sarà ammissibile ove il manufatto disti dalla strada almeno 5 m, ovvero almeno metà della larghezza della strada, se superiore tale frazione a 5 m.”.
Come già visto, non è dubbio che, ai fini dell'ammissibilità alla sanatoria di un immobile, è necessario che la distanza dello stesso dal limite stradale deve essere almeno di 5 m. e che detta distanza di 5.00 metri costituisce vincolo assoluto di inedificabilità (in tal senso, oltre alla giurisprudenza già citata, si veda C. di St. n. 5716/2002). Allorquando, come nella fattispecie (l'immobile dista “0,00 m dal ciglio stradale”), tale distanza è inferiore la costruzione costituisce minaccia alla sicurezza della circolazione secondo quanto stabilito dalla Circolare in argomento.
L’ente proprietario ha correttamente dichiarato la sussistenza di un pregiudizio alla sicurezza del traffico, affermando chiaramente che non sussistono le condizioni minime relativamente alla distanza, come previste sia dalla legge che dalla circolare citate. Dunque l’accertamento “specifico” è stato effettuato, e la “peculiarità dei luoghi” è stata constatata, (avendo effettuato sopralluogo e constatato che non esistevano le condizioni minime di legge).
9. In conclusione il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 22.09.2022 n. 2630 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo d'inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata.
Il divieto di costruzione sancito dal D.M. 01.04.1968, n. 1404 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
Pertanto, le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti.
Da quanto sopra deriva che il vincolo in questione ha carattere assoluto, giacché non ha solo il fine di assicurare il transito sicuro sulla strada, ma anche quello di consentire un'ampia capacità di manutenzione della stessa, che non può essere valutata caso per caso (facendo così degradare il vincolo da assoluto a relativo), non essendo possibile prevedere le future evenienze manutentive.
---------------

8.6 Il complessivo quadro probatorio, emergente dalla documentazione in atti, evidenzia, pertanto, non solo che il ricorrente ha omesso di dimostrare l’anteriorità al 1967 delle opere oggetto della domanda di condono –il che è sufficiente per il rigetto delle censure attoree– ma anche che alla data del 1967 non vi erano opere edili sul fondo nella disponibilità del Sig. El., risultando acquisiti al giudizio atti incompatibili con un’attività edilizia a tale data già esaurita.
Tali considerazioni conducono al rigetto del secondo motivo di appello, sia nella parte in cui deduce l’anteriorità delle opere de quibus rispetto al 1967, sia in quella in cui tende a censurare l’illegittimità di una delle autonome rationes decidendi alla base del diniego di condono, data dalla violazione della fascia di rispetto stradale imposta con D.M. n. 1404/1968.
Difatti, non risultando dimostrata la datazione delle opere oggetto della domanda di condono, non risulta comprovata neppure la loro anteriorità rispetto all’imposizione del vincolo di cui al D.M. m. 1404/1968, avente natura di inedificabilità assoluta e, dunque, ostativo alla sanatoria delle opere edificate in sua violazione.
8.7 Al riguardo, si osserva, infatti, che il vincolo d'inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata.
Il divieto di costruzione sancito dal D.M. 01.04.1968, n. 1404 non può essere inteso restrittivamente, al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
Pertanto, le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. VI, 30.11.2011, n. 7975).
Da quanto sopra deriva che il vincolo in questione ha carattere assoluto, giacché non ha solo il fine di assicurare il transito sicuro sulla strada, ma anche quello di consentire un'ampia capacità di manutenzione della stessa, che non può essere valutata caso per caso (facendo così degradare il vincolo da assoluto a relativo), non essendo possibile prevedere le future evenienze manutentive (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.08.2022 n. 6780 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo l’orientamento della giurisprudenza amministrativa in tema di fascia di rispetto stradale:
   - “è dirimente osservare che, in disparte la questione dell'applicabilità del D.M. n. 1404 del 1968, la condonabilità dell'intervento edilizio in contestazione è comunque preclusa dal vincolo dettato, in tema di distacchi delle costruzioni dalle sedi autostradali, dall'art. 9, comma 1, della L. 24.07.1961, n. 729, secondo cui ‘lungo i tracciati delle autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione dell'autostrada stessa’.
Il citato vincolo di inedificabilità -preordinato non solo a prevenire la presenza di ostacoli costituenti un possibile pregiudizio per la circolazione, ma anche ad assicurare la disponibilità di un'area contigua alla sede stradale all'occorrenza utilizzabile per un ampliamento della medesima- si traduce in un divieto assoluto di edificazione, ragion per cui è pertinente il richiamo fatto dall'A. alla previsione di cui all'art. 33 della L. 28.02.1985, n. 47, il quale non prevede la possibilità di sanatoria delle opere realizzate in contrasto con un vincolo di inedificabilità imposto in epoca anteriore all'esecuzione (mentre non trova applicazione l'art. 32 della stessa legge, in base al quale è ammissibile la sanatoria, anche tramite silenzio-assenso, per le opere insistenti su aree vincolate dopo l'esecuzione).
La predetta disposizione, vigente all'epoca di realizzazione dell'abuso, trova continuità normativa nei limiti di edificazione -da rispettare tanto fuori del centro abitato che nell'ambito di quest'ultimo- introdotti dal D.Lgs. 30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) e dal suo regolamento di attuazione: segnatamente, l'art. 28 del D.P.R. 16.12.1992, n. 495 (Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada), nel disciplinare le "fasce di rispetto per l'edificazione nei centri abitati", fissa il limite di metri 30 per le strade di tipo A, cioè per le autostrade (come definite dall'art. 2 del codice della strada)
”;
   - “Si ritiene, invero, che il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata.
Il divieto di costruzione sancito dall'art. 9 della L. n. 729 del 1961 e dal successivo D.M. n. 1404 del 1968, dunque, non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico ed all'incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza di costruzioni.
Pertanto, le distanze previste vanno osservate comunque anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti.
L'inderogabilità del vincolo e la sua natura assoluta fanno rientrare lo stesso, in tema di condono edilizio, nell'ambito applicativo dell'articolo 33 della L. n. 47 del 1985, disciplinante le ‘Opere non suscettibili di sanatoria’.
Ed, invero, la norma prevede, per quanto qui di interesse, che ‘Le opere di cui all'articolo 31 non sono suscettibili di sanatoria quando siano in contrasto con i seguenti vincoli, qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse: ....d) ogni altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree’”.
---------------
Quanto alla pretesa necessità di una valutazione della pericolosità in concreto del fabbricato abusivo (ossia che non costituisca minaccia alla sicurezza del traffico), il provvedimento impugnato è esente da censure, essendo la distanza stabilita per legge già volta a tutelare le medesime esigenze di sicurezza del traffico.
Il vincolo, infatti, non ha soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
Si fa quindi riferimento a un ampio concetto di esigenza manutentiva, anch’essa attinente alla sicurezza e fluidità della circolazione, che non si presta ad essere valutata caso per caso per l’impossibilità oggettiva di potere prevedere tutte le future evenienze.
---------------

5. Il ricorso è infondato e le censure devono essere complessivamente analizzate poiché connesse.
5.1. Anzitutto, deve essere chiarito che il fabbricato abusivo –realizzato nel 1972 come indicato da parte ricorrente– è stato pacificamente edificato quando il tratto autostradale di che trattasi era già esistente.
5.2. Quanto alla distanza del fabbricato abusivo dal confine autostradale, è incontestato che trattasi di mt. 20,60 (e infatti questa misurazione è indicata dall’interessata anche nelle proprie osservazioni del 17.09.2012). Tuttavia, secondo parte ricorrente, si dovrebbe utilizzare come termine di riferimento il ciglio autostradale, così pervenendo a una distanza di metri 36.
La tesi è infondata.
Il criterio di computo adottato dall’ANAS nel caso in esame è corretto, in quanto la distanza deve essere misurata dal confine stradale inteso come linea della fascia di esproprio, posto che la definizione di confine è sancita normativamente dall’art. 3, co. 10, del nuovo codice della strada. In particolare, l’art. 3, comma 1, punto 10, del D.lgs. 30.04.1992 n. 285, definisce il “confine stradale” come “il limite della proprietà stradale quale risulta dagli atti di acquisizione o dalle fasce di esproprio del progetto approvato” (cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sezione Seconda, n. -OMISSIS-).
5.3. Puntualizzate tali premesse in punto di fatto e chiarito che l’immobile è stato realizzato successivamente al tratto autostradale, deve essere ora precisato che il vincolo esisteva già all’epoca di costruzione dell’immobile.
La norma ratione temporis applicabile era l’art. 9 della L. 24.07.1961, n. 729, che prevedeva che “[comma 1] Lungo i tracciati delle autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione dell'autostrada stessa. La distanza è ridotta a metri 10 per gli alberi da piantare. [comma 2] Le distanze di cui al comma precedente possono essere ridotte per determinati tratti ove particolari circostanze lo consiglino, con provvedimento del Ministro per i lavori pubblici, presidente dell'A.N.A.S., su richiesta degli interessati e sentito il Consiglio di amministrazione dell'A.N.A.S.”.
Nel caso di specie, non ricorreva l’ipotesi di deroga alle distanze prevista dal comma 2, sicché all’epoca della costruzione del fabbricato la distanza minima dalla sede autostradale restava fissata in 25 mt ai sensi della norma citata, in vigore dal 1961.
Non rileverebbe nemmeno il fatto che l’edificio fosse situato o meno all’interno del centro abitato. Ciò perché il vincolo di inedificabilità nella fascia di 25 metri dal confine autostradale era comunque chiaramente già posto dall’art. 9 l. n. 729/1961 cit. Anche prima dell’adozione del D.M. 01.04.1968 n. 1404 –che ha dettato le distanze minime dal nastro stradale in attuazione dell’art. 19 l. n. 765/1967 (secondo cui “Fuori del perimetro dei centri abitati debbono osservarsi nella edificazione distanze minime a protezione del nastro stradale, misurate a partire dal ciglio della strada. Dette distanze vengono stabilite con decreto del Ministro per i lavori pubblici […]”)– l’area confinante con le autostrade non era liberamente edificabile se fuori dal centro abitato.
5.4. Le osservazioni sopra svolte conducono al rigetto dei primi due motivi di ricorso e sono in linea con l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, che il Collegio condivide e richiama (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 16.04.2019, n. 2501: “è dirimente osservare che, in disparte la questione dell'applicabilità del D.M. n. 1404 del 1968, la condonabilità dell'intervento edilizio in contestazione è comunque preclusa dal vincolo dettato, in tema di distacchi delle costruzioni dalle sedi autostradali, dall'art. 9, comma 1, della L. 24.07.1961, n. 729, secondo cui ‘lungo i tracciati delle autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione dell'autostrada stessa’.
Il citato vincolo di inedificabilità -preordinato non solo a prevenire la presenza di ostacoli costituenti un possibile pregiudizio per la circolazione, ma anche ad assicurare la disponibilità di un'area contigua alla sede stradale all'occorrenza utilizzabile per un ampliamento della medesima- si traduce in un divieto assoluto di edificazione, ragion per cui è pertinente il richiamo fatto dall'A. alla previsione di cui all'art. 33 della L. 28.02.1985, n. 47, il quale non prevede la possibilità di sanatoria delle opere realizzate in contrasto con un vincolo di inedificabilità imposto in epoca anteriore all'esecuzione (mentre non trova applicazione l'art. 32 della stessa legge, in base al quale è ammissibile la sanatoria, anche tramite silenzio-assenso, per le opere insistenti su aree vincolate dopo l'esecuzione).
La predetta disposizione, vigente all'epoca di realizzazione dell'abuso, trova continuità normativa nei limiti di edificazione -da rispettare tanto fuori del centro abitato che nell'ambito di quest'ultimo- introdotti dal D.Lgs. 30.04.1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) e dal suo regolamento di attuazione: segnatamente, l'art. 28 del D.P.R. 16.12.1992, n. 495 (Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada), nel disciplinare le "fasce di rispetto per l'edificazione nei centri abitati", fissa il limite di metri 30 per le strade di tipo A, cioè per le autostrade (come definite dall'art. 2 del codice della strada)
”;
   - v. anche Cons. Stato, Sez. VI, 06.11.2019, n. 7572: “Si ritiene, invero, che il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata. Il divieto di costruzione sancito dall'art. 9 della L. n. 729 del 1961 e dal successivo D.M. n. 1404 del 1968, dunque, non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico ed all'incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza di costruzioni.
Pertanto, le distanze previste vanno osservate comunque anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV, 30.09.2008, n. 4719; Cons. Stato, 15.04.2013, n. 2062; Cass. Civ., II, 03.11.2010, n. 22422; TAR Toscana, III, 23.07.2012, n. 1347; TAR Campania, II, 26.10.2012, n. 4283).
L'inderogabilità del vincolo e la sua natura assoluta fanno rientrare lo stesso, in tema di condono edilizio, nell'ambito applicativo dell'articolo 33 della L. n. 47 del 1985, disciplinante le ‘Opere non suscettibili di sanatoria’ (cfr. Cons. Stato, IV, n. 2062/2013 cit.).
Ed, invero, la norma prevede, per quanto qui di interesse, che ‘Le opere di cui all'articolo 31 non sono suscettibili di sanatoria quando siano in contrasto con i seguenti vincoli, qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse: ....d) ogni altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree’
”.
5.5. Deve poi aggiungersi, quanto alla pretesa necessità di una valutazione della pericolosità in concreto del fabbricato (ossia che non costituisca minaccia alla sicurezza del traffico), che il provvedimento è esente da censure, essendo la distanza stabilita per legge già volta a tutelare le medesime esigenze di sicurezza del traffico.
Il vincolo, infatti, non ha soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni. Si fa quindi riferimento a un ampio concetto di esigenza manutentiva, anch’essa attinente alla sicurezza e fluidità della circolazione, che non si presta ad essere valutata caso per caso per l’impossibilità oggettiva di potere prevedere tutte le future evenienze (cfr. TAR Sicilia, Palermo, 07.01.2022,-OMISSIS-).
5.6. Infine, con il terzo motivo di ricorso la ricorrente deduce che alla data di emanazione del preavviso di rigetto con richiesta di osservazioni da parte di Anas, il nulla-osta doveva intendersi già favorevolmente reso ai sensi dell'art. 17, comma 6, L.r. 16/04/2003, considerato che era già trascorso il termine perentorio di centottanta giorni e che nessun chiarimento o integrazione all'interessata era stato chiesto.
La censura è infondata.
L’art. 17, comma 6, della L.reg.sic. n. 4/2003 non risulta applicabile alla fattispecie in esame atteso che la formazione del silenzio-assenso da detta norma disciplinato presuppone l’attivazione di una speciale procedura ad istanza di parte che nel caso in esame non risulta attivata da parte ricorrente.
Tale norma, invero, ha delineato, per i procedimenti di condono indicati al comma 1 dello stesso art. 17 (e, cioè, a quelli pendenti e “non ancora definiti” alla data di entrata in vigore della L.reg.sic. n. 4/2003) una specifica procedura acceleratoria, da avviarsi su istanza di parte, mediante l’inoltro, da parte del richiedente la concessione o autorizzazione in sanatoria, di “apposita perizia giurata a firma di un tecnico abilitato all'esercizio della professione”; perizia giurata asseverante “l'esistenza di tutte le condizioni di legge necessarie per l'ottenimento della sanatoria” e gli altri requisiti richiesti dal comma 2 dell’art. 17 in commento. Ed è in tale specifico contesto procedimentale (estraneo alla fattispecie presente) che si colloca la previsione, al comma 6, del silenzio-assenso (cfr., in termini, TAR Sicilia, Palermo, 07.01.2022,-OMISSIS-).
6. Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso deve essere rigettato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 27.06.2022 n. 2096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere “assoluto” e prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della l. n. 729 del 24.07.1961 e dal susseguente decreto interministeriale n. 1404 del 01.04.1968, debbono ritenersi prevalenti sulla stessa norma regionale; norma che, di fatto, relativamente alla fascia di rispetto delle strade deve ritenersi priva di contenuto precettivo, a nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno alla sicurezza del traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di natura penale connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale (anche di rango primario) circa la possibile sanatoria degli stessi.
Detto vincolo “non ha soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni. Viene quindi fatto riferimento ad un ampio concetto di esigenza manutentiva, anch’essa attinente alla sicurezza e fluidità della circolazione, che non si presta ad essere valutata caso per caso per l’impossibilità oggettiva di potere prevedere tutte le future evenienze”.
---------------

Il ricorso è infondato.
Il Collegio richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui:
   - il vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere “assoluto” e prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della l. n. 729 del 24.07.1961 e dal susseguente decreto interministeriale n. 1404 del 01.04.1968, debbono ritenersi prevalenti sulla stessa norma regionale; norma che, di fatto, relativamente alla fascia di rispetto delle strade deve ritenersi priva di contenuto precettivo, a nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno alla sicurezza del traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di natura penale connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale (anche di rango primario) circa la possibile sanatoria degli stessi (cfr., da ultimo, TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 07/01/2022, n. 23 che a sua volta richiama Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2018, n. 1250 e, ivi, richiami; id., 03.11.2015, n. 5014);
   - detto vincolo “non ha soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni. Viene quindi fatto riferimento ad un ampio concetto di esigenza manutentiva, anch’essa attinente alla sicurezza e fluidità della circolazione, che non si presta ad essere valutata caso per caso per l’impossibilità oggettiva di potere prevedere tutte le future evenienze” (TAR Palermo, n. 23/2022 cit.).
Nel caso di specie, a seguito di sopralluogo, l’Anas ha accertato che la distanza delle opere realizzate è inferiore a quella minima prevista dalla normativa in esame per la concessione del nulla osta e, dunque, per la sanabilità della costruzione; donde l’infondatezza del secondo motivo di ricorso.
Quanto alla dedotta formazione del silenzio-assenso (primo motivo), questo Tar ha già avuto modo di affermare che detto istituto non trova applicazione in presenza di un vincolo di inedificabilità assoluta, visto il disposto di cui all’art. 35, c. 12, l. n. 47/1985, il quale, nel disciplinarne i presupposti di operatività, espressamente lo esclude nei “casi di cui all'articolo 33” (TAR Sicilia, Palermo, 23/01/2018, n. -OMISSIS-).
Conclusivamente, sulla scorta di quanto precede, il ricorso in quanto infondato deve essere rigettato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 22.06.2022 n. 2031 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa delimitazione del cd. “centro abitato” è affidato, dal Codice della Strada (art. 4), ad un provvedimento formale della Giunta, in assenza del quale non vi è la possibilità per l’istante, onde escludere l’applicazione della fascia di rispetto in contestazione, di sostenere –contra l’evidenza della destinazione urbanistica impressa dal P.R.G.- che il manufatto di interesse ricade all’interno del centro abitato.
---------------
Il vincolo di inedificabilità assoluta imposto sulle aree ricomprese nella fascia di rispetto stradale, in quanto funzionale a soddisfare anche esigenze di manutenzione della rete viaria, impianto di cantieri, deposito dei materiali e realizzazione di opere accessorie, prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento, in concreto, dei connessi rischi per la circolazione stradale.
Allorché l'opera venga realizzata dopo l'imposizione del vincolo, la sanabilità della stessa è, dunque, in ogni caso preclusa giusta il disposto dell'art. 33, comma 1, l. n. 47/1985, proprio perché si è in presenza di un vincolo incompatibile con qualsiasi manufatto, a prescindere dal fatto che lo stesso possa o meno astrattamente esporre a pericolo la circolazione stradale.
---------------

10. Parimenti infondato si appalesa il primo ed articolato gruppo di censure (motivo sub. I) presupponente la sopravvenuta modifica della destinazione urbanistica dell’area di insistenza del manufatto abusivo, oggetto della richiesta di condono, da zona E, agricola, vigente nel 2006, a zona L, di recupero urbanistico.
Ed invero, con le istanze formulate in data 25.10.2013 e 11.11.2013, parte ricorrente ha chiesto all’ANAS il riesame del parere negativo prot. n. CRM-0007684-P, già reso in data 14.03.2006, a fronte dell'istanza di sanatoria avanzata al Comune di Velletri (prot. n. 20510 dell’01.04.1986).
Ciò posto, la rinnovazione, da parte della società, delle valutazioni in precedenza espresse ha correttamente avuto, quale parametro di riferimento, la destinazione urbanistica dell’area di riferimento pacificamente vigente al momento del rilascio del parere riesaminato (2006), ovvero la vocazione agricola della stessa, esterna al centro abitato (cd. zona E del P.R.G.).
Ne discende, quale immediato e diretto corollario, l’irrilevanza, ai fini dell’esercizio del potere di riesame in contestazione, del sopravvenuto mutamento della destinazione urbanistica dell’area in parola in termini di zona di recupero (cd. zona L), presupponente un certo grado di urbanizzazione (dovuta all’approvazione della Variante Generale al Piano Regolatore recepita dal Comune di Velletri con deliberazione C.C. del 17/12/2009), con conseguente impossibilità, per la ricorrente, di addurre utilmente siffatta sopravvenienza a motivo di illegittimità del rinnovato parere negativo.
10.1 Peraltro, in base ad un costante orientamento della giurisprudenza, anche di questo Tribunale, la delimitazione del cd. “centro abitato” è affidato, dal Codice della Strada (art. 4), ad un provvedimento formale della Giunta, in assenza del quale non vi è la possibilità per l’istante, onde escludere l’applicazione della fascia di rispetto in contestazione, di sostenere –contra l’evidenza della destinazione urbanistica impressa dal P.R.G.- che il manufatto di interesse ricade all’interno del centro abitato.
Costituiva, semmai, onere della ricorrente comprovare che l’area in parola, fin dall’epoca della realizzazione dell’abuso di che trattasi, insisteva all’interno del perimetro abitato, circostanza questa smentita per tabulas dall’inclusione della stessa in zona agricola (E) del P.R.G. (cfr. TAR Lazio, Roma, n. 1607/2020).
11. Fuori fuoco si appalesa anche il secondo motivo di gravame, secondo cui il rinnovato diniego di nulla-osta avrebbe dovuto essere preceduto dall’accertamento della pericolosità dell’immobile da sanare, avuto riguardo alle esigenze di sicurezza della circolazione stradale.
Tale assunto si pone, infatti, in aperta collisione con quel consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il vincolo di inedificabilità assoluta imposto sulle aree ricomprese nella fascia di rispetto stradale, in quanto funzionale a soddisfare anche esigenze di manutenzione della rete viaria, impianto di cantieri, deposito dei materiali e realizzazione di opere accessorie, prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento, in concreto, dei connessi rischi per la circolazione stradale.
Allorché l'opera venga realizzata, come nella specie, dopo l'imposizione del vincolo, la sanabilità della stessa è, dunque, in ogni caso preclusa giusta il disposto dell'art. 33, comma 1, l. n. 47/1985, proprio perché si è in presenza di un vincolo incompatibile con qualsiasi manufatto, a prescindere dal fatto che lo stesso possa o meno astrattamente esporre a pericolo la circolazione stradale (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 01/10/2021, n. 6150; TAR Lazio, Roma, sez. II, 27/05/2020, n. 5571; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 21.03.2011, n. 450; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 11.01.2011, n. 24; Cass. civ., sez. II, 03.11.2010 n. 22422; Cons. Stato, Sez. IV, 14.04.2010 n. 2076).
11.1 Ciò detto, l'operato dell’A.N.A.S. spa si è rivelato corretto in quanto presupponente l'esistenza del vincolo e la sua piena operatività in presenza di opere realizzate posteriormente all’entrata in vigore del D.M. 01.04.1968 ed a distanza non conforme a quanto stabilito dallo stesso decreto, ovvero edificazione ad una distanza inferiore a 30 mt., trattandosi di zona esterna al centro abitato e venendo in rilievo una strada statale di media importanza, cd. Strada di tipo C (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 17.06.2022 n. 8102 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa è consolidata nell’affermare che il vincolo delle fasce di rispetto stradale comporta un divieto assoluto di costruire, in base al quale, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei rischi per la circolazione stradale, sono inedificabili le aree site in fascia di rispetto stradale o autostradale; tale vincolo opera direttamente e automaticamente, per cui una volta attestata in concreto la violazione del vincolo di inedificabilità, l'amministrazione può emettere solo un parere negativo sull'istanza di condono.
In tale quadro, la circostanza che il vincolo sia sopravvenuto alla realizzazione dell’abuso (in quanto la più ampia fascia di rispetto di m. 30 è stata introdotta con il d.lgs. 285/1992) non ha alcuna rilevanza, giacché comunque trattandosi di un vincolo assoluto, esistente già al momento della presentazione dell’istanza di condono, esso non è in alcun modo superabile.

---------------

Operate tali premesse, deve considerarsi che, nel caso di specie, risulta senz’altro infondato quanto dedotto dalla ricorrente con il secondo motivo di gravame.
Va in primo luogo rilevato che è incontestato tra le parti, in punto di fatto, che le opere abusivamente realizzate ricadono in area di rispetto stradale secondo quanto previsto dal d.lgs. 285/1992 (che prevede in questi casi una fascia di rispetto di m. 30).
Tale circostanza, di per sé, esclude la possibilità di condonare le opere, come correttamente ritenuto dal Comune resistente.
Ed infatti, come questa Sezione ha già avuto modo di rilevare, la giurisprudenza amministrativa è consolidata nell’affermare che il vincolo delle fasce di rispetto stradale comporta un divieto assoluto di costruire, in base al quale, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei rischi per la circolazione stradale, sono inedificabili le aree site in fascia di rispetto stradale o autostradale; tale vincolo opera direttamente e automaticamente, per cui una volta attestata in concreto la violazione del vincolo di inedificabilità, l'amministrazione può emettere solo un parere negativo sull'istanza di condono (cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 19/10/2018, n. 5985; Tar Campania, Napoli, Sez. II, 02.11.2021 Nr. 8090; TAR Bologna, (Emilia Romagna) sez. I, 20/09/2019, n. 710).
In tale quadro, la circostanza che, come dedotto dal ricorrente, il vincolo sia sopravvenuto alla realizzazione dell’abuso (in quanto la più ampia fascia di rispetto di m. 30 è stata introdotta con il d.lgs. 285/1992) non ha alcuna rilevanza, giacché comunque trattandosi di un vincolo assoluto, esistente già al momento della presentazione dell’istanza di condono, esso non è in alcun modo superabile. Ne consegue anche l’irrilevanza della mancata acquisizione del parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.
Quanto appena osservato vale, secondo ciò che si è in precedenza rilevato in tema di provvedimenti plurimotivati, ad assorbire logicamente il rilievo del primo motivo di censura, giacché l’infondatezza delle censure sviluppate con il secondo motivo consente di escludere l’illegittimità del provvedimento gravato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 17.06.2022 n. 4105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Piscina in fascia di rispetto stradale.
Il TAR Milano, con riferimento alla realizzazione di una piscina in fascia di rispetto stradale, osserva che una volta accertata la sussistenza del vincolo di rispetto stradale, risulta del tutto legittimo il diniego di sanatoria, poiché “il vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale o autostradale è di inedificabilità assoluta, traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende inedificabili le aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale.
Il vincolo derivante dalla fascia di rispetto si traduce in un divieto di edificazione che rende le aree medesime legalmente inedificabili, trattandosi di vincolo di inedificabilità che è sancito nell’interesse pubblico da apposite leggi”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.04.2022 n. 819 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
3. Con riguardo al primo motivo di ricorso –attraverso il quale è stata contestata la legittimità della notifica degli atti impugnati alla sig.ra Be. in proprio, piuttosto che nella esclusiva veste di legale rappresentante della società CO.– le parti ricorrenti hanno preso atto della rettifica del nominativo del destinatario dell’ordinanza di demolizione n. 1/2014 operata dal Comune di Mediglia a seguito della notifica del ricorso (all. 6 del Comune) e, pertanto, la censura deve ritenersi non più attuale.
In ogni caso la stessa è comunque infondata, poiché laddove la notificazione indirizzata alla persona fisica che rappresenta l’ente risulta andata a buon fine, la stessa produce effetto nei confronti della persona giuridica rappresentata, essendo questa posta in grado di tutelarsi adeguatamente in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, VI, 23.10.2015, n. 4884; anche, TAR Sicilia, Palermo, III, 13.09.2019, n. 2185; TAR Sicilia, Catania, II, 23.11.2017, n. 2722; TAR Lombardia, Milano, I, 05.07.2017, n. 1521).
4. Con la seconda e la terza doglianza, da trattare congiuntamente stante la loro stretta connessione, si assume l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in quanto non sarebbero stati affatto palesati i criteri sulla base dei quali si sarebbe affermato che una parte della piscina oggetto di richiesta di sanatoria ricadrebbe nella fascia di rispetto stradale della SP 159 “Dresano–Bettola di Peschiera”, né sarebbero stati indicati il punto del confine stradale dal quale è stata effettuata la misurazione e di quanto sarebbe stato violato il limite distanziale; ciò che, oltre a determinare un difetto di istruttoria e di motivazione, vizierebbe anche il conseguente ordine di demolizione adottato dal Comune.
4.1. Le censure sono infondate.
Va premesso che l’art. 16, comma 1, lett. b), del Codice della strada prevede che “ai proprietari o aventi diritto dei fondi confinanti con le proprietà stradali fuori dei centri abitati è vietato (…) costruire, ricostruire o ampliare, lateralmente alle strade, edificazioni di qualsiasi tipo e materiale”; la violazione della citata disposizione “importa la sanzione amministrativa accessoria dell’obbligo per l’autore della violazione stessa del ripristino dei luoghi a proprie spese” (art. 16, comma 5).
L’art. 26 del Regolamento di attuazione del medesimo Codice della strada (“Fasce di rispetto fuori dai centri abitati”) prevede, invece, al comma 2, lett. c), che “fuori dai centri abitati, come delimitati ai sensi dell’articolo 4 del codice, le distanze dal confine stradale, da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle ricostruzioni conseguenti a demolizioni integrali o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possono essere inferiori a (…) 30 m per le strade di tipo C [strade extraurbane secondarie]”.
Per completezza, l’art. 3 del Codice della strada definisce fascia di rispetto la “striscia di terreno, esterna al confine stradale, sulla quale esistono vincoli alla realizzazione, da parte dei proprietari del terreno, di costruzioni, recinzioni, piantagioni, depositi e simili”.
Non è contestato in giudizio che la SP 159 “Dresano–Bettola di Peschiera” appartenga al novero delle strade extraurbane secondarie di Tipo C, come stabilito con la Disposizione Dirigenziale n. 28/2009 del 25.05.2009, r.g. n. 8514/2009 (richiamata nell’atto della Città Metropolitana).
Nel ricorso si eccepisce la mancata indicazione da parte degli Enti procedenti dei criteri utilizzati per stabilire i punti da cui sono state poi misurate le distanze tra la piscina oggetto di richiesta di sanatoria e la strada SP 159, assumendo l’incomprensibilità delle ragioni da cui si sarebbe desunta la violazione del limite dei 30 m. In realtà, nella nota del 24.11.2014, gli Uffici della Città Metropolitana hanno precisato che il confine stradale è stato individuato nel limite della proprietà provinciale e non nel ciglio bitumato della sede stradale, come ritenuto dalla parte istante (all. 2 della Città Metropolitana).
Peraltro, su richiesta delle parti ricorrenti –contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso in cui si assume che nessun accertamento istruttorio sarebbe stato effettuato– è stato svolto, in data 01.12.2014, un sopralluogo congiunto con i Tecnici della Città Metropolitana, attraverso il quale è stata confermata la violazione del limite dei 30 m (all. 4 della Città Metropolitana).
La difesa comunale ha altresì rilevato che tale limite è stato recepito anche nel Piano Urbano del Traffico, atto ricompreso nel P.G.T., dove si conferma il limite dei 30 m tra la SP 159 e l’area dove è collocata la piscina (Tavola 3, all. 10 del Comune).
Nessuna contestazione su tali aspetti è stata formulata attraverso il ricorso, essendosi limitate le ricorrenti a produrre una perizia di parte attraverso la quale si è proceduto a effettuare le rilevazioni delle distanze, prendendo arbitrariamente a riferimento i due ceppi “che identificano il confine di proprietà della sede stradale rispetto al ciglio stradale della S.P. 159” (all. 7 al ricorso) e giungendo alla conclusione che la distanza minima di 30 m tra la strada provinciale e la piscina risulta certamente rispettata.
Tale modus procedendi non appare ammissibile, atteso che, in un giudizio di legittimità, “la parte ricorrente non può limitarsi a censurare gli atti sulla base della loro mera non condivisibilità, fornendo un diverso punto di vista del tutto soggettivo, ma deve indicare i vizi di legittimità degli stessi, non essendo ammessa in sede giurisdizionale una valutazione di merito, salvo i casi espressamente previsti, non ricorrenti nella specie (art. 134 cod. proc. amm.)” (TAR Valle d’Aosta, 22.09.2021, n. 58).
4.2. Una volta accertata la sussistenza del vincolo di rispetto stradale, risulta del tutto legittimo il diniego di sanatoria, poiché “il vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale o autostradale è di inedificabilità assoluta, traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende inedificabili le aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale. Il vincolo derivante dalla fascia di rispetto si traduce in un divieto di edificazione che rende le aree medesime legalmente inedificabili, trattandosi di vincolo di inedificabilità che è sancito nell’interesse pubblico da apposite leggi” (Consiglio di Stato, II, 12.02.2020, n. 1100; anche, TAR Lazio, Roma, II stralcio, 29.03.2022, n. 3548).

EDILIZIA PRIVATALe fasce di rispetto stradale, in attuazione delle norme poste dal codice della strada, non costituiscono vincoli urbanistici, ma misure poste a tutela della sicurezza stradale, che comportano l'inedificabilità delle aree interessate e sono a tal fine recepite nella strumentazione urbanistica primaria. Si tratta di un vincolo posto a tutela della sicurezza della circolazione ed ha carattere assoluto ed inderogabile conformando in tal senso la proprietà privata.
Infatti, in linea di diritto, il vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale ha valenza di inedificabilità assoluta, traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende inedificabili le aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale.
---------------

8. – Un secondo motivo di appello, che poi contiene profili “spalmati” sulle ulteriori censure dedotte nel presente giudizio di secondo grado, tanto che le stesse possono essere scrutinate congiuntamente dal Collegio, attiene alla prospettazione secondo la quale l’area nella quale è stato realizzato il manufatto non ricadrebbe in alcuna fascia di rispetto stradale.
Si è già sunteggiato come il Comune di Mediglia abbia annullato, in autotutela, l’autorizzazione paesaggistica precedentemente rilasciata per la realizzazione della piscina in quanto detto atto favorevole confliggeva con la destinazione edilizio-urbanistica dell’area in cui l’opera era stata realizzata, posto che la stessa era destinata dall’allora vigente PRG a “zona di rispetto stradale” che, in ragione di cui alla previsione dell’art. 26, l.r. Lombardia 51/1975, era definita quale zona destinata “alla realizzazione di nuove strade o corsie di servizio, all’ampliamento di corsie esistenti, alla realizzazione di parcheggi pubblici e percorsi pedonali e ciclabili”.
Le appellanti lamentano che tale motivazione dell’atto di ritiro è frutto di una inadeguata rappresentazione delle norme che disciplinano l’assetto del territorio con riguardo all’area in questione. In particolare puntualizzano che:
   - il manufatto edificato non ricade in alcuna fascia di rispetto stradale sia relativamente alla via Grandi che alla SP 159 Bettola-Sordio, ciò in quanto dalla relazione del tecnico di parte prodotta in primo grado (architetto Ma.) emerge che:
a) alla luce, in particolare, dell’art. 1, comma 3, d.lgs. 285/1992, la Via Grandi è identificata come strada locale F (ovvero una strada urbana situata all’interno del centro abitato) e, tenuto conto, dell’art. 28, comma 2, del suddetto decreto, essendo esistente uno strumento urbanistico vigente, non vi sono stabilite distanze minime dal confine stradale ai fini della sicurezza della circolazione;
b) inoltre, il PUT approvato con delibera di Giunta n. 157 del 17.06.1999 e con delibera di Consiglio Comunale n. 81 del 20.12.1999 riporta correttamente alla Tavola 3 l’assenza di fascia di rispetto stradale per il tratto di strada definito “extraurbana locale F1” di cui alla Tavola 2;
c) da quanto sopra emerge la prova che il tratto di strada che collega la via Grandi dal civico 2 alla Provinciale SP 159 Bettola-Sordio, pur essendo indicata come strada “extraurbana locale F1”, non ha la fascia di rispetto stradale come si evince dalla Tavola 3;
d) successivamente sul tratto di strada qui di interesse erano stai effettuati interventi di riqualificazione (realizzazione di una corsia ciclabile, illuminazione e altro), di talché il tecnico concludeva affermando “in via principale che sia da considerarsi come indicato nel PUT che non vi è la presenza di fasce di rispetto stradale contrariamente a quanto indicato nel PRG ben più datato e, in via subordinata, che il Comune avrebbe dovuto classificare il tratto di strada F1 extraurbano in strada urbana e pertanto priva di fasce di rispetto” (così, testualmente, a pag. 12 dell’atto di appello);
   - l’art. 28 d.P.R. 495/1992 (Regolamento di esecuzione ed attuazione del codice della Strada) si limita a stabilire che “per le strade di tipo E ed F, nei casi di cui al comma 1, non sono stabilite distanze minime dal confine stradale ai fini della sicurezza della circolazione” e quindi non prevede una distanza minima da osservare sempre all’interno dei centri abitati, rimettendo la relativa fissazione a determinazioni da assumersi caso per caso, circostanza che, nel caso di specie, si sarebbe verificata avendo il comune fissato detta distanza in 20 metri nello strumento urbanistico. E’ errato dunque affermare che l’area in questione sia coinvolta in una fascia di rispetto stradale, impeditiva della realizzazione della piscina;
   - ad ogni modo il Piano urbano del traffico (PUT) del Comune di Mediglia classifica la via Grandi quale “strada extraurbana locale”, all'interno del centro abitato, che quindi non è assistita da alcuna fascia e distanza di rispetto stradale.
Dalla documentazione versata in atti nei due gradi di giudizio si evince, invece, che:
   - l’area in questione ricade, secondo il PRG vigente all’epoca dei fatti qui oggetto di contestazione, in “zona agricola E” che, per l’art. 21 delle NTA al PRG viene qualificata alla stregua di una delle aree “prevalentemente destinate alla produzione agricola e che si ritiene debbano mantenere od acquisire tale funzione”;
   - sempre per il PRG la via Grandi è inserita in una fascia di rispetto stradale di 20 m, a partire dal ciglio stradale, mentre per la SP 159 è prescritta una fascia pari a 30 m. (per come emerge dalle tavole del PRG);
   - le due fasce del terreno oggetto di intervento si collocano, secondo il PRG allora vigente, nell’area di rispetto stradale compresa fra due strade in congiunzione (vale a dire la Via Achille Grandi e la SP 159 Bettola-Sordio). Dette aree sono destinate alla eventuale realizzazione di nuove strade o corsie di servizio, all’ampliamento di corsie esistenti, alla realizzazione di parcheggi pubblici, percorsi pedonali e ciclabili o adibite a verde;
   - nel parere reso dalla Commissione edilizia durante il procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (successivamente annullata dal comune) si legge che “il manufatto in progetto ricadrà esclusivamente nella fascia di rispetto stradale relativa alla Via Achille Grandi”;
   - inoltre –e a tal proposito- la Tavola n. 3 del PUT fissa il vincolo di rispetto stradale per le strade qualificate di tipo “F1” (distanza di 20 mt.).
Con riferimento a tale ultimo aspetto merita di essere segnalato che, sebbene neppure l’art. 28, comma 2, d.P.R. 495/1992 preveda che “per le strade di tipo E ed F, nei casi di cui al comma 1, non sono stabilite distanze minime dal confine stradale ai fini della sicurezza della circolazione”, tale previsione non inibisce l’introduzione di specifiche distanze da parte della normativa urbanistico edilizia comunale, come è avvenuto nella specie (tanto che l’autorizzazione paesaggistica, seppur inizialmente rilasciata dal comune, è stata da quest’ultimo annullata in sede di autotutela).
In argomento, una volta confermato, secondo quanto si è sopra illustrato, che il vincolo stradale sussisteva nella disciplina urbanistica locale dell’epoca, è opportuno rammentare brevemente che, per costante giurisprudenza, le fasce di rispetto stradale, in attuazione delle norme poste dal codice della strada, non costituiscono vincoli urbanistici, ma misure poste a tutela della sicurezza stradale, che comportano l'inedificabilità delle aree interessate e sono a tal fine recepite nella strumentazione urbanistica primaria. Si tratta di un vincolo posto a tutela della sicurezza della circolazione ed ha carattere assoluto ed inderogabile conformando in tal senso la proprietà privata (cfr., tra le molte, Cons. Stato, Sez. IV, 29.03.2021 n. 2602).
Infatti, in linea di diritto, il vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale ha valenza di inedificabilità assoluta, traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende inedificabili le aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale (cfr., in argomento, Cons. Stato, Sez. VI, 24.11.2020 n. 7382).
Nel caso di specie, una volta che il P.R.G. vigente all’epoca dei fatti inserisce l’area in questione nell’ambito di una zona a rispetto stradale (e tale previsione non venga rimossa con effetto retroattivo), le eventuali formali incongruenze recate dalle rappresentazioni grafiche allegate (per come prospettato dalle appellanti) non mutano la portata prescrittiva dello strumento urbanistico primario, che nel caso in esame si mostra impeditivo rispetto alla realizzazione dell’opera, determinando la legittimità dei provvedimenti adottati dal comune ed oggetto di impugnazione nel presente contenzioso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.04.2022 n. 2565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto, e prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della legge n. 729 del 24.07.1961 e dal susseguente decreto interministeriale n. 1404 del 01.04.1968 debbono ritenersi prevalenti sulla stessa norma regionale invocata in ricorso; norma che, di fatto, relativamente alla fascia di rispetto delle strade deve ritenersi priva di contenuto precettivo, a nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno alla sicurezza del traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di natura penale connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale (anche di rango primario) circa la possibile sanatoria degli stessi.
Quanto, poi, alla valutazione della pericolosità in concreto del fabbricato (che non costituisca minaccia alla sicurezza del traffico) –in disparte ogni valutazione in ordine alla derogabilità o meno in Sicilia delle distanze minime di cui al DM 1404/1968, ad opera dell’art. 23, comma 8, L.R. 37/1985, che non costituisce oggetto di censura– il provvedimento appare esente da mende avendo diffusamente motivato che il vincolo non ha soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile all’occorrenza dal concessionario per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.

---------------
L'Amministrazione competente alla tutela del vincolo in argomento è chiamata ad esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica, caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e non può legittimamente svolgere quell'attività di comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla sua cura (la tutela della sicurezza stradale) con interessi di altra natura e spettanza che è propria della discrezionalità amministrativa.
Pertanto non si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono il diniego avversato, o della comparazione di tale interesse con quelli dei privati coinvolti e sacrificati.
---------------

5. Con il primo motivo, come detto, si deduce che l'art. 9 della legge n. 729/1961 non avrebbe potuto essere applicato alla fattispecie, dato che verrebbe all’esame una materia riservata alla potestà normativa esclusiva della Regione Siciliana, che era intervenuta in materia con l'art. 23, comma 8, della legge regionale n. 37/1985, il quale prevedeva una valutazione specifica in merito al pericolo per la sicurezza del traffico da parte dell'ente preposto alla tutela della viabilità, non effettuata dall'A.N.A.S.
La doglianza è infondata.
L'art. 23 richiamato dispone che "Possono conseguire la concessione o l'autorizzazione in sanatoria le costruzioni ricadenti nelle fasce di rispetto stradali definite dal decreto ministeriale 01.04.1968 sempre che a giudizio degli enti preposti alla tutela della viabilità le costruzioni stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico".
L'art. 9 della legge n. 729/1961 prevede a sua volta, che "Lungo i tracciati delle autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione dell'autostrada stessa. La distanza è ridotta a metri 10 per gli alberi da piantare".
Orbene, dal provvedimento impugnato risulta che l'A.N.A.S. ha ritenuto che il criterio per stabilire la sussistenza di una minaccia alla sicurezza del traffico doveva essere ricavato dal succitato art. 9 e che, pertanto, doveva essere esclusa la possibilità di rilascio del nulla osta per le costruzioni (quale quella della ricorrente) ubicate a meno di 25 metri dal limite della zona di occupazione autostradale.
Tale prospettazione è, ad avviso del Collegio, condivisibile con conseguente infondatezza della censura in esame tenuto conto degli interessi tutelati dal ridetto art. 9.
Deve, infatti, ricordarsi che, secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale (per tutte Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.02.2018, n. 1250), il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto, e prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della legge n. 729 del 24.07.1961 e dal susseguente decreto interministeriale n. 1404 del 01.04.1968 debbono ritenersi prevalenti sulla stessa norma regionale invocata in ricorso; norma che, di fatto, relativamente alla fascia di rispetto delle strade deve ritenersi priva di contenuto precettivo, a nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno alla sicurezza del traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di natura penale connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale (anche di rango primario) circa la possibile sanatoria degli stessi.
Quanto, poi, alla valutazione della pericolosità in concreto del fabbricato (che non costituisca minaccia alla sicurezza del traffico) –in disparte ogni valutazione in ordine alla derogabilità o meno in Sicilia delle distanze minime di cui al DM 1404/1968, ad opera dell’art. 23, comma 8, L.R. 37/1985, che non costituisce oggetto di censura– il provvedimento appare esente da mende avendo diffusamente motivato che il vincolo non ha soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile all’occorrenza dal concessionario per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
6. Parimenti infondato è il secondo ordine di censure, con il quale parte ricorrente denunzia che la misurazione avrebbe dovuto essere effettuata a partire dal ciglio della strada e non dal confine.
Rileva il Collegio che il criterio adottato dall’ANAS nel caso in esame è corretto, in quanto la distanza deve essere misurata dal confine stradale inteso come linea della fascia di esproprio, posto che la definizione di confine è sancita normativamente dall'art. 3, comma 10, del nuovo codice della strada.
In particolare l’art. 3, comma 1, punto 10, del D.lgs. 30.04.1992, n. 285 definisce il “Confine stradale” come “il limite della proprietà stradale quale risulta dagli atti di acquisizione o dalle fasce di esproprio del progetto approvato; in mancanza, il confine è costituito dal ciglio esterno del fosso di guardia o della cunetta, ove esistenti, o dal piede della scarpata se la strada è in trincea”. Al confine stradale fa poi costante riferimento, relativamente alle distanze imposte, il relativo regolamento (D.P.R. n. 495/1992, in particolare l’art. 28).
Tanto premesso, posto che parte ricorrente si duole esclusivamente del criterio applicato dall’A.N.A.S., ma non contesta la misurazione effettuata sulla base di quel criterio –risultata pari a 19 mt.– può darsi per accertato che il fabbricato in questione si trovi ad una distanza dal confine autostradale comunque inferiore ai 25 metri previsti dall’invocato art. 9, comma 1, l. n. 729/1961 (abrogata con D.L. n. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008).
7. Infondato è anche il terzo motivo di ricorso con il quale si deduce, per un verso, che il carico urbanistico presente sull’area dove sorge il fabbricato della ricorrente impedirebbe al vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale di raggiungere lo scopo voluto dal legislatore e, per altro verso, che la distanza del manufatto dall’autostrada non assumerebbe rilievo in quanto tra questa ultima ed il fabbricato della ricorrente si interponevano una strada comunale ed altri fondi di proprietà altrui.
La censura è infondata per la considerazione che l'Amministrazione competente alla tutela del vincolo in argomento è chiamata ad esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica, caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e non può legittimamente svolgere quell'attività di comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla sua cura (la tutela della sicurezza stradale) con interessi di altra natura e spettanza che è propria della discrezionalità amministrativa. Pertanto non si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono il diniego avversato, o della comparazione di tale interesse con quelli dei privati coinvolti e sacrificati.
Peraltro il Collegio non ravvisa i denunciati vizi di difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto il provvedimento è diffusamente motivato sia con riferimento ai parametri normativi sui quali esso è fondato, sia in ordine ai presupposti di fatto che asseverano l’espletamento di un’adeguata istruttoria.
Quanto poi alla presenza all’interno della fascia di rispetto di una arteria di natura diversa e di altri fondi di proprietà altrui osserva il Collegio come tali circostanze non incidano sul vincolo di inedificabilità assoluta, che va, comunque, garantito per superiori esigenze di sicurezza (cfr. in termini TAR Palermo, Sez. III, 16.03.2020 n. 622) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 30.03.2022 n. 1104 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo d'inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall'art. 9 l. 24.07.1961 n. 729 e dal susseguente d.m. 01.04.1968, n. 1404 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni, con la conseguenza che le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti.
Altresì,
il vincolo posto dal legislatore non ha solo il fine di assicurare il transito sicuro sulla strada, ma anche quello di consentire un'ampia capacità di manutenzione della stessa, che non può essere valutata caso per caso, facendo così degradare il vincolo da assoluto a relativo, per l'ovvia ragione che sarebbe impossibile prevedere le future evenienze manutentive.
---------------

5. – L’appello non può essere accolto stante la infondatezza dei motivi dedotti.
In primo luogo va rilevato che la società Autostrade, nel parere reso ai sensi dell’art. 32 l. 47/1985, ha espresso il proprio avviso sfavorevole al rilascio del condono edilizio in quanto:
   - dalla documentazione prodotta si evinceva che l'edificio in questione insiste ad una distanza minima di mt 1,50 dal confine della proprietà autostradale in zona classificata dal P.R.G. come esterna rispetto al perimetro del centro abitato;
   - inoltre le opere sono state eseguite nel 1993 e quindi in epoca successiva rispetto all’entrata in vigore del DM 01.04.1968 che ha posto il vincolo di inedificabilità assoluta nell’ambito della fascia di rispetto autostradale individuata in 60 mt..
Il Comune di Varazze, nel provvedimento impugnato in primo grado, ha effettuato un espresso richiamo al suddetto parere, affermando in modo sintetico ma comprensibile, che l’impedimento al diniego di condono era costituito dalla realizzazione delle opere in un edificio che si trova all’interno della fascia di rispetto autostradale.
Orbene tali elementi sono sufficienti a definire la motivazione del diniego, avendo il Comune di Varazze fatto uso dello strumento della motivazione ob relationem al parere reso dalla società Autostrade, quest’ultimo correttamente evocato dagli uffici comunali e richiamato nel ridetto provvedimento di diniego di condono specificandone in modo adeguato gli elementi per rinvenirlo (nel senso della sufficienza di un siffatto richiamo si veda, tra le molte, Cons. Stato, Sez. IV, 18.08.2017 n. 4032).
Ne deriva che il provvedimento impugnato in primo grado si presenta sufficientemente motivato con il richiamo, seppur sintetico, al parere sfavorevole reso dalla società Autostrade e alla confermata presenza del vincolo di rispetto autostradale, applicabile ratione temporis al caso di specie, nella cui area ricade l’immobile.
6. – In secondo luogo con riferimento alla doglianza attraverso la quale si invoca la necessità di un prudente apprezzamento del vincolo in questione e se ne sostiene la non applicabilità al caso in esame anche in ragione della peculiarità della fattispecie, va detto che la giurisprudenza di questo Consiglio, come quella della Corte di Cassazione, dalla quale ad avviso del Collegio non vi è ragione di discostarsi, ha sostenuto in modo costante il carattere inderogabile del vincolo.
Infatti il vincolo d'inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall'art. 9 l. 24.07.1961 n. 729 e dal susseguente d.m. 01.04.1968, n. 1404 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni, con la conseguenza che le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (cfr., ex plurimis, Cass. civ., Sez. II, 07.05.2014 n. 9889 e Cons. Stato, Sez. II, 11.05.2020 n. 2949).
Da quanto sopra deriva che, per l’assolutezza del vincolo e del limite ad ogni tipo di costruzione, destituita di fondamento è la tesi secondo la quale il limite de quo non possa essere applicato alle opere oggetto dell'intervento in questione.
Pertanto, non può che rilevarsi che il primo giudice ha fatto corretta applicazione del principio secondo il quale il vincolo in questione ha carattere assoluto giacché, come sopra rammentato, il vincolo posto dal legislatore non ha solo il fine di assicurare il transito sicuro sulla strada, ma anche quello di consentire un'ampia capacità di manutenzione della stessa, che non può essere valutata caso per caso, facendo così degradare il vincolo da assoluto a relativo, per l'ovvia ragione che sarebbe impossibile prevedere le future evenienze manutentive (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.11.2021 n. 7975 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: C. Tonola, La natura conformativa del vincolo di inedificabilità della «fascia di rispetto stradale» (commento tratto da www.njus.it).
La IV Sez. del Consiglio di Stato, con sentenza 23.11.2021 n. 7846, ha ribadito la natura del vincolo di inedificabilità della c.d. “fascia di rispetto stradale”.
Come è noto, le fasce di rispetto individuano le distanze minime a protezione del nastro stradale dall’edificazione e coincidono, dunque, con le aree esterne al confine stradale finalizzate alla eliminazione o riduzione dell’impatto ambientale. L’ampiezza di tali fasce ovvero le distanze da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni e ricostruzioni e negli ampliamenti fronteggianti le strade, trova disciplina in quanto stabilito dagli artt. 16, 17 e 18, D.L.vo 30.04.1992, n. 285 (Codice della strada) e dagli artt. 26, 27 e 28, d.P.R. 16.12.1992, n. 495 (Regolamento di attuazione).
Il vincolo di inedificabilità della “fascia di rispetto stradale” –che è una tipica espressione dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti– non ha natura espropriativa, ma unicamente conformativa, perché ha il solo effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dall’eventuale instaurazione di procedure espropriative (Cons. Stato, sez. IV, 13.03.2008, n. 1095).
Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità poi, in presenza di un vincolo conformativo previsto dalla legge (quale è la fascia di rispetto), non sono predicabili riferimenti di effettualità edificatoria “di fatto”, ma, ai fini del ristoro del proprietario inciso, rileva solo la distinzione tra aree edificabili “di diritto” ed aree “giuridicamente” non edificabili (Cass. civ., sez. I, 13.04.2006, n. 8707; Cass. civ., sez. I, 28.10.2005, n. 21092).
L’autonomia della disciplina delle fasce di rispetto stradale fa sì che ivi possa essere autorizzata attività “eccentrica” rispetto alle prescrizioni della zonizzazione, purché comunque svolta a beneficio della circolazione stradale, e nel rispetto della sicurezza degli utenti (in tal senso, Cons. Stato, sez. IV, 29.03.2021, n. 2602; Cons. Stato, sez. IV, 11.05.2015, n. 2880).
A più riprese, invero, è stato consentito un utilizzo delle c.d. “fasce di rispetto” che, oggettivamente, pare di utilità minor, per gli utenti della strada, rispetto ad un parcheggio a raso. In via generale, la giurisprudenza ha chiarito che la fascia di rispetto stradale non può rappresentare un ostacolo all'insediamento di nuovi impianti di distribuzione dei carburanti che costituiscono un ordinario completamento della strada su cui circolano autoveicoli che devono necessariamente potersi approvvigionare.
Alla luce di tali principi, espressi da una normativa –quale quella in materia di distanze stradali e autostradali de qua– finalizzata a consentire quell’attività edificatoria di complemento o necessaria alla più agevole circolazione degli autoveicoli, i giudici amministrativi chiariscono che l’Autorità amministrativa competente ben può concordare con un privato “l’arretramento” di un preesistente edificio, rispetto ad un tratto autostradale, in luogo della demolizione sic et simpliciter del manufatto posto ad una distanza inferiore a quella legale, al fine di agevolare la sicurezza dei trasporti e la viabilità.
Le parti ben possono, cioè, concordare tale arretramento (pur se questo a sua volta riguarda un’area anch’essa inferiore alla distanza legale), che ad un tempo consente di soddisfare gli interessi pubblici connessi alla viabilità ed alla sicurezza, nonché quelli privati inerenti alla prosecuzione dell’attività svolta nell’edificio da demolire. Allorquando vi sia l’accordo su tale arretramento, la demolizione del preesistente manufatto può essere senz’altro effettuata, mentre per la realizzazione del nuovo edificio occorrono ovviamente tutti i titoli abilitativi richiesti. Tra questi, qualora il nuovo edificio a sua volta riguardi un’area anch’essa inferiore alla distanza legale, in sede di esame della istanza formulata dal soggetto che ha stipulato l’accordo “di arretramento”, le Autorità pubbliche devono tenere conto del precedente accordo che mirava a salvaguardare le esigenze della viabilità e della sicurezza.
---------------
Riferimenti Normativi:
Art. 16, D.L.vo 30.04.1992, n. 285 (Codice della strada) - Art. 17, D.L.vo 30.04.1992, n. 285 (Codice della strada) - Art. 18, D.L.vo 30.04.1992, n. 285 (Codice della strada) - Art. 26, d.P.R. 16.12.1992, n. 495 - Art. 27, d.P.R. 16.12.1992, n. 495 - Art. 28, d.P.R. 16.12.1992, n. 495

---------------
SENTENZA
19. Va dunque esaminato il primo motivo di appello, che è infondato.
20. Questo Consiglio ha avuto modo di statuire in precedenti contenziosi che
la disciplina delle fasce di rispetto stradale -stabilita dagli artt. 16, 17 e 18, del D.Lgs. n. 285/1992 e dagli artt. 26, 27 e 28, del d.P.R. n. 495/1992– costituendo una misura posta a tutela della sicurezza stradale (di natura conformativa e non espropriativa, non riconducibile alla categoria della “zonizzazione”), consente il legittimo insediamento di attività "eccentrica", rispetto alle prescrizioni della zonizzazione, purché comunque svolta a beneficio della circolazione stradale, e nel rispetto della sicurezza degli utenti (in tal senso, Cons. Stato, Sez. IV, 29.03.2021, n. 2602, e 11.05.2015, n. 2880).
21. In particolare, nella sentenza n. 2880/2015, questo Consiglio ha avuto modo di evidenziare come “
a più riprese è stato consentito un utilizzo delle c.d. "fasce di rispetto" che, oggettivamente, pare di utilità minore, per gli utenti della strada, rispetto ad un parcheggio a raso (“in via generale, la fascia di rispetto stradale non può rappresentare un ostacolo all'insediamento di nuovi impianti di distribuzione dei carburanti che costituiscono un ordinario completamento della strada su cui circolano autoveicoli che devono necessariamente potersi approvvigionare; inoltre, il D.lgs. n. 32 del 1998 consente l'installazione degli impianti all'interno delle fasce di rispetto stradale in quanto all'art. 2, comma 3, prescrive espressamente che i Comuni debbano “individuare le destinazioni d'uso compatibili con l'installazione degli impianti all'interno delle zone comprese nelle fasce di rispetto di cui agli artt. 16, 17 e 18 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, recante il Nuovo codice della strada”.
22.
La ratio decidendi, che traspare dai citati precedenti, è quella di un’esegesi delle richiamate norme in materia di distanze stradali e autostradali, finalizzata a consentire quell’attività edificatoria di complemento o necessaria alla più agevole circolazione degli autoveicoli.
23. A questo stesso principio si è ispirato l’accordo transattivo concluso tra le parti, nella misura in cui il privato ha, infine, deciso di rinunciare all’impugnazione degli atti della procedura espropriativa, per cedere i suoi suoli, sui quali preesisteva, a distanza inferiore a quella legale, un manufatto destinato allo svolgimento della sua attività d’impresa, e pattuire, al contempo, la possibilità di ottenere dal concessionario autostradale il suo appoggio, mediante l’espressione di un parere favorevole, ad una ricostruzione del suddetto manufatto in un altro sito della sua proprietà, pur sempre ad una distanza inferiore a quella prevista dalla normativa autostradale.
24. In questi termini, considerato che l’accordo ha agevolato la realizzazione di necessari lavori di “adeguamento del tratto di attraversamento appenninico tra Sasso Marconi e Barnerino del Mugello” (si trattava, in particolare, da quanto emerge dalla transazione, della realizzazione dello svincolo autostradale di Sasso Marconi), esso si pone in linea con i principi enunciati dalla citata giurisprudenza, cosicché, in definitiva, la clausola impugnata dall’appellante si palesa valida.
25. Più in generale, ritiene la Sezione che –dalla complessiva normativa dettata dal testo unico sugli espropri e dal codice della strada– si può desumere un principio generale riguardante l’attività amministrativa, per la quale l’Autorità competente ben può concordare con un privato “l’arretramento” di un preesistente edificio, rispetto ad un tratto autostradale.
Al fine di agevolare la sicurezza dei trasporti e la viabilità, in luogo della demolizione sic et simpliciter del manufatto posto ad una distanza inferiore a quella legale, le parti ben possono concordare tale arretramento (pur se questo a sua volta riguarda un’area anch’essa inferiore alla distanza legale), che ad un tempo consente di soddisfare gli interessi pubblici connessi alla viabilità ed alla sicurezza, nonché quelli privati inerenti alla prosecuzione dell’attività svolta nell’edificio da demolire.
Allorquando vi sia l’accordo su tale arretramento, la demolizione del preesistente manufatto può essere senz’altro effettuata, mentre per la realizzazione del nuovo edificio occorrono ovviamente tutti i titoli abilitativi richiesti.
Tra questi, qualora il nuovo edificio a sua volta riguardi un’area anch’essa inferiore alla distanza legale, in sede di esame della istanza formulata dal soggetto che ha stipulato l’accordo ‘di arretramento’, le Autorità pubbliche devono tenere conto del precedente accordo che mirava a salvaguardare le esigenze della viabilità e della sicurezza.
La clausola contestata dall’appellante, sotto tale profilo, risulta espressiva del dovere -che comunque sarebbe derivato in capo alla società Autostrade per l’Italia– di eseguire secondo buona fede e correttezza l’accordo stipulato con l’appellante, dal momento che, qualora fosse stata presentata l’istanza volta alla ricostruzione in altra area del nuovo edificio, la medesima società avrebbe dovuto esprimere un parere coerente con il contenuto del precedente accordo.
Ne consegue che la clausola contestata risulta di per sé valida.
26. Il primo motivo di appello va pertanto respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.11.2021 n. 7846 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICANon può assegnarsi natura espropriativa ai vincoli derivanti dalla ricomprensione dei terreni di proprietà privata all'interno della fascia di rispetto stradale in quanto tale tipologia di vincolo "(che è una tipica espressione dell'attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti) ... ha il solo effetto di imporre alla proprietà l'obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dall'eventuale instaurazione di procedure espropriative".
---------------

2. Per quanto concerne le ulteriori aree destinate a corridoio ecologico, va richiamata la distinzione fra vincoli espropriativi ovvero sostanzialmente tali, che possono essere imposti senza previsione di indennizzo per un periodo massimo di cinque anni (decorso il quale decadono), e vincoli conformativi che possono invece essere imposti a tempo indeterminato senza che alcun indennizzo sia dovuto.
2.1 Il Consiglio di Stato (cfr. sez. IV – 21/06/2021 n. 4775) ha richiamato le pronunce della Corte costituzionale 20/01/1966 n. 6 e 29/05/1968 n. 55, nella quale <<ha distinto anzitutto i casi in cui la proprietà -ovvero singoli diritti minori, che all'istituto della proprietà si ricollegano- vengano sacrificati attraverso atti che, indipendentemente dalla forma adottata, comportino sia una traslazione totale o parziale del diritto, sia uno svuotamento di rilevante entità ed incisività del relativo contenuto, pur rimanendone intatta l'appartenenza e la sottoposizione a tutti gli oneri, anche fiscali connessi; in tali casi, ha ritenuto che la garanzia della proprietà privata di cui all'art. 42 Cost. comporti la necessità di corrispondere l'indennizzo e il carattere temporaneo del vincolo non indennizzato. … Viceversa, la stessa Corte ha escluso che tali garanzie siano dovute nel caso di disposizioni di vincolo le quali si riferiscano a intere categorie di beni, siano riferite alla generalità dei soggetti e sottopongano quindi tutti i beni di una qualche categoria, senza distinzione fra di essi, ad un particolare "regime di appartenenza", ovvero conformino in un dato modo il diritto relativo. … Sulla base di questa distinzione di principio, secondo la costante giurisprudenza, non integrano vincolo espropriativo le destinazioni di zona, anche quando prevedano una data opera di interesse pubblico che però possa essere realizzata anche ad iniziativa privata o promiscua, e non solo per iniziativa pubblica: così esattamente C.d.S. sez. II 06.03.2020 n. 1643, relativa ad un'area a verde pubblico>>.
2.2 La giurisprudenza è concorde nel ritenere che la destinazione ad attrezzature ricreative, sportive e a verde pubblico, data dal Piano Regolatore Generale ad aree di proprietà privata, non implica l'imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo (TAR Lombardia Brescia, sez. I – 21/06/2021 n. 584, che ha richiamato Consiglio di Stato, sez. II – 24/10/2020 n. 6455; TAR Puglia-Bari, sez. III – 23/04/2020 n. 529): ciò comporta che la reiterazione nel tempo di detta destinazione non impone particolari motivazioni all'amministrazione, né obblighi di indennizzo in favore della proprietà.
Ha aggiunto il giudice di prime cure che “Quanto alla nuova destinazione a "verde privato" impressa con il nuovo strumento urbanistico, essa appare coerente con gli obiettivi di fondo della pianificazione, diretti alla tutela del territorio e alla riduzione del consumo del suolo, anche mediante la formazione di zone filtro e di tutela ambientale (cfr. Relazione illustrativa generale del Documento di Piano, paragrafo 1.15.1, doc. 4 Comune), obiettivi condivisi da Regione, Provincia e ASL”.
2.3 Secondo TAR Sicilia-Catania, sez. II – 28/06/2021 n. 2115 “Anche di recente è stato infatti statuito che "il vincolo di destinazione urbanistica "zona attrezzature di interesse pubblico" impresso ad un'area dal piano regolatore generale non ha natura sostanzialmente espropriativa tale da comportarne la decadenza quinquennale, bensì costituisce un vincolo conformativo con validità a tempo indeterminato e senza obbligo di indennizzo in quanto le attrezzature in questione (nella fattispecie verde di quartiere) sono realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua in regime di economia di mercato e non dal solo intervento pubblico (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.05.2018, n. 3116; 13.10.2017, n. 4748; 12.04.2017, n. 1700)" (così Cons. St. 31.08.2018 n. 5125). Tanto meno può assegnarsi natura espropriativa ai vincoli derivanti dalla ricomprensione dei terreni di proprietà del ricorrente all'interno della fascia di rispetto stradale richiamata dall'Amministrazione, in quanto tale tipologia di vincolo "(che è una tipica espressione dell'attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti) ... ha il solo effetto di imporre alla proprietà l'obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dall'eventuale instaurazione di procedure espropriative" (Consiglio di Stato, sez. IV, 13.03.2008, n. 1095)”.
2.4 Applicando il principio così delineato al caso di specie, la previsione di piano di un corridoio ecologico –contestata in questa sede– va qualificata come vincolo conformativo legittimamente apposto, realizzabile anche per iniziativa privata (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 06.10.2021 n. 822 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA"In tema di condono edilizio il vincolo di inedificabilità in zona di rispetto stradale è considerato un vincolo di inedificabilità assoluta e, di conseguenza, allorché l'abuso edilizio sia stato compiuto dopo la sua imposizione, non si applica l'art. 32, comma 2, lett. c), l. 28.02.1985 n. 47 ma, in base al comma 3, il successivo art. 33 con conseguente insanabilità dell'abuso, a nulla rilevando la non pericolosità della porzione di manufatto per la sicurezza del traffico".
Ed ancora, "Il vincolo d'inedificabilità sulle zone di rispetto stradale, imposto dall'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 ha carattere assoluto e pertanto -a differenza del vincolo di cui all'art. 32, d'inedificabilità relativa, che può essere rimosso a discrezione dell'autorità preposta alla cura dell'interesse tutelato- contiene un divieto di edificazione a carattere assoluto, che comporta la non sanabilità dell'opera realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto".
"Sotto altro profilo va ancora osservato che il provvedimento di diniego impugnato esordisce premettendo che l’art. l'art. 23, comma 8, della L.R. n. 37/1985 ammette la possibilità di conseguire la concessione o l'autorizzazione in sanatoria per le costruzioni ricadenti nelle fasce di rispetto stradali definite dal D.M. 01.04.1968 sempre che a giudizio degli enti preposti alla tutela della viabilità le costruzioni stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico.
L’Anas precisa poi, nel provvedimento, che tuttavia tale norma regionale non si applica alle costruzioni ricadenti nella fascia di rispetto Autostradale definita dall'art. 9 della Legge n. 729/1961 (poi abrogato) e ritiene comunque inderogabili le distanze minime imposte dal D.M. 1404/1968 e dalla circolare Anas n. 109707/2010 applicativa delle disposizioni dettate dal Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti in applicazione degli artt. 26 e 28 del Regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice della Strada, atteso che la giurisprudenza è stata sempre conforme nel ritenere il carattere assoluto del vincolo introdotto a tutela della fascia di rispetto autostradale, anche a prescindere dalle concrete caratteristiche dell’opera realizzata […].
Il Collegio richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere “assoluto” e prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della l. n. 729 del 24.07.1961 e dal susseguente decreto interministeriale n. 1404 del 01.04.1968, debbono ritenersi prevalenti sulla stessa norma regionale; norma che, di fatto, relativamente alla fascia di rispetto delle strade deve ritenersi priva di contenuto precettivo, a nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno alla sicurezza del traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di natura penale connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale (anche di rango primario) circa la possibile sanatoria degli stessi”.
---------------
Essendo il vincolo di inedificabilità assoluta in questione correlato alla più ampia esigenza di assicurare un'area contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi compresi quelli di ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni, deve ritenersi che la distanza minima vada calcolata dal confine della proprietà autostradale e non dal ciglio della autostrada.
Tale circostanza è, peraltro, confermata dall’art. 3, comma 1, punto n. 10, del nuovo codice della strada approvato con D.Lgs. n. 285/1992, che identifica il confine stradale con il limite della proprietà.
---------------
L'Amministrazione competente alla tutela del vincolo in argomento è chiamata ad esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica, caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e non può legittimamente svolgere quell'attività di comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla sua cura (la tutela della sicurezza stradale) con interessi di altra natura e spettanza che è propria della discrezionalità amministrativa.
---------------

1. Come chiarito in fatto, la controversia ha ad oggetto il parere negativo espresso dall’ANAS sulla istanza di sanatoria presentata dai ricorrenti in quanto riferita ad immobile situato ad una distanza di mt. 13,40 dal confine dell’autostrada A/29.
2. Preliminarmente deve essere accolta l’eccezione sollevata dalla difesa del Comune di Palermo circa la propria carenza di legittimazione passiva non venendo all’esame del Collegio provvedimenti emessi dall’ente locale, né dagli atti depositati in giudizio si percepisce un qualche collegamento con l’attività istruttoria svolta dal comune sulla pratica di sanatoria urbanistica.
Nella specie, le istanze di condono depositate in atti dalla ditta Va.Be. riguardano due corpi di fabbrica realizzati su di un’area di sedime con accesso da Via ... n. 1059, che effettivamente non sembrano avere alcuna pertinenza con l’oggetto del presente giudizio, stante le diverse particelle catastali su cui insiste l’area ultima richiamata rispetto a quelle in contenzioso, pertanto la chiamata in causa anche del comune di Palermo risulta ultronea.
3. L’infondatezza nel merito del ricorso consente di ritenere assorbita l’eccezione di inammissibilità del gravame sollevata dall’ANAS s.p.a., non avendo i Sigg.ri Ge.An., Va.Ma.Ad. e Va.An., costituitisi in giudizio quali eredi dell’originario ricorrente Va.Be., fornito prova della propria legittimazione attiva.
Tale eccezione, ad ogni modo, sarebbe stata da accogliere essendo di fatto non provata la qualità di eredi dei ricorrenti subentranti non essendo citato negli atti di successione depositati in giudizio l’immobile oggetto di causa, nonostante i chiarimenti forniti dai ricorrenti nella memoria del 17/06/2021.
4. Il collegio richiama precedenti di questo Tribunale che hanno già affrontato, anche di recente, analoghe vicende con i quali si sono affermati principi che vanno anche qui condivisi.
In primis, è infondata la censura con al quale si deduce l’applicabilità dell’art. 23, comma 8, della l.r. n. 37/1985 venendo in considerazione una materia riservata alla potestà normativa esclusiva della regione siciliana, che prevedeva una valutazione specifica in merito al pericolo per la sicurezza del traffico da parte dell’ente preposto alla tutela della viabilità, non effettuata dall’A.N.A.S.
Con la sentenza del 17.05.2019, n. 1366, richiamata anche dall’amministrazione resistente, questo collegio ha già avuto modo di chiarire che: "In tema di condono edilizio il vincolo di inedificabilità in zona di rispetto stradale è considerato un vincolo di inedificabilità assoluta e, di conseguenza, allorché l'abuso edilizio sia stato compiuto dopo la sua imposizione (ndr circostanza assodata nel caso in esame), non si applica l'art. 32, comma 2, lett. c), l. 28.02.1985 n. 47 ma, in base al comma 3, il successivo art. 33 con conseguente insanabilità dell'abuso, a nulla rilevando la non pericolosità della porzione di manufatto per la sicurezza del traffico" (TAR Lazio-Latina - Sez. I - 17.11.2011, n. 923).
Ed ancora è stato affermato che "Il vincolo d'inedificabilità sulle zone di rispetto stradale, imposto dall'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 ha carattere assoluto e pertanto -a differenza del vincolo di cui all'art. 32, d'inedificabilità relativa, che può essere rimosso a discrezione dell'autorità preposta alla cura dell'interesse tutelato- contiene un divieto di edificazione a carattere assoluto, che comporta la non sanabilità dell'opera realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto" (Consiglio Stato - Sez. IV - 05.07.2000, n. 3731).
"Sotto altro profilo va ancora osservato che il provvedimento di diniego impugnato esordisce premettendo che l’art. l'art. 23, comma 8, della L.R. n. 37/1985 ammette la possibilità di conseguire la concessione o l'autorizzazione in sanatoria per le costruzioni ricadenti nelle fasce di rispetto stradali definite dal D.M. 01.04.1968 sempre che a giudizio degli enti preposti alla tutela della viabilità le costruzioni stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico.
L’Anas precisa poi, nel provvedimento, che tuttavia tale norma regionale non si applica alle costruzioni ricadenti nella fascia di rispetto Autostradale definita dall'art. 9 della Legge n. 729/1961 (poi abrogato) e ritiene comunque inderogabili le distanze minime imposte dal D.M. 1404/1968 e dalla circolare Anas n. 109707/2010 applicativa delle disposizioni dettate dal Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti in applicazione degli artt. 26 e 28 del Regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice della Strada, atteso che la giurisprudenza è stata sempre conforme nel ritenere il carattere assoluto del vincolo introdotto a tutela della fascia di rispetto autostradale, anche a prescindere dalle concrete caratteristiche dell’opera realizzata […]. Il Collegio richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2018, n. 1250 e, ivi, richiami; id., 03.11.2015, n. 5014), secondo cui il vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere “assoluto” e prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della l. n. 729 del 24.07.1961 e dal susseguente decreto interministeriale n. 1404 del 01.04.1968, debbono ritenersi prevalenti sulla stessa norma regionale; norma che, di fatto, relativamente alla fascia di rispetto delle strade deve ritenersi priva di contenuto precettivo, a nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno alla sicurezza del traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di natura penale connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale (anche di rango primario) circa la possibile sanatoria degli stessi
”.
Principi, come detto, ribaditi anche dalle successive sentenze n. 901/2019 e n. 622/2020, sempre di questo Tribunale.
Nel caso di specie, a seguito di sopralluogo, l’Anas ha accertato che la distanza del fabbricato dalla sede stradale è pari a ml. 13,40 e dunque inferiore a quella minima prevista dalla normativa in esame (25 metri dall’art. 9 della l. n. 729 del 24.07.1961 o 30 metri dagli artt. 26 e 28 D.P.R. 495/1992) per la concessione del nulla osta e, dunque, per la sanabilità della costruzione.
5. Così come non può essere accolto il ricorso nella parte in cui si deduce che la misurazione avrebbe dovuto essere fatta dal ciglio stradale e non dal confine stradale.
In proposito, si rammenta che, essendo il vincolo di inedificabilità assoluta in questione correlato alla più ampia esigenza di assicurare un'area contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi compresi quelli di ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni, deve ritenersi che la distanza minima vada calcolata dal confine della proprietà autostradale e non dal ciglio della autostrada. Tale circostanza è, peraltro, confermata dall’art. 3, comma 1, punto n. 10, del nuovo codice della strada approvato con D.Lgs. n. 285/1992, che identifica il confine stradale con il limite della proprietà.
...
7. In relazione all’ultima censura, con la quale i ricorrenti lamentano la mancata considerazione dello stato di fatto in concreto esistente nella zona dove il vincolo di inedificabilità succitato sarebbe diffusamente violato, lo stesso non è accoglibile.
A prescindere dalla genericità della censura che non consente un adeguato approfondimento da parte del collegio circa le condizioni riscontrate di saturazione urbanistica della zona (si fa presente che in nessun atto depositato è rinvenibile l’indirizzo preciso dell’immobile in questione, essendo sempre citate solo le particelle catastali come riferimento), la censura è infondata per la considerazione che l'Amministrazione competente alla tutela del vincolo in argomento è chiamata ad esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica, caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e non può legittimamente svolgere quell'attività di comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla sua cura (la tutela della sicurezza stradale) con interessi di altra natura e spettanza che è propria della discrezionalità amministrativa.
Peraltro, la ricorrente non lamenta in concreto nemmeno una disparità di trattamento, non avendo postulato che in casi analoghi l’Anas abbia rilasciato il nulla osta ad essa invece denegato. Pertanto, il Collegio non ravvisa i denunciati vizi di difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto il provvedimento è diffusamente motivato sia con riferimento ai parametri normativi sui quali esso è fondato, sia in ordine ai presupposti di fatto che asseverano l’espletamento di un’adeguata istruttoria (cfr., TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, 17/05/2019, n. 1366).
8. Concludendo, il provvedimento gravato appare adeguatamente motivato e sorretto da un’istruttoria che evidenzia il vulnus principale legato ad una distanza inferiore ai 30 metri dal confine autostradale, e comunque inferiore ai 25 metri previsti dall’art. 9 della L. 729/1961 (ora abrogata), con ciò risultando atto obbligato il diniego stante il carattere assoluto del vincolo in questione e non essendo tenuta l’amministrazione a svolgere alcun ulteriore indagine circa l’effettività del pericolo per la sicurezza del traffico da parte dell’ente preposto alla tutela della viabilità (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 23.07.2021 n. 2325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Natura del vincolo di inedificabilità previsto nella fascia di rispetto stradale.
---------------
Fascia di rispetto stradale – Vincolo di inedificabilità – Natura conformativa – Caratteristiche.
Il vincolo di inedificabilità previsto nella fascia di rispetto stradale non ha natura espropriativa, riguardando una generalità di beni e di soggetti ed avendo il solo effetto di conformare la proprietà in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dalla successiva eventuale attivazione di procedure espropriative.
L’inserimento nel piano urbanistico delle opere di viabilità, infatti, "pur comportando un vincolo di inedificabilità delle parti del territorio interessate, non concreta un vincolo preordinato ad esproprio, a meno che tale destinazione non sia assimilabile all'indicazione delle reti stradali all'interno e a servizio delle singole zone, di regola rimessa allo strumento di attuazione e, come tale, riconducibile a vincoli imposti a titolo particolare in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione lenticolare di un'opera pubblica, incidente su specifici beni".
Il vincolo introdotto dallo strumento urbanistico non può quindi essere qualificato come espropriativo, bensì come conformativo, atteso che "va attribuita natura non espropriativa, ma conformativa del diritto di proprietà sui suoli a tutti quei vincoli che non solo non siano esplicitamente preordinati all’esproprio in vista della realizzazione di un’opera pubblica, ma nemmeno si risolvano in una sostanziale ablazione dei suoli medesimi, consentendo al contrario la realizzazione di interventi da parte dei privati"
.
----------------
Con riferimento al secondo motivo, in ragione dell’infondatezza degli argomenti dedotti il Collegio ritiene di prescindere dallo scrutinio dell’eccezione di tardività sollevata dalla resistente amministrazione, peraltro riferibile solo alla tavola di Piano (T.01.PR-azzonamento) e non anche all’articolo 44.1.NTA, costituente previsione di carattere regolamentare.
Lo strumento urbanistico comunale ha indicato nelle cartografie dello strumento urbanistico il futuro tracciato stradale solo ove già esattamente localizzato. In particolare il PGT ha individuato, in conformità al Piano provinciale, la prevista tangenziale, ma non anche la viabilità complementare.
L’inserimento di alcune aree nel corridoio di salvaguardia implica una limitazione delle facoltà connesse alla proprietà finalizzata proprio ad impedire che nella fase di progettazione dell’opera pubblica possano essere rilasciati titoli edilizi incompatibili, che potrebbero aggravare il procedimento o i costi per la futura realizzazione dell’opera.
La giurisprudenza ha escluso peraltro che il vincolo di inedificabilità previsto nella fascia di rispetto stradale abbia natura espropriativa, riguardando una generalità di beni e di soggetti ed avendo il solo effetto di conformare la proprietà in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dalla successiva eventuale attivazione di procedure espropriative (Cons. Stato, Sez. IV n. 5113 del 27.09.2012).
L’inserimento nel piano urbanistico delle opere di viabilità, infatti, “pur comportando un vincolo di inedificabilità delle parti del territorio interessate, non concreta un vincolo preordinato ad esproprio, a meno che tale destinazione non sia assimilabile all'indicazione delle reti stradali all'interno e a servizio delle singole zone, di regola rimessa allo strumento di attuazione e, come tale, riconducibile a vincoli imposti a titolo particolare in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione lenticolare di un'opera pubblica, incidente su specifici beni (per tutte, cfr. Cass. civ., sez. I, 28.07.2010, n. 17677)” (TAR Toscana, Sez. I, 25.09.2012, n. 1555).
Il vincolo introdotto dallo strumento urbanistico non può quindi essere qualificato come espropriativo, bensì come conformativo, atteso che “va attribuita natura non espropriativa, ma conformativa del diritto di proprietà sui suoli a tutti quei vincoli che non solo non siano esplicitamente preordinati all’esproprio in vista della realizzazione di un’opera pubblica, ma nemmeno si risolvano in una sostanziale ablazione dei suoli medesimi, consentendo al contrario la realizzazione di interventi da parte dei privati (cfr. Cons. Stato sez. IV 07.04.2010 n. 1982)” (Cons. Stato, Sez. IV, 13.10.2017, n. 4748).
Pur imponendo limitazioni al diritto dominicale, l’inserimento nella fascia di salvaguardia non incide sulle facoltà di godimento del bene in modo così profondo da svuotarne o annullarne i contenuti e, quindi, non ha carattere ablatorio.
Va esclusa, quindi, la dedotta violazione del dettato costituzionale, atteso che “il contrasto con l’art. 42 della Carta costituzionale, (…) si può ravvisare solo nei casi in cui pur restando intatta la titolarità del diritto, quest'ultimo risulta annullato o menomato. Il problema si può porre, dunque, solo con riferimento a quelle limitazioni che la Corte ha individuato come tali da svuotare di contenuto il diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene tanto profondamente da renderlo inutilizzabile in rapporto alla destinazione inerente alla natura del bene stesso o determinando il venir meno o una penetrante incisione del suo valore di scambio. I ricorrenti, invece, sono proprietari di terreni a destinazione agricola, la cui conservazione è dagli stessi indicata come bene primario da perseguire e la presenza del vincolo di salvaguardia non ha mai precluso la possibilità di continuare la coltivazione o di apportare migliorie per favorirla, né è stato fornito alcun principio di prova che ne sia stato gravemente inciso il valore di scambio” (TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 21.06.2017, n. 838).
Né l’ulteriore indicazione contenuta nel provvedimento interinale di questo TAR, secondo cui “se però la situazione di blocco dell’utilizzazione delle aree dovesse prolungarsi indefinitamente, il vincolo assumerebbe carattere sostanzialmente espropriativo, e il ricorrente potrebbe opporsi al suo mantenimento, oppure chiedere la fissazione di un termine per il completamento della progettazione e l’esatta individuazione delle aree necessarie alla viabilità comunale” può essere assunta come parametro di legittimità degli atti qui avversati, come sostenuto da parte ricorrente, costituendo solo un’indicazione pro futuro, riferita all’approvazione del nuovo strumento urbanistico, all’eventuale reiterazione della disciplina qui contestata, e ai rimedi esperibili dal privato interessato.
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.06.2021 n. 574 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 26, comma 2, d.P.R. 16.12.1992 n. 495 (Regolamento di esecuzione e attuazione del nuovo codice della strada) prevede che fuori dai centri abitati le distanze dal confine stradale, da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle ricostruzioni conseguenti a demolizioni integrali o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possano essere inferiori a 20 m per le strade di tipo F.
È noto che, secondo la giurisprudenza, il vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale sia di inedificabilità assoluta, traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende non edificabili le aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale.
Ne consegue che, in difetto dell’atto di assenso da parte dell’ente proprietario della strada a beneficio della quale è stabilita la fascia di rispetto, nessuna edificazione è possibile e che, quindi, legittimamente il Comune, ai fini delle valutazioni di competenza per pronunciarsi sull’istanza di accertamento di conformità domandato dalla ricorrente, ha richiesto la produzione del nulla osta (nel caso di specie) della Provincia.
---------------

3.4.2 Invece, con riguardo alla necessità di produzione del nulla osta ai lavori da parte dell’Amministrazione provinciale, che deriva dal fatto che tutte le opere di cui parte ricorrente ha chiesto l’accertamento di conformità ricadono entro la fascia di rispetto stradale di m 20 dalla strada provinciale n. 187 Gricilli, si osserva quanto segue.
L’art. 26, comma 2, d.P.R. 16.12.1992 n. 495 (Regolamento di esecuzione e attuazione del nuovo codice della strada) prevede che fuori dai centri abitati le distanze dal confine stradale, da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle ricostruzioni conseguenti a demolizioni integrali o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possano essere inferiori a 20 m per le strade di tipo F, come è la s.p. 187 Gricilli.
È noto che, secondo la giurisprudenza, il vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale sia di inedificabilità assoluta, traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende non edificabili le aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale (Cons. Stato, sez. II, 24.06.2020 n. 4052; sez. IV, 13.06.2017 n. 2878; sez. IV, 27.01.2015 n. 347; sez. IV, 14.04.2010 n. 2076).
Ne consegue che, in difetto dell’atto di assenso da parte dell’ente proprietario della strada a beneficio della quale è stabilita la fascia di rispetto, nessuna edificazione è possibile e che, quindi, legittimamente il Comune di Priverno, ai fini delle valutazioni di competenza per pronunciarsi sull’istanza di accertamento di conformità domandato dalla ricorrente, ha richiesto la produzione del nulla osta della Provincia di Latina (TAR Lazio-Latina, sentenza 12.03.2021 n. 151 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende legalmente inedificabili.
Il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione, espressione del potere conformativo della P.A. di cui all’art. 42 Cost.
Detto vincolo non ha natura espropriativa, né è preordinato all’espropriazione, in base a quanto previsto dagli art. 32, comma 1, e 37, comma 4, del d.p.r. n. 327/2001, e l’indennità di esproprio relativa alla sola fascia di rispetto ablata deve, pertanto, calcolarsi secondo il valore di mercato di terreno non edificabile.
Il vincolo di inedificabilità discende dalla legge, che prevale sulla pianificazione e programmazione urbanistica, è sancito nell’interesse pubblico e non può, perciò, configurarsi come mero “vincolo di distanza”, dovendosi ritenere che l’area corrispondente alla fascia di rispetto, a prescindere dall’assoggettamento alla procedura espropriativa, non ha alcuna potenzialità edificatoria in virtù di disposizioni di legge, non derogabili dalla sotto-ordinata regolamentazione urbanistica, come è dato desumere anche dal tenore letterale dell’art. 37, comma 4, d.p.r. 327/2001.
---------------

In ordine alla nozione di «edificazione», questa Corte ha chiarito che tale concetto non si identifica né si esaurisce in quello di edificabilità residenziale abitativa, ma ricomprende tutte quelle forme di trasformazione del suolo che siano riconducibili alla nozione tecnica di edificazione.
Anche in quelle pronunce in cui si è ritenuto che la realizzazione di un parcheggio integri una forma di utilizzazione intermedia tra quella agricola e quella edificatoria, si è posto in evidenza la necessità che dette forme di utilizzazione siano assentite dalla normativa vigente, sia pure con il conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative.
La giurisprudenza amministrativa è ferma nel ritenere che lo spargimento di ghiaia su un'area che ne era in precedenza priva richiede la concessione edilizia allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso (circostanza questa che deve fondarsi su fatti positivamente accertati).
E' stata quindi riconosciuta «rilevanza urbanistica (anche) al solo spianamento di un terreno agricolo con riporto di sabbia e ghiaia, realizzato al fine di ottenere un piazzale per deposito e smistamento di autocarri».
In ambito penale, si è poi affermato che «in materia edilizia, ai sensi delle disposizioni di cui al T.U. in materia edilizia (artt. 3 e 10 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380), sono subordinati al preventivo rilascio del permesso di costruire non soltanto gli interventi edilizi in senso stretto, ma anche gli interventi che comportano la trasformazione in via permanente del suolo inedificato».

Deve quindi ritenersi che ai fini
della determinazione dell’ambito di estensione del divieto assoluto di edificazione, vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o autostradale, può rilevare anche un’attività di spianatura ed asfaltatura dell’area, prodromica alla realizzazione di parcheggi «a raso», implicante una trasformazione edilizia ed urbanistica del suolo.
---------------

3. La terza, la sesta e la settima censura, da trattare unitariamente in quanto connesse, sono fondate.
In ordine alla qualificazione giuridica della fascia di rispetto, secondo l'orientamento di questa Corte, il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione, espressione del potere conformativo della P.A. di cui all'art. 42 Cost. (tra le tante Cass. n. 14632/2018, n. 13516/2015 e n. 27114/2013).
Detto vincolo non ha natura espropriativa, né è preordinato all'espropriazione, in base a quanto previsto dagli art. 32, comma 1, e 37, comma 4, del d.p.r. n. 327/2001, e l'indennità di esproprio relativa alla sola fascia di rispetto ablata deve, pertanto, calcolarsi secondo il valore di mercato di terreno non edificabile (Cass. 14632/2018 e Cass. n. 5875/2015).
Questa Corte ha di recente ribadito (Cass. 13598/2020) che «il vincolo di inedificabilità discende dalla legge, che prevale sulla pianificazione e programmazione urbanistica, è sancito nell'interesse pubblico e non può, perciò, configurarsi come mero "vincolo di distanza" (sulla qualificazione della fascia di rispetto come vincolo di distanza Cons. Stato n. 2076/2010 e Cass. n. 25118/2018)», dovendosi ritenere che l'area corrispondente alla fascia di rispetto, a prescindere dall'assoggettamento alla procedura espropriativa, non ha alcuna potenzialità edificatoria in virtù di disposizioni di legge, non derogabili dalla sotto-ordinata regolamentazione urbanistica, come è dato desumere anche dal tenore letterale dell'art. 37, comma 4, d.p.r. 327/2001.
In ordine alla nozione di «edificazione», sempre questa Corte ha chiarito che tale concetto non si identifica né si esaurisce in quello di edificabilità residenziale abitativa, ma ricomprende tutte quelle forme di trasformazione del suolo che siano riconducibili alla nozione tecnica di edificazione (Cass. nn. 9669, 8028/2000; Cass. 4473/1999; Cass. SU 172/2001).
Anche in quelle pronunce in cui si è ritenuto che la realizzazione di un parcheggio integri una forma di utilizzazione intermedia tra quella agricola e quella edificatoria, si è posto in evidenza la necessità che dette forme di utilizzazione siano assentite dalla normativa vigente, sia pure con il conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative (Cass. 25718/2011; Cass. 23514/2017; Cass. 19295/2018; Cass. 6527/2019; Cass. SU 7454/2020, con riferimento ad utilizzazione per attrezzature sportive).
La giurisprudenza amministrativa (richiamata dal PG nelle conclusioni scritte) è ferma nel ritenere che lo spargimento di ghiaia su un'area che ne era in precedenza priva richiede la concessione edilizia allorché appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso (circostanza questa che deve fondarsi su fatti positivamente accertati) (v. anche: Cons. Stato, sez. VI, 12.06.2018, n. 3617; Cons. Stato, sez. V, 31.03.2016, n. 1268).
E' stata quindi riconosciuta «rilevanza urbanistica (anche) al solo spianamento di un terreno agricolo con riporto di sabbia e ghiaia, realizzato al fine di ottenere un piazzale per deposito e smistamento di autocarri» (TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 18.02.2019, n. 157).
In ambito penale, si è poi affermato che «in materia edilizia, ai sensi delle disposizioni di cui al T.U. in materia edilizia (artt. 3 e 10 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380), sono subordinati al preventivo rilascio del permesso di costruire non soltanto gli interventi edilizi in senso stretto, ma anche gli interventi che comportano la trasformazione in via permanente del suolo inedificato» (Cass. pen. 6930/2004: in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto integrato il reato edilizio nella trasformazione di un'area di circa mq. 70 da agricola a parcheggio per autovetture mediante la messa in opera di ghiaia; conf. Cass. pen. 4916/2014; Cass. pen. 1308/2016).
Deve quindi ritenersi che, ai fini della determinazione dell'ambito di estensione del divieto assoluto di edificazione, vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o autostradale, quale quella in oggetto, sottostante il viadotto, può rilevare anche un'attività di spianatura ed asfaltatura dell'area, prodromica alla realizzazione di parcheggi «a raso», implicante una trasformazione edilizia ed urbanistica del suolo.
Assumeva, pertanto, rilievo il fatto decisivo, il cui esame risulta omesso dalla Corte di merito, allegato da Autostrade, rappresentato dai lavori commissionati da Ar.Le. a terza Ditta di spianamento ed asfaltatura dell'area, stante il divieto legale derivante dalla fascia di rispetto autostradale (Corte di Cassazione, Sez. I civile, ordinanza 31.12.2020 n. 29983).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale o autostradale è di inedificabilità assoluta traducendosi in un divieto inderogabile di costruire, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale. Invero, “L’inedificabilità legale è sancita nell'interesse pubblico da apposite leggi -art. 41-septies L. n. 1150 del 1942 aggiunto dall'art. 19 della L. n. 765 del 1967; art. 9 L. n. 729 del 1961- e dai relativi regolamenti di attuazione -D.M. 01.04.1968".
Il divieto prescinde dalla programmazione urbanistica ed è correlato all'esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni: dunque, la proibizione non è finalizzata solamente a garantire la sicurezza del traffico ed eventuali ampliamenti della carreggiata, ma anche ad assicurare la disponibilità di una fascia di terreno da utilizzare per l'impianto dei cantieri, il deposito dei materiali e l'esecuzione di tutti i tipi di lavori che si rendessero necessari in relazione all'infrastruttura stradale.
Il vincolo –privo di natura espropriativa– rientra tra le limitazioni costituzionalmente legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione, espressione del potere conformativo della pubblica amministrazione di cui all'art. 42 della Costituzione.
La cornice legislativa di riferimento si rinviene nel Codice della Strada e nel Regolamento di esecuzione. L'ampiezza delle fasce è infatti specificamente disciplinata dal D.Lgs. 285/1992 (articoli 16, 17 e 18) e dal D.P.R. 495/1992 (articoli 26, 27 e 28), che pongono un divieto di edificabilità assoluta ed inderogabile nell’ambito della fascia di rispetto autostradale, per una distanza di 60 metri fuori dai centri abitati e di 30 metri all'interno di essi.  
---------------
Con riguardo all’art. 9 della L. 729/1961 <<la giurisprudenza si è pronunciata nel senso che la fascia di rispetto ivi prevista integrava un vincolo di inedificabilità assoluta, in quanto preordinato non solo a prevenire la presenza di ostacoli costituenti un possibile pregiudizio per la circolazione, ma anche ad assicurare la disponibilità di un'area contigua alla sede stradale all'occorrenza utilizzabile per un ampliamento della medesima.
Medesime considerazioni valgono anche con riferimento alla fascia di rispetto di 60 metri oggi prevista dal D.P.R. n. 495 del 1992 per le strade di tipo A, tenuto conto dell'identità di ratio e del fatto che la norma citata vieta all'interno di tale fascia di rispetto, qualsiasi nuova costruzione, ancorché nella forma di ampliamento di un fabbricato preesistente o di ricostruzione di edificio preesistente e integralmente demolito. Tale previsione che penalizza sinanche la demolizione seguita da fedele ricostruzione da cui si desume la volontà del legislatore di ritenere rispondente ad un interesse prioritario il mantenimento dell'area adiacente le autostrade sgombra da costruzioni idonee ad interferire con futuri ampliamenti della sede stradale ovvero a compromettere la sicurezza pubblica in caso di sinistri. Ciò depone indubitabilmente nel senso della natura assoluta del vincolo di inedificabilità imposto ex lege>>.
Va sul punto soggiunto che l’art. 16, comma 1, lett. b), del Codice della Strada inibisce testualmente, nelle fasce di rispetto, nuove costruzioni, ricostruzioni e ampliamenti di edificazioni di qualsiasi tipo e materiale.

---------------

I ricorrenti censurano gli atti assunti dal Comune di Ravenna (oltre al parere reso da Autostrade per l’Italia) che hanno disposto l’annullamento parziale del permesso di costruire e intimato il ripristino dello stato dei luoghi.
...
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
1. Osserva anzitutto il Collegio che, per consolidata giurisprudenza, il vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale o autostradale è di inedificabilità assoluta traducendosi in un divieto inderogabile di costruire, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale (Consiglio di Stato, sez. II – 12/02/2020 n. 1100, secondo il quale “L’inedificabilità legale è sancita nell'interesse pubblico da apposite leggi -art. 41-septies L. n. 1150 del 1942 aggiunto dall'art. 19 della L. n. 765 del 1967; art. 9 L. n. 729 del 1961- e dai relativi regolamenti di attuazione -D.M. 01.04.1968 (Cons. Stato, Sez. IV, 13.06.2017, n. 2878”).
Si veda, su quest’ultima riflessione, anche la pronuncia del Consiglio di Stato, sez. II – 31/01/2020 n. 815.
1.1 Il divieto prescinde dalla programmazione urbanistica ed è correlato all'esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni (TAR Lombardia-Milano, sez. I – 22/07/2020 n. 1415): dunque, la proibizione non è finalizzata solamente a garantire la sicurezza del traffico ed eventuali ampliamenti della carreggiata, ma anche ad assicurare la disponibilità di una fascia di terreno da utilizzare per l'impianto dei cantieri, il deposito dei materiali e l'esecuzione di tutti i tipi di lavori che si rendessero necessari in relazione all'infrastruttura stradale (TAR Liguria, sez. I – 03/06/2019 n. 504; C.G.A. Sicilia – 21/01/2019 n. 48; Consiglio di Stato, sez. IV – 04/02/2014 n. 485; TAR Lazio-Roma, sez. II-quater – 07/04/2020 n. 3809).
1.2 Il vincolo –privo di natura espropriativa– rientra tra le limitazioni costituzionalmente legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione, espressione del potere conformativo della pubblica amministrazione di cui all'art. 42 della Costituzione (Corte di Cassazione, sez. I civile – 30/06/2020 n. 13203 e l’ampia giurisprudenza di legittimità evocata).
1.3 La cornice legislativa di riferimento si rinviene nel Codice della Strada e nel Regolamento di esecuzione. L'ampiezza delle fasce è infatti specificamente disciplinata dal D.Lgs. 285/1992 (articoli 16, 17 e 18) e dal D.P.R. 495/1992 (articoli 26, 27 e 28), che pongono un divieto di edificabilità assoluta ed inderogabile nell’ambito della fascia di rispetto autostradale, per una distanza di 60 metri fuori dai centri abitati e di 30 metri all'interno di essi.  
...
4. Non è neppure condivisibile l’affermazione della derogabilità della fascia di protezione del nastro autostradale.
Con riguardo all’art. 9 della L. 729/1961 –invocato dalla parte ricorrente– il TAR Abruzzo Pescara (cfr. sentenza 23/07/2018 n. 252, che non risulta appellata) ha statuito che <<la giurisprudenza si è pronunciata nel senso che la fascia di rispetto ivi prevista integrava un vincolo di inedificabilità assoluta, in quanto preordinato non solo a prevenire la presenza di ostacoli costituenti un possibile pregiudizio per la circolazione, ma anche ad assicurare la disponibilità di un'area contigua alla sede stradale all'occorrenza utilizzabile per un ampliamento della medesima (cfr Tar Liguria, sez. I n. 276/2015; Tar Palermo sez. II n. 34/2015).
Medesime considerazioni valgono anche con riferimento alla fascia di rispetto di 60 metri oggi prevista dal D.P.R. n. 495 del 1992 per le strade di tipo A, tenuto conto dell'identità di ratio e del fatto che la norma citata vieta all'interno di tale fascia di rispetto, qualsiasi nuova costruzione, ancorché nella forma di ampliamento di un fabbricato preesistente o di ricostruzione di edificio preesistente e integralmente demolito. Tale previsione che penalizza sinanche la demolizione seguita da fedele ricostruzione da cui si desume la volontà del legislatore di ritenere rispondente ad un interesse prioritario il mantenimento dell'area adiacente le autostrade sgombra da costruzioni idonee ad interferire con futuri ampliamenti della sede stradale ovvero a compromettere la sicurezza pubblica in caso di sinistri. Ciò depone indubitabilmente nel senso della natura assoluta del vincolo di inedificabilità imposto ex lege
>>.
Va sul punto soggiunto che l’art. 16, comma 1, lett. b), del Codice della Strada inibisce testualmente, nelle fasce di rispetto, nuove costruzioni, ricostruzioni e ampliamenti di edificazioni di qualsiasi tipo e materiale.
5. Anche ammettendo che la zona di cui si discorre sia al di fuori del Centro abitato, il divieto assume natura inderogabile.
In ogni caso, anche aderendo alla prospettazione di parte ricorrente, l’art. 9, comma 2, della L. 729/1961 così recita: “Le distanze di cui al comma precedente possono essere ridotte per determinati tratti ove particolari circostanze lo consiglino, con provvedimento del Ministro per i lavori pubblici, presidente dell'A.N.A.S., su richiesta degli interessati e sentito il Consiglio di amministrazione dell'A.N.A.S.”.
Applicando le regole per tempo vigenti, l’Ente gestore della strada (ASPI) sarebbe chiamato a formulare il parere di competenza, che ha già emesso in senso sfavorevole: in buona sostanza, in data 15/04/2013 ha già compiuto una valutazione (negativa) quale autorità preposta alla cura dell’interesse pubblico al corretto assetto viabilistico.
ASPI ha richiamato la circolare ANAS del 29/07/2010, mentre la circolare 82481/2011 –invocata dai ricorrenti– ammette nella fascia di rispetto l’istallazione e la manutenzione di sotto-servizi (acquedotti, fognature, linee di comunicazioni, gasdotti, metanodotti, etc.), ossia di opere che non costituiscono edificazione
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 29.10.2020 n. 689 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE - URBANISTICAIn ordine alla qualificazione giuridica della fascia di rispetto, il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione, espressione del potere conformativo della P.A. di cui all'art. 42 Cost..
Detto vincolo non ha natura espropriativa, né è preordinato all'espropriazione, in base a quanto previsto dagli art. 32, comma 1, e 37, comma 4, del d.p.r. n. 327/2001, e l'indennità di esproprio relativa alla sola fascia di rispetto ablata deve, pertanto, calcolarsi secondo il valore di mercato di terreno non edificabile.
---------------
Deve escludersi qualsiasi incidenza dell'area corrispondente alla fascia di rispetto ablata sulla determinazione della volumetria edificabile del lotto in cui è compresa.
Il vincolo di inedificabilità discende dalla legge, che prevale sulla pianificazione e programmazione urbanistica, è sancito nell'interesse pubblico e non può, perciò, configurarsi come mero "vincolo di distanza".
La connotazione di inedificabilità, che caratterizza ineludibilmente, anche in base alle citate norme del T.U.E., la fascia di rispetto prima dell'assoggettamento alla procedura ablatoria, osta a che se ne possa tenere conto senza quella connotazione ai fini del computo della volumetria edificabile, in unione con la parte non ablata, secondo la disciplina urbanistica, che è sotto-ordinata gerarchicamente alla legge, fonte del vincolo.
Non è, pertanto, condivisibile l'indirizzo, a cui si sono attenuti i Giudici di merito (Cass. n. 5875/2012; Cass. n. 13970/2011), in base al quale anche la superficie della fascia di rispetto deve computarsi nell'individuazione della volumetria edificabile del lotto unitario, in quanto non vi sarebbe interferenza o contrasto tra la qualificazione legale del vincolo e la valutazione dello stesso ai fini urbanistici.
Deve, invece, ritenersi preclusa ogni difformità della seconda rispetto alla prima, e ciò in quanto l'area corrispondente alla fascia di rispetto, a prescindere dall'assoggettamento alla procedura espropriativa, non ha alcuna potenzialità edificatoria in virtù di disposizioni di legge, non derogabili dalla sotto-ordinata regolamentazione urbanistica, come è dato desumere anche dal tenore letterale dell'art. 37, comma 4, d.p.r. 327/2001.
---------------
In tema di determinazione dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità, lo spostamento della fascia di rispetto autostradale all’interno dell’area residua rimasta in proprietà degli espropriati, pur traducendosi in un vincolo assoluto di inedificabilità, di per sé non indennizzabile, può rilevare nella determinazione dell’indennizzo dovuto al privato, in applicazione estensiva dell’art.33 d.p.r. n. 327 /2001, per il deprezzamento dell’area residua mediante il computo delle singole perdite ad essa inerenti, qualora risultino alterate le possibilità di utilizzo della stessa ed anche per la perdita di capacità edificatoria realizzabile sulle più ridotte superfici rimaste in proprietà.
Il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione, espressione del potere conformativo della P.A. di cui all’art. 42 Cost.
La connotazione di inedificabilità, che caratterizza ineludibilmente, anche in base alle citate norme del T.U. Espropriazioni, la fascia di rispetto prima dell’assoggettamento alla procedura ablatoria, osta a che se ne possa tenere conto senza quella qualità ai fini del computo della volumetria edificabile, in unione con la parte non ablata, secondo la disciplina urbanistica, che è sottordinata gerarchicamente alla legge, fonte del vincolo.
Nell’ipotesi di spostamento della fascia di rispetto all’interno dell’area residua di proprietà, concettualmente distinta dall’altra già considerata (ablazione della fascia di rispetto), la corrispondente porzione del bene è edificabile prima dell’imposizione sulla stessa del vincolo legale di inedificabilità conseguente dall’ablazione della fascia di rispetto, mentre diviene inedificabile solo dopo l’esproprio dell’originaria fascia di rispetto, così producendosi, per la “nuova” fascia di rispetto che resta in proprietà, la perdita, e quindi la sostanziale ablazione, di un diritto diverso da quello di proprietà, ossia del diritto di costruire.
Ove si verifichi detta situazione, poiché deve aversi riguardo alla consistenza dell’area ante procedura espropriativa e, in allora, non esisteva il vincolo di inedificabilità su quella porzione di bene, non può assumere rilevanza l’inedificabilità successiva della stessa ai fini dell’applicazione dell’art. 33 d.p.r. n. 327/2001.
Dunque, l’edificabilità originaria di quella porzione consente di valutarne la volumetria edificatoria realizzabile in unione con l’altra parte residua, rimasta in proprietà degli espropriati, così come, peraltro, rimane in proprietà anche la nuova fascia di rispetto
(massima tratta da www.sdanganelli.it).
---------------

1. Con il primo motivo la società ricorrente lamenta «Violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Violazione degli artt. 32, 33, 37 e 40 d.p.r. n. 327/2001 del d.p.r. 495/1992 art. 26 del d.lgs. n. 285/1992 art. 6- dell'art. 41-septies l. n. 1150/1941, aggiunto dall'art. 19 l. n. 765/1967 - art. 9 l. n. 729/1961 - D.M. 01.04.1968 art. 4».
La ricorrente deduce che la natura giuridica della fascia di rispetto comporta l'inedificabilità assoluta, come da giurisprudenza di questa Corte che richiama, e di conseguenza trova applicazione l'art. 40 TUE, e non l'art. 33. Sostiene che l'area in fascia di rispetto non possa concorrere al calcolo della superficie edificabile e l'indennità di espropriazione deve liquidarsi in base al valore agricolo del terreno, senza che rilevi il trasferimento della relativa volumetria.
Adduce la ricorrente che la disciplina non può essere derogata dagli strumenti generali di pianificazione e il deprezzamento della parte residua non può essere preso in considerazione perché la fascia di rispetto è un vincolo legale conformativo che cagiona un pregiudizio non indennizzabile. La disposizione legislativa precede e prevale sugli strumenti generali di pianificazione del territorio e la Corte territoriale avrebbe dovuto preliminarmente accertare se la destinazione edificatoria fosse preclusa dalle norme di legge citate in rubrica.
...
6. Il primo motivo è fondato nei limiti di seguito precisati.
Occorre premettere che le articolate censure espresse con il primo motivo di ricorso involgono questioni di diritto in ordine alle quali il Collegio ritiene di disattendere l'istanza dei controricorrenti di rimessione alle Sezioni Unite, trattandosi di tematiche che, pur presentando profili di indubbio rilievo nomofilattico, possono essere decise dalla Sezione semplice mediante interpretazione del contesto normativa in via estensiva e chiarificatrice di principi già affermati da questa Corte, nel senso che sarà illustrato.
Le questioni sottoposte allo scrutinio di questa Corte possono così sintetizzarsi:
   A) qualificazione giuridica della fascia di rispetto e correlata incidenza, in ipotesi di sua ablazione, sul criterio di determinazione dell'indennità di espropriazione e sull'individuazione della volumetria edificabile, ante assoggettamento alla procedura di espropriazione, dell'originario lotto unitario;
   B) rilevanza, in ordine all'individuazione della medesima volumetria edificabile, del solo "spostamento" della fascia di rispetto, nell'ipotesi in cui il vincolo, in conseguenza dell'espropriazione parziale, si sia spostato sull'area contigua, rimasta in proprietà dell'espropriato, venutasi a trovare per effetto dell'espropriazione all'interno della fascia di rispetto, nella quale in precedenza non rientrava.
6.1. In ordine alla qualificazione giuridica della fascia di rispetto, secondo l'orientamento di questa Corte che il Collegio ritiene di condividere, il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto stradale o autostradale comporta un divieto assoluto di edificazione che le rende legalmente inedificabili, trattandosi di limitazioni costituzionalmente legittime, in quanto concernenti la generalità dei cittadini proprietari di determinati beni individuati a priori per categoria e localizzazione, espressione del potere conformativo della P.A. di cui all'art. 42 Cost. (tra le tante Cass. n. 14632/2018, n. 13516/2015 e n. 27114/2013).
Detto vincolo non ha natura espropriativa, né è preordinato all'espropriazione, in base a quanto previsto dagli art. 32, comma 1, e 37, comma 4, del d.p.r. n. 327/2001, e l'indennità di esproprio relativa alla sola fascia di rispetto ablata deve, pertanto, calcolarsi secondo il valore di mercato di terreno non edificabile (Cass. 14632/2018 e Cass. n. 5875/2015).
6.2. In ordine alle tematiche, più controverse, che presuppongono la sussistenza, accertata nella specie dalla Corte territoriale, dell'esproprio parziale di bene unitario ai sensi dell'art. 33 d.p.r. n. 327 /2001, ritiene il Collegio che sia condivisibile l'orientamento secondo cui deve escludersi qualsiasi incidenza dell'area corrispondente alla fascia di rispetto ablata sulla determinazione della volumetria edificabile del lotto in cui è compresa (tra le altre Cass. n. 8121/2009 e Cass. n. 26899/2008).
Il vincolo di inedificabilità discende dalla legge, che prevale sulla pianificazione e programmazione urbanistica, è sancito nell'interesse pubblico e non può, perciò, configurarsi come mero "vincolo di distanza" (sulla qualificazione della fascia di rispetto come vincolo di distanza cfr. Cons. Stato n. 2076/2010 e Cass. n. 25118/2018).
La connotazione di inedificabilità, che caratterizza ineludibilmente, anche in base alle citate norme del T.U.E., la fascia di rispetto prima dell'assoggettamento alla procedura ablatoria, osta a che se ne possa tenere conto senza quella connotazione ai fini del computo della volumetria edificabile, in unione con la parte non ablata, secondo la disciplina urbanistica, che è sotto-ordinata gerarchicamente alla legge, fonte del vincolo.
Non è, pertanto, condivisibile l'indirizzo, a cui si sono attenuti i Giudici di merito (Cass. n. 5875/2012; Cass. n. 13970/2011), in base al quale anche la superficie della fascia di rispetto deve computarsi nell'individuazione della volumetria edificabile del lotto unitario, in quanto non vi sarebbe interferenza o contrasto tra la qualificazione legale del vincolo e la valutazione dello stesso ai fini urbanistici.
Deve, invece, ritenersi preclusa ogni difformità della seconda rispetto alla prima, e ciò in quanto l'area corrispondente alla fascia di rispetto, a prescindere dall'assoggettamento alla procedura espropriativa, non ha alcuna potenzialità edificatoria in virtù di disposizioni di legge, non derogabili dalla sotto-ordinata regolamentazione urbanistica, come è dato desumere anche dal tenore letterale dell'art. 37, comma 4, d.p.r. 327/2001.
6.3. A diversa conclusione si deve pervenire nell'ipotesi di spostamento della fascia di rispetto all'interno dell'area residua di proprietà, dovendosi rimarcare la sua dirimente distinzione dall'altra già considerata (ablazione della fascia di rispetto).
Infatti, in ipotesi di spostamento, la corrispondente porzione del bene è edificabile prima dell'imposizione sulla stessa del vincolo legale di inedificabilità conseguente dall'ablazione della fascia di rispetto, mentre diviene inedificabile solo dopo l'esproprio dell'originaria fascia di rispetto, così producendosi, per la "nuova" fascia di rispetto che resta in proprietà, la perdita, e quindi la sostanziale ablazione, di un diritto diverso da quello di proprietà, ossia del diritto di costruire.
In altri termini, come chiarito da questa Corte in precedenti pronunce (Cass. n. 5875/2012 e Cass. n. 23210/2012), il vincolo, in conseguenza dell'espropriazione, può essersi spostato sull'area contigua, rimasta in proprietà del privato, venutasi a trovare per effetto dell'espropriazione all'interno della fascia di rispetto, nella quale in precedenza non rientrava (Cass. n. 13970/2011; n. 6518/2007; n. 14643/2001). Ove si verifichi detta situazione, poiché deve aversi riguardo alla consistenza dell'area ante procedura espropriativa e, in allora, non esisteva il vincolo di inedificabilità su quella porzione di bene, non può assumere rilevanza l'inedificabilità successiva della stessa ai fini dell'applicazione dell'art. 33 d.p.r. n. 327/2001.
Dunque, l'edificabilità originaria di quella porzione consente di valutarne la volumetria edificatoria realizzabile in unione con l'altra parte residua, rimasta in proprietà degli espropriati, così come, peraltro, rimane in proprietà anche la "nuova" fascia di rispetto. Negare rilevanza, nel senso indicato, alla descritta situazione si porrebbe in contrasto con i principi costantemente affermati da questa Corte in tema di espropriazioni per pubblica utilità, anche alla luce delle pronunce della Corte Costituzionale (sentenze n. 348/2007, n. 349/2007 e 181/2011) e della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, secondo i quali non solo il sistema indennitario deve ritenersi improntato al riconoscimento del valore venale del bene ablato, ma l'indennizzo dovuto al proprietario, in base alla disciplina dettata dal citato art. 33, riguarda anche la compromissione o l'alterazione delle possibilità di utilizzazione della restante porzione del bene rimasta nella disponibilità del proprietario stesso, in tutti i casi in cui il distacco di una parte del fondo e l'esecuzione dell'opera pubblica influiscano negativamente sulla proprietà residua, in modo da compensare il pregiudizio arrecato dall'ablazione ad essa (tra le tante Cass. n. 34745/2019).
Con riguardo a detti principi deve orientarsi l'interpretazione dell'art. 33 nella fattispecie in esame, la cui peculiarità risiede nel collegamento funzionale con una parte del fondo non espropriata, ma assoggettata, in diretta dipendenza dall'ablazione della fascia di rispetto, a vincolo assoluto di inedificabilità, e, quindi, alla perdita del diritto di costruire, pur nella permanenza del diritto di proprietà.
In tale ottica interpretativa, può darsi rilevanza, ai fini della configurabilità dell'esproprio parziale, a quel collegamento, a sua volta direttamente funzionale all'espropriazione della proprietà dell'area già in precedenza vincolata in quanto fascia di rispetto. Il fondamento normativa di suddetta ricostruzione si può rinvenire nell'art. 32, comma 1, citato d.p.r., che prescrive di tener conto, nella determinazione del valore del bene ai fini indennitari, anche dell'espropriazione di un diritto diverso da quello di proprietà, e a detta espropriazione è assimilabile l'ipotesi che si sta scrutinando, in cui il proprietario ha perso il diritto di costruire sulla porzione del fondo corrispondente alla "nuova" fascia di rispetto.
In base a detta opzione ermeneutica, estensiva nei termini consentiti dalla specificità del caso, il privato potrà ottenere il deprezzamento dell'area residua non ablata commisurato alla reale perdita o diminuzione di capacità edificatoria di essa.
Detto risultato può essere, infatti, raggiunto, in termini di effettività, solo se la valutazione della capacità edificatoria, da effettuarsi mediante comparazione delle caratteristiche del bene unitario ante e post procedura espropriativa, comprenda, nella ricostruzione della situazione ante procedura ablatoria, l'area della "nuova" fascia di rispetto originariamente edificabile, determinandosi, diversamente opinando, ingiustificata disparità di trattamento rispetto a situazioni con caratteristiche iniziali identiche, quanto alla pregressa destinazione urbanistica dell'area che, all'esito dell'espropriazione, rimane in proprietà.
Resta da precisare, sempre in ragione della specificità del caso, che il criterio di stima differenziale, che comporta la sottrazione all'iniziale valore dell'intero immobile quello della parte rimasta in capo al privato, non è vincolante e può essere sostituito dal criterio che procede al calcolo del deprezzamento della sola parte residua, per poi aggiungerlo alla somma liquidata per la parte espropriata, purché si raggiunga il medesimo risultato di compensare l'intero pregiudizio arrecato dall'ablazione alla proprietà residua (da ultimo Cass. n. 25385/2019 e n. 34745/2019).
Nella specie, poiché la perdita del diritto di costruire sull'area residua corrispondente alla "nuova" fascia di rispetto non è indennizzabile, il giudice di merito potrà accertare e calcolare la diminuzione di valore dell'area residua rimasta in proprietà a seguito dell'avanzamento della fascia di rispetto mediante il computo delle singole perdite ad essa inerenti (Cass. n. 24304/2011).
In altri termini, l'indennizzo eventualmente spettante al proprietario per la perdita di valore dell'area residua dovrà essere calcolato in relazione alla più limitata capacità edificatoria consentita sulla più ridotta superficie rimasta a seguito della creazione o dell'avanzamento della fascia di rispetto (Cass. n. 7195 del 2013).
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, il primo motivo va accolto nei limiti indicati, con la cassazione dell'ordinanza impugnata, e i Giudici di merito dovranno attenersi al principio di diritto secondo il quale, in tema di determinazione dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità, lo spostamento della fascia di rispetto autostradale all'interno dell'area residua rimasta in proprietà degli espropriati, pur traducendosi in un vincolo assoluto di inedificabilità, di per sé non indennizzabile, può rilevare nella determinazione dell'indennizzo dovuto al privato, in applicazione estensiva dell'art. 33 d.p.r. n. 327 /2001, per il deprezzamento dell'area residua mediante il computo delle singole perdite ad essa inerenti, qualora risultino alterate le possibilità di utilizzo della stessa ed anche per la perdita di capacità edificatoria realizzabile sulle più ridotte superfici rimaste in proprietà (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 30.06.2020 n. 13203).

EDILIZIA PRIVATA: La fascia di rispetto autostradale pone un divieto assoluto di edificabilità, da applicare sia alle nuove costruzioni, sia alle ricostruzioni a seguito di demolizione, sia agli ampliamenti di edifici fronteggianti le strade di tipo A.
Norme vigenti del Codice della Strada e del Regolamento di attuazione pongono un divieto di edificabilità assoluta ed inderogabile nell’ambito della fascia di rispetto autostradale per una distanza di mt. 60 fuori dai centri abitati e mt. 30 all’interno dei centri abitati oppure nelle aree edificabili fuori (art. 16 seg. D.Lgs. 285/1992 e art. 26 seg. DPR 495/1992).
Tale distanza minima è volta ad assicurare il prioritario interesse pubblico alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone oltre ad assicurare l'esecuzione di lavori di manutenzione, la realizzazione di opere accessorie e di ampliamento della sede stradale che sarebbero impediti dalla presenza di edificazioni e/o manufatti prossimi alla sede stradale; per tali motivi la normativa in materia impone delle distanze minime non derogabili tra le costruzioni e le strade, cd. fasce di rispetto, che devono rimanere inedificate a prescindere dall’effettivo pericolo ai beni giuridici protetti nello specifico caso in esame (vedi, tra tante, Cons, Stato, sez, IV, n. 22076/2010 e 4719/2008 ove si rappresentano gli inconvenienti degli insediamenti edilizi spontaneamente sorti a ridosso delle sedi stradali con danno sia dell’interesse pubblico alla sicurezza della circolazione ed alla agibilità dell’area adiacente, ma anche i costi a carico del pubblico erario per l’installazione di barriere acustiche, antisfondamento, mezzi di mitigazione visiva ed ambientale, etc.).
Si tratta di limiti che si applicano sia alle nuove costruzioni, sia alle ricostruzioni a seguito di demolizione, sia agli ampliamenti di edifici fronteggianti le strade di tipo A (autostrade di qualunque tipo).
---------------

... per l'annullamento:
quanto al ricorso n. 4500 del 2017:
   - della Determinazione Dirigenziale n. prot. 4637 del 28/02/2017 di diniego della domanda di condono edilizio prot. n. 6417 del 15/04/2004 – pratica di sanatoria n. 138;
   - della Deliberazione della Giunta Regionale del Lazio del 25.07.2007 n. 556 di adozione del Piano Territoriale Paesistico Regionale, nonché della Deliberazione sempre della Giunta Regionale del Lazio del 21.12.2007 n. 1025 di modificazione, integrazione e rettifica della delibera n. 556/2007;
quanto al ricorso n. 10821 del 2017:
   - della Determinazione Dirigenziale n. prot. 15629 del 03/07/2017 di diniego della domanda di condono edilizio prot. n. 6417 del 15/04/2004 – pratica di sanatoria n. 138;
   - della Deliberazione della Giunta Regionale del Lazio del 25.07.2007 n. 556 di adozione del Piano Territoriale Paesistico Regionale, nonché della Deliberazione sempre della Giunta Regionale del Lazio del 21.12.2007 n. 1025 di modificazione, integrazione e rettifica della delibera n. 556/2007.
...
Il Collegio ritiene di invertire l’ordine dei motivi di ricorso, per comodità espositiva, iniziando l’esame da quello che tende a contestare il vincolo già esistente sull’area in questione al momento della commissione dell’abuso.
Con il quarto motivo il ricorrente contesta che nel provvedimento impugnato vengono richiamate anche norme non più in vigore (legge n. 729 del 24/07/1961 e DM n. 1404 del 01/04/1968), che non sono specificate le norme del vigente Codice della Strada (D.Lgs. 285/1992 s.m.i.) e relativo Regolamento di esecuzione (DPR 495/1992) applicate, che non si tiene conto della richiesta inoltrata all’ANAS dal ricorrente né del fatto che sulla fascia di rispetto vi sono già altre costruzioni.
Il rilievo è pretestuoso in quanto il contestato richiamo non ha alcuna influenza nell’iter logico-giuridico seguito dall’Amministrazione, che non ha fatto erronea applicazione di norme abrogate, ma di norme vigenti del Codice della Strada e del Regolamento di attuazione –agevolmente individuabili e non fraintese nel loro contenuto dispositivo- che pongono un divieto di edificabilità assoluta ed inderogabile nell’ambito della fascia di rispetto autostradale per una distanza di mt. 60 fuori dai centri abitati e mt. 30 all’interno dei centri abitati oppure nelle aree edificabili fuori (art. 16 seg. D.Lgs. 285/1992 e art. 26 seg. DPR 495/1992).
Come chiarito dall’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, tale distanza minima è volta ad assicurare il prioritario interesse pubblico alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone oltre ad assicurare l'esecuzione di lavori di manutenzione, la realizzazione di opere accessorie e di ampliamento della sede stradale che sarebbero impediti dalla presenza di edificazioni e/o manufatti prossimi alla sede stradale; per tali motivi la normativa in materia impone delle distanze minime non derogabili tra le costruzioni e le strade, cd. fasce di rispetto, che devono rimanere inedificate a prescindere dall’effettivo pericolo ai beni giuridici protetti nello specifico caso in esame (vedi, tra tante, Cons, Stato, sez, IV, n. 22076/2010 e 4719/2008 ove si rappresentano gli inconvenienti degli insediamenti edilizi spontaneamente sorti a ridosso delle sedi stradali con danno sia dell’interesse pubblico alla sicurezza della circolazione ed alla agibilità dell’area adiacente, ma anche i costi a carico del pubblico erario per l’installazione di barriere acustiche, antisfondamento, mezzi di mitigazione visiva ed ambientale, etc.).
Si tratta di limiti che si applicano sia alle nuove costruzioni, sia alle ricostruzioni a seguito di demolizione, sia agli ampliamenti di edifici fronteggianti le strade di tipo A (autostrade di qualunque tipo).
È pacifico che l’immobile in contestazione, realizzato previa demolizione del preesistente pollaio e ricostruzione dislocata ed ampliata, si trova all’interno della predetta fascia di rispetto (risultante dai certificati di destinazione urbanistica del 1998 e del 2002).
Ne consegue che il diniego di sanatoria sancito con il provvedimento impugnato risulta immune dai vizi dedotti e che il motivo ostativo in parola precluda definitivamente la possibilità di condonare l’abuso, dato che il vincolo in parola, apposto prima della realizzazione dell’abuso non ne consente la sanatoria, ai sensi dell’art. 33 della legge n. 47/1985 (l’art. 32 limita la possibilità di sanatoria solo al caso di vincolo successivo ed a condizione che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico), richiamato dalla legge n. 326/2003 (vedi, da ultimo, Cons. St., sez. VI, n. 6614/2019; sez. IV n. 1225/2017).
Non giova al ricorrente invocare circostanze successive, quali l’aver presentato all’Ufficio Tecnico delle Autostrade per l’Italia-Direzione V tronco, una richiesta di nulla osta in deroga in data 26.09.2017, in corso di esame, dato che tale fatto non vale ad inficiare il provvedimento impugnato, la cui legittimità va valutata alla stregua delle circostanze di fatto e di diritto esistenti al momento della sua adozione.
Né il vulnus dell’abuso commesso viene eliminato dalla realizzazione di altre costruzioni nella medesima area che, ove edificate abusivamente all’interno della fascia di rispetto stradale, già esistente prima della sua realizzazione, in violazione di un vincolo di inedificabilità totale e assoluto, più che giustificare la tolleranza dell’abuso commesso del ricorrente potrebbero semmai giustificare l’adozione di ulteriori misure di ripristino e sanzionatorie da parte dell’Amministrazione.
In conclusione, anche ritenendo superato il vincolo sismico (anch’esso esistente al momento della realizzazione dell’abuso (come riportato nei certificati di destinazione urbanistica del 1998 e del 2002) -per il quale il ricorrente ha ottenuto il certificato di idoneità sismica in data 12/11/2007– l’istanza di sanatoria resta comunque inaccoglibile per violazione delle distanze a protezione della sede autostradale (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 07.04.2020 n. 3809 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer la consolidata giurisprudenza, il vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale o autostradale è di inedificabilità assoluta traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende inedificabili le aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale. Il vincolo derivante dalla fascia di rispetto si traduce in un divieto di edificazione che rende le aree medesime legalmente inedificabili, trattandosi di vincolo di inedificabilità che è sancito nell’interesse pubblico da apposite leggi -art. 41-septies L. n. 1150 del 1942 aggiunto dall’art. 19 della L. n. 765 del 1967; art. 9 L. n. 729 del 1961- e dai relativi regolamenti di attuazione -D.M. 01.04.1968.
Il divieto di edificazione sancito dall’art. 4, D.M. 01.04.1968 non può essere inteso restrittivamente, cioè al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse generale, e, cioè, per esempio, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza di costruzioni.
Pertanto, in caso di opera realizzata dopo l’imposizione del vincolo di assoluta inedificabilità previsto dal D.M. n. 1404 del 1968 si ricade nell’ipotesi di cui all’art. 33, comma 1, della L. n. 47 del 1985, con la conseguenza della non sanabilità dell’opera abusiva, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto. Solo quindi, in caso di opere abusive realizzate prima dell’imposizione del vincolo, si può applicare l’ipotesi dell’art. 32, dovendosi ammettere solo in tal caso la possibilità di sanatoria, previa acquisizione del parere previsto dall’art. 32, comma 4, lettera c), con riferimento alla sicurezza del traffico.

---------------

L’appello è infondato.
L’art. 32 della legge 28.02.1985, n. 47, applicabile anche alle domande di condono presentate ai sensi della legge n. 724 del 1994, in forza del richiamo operato dall’art. 39 di detta legge, subordina il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso, “salve le fattispecie previste dall’articolo 33”.
In base al comma 2 del medesimo art. 32 “Sono suscettibili di sanatoria, alle condizioni sotto indicate, le opere insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione e che risultino:
   a) in difformità dalla legge 02.02.1974, n. 64, e successive modificazioni, e dal D.P.R. 06.06.2001, n. 380, quando possano essere collaudate secondo il disposto del quarto comma dell’articolo 35;
   b) in contrasto con le norme urbanistiche che prevedono la destinazione ad edifici pubblici od a spazi pubblici, purché non in contrasto con le previsioni delle varianti di recupero di cui al capo III;
   c) in contrasto con le norme del decreto ministeriale 01.04.1968, n. 1404, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 13.04.1968, e con agli articoli 16, 17 e 18 della legge 13.06.1991, n. 190, e successive modificazioni, sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico.
3. Qualora non si verifichino le condizioni di cui al comma 2, si applicano le disposizioni dell’art. 33
”.
Ai sensi dell’art. 33 della legge 28.02.1985, n. 47, non sono suscettibili di sanatoria le opere in contrasto con i seguenti vincoli “qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse:
   a) vincoli imposti da leggi statali e regionali nonché dagli strumenti urbanistici a tutela di interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici;
   b) vincoli imposti da norme statali e regionali a difesa delle coste marine, lacuali e fluviali;
   c) vincoli imposti a tutela di interessi della difesa militare e della sicurezza interna;
   d) ogni altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree
”.
Nel caso di specie, l’area in cui sono poste le opere è soggetta a vincolo di inedificabilità per la fascia di rispetto autostradale, ai sensi del D.M. 01.04.1968, n. 1404.
L’art. 4 di tale decreto ministeriale indica le distanze da osservarsi nella edificazione a partire dal ciglio della strada e da misurarsi in proiezione orizzontale, tra cui per la strade di tipo A la distanza di metri 60,00.
In base all’art. 3 sono strade di tipo A: le autostrade di qualunque tipo; i raccordi autostradali riconosciuti quali autostrade ed aste di accesso fra le autostrade e la rete viaria della zona.
Tale vincolo della fascia di rispetto stradale è stato quindi posto dal detto decreto ministeriale anche prima della realizzazione dell’opera, che nella domanda di condono e anche negli scritti difensivi è indicata nell’anno 1985.
Ne deriva che il vincolo in questione, in quanto posto prima della realizzazione delle opere, è un vincolo di inedificabilità assoluta, disciplinato dall’art. 33 della legge n. 47 del 1985, che impedisce il rilascio del condono, indipendentemente dalla richiesta di parere all’autorità preposta alla tutela del vincolo.
Per la consolidata giurisprudenza, infatti, il vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale o autostradale è di inedificabilità assoluta traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende inedificabili le aree site nella fascia di rispetto, indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale. Il vincolo derivante dalla fascia di rispetto si traduce in un divieto di edificazione che rende le aree medesime legalmente inedificabili, trattandosi di vincolo di inedificabilità che è sancito nell’interesse pubblico da apposite leggi -art. 41-septies L. n. 1150 del 1942 aggiunto dall’art. 19 della L. n. 765 del 1967; art. 9 L. n. 729 del 1961- e dai relativi regolamenti di attuazione -D.M. 01.04.1968 (Cons. Stato, Sez. IV, 13.06.2017, n. 2878).
Il divieto di edificazione sancito dall’art. 4, D.M. 01.04.1968 non può essere inteso restrittivamente, cioè al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse generale, e, cioè, per esempio, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza di costruzioni (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 14.04.2010, n. 2076; id., 27.01.2015, n. 347).
Pertanto, in caso di opera realizzata dopo l’imposizione del vincolo di assoluta inedificabilità previsto dal D.M. n. 1404 del 1968 si ricade nell’ipotesi di cui all’art. 33, comma 1, della L. n. 47 del 1985, con la conseguenza della non sanabilità dell’opera abusiva, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto. Solo quindi, in caso di opere abusive realizzate prima dell’imposizione del vincolo, si può applicare l’ipotesi dell’art. 32, dovendosi ammettere solo in tal caso la possibilità di sanatoria, previa acquisizione del parere previsto dall’art. 32, comma 4, lettera c), con riferimento alla sicurezza del traffico (Cons. Stato, Sez. VI, 02.09.2019, n. 6035).
Da tale quadro normativo e giurisprudenziale deriva la infondatezza del primo motivo di appello con cui si deduce che sarebbe dovuto intervenire il parere dell’ANAS, quale autorità preposta alla tutela del vincolo, non essendo stato invece dedotto alcun elemento in fatto relativo alla preesistenza dell’opera al vincolo della fascia di rispetto stradale, risultando anzi l’opera realizzata nel 1985 in base a quanto dichiarato nella domanda di condono e negli scritti difensivi (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 12.02.2020 n. 1100 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale o autostradale si traduce in un divieto di edificazione che rende le aree medesime legalmente inedificabili, trattandosi di vincolo di inedificabilità che, pur non derivando dalla programmazione e pianificazione urbanistica, è pur sempre sancito nell’interesse pubblico da apposite leggi (art. 41-septies, l. n. 1150 del 1942, aggiunto dall’art. 19, l. n. 765 del 1967; art. 9, l. n. 729 del 1961) e dai relativi provvedimenti di attuazione (d.m. 01.04.1968).
Ciò premesso, posto che l’immobile è stato costruito successivamente al 01.01.1968 [data di entrata in vigore del decreto ministeriale (Ministero dei lavori pubblici) n. 1404 del 1968], sussiste un divieto assoluto di edificare in aree site in fascia di rispetto stradale (vincolo assoluto di inedificabilità), ai sensi dell’articolo 9 della legge n. 729/1961 e del citato decreto ministeriale n. 1404 del 1968, sicché va applicato l’articolo 33, comma 1, lett. d), della legge n. 47 del 1985, che statuisce l’impossibilità di sanatoria in presenza di vincoli di inedificabilità.
Come chiarito dalla giurisprudenza, il vincolo di inedificabilità assoluta rende non fabbricabili le aree site nella fascia di rispetto stradale indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera abusivamente realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale, essendo correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse generale, con la conseguenza che opera direttamente e automaticamente, sicché, accertata la violazione del vincolo di inedificabilità, il parere dell’amministrazione sull’istanza di sanatoria non può essere che negativo.

---------------
1. In data 25.01.1995, l’odierna appellante ha presentato al Comune di Alberobello domanda di concessione in sanatoria, ai sensi degli articoli 39 della legge n. 724 del 1994 e 31 e seguenti della legge n. 47 del 1985, per un locale ad uso ristoro in zona agricola nelle vicinanze della Strada provinciale 113 Monopoli-Alberobello.
Con note prot. numeri 7807 del 30.08.1996 e 9847 del 02.10.1996, l’allora Provincia di Bari (oggi Città metropolitana di Bari) ha emesso pareri negativi, stante la sussistenza di un vincolo di inedificabilità introdotto, a protezione del nastro stradale, dal D.M. n. 1404 del 01.04.1968, prima dell’ultimazione dell’edificio da sanare.
2. Avverso tali pareri, l’interessata ha proposto il ricorso di primo grado n. 3248 del 1996, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Bari.
L’allora Provincia Bari si è costituita nel giudizio di primo grado, mentre il Comune di Alberobello non si è costituito.
3. Con l’impugnata sentenza n. 2328 del 14.10.2008, il Tar per la Puglia, sede di Bari, sezione terza, ha respinto il ricorso e ha condannato la ricorrente al pagamento, in favore dell’Amministrazione provinciale, delle spese di lite, liquidate in euro 2.000.
...
7. L’appello è infondato e deve essere respinto alla stregua delle seguenti considerazioni in fatto e in diritto.
8. È dirimente –e assorbente ogni altra considerazione– il fatto che l’immobile è sito in zona agricola. Non è provato quanto affermato dall’appellante circa l’ubicazione dell’immobile in zona esterna all’abitato e tipizzata dal piano regolatore generale come ambito di particolare pregio ambientale. È pertanto infondato il tentativo dell’appellante di sostenere che la disciplina urbanistica dell’area su cui sorge il manufatto potesse qualificarsi come “edificabile” ai sensi dell’articolo 26, comma 3, del d.P.R. n. 495 del 1992.
Non può peraltro sottacersi che “Il vincolo imposto sulle aree site nella fascia di rispetto stradale o autostradale si traduce in un divieto di edificazione che rende le aree medesime legalmente inedificabili, trattandosi di vincolo di inedificabilità che, pur non derivando dalla programmazione e pianificazione urbanistica, è pur sempre sancito nell'interesse pubblico da apposite leggi (art. 41-septies, l. n. 1150 del 1942, aggiunto dall'art. 19, l. n. 765 del 1967; art. 9, l. n. 729 del 1961) e dai relativi provvedimenti di attuazione (d.m. 01.04.1968)” (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, decisione 16.11.2005, n. 9).
Ciò premesso, posto che l’immobile è stato costruito successivamente al 01.01.1968 [data di entrata in vigore del decreto ministeriale (Ministero dei lavori pubblici) n. 1404 del 1968], sussiste un divieto assoluto di edificare in aree site in fascia di rispetto stradale (vincolo assoluto di inedificabilità), ai sensi dell’articolo 9 della legge n. 729/1961 e del citato decreto ministeriale n. 1404 del 1968, sicché va applicato l’articolo 33, comma 1, lettera d), della legge n. 47 del 1985, che statuisce l’impossibilità di sanatoria in presenza di vincoli di inedificabilità.
8.1. Del tutto legittimamente il Tar non si è pronunciato sulle ulteriori censure mosse dalla parte privata, in quanto assorbite dalla acclarata presenza di un vincolo di inedificabilità assoluta del terreno su cui è stato edificato il manufatto.
In ogni caso, in ordine alla censura di non necessaria acquisizione del parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo (Provincia di Bari), si evidenzia che ai sensi degli articoli 32, comma 1, della legge n. 47 del 1985 e 39 della legge n. 724 del 1994, il parere era certamente necessario (cfr. Consiglio di Stato, sezione VI, sentenze 22.01.2019, n. 540, e 28.09.2012, n. 5125).
Con riferimento all’asserita esigenza di vagliare l’effettiva pericolosità dell’opera per il traffico stradale, si osserva che, come chiarito dalla giurisprudenza, il vincolo di inedificabilità assoluta rende non fabbricabili le aree site nella fascia di rispetto stradale indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera abusivamente realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale, essendo correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse generale, con la conseguenza che opera direttamente e automaticamente, sicché, accertata la violazione del vincolo di inedificabilità, il parere dell’amministrazione sull’istanza di sanatoria non può essere che negativo (cfr. Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 8 giugno 2011, n. 3498, 14.04.2010, n. 2076, e 15.04.2013, n. 2062; Cass. civ., sezione III, sentenza 21.02.2013, n. 4346).
Parimenti infondata è la deduzione per cui le distanze dal ciglio stradale sarebbero derogabili in caso di impianti di interesse pubblico, poiché il vincolo di inedificabilità è, per sua natura, incompatibile con qualsiasi tipologia di manufatto.
È altresì infondata la doglianza relativa all’incompetenza del dirigente ad emanare i pareri impugnati siccome di competenza della Giunta provinciale, in quanto detto vizio, attesa la già rilevata natura vincolata dei provvedimenti adottati, rientra nel novero dei vizi non invalidanti di cui all’articolo 21-octies, comma 2, prima parte, della legge n. 241 del 1990, e non ridonda, pertanto, in un’annullabilità.
9. In conclusione l’appello va respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 31.01.2020 n. 815 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl concessionario autostradale ha l’obbligo di segnalare la realizzazione di un’opera all’interno della fascia di rispetto dell’autostrada al Concedente.
Per quanto attiene alle attività di tutela delle strade e delle fasce di rispetto la giurisprudenza ha costantemente affermato che “il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalla caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della l. n. 729/1961 e dal successivo d.m. n. 1404/1968 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni".
Ne discende che “le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti”.
---------------

La società ricorrente gestisce un parco attrezzato ed una pista di karting cross in virtù di una Convenzione stipulata con il Comune di Cattolica nel 1989.
A seguito della realizzazione della terza corsia dell’autostrada A14, la pista di karting risultava all’interno della fascia di rispetto e la società presentava un progetto preliminare di ulteriore arretramento della sede della pista che veniva respinto con i provvedimenti indicati in epigrafe.
Il primo motivo di ricorso riguarda la violazione dell’art. 10-bis L. 241/1990 poiché il Ministero resistente non ha notificato il preavviso di diniego impedendo il formarsi del contraddittorio procedimentale.
Il secondo motivo contesta la violazione degli artt. 16 e 18 DPR 285/1992 e 26 e 27 DPR 495/1992 poiché le fasce di rispetto previste da tali norma non si applicherebbero all’attività della società ricorrente in quanto la pista di karting non costituisce un manufatto sopraelevato che può costituire disturbo per la circolazione dei veicoli sull’autostrada.
Si costituivano in giudizio Autostrade per l’Italia ed il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti chiedendo il rigetto del ricorso, eccependo la prima anche l’inammissibilità per carenza di interesse essendo venuto meno il provvedimento edilizio che consentiva l’esercizio dell’attività.
Il ricorso è infondato e ciò consente di prescindere dall’esame dell’eccezione preliminare.
In merito al primo motivo al di là delle differente prospettazione delle parti circa l’iter procedimentale che ha preceduto gli atti impugnati, i provvedimenti non potrebbero avere un contenuto diverso e pertanto l’omissione procedimentale è irrilevante.
Il concessionario autostradale ha l’obbligo di segnalare la realizzazione di un’opera all’interno della fascia di rispetto dell’autostrada al Concedente; per quanto attiene alle attività di tutela delle strade e delle fasce di rispetto la giurisprudenza, che il Collegio condivide, ha costantemente affermato che “il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalla caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della l. n. 729/1961 e dal successivo d.m. n. 1404/1968 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni" (Consiglio di Stato, IV, 27.01.2015, n. 347).
Ne discende che “le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale (Cass. civ., n. 6118/1995) o che costituiscano mere sopraelevazioni (Cass. civ., n. 193/1987) o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti” (TAR Campania 1461/2011, Consiglio di Stato 2062/2013 e 2076/2010, TAR Lombardia 2353/2011 ) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 17.06.2019 n. 536 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' principio pacifico che "In tema di condono edilizio il vincolo di inedificabilità in zona di rispetto stradale è considerato un vincolo di inedificabilità assoluta e, di conseguenza, allorché l'abuso edilizio sia stato compiuto dopo la sua imposizione, non si applica l'art. 32, comma 2, lett. c), l. 28.02.1985 n. 47 ma, in base al comma 3, il successivo art. 33 con conseguente insanabilità dell'abuso, a nulla rilevando la non pericolosità della porzione di manufatto per la sicurezza del traffico".
Ed ancora è stato affermato che "Il vincolo d'inedificabilità sulle zone di rispetto stradale, imposto dall'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 ha carattere assoluto e pertanto -a differenza del vincolo di cui all'art. 32, d'inedificabilità relativa, che può essere rimosso a discrezione dell'autorità preposta alla cura dell'interesse tutelato- contiene un divieto di edificazione a carattere assoluto, che comporta la non sanabilità dell'opera realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto".
---------------
Il vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere “assoluto” e prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della l. n. 729 del 24.07.1961 e dal susseguente decreto interministeriale n. 1404 del 01.04.1968, debbono ritenersi prevalenti sulla stessa norma regionale.
Norma che, di fatto, relativamente alla fascia di rispetto delle strade deve ritenersi priva di contenuto precettivo, a nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno alla sicurezza del traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di natura penale connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale (anche di rango primario) circa la possibile sanatoria degli stessi.
---------------
Il vincolo non ha soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
Viene quindi fatto riferimento ad un ampio concetto di esigenza manutentiva, anch’essa attinente alla sicurezza e fluidità della circolazione, che non si presta ad essere valutata caso per caso per l’impossibilità oggettiva di potere prevedere tutte le future evenienze, specie in casi come quelli qui in esame dove la distanza è risultata pari a ml. 13,75 e, pertanto, notevolmente inferiore a quella minima prevista dalla normativa vigente ratione temporis per la concessione del nulla osta, da non lasciare spazio ad alcuna valutazione discrezionale all’amministrazione.
---------------
Iil vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere “assoluto” e prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata.
---------------
L'Amministrazione competente alla tutela del vincolo in argomento è chiamata ad esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica, caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e non può legittimamente svolgere quell'attività di comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla sua cura (la tutela della sicurezza stradale) con interessi di altra natura e spettanza che è propria della discrezionalità amministrativa.
---------------

3.1. Le superiori censure sono infondate.
3.2. Deve infatti evidenziarsi che la ricorrente omette di considerare che nel 1977 ha demolito e ricostruito l’immobile in assenza di titolo autorizzativo, tant’è che l’Anas elevò il verbale di contestazione n. 39 del 24/06/1980; sicché l’epoca di realizzazione (abusiva) del fabbricato oggi esistente deve farsi risalire al 1977, e dunque in epoca successiva all’apposizione del vincolo autostradale. E’ infatti consolidato orientamento giurisprudenziale che lo jus edificandi del lotto, divenuto libero a seguito di demolizione e/o crolli, segua le norme urbanistiche vigenti alla data di realizzazione, nel rispetto del regime vincolistico vigente alla data di ricostruzione.
3.3. Alla stregua di quanto precede, appare irrilevante il richiamo alla pronuncia di merito citata dalla ricorrente, essendo principio pacifico che "In tema di condono edilizio il vincolo di inedificabilità in zona di rispetto stradale è considerato un vincolo di inedificabilità assoluta e, di conseguenza, allorché l'abuso edilizio sia stato compiuto dopo la sua imposizione, non si applica l'art. 32, comma 2, lett. c), l. 28.02.1985 n. 47 ma, in base al comma 3, il successivo art. 33 con conseguente insanabilità dell'abuso, a nulla rilevando la non pericolosità della porzione di manufatto per la sicurezza del traffico" (TAR Lazio-Latina - Sez. I - 17.11.2011, n. 923).
Ed ancora è stato affermato che "Il vincolo d'inedificabilità sulle zone di rispetto stradale, imposto dall'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 ha carattere assoluto e pertanto -a differenza del vincolo di cui all'art. 32, d'inedificabilità relativa, che può essere rimosso a discrezione dell'autorità preposta alla cura dell'interesse tutelato- contiene un divieto di edificazione a carattere assoluto, che comporta la non sanabilità dell'opera realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto" (Consiglio Stato - Sez. IV - 05.07.2000, n. 3731).
3.4. Sotto altro profilo va ancora osservato che il provvedimento di diniego impugnato esordisce premettendo che l’art. l'art. 23, comma 8, della L.R. n. 37/1985 ammette la possibilità di conseguire la concessione o l'autorizzazione in sanatoria per le costruzioni ricadenti nelle fasce di rispetto stradali definite dal D.M. 01.04.1968 sempre che a giudizio degli enti preposti alla tutela della viabilità le costruzioni stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico.
L’Anas precisa poi, nel provvedimento, che tuttavia tale norma regionale non si applica alle costruzioni ricadenti nella fascia di rispetto Autostradale definita dall'art. 9 della Legge n. 729/1961 (poi abrogato) e ritiene comunque inderogabili le distanze minime imposte dal D.M. 1404/1968 e dalla circolare Anas n. 109707/2010 applicativa delle disposizioni dettate dal Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti in applicazione degli artt. 26 e 28 del Regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice della Strada, atteso che la giurisprudenza è stata sempre conforme nel ritenere il carattere assoluto del vincolo introdotto a tutela della fascia di rispetto autostradale, anche a prescindere dalle concrete caratteristiche dell’opera realizzata.
Orbene nel rilevare che la doglianza della ricorrente non sembra del tutto centrata sulla motivazione in effetti adottata dall’Amministrazione, non ponendo alcuna questione in ordine alla norma regionale citata nel provvedimento, appare opportuno al Collegio precisare quanto segue.
Il Collegio richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2018, n. 1250 e, ivi, richiami; id., 03.11.2015, n. 5014), secondo cui il vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere “assoluto” e prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall’art. 9 della l. n. 729 del 24.07.1961 e dal susseguente decreto interministeriale n. 1404 del 01.04.1968, debbono ritenersi prevalenti sulla stessa norma regionale; norma che, di fatto, relativamente alla fascia di rispetto delle strade deve ritenersi priva di contenuto precettivo, a nulla rilevando il profilo del pregiudizio o meno alla sicurezza del traffico; e ciò anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 232/2017, circa i riflessi di natura penale connessi agli abusi edilizi ed alla disciplina regionale (anche di rango primario) circa la possibile sanatoria degli stessi.
Nel caso di specie, a seguito di sopralluogo, l’Anas ha accertato che la distanza è pari a ml. 13,75 e dunque inferiore a quella minima prevista dalla normativa in esame per la concessione del nulla osta e, dunque, per la sanabilità della costruzione.
Anche per detto profilo, pertanto, il provvedimento impugnato appare immune da censure.
4. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 32, L. 28.02.1985 n. 47 – eccesso di potere e travisamento.
Afferma che in tema di sanatoria di abusi edilizi, in applicazione della Legge n. 47 del 1985, la natura del vincolo riveniente da una fascia di rispetto stradale differisce a seconda che le opere edilizie abusive siano state realizzate prima o dopo l’imposizione del vincolo, dovendosi ammettere solo nel primo caso la possibilità di sanatoria (previa acquisizione del parere previsto dall’art. 32), che resta invece esclusa nella seconda ipotesi, ai sensi del successivo art. 33, comma 1, lett. d).
E ciò in quanto l’art. 32, comma 4 –nella versione vigente ratione temporis– consente la sanatoria –tra le altre ipotesi– per le opere abusive “in contrasto con le norme del D.M. 01.04.1968 … sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico” (lett. c), quando esse siano “… insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione …”, sicché soltanto in tale caso, attesa la natura “relativa” del vincolo (ai fini della sanatoria), l’Amministrazione deve darsi carico di verificare che le opere “… non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico”, mentre per gli interventi realizzati dopo l’imposizione del vincolo opera la preclusione assoluta di cui all’art. 33, comma 1 (cita TAR Toscana, sez. III, 12.03.2013, n. 405, TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 26.01.2006, n. 22).
4.1. Le superiori censure sono infondate in quanto si fondano sull’assunto –già sopra smentito- che l’immobile per cui è causa sia stato realizzato in epoca anteriore all’imposizione del vincolo della fascia di rispetto stradale e che le opere di totale demolizione e ricostruzione che hanno interessato il fabbricato nel 1977 non incidano in alcun modo nella disciplina del regime vincolistico dell’area sulla quale esso insiste.
Deve poi aggiungersi, quanto alla pretesa necessità di una valutazione della pericolosità in concreto del fabbricato (ossia che non costituisca minaccia alla sicurezza del traffico), che il provvedimento appare esente da censure avendo l’Anas implicitamente motivato sul punto; infatti, richiamando copiosa giurisprudenza in materia, ha affermato che il vincolo non ha soltanto lo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all’occorrenza, dal concessionario, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
Viene quindi fatto riferimento ad un ampio concetto di esigenza manutentiva, anch’essa attinente alla sicurezza e fluidità della circolazione, che non si presta ad essere valutata caso per caso per l’impossibilità oggettiva di potere prevedere tutte le future evenienze, specie in casi come quelli qui in esame dove la distanza è risultata pari a ml. 13,75 e, pertanto, notevolmente inferiore a quella minima prevista dalla normativa vigente ratione temporis per la concessione del nulla osta, da non lasciare spazio ad alcuna valutazione discrezionale all’amministrazione.
5. Con il terzo motivo di ricorso deduce il vizio di eccesso di potere delle stesse disposizioni citate nei precedenti motivi di ricorso per carenza dei presupposti, sviamento, illogicità e contraddittorietà, iniquità, disparità di trattamento.
Afferma la ricorrente che per consolidato orientamento giurisprudenziale, la fascia di rispetto stradale si traduce in un divieto di edificazione che rende le aree medesime legalmente inedificabili, ma tuttavia detto divieto di edificazione non preclude il recupero di edifici esistenti entro le fasce in oggetto.
Sicché il provvedimento sarebbe illegittimo a cagione del fatto in cui le opere di cui si chiede la sanatoria rappresentano un mero rifacimento del progetto originario che nulla ha alterato, in termini di cubatura, sia in altezza che in profondità, lasciando altresì quasi immutato il prospetto originario.
5.1. La censura è infondata per le medesime considerazioni sopra rassegnate in ordine all’epoca di realizzazione del fabbricato -demolito e poi ricostruito in assenza di titolo autorizzatorio- essendo inderogabile il rispetto delle distanze imposte dal regime vincolistico vigente alla data di ricostruzione.
6. Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del punto 4.3, circolare del Ministero dei Lavori Pubblici 30.07.1985, n. 3357/25 – eccesso di potere, sviamento, iniquità.
Sostiene che in tale Circolare, il Ministero dei Lavori pubblici premette che “sono sanabili le costruzioni realizzate nelle fasce di rispetto a protezione del nastro stradale, a condizione che non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico” ed al contempo vengono indicati i criteri che i Comuni e gli Enti proprietari delle strade debbano seguire per accertare se esista o meno tale minaccia.
La circolare prevedrebbe, in particolare, che quando l’abuso sia costituito da un fabbricato di piccole dimensioni su strada senza intersezioni o singolarità plano-volumetriche prossime, la concessione edilizia in sanatoria sarà ammissibile ove il manufatto disti dalla strada almeno 5 m, ovvero almeno metà della larghezza della strada, se superiore a 5 m.
Ne inferisce il ricorrente che nel caso di specie i requisiti anzidetti sarebbero pienamente rispettati, sicché l’Anas non avrebbe potuto negare il chiesto nulla osta in sanatoria.
6.1. La censura è infondata per le considerazioni sopra svolte, atteso che il vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere “assoluto” e prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata.
7. Con il quinto motivo di ricorso deduce i vizi di violazione e falsa applicazione dell’art. 3 L. 241/1990 e dell’art. 97 Cost. – difetto di istruttoria e motivazione - violazione dei principi di efficienza e buon andamento, violazione del giusto procedimento.
Il provvedimento non sarebbe adeguatamente motivato e l’Anas non farebbe alcun cenno della catena pressoché ininterrotta di costruzioni adibite a civile abitazione che si snodano lungo tutto il litorale (da Isola delle Femmine sin oltre Punta Raisi) e che hanno tutte la medesima distanza (minima) dalla sopravvenuta A/29.
7.1. La censura è infondata per la considerazione che l'Amministrazione competente alla tutela del vincolo in argomento è chiamata ad esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica, caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e non può legittimamente svolgere quell'attività di comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla sua cura (la tutela della sicurezza stradale) con interessi di altra natura e spettanza che è propria della discrezionalità amministrativa.
Peraltro la ricorrente non lamenta in concreto nemmeno una disparità di trattamento, non avendo nemmeno postulato che in casi analoghi l’Anas abbia rilasciato il nulla osta ad essa invece denegato.
Pertanto il Collegio non ravvisa i denunciati vizi di difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto il provvedimento è diffusamente motivato sia con riferimento ai parametri normativi sui quali esso è fondato, sia in ordine ai presupposti di fatto che asseverano l’espletamento di un adeguata istruttoria.
8. Per tutti i surriferiti motivi il ricorso è infondato e va rigettato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 17.05.2019 n. 1366 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo derivante da una fascia di rispetto autostradale ha l'effetto urbanistico di prescrivere un semplice obbligo di distanza, ma non quello di rendere l'area inedificabile, posto che la ratio delle disposizioni che danno origine alla c.d. zona di rispetto viario sono quelle di garantire la sicurezza della circolazione stradale.
Le zone di fascia di rispetto stradale vanno, quindi, calcolate ai fini della volumetria edificabile, dal momento che esse sanciscono soltanto l'obbligo urbanistico di costruire ad una certa distanza dalla strada, e perciò di non realizzare alcun manufatto edilizio all'interno della predetta fascia di rispetto stradale.
Quanto al calcolo delle distanze bisogna fare riferimento agli strumenti urbanistici vigenti al momento della realizzazione dell'opera.
---------------

Con l'unico motivo di ricorso si deduce l'omessa motivazione di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e la violazione della L. 765/1967 e del D.M. 1404/1968 in relazione agli artt. 360 n. 3 e 5 c.p.c..
Il ricorrente lamenta che la decisione si fondi sull'errato della sussistenza di una fascia di rispetto autostradale, calcolata in metri sessanta dal limite autostradale, ritenendo l'area interessata dall'intervento come ricadente fuori dal centro abitato laddove, da alcuni atti amministrativi acquisiti al processo, e segnatamente dal certificato di destinazione urbanistica, veniva certificata l'assenza di fasce di rispetto.
Il ricorrente richiamava altresì una delibera del Dirigente dell'Ufficio Tecnico del Comune che considerava l'area in questione all'interno del perimetro del centro abitato, con conseguente inapplicabilità della distanza di mt. 60. Riteneva che fosse applicabile l'art. 9 L. 729/1961, che stabilisce in metri 25 la distanza minima da osservare per la costruzione e l'ampliamento di edifici in qualsiasi parte del territorio, senza distinzione tra centro abitato e zone esterne a questo, con la conseguenza che la distanza prescritta dalla legge sarebbe stata rispettata, in quanto la costruzione dei Pe. si trovava a mt 30,37.
Ha, infine censurato la quantificazione del danno, quantificato nella perdita di valore dell'immobile del Perugino, sul rilievo che esso fosse totalmente abusivo e, pertanto incommerciabile.
Il motivo non è fondato.
Il vincolo derivante da una fascia di rispetto autostradale ha l'effetto urbanistico di prescrivere un semplice obbligo di distanza, ma non quello di rendere l'area inedificabile, posto che la ratio delle disposizioni che danno origine alla c.d. zona di rispetto viario sono quelle di garantire la sicurezza della circolazione stradale.
Le zone di fascia di rispetto stradale vanno, quindi, calcolate ai fini della volumetria edificabile, dal momento che esse sanciscono soltanto l'obbligo urbanistico di costruire ad una certa distanza dalla strada, e perciò di non realizzare alcun manufatto edilizio all'interno della predetta fascia di rispetto stradale.
Quanto al calcolo delle distanze bisogna fare riferimento agli strumenti urbanistici vigenti al momento della realizzazione dell'opera.
Il ricorrente non ha invocato l'erronea applicazione dello strumento urbanistico vigente, che prescriveva una fascia di rispetto di metri sessanta, limitandosi a censurare la decisione attraverso il richiamo di atti amministrativi, segnatamente il certificato di destinazione urbanistica ed una delibera del Dirigente dell'Ufficio Tecnico del Comune del 23.10.1991, che, non solo non trascrive o allega, in violazione dell'art. 366 n. 6 c.p.c., ma che sono in conferenti rispetto alla decisione basata sulle prescrizioni del Programma di Fabbricazione del Comune di Casalnuovo.
Poiché lo strumento urbanistico aveva determinato in metri sessanta la fascia di rispetto, ai sensi del D.M. 1404/1968, non coglie nel segno il richiamo all'art. 9 L. 729/1961 che stabilisce in metri 25 la distanza minima da osservare per la costruzione e l'ampliamento di edifici in qualsiasi parte del territorio, senza distinzione tra centro abitato e zone esterne.
La sentenza gravata si rivela immune da censure, posto che, ha accertato che il Programma di Fabbricazione del Comune di Casalnuovo vigente all'epoca della concessione edilizia da parte della Se.Co. s.r.l. prevedeva che nella fascia di rispetto di sessanta metri dall'autostrada ricadesse una zona con destinazione a verde, con un indice di fabbricabilità inferiore rispetto a quella realizzata ed allegata all'istanza di concessione edilizia.
La corte territoriale, sulla base di una corretta applicazione delle norme di diritto, che il ricorrente censura attraverso le risultanze degli atti di causa, ha accertato che il corpo B dell'edificio ricade nella fascia di rispetto autostradale, causando alla proprietà Perugino un danno in termini di soleggiamento e luminosità.
Non ha conseguentemente rilievo la censura relativa alla condanna risarcitoria, genericamente dedotta nel ricorso, ed afferente alla presunta incommerciabilità del bene in ragione della sua abusività e non in relazione al godimento del bene.
Del tutto privo di fondamento è il dedotto vizio di omessa motivazione, posto che la corte territoriale si è puntualmente soffermata su tutti gli aspetti relativi alla dedotta violazione della fascia di rispetto, con motivazione diffusa e congrua (Corte di cassazione, Sez. II civile, ordinanza 10.10.2018 n. 25118).

EDILIZIA PRIVATA: Osserva il Collegio che la predisposizione di un piano di nuove costruzioni stradali ed autostradali risale alla legge n. 729 del 24.07.1961 il cui art. 9, al comma 1, stabiliva che: “Lungo i tracciati delle autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione dell'autostrada stessa”.
La stessa norma al comma 3 stabiliva che: “Il divieto previsto dal presente articolo ha effetto dalla data della pubblicazione di apposito avviso, a cura del concessionario, sul Foglio degli annunzi legali delle singole Prefetture competenti per territorio, recante notizia dell'avvenuta approvazione del progetto di ciascuna strada.”
Inoltre, con d.m. n. 1404 dell’01.04.1968 è stato imposto per le nuove edificazioni al di fuori del perimetro del centro abitato, ai sensi dell’art. 4, l’obbligo del rispetto della distanza di 60 metri dal ciglio della strada per le autostrade in quanto qualificate come strade di tipo A.
Successivamente, con il regolamento del codice della strada approvato con d.p.r. 495/1992 è stato poi confermato all’art. 26 il limite di 60 metri per le distanze da osservare per le strade di tipo A fuori dai centri abitati, riferite alle “nuove costruzioni, ricostruzioni conseguenti a demolizioni integrali, o negli ampliamenti fronteggianti le strade”, ridotto a 30 metri all’interno dei centri abitati, oppure al di fuori dei centri abitati nel caso di zone previste come edificabili o trasformabili dallo strumento urbanistico generale, se lo strumento è suscettibile di attuazione diretta, ovvero se per tali zone siano già previsti strumenti attuativi.
Con riferimento all’art. 9 della legge n. 729/1961 la giurisprudenza si è pronunciata nel senso che la fascia di rispetto ivi prevista integrava un vincolo di inedificabilità assoluta, in quanto preordinato non solo a prevenire la presenza di ostacoli costituenti un possibile pregiudizio per la circolazione, ma anche ad assicurare la disponibilità di un’area contigua alla sede stradale all’occorrenza utilizzabile per un ampliamento della medesima.
Medesime considerazioni valgono anche con riferimento alla fascia di rispetto di 60 metri oggi prevista dal d.p.r. n. 495/1992 per le strade di tipo A, tenuto conto dell’identità di ratio e del fatto che la norma citata vieta all’interno di tale fascia di rispetto, qualsiasi nuova costruzione, ancorché nella forma di ampliamento di un fabbricato preesistente o di ricostruzione di edificio preesistente e integralmente demolito.
Tale previsione che penalizza sinanche la demolizione seguita da fedele ricostruzione da cui si desume la volontà del legislatore di ritenere rispondente ad un interesse prioritario il mantenimento dell’area adiacente le autostrade sgombra da costruzioni idonee ad interferire con futuri ampliamenti della sede stradale ovvero a compromettere la sicurezza pubblica in caso di sinistri. Ciò depone indubitabilmente nel senso della natura assoluta del vincolo di inedificabilità imposto ex lege.
---------------

1. Con ricorso iscritto al n. 120/2017 i sig.ri Li. Di Pa. e Li.Fi. adivano codesto TAR al fine di richiedere l’annullamento, previa sospensiva, dei pareri contrari rispettivamente espressi dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e dalla Società Strada dei Parchi s.p.a. rispetto all'istanza volta al rilascio del permesso di costruire per un intervento di ristrutturazione edilizia sulla copertura di un immobile di proprietà.
Esponevano che, quali proprietari di un immobile ubicato in Cepagatti, censito in catasto urbano al fg. 8 part. n. 356, realizzato nel 1968 ed adibito a civile abitazione, con istanza del 04/01/2017 prot. n. 188, avevano richiesto al Comune di Cepagatti il rilascio di un permesso di costruire per l'esecuzione di un intervento di ristrutturazione edilizia avente ad oggetto il miglioramento statico della copertura del preesistente fabbricato, realizzato in forza dei nulla osta del 04/04/1968 e del 28/09/1970, ed oggetto di quattro distinti permessi di costruire.
Esponevano che l’Amministrazione comunale, verificata l'ubicazione dell'immobile in fascia di rispetto autostradale (Autostrada A25), indiceva una conferenza di servizi che si concludeva in data 16.06.2017, con la presa d’atto dei due pareri negativi espressi dal Ministero e dalla società Strada dei Parchi, e che l'Amministrazione comunale, con nota prot. 13288 del 27/06/2017, comunicava il preavviso di diniego ex art. 10-bis L. n. 241/1990 al rilascio del permesso di costruire.
...
3. Nel merito il ricorso è infondato e va respinto come di seguito argomentato.
Come anticipato in fatto si discute nel giudizio dell’approvazione di un progetto di ristrutturazione ed adeguamento statico della copertura di una fabbricato sito in Capagatti, all’interno della fascia di trenta metri di rispetto dell’autostrada A25, con dismissione della struttura di copertura esistente e nuova realizzazione della stessa con modifiche della sagoma.
Il parere negativo espresso con nota prot. n. 9275 del 25.05.2017 dal Ministero delle Infrastrutture risulta motivato poiché non è stata considerata esaustiva la documentazione trasmessa dal Comune con nota prot. n. 10812 del 23.05.2017 a riscontro dell’interlocutoria prot. n. 7460 del 28.04.2017 (con cui si era richiesta la documentazione progettuale di dettaglio, planimetrie e dettagli costruttivi poi consegnata dalla stessa ricorrente), e poiché non era risultato chiaro se l’edificazione fosse anteriore o posteriore alla costruzione dell’autostrada, né alcuna informativa era stata resa quanto all’ubicazione dell’intervento rispetto alla fascia di rispetto del sedime stradale.
Analogamente il diniego di nulla osta della Strada dei Parchi intervenuto con nota prot. n. 10784 dell’01.06.2017 risulta motivato poiché, benché richiesti, non erano pervenuti i nulla osta delle pregresse concessioni edilizie rilasciate nel 1980 e nel 1982.
3.1 Ciò premesso, come ricavabile dalla documentazione allegata da parte ricorrente, l’immobile oggetto di ristrutturazione è stato interessato da più interventi edilizi che nel tempo ne hanno modificato la conformazione originaria e precisamente una prima concessione edilizia per un fabbricato ad uso abitativo del 04.04.1968 con cui, rispetto ad un piano terra esistente è stata autorizzata la realizzazione di un primo piano, una successiva concessione edilizia del 28.09.1970 rilasciata per l’ampliamento del fabbricato con l’aggiunta di due vani ed una cucina al piano terra ed al primo piano, altra concessione edilizia n. 499/1980 per un ulteriore ampliamento tramite costruzione di locali accessori quali una cantina, garages ed una cucina rustica, ed un successivo ampliamento autorizzato con concessione edilizia del 22.09.1982.
Dalla relazione tecnica a cura del geom. P.T. allegata alla richiesta di permesso di costruire si ricava che il fabbricato è costituito da tre unità immobiliari ad uso abitativo ed annessi accessori e che il progetto mirava al consolidamento statico della copertura del fabbricato, versante in precarie condizioni statiche, con demolizione totale di quella esistente comprese le quinte in muratura, la ricostruzione di nuove quinte in muratura di mattoni forati o in pannelli lignei, e la installazione di una nuova struttura portante in legno lamellare di abete con tavolato chiuso e sovrastante nuovo manto di tegole in laterizio.
In particolare ivi si precisa che la modifica della copertura avrebbe comportato la rotazione di 90 gradi del colmo di copertura, che non sarebbe stata ricostruita la muratura di quinta prospiciente il tracciato autostradale ma verso di essa sarebbe stata prevista la linea di grondaia a quota inferiore a quella della citata quinta preesistente.
4. Le censure poste da parte ricorrente avverso il provvedimento impugnato non sono meritevoli di favorevole delibazione per i motivi che di seguito si vanno ad esporre.
4.1 Preliminarmente, dovendo ricostruire il quadro normativo di riferimento sulla base della normativa vigente ratione temporis, osserva il Collegio che la predisposizione di un piano di nuove costruzioni stradali ed autostradali risale alla legge n. 729 del 24.07.1961 il cui articolo 9 al comma 1 stabiliva che: “Lungo i tracciati delle autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione dell'autostrada stessa”.
La stessa norma al comma 3 stabiliva che: “Il divieto previsto dal presente articolo ha effetto dalla data della pubblicazione di apposito avviso, a cura del concessionario, sul Foglio degli annunzi legali delle singole Prefetture competenti per territorio, recante notizia dell'avvenuta approvazione del progetto di ciascuna strada.”
Inoltre, con d.m. n. 1404 dell’01.04.1968, pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 13.04.1968, è stato imposto per le nuove edificazioni al di fuori del perimetro del centro abitato, ai sensi dell’art. 4, l’obbligo del rispetto della distanza di 60 metri dal ciglio della strada per le autostrade in quanto qualificate come strade di tipo A.
Successivamente, con il regolamento del codice della strada approvato con d.p.r. 495/1992 è stato poi confermato all’art. 26 il limite di 60 metri per le distanze da osservare per le strade di tipo A fuori dai centri abitati, riferite alle “nuove costruzioni, ricostruzioni conseguenti a demolizioni integrali, o negli ampliamenti fronteggianti le strade”, ridotto a 30 metri all’interno dei centri abitati, oppure al di fuori dei centri abitati nel caso di zone previste come edificabili o trasformabili dallo strumento urbanistico generale, se lo strumento è suscettibile di attuazione diretta, ovvero se per tali zone siano già previsti strumenti attuativi.
Con riferimento all’art. 9 della legge n. 729/1961 la giurisprudenza si è pronunciata nel senso che la fascia di rispetto ivi prevista integrava un vincolo di inedificabilità assoluta, in quanto preordinato non solo a prevenire la presenza di ostacoli costituenti un possibile pregiudizio per la circolazione, ma anche ad assicurare la disponibilità di un’area contigua alla sede stradale all’occorrenza utilizzabile per un ampliamento della medesima (cfr. Tar Liguria, sez. I n. 276/2015; Tar Palermo sez. II n. 34/2015).
Medesime considerazioni valgono anche con riferimento alla fascia di rispetto di 60 metri oggi prevista dal d.p.r. n. 495/1992 per le strade di tipo A, tenuto conto dell’identità di ratio e del fatto che la norma citata vieta all’interno di tale fascia di rispetto, qualsiasi nuova costruzione, ancorché nella forma di ampliamento di un fabbricato preesistente o di ricostruzione di edificio preesistente e integralmente demolito.
Tale previsione che penalizza sinanche la demolizione seguita da fedele ricostruzione da cui si desume la volontà del legislatore di ritenere rispondente ad un interesse prioritario il mantenimento dell’area adiacente le autostrade sgombra da costruzioni idonee ad interferire con futuri ampliamenti della sede stradale ovvero a compromettere la sicurezza pubblica in caso di sinistri. Ciò depone indubitabilmente nel senso della natura assoluta del vincolo di inedificabilità imposto ex lege.
4.2 Ciò posto, alla luce di quanto sopra risulta innanzitutto destituito di fondamento l’assunto di parte ricorrente attestato sull’irrilevanza del vincolo in quanto ancorato alla mancata realizzazione dell’asse viario autostradale all’epoca del rilascio della concessione edilizia del 04.04.1968 con cui è stata assentita la sopraelevazione del fabbricato esistente.
Parte ricorrente al riguardo non ha dimostrato che all’epoca del rilascio delle concessioni edilizie del 04.04.1968 per la sopraelevazione del fabbricato, e del 28.09.1970 per il suo ampliamento, non fosse ancora stato pubblicato alcun avviso relativo all’asse viario in questione sul Foglio degli Annunzi legali della Prefettura.
Di qui l’inconferenza dei motivi con cui si oppone l’irrilevanza del vincolo rispetto agli interventi edilizi di ampliamento del medesimo fabbricato realizzati con le concessioni edilizie del 28.11.1980 e del 17.11.1982 in quanto realizzati a distanza di “30 metri” e nella parte dell’immobile non prospiciente il fronte autostradale, tenuto conto che con il d.m. n. 1404/1968 il vincolo di inedificabilità imposto, anche per gli ampliamenti, rispetto alle autostrade di tipo A era fissato al di fuori dei centri abitati in 60 metri, o al più, in presenza di strumentazione attuativa in 30 metri.
4.3 Sul punto occorre evidenziare che solo con il regolamento di attuazione del nuovo Codice della strada approvato con d.p.r. n. 495/1992, e quindi in data successiva al rilascio delle concessioni edilizie menzionate, è stato precisato a livello normativo che il limite di distanza fissato andava osservato rispetto agli ampliamenti “fronteggianti le strade”.
In ogni caso, pur a voler accedere in via interpretativa alla ricostruzione invocata, manca in atti la prova che gli ampliamenti realizzati con le concessioni edilizie del 28.11.1980 e del 17.11.1982 riguardassero effettivamente la parte non fronteggiante l’asse autostradale.
Né comunque può accedersi all’interpretazione propugnata volta a scindere le opere autorizzate con i titoli successivamente rilasciati come se si trattasse di manufatti indipendenti in presenza di un immobile unitario costituito da un piano terra ed un primo piano che nel tempo è stato via via ampliato (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 23.07.2018 n. 252 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tanto precisato in ordine alla definizione di “ristrutturazione edilizia”, occorre osservare che il nuovo manufatto, se può sottrarsi ai limiti, precedentemente previsti, del rispetto dell’area di sedime e della sagoma, non di meno anche in tali casi è certamente tenuto al rispetto del limite delle distanze dal confine e/o da altri fabbricati, nel rispetto sia delle norme del codice civile sia di quelle previste dai regolamenti edilizi e dalla pianificazione urbanistica.
In sostanza:
   - nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato di una ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito con coincidenza di area di sedime e di sagoma, esso –proprio perché “coincidente” per tali profili con il manufatto preesistente– potrà sottrarsi al rispetto delle norme sulle distanze innanzi citate, in quanto sostitutivo di un precedente manufatto che già non rispettava dette distanze (e magari preesisteva anche alla stessa loro previsione normativa). Ed infatti, “la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi) “costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse”;
   - invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime, come pure consentito dalle norme innanzi indicate, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio perché esso –quanto alla sua collocazione fisica– rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare –indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o nuova costruzione– le norme sulle distanze. Ed in questo senso depone altresì la stessa pronuncia n. 237/2017 di questo Tar secondo cui, se non è in discussione la possibilità di modificare la sagoma preesistente nel caso di ristrutturazione, quando l’intervento fuoriesce dall’originario contorno (orizzontale o verticale) ne deve essere verificata la conformità ai parametri fissati dalla normativa urbanistica.
Al fine della verifica del rispetto delle distanze, secondo i principi innanzi enunciati, mentre non rileva che non vi sia incremento di volumetria, ciò che rileva è che si rispetti l’allineamento della preesistente copertura, e che si sia inteso demolire e ricostruire quella preesistente modificandone la sagoma in altezza, ed incrementando l’ingombro volumetrico tramite innalzamento delle pareti perimetrali.
Non può quindi sostenersi che nel caso di edificio situato nella fascia di rispetto autostradale, devono intendersi precluse solo quelle modifiche che comportano un avvicinamento del fronte al tracciato viario, mentre sono consentiti gli interventi rispettosi del "filo" edilizio preesistente.
La tesi del ricorrente non può essere accolta in quanto urta contro l'inequivoco disposto dell'art. 28 del d.p.r. n. 495 del 1992 il quale vieta l'ampliamento di edifici preesistenti, che siano ubicati nella fascia di rispetto dell'autostrada.
Trattandosi di norma assolutamente cogente, in quanto finalizzata alla tutela del bene primario della sicurezza del traffico, la ristrutturazione progettata dall'appellante -comportando pacificamente una modificazione della sagoma di un edificio che già è sito all'interno della fascia- non poteva quindi essere in alcun modo autorizzata. Di qui l’irrilevanza del motivo con cui si contesta l’assenza di una specifica valutazione del pregiudizio alla circolazione stradale connesso all’ampliamento contestato, stante la natura assoluta del vincolo come sopra enunciata.
Alla luce di quanto esposto, prescindendosi dalla qualificazione giuridica dell’opera, ed anche a voler parlare di ristrutturazione edilizia, va ribadito che le opere in edifici preesistenti costituenti modifiche di sagoma, ampliamenti e sopraelevazioni siano soggette al rispetto delle distanze legali.
---------------

1. Con ricorso iscritto al n. 120/2017 i sig.ri Li. Di Pa. e Li.Fi. adivano codesto TAR al fine di richiedere l’annullamento, previa sospensiva, dei pareri contrari rispettivamente espressi dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e dalla Società Strada dei Parchi s.p.a. rispetto all'istanza volta al rilascio del permesso di costruire per un intervento di ristrutturazione edilizia sulla copertura di un immobile di proprietà.
Esponevano che, quali proprietari di un immobile ubicato in Cepagatti, censito in catasto urbano al fg. 8 part. n. 356, realizzato nel 1968 ed adibito a civile abitazione, con istanza del 04/01/2017 prot. n. 188, avevano richiesto al Comune di Cepagatti il rilascio di un permesso di costruire per l'esecuzione di un intervento di ristrutturazione edilizia avente ad oggetto il miglioramento statico della copertura del preesistente fabbricato, realizzato in forza dei nulla osta del 04/04/1968 e del 28/09/1970, ed oggetto di quattro distinti permessi di costruire.
Esponevano che l’Amministrazione comunale, verificata l'ubicazione dell'immobile in fascia di rispetto autostradale (Autostrada A25), indiceva una conferenza di servizi che si concludeva in data 16.06.2017, con la presa d’atto dei due pareri negativi espressi dal Ministero e dalla società Strada dei Parchi, e che l'Amministrazione comunale, con nota prot. 13288 del 27/06/2017, comunicava il preavviso di diniego ex art. 10-bis L. n. 241/1990 al rilascio del permesso di costruire.
...
4.4 Quanto alla dedotta inapplicabilità del regime delle distanze rispetto al progettato intervento di ristrutturazione edilizia, occorre precisare in quali casi di ristrutturazione edilizia è richiesto comunque il rispetto della normativa sulle distanze tra le costruzioni.
Con specifico riferimento alla successione di norme del tempo (per la parte che rileva nella presente sede), occorre ricordare che l’art. 3, co. 1, lett. d), nel suo testo originario, prevedeva che fossero interventi di “ristrutturazione edilizia”, quelli:
   - “rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
Nel testo originario, erano presenti, due tipologie di ristrutturazione edilizia, identiche quanto alla finale realizzazione di un “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”, ma distinte dalla presenza (o meno) della demolizione (anche parziale) del fabbricato preesistente. Quest’ultima, ove effettuata, per poter rientrare nel campo della ristrutturazione edilizia (e non già della nuova costruzione), doveva concludersi con la “fedele ricostruzione di un fabbricato identico”, al punto da avere identità di sagoma, volume, area di sedime e, in generale, caratteristiche dei materiali.
Il successivo DPR 27.12.2002 n. 301 ha apportato alla definizione (di cui all’art. 3) alcune modifiche, con il risultato di affermare che, nel caso di demolizione e ricostruzione, per potersi definire l’intervento quale “ristrutturazione edilizia”, lo stesso doveva portare ad un manufatto “con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
Come è dato osservare, con il nuovo testo il legislatore ha abbandonato sia lo specifico riferimento alla identità di area di sedime e di caratteristiche dei materiali, sia il più generale concetto di “fedele ricostruzione” (non potendo quest’ultimo, a tutta evidenza, essere più ribadito una volta che non sono più richieste le predette caratteristiche).
Infine, il legislatore è nuovamente intervenuto sulla disposizione in esame, in particolare con l'art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito dalla L. 09.08.2013, n. 98.
Attualmente, quindi, sono "interventi di ristrutturazione edilizia" quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente.
Come è dato osservare, con particolare riferimento alla ristrutturazione edilizia cd. ricostruttiva, l’unico limite ora previsto è quello della identità di volumetria, rispetto al manufatto demolito, salve le “innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”, e ad eccezione degli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs. n. 42/2004, per i quali è altresì prescritto il rispetto della “medesima sagoma di quello preesistente”.
Tanto precisato in ordine alla definizione di “ristrutturazione edilizia”, occorre osservare che il nuovo manufatto, se può sottrarsi ai limiti, precedentemente previsti, del rispetto dell’area di sedime e della sagoma, non di meno anche in tali casi è certamente tenuto al rispetto del limite delle distanze dal confine e/o da altri fabbricati, nel rispetto sia delle norme del codice civile sia di quelle previste dai regolamenti edilizi e dalla pianificazione urbanistica.
In sostanza:
   - nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato di una ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito con coincidenza di area di sedime e di sagoma, esso –proprio perché “coincidente” per tali profili con il manufatto preesistente– potrà sottrarsi al rispetto delle norme sulle distanze innanzi citate, in quanto sostitutivo di un precedente manufatto che già non rispettava dette distanze (e magari preesisteva anche alla stessa loro previsione normativa). Ed infatti (Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017 n. 4337), “la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi: Cons. Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522) “costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse”.
   - invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime, come pure consentito dalle norme innanzi indicate, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio perché esso –quanto alla sua collocazione fisica– rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare –indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o nuova costruzione– le norme sulle distanze. Ed in questo senso depone altresì la stessa pronuncia n. 237/2017, richiamata in atti, di questo Tar secondo cui, se non è in discussione la possibilità di modificare la sagoma preesistente nel caso di ristrutturazione, quando l’intervento fuoriesce dall’originario contorno (orizzontale o verticale) ne deve essere verificata la conformità ai parametri fissati dalla normativa urbanistica.
Al fine della verifica del rispetto delle distanze, secondo i principi innanzi enunciati, mentre non rileva che non vi sia incremento di volumetria, ciò che rileva è che si rispetti l’allineamento della preesistente copertura, e che si sia inteso demolire e ricostruire quella preesistente modificandone la sagoma in altezza, ed incrementando l’ingombro volumetrico tramite innalzamento delle pareti perimetrali.
Non può quindi sostenersi che nel caso di edificio situato nella fascia di rispetto autostradale, devono intendersi precluse solo quelle modifiche che comportano un avvicinamento del fronte al tracciato viario, mentre sono consentiti gli interventi rispettosi del "filo" edilizio preesistente.
La tesi del ricorrente non può essere accolta in quanto urta contro l'inequivoco disposto dell'art. 28 del d.p.r. n. 495 del 1992 il quale vieta l'ampliamento di edifici preesistenti, che siano ubicati nella fascia di rispetto dell'autostrada.
Trattandosi di norma assolutamente cogente, in quanto finalizzata alla tutela del bene primario della sicurezza del traffico, la ristrutturazione progettata dall'appellante -comportando pacificamente una modificazione della sagoma di un edificio che già è sito all'interno della fascia- non poteva quindi essere in alcun modo autorizzata. Di qui l’irrilevanza del motivo con cui si contesta l’assenza di una specifica valutazione del pregiudizio alla circolazione stradale connesso all’ampliamento contestato, stante la natura assoluta del vincolo come sopra enunciata.
Alla luce di quanto esposto, prescindendosi dalla qualificazione giuridica dell’opera, ed anche a voler parlare di ristrutturazione edilizia, va ribadito che le opere in edifici preesistenti costituenti modifiche di sagoma, ampliamenti e sopraelevazioni siano soggette al rispetto delle distanze legali.
5. Va da ultimo respinta la censura di eccesso di potere per disparità di trattamento con le edificazioni limitrofe poste in prossimità del ciglio autostradale.
Per consolidato e condiviso orientamento giurisprudenziale, la disparità di trattamento è sinonimo di eccesso di potere solo quando vi sia un’assoluta identità di situazioni oggettive, che valga a testimoniare dell'irrazionalità delle diverse conseguenze tratte dall'Amministrazione, cosa che nella specie non è emersa (Cons. Stato, sez. V, 10.02.2000, n. 726 e Tar Lazio, Roma, sez. I, 17.01.2012, n. 463) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 23.07.2018 n. 252 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ANAS, quale ente gestore della rete viaria statale, è preposta alla tutela del vincolo di rispetto stradale, essendo chiamata non solo a prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di nuocere alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma anche a preservare la fascia di terreno utilizzabile, all’occorrenza, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali e per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
---------------
Costituisce jus receptum che il divieto di costruzione entro la fascia di rispetto di una strada statale comporta l’inedificabilità assoluta del suolo e, dunque, la non sanabilità dell’opera, perché il vincolo è incompatibile, per loro natura, con ogni manufatto.
Infatti, il c.d. vincolo stradale implicante un divieto assoluto di edificazione si traduce in una limitazione legale al diritto di proprietà su categorie di beni individuate in via generale per la loro posizione relative ad altri beni destinati all’uso pubblico..
Per effetto della natura assoluta di detto vincolo, poi, è stato ritenuto che il diniego di condono di un edificio abusivamente realizzato in sua violazione non richieda nemmeno il previo accertamento sulla effettiva pericolosità dello stesso per il traffico stradale.
---------------
Si ritiene manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 32 e 33, l. n. 47/1985, in combinato disposto con il d.m. 01.04.1968, per violazione degli artt. 3, 42, 97 Cost., oltre che dagli artt. 117 Cost. e 5 TUE, nella parte in cui, per i fabbricati realizzati successivamente all’entrata in vigore dello stesso decreto ministeriale, prevedrebbe un indistinto diniego di edificabilità per tutti gli immobili che ricadono nella fascia di rispetto stradale, a prescindere dalla concreta conformazione dei luoghi e della strada e da un effettivo pericolo per la viabilità, dando vita a una limitazione del diritto di proprietà “del tutto scissa (e/o comunque avulsa) da qualunque concreto/qualificato interesse pubblico”.

Infatti, la limitazione al diritto di proprietà de qua, pur particolarmente penetrante, non è, come pretende parte ricorrente, del tutto scissa o avulsa da qualunque concreto o qualificato interesse pubblico, rispondendo invece, come chiarito da consolidata giurisprudenza, non solo all’esigenza di garantire la sicurezza del traffico e l’incolumità delle persone ma anche e soprattutto alla più ampia necessità di assicurare all’ente proprietario o gestore della strada una fascia di terreno da utilizzare, all’occorrenza, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
---------------

4. In via preliminare, si rileva l’infondatezza dell’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dalla difesa di ANAS s.p.a.
Infatti, tale società pubblica, quale ente gestore della rete viaria statale, nella quale rientra la s.s. 7 Appia, è preposta alla tutela del vincolo di rispetto stradale, essendo chiamata non solo a prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di nuocere alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma anche a preservare la fascia di terreno utilizzabile, all’occorrenza, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali e per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni (TAR Campania, Napoli, sez. VII, 21.10.2016 n. 4826).
Conseguentemente, l’impugnata nota del 30.09.2013 va qualificata come l’atto conclusivo del sub-procedimento di verifica della possibilità di sanare il manufatto abusivo di proprietà della ricorrente in funzione degli interessi pubblici sottesi al c.d. vincolo stradale ed attribuiti alle cure di ANAS s.p.a.
Quindi, il parere negativo de quo, espresso in applicazione dell’art. 33, l. n. 47 cit., che esclude qualsivoglia edificazione dopo l’imposizione del vincolo, incluso l’ampliamento di edifici esistenti, senza alcuna discrezionalità da parte dell’organo preposto alla sua tutela, è atto immediatamente lesivo della posizione giuridica della sig. Ca., perché idoneo ad imprimere un indirizzo ineluttabile alla determinazione conclusiva del procedimento di sanatoria edilizia (ex multis: TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 03.04.2017 n. 1776; TAR Lazio, Latina, sez. I, 23.09.2015 n. 634; TAR Lazio, Roma, sez. II, 27.11.2014 n. 11887; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 18.04.2013 n. 2053).
Nel medesimo senso depone anche la considerazione che ANAS s.p.a. è l’unico soggetto competente ad esprimersi sulla sicurezza o meno della viabilità su una strada statale, con l’effetto che, come ben osserva la ricorrente, la determinazione da esso assunta “non può essere sostituita/surrogata da alcun altro ente (men che meno dal Comune, avendo quest’ultimo competenza solo sulla viabilità comunale”.
5. Nel merito, il ricorso è infondato.
Infatti, con riferimento alla questione, dirimente, dell’applicabilità al caso di specie dell’art. 32, l. n. 47 cit., ovvero del successivo art. 33, si osserva che le opere abusive di cui al presente giudizio sono state pacificamente eseguite nel 1980, cioè dopo l’apposizione del vincolo stradale, ai sensi dell’art. 41-septies, l. 17.08.1942 n. 1150, aggiunto dall’art. 19, l. 06.08.1967 n. 765, e delle norme di attuazione recate dal d.m. 01.04.1968.
Ne consegue che nel caso di specie non viene in questione l’art. 32, comma 2, lett. c), l. n. 47 cit., che riguarda l’inedificabilità relativa di opere insistenti su aree “vincolate dopo la loro esecuzione”, bensì l’art. 33, commi 1, lett. d), e 3, cit., concernente i vincoli di inedificabilità assoluta “imposti prima della esecuzione delle opere stesse” (TAR Campania, Napoli, sez. II, 30.01.2013 n. 660; TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, 24.02.2012 n. 71).
Sul punto, è ormai jus receptum che il divieto di costruzione entro la fascia di rispetto di una strada statale comporta l’inedificabilità assoluta del suolo e, dunque, la non sanabilità dell’opera, perché il vincolo è incompatibile, per loro natura, con ogni manufatto (ex multis: Cons. Stato, sez. I, 27.05.2016 n. 282; TAR Umbria, sez. I, 08.03.2018 n. 154).
Infatti, il c.d. vincolo stradale implicante un divieto assoluto di edificazione si traduce in una limitazione legale al diritto di proprietà su categorie di beni individuate in via generale per la loro posizione relative ad altri beni destinati all’uso pubblico (Cons. Stato, sez. IV, 10.01.2018 n. 90; sez. IV, 13.06.2017 n. 2878; sez. IV, 20.03.2017 n. 1225; sez. IV, 17.05.2012 n. 2842).
Per effetto della natura assoluta di detto vincolo, poi, è stato ritenuto che il diniego di condono di un edificio abusivamente realizzato in sua violazione non richieda nemmeno il previo accertamento sulla effettiva pericolosità dello stesso per il traffico stradale (Cons. Stato, sez. IV, 06.05.2010, n. 2644; TAR Campania, Napoli, sez. II, 26.10.2012 n. 4283; TAR Campania, Salerno, sez. I, 17.09.2012 n. 1645; TAR Lazio, Latina, sez. I, 17.11.2011 n. 923).
In definitiva, stante tutto quanto sopra considerato, il parere espresso da ANAS s.p.a. nell’impugnata nota del 30.09.2013 si sottrae ai vizi di legittimità denunciati dal ricorrente.
6. Infine, ai sensi dell’art. 1, comma 1, l. cost. 09.02.1948 n. 1, si ritiene manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata da parte ricorrente, degli art. 32 e 33, l. n. 47 cit., in combinato disposto con il d.m. 01.04.1968, per violazione degli artt. 3, 42, 97 Cost., oltre che dagli artt. 117 Cost. e 5 TUE, nella parte in cui, per i fabbricati realizzati successivamente all’entrata in vigore dello stesso decreto ministeriale, prevedrebbe un indistinto diniego di edificabilità per tutti gli immobili che ricadono nella fascia di rispetto stradale, a prescindere dalla concreta conformazione dei luoghi e della strada e da un effettivo pericolo per la viabilità, dando vita a una limitazione del diritto di proprietà “del tutto scissa (e/o comunque avulsa) da qualunque concreto/qualificato interesse pubblico”.
Infatti, la limitazione al diritto di proprietà de qua, pur particolarmente penetrante, non è, come pretende parte ricorrente, del tutto scissa o avulsa da qualunque concreto o qualificato interesse pubblico, rispondendo invece, come chiarito da consolidata giurisprudenza, non solo all’esigenza di garantire la sicurezza del traffico e l’incolumità delle persone (Cass. civ., sez. I, 13.04.2012 n. 5875; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 15.02.2013 n. 470) ma anche e soprattutto alla più ampia necessità di assicurare all’ente proprietario o gestore della strada una fascia di terreno da utilizzare, all’occorrenza, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni (cfr.: TAR Campania, Napoli, sez. VII, 21.10.2016 n. 4826; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 26.07.2016 n. 1887; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 10.07.2015 n. 1885; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 08.01.2015 n. 34) (TAR Lazio-Latina, sentenza 11.07.2018 n. 397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo d'inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall'art. 9 l. 24.07.1961 n. 729 (e dal susseguente d.m. 01.04.1968 n. 1404) non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni, con la conseguenza che le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti.
---------------

3.2. Tanto premesso deve essere esaminata la doglianza contenuta nell’odierno gravame principale nella misura in cui si invoca la necessità di un prudente apprezzamento del vincolo in questione e se ne sostiene la non applicabilità al caso in esame anche in ragione della peculiarità della fattispecie.
La giurisprudenza di questo Consiglio, come quella della Corte di Cassazione, ha sostenuto in modo costante il carattere inderogabile del vincolo.
Il vincolo d'inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione sancito dall'art. 9 l. 24.07.1961 n. 729 (e dal susseguente d.m. 01.04.1968 n. 1404) non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni, con la conseguenza che le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, 2062/2013; Id., Sez. I, 282/2016; Id., Sez. IV 5014/2015; Cass. civ., Sez. I, 25401/2016; Id., 25668/2015) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2018 n. 1250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come è noto, le fasce di rispetto individuano le distanze minime a protezione del nastro stradale dall’edificazione e coincidono, dunque, con le aree esterne al confine stradale finalizzate alla eliminazione o riduzione dell’impatto ambientale.
L’ampiezza di tali fasce ovvero le distanze da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni e ricostruzioni e negli ampliamenti fronteggianti le strade, trova disciplina in quanto stabilito dal NCS (articoli 16, 17 e 18, del D.LGT n. 285/1992) e dal Regolamento di attuazione (articoli 26, 27 e 28, del DPR n. 495/1992).
Il vincolo di inedificabilità della "fascia di rispetto stradale" -che è una tipica espressione dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti- non ha natura espropriativa, ma unicamente conformativa, perché ha il solo effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dall’eventuale instaurazione di procedure espropriative.
Le fasce di rispetto stradale previste dal D.Lgs. n. 285 del 1992 e dal D.P.R. n. 495 del 1992 non costituiscono vincoli urbanistici, ma misure poste a tutela della sicurezza stradale che, tuttavia, comportano l'inedificabilità delle aree interessate e sono a tal fine recepite nella strumentazione urbanistica primaria.
La giurisprudenza ha in proposito precisato che il divieto in oggetto risulta finalizzato a mantenere una fascia di rispetto, utilizzabile per l’esecuzione di lavori, l’impianto di cantieri, l’eventuale allargamento della sede stradale, nonché per evitare possibili pregiudizi alla percorribilità della via di comunicazione; per cui le relative distanze vanno rispettate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale.
---------------
In ordine alla Circolare Ministero dei LL.PP. – Direzione Generale Circolazione e Traffico n. 5980 del 30.12.1970, emanata allo scopo di assicurare uniforme applicazione alle disposizioni del D.M. n. 1404 dell’01.04.1968, con esclusione soltanto di quelle aventi carattere di edificazione quali alberghi e motel, ristoranti, stazioni di servizio che svolgono attività diversa da quella del soccorso immediato, il relativo contenuto, nella sua portata esplicativa, non può che essere inteso alla luce dei contenuti della giurisprudenza in materia.
E’ pur vero che, talvolta, la giurisprudenza ha ritenuto assentibili insediamenti di attività “eccentrica” rispetto alle prescrizioni della zonizzazione, purché comunque svolta a beneficio della circolazione stradale, e nel rispetto della sicurezza degli utenti, come per es.
   - un parcheggio a raso o
   - un impianto di carburanti
assumendo che “in via generale, la fascia di rispetto stradale non può rappresentare un ostacolo all'insediamento di nuovi impianti di distribuzione dei carburanti che costituiscono un ordinario completamento della strada su cui circolano autoveicoli che devono necessariamente potersi approvvigionare".
Inoltre, il d.lgs. 32/1998 consente l'installazione degli impianti all'interno delle fasce di rispetto stradale in quanto all'art. 2, comma 3, prescrive espressamente che i Comuni debbano "individuare le destinazioni d'uso compatibili con l'installazione degli impianti all'interno delle zone comprese nelle fasce di rispetto di cui agli artt. 16, 17 e 18 del dlgs 30.04.1992, n. 285, recante il Nuovo codice della strada”.
In tutte queste ipotesi, tuttavia, il parametro di riferimento era contenuta negli atti di pianificazione comunale, orientati a conferire alle predette fasce destinazioni compatibili con le finalità enucleate dalla giurisprudenza, insuscettibili di una lettura estensiva o analogica, siccome norme di stretta interpretazione.
Per converso, laddove detta previsione non vi sia, la fascia di rispetto stradale determina, dunque, una limitazione dello ius aedificandi: come stabilito dall’art. 26 del Regolamento del Codice della Strada, al suo interno non è consentito costruire, ricostruire o ampliare fabbricati.
---------------

7.- Nel merito, carattere dirimente assume, per il Tribunale, la circostanza ostativa per la quale, l’area di intervento ricade all’interno della fascia di rispetto della S.S. n. 19, ed il PRG di Battipaglia nelle fasce di rispetto stradale consente la sola realizzazione di impianti per la gestione della rete stradale.
Le censure con le quali parte ricorrente ha gravato siffatto profilo, non risultano condivisibili.
7.a- Come è noto, le fasce di rispetto individuano le distanze minime a protezione del nastro stradale dall’edificazione e coincidono, dunque, con le aree esterne al confine stradale finalizzate alla eliminazione o riduzione dell’impatto ambientale.
L’ampiezza di tali fasce ovvero le distanze da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni e ricostruzioni e negli ampliamenti fronteggianti le strade, trova disciplina in quanto stabilito dal NCS (articoli 16, 17 e 18, del D.LGT n. 285/1992) e dal Regolamento di attuazione (articoli 26, 27 e 28, del DPR n. 495/1992).
Il vincolo di inedificabilità della "fascia di rispetto stradale" -che è una tipica espressione dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti- non ha natura espropriativa, ma unicamente conformativa, perché ha il solo effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dall’eventuale instaurazione di procedure espropriative (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 13.03.2008, n. 1095).
Le fasce di rispetto stradale previste dal D.Lgs. n. 285 del 1992 e dal D.P.R. n. 495 del 1992 non costituiscono vincoli urbanistici, ma misure poste a tutela della sicurezza stradale che, tuttavia, comportano l'inedificabilità delle aree interessate e sono a tal fine recepite nella strumentazione urbanistica primaria (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, sez. IV, 20.10.2000, n. 5620).
La giurisprudenza ha in proposito precisato che il divieto in oggetto risulta finalizzato a mantenere una fascia di rispetto, utilizzabile per l’esecuzione di lavori, l’impianto di cantieri, l’eventuale allargamento della sede stradale, nonché per evitare possibili pregiudizi alla percorribilità della via di comunicazione; per cui le relative distanze vanno rispettate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale (cfr. Cass. n. 6118 dell’01.06.1995; Cons. Stato, IV, n. 7275/2002, n. 5716/2002, n. 3731/2000; TAR Calabria, Catanzaro, n. 130/2003; TAR Campania, Napoli, n. 5226/2001).
7.b.- Ciò premesso, risulta per tabulas, giusta documentazione versata in atti, che la strumentazione urbanistica del comune di Battipaglia (Prg approvato con decreto Ministro LL. PP. del 20.03.1972) consente nelle fasce di rispetto stradale solo “impianti per la gestione della rete stradale”.
7.c.- Quest’ultima indicazione, ad avviso di parte attorea, consentirebbe la realizzazione dell’impianto progettato, afferente ad attività di soccorso stradale, che, ad ogni effetto, rientrerebbe tra le attività ammesse dal punto 7 della Circolare Ministero dei LL.PP. – Direzione Generale Circolazione e Traffico n. 5980 del 30.12.1970, emanata allo scopo di assicurare uniforme applicazione alle disposizioni del D.M. n. 1404 dell’01.04.1968, con esclusione soltanto di quelle aventi carattere di edificazione quali alberghi e motel, ristoranti, stazioni di servizio che svolgono attività diversa da quella del soccorso immediato.
7.d.- Il Collegio non condivide la tesi attorea.
Il contenuto della menzionata circolare, nella sua portata esplicativa, non può che essere inteso alla luce dei contenuti della giurisprudenza in materia (riportata al punto 7.a) del capo che precede).
E’ pur vero che, talvolta, la giurisprudenza ha ritenuto assentibili insediamenti di attività “eccentrica” rispetto alle prescrizioni della zonizzazione, purché comunque svolta a beneficio della circolazione stradale, e nel rispetto della sicurezza degli utenti, come per es. un parcheggio a raso (ex multis Cons. St. n. 2880/2015) o un impianto di carburanti assumendo che “in via generale, la fascia di rispetto stradale non può rappresentare un ostacolo all'insediamento di nuovi impianti di distribuzione dei carburanti che costituiscono un ordinario completamento della strada su cui circolano autoveicoli che devono necessariamente potersi approvvigionare"; inoltre, il d.lgs. 32/1998 consente l'installazione degli impianti all'interno delle fasce di rispetto stradale in quanto all'art. 2, comma 3, prescrive espressamente che i Comuni debbano "individuare le destinazioni d'uso compatibili con l'installazione degli impianti all'interno delle zone comprese nelle fasce di rispetto di cui agli artt. 16, 17 e 18 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, recante il Nuovo codice della strada” (TAR Molise Campobasso Sez. I, 23.09.2010, n. 1050).
In tutte queste ipotesi, tuttavia, il parametro di riferimento era contenuta negli atti di pianificazione comunale, orientati a conferire alle predette fasce destinazioni compatibili con le finalità enucleate dalla giurisprudenza, insuscettibili di una lettura estensiva o analogica, siccome norme di stretta interpretazione.
Per converso, laddove detta previsione non vi sia, la fascia di rispetto stradale determina, dunque, una limitazione dello ius aedificandi: come stabilito dall’art. 26 del Regolamento del Codice della Strada, al suo interno non è consentito costruire, ricostruire o ampliare fabbricati (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.05.2010 n. 2673).
7.e.- Nel caso che ci occupa, lo strumento urbanistico vigente nel Comune di Battipaglia, consente di realizzare nelle fasce di rispetto stradali, fuori del centro abitato, “solo impianti per la gestione della rete stradale” che, ad avviso del Collegio, non sono identificabili con le opere da assentire con il progetto respinto dall’amministrazione comunale, atteso che la citata previsione afferisce ad opere che funzionalmente ed oggettivamente siano preordinate alla sola gestione della rete stradale.
7.e.1.- Emerge dalla descrizione delle opere contenuta in ricorso che parte ricorrente intende realizzare: un corpo di fabbrica destinato
   - per circa 250,46 mq di superficie netta, a locali adibiti alla custodia degli autoveicoli e motoveicoli posti sotto sequestro dagli organi di polizia;
   - per circa 27,55 mq destinato ad uffici di gestione e servizi;
   - per circa 53,24 mq destinati a deposito, e
   - per circa 65,88 mq di superficie netta destinati ad alloggio del custode.
Trattasi all’evidenza di un impianto produttivo –da edificare al posto delle fatiscenti strutture in lamiere, oggetto di domanda di condono edilizio- incompatibile ed estraneo alla previsione urbanistica che consente di realizzare impianti per la gestione della rete stradale, atteso che le opere realizzande appaiono oggettivamente e funzionalmente connesse alle attività di sequestro, custodia e confisca amministrativa, non necessariamente ma solo occasionalmente riconducibile all’attività di soccorso stradale.
In sostanza, con il progetto denegato, parte ricorrente cerca di far discendere dalla funzione minoritaria ed eventuale dell’attività di soccorso, l’assenso alla realizzazione di un impianto produttivo funzionalmente preordinato ad altra attività -non riconducibile all’ipotesi contemplata dalla norma urbanistica- attraverso la costruzione di nuovi fabbricati, la ricostruzione e l’ampliamento di quelli esistenti.
Per le suesposte ragioni, il ricorso è infondato e soggiace a reiezione (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 16.03.2016 n. 608 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come è noto, le fasce di rispetto individuano le distanze minime a protezione del nastro stradale dall’edificazione e coincidono, dunque, con le aree esterne al confine stradale finalizzate alla eliminazione o riduzione dell’impatto ambientale.
L’ampiezza di tali fasce ovvero le distanze da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni e ricostruzioni e negli ampliamenti fronteggianti le strade, trova disciplina in quanto stabilito dal NCS (artt. 16, 17 e 18, del D.LGT n. 285/1992) e dal Regolamento di attuazione (artt. 26, 27 e 28, del DPR n. 495/1992).
Il vincolo di inedificabilità della "fascia di rispetto stradale" -che è una tipica espressione dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti- non ha natura espropriativa, ma unicamente conformativa, perché ha il solo effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dall’eventuale instaurazione di procedure espropriative.
Come affermato dalla Cassazione, poi, in presenza di un vincolo conformativo previsto dalla legge (quale è la fascia di rispetto), non sono predicabili riferimenti di effettualità edificatoria “di fatto”, ma, ai fini del ristoro del proprietario inciso, rileva solo la distinzione tra aree edificabili “di diritto” ed aree “giuridicamente" non edificabili.
Ciò è stato correttamente rilevato in passato, proprio dal TAR Veneto, Sez. I, 16.10.2006, n. 3442 (le fasce di rispetto stradale previste dal D.Lgs. n. 285 del 1992 e dal D.P.R. n. 495 del 1992 non costituiscono vincoli urbanistici, ma misure poste a tutela della sicurezza stradale che, tuttavia, comportano l'inedificabilità delle aree interessate e sono a tal fine recepite nella strumentazione urbanistica primaria.

---------------
Le delibere consiliari di
adozione e di approvazione della variante parziale al PRG vigente, nella parte in cui modificano l’art. 61 delle NTA consentendo lo svolgimento dell’attività di imprenditoriale parcheggio nella fasce di rispetto stradali, non sono affette dai riscontrati vizi e devono essere reputate legittime.
Tale approdo appare conforme a quanto a più riprese affermato da condivisibile giurisprudenza di merito che, a più riprese, ha interpretato in termini non assoluti le prescrizioni del codice della strada in premessa citate.
Giova precisare, infatti, che a più riprese è stato consentito un utilizzo delle c.d. “fasce di rispetto” che, oggettivamente, pare di utilità minore, per gli utenti della strada, rispetto ad un parcheggio a raso (“in via generale, la fascia di rispetto stradale non può rappresentare un ostacolo all'insediamento di nuovi impianti di distribuzione dei carburanti che costituiscono un ordinario completamento della strada su cui circolano autoveicoli che devono necessariamente potersi approvvigionare; inoltre, il d.lgs. 32/1998 consente l'installazione degli impianti all'interno delle fasce di rispetto stradale in quanto all'art. 2, comma 3 prescrive espressamente che i Comuni debbano "individuare le destinazioni d'uso compatibili con l'installazione degli impianti all'interno delle zone comprese nelle fasce di rispetto di cui agli artt. 16, 17 e 18 del dlgs 30.04.1992, n. 285, recante il Nuovo codice della strada”.
Con riguardo all'ampiezza della fascia di rispetto stradale, si rileva che la medesima, in un contesto urbano densamente edificato ed abitato, persegue una serie di ragionevoli finalità -non limitate alla mera sicurezza ed alla conservazione/manutenzione delle vie, come per il D.M. n. 1444/1968- determinate proprio dalla presenza dell'elemento umano -destinazione pedonale, a parcheggio, misure antinquinamento, anche acustico, arredo urbano- oppure ricollegabili a criteri urbanistico-estetici.

---------------

4.1. Il Collegio non concorda con la tesi esposta dal Tar e concorda invece con la tesi esposta dal Comune di Venezia appellante incidentale e dall’appellante principale Ma.Po.Pa..
Come è noto, le fasce di rispetto individuano le distanze minime a protezione del nastro stradale dall’edificazione e coincidono, dunque, con le aree esterne al confine stradale finalizzate alla eliminazione o riduzione dell’impatto ambientale.
L’ampiezza di tali fasce ovvero le distanze da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni e ricostruzioni e negli ampliamenti fronteggianti le strade, trova disciplina in quanto stabilito dal NCS (articoli 16, 17 e 18, del D.LGT n. 285/1992) e dal Regolamento di attuazione (articoli 26, 27 e 28, del DPR n. 495/1992).
Il vincolo di inedificabilità della "fascia di rispetto stradale" -che è una tipica espressione dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti- non ha natura espropriativa, ma unicamente conformativa, perché ha il solo effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dall’eventuale instaurazione di procedure espropriative (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 13.03.2008, n. 1095).
Come affermato dalla Cassazione poi, in presenza di un vincolo conformativo previsto dalla legge (quale è la fascia di rispetto), non sono predicabili riferimenti di effettualità edificatoria “di fatto”, ma, ai fini del ristoro del proprietario inciso, rileva solo la distinzione tra aree edificabili “di diritto” ed aree “giuridicamente" non edificabili (cfr. infra multa: Cassazione civile, sez. I, 13.04.2006, n. 8707; Cassazione civile, sez. I, 28.10.2005, n. 21092).
Ciò è stato correttamente rilevato in passato, proprio dal TAR Veneto, Sez. I, 16.10.2006, n. 3442 (le fasce di rispetto stradale previste dal D.Lgs. n. 285 del 1992 e dal D.P.R. n. 495 del 1992 non costituiscono vincoli urbanistici, ma misure poste a tutela della sicurezza stradale che, tuttavia, comportano l'inedificabilità delle aree interessate e sono a tal fine recepite nella strumentazione urbanistica primaria (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, sez. IV, 20.10.2000, n. 5620).
Il Tar, che nelle premesse descrittive (punto 7) sembrava avere correttamente colto che la modifica introdotta non escludesse che i parcheggi a raso siano a “servizio della strada” e, ancora, che risultino rispettate le previsioni urbanistiche di zona, è pervenuto ad una interpretazione contraria alle legittimità della variante, sulla scorta della considerazione che il parcheggio fosse organizzato con struttura imprenditoriale.
4.2. Contrariamente a quanto in sentenza esposto, non pare al Collegio che la possibile circostanza che un parcheggio sia organizzato in forma imprenditoriale leda alcuna delle dette esigenze/necessità.
Innanzitutto è improprio richiamare nel caso di specie il concetto di “zonizzazione”: esso non rileva, in quanto la autonomia della disciplina delle fasce di rispetto stradale fa si che ivi possa essere autorizzata attività “eccentrica” rispetto alle prescrizioni della zonizzazione, purché comunque svolta a beneficio della circolazione stradale, e nel rispetto della sicurezza degli utenti.
Con delibazione non illogica né abnorme, ma, anzi, positivamente apprezzabile, il Comune di Venezia ha ritenuto, ed ha inteso specificare, che tale possa essere l’allocazione di parcheggi a raso.
In particolare –sempre valutando la problematica sotto il profilo urbanistico, l’unico rilevante nella specie e l’unico rientrante nella giurisdizione di questo Collegio- la circostanza che la possibilità di parcheggiare possa essere subordinata al versamento di un controvalore in denaro (né più né meno di ciò che avviene in presenza delle c.d. “zone blu” in tutte le città d’Italia, si badi) non implica il venire meno della condizione che il parcheggio sia “posto al servizio della strada e degli utenti”: il rispetto delle previsioni urbanistiche di zona (rectius: la neutralità delle stesse, ai fini della legittimità della allocazione di parcheggi nelle fasce di rispetto) discende dalla stessa destinazione delle medesime.
Le affermazioni del Tar sono evidentemente fuorviate dalla riscontrata destinazione “allo svolgimento di un’attività commerciale e imprenditoriale”, e dalla imprenditorialità della iniziativa in questione fanno discendere in automatico la conseguenza che i detti parcheggi a raso, non siano “al servizio della strada”: parte appellante principale ha buon giuoco nel constatare che la “patrimonializzazione” del parcheggio, non implica che lo stesso cessi per ciò solo di essere posto al servizio degli utenti della strada, ovvero crei pericoli per la sicurezza stradale.
Tale profilo di accoglimento del mezzo di primo grado appare al Collegio inesatto, e va pertanto riformato.
Il Tar si era espresso statuendo “l’annullamento in parte qua anche della delibera del Consiglio Comunale n. 59/2013 laddove possa essere interpretata nel senso di costituire il presupposto per lo sfruttamento commerciale della fascia di rispetto stradale in violazione della disciplina urbanistica.”
In contrario senso, evidenzia il Collegio che le delibere n. 5/2013 (di adozione) e n. 59/2013 (di approvazione) della variante parziale al PRG vigente, nella parte in cui modificano l’art. 61 delle NTA consentendo lo svolgimento dell’attività di imprenditoriale parcheggio nella fasce di rispetto stradali non sono pertanto affette dai riscontrati vizi e devono essere reputate legittime.
Tale approdo appare conforme a quanto a più riprese affermato da condivisibile giurisprudenza di merito che, a più riprese, ha interpretato in termini non assoluti le prescrizioni del codice della strada in premessa citate (TAR Molise Campobasso Sez. I, 23.09.2010, n. 1050).
Giova precisare, infatti, che a più riprese è stato consentito un utilizzo delle c.d. “fasce di rispetto” che, oggettivamente, pare di utilità minore, per gli utenti della strada, rispetto ad un parcheggio a raso (“in via generale, la fascia di rispetto stradale non può rappresentare un ostacolo all'insediamento di nuovi impianti di distribuzione dei carburanti che costituiscono un ordinario completamento della strada su cui circolano autoveicoli che devono necessariamente potersi approvvigionare; inoltre, il d.lgs. 32/1998 consente l'installazione degli impianti all'interno delle fasce di rispetto stradale in quanto all'art. 2, comma 3, prescrive espressamente che i Comuni debbano "individuare le destinazioni d'uso compatibili con l'installazione degli impianti all'interno delle zone comprese nelle fasce di rispetto di cui agli artt. 16, 17 e 18 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, recante il Nuovo codice della strada” TAR Molise Campobasso Sez. I, 23.09.2010, n. 1050).
Anche in epoca più risalente, la giurisprudenza di merito ha patrocinato un approdo coincidente con quello raggiunto dal Collegio e sostenuto dall’appellante principale e dal Comune di Venezia (TAR Puglia Lecce Sez. I, 14.09.2006, n. 4456).
Con riguardo all'ampiezza della fascia di rispetto stradale, si rileva che la medesima, in un contesto urbano densamente edificato ed abitato, persegue una serie di ragionevoli finalità -non limitate alla mera sicurezza ed alla conservazione/manutenzione delle vie, come per il D.M. n. 1444/1968- determinate proprio dalla presenza dell'elemento umano -destinazione pedonale, a parcheggio, misure antinquinamento, anche acustico, arredo urbano- oppure ricollegabili a criteri urbanistico-estetici
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.06.2015 n. 2880 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non v’è dubbio che in base alla normativa del codice della strada la delimitazione del centro abitato avviene con uno specifico procedimento; ma è altrettanto certo che in carenza di tale determinazione la questione controversa deve essere affrontata da un lato sulla base della normativa vigente all’epoca dell’abuso e per altro verso verificando sul piano del diritto urbanistico se la sussistenza di un centro abitato possa essere rappresentata dall’assetto interamente urbanizzato della zona realizzatosi in forza del piano regolatore.
Sotto il primo profilo occorre muovere dal dato normativo per cui, in base all’art. 9 della legge n. 761/1961, le costruzioni debbono tenersi a distanza di rispetto dall’autostrada non inferiore ai 25 m.l.. Tale norma, vigente all’epoca dell’abuso, per espressa disposizione dell’art. 17-quater della legge n. 765/1967, è rimasta in vigore ben oltre l’avvento del DM 01.04.1968 attuativo della stessa, ed è stata abrogata solo con l’intervento dell’art. 231 del nuovo codice della strada (d.leg.vo n. 295/1992).
Quanto alla valenza delle disposizioni di PRG, occorre rilevare che, in base all’art. 7 (comma 2, n. 2) della legge n. 1150 del 1942 (come modificata dall’art. 1 della legge n. 1187/1968) il piano regolatore deve recare tra l’altro la “precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano”.
Più precisa è la disposizione introdotta dall’art. 18, secondo comma, della legge n. 865/1971 che, nel definire il “
centro edificato” ai fini urbanistico-edilizi, e sostanzialmente precisando direttamente il contenuto che deve avere il provvedimento di delimitazione, stabilisce che esso “comprende tutte le aree edificate”... Con tale ambito appare quindi del tutto collimare la realizzata previsione di PRG relativa a zona a completamento residenziale e saturazione.
Sul versante della nozione di centro abitato emergente dal codice della strada, fermo restando che la sua perimetrazione avviene mediante lo specifico procedimento indicato dal codice della strada, il Collegio ritiene che la mancata osservanza di tale indicazione normativa non prelude che, ai differenti fini urbanistici, la definizione in questione possa essere individuata sulla base delle norme del PRG; ciò anche considerato che la perimetrazione del centro abitato ai sensi dell'art. 4 del Codice della strada (che si realizza attraverso uno specifico procedimento amministrativo) avviene, per espressa previsione della medesima disposizione, “ai fini dell'attuazione della disciplina della circolazione stradale”, fornendosi inoltre (art. 3, n. 8 del D.lgs. n. 285/1982) una nozione di centro abitato affatto diversa da quella prevista dall'art. 4 della legge reg. n. 17/1982 e dell’art. 18 della legge n. 865/1971.
Sul punto, dell’esame della giurisprudenza in materia, dopo un iniziale e datato orientamento generale per cui la perimetrazione del centro abitato può risultare anche dallo strumento urbanistico, emerge la tesi per cui “la delimitazione del centro abitato eventualmente disposta ai fini del codice della strada o del piano del traffico è del tutto irrilevante ai fini urbanistici”; in particolare, "non sussiste la necessità di un apposito atto di perimetrazione allorché l’insistenza dell’immobile in centro abitato emerge “ictu oculi” dalla semplice postazione dello stato dei luoghi”.
Anche recentissimamente è stato osservato che: “l'art. 1 del D.M. n. 1404 del 1968 afferma che le disposizioni contenute in tale testo normativo "relative alle distanze minime a protezione del nastro stradale, vanno osservate nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati e degli insediamenti previsti dai piani regolatori generali e dai programmi di fabbricazione", e che l'art. 9 della L. n. 729 del 1961, a sua volta, dispone al suo primo comma, ... che "lungo i tracciati delle autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione dell'autostrada stessa".
In sintesi, ai fini della normativa edilizia sul condono edilizio, ad avviso del Collegio va confermato che la previsione da parte dello strumento urbanistico di una zona residenziale di completamento e la sua realizzazione mediante i relativi insediamenti abitativi, costituiscono elementi sufficienti ad integrare il concetto di centro abitato (differente da quello accolto dal codice della strada) e pertanto a rendere inapplicabili i limiti di distanza di rispetto autostradale previsti dal DM del 1968, perché questi operano espressamente al di fuori del centro abitato.
---------------

2.2.- La questione in esame verte dunque sullo stabilire se, in carenza di un provvedimento di perimetrazione del centro abitato, sia legittimo il diniego di condono di un abuso edilizio realizzato oltre i 25 ml dalla proprietà autostradale, in applicazione della predetta distanza di 60 metri.
L’individuazione della distanza applicabile si collega a sua volta alla questione se, in detta carenza, può tenersi conto (come sostengono gli appellanti) dello stato di urbanizzazione della zona o più precisamente delle disposizioni dello strumento urbanistico, le quali nella specie conformano la zona come B1 di completamento e saturazione residenziale.
Non v’è dubbio che in base alla normativa del codice della strada la delimitazione del centro abitato avviene con uno specifico procedimento (per questo profilo cfr. Cons. di Stato, sez. IV, n. 3741/2007); ma è altrettanto certo che in carenza di tale determinazione la questione controversa deve essere affrontata da un lato sulla base della normativa vigente all’epoca dell’abuso e per altro verso verificando sul piano del diritto urbanistico se la sussistenza di un centro abitato possa essere rappresentata dall’assetto interamente urbanizzato della zona realizzatosi in forza del piano regolatore.
Sotto il primo profilo occorre muovere dal dato normativo per cui, in base all’art. 9 della legge n. 761/1961, le costruzioni debbono tenersi a distanza di rispetto dall’autostrada non inferiore ai 25 m.l.. Tale norma, vigente all’epoca dell’abuso, per espressa disposizione dell’art. 17-quater della legge n. 765/1967, è rimasta in vigore ben oltre l’avvento del DM 01.04.1968 attuativo della stessa, ed è stata abrogata solo con l’intervento dell’art. 231 del nuovo codice della strada (d.leg.vo n. 295/1992).
Quanto alla valenza delle disposizioni di PRG, occorre rilevare che, in base all’art. 7 (comma 2, n. 2) della legge n. 1150 del 1942 (come modificata dall’art. 1 della legge n. 1187/1968) il piano regolatore deve recare tra l’altro la “precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano”.
Più precisa è la disposizione introdotta dall’art. 18, secondo comma, della legge n. 865/1971 che, nel definire il “centro edificato” ai fini urbanistico-edilizi, e sostanzialmente precisando direttamente il contenuto che deve avere il provvedimento di delimitazione, stabilisce che esso “comprende tutte le aree edificate”... Con tale ambito appare quindi del tutto collimare la realizzata previsione di PRG relativa a zona a completamento residenziale e saturazione.
Sul versante della nozione di centro abitato emergente dal codice della strada, fermo restando che la sua perimetrazione avviene mediante lo specifico procedimento indicato dal codice della strada, il Collegio ritiene che la mancata osservanza di tale indicazione normativa non prelude che, ai differenti fini urbanistici, la definizione in questione possa essere individuata sulla base delle norme del PRG; ciò anche considerato che, come ricorda la stessa decisione impugnata, la perimetrazione del centro abitato ai sensi dell'art. 4 del Codice della strada (che si realizza attraverso uno specifico procedimento amministrativo) avviene, per espressa previsione della medesima disposizione, “ai fini dell'attuazione della disciplina della circolazione stradale”, fornendosi inoltre (art. 3, n. 8 del D.lgs. n. 285/1982) una nozione di centro abitato affatto diversa da quella prevista dall'art. 4 della legge reg. n. 17/1982 e dell’art. 18 della legge n. 865/1971.
Sul punto, dell’esame della giurisprudenza in materia, dopo un iniziale e datato orientamento generale per cui la perimetrazione del centro abitato può risultare anche dallo strumento urbanistico (Cons. di Stato n. 167/1973), emerge la tesi (peraltro citata dalla stessa decisione gravata) per cui “la delimitazione del centro abitato eventualmente disposta ai fini del codice della strada o del piano del traffico è del tutto irrilevante ai fini urbanistici (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 05.04.2005, n. 1560; idem, Sez. V, 07.03.1997, n. 211)”; in particolare secondo l’orientamento sopra citato (v. anche Cons. di Stato n. 1560/2005) “non sussiste la necessità di un apposito atto di perimetrazione allorché l’insistenza dell’immobile in centro abitato emerge “ictu oculi” dalla semplice postazione dello stato dei luoghi”.
Anche recentissimamente è stato osservato (Cons. di Stato, sez. IV, n. 1118/2014) che: “l'art. 1 del D.M. n. 1404 del 1968 afferma che le disposizioni contenute in tale testo normativo "relative alle distanze minime a protezione del nastro stradale, vanno osservate nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati e degli insediamenti previsti dai piani regolatori generali e dai programmi di fabbricazione", e che l'art. 9 della L. n. 729 del 1961, a sua volta, dispone al suo primo comma, ……….. che "lungo i tracciati delle autostrade e relativi accessi, previsti sulla base dei progetti regolarmente approvati, è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore a metri 25 dal limite della zona di occupazione dell'autostrada stessa";
In sintesi, ai fini della normativa edilizia sul condono edilizio, ad avviso del Collegio va confermato che la previsione da parte dello strumento urbanistico di una zona residenziale di completamento e la sua realizzazione mediante i relativi insediamenti abitativi, costituiscono elementi sufficienti ad integrare il concetto di centro abitato (differente da quello accolto dal codice della strada) e pertanto a rendere inapplicabili i limiti di distanza di rispetto autostradale previsti dal DM del 1968, perché questi operano espressamente al di fuori del centro abitato.
Di conseguenza, la fattispecie di sanatoria in esame non poteva trovare ostacolo nella disciplina di cui all’art. 33 della legge n. 47/1985, essendo costituita da un abuso realizzato in vigenza dell’art. 9 della legge n. 729/1961, in zona urbanizzata ai sensi del PRG e situato a distanza superiore ai 25 metri dalla proprietà autostradale.
3. - L’appello deve pertanto essere accolto con conseguente riforma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.09.2014 n. 4469 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione connesso al vincolo sancito dal D.M. 01.04.1968, n. 1404 non può essere inteso restrittivamente ……. ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare un'area contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi compresi quelli di ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
Pertanto tale distanze vanno mantenute anche con riferimento ad opere che pur rientrando nella fascia stessa, siano arretrate rispetto ad opere preesistenti.

---------------

2. E’ infondato il primo motivo mediante il quale si rileva la violazione dell’art. 39 delle NTA e dell’art. 7 della L. Reg. 24/1985.
2.1 L’esame degli atti consente di rilevare come l’Amministrazione comunale abbia correttamente applicato il sopra citato art. 7 e, ciò, nella parte in cui consente, nelle fasce di rispetto stradali, l’esecuzione di una serie limitata di opere edilizie, purché queste ultime non comportino l’avanzamento dell’edificio esistente sul fronte stradale.
2.2 Si è accertato, infatti, che l’intervento richiesto in sanatoria prevedeva la demolizione di un manufatto di mq. 56,79 in luogo della realizzazione di un nuovo fabbricato di mq. 172,13.
Tale intervento ricadeva all’interno di una fascia di rispetto stradale che, ai sensi, dell’art. 39, comma 1, delle NTA, costituisce area “destinata alla conservazione, alla protezione, all’ampliamento e alla creazione di spazi per il traffico pedonale e veicolare”.
2.3 Ne consegue come risulti evidente la legittimità del provvedimento e, ciò, considerando che l’ampliamento proposto andava a costituire un avanzamento verso la strada, ipotesi quest’ultima espressamente vietata dalle disposizioni sopra citate.
2.4 Si consideri, inoltre, che un costante orientamento giurisprudenziale (per tutti si veda TAR Toscana Sez. III, 24.01.2013, n. 112) ha affermato che “il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione connesso al vincolo sancito dal D.M. 01.04.1968, n. 1404 non può essere inteso restrittivamente ……. ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare un'area contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi compresi quelli di ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni; pertanto tale distanze vanno mantenute anche con riferimento ad opere che pur rientrando nella fascia stessa, siano arretrate rispetto ad opere preesistenti” (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.01.2014 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio osserva che un pacifico orientamento giurisprudenziale ha affermato che il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale abbia carattere assoluto e prescinda dalle caratteristiche dell'opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione connesso al vincolo sancito dal successivo D.M. 01.04.1968 n. 1404 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare un'area contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi compresi quelli di ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni; pertanto tale distanze vanno mantenute anche con riferimento ad opere che pur rientrando nella fascia stessa, siano arretrate rispetto ad opere preesistenti qual è nel caso di specie un filare di alberi.
Tale principio trova applicazione per tutte le opere stabilmente realizzate sul terreno, a prescindere dalla loro tipologia, utilizzazione e dalla precarietà dei materiali utilizzati.
Ne consegue che le opere realizzate all'interno della fascia di rispetto stradale prevista al di fuori del perimetro del centro abitato (fascia di venti metri per il caso specifico), se costruite dopo l'imposizione del vincolo (come nel caso di specie), rientrano nella previsione di cui all'art. 33, comma 1, lett. d), della legge 28.02.1985, n. 47 e non sono suscettibili di sanatoria.

---------------
Il vincolo di inedificabilità ricadente sulle aree situate in fascia di rispetto stradale non deriva dalla pianificazione e dalla programmazione urbanistica, ma è sancito nell’interesse pubblico da apposite leggi che rendono il suolo ad esso soggetto legalmente inedificabile, sicché tale vincolo non ha né un contenuto propriamente espropriativo né può qualificarsi come preordinato all’espropriazione, dovendosi tenere conto, invece, di esso nella determinazione dell’indennità di esproprio.
---------------

1) Con atto ritualmente notificato e depositato, il nominato ricorrente ha impugnato il provvedimento in epigrafe indicato, relativo al diniego di sanatoria di un piccolo magazzino/ripostiglio realizzato abusivamente a servizio dell’appartamento di proprietà, chiedendone –previa la sospensione (la relativa istanza è stata respinta con ordinanza n. 224 del 1997), l’annullamento per i tre motivi dedotti nell’atto introduttivo del giudizio nei quali parte ricorrente lamenta:
   - il vincolo stradale che non consentirebbe la sanatoria non sarebbe assoluto, ma relativo, dovendosi diversamente considerare in violazione dell’art. 42 della Costituzione perché non soggetto a decadenza né a indennizzo;
   - trattandosi di vincolo relativo, l’Amministrazione comunale avrebbe dovuto chiedere il parere all’Autorità preposta al vincolo anziché affermare apoditticamente l’insanabilità dell’abuso edilizio;
   - mancherebbe il necessario parere di compatibilità espresso dall’Autorità preposta al vincolo e un’adeguata motivazione sulle ragioni del contrasto dell’abuso con il vincolo stesso che in realtà non sussisterebbero, essendo collocato il manufatto al di sotto della sede stradale e dietro una fila di cipressi secolari che lo sovrastano.
Una memoria difensiva è stata depositata dal ricorrente in data 14.12.2012. In tale atto, oltre a insistere sui motivi dedotti viene dedotto che sarebbe stata rilasciata nel 2001 un’autorizzazione a sanatoria per un altro abuso (serra) posto a ridosso della strada e ciò confermerebbe la tesi già propugnata che nella specie si tratterebbe di un vincolo di in edificabilità relativa.
L’Amministrazione intimata non si è costituita in giudizio.
2) Il ricorso, nei tre motivi dedotti che possono essere trattati congiuntamente, sono manifestamente infondati.
Il Collegio osserva che un pacifico orientamento giurisprudenziale anche di questa Sezione, che il Collegio non ha motivo di disattendere, ha affermato che il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale abbia carattere assoluto e prescinda dalle caratteristiche dell'opera realizzata, in quanto il divieto di costruzione connesso al vincolo sancito dal successivo D.M. 01.04.1968 n. 1404 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare un'area contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi compresi quelli di ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni; pertanto tale distanze vanno mantenute anche con riferimento ad opere che pur rientrando nella fascia stessa, siano arretrate rispetto ad opere preesistenti qual è nel caso di specie un filare di alberi (cfr. sul punto Cons. Stato, sez. IV, 30.09.2008 n. 4719; TAR Toscana, Sez. 3^ 23.07.2012, n. 1347).
Tale principio trova applicazione per tutte le opere stabilmente realizzate sul terreno, a prescindere dalla loro tipologia, utilizzazione e dalla precarietà dei materiali utilizzati.
Ne consegue che le opere realizzate all'interno della fascia di rispetto stradale prevista al di fuori del perimetro del centro abitato (fascia di venti metri per il caso specifico), se costruite dopo l'imposizione del vincolo (come nel caso di specie), rientrano nella previsione di cui all'art. 33, comma 1, lett. d), della legge 28.02.1985, n. 47 e non sono suscettibili di sanatoria.
Il ricorrente, che ha realizzato un'opera abusiva all'interno della predetta fascia di rispetto ed al di fuori del perimetro del centro abitato, non può, quindi, avvalersi della possibilità di sanatoria offerta dall'art. 32, comma 2, lett. c), della citata legge n. 47 del 1985 (per cui "Sono suscettibili di sanatoria, alle condizioni sotto indicate, le opere insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione e che risultino: [...] c) in contrasto con le norme del D.M. 01.04.1968 n. 1404 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 13.04.1968, sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico"), perché nella fattispecie in esame il vincolo sull'area era stato imposto prima della costruzione del manufatto. Donde l’Amministrazione non doveva e non poteva sottoporre l’istanza all’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Trattandosi di vincolo assoluto permanente e inderogabile, non occorreva alcuna particolare motivazione che si facesse carico della situazione in concreto, essendo sufficiente la verifica della violazione del limite di distanza dalla strada, configurandosi l'atto di diniego come un provvedimento del tutto vincolato. In tal senso, neppure la presenza di una fila di secolari cipressi posti sul ciglio stradale innanzi, quindi, al manufatto abusivo, poteva costituire motivo di deroga, posto che, verificandosi esigenze di pubblica necessità, anche tali alberi potrebbero essere rimossi.
Dal che consegue, in particolare, anche l'infondatezza dei vizi dedotti nel secondo e terzo motivo, come pure l’irrilevanza della circostanza, peraltro non dimostrata con il deposito del titolo rilasciato dall’Amministrazione, della sanatoria ottenuta nel 2001 per altro manufatto adibito a serra,non potendo giustificare eventuali illegittime precedenti autorizzazioni l'adozione di un provvedimento in ripetuta violazione della legge. E ciò a prescindere dalla precarietà propria della tipologia di abuso che sarebbe stato sanato.
Di alcun rilievo è, infine, la tesi che una tale qualificazione renderebbe la disciplina del vincolo derivante dal rispetto delle fasce autostradali contrario all’art. 42 della Costituzione. Come evidenziato, infatti dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, il vincolo di inedificabilità ricadente sulle aree situate in fascia di rispetto stradale non deriva dalla pianificazione e dalla programmazione urbanistica, ma è sancito nell’interesse pubblico da apposite leggi che rendono il suolo ad esso soggetto legalmente inedificabile, sicché tale vincolo non ha né un contenuto propriamente espropriativo né può qualificarsi come preordinato all’espropriazione, dovendosi tenere conto, invece, di esso nella determinazione dell’indennità di esproprio (cfr. Cass.ne. Sez. I civile, 13.04.2012 n. 5875; 06.09.2006 n. 19132) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 24.01.2013 n. 112 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aggiornamento al 25.09.2022

Autorizzazione paesaggistica, richiesta di integrazioni da parte della Soprintendenza:
il termine di 45 gg. (ex art. 146 dlgs 42/2004) entro cui poter esprimere il proprio parere risulta sospeso (e non interrotto).

EDILIZIA PRIVATALa richiesta di integrazioni da parte della Soprintendenza comporta l’effetto sospensivo, e non interruttivo, del termine di 45 giorni entro cui esprimere il proprio parere ex art. 146 dlgs 42/2004.
Difatti, secondo l’orientamento condiviso da questo Collegio “Non può, del resto, ritenersi che, con il richiedere l'integrazione documentale in data 22.04.2021, la Soprintendenza abbia interrotto il termine di 45 giorni, di cui si discute (che avrebbe, quindi, ripreso a decorrere, ex novo): ciò, perché, in primis, l'art. 146, comma 5, d.l.vo 42/2004, configura tale termine come innegabilmente perentorio, e non prevede affatto la facoltà, dell'organo tutorio statale, d'interromperlo, ad libitum, mercé la formulazione di richieste d'integrazione documentale, od istruttorie che a dir si voglia.
In ogni caso, si tengano presenti, al fine della qualificazione dell'effetto, conseguente alla richiesta d'integrazione documentale della Soprintendenza, come meramente sospensivo, piuttosto che interruttivo, le contrarie argomentazioni, condivise dal Collegio, esposte, da parte ricorrente, nel contesto della terza censura dell'atto introduttivo del giudizio: "Né varrebbe, in contrario, sostenere che il termine per rendere il parere di competenza (20 o 45 giorni) sia iniziato nuovamente a decorrere dall'integrazione documentale del 05.07.2021 e/o dai motivi ostativi/osservazioni del privato del 16.07.2021.
Ciò, prima di tutto, perché la richiesta di integrazione documentale non interrompe il termine del procedimento, ma lo sospende. Sul punto, la lettura dell'intero "Codice dei beni culturali e del paesaggio" è univoca.
Il legislatore: a) non ha mai utilizzato il termine "interrompe"; b) al contrario, ha sempre utilizzato il termine "sospende" in tema di integrazione documentale; il riferimento va:
   - all'art. 22, comma 2: "qualora la soprintendenza chieda chiarimenti o elementi integrativi di giudizio, il termine indicato al comma 1 è
sospeso fino al ricevimento della documentazione richiesta";
   - all'art. 22, comma 3: "ove sorga l'esigenza di procedere ad accertamenti di natura tecnica, la soprintendenza ne dà preventiva comunicazione al richiedente ed, il termine indicato al comma 1 è sospeso fino all'acquisizione delle risultanze degli accertamenti d'ufficio e comunque per non più di trenta giorni";
   - all'art. 159, comma 2, ultimo periodo: "in caso di richiesta di integrazione documentale o di accertamenti il termine è sospeso per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti";
   - all'art. 159, comma 4, ultimo periodo: "in caso di richiesta di integrazione documentale o di accertamenti, il termine è sospeso per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti".
La correttezza della ricostruzione che precede trova conferma nell'art. 11, comma 5, del d.P.R. n. 31/2017 ("... Il procedimento resta sospeso ...") il quale, come già ha avuto modo di chiarire codesto TAR, è una norma "... di rango regolamentare, (che) non può certo essere in contrasto con la disciplina primaria".
Muovendo da tale presupposto è evidente che i termini per rendere il parere di competenza non registrano alcuna interruzione -rectius, non riprendono a decorrere nuovamente dall'inizio- ma una mera sospensione
”.
---------------

... per l’annullamento:
   a- del diniego di autorizzazione paesaggistica ex art. 146 D.lgs. n. 42/2004 prot. n. 28738 del 07.07.2022, notificato in pari data, del Comune di Capaccio Paestum ad “Oggetto: Diniego di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 146 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e s.m.l. relativo all'istanza presentata dalla sig.ra Ga.Iv. nata a ... (SA) il ... in qualità di legale rappr. della società "Ma.Gr. Srl' con sede in Capaccio Paestum (SA) al Viale ..., per la realizzazione di lavori di "Demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria di fabbricato esistente ai sensi della Legge Regionale n. 19 del 28.12.2009 e ss.mm.li." in località Capaccio Scalo, sull'area identificata in catasto al Foglio di Mappa n. 23, particella n, 69” nella parte in cui rigetta la istanza di autorizzazione paesaggistica;
   b- del parere contrario della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Salerno e Avellino, prot. n. 13896-P del 17.06.2022 -così come citato dal Comune di Capaccio Paestum- e assunto al protocollo del Comune di Capaccio Paestum n. 26030 del 21.06.2022 (prot. pratica n. 34.43.04/165.567 Soprintendenza), notificato in data 05.07.2022, ad “Oggetto: Comune di CAPACCIO PAESTUM (SA) - località Capaccio Scalo - Fg. 23 p.lla 69 sub 1, 2, 3. Istanza di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 22.01.2004 "Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio" per i Lavori di "Demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria del 35% di un fabbricato per civile abitazione sito in località Capaccio Scalo" Piano Casa DITTA: GA.IV. legale rappresentante di MA.GR. S.R.L. PARERE CONTRARIO” nella parte in cui nega alla società ricorrente la autorizzazione paesaggistica richiesta;
   c- ove occorra, della Comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza ai sensi dell’art. 10-bis Legge n. 241/1990 della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Salerno e Avellino (prot. Soprintendenza –così come citato dal Comune di Capaccio Paestum– n. 10493-P del 10.05.2022; prot. Comune di Capaccio Paestum n. 20452 del 10.05.2022) ad “Oggetto: Comune di CAPACCIO PAESTUM (SA) - località Capaccio Scalo - Fg. 23 p.lla 69 sub 1, 2, 3. Istanza di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 22.01.2004 "Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio" per i Lavori di "Demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria del 35% di un fabbricato per civile abitazione sito in località Capaccio Scalo” Piano Casa DITTA: GA.IV. legale rappresentante di MA.GR. S.R.L. "Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza" (L. 07.08.1990, n. 241 - art. 10-bis)”;
...
La società ricorrente, con il ricorso in epigrafe, notificato in data 28.07.2022 e depositato in pari data, deduceva in fatto:
   - di aver presentato in data 30.12.2020 al Comune di Capaccio Paestum una richiesta di permesso di costruire, con contestuale istanza di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004, per lavori di “Demolizione e ricostruzione con aumento di volumetria del 35% di un fabbricato per civile abitazione sito in località Capaccio Scalo” in applicazione del Piano Casa L.R. 19/2009 così come modificata dalla L.R. 1/2011, utilizzando tecniche costruttive conformi alle normative in zona sismica, materiali eco compatibili e miglioramento delle prestazioni energetiche;
   - che, in esito all’istruttoria comunale veniva predisposta la relazione tecnica illustrativa con proposta favorevole ai sensi dell’art. 146, comma 7, D.lgs. n. 42/2004, con relativo parere favorevole della Commissione Locale per il Paesaggio;
   - che, in data 04.11.2021 il Comune inoltrava, con nota pervenuta il 12.11.2021 e acquisita al protocollo il 15.11.2021, la richiesta di autorizzazione paesaggistica in oggetto per il parere preventivo della Soprintendenza ai sensi dell’art. 146, comma 5, del D.lgs. n. 42/2004;
   - che, in data 21.12.2021 la Soprintendenza formulava una richiesta di integrazioni, riscontrata dal Comune in data 17.03.2022, con nota pervenuta il 25.03.2022 e protocollata il 04.04.2022;
   - che, in data 10.05.2022 la Soprintendenza trasmetteva al Comune la comunicazione dei motivi ostativi ai sensi dell’art. 10-bis della Legge n. 241/1990;
   - che l’Amministrazione provvedeva a notificare a mezzo Messo comunale il preavviso di rigetto;
   - di aver trasmesso, in data 07.06.2022, le osservazioni in merito al suddetto preavviso di rigetto, rappresentandone l’illegittimità;
   - che, in data 05.07.2022 il Comune notificava a mezzo Messo comunale il parere contrario della Soprintendenza del 17.06.2022 e, in data 07.07.2022, notificava il diniego di autorizzazione paesaggistica adottato in considerazione del parere contrario della Soprintendenza.
A sostegno del gravame venivano articolati i seguenti motivi di diritto:

  
A. SULLA ILLEGITTIMITÀ DEL PARERE DELLA SOPRINTENDENZA.
I. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 10-BIS L. N. 241/1990.
Si deduceva l’illegittimità del parere negativo della Soprintendenza in quanto fondato su motivazioni non esplicitate nel preavviso di rigetto, il quale conteneva formule vuote, atecniche, che non consentivano alla società di sviluppare un contraddittorio completo e proficuo.
II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 146, COMMI 5 E 8, D.LGS. N. 42/2004.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 17 E 22 DELLE N.T.A. DEL PIANO REGOLATORE DEL COMUNE DI CAPACCIO PAESTUM (APPROVATO CON DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE N. 9623 DEL 03.05.1991).
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 9 DEL D.M. 02.04.1968, N. 1444.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEL D.M. 07.06.1967.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 L. N. 241/1990.
   ILLEGITTIMITÀ DEL PROVVEDIMENTO PER DIFETTO DI MOTIVAZIONE.
Si deduceva l’illegittimità delle ragioni poste a fondamento del parere della Soprintendenza, in quanto manifestamente illogiche, fondate su dati erronei e comunque carenti sotto il profilo istruttorio.
In particolare, la Società ricorrente rappresentava, tramite relazione tecnica allegata, che “il parere contrario da parte della Soprintendenza sia totalmente infondato ed errato in quanto il progetto in questione:
   - E' conforme sia ai vigenti strumenti urbanistici e sia in applicazione della L.R. N. 19 del 28.12.2009, modificata dalla L.R. n. 1 del 05.01.2011 e ss.mm.ii.;
   - Prevede la riduzione del rischio sismico e del risparmio energetico in conformità alle vigenti disposizioni di legge;
   - E' fortemente contestualizzato rispetto al centro cittadino di Capaccio Scalo, e non è certo distonico, così come definito dalla Soprintendenza:
   - Promuove una tipologia edilizia moderna, capace di rispondere agli standard qualitativi necessari che con le dovute personalizzazioni è già presente sul territorio, risultando già stata assentita
”.

  
B. SULLA ILLEGITTIMITA’ DEL PROVVEDIMENTO DEL COMUNE DI CAPACCIO PAESTUM.
I. ILLEGITTIMITÀ IN VIA DERIVATA.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 10-BIS L. N. 241/1990.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 146, COMMI 5, 8 E 9, D.LGS. N. 42/2004.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 17 E 22 DELLE N.T.A. DEL PIANO REGOLATORE DEL COMUNE DI CAPACCIO PAESTUM (APPROVATO CON DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE N. 9623 DEL 03.05.1991).
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 9 DEL D.M. 02.04.1968, N. 1444.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEL D.M. 07.06.1967.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 L. N. 241/1990.
   ILLEGITTIMITÀ DEL PROVVEDIMENTO PER DIFETTO DI MOTIVAZIONE.
Si deduceva l’illegittimità derivata del provvedimento di diniego, in quanto fondato esclusivamente sul parere contrario della Soprintendenza.
II. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 146, COMMI 8 E 9, D.LGS. N. 42/2004.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 17-BIS L. N. 241/1990.
   VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 L. N. 241/1990.
   ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE.
Si deduceva che, il parere della Soprintendenza doveva ritenersi non vincolante in quanto tardivo e, conseguentemente, doveva essere autonomamente e motivatamente valutato dal Comune nel provvedimento di diniego; pertanto, il diniego di rilascio, fondato esclusivamente sul tale parere, risultava illegittimo.
Altresì si seduceva la mancata motivazione del provvedimento di diniego anche con riguardo al parere favorevole della Commissione per il Paesaggio.
...
Il gravame è in parte manifestamente inammissibile e in parte manifestamente fondato e pertanto può essere deciso con sentenza in forma semplificata.
Innanzitutto, il ricorso va dichiarato inammissibile quanto all’impugnativa del parere della Soprintendenza.
Come da consolidata giurisprudenza amministrativa “Il parere espresso dalla Soprintendenza oltre il termine di quarantacinque giorni previsto dalla legge perde la propria normale vincolatività degradando a parere non vincolante. Quindi, l'Amministrazione procedente deve, a quel punto, valutarlo criticamente e motivatamente” (ex multis, TAR Campania-Napoli Sez. III, sent. 14.01.2021, n. 275).
Nel caso di specie, non vi è possibilità di dubbio circa la (incontestata) tardività del parere.
Invero, la richiesta di parere è pervenuta il 12.11.2021 (v. all. 2 del fascicolo di parte resistente); la Soprintendenza ha richiesto integrazioni in data 21.12.2021 e il Comune ha riscontrato la richiesta con nota pervenuta il 25 marzo (v. all. 6 e 9 del fascicolo di parte resistente).
Successivamente, in data 10.05.2022 la Soprintendenza ha trasmesso al Comune di Capaccio Paestum la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza ai sensi dell’art. 10-bis Legge n. 241/1990 e, non ritenendo sufficienti le osservazioni presentate dall’odierna ricorrente, ha adottato il parere negativo in data 17.06.2022, notificato a mezzo Messo comunale in data 05.07.2022 (v. all. 8 e 11 del fascicolo di parte resistente).
La tardività discende, in particolare, dall’effetto sospensivo e non interruttivo della richiesta di integrazioni da parte della Soprintendenza.
Difatti, secondo l’orientamento condiviso da questo Collegio “Non può, del resto, ritenersi che, con il richiedere l'integrazione documentale in data 22.04.2021, la Soprintendenza abbia interrotto il termine di 45 giorni, di cui si discute (che avrebbe, quindi, ripreso a decorrere, ex novo): ciò, perché, in primis, l'art. 146, comma 5, d.l.vo 42/2004, configura tale termine come innegabilmente perentorio, e non prevede affatto la facoltà, dell'organo tutorio statale, d'interromperlo, ad libitum, mercé la formulazione di richieste d'integrazione documentale, od istruttorie che a dir si voglia.
In ogni caso, si tengano presenti, al fine della qualificazione dell'effetto, conseguente alla richiesta d'integrazione documentale della Soprintendenza, come meramente sospensivo, piuttosto che interruttivo, le contrarie argomentazioni, condivise dal Collegio, esposte, da parte ricorrente, nel contesto della terza censura dell'atto introduttivo del giudizio: "Né varrebbe, in contrario, sostenere che il termine per rendere il parere di competenza (20 o 45 giorni) sia iniziato nuovamente a decorrere dall'integrazione documentale del 05.07.2021 e/o dai motivi ostativi/osservazioni del privato del 16.07.2021.
Ciò, prima di tutto, perché la richiesta di integrazione documentale non interrompe il termine del procedimento, ma lo sospende. Sul punto, la lettura dell'intero "Codice dei beni culturali e del paesaggio" è univoca.
Il legislatore: a) non ha mai utilizzato il termine "interrompe"; b) al contrario, ha sempre utilizzato il termine "sospende" in tema di integrazione documentale; il riferimento va:
   - all'art. 22, comma 2: "qualora la soprintendenza chieda chiarimenti o elementi integrativi di giudizio, il termine indicato al comma 1 è
sospeso fino al ricevimento della documentazione richiesta";
   - all'art. 22, comma 3: "ove sorga l'esigenza di procedere ad accertamenti di natura tecnica, la soprintendenza ne dà preventiva comunicazione al richiedente ed, il termine indicato al comma 1 è
sospeso fino all'acquisizione delle risultanze degli accertamenti d'ufficio e comunque per non più di trenta giorni";
   - all'art. 159, comma 2, ultimo periodo: "in caso di richiesta di integrazione documentale o di accertamenti il termine è
sospeso per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti";
   - all'art. 159, comma 4, ultimo periodo: "in caso di richiesta di integrazione documentale o di accertamenti, il termine è
sospeso per una sola volta fino alla data di ricezione della documentazione richiesta ovvero fino alla data di effettuazione degli accertamenti".
La correttezza della ricostruzione che precede trova conferma nell'art. 11, comma 5, del d.P.R. n. 31/2017 ("... Il procedimento resta
sospeso ...") il quale, come già ha avuto modo di chiarire codesto TAR, è una norma "... di rango regolamentare, (che) non può certo essere in contrasto con la disciplina primaria" (cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. II, n. 1542 del 23.06.2021).
Muovendo da tale presupposto è evidente che i termini per rendere il parere di competenza non registrano alcuna interruzione -rectius, non riprendono a decorrere nuovamente dall'inizio- ma una mera
sospensione
” (TAR Campania, Salerno, sez. II, sent. 29.11.2021, n. 2589).
Ne deriva che il ricorso è inammissibile in parte qua, poiché censura un parere non avente natura provvedimentale (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 05.09.2022 n. 2325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aggiornamento al 29.08.2022

Pubblico impiego: sull'illegittima revoca anticipata della P.O..
La revoca anticipata dell'incarico dirigenziale (ovvero P.O.) deve essere adottata con un atto formale e deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo fondamento, devono attenere al settore cui è preposto il dirigente (ovvero la Posizione Organizzativa).

PUBBLICO IMPIEGO: L. Di Donna, Illegittima la revoca anticipata dell’incarico di PO non ancorata esplicitamente a un mutamento dell'assetto organizzativo (17.08.2022 - tratto da e link a www.neopa.it).
Con l’ordinanza 22.07.2022 n. 22926, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha rammentato che
la revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti.
In particolare, ricorda la Corte, l'art. 9 del CCNL del comparto Regioni ed autonomie locali del 31.03.1999 (si v. oggi l’art. 14, comma 3, del CCNL del comparto Funzioni locali), integrando la disciplina normativa, stabilisce, al comma 3: «Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi».
La suddetta disciplina prevede, dunque, che la revoca di un incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente motivate; quanto, in particolare alle ragioni riorganizzative, la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, pur prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata però con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il dirigente (cfr. Cass. 06.10.2020, n. 21482; Cass. 03.02.2017, n. 2972).
Non può pertanto ritenersi legittimamente disposta una revoca anticipata dell’incarico indirettamente scaturita dal conferimento dello stesso al segretario comunale per ragioni non riconducibili ad un mutamento dell'assetto organizzativo (nel caso di specie la revoca è stata motivata dall'esigenza generica di «assicurare la continuazione della gestione coordinata del settore "segreteria-affari legali-innovazioni tecnologiche e sistemi informatici" e del settore "affari istituzionali-personale e interventi economici"
»).
Invero, precisa l’ordinanza, con riguardo all'istituto della revoca anticipata di cui all'art. 9 del CCNL 31.03.1999, ai fini della salvaguardia dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione, la revoca deve essere adottata con un atto formale, deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono attenere allo specifico settore cui è preposto il dirigente (Cass. n. 2972/2017, cit.; Cass. 02.09.2010, n. 19009).

PUBBLICO IMPIEGOLa revoca anticipata dell'incarico di P.O. incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti.
Muovendo dall'esame della normativa di riferimento, va ricordato che l'art. 109 del d.lgs. n. 267 del 2000, rubricato «Conferimento di incarichi dirigenziali», prevede, al primo comma: «Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato [...] con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione [..] o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro. L'attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi»; mentre l'art. 9 del CCNL 31.03.1999, Enti locali, integrando la disciplina normativa, stabilisce, al comma 3: «Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi».
Ebbene, la suddetta disciplina prevede, dunque, che la revoca di un incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente motivate; quanto, in particolare alle ragioni riorganizzative, la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, pur prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata però con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il dirigente
.
Invero, con riguardo all'istituto della revoca anticipata di cui all'art. 9 del CCNL 31.03.1999, ai fini della salvaguardia dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione, la revoca deve essere adottata con un atto formale, deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono attenere allo specifico settore cui è preposto il dirigente.
---------------

Rilevato che:
   1. con sentenza n. 1091/2015, pubblicata in data 17.11.2015, la Corte d'appello di Salerno confermava le due statuizioni del Tribunale di Vallo della Lucania che avevano respinto le domande proposte (con distinti ricorsi) da Ge.Br. nei confronti del Comune di Aiscea, la prima intesa a ottenere, previa declaratoria di illegittimità del decreto del Sindaco di Ascea del 01.10.2015, l'affermazione del suo diritto a dirigere il settore Affari Istituzionali-Personale-Cultura-Turismo ed Interventi economici, con reintegra in tale incarico, e, la seconda, diretta ad accertare che, dopo la revoca dell'incarico di posizione organizzativa, gli erano state assegnate, con una serie di atti volti a emarginarlo e isolarlo, mansioni inferiori, donde il diritto al ristoro del danno, patrimoniale e non patrimoniale, patito;
   il Br., in servizio presso l'ente locale con inquadramento D, posizione giuridica D6, premesso di essere stato nominato responsabile del settore predetto con disposizione n. 72 del 23.05.2003 e che, dopo l'insediamento del nuovo Sindaco, avvenuto a giugno 2004, gli era stato conferito, in data 04.03.2005, un incarico di posizione organizzativa ai sensi dell'art. 8 e ss. del CCNL 1999 e dell'art. 44 del Regolamento degli uffici e dei servizi del Comune di Ascea, con termine di scadenza trimestrale, poi prorogato, aveva dedotto che, nonostante lo scrutinio d'efficienza del Nucleo di valutazione, il Sindaco aveva illegittimamente conferito, in data 01.10.2005, la relativa delega al segretario comunale;
   aveva soggiunto che, dopo l'entrata in carica della nuova Giunta, l'ufficio da lui diretto era stato privato di un'unità di personale ed egli era stato estromesso, con plurime condotte mobbizzanti, dalle decisioni amministrative programmatiche che coinvolgevano il suo settore, con indebita attribuzione di mansioni prettamente esecutive e conseguente insorgenza, per effetto dell'illecita condotta dell'amministrazione, di una sindrome ansioso-depressiva nonché di patologie ipertensive e ulcerose;
   la Corte territoriale, adita dagli eredi del Br. con distinti gravami, poi riuniti, respingeva i ricorsi ex art. 434 cod. proc. civ.;
   osservava in particolare che la revoca dell'incarico di posizione organizzativa, legittimamente disposta ai sensi dell'art. 9 CCNL 31.03.1999, era dovuta non a insufficiente rendimento, ma a mutamento dell'assetto organizzativo dell'ente, e di ciò dava atto il provvedimento del 01.10.2005, il quale, nel conferire l'incarico in parola al segretario comunale, evidenziava la necessità di «assicurare la continuazione della gestione coordinata del settore "segreteria-affari legaliinnovazioni tecnologiche e sistemi informatici" e del settore "affari istituzionalipersonale e interventi economici"»;
   sulla scorta delle testimonianze assunte in prime cure, la Corte di merito, in sintonia con le argomentazioni del primo giudice, escludeva l'esistenza di un comportamento mobbizzante o comunque di violazioni dell'art. 2103 cod. civ., le quali non potevano dirsi integrate per il sol fatto della revoca dell'incarico direttivo, stante la non configurabilità di un diritto soggettivo a conservarlo;
   rilevava infine la Corte territoriale che, dopo la revoca dell'incarico, vissuta dal Br. come un sostanziale «declassamento», era insorta «aspra polemica con i vertici politici» culminata nel rifiuto di accettare pratiche che provenivano dal segretario comunale e indi nella vicenda del disposto trasferimento interno (impugnato in via cautelare) al terzo piano, ove il Br. alfine si sistemò «in una posizione priva di poteri effettivi ma in sostanza, e per così dire, autoindotta»;
   2. avverso tale sentenza gli eredi di Br.Ge. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi;
   3. il Comune di Ascea ha resistito con controricorso illustrato con memoria ex art. 378 cod. proc. civ., mentre l'Unione Italiana Lavoro-Federazione Poteri Locali (UIL-FPL) è rimasta intimata.
Considerato che:
   1. con il primo motivo i ricorrenti denunciano, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 5 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165 e dell'art. 9 CCNL 1999 del Comparto Enti Locali; sostengono che i mutamenti organizzativi cui farebbe riferimento l'art. 9, cit., si riferirebbero agli atti di macro-organizzazione incidenti sull'assetto organizzativo e strutturale dell'ente, previsti dall'art. 2 d.lgs. n. 165, cit., mentre nella specie «l'incarico conferito al segretario comunale, allo stesso modo dell'incarico conferito al Br., è atto di tipo datoriale, adottato con i poteri del privato datore di lavoro», di qui l'illegittimità della revoca non consentita per gli atti di «microorganizzazione » di cui all'art. 5, d.lgs. n. 165„ cit.;
   2. con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, ex art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione degli artt. 7 e 32 del Regolamento Uffici e Servizi del Comune di Ascea approvato con delibera di Giunta comunale n. 72/03, degli artt. 89, 97, 107 e 109 del TUEL (d.lgs. 18.08.2000 n. 267), dell'art. 9 CCNL del 1999 e dell'art. 15 CCNL 2002 Comparto Enti Locali, dell'art. 52 d.lgs. n. 165/2001, dell'art. 2103 cod. civ.; assumono che, ove manchino figure dirigenziali, gli uffici sono affidati alla responsabilità dei dipendenti di cat. D e che al segretario comunale non potrebbero essere affidati compiti di gestione «se non in via transitoria, per motivi eccezionali», compiti che sarebbero invece spettati esclusivamente al Br., siccome titolare di una posizione apicale all'interno dell'ente, pena, in difetto, il suo inevitabile demansionamento;
   3. il primo ed il secondo motivo, trattati unitariamente, sono fondati nei sensi qui di seguito esposti. Denunciano, in sostanza, i ricorrenti l'insussistenza dei presupposti della revoca dell'incarico di posizione organizzativa e l'illegittimità del contestuale conferimento dello stesso al segretario comunale.
   In ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l'osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, nonché per omologia con quanto prevede la norma di cui al secondo comma dell'art. 384 cod. proc. civ., deve ritenersi che, nell'esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente indicata dalla parte e individuata d'ufficio, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l'esperimento di ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l'esercizio del potere di qualificazione non deve inoltre confliggere con il principio del monopolio della parte nell'esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto, con la conseguenza che resta escluso che la Corte possa rilevare l'efficacia giuridica di un fatto se ciò comporta la modifica della domanda per come definita nelle fasi di merito o l'integrazione di una eccezione in senso stretto (Cass. 28.07.2017, n. 18775; Cass. 14.02.2014, n. 3437; 22.03.2007, n. 6935).
   3.1 Ciò detto, è pacifico tra le parti che l'incarico del Br. quale dirigente del settore Affari Istituzionali-Personale-Cultura-Turismo e Interventi economici fosse stato, da ultimo, confermato in data 25/07/2003 e che fosse altresì intervenuto un giudizio positivo del Nucleo di valutazione; era stato poi emesso il decreto sindacale del 01.10.2005, con il quale il Sindaco del Comune di Ascea aveva conferito l'incarico in parola al segretario comunale;
   la Corte territoriale, nell'assumere l'irrilevanza della durata (trimestrale) dell'incarico, ha vagliato le determinazioni dell'Ente in relazione alla sussistenza dei presupposti normativi per la revoca del conferimento della posizione organizzativa («è irrilevante che l'incarico dovesse avere la durata individuata dall'art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 o dall'art. 44 del regolamento comunale, ciò che conta è che la revoca sia stata legittimamente disposta»: così a pag. 6 della sentenza impugnata);
   sennonché, la revoca anticipata dell'incarico incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti;
   muovendo dall'esame della normativa di riferimento, va ricordato che l'art. 109 del d.lgs. n. 267 del 2000, rubricato «Conferimento di incarichi dirigenziali», prevede, al primo comma: «Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato [...] con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione [..] o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro. L'attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi»; mentre l'art. 9 del CCNL 31.03.1999, Enti locali, integrando la disciplina normativa, stabilisce, al comma 3: «Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi»;
   ebbene, la suddetta disciplina prevede, dunque, che la revoca di un incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente motivate; quanto, in particolare alle ragioni riorganizzative, la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, pur prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata però con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il dirigente (cfr. Cass. ordinanza 06.10.2020 n. 21482; Cass. sentenza 03.02.2017 n. 2972);
   3.2 nel caso di specie, invece, come è pacifico tra le parti, la revoca era indirettamente scaturita dal conferimento dello stesso incarico al segretario comunale, per effetto del quale il Br. era privato dei compiti precedentemente assegnati; ma tale determinazione implicita, motivata dall'esigenza generica di «assicurare la continuazione della gestione coordinata del settore "segreteria-affari legali-innovazioni tecnologiche e sistemi informatici" e del settore "affari istituzionali-personale e interventi economici"
», non ancorata esplicitamente a un mutamento dell'assetto organizzativo, non integra quella «riorganizzazione» richiesta dalla disciplina pattizia per la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale.
   Invero, con riguardo all'istituto della revoca anticipata di cui all'art. 9 del CCNL 31.03.1999, ai fini della salvaguardia dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione, la revoca deve essere adottata con un atto formale, deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono attenere allo specifico settore cui è preposto il dirigente (Cass.
sentenza 03.02.2017 n. 2972, cit.; Cass. 02.09.2010, n. 19009).
   Pertanto, alla stregua (e nei limiti) dei rilievi suesposti, i primi due motivi di ricorso devono essere accolti, dovendo la Corte d'appello in sede di rinvio fare applicazione del principio di diritto dianzi enunciato (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 22.07.2022 n. 22926).
---------------
Si legga al riguardo anche:
  
● L. Oliveri, Cassazione: illegittima la revoca di incarico di posizione organizzativa per “esigenze organizzative” fittizie. Non ammissibile incaricare il segretario comunale senza una effettiva e motivata modifica della macrostruttura dell’ente, ma in base a decisione ad personam penalizzando il precedente incaricato (17.08.2022 - link a https://leautonomie.asmel.eu).
...
No alle revoche di incarichi di preposizione ai vertici delle strutture giustificati da “riorganizzazioni” solo fittizie, ma nella realtà volti semplicemente ad incidere sull’incaricato che finisce per essere esautorato a vantaggio di altri.
L’ordinanza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 22.07.2022, n. 22926 interviene opportunamente per stigmatizzare una prassi illegittima ma molto diffusa nelle amministrazioni locali e non solo: l’abitudine, cioè, di incidere negativamente sugli incarichi di dirigenti o posizioni organizzative, destituendo soggetti “non graditi” o non “in linea”, sulla base di riorganizzazioni che non riorganizzano nulla, ma semplicemente si limitano a sostituire il precedente incaricato con un altro, senza rispettare alcuna delle disposizioni appositamente previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva proprio per evitare revoche ad nutum. (...continua).

PUBBLICO IMPIEGOL’ipotesi di sopravvenuti mutamenti organizzativi non ha attinenza con la procedura di valutazione annuale né con la ratio, di partecipazione e di garanzia del dipendente, sottesa all’obbligo del contraddittorio, sicché la previsione del previo contraddittorio con l’interessato (ex art. 9, comma 4, del CCNL 31.03.1999 Regioni ed Autonome Locali) riguarda la sola ipotesi di revoca anticipata dell’incarico di posizione organizzativa in conseguenza dello specifico accertamento di risultati negativi e non anche in caso di revoca per intervenuti mutamenti organizzativi.
---------------

RILEVATO CHE
1. Con sentenza del 15.04.2016 la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Tivoli, rigettava la domanda proposta da LU.FI., dipendente del Comune di GUIDONIA MONTECELIO (in prosieguo: il COMUNE):
   - per l’accertamento della illegittimità della revoca anticipata della posizione organizzativa conferitale presso l’Area VII del Comune a seguito del trasferimento, con atto del 13.07.2010, dall’area VII all’area III, per la dichiarazione di illegittimità dello stesso trasferimento ed il risarcimento del danno patrimoniale;
   - per l’accertamento di una fattispecie di mobbing e per il risarcimento del conseguente danno non patrimoniale.
2. La Corte territoriale osservava che l’articolo 9 CCNL del Comparto REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI del 31.03.1999 prevedeva due ipotesi di revoca anticipata della posizione organizzativa, rispettivamente per esigenze organizzative sopravvenute e per l’accertamento di risultati negativi.
3. Soltanto in questa seconda ipotesi era previsto il previo contraddittorio con il dipendente interessato e non in caso di revoca per ragioni organizzative, come confermato anche dalle disposizioni regolamentari.
4. Nella fattispecie di causa, il provvedimento di riassegnazione della FI., che non configurava trasferimento, era adeguatamente motivato per relationem; dalla riorganizzazione disposta dal Comune, di cui dava atto la stessa dipendente, derivava la necessità di garantire all’area III una dirigenza tecnica ed un funzionario amministrativo (professionalità posseduta dalla FI.).
5. Dalla legittimità degli atti impugnati derivava l’accoglimento dell’appello incidentale del COMUNE e l’assorbimento dell’appello principale della FI..
6. Ha proposto ricorso per cassazione della sentenza LU.FI., articolato in sei ragioni di censura ed illustrato con memoria, cui ha resistito il COMUNE con controricorso.
CONSIDERATO CHE
...
27. Con il quinto motivo la ricorrente ha lamentato ―ai sensi dell’articolo 360 nr. 3 e nr. 5 cod. proc. civ.― la violazione e falsa applicazione degli articoli 8 e 9 CCNL 31.03.1999 e dell’articolo 9 del regolamento delle posizioni organizzative nonché l’omessa motivazione, censurando la statuizione secondo cui l’obbligo del previo contraddittorio con il dipendente riguarderebbe soltanto la revoca della posizione organizzativa in conseguenza dell’ accertamento di risultati negativi e non anche il caso di revoca per mutamenti organizzativi.
28. Si evidenzia che l’articolo 9 del CCNL REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI del 31.03.1999 prevede la procedura in contraddittorio, al comma quattro, «per la revoca anticipata di cui al comma 3», comma comprendente entrambe le ipotesi di revoca.
29. Si deduce, altresì, la carenza di motivazione della revoca, in quanto la sentenza impugnata avrebbe avallato la tesi della revoca della posizione organizzativa implicita nell’atto di trasferimento ad altra struttura, laddove l’articolo 9 del regolamento delle posizioni organizzative richiede la motivazione in ogni caso di revoca della posizione organizzativa.
30. La censura è inammissibile nella parte in cui deduce in via diretta la violazione del regolamento comunale sulle posizioni organizzative, in quanto esso non costituisce norma di diritto, ma disposizione adottata dal datore di lavoro pubblico con i poteri privatistici di gestione del rapporto di lavoro.
31. La deduzione della violazione dell’obbligo di motivazione della revoca anticipata della posizione organizzativa ―obbligo previsto dall’articolo 9, comma tre, CCNL REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI 31.03.1999― non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha ritenuto assolto l’obbligo di motivazione, in quanto detta motivazione era contenuta nello stesso atto di riassegnazione della Fi. ad altra area (pagina 5 della sentenza impugnata, capoverso 4 e capoverso 5).
32. Il motivo è infondato quanto all’assunta necessità del contraddittorio con il dipendente interessato in caso di revoca della posizione organizzativa dovuta a «mutamenti organizzativi».
33. Vero è che l’articolo 9, comma quattro, del CCNL REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI del 31.03.1999 prevede la procedura in contraddittorio per la revoca anticipata dell’incarico «di cui al comma 3» e che il predetto comma tre si riferisce congiuntamente alla revoca anticipata «in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi».
34. Tuttavia, la disposizione contenuta nell’ultima parte del comma quattro va letta congiuntamente alle precedenti proposizioni dello stesso comma, relative alla valutazione annuale dei risultati dell’ attività svolta dai dipendenti cui sia attribuito un incarico di posizione organizzativa.
35. In particolare, il comma quattro dispone che la valutazione dei risultati, regolata da criteri e procedure predeterminati dall’ente, se positiva, dà titolo anche alla corresponsione della retribuzione di risultato; se non positiva deve essere preceduta dal contraddittorio con il dipendente interessato. L’ultima parte della stessa disposizione si riferisce chiaramente ad una terza eventualità― ovvero l’accertamento «specifico» di risultati negativi― che, a norma del precedente comma tre, determina anche la revoca anticipata della posizione organizzativa e si limita a prevedere che anche in questo caso la valutazione deve essere preceduta dal contraddittorio con il dipendente interessato.
36. Resta invece fuori dalla previsione del comma quattro l’ipotesi di sopravvenuti mutamenti organizzativi, che non ha alcuna attinenza con la procedura di valutazione annuale né con la ratio, di partecipazione e di garanzia del dipendente, sottesa all’obbligo del contraddittorio.
37. In conclusione, l’articolo 9, comma quattro, del CCNL 31.03.1999 REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI prevede l’obbligo del previo contraddittorio con l’interessato per la sola ipotesi di revoca anticipata dell’incarico di posizione organizzativa in conseguenza dello specifico accertamento di risultati negativi e non anche in caso di revoca per intervenuti mutamenti organizzativi, come correttamente affermato nella sentenza impugnata (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 11.07.2022 n. 21930).

PUBBLICO IMPIEGOIncarichi dirigenziali esterni, «sì» alla clausola risolutiva del contratto in caso di soppressione della struttura.
In sede di incarico dirigenziale conferito dalla Pa a un soggetto esterno è legittima la clausola che prevede una condizione risolutiva al contratto di lavoro, con riferimento al caso di sopravvenuta soppressione della struttura o di sostanziale modifica delle competenze alla stessa assegnate.
Tale condizione risolutiva non incorre nella fattispecie di nullità sancita dall'articolo 1418 del codice civile per le clausole negoziali di risoluzione automatica del contratto di lavoro subordinato, né dà luogo a un'ipotesi di licenziamento o di revoca dell'incarico dirigenziale in violazione del sistema ordinamentale.
Al contrario, la clausola costituisce la previsione anticipata di un effetto risolutivo che si produrrebbe comunque secondo l'articolo 1463 del codice civile (impossibilità totale nel contratto con prestazioni corrispettive).

Con queste motivazioni la Corte di Cassazione (Sezione Lavoro, sentenza 10.05.2022 n. 14758) ha accolto il ricorso proposto dalla Regione Marche contro la decisione n. 286/2015 della Corte d'Appello di Ancona, che:
   • aveva dichiarato l'illegittimità della delibera regionale di risoluzione del contratto di lavoro stipulato nel 2011, avente a oggetto l'affidamento di un incarico per la dirigenza della struttura «Dipartimento per la salute e per i servizi sociali»;
   • aveva condannato la Regione Marche al ripristino del rapporto di lavoro con il dirigente interessato e al risarcimento del danno.
La clausola risolutiva del contratto era stata applicata dopo il varo della legge regionale 45/2012 che disponeva la soppressione del «Dipartimento per la salute e per i servizi sociali» e la sostituzione di detta struttura con due nuovi servizi, cioè il «Servizio sanità» e il «Servizio politiche sociali», sempre incardinati nell'organizzazione regionale del settore. Di qui la risoluzione del rapporto con il dirigente del disciolto Dipartimento e l'avvio del contenzioso giunto poi all'esame della Suprema Corte.
La cassazione ha sostenuto che il divieto di clausole negoziali di risoluzione automatica del contratto non può essere automaticamente trasposto, nel pubblico impiego, al rapporto di lavoro subordinato a termine per lo svolgimento di un incarico dirigenziale.
Questo perché secondo il testo unico in materia negli incarichi dirigenziali si distinguono due momenti, ossia il conferimento dell'incarico, che ha luogo per atto unilaterale della Pa, e la fissazione del trattamento economico, che viene disciplinato con contratto (articolo 19 del Dlgs 165/2001).
In tale contesto, la revoca ante tempus è consentita dall'articolo 21 del decreto nella sola ipotesi di responsabilità dirigenziale, mentre nel caso di motivate esigenze organizzative il sistema ha codificato la facoltà della Pa di disporre il passaggio dei dirigenti ante tempus ad altro incarico.
Nel caso di specie, la clausola apposta al contratto dirigenziale si riferiva all'ipotesi di una soppressione della struttura o di una modifica delle sue competenze «effettuate nelle stesse forme previste dalla vigente normativa per la sua istituzione», facendo rinvio a un evento non solo futuro e incerto, ma anche indipendente dalla volontà delle parti.
Tutto ciò ha indotto la Suprema Corte a concludere che la sentenza impugnata ha operato un'indebita sovrapposizione della disciplina del licenziamento a quella della risoluzione dell'incarico dirigenziale per la sopravvenuta modifica della struttura organizzativa della Pa (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 23.05.2022).

PUBBLICO IMPIEGO: In caso di soppressione della struttura è legittima la clausola risolutiva del contratto di lavoro del dirigente esterno.
In caso di sopravvenuta soppressione della struttura o di sostanziale modifica delle competenze assegnate alla stessa è legittima la clausola che preveda una condizione risolutiva del contratto di lavoro relativo ad un incarico dirigenziale conferito dalla P.A. ad un soggetto esterno.
Tanto, ai sensi dell’art. 1463 c.c. per impossibilità sopravvenuta nel contratto con prestazioni corrispettive, non ricorrendo né la fattispecie della nullità ex art. 1418 c.c. per le clausole negoziali di risoluzione automatica del contratto di lavoro subordinato, né un'ipotesi di licenziamento o di revoca dell'incarico dirigenziale in violazione del sistema ordinamentale.

---------------
7. Il ricorso, i cui motivi possono essere trattati congiuntamente per la loro connessione, è fondato.
8. Giova premettere che il RU. venne incaricato dalla REGIONE MARCHE, con il contratto del 14.01.2011, quale soggetto esterno, di dirigere il ««DIPARTIMENTO PER LA SALUTE E PER I SERVIZI SOCIALI»; tale dipartimento era stato istituito con la Legge Regionale Marche 22.11.2010 nr. 17, articolo 4, nell'ambito delle strutture organizzative della Giunta Regionale.
9. Secondo l'articolo 9 del contratto di lavoro, il rapporto si sarebbe risolto di diritto «in caso di soppressione della struttura o di sostanziale modifica delle competenze alla stessa assegnate, effettuate nelle stesse forme previste dalla vigente normativa per la sua istituzione».
La L.R. MARCHE 27.12.2012 nr. 45, articolo 19, sostituì al «DIPARTIMENTO PER LA SALUTE E PER I SERVIZI SOCIALI» due servizi, il SERVIZIO SANITA' ed il SERVIZIO POLITICHE SOCIALI, sempre incardinati nell'ambito delle strutture organizzative della Giunta Regionale. Di qui il rilievo del suddetto articolo 9 del contratto di lavoro.
10. La Corte di merito ha ritenuto nulla tale previsione contrattuale applicando un principio— la nullità ex articolo 1418 cod. civ. delle clausole negoziali di risoluzione automatica del contratto di lavoro subordinato— enunciato da questa Corte (ex aliis, Cass. sez. un. 07.08.1998 n. 7755; Cassazione civile sez. lav., 04/06/1999, n. 5501) in riferimento ai rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato di diritto privato; si è, infatti, affermato che ammettere fattispecie di estinzione del rapporto di lavoro non sottoposte ai limiti generali del sistema dei licenziamenti significherebbe ridurre arbitrariamente l'ambito di operatività del sistema stesso.
11. Tale principio, per quanto di seguito verrà illustrato, non può essere automaticamente trasposto, nel pubblico impiego privatizzato, al rapporto di lavoro subordinato a termine che si instaura per lo svolgimento di un incarico dirigenziale.
12. Va, infatti, ricordato che —secondo la generale disciplina dell'articolo 19 D.Lgs. 165/2001—nel conferimento degli incarichi dirigenziali si distinguono due momenti: il conferimento dell'incarico, per atto unilaterale della amministrazione e la fissazione del trattamento economico, in via contrattuale. Nel caso in cui l'incarico venga conferito ad un soggetto esterno all'amministrazione, con il contratto si costituisce anche un rapporto di lavoro, autonomo (si pensi alle cariche di vertice delle Aziende Sanitarie Locali) o dipendente, comunque a termine, in quanto collegato alla durata, ex lege temporanea, dell'incarico; nella specie, per quanto è pacifico in causa, il rapporto di lavoro era di natura subordinata.
13. Alla unilateralità del conferimento dell'incarico dirigenziale non corrisponde una generale discrezionalità di revoca da parte della pubblica amministrazione: la revoca ante tempus è consentita dal D.Lgs. nr. 165/2001, articolo 21, nell'ipotesi di responsabilità dirigenziale. La contrattazione collettiva— (per i dirigenti dell'Area II- Regioni ed autonomie locali, articolo 22 CCNL 1994/1997 ed articolo 13 CCNL 1998/2001)— ha disciplinato, invece, una revoca per ragioni organizzative di natura oggettiva, che ha trovato poi riconoscimento a livello legislativo nell'articolo 1, comma diciotto, D.L. nr. 138/2011, conv. in L. nr. 148/2011.
La norma ha codificato la facoltà delle amministrazioni pubbliche di disporre il passaggio dei dirigenti ante tempus ad altro incarico per motivate esigenze organizzative.
14. Del resto, la possibilità di revoca dell'incarico dirigenziale per ragioni organizzative, prima ancora di essere prevista dalla contrattazione collettiva e dal legislatore del 2011, derivava dal potere della pubblica amministrazione di determinare le linee fondamentali di organizzazione dei propri uffici (articolo 2, comma uno e articolo 5, comma uno, D.Lgs. nr. 165/2001) e, perciò, eventualmente di sopprimerli, con riflessi indiretti sulle relative posizioni di responsabilità.
15. Nell'ipotesi ordinaria, in cui l'incarico dirigenziale è affidato ad un dirigente di ruolo della amministrazione che lo conferisce, la cessazione dell'incarico —e del contratto che ad esso accede— non incide sul rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato del dirigente; quando l'incarico è assegnato, invece, ad un soggetto esterno —come nella fattispecie di causa— con la revoca dell'incarico si risolve anche il rapporto di lavoro.
16. Dalla esposizione sin qui svolta risulta che il rapporto di lavoro a termine che si instaura in caso di incarico dirigenziale esterno cessa anticipatamente, in caso di subordinazione, non solo per effetto di licenziamento per giusta causa, ex articolo 2119 cod. civ. (nelle ipotesi di responsabilità disciplinare) ma anche per revoca dell'incarico, all'esito dell'accertamento della responsabilità dirigenziale (responsabilità, quest'ultima, distinta da quella disciplinare) ovvero per ragioni organizzative.
17. Nelle ipotesi di revoca dell'incarico esterno, la cessazione del rapporto di lavoro dirigenziale a termine è effetto della dipendenza di tale rapporto dall'incarico conferito.
18. Un meccanismo analogo si verifica nelle ipotesi in cui la soppressione di una struttura amministrativa si verifichi— invece che per atto di riorganizzazione della stessa amministrazione— in forza di una disposizione di legge.
19. In detta eventualità, come già chiarito da questa Corte nell'arresto del 07.09.2021 nr. 24079, la risoluzione del rapporto di lavoro si verifica secondo lo schema civilistico della impossibilità sopravvenuta della prestazione, ex articolo 1463 cod. civ. (il caso esaminato nella pronuncia citata riguardava la risoluzione del rapporto di lavoro del direttore generale di una ASL a seguito della riorganizzazione del servizio sanitario per legge regionale, con soppressione della Azienda sanitaria). Si è, in particolare, evidenziato che il conferimento dell'incarico dirigenziale dà luogo ad un rapporto sinallagmatico in cui la prestazione di ciascuna celle parti trova la sua causa nella prestazione dell'altra ed operano i principi generali per cui la sopravvenuta impossibilità assoluta della prestazione importa, con il venir meno della causa del contratto, la risoluzione dello stesso e, di conseguenza, la risoluzione del rapporto.
20. Nella fattispecie di causa, l'ipotesi della soppressione dell'ufficio dirigenziale è stata anticipatamente regolata dalle parti a livello negoziale, con la previsione della automatica risoluzione del rapporto di lavoro.
Trattandosi di ufficio istituito per legge regionale, l'ipotesi della sua soppressione o della modifica delle sue competenze «effettuate nelle stesse forme previste dalla vigente normativa per la sua istituzione», rinviava al verificarsi di un fatto sopravvenuto oggettivo ed indipendente dalla volontà delle parti, incerto nell'an e nel quando. La clausola, dunque, apponeva una condizione risolutiva al contratto di lavoro.
21. Detta condizione non è illecita, in quanto non prevede una ipotesi di licenziamento o di revoca dell'incarico dirigenziale in deroga al sistema ordinamentale, ma costituisce la anticipata previsione di un effetto che, in assenza della clausola accessoria, si sarebbe comunque prodotto secondo la previsione dell'articolo 1463 cod. civ. (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 10.05.2022 n. 14758).

PUBBLICO IMPIEGOCassazione, il mancato rinnovo dell'incarico di posizione organizzativa non è demansionamento.
Il conferimento di una posizione organizzativa non assume rilievo in termini di apicalità di mansioni in quanto determina un mutamento non del profilo professionale ma delle sole funzioni -con l'attribuzione di una posizione di responsabilità e correlato beneficio economico- le quali cessano alla naturale scadenza dell'incarico senza che per questo di determini un demansionamento.

Lo afferma la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con l'ordinanza 08.04.2022 n. 11503.
Il demansionamento
La Corte di appello ha negato la configurabilità di una ipotesi di demansionamento in danno di un lavoratore a cui non era stato rinnovato l'incarico di posizione organizzativa e ha rigettato la richiesta risarcitoria.
Questi ricorre in cassazione per violazione e falsa applicazione dell'articolo 52 del Dlgs 165/2001, deducendo il demansionamento che sarebbe stato operato nei suoi confronti, con riconduzione delle attività attraverso la sottrazione del ruolo di coordinamento fino ad allora gestite.
La suprema corte demolisce questa tesi, considerando che le categorie C e D delineate nell'allegato A al Ccnl del 31.03.1999 sono distinte non per la funzione di coordinamento -che sarebbe rinvenibile nella seconda e non invece nella prima, sicché la sottrazione di detta funzione produrrebbe ineluttabilmente in una ipotesi di demansionamento- quanto per il fatto che la categoria C è connotata da competenze monospecialistiche mentre la D ne ha di plurispecialistiche.
Inoltre la responsabilità dei risultati attiene a diversi processi produttivi e non a uno solo di essi per la categoria D e solo quest'ultima è deputata alla risoluzione di problemi di elevata complessità.
L'equivalenza
A sostegno della propria tesi la Cassazione propone due considerazioni.
La prima è che nel pubblico impiego privatizzato l'articolo 52 del Dlgs 165/2001 assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista dai contratti, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacarne la natura equivalente, inapplicabile essendo nel pubblico impiego l'articolo 2103 del codice civile.
La seconda è che il conferimento della posizione organizzativa non assume rilievo in termini di apicalità di mansioni -differenziandosi dalle altre posizioni della categoria, nella specie, proprio la D, non caratterizzata dallo svolgimento di compiti di responsabilità di un servizio, solo sotto il profilo economico- non determinandosi un mutamento di profilo professionale, bensì soltanto di funzioni, comportanti unicamente l'attribuzione di una posizione di responsabilità con correlato beneficio economico, le quali cessano alla naturale scadenza dell'incarico, con la conseguenza che la privazione di esse non costituisce una ipotesi di demansionamento (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.04.2022).
---------------
SENTENZA
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001 in relazione all’Allegato A del c.c.n.l. del 31.03.1999.
In estrema sintesi, ci si duole che il lavoratore, ufficiale di Polizia Municipale con il grado di tenente, inquadrato nella cat. D1, avrebbe invece svolto mansioni e compiti propri del mero agente, appartenente alla categoria C.
Si lamenta pertanto l’impossibilità di ricondurre detta ipotesi all’alveo dell’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001 e comunque si contesta che di detta disposizione possa darsi “una interpretazione del tutto formale slegata da un concetto di reale difesa del patrimonio professionale del lavoratore”.
2. Con il secondo mezzo si censura il mancato esame di un fatto decisivo ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
La questione centrale, riproposta sotto altro profilo, resta quella del dedotto demansionamento che sarebbe stato operato, con riconduzione delle attività del tenente La. a quelle del mero agente di polizia municipale e quindi nell’alveo della categoria C e non D, attraverso la sottrazione del ruolo di coordinamento della viabilità e del comando della Polizia ambientale.
Viene sottolineato che il tratto differenziale tra le due categorie C e D è rappresentato proprio dal coordinamento, venendo meno il quale non vi è alcuna possibilità di distinguere tra le mansioni, le funzioni e i compiti propri delle due sopraindicate categorie.
3. I due motivi possono essere trattati congiuntamente perché entrambi riferiti alla questione del dedotto demansionamento.
Orbene, l’esame dei tratti descrittivi delle due categorie come delineati nel c.c.n.l. del 31.03.1999, all. A -che questa Corte può conoscere indipendentemente dalle allegazioni delle parti, atteso che costituisce principio consolidato (fra le ultimissime si veda, Cass. n. 7641/2022) quello secondo il quale il contratto collettivo nazionale di lavoro del pubblico impiego è conoscibile d’ufficio dal giudice, il quale procede con mezzi propri, secondo il principio “iura novit curia”, al suo reperimento, a prescindere dall’iniziativa di parte- consente di evidenziare l’infondatezza della deduzione secondo cui il segno distintivo tra le due categorie consisterebbe nella funzione di coordinamento rinvenibile nella categoria D e non invece nella C, sicché la sottrazione di detta funzione ridonderebbe ineluttabilmente in una ipotesi di demansionamento.
L’assunto è infondato, perché il discrimine fra le due categorie risiede non già nelle funzioni di coordinamento (potenzialmente attribuibili anche a personale inquadrato in categoria C), ma nel rilievo che la categoria C è connotata da competenze monospecialistiche, mentre plurispecialistiche sono quelle della categoria D; inoltre la responsabilità dei risultati attiene a diversi processi produttivi e non ad uno solo di essi per la categoria D e solo quest’ultima è deputata alla risoluzione di problemi di elevata complessità.
Per il resto, le ulteriori doglianze svolte nei due motivi di ricorso -con le quali si chiede di fatto al giudice di legittimità di rivalutare gli ordini di servizio dai quali la Corte territoriale ha desunto che il lavoratore è sempre stato assegnato a compiti e mansioni conferenti il suo grado e la categoria D di appartenenza- sono inammissibili perché si traducono in una richiesta di rivalutazione del materiale probatorio che non può essere compiuta in questa sede.
Corroborano e consolidano le ragioni del rigetto anche altre due considerazioni.
In primo luogo va data continuità al principio, più volte affermato da questa S.C. (v., ex aliis, Cass. n. 18817/2018), secondo cui in tema di pubblico impiego privatizzato l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacarne la natura equivalente, inapplicabile essendo nel pubblico impiego l'art. 2103 c.c.
In secondo luogo, in disparte quanto si è già innanzi detto in ordine alla funzione di coordinamento ed al rilievo che essa non costituisce connotazione distintiva della categoria D rispetto alla C, si deve aggiungere in termini più generali (si veda, tra le altre, Cass. n. 22405/2020) che il conferimento della posizione organizzativa (ex c.c.n.l. del 31.03.1999) non assume rilievo in termini di apicalità di mansioni, differenziandosi dalle altre posizioni della categoria, nella specie, proprio la D, non caratterizzata dallo svolgimento di compiti di responsabilità di un servizio, solo sotto il profilo economico - non determinandosi un mutamento di profilo professionale, bensì soltanto di funzioni, comportanti unicamente l'attribuzione di una posizione di responsabilità con correlato beneficio economico, le quali cessano alla naturale scadenza dell'incarico, con la conseguenza che la privazione di esse non costituisce una ipotesi di demansionamento.
Ne consegue l’infondatezza del ricorso.

PUBBLICO IMPIEGO:  P.A, demansionamento a maglie strette. CASSAZIONE SULLA MANCATA CONFERMA DELL'INCARICO NELL'AREA DELLE P.O.
La mancata conferma dell'incarico nell'area delle posizioni organizzative non è demansionamento.
E' la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, a tornare a chiarirlo con ordinanza 08.04.2022 n. 11503, relativa proprio alla vicenda di un dipendente di ente locale vistosi privato dell'incarico e, per questa ragione, indotto a rivolgersi all'autorità giudiziaria.
Gli spunti che offre la sentenza sono diversi. La conclusione che propone appare chiara ed inequivocabile: l'attribuzione ai dipendenti locali dell'incarico nell'area delle posizioni organizzative non implica “un mutamento di profilo professionale, bensì soltanto di funzioni”. Con la conseguenza dell'attribuzione “di una posizione di responsabilità con correlato beneficio economico, le quali cessano alla naturale scadenza dell'incarico, con la conseguenza che la privazione di esse non costituisce una ipotesi di demansionamento”.
La circostanza, cioè, che l'incarico nell'area delle posizioni organizzative sia di per sé precario, a tempo determinato e, comunque, soggetto ad una serie di condizioni (come la valutazione positiva o anche il mantenimento nel dell'assetto organizzativo nel quale la PO è prevista) impedisce di considerarlo come un'acquisizione di status giuridico ed economico definitiva, alla stregua del passaggio ad un inquadramento contrattuale superiore.
E' proprio questo il tratto distintivo tra la disciplina delle Posizioni Organizzative nella pubblica amministrazione e l'area Quadri (alla quale spesso le PO sono gergalmente assimilate) nel privato. L'accesso all'area Quadri, infatti, comporta l'acquisizione definitiva di una qualifica, cosa che non avviene con l'incarico nell'area delle PO. Infatti, proprio per questo la tornata della contrattazione collettiva del triennio 2019-2021 intende istituire la cosiddetta nuova “quarta area”, cioè l'Area delle elevate professionalità, che costituirà, al contrario delle PO, una nuova e qualifica: i dipendenti che saranno inquadrati in tale area, l'acquisiranno definitivamente.
Non convince, invece, la sentenza della Cassazione laddove poco prima afferma che l'incarico come PO “non assume rilievo in termini di apicalità di mansioni, differenziandosi dalle altre posizioni della categoria, nella specie, proprio la D, non caratterizzata dallo svolgimento di compiti di responsabilità di un servizio”.
E' esattamente il contrario. Negli enti locali privi di dirigenti, già l'articolo 11 del Ccnl 31.03.1999 (vigente al momento dell'instaurazione della vertenza) disponeva che gli incarichi in PO potessero essere assegnati “esclusivamente a dipendenti cui sia attribuita la responsabilità degli uffici e dei servizi formalmente individuati secondo il sistema organizzativo autonomamente definito e adottato”, in applicazione della previsione dell'articolo 109, comma 2, del d.lgs 267/2000. Tale previsione nel Ccnl 21.05.2018 è stata confermata ed ulteriormente precisata con un riferimento espresso all'apicalità, nell'articolo 17, comma 1: “Negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali, secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dall'art. 13”.
Negli enti in cui siano presenti qualifiche dirigenziali soltanto la posizione organizzativa non è connessa ad incarichi apicali, riservati ai dirigenti, ma va comunque riconnessa allo svolgimento di funzioni connesse ad una responsabilità specifica di risultato alla guida di strutture a rilevanza interna.
Le sentenza, infine, fornisce un canone per distinguere la categoria C dalla D. La Cassazione ritiene che il discrimine fra le due categorie risiede non consiste nell'esercizio di funzioni di coordinamento, perché esse sono potenzialmente attribuibili anche a personale inquadrato in categoria C (ovviamente, per coordinare altro personale di pari categoria o inferiore).
Il tratto distintivo, allora, consiste nella circostanza che “la categoria C è connotata da competenze monospecialistiche” e le responsabilità da risultato riguardano un solo specifico processo produttivo. Al contrario, ai dipendenti in categoria D si richiedono competenze plurispecialistiche e “la responsabilità dei risultati attiene a diversi processi produttivi”; per altro, solo la categoria D “è deputata alla risoluzione di problemi di elevata complessità” (articolo ItaliaOggi del 16.04.2022).

PUBBLICO IMPIEGODecadenza da incarichi dirigenziali, per la PA si tratta di poteri datoriali di gestione paritetica del rapporto di lavoro.
Il TAR Puglia-Bari, Sez. I, con la sentenza 30.03.2022 n. 460, ha chiarito che negli atti di decadenza degli incarichi dirigenziali, l'amministrazione non esercita potestà pubblicistiche in posizione di supremazia speciale, ma attua poteri datoriali di gestione paritetica del rapporto di lavoro, che rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, in quanto non sussiste (articolo 63 del Dlgs 165/2001), la speciale (e residuale) ipotesi di giurisdizione amministrativa.
Il fatto
Il Tar pugliese si è occupato dell'impugnazione di un provvedimento amministrativo, adottato dal segretario comunale in qualità di responsabile per la prevenzione della corruzione e della trasparenza, con cui, applicando i precetti del Dlgs 39/2013, aveva dichiarato la nullità del conferimento dell'incarico dirigenziale, poiché il dirigente era destinatario di una sentenza penale per reati contro la Pa.
La sentenza in esame, pur dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a favore di quello ordinario, pone in evidenza la natura del potere datoriale esercitato nel caso di specie.
La decisione
Il collegio giudicante ha osservato che le causali degli atti di decadenza presuppongono non già l'esercizio di poteri autoritativi discrezionali da parte dell'Amministrazione, ma l'esercizio di un potere basato sull'accertamento di specifici inadempimenti o di fatti specifici, rispetto ai quali la posizione dell'interessato non è certamente qualificabile come interesse legittimo, quanto piuttosto come un vero e proprio diritto soggettivo alla conservazione dell'incarico.
In altri termini, gli atti di decadenza non possono considerarsi espressione di poteri pubblicistici riguardanti la copertura di un ufficio pubblico, rispetto ai quali la correlata posizione del privato è di interesse legittimo. Essi sono stati emanati dall'Amministrazione, in applicazione di norme di legge, sulla scorta della responsabilità fatta gravare sull'ente dal Dlgs 39/2013 sul rispetto delle norme sull'incompatibilità (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 02.05.2022).
---------------
SENTENZA
Come puntualmente premesso in fatto dal Tar Lazio-Roma, con ordinanza declinatoria di competenza -OMISSIS-, con sentenza -OMISSIS- il Tribunale di Frosinone ha condannato l’odierno ricorrente, dirigente presso il Comune di Cerignola, per il reato di associazione per delinquere di cui all'art. 416 c.p. finalizzato alla commissione di più delitti contro la pubblica amministrazione e, in particolare, delitti di cui agli artt. 353, 353-bis, 318, 319, 321 c.p., a tre anni di reclusione con interdizione temporanea dai pubblici uffici per cinque anni, dichiarando contestualmente «il non doversi procedere» nei confronti dello stesso imputato in relazione ad alcuni reati scopo (tra cui quello di corruzione) per intervenuta prescrizione degli stessi.
A seguito di tale pronuncia e dell’intervenuto parere dell’ANAC (per la puntuale indicazione delle interlocuzioni con l’Autorità e delle determinazioni dell’Ente nelle more intervenute si rinvia alla predetta ordinanza che ripercorre puntualmente gli eventi in fatto), il Segretario Generale del Comune di Cerignola, con atto del 09.12.2021, -OMISSIS-, gravato in questa sede –adottato a seguito della necessaria istruttoria e previo contraddittorio con l’interessato– ha, quindi, dichiarato la nullità, ai sensi dell’art. 17, d.lgs. n. 39/2013, dell’atto di «Conferimento incarico dirigenziale di responsabile settore Sicurezza» adottato dal Comune con decreto 30.06.2021, n. -OMISSIS-.
Gravato tale atto e quelli connessi in epigrafe indicati, all’udienza cautelare del 23.03.2022 la causa è stata trattenuta in decisione, previa sottoposizione alle parti, ex art. 73 cpa, di possibili profili di difetto di giurisdizione, per come evidenziati anche nell’ordinanza già citata -OMISSIS-.
Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione.
Sul punto la Sezione condivide l’orientamento, puntualmente riportato dalla predetta pronuncia, secondo cui “le causali degli atti di decadenza presuppongono non già l’esercizio di poteri autoritativi discrezionali da parte dell’Amministrazione, ma l’esercizio di un potere basato sull'accertamento di specifici inadempimenti o di fatti specifici, rispetto ai quali la posizione dell'interessato non è certamente qualificabile come interesse legittimo, quanto piuttosto come un vero e proprio diritto soggettivo alla conservazione dell'incarico. In altri termini, gli atti di decadenza in questione non possono considerarsi espressione di poteri pubblicistici riguardanti la copertura di un ufficio pubblico, rispetto ai quali la correlata posizione del privato è di interesse legittimo, come ha affermato il Consiglio di Stato. Essi sono stati emanati dall'Amministrazione, in applicazione di norme di legge, il primo sulla scorta della responsabilità fatta gravare sull’ente dal d.lgs. 08.04.2013, n. 39 in merito al rispetto delle norme sull'incompatibilità etc. e il secondo per il fatto estrinseco rappresentato dall'intervenuto termine di scadenza dell'incarico; pertanto con essi non è stata esercitata alcuna discrezionalità amministrativa” (Cass. Civ., SS.UU., n. 1869/2020).
Inoltre, condivisibile è anche l’assimilazione tra gli atti di decadenza (quale quello in questa sede gravato) e quelli di revoca (od anche conferimento) degli incarichi dirigenziali, per i quali l’amministrazione non esercita potestà pubblicistiche in posizione di supremazia speciale, ma attua poteri datoriali di gestione paritetica del rapporto di lavoro, rientranti nella giurisdizione del G.O., in quanto per essi non sussiste, ai sensi dell’art. 63 d.lgs. n. 165/2001, la speciale (e residuale) ipotesi di giurisdizione amministrativa.
Sulla scorta di tali argomenti, va declinata la giurisdizione di questo Giudice in favore di quello ordinario, dinanzi al quale il ricorso andrà riassunto nei termini di legge.

PUBBLICO IMPIEGO: P. L. Portaluri, Pensieri scomposti sugli incarichi dirigenziali (24.02.2021 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Abstract: Il tema degli incarichi dirigenziali si muove su un crinale indeterminato tra pubblico e privato. Nonostante l’orientamento ormai noto e granitico della Cassazione, resta invero irrisolto il problema della loro esclusiva funzionalizzazione alla cura degli interessi pubblici, che ne esclude la loro equiparazione a uffici di diritto comune.
Ciò rileva non solo nell’ambito della nomina e della revoca di questi incarichi, ancora caparbiamente radicate nell’ambito giuslavoristico e invece meglio confacenti al genus degli atti amministrativi, ma anche nell’ambito della responsabilità e del danno erariale. Gli aspetti che legano inestricabilmente la dirigenza agli interessi pubblici rendono pertanto ancor oggi il giudice ordinario poco attrezzato nel tutelare le posizioni giuridiche che si avvicendano nelle controversie concernenti gli incarichi dirigenziali: lo scritto riflette –nel solco di attenta dottrina– sulla opportunità di radicare la giurisdizione innanzi al Giudice amministrativo.
---------------
Sommario: 1. Revoca degli incarichi dirigenziali: i profili dubbi. 2. Riflessi giurisdizionali della privatizzazione del pubblico impiego. 3. L’incarico dirigenziale tra ius commune e ius publicum. 4. Sulla natura pubblica della revoca (e del conferimento) degli incarichi dirigenziali. 5. L’interesse pubblico quale elemento decisivo per la natura giuridica degli incarichi e per le forme di tutela.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Non è demansionamento la mancata conferma di un incarico di P.O..
«In tema di lavoro pubblico negli enti locali, il conferimento di una posizione organizzativa non comporta l'inquadramento in una nuova categoria contrattuale ma unicamente l'attribuzione di una posizione di responsabilità, con correlato beneficio economico. Ne consegue, in termini generali, che la revoca di questa posizione non costituisce demansionamento e non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 2103 del codice civile e del l'art. 52 del Dlgs 165/2001, trovando applicazione il principio di turnazione degli incarichi, in forza del quale alla scadenza il dipendente resta inquadrato nella categoria di appartenenza, con il relativo trattamento economico».
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza 15.10.2020 n. 22405.
Il conferimento di un incarico di posizione organizzativa è possibile esclusivamente per situazioni tipizzate, descritte nel contratto, può essere concesso solo a termine, è connotato da una specifica retribuzione variabile, in quanto sottoposta alla logica del programma da attuare e del risultato ed è, infine, revocabile.
Pertanto, il rinnovo delle posizioni organizzative costituisce una facoltà del datore di lavoro pubblico, che, se ritiene di provvedere in tal senso, deve parimenti disporlo con atto scritto e motivato; pertanto, mentre l'eventuale revoca dell'incarico prima della scadenza richiede un atto scritto e motivato e può essere disposta soltanto in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di uno specifico accertamento di risultati negativi, la cessazione dell'incarico conferito alla sua naturale scadenza non obbliga l'amministrazione ad una qualsivoglia motivata determinazione (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.10.2020).
---------------
SENTENZA
13. Il secondo ed il quarto motivo di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente per la loro connessione, sono fondati, con conseguente assorbimento del terzo motivo, che sostanzialmente prospetta le medesime questioni sotto il profilo del vizio di motivazione.
14. Per il comparto regioni ed autonomi e locali, il CCNL del 31.03.1999, di revisione del sistema di classificazione professionale, introduceva (con l'articolo 3) l'inquadramento del personale non dirigenziale in quattro categorie, progressivamente dalla lettera A alla lettera D, prevedendo per il personale della categoria D la istituzione di un'area delle posizioni organizzative, secondo la disciplina degli articoli 8 e seguenti. Di qui il superamento del sistema delle qualifiche funzionali ed il re-inquadramento del personale in servizio secondo le previsioni di corrispondenza della tabella C allegata al contratto (articolo 7).
15. Ai sensi del richiamato articolo 8, comma 1, le posizioni organizzative costituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato: lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità (lettera a); lo svolgimento di attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione (lettera b); lo svolgimento di attività di staff e/o di studio, ricerca, ispettive, di vigilanza e controllo caratterizzate da elevate autonomia ed esperienza (lettera c).
A tenore del successivo comma due, tali posizioni— che non coincidono necessariamente con quelle già retribuite con l'indennità di cui all'art. 37, comma 4, del CCNL del 06.07.1995— possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria D, sulla base e per effetto di un incarico a termine conferito in conformità alle regole di cui all'art. 9.
16. Secondo tali regole, gli incarichi relativi all'area delle posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo non superiore a 5 anni, con atto scritto e motivato e possono essere rinnovati con le medesime formalità. Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi (articolo 9, commi 1 e 3).
17. Alla attribuzione dell'incarico è collegato un trattamento economico accessorio, composto dalla retribuzione di posizione e dalla retribuzione di risultato (articolo 10).
18.11 CCNL del Comparto delle regioni e delle autonomie locali del successivo quadriennio normativo 2002-2005, prevede che: «Gli enti valorizzano le alte professionalità del personale della categoria D mediante il conferimento di incarichi a termine nell'ambito della disciplina dell'art. 8, comma 1, lett., b) e c), CCNL 31.03.1999 e nel rispetto di quanto previsto dagli artt. 9, 10 e 11 del medesimo CCNL» (art. 10, comma 1).
19. Tale disciplina è rimasta in vigore ai sensi dell'articolo 1, comma 5, del CCNL 2006/2009, dell'11.04.2008.
20. Questa Corte ha già precisato, in tema di lavoro pubblico negli enti locali, che il conferimento di una posizione organizzativa non comporta l'inquadramento in una nuova categoria contrattuale ma unicamente l'attribuzione di una posizione di responsabilità, con correlato beneficio economico.
Ne consegue, in termini generali, che la revoca di tale posizione non costituisce demansionamento e non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 2103 c.c. e del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 52, trovando applicazione il principio di turnazione degli incarichi, in forza del quale alla scadenza il dipendente resta inquadrato nella categoria di appartenenza, con il relativo trattamento economico (Cass. 25.10.2019, n. 27384; Cass. 10.07.2019 nr. 18561; Cass. 30.03.2015, n. 6367).
21. Anche le Sezioni Unite, ai fini del riparto di giurisdizione, hanno affermato che la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato né un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico; per quanto riguarda il comparto delle autonomie locali, secondo la disciplina degli articoli 8 e 9 del CCNL stipulato il 31.03.1999, il conferimento dell'incarico di posizione organizzativa è possibile esclusivamente per situazioni tipizzate, descritte nel contratto; può essere concesso solo a termine; è connotato da una specifica retribuzione variabile, in quanto sottoposta alla logica del programma da attuare e del risultato; è, infine, revocabile (Cassazione civile sez. un., 14/04/2010, n. 8836).
22. Parimenti è stato chiarito che il rinnovo delle posizioni organizzative costituisce una facoltà del datore di lavoro pubblico, che, se ritiene di provvedere in tal senso, deve parimenti disporlo con atto scritto e motivato; pertanto mentre l'eventuale revoca dell'incarico prima della scadenza richiede un atto scritto e motivato e può essere disposta soltanto in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di uno specifico accertamento di risultati negativi, la cessazione dell'incarico conferito alla sua naturale scadenza non obbliga l'amministrazione ad una qualsivoglia motivata determinazione (Cassazione civile sez. lav., 10/07/2015, n. 14472).
23. Per quanto accertato nella sentenza impugnata, nella fattispecie di causa si è verificato il mancato rinnovo alla CA. dell'incarico di posizione organizzativa dopo la naturale scadenza, nell'aprile 2008, che dunque non richiedeva alcuna determinazione né motivazione.
24. La Corte territoriale si è discostata dai principi sopra esposti, che in questa sede vanno ribaditi, sul rilievo che la originaria ricorrente era inquadrata nella posizione D3- ex ottava qualifica funzionale; ha infatti ritenuto che a tale inquadramento debba corrispondere la responsabilità di un servizio, responsabilità che nello specifico organigramma della Provincia di Oristano corrispondeva alla titolarità di una posizione organizzativa.
25. Tale conclusione si pone in contrasto con il dettato degli articoli 8 e 9 del CCNL del 31.03.2009. Il disposto dei richiamati articoli esclude ogni possibilità di conseguire— o comunque di mantenere— la posizione organizzativa fuori dalle procedure in essi stabilite. In tal senso è chiaro il tenore testuale del comma due dell'articolo 8.
26. La CA., in quanto dipendente inquadrata nella ex VIII qualifica funzionale, ha avuto accesso alla posizione economica D3 secondo la tabella di corrispondenza allegata al CCNL 31.03.1999.
27. Nel nuovo sistema di classificazione, ai sensi dell'articolo 3 del predetto CCNL, ciascuna categoria individua mansioni professionalmente equivalenti e nel suo ambito sono individuate posizioni differenziate unicamente sotto il profilo economico sicché alla posizione D3 non può attribuirsi alcun rilievo di apicalità in termini di mansioni.
28. La categoria D, secondo la declaratoria riportata nell'allegato A al CCNL, non è caratterizzata, contrariamente a quanto assunto in sentenza, dallo svolgimento di compiti di responsabilità di un servizio, potendo avere un contenuto di tipo tecnico, gestionale o direttivo. Di qui l'infondatezza dell'assunto secondo cui nelle ipotesi in cui nell'organigramma dell'ente locale le posizioni organizzative coincidano con la responsabilità dei servizi sussisterebbe un diritto dei funzionari D3 ad ottenerle.

PUBBLICO IMPIEGO: L. Oliveri, La rotazione degli incarichi dirigenziali non giustifica la loro revoca anticipata.
L’ordinanza 06.10.2020 n. 21482 della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, conferma i formidabili pericoli di utilizzo distorto della rotazione degli incarichi dirigenziali, sciaguratamente di fatto “imposta” dall’ANAC come misura ordinaria, senza che l’Autorità si renda conto di quanto esponga la dirigenza a scelte illecite e precarizzanti.
L’ordinanza considera illecita la “rotazione” imposta da un sindaco ad un dirigente, qualificandola come revoca di fatto. La pronuncia è estremamente interessante per le molteplici motivazioni che esprime.
In primo luogo, la Cassazione critica aspramente le decisioni, cassate, della Corte d’Appello. Questa, come si evince dal testo dell’ordinanza, con la propria sentenza aveva ritenuto di escludere la configurabilità di un diritto soggettivo a conservare un determinato incarico, richiamando la sentenza della Cassazione 15.02.2010, n. 3451. Il giudice di secondo grado ha evidenziato che “il conferimento degli incarichi dirigenziali risponde ad esigenze di natura fiduciaria, demandato ad un ampio potere discrezionale dell'Amministrazione, temperato dalla previsione (non obbligatoria, ma opportuna) del criterio di rotazione, dalla fissazione di un termine ai contratti e dalla motivazione del provvedimento”.
Secondo tale giudice di secondo grado, visto che il dirigente ricorrente aveva coperto l’incarico per 11 anni non sarebbe stato affatto, nell'ottica di una riorganizzazione degli uffici, fosse trasferito ad altro settore; pertanto, la sentenza di appello ha escluso che vi fosse stata una revoca in senso tecnico dell'incarico in precedenza conferito, ritenendo invece sussistente un lecito trasferimento ad altro incarico dirigenziale di altro settore dell'organigramma comunale, con la conseguenza che l'Amministrazione non era tenuta a rispettare quelle ipotesi previste solo per la revoca in senso tecnico”.
Una ricostruzione totalmente sbagliata ed inaccettabile. Infatti, la Cassazione senza alcun giro di parole afferma che ha “errato la Corte territoriale a richiamare una giurisprudenza di legittimità riferita a fattispecie di conferimento di incarico laddove nella specie è indubbio che le determinazioni dell'Ente abbiano di fatto comportato una revoca dell'incarico ancora in corso di svolgimento”.
Infatti, la sentenza 15.02.2010, n. 3451 col caso di specie non ha nulla a che vedere. Essa ha trattato una questione connessa all’assegnazione di mansioni diverse da quelle originariamente conferite in seguito a modificazione della pianta organica, una volta scaduto l’incarico dirigenziale precedentemente svolto.
È nella fase di rideterminazione degli incarichi, che dovrebbe essere retta dalla proceduralizzazione disposta dall’articolo 19, commi 1, 1-bis e 2, del d.lgs. 165/2001, che la PA dispone di una ampia capacità di valutazione dell’opportunità di attribuire ai dirigenti qualsiasi degli incarichi dirigenziali disponibili. Ma, questo presuppone che gli incarichi precedenti siano scaduti, per conseguimento del termine e, quindi, sia dato modo di rimetterli in causa.
Nel caso trattato dall’ordinanza in commento, non è avvenuto niente di tutto questo. Semplicemente, il Comune, tre mesi solo dopo la conferma dell’interessato nel suo incarico, lo ha preposto ad uno diverso, coinvolgendo nel “giro” altri due dei molti altri dirigenti in servizio.
In secondo luogo, l’ordinanza fa chiarezza sull’equivoco della “riorganizzazione”. L’art. 109, comma 2, del d.lgs. 267/2000 stabilisce che la revoca dell’incarico dirigenziale consegua ai casi di “inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione previsto dall'articolo 169 o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro”. In particolare, l’articolo 13 del CCNL 23.12.1999 stabilisce al comma 3 che “La revoca anticipata dell'incarico rispetto alla scadenza può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e produttive o per effetto dell'applicazione del procedimento di valutazione di cui all'articolo 14, comma 2”.
Dal canto suo, l’articolo 21, comma 1, del d.lgs. 165/2001 dispone: “Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di attuazione della legge 04.03.2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può inoltre, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo”.
È, dunque, esclusivamente la disciplina contrattuale (a ciò abilitata dall’articolo 109, comma 1, del d.lgs. 267/2000) che attualmente considera la “riorganizzazione” come presupposto per la revoca dell’incarico.
Il fatto è che in moltissimi casi, la “riorganizzazione” dietro la quale si trincerano le amministrazioni comunali è semplicemente fittizia: una simulazione dialettica, posta esclusivamente a giustificare appunto la revoca anticipata di precisi incarichi dirigenziali. Spessissimo, si tratta di vere e proprie “riorganizzazioni ad personam”, attivate non certo alla scopo di modificare l’assetto complessivo dell’ente a fini di miglioramento ed aumento dell’efficienza, ma proprio per demansionare uno specifico dirigente.
Nel caso trattato dall’ordinanza non si è determinata per nulla un’esigenza connessa alla riorganizzazione. La Cassazione ricorda che in quanto alle “ragioni riorganizzative, questa Corte ha affermato che la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il dirigente (v. Cass. 03.02.2017, n. 2972)”.
Occorre, quindi, un provvedimento che formalmente detti la riorganizzazione dell’intero ente (mancante nel caso di specie) e la motivazione chiara che espliciti ragioni connesse non alla persona che ricopre il ruolo di dirigente, ma ad esigenze organizzative della struttura diretta, tali da rendere opportune ed indispensabili sue variazioni, alle quali conseguano come corollario, e non come premessa, modifiche degli incarichi.
Nulla di tutto questo è stato riscontrato nella questione esaminata dall’ordinanza. La presunta “riorganizzazione” era, come nella stragrande maggioranza dei casi, una mera petizione di principio, inesistente e immotivata.
In terzo luogo, la Cassazione evidenzia i problemi connessi all’altro strumento che gli enti stanno utilizzando a mani basse in modo generalmente travisato: la “rotazione” degli incarichi.
I giudici, subito dopo aver comprovato che nel caso di specie non c’è stata alcuna riorganizzazione, sottolineano che “invece, come è pacifico tra le parti, la revoca anticipata era scaturita da una mera rotazione di incarichi (si rileva dallo stesso controricorso del Comune -pag. 8- che vi era stato uno scambio di incarichi a seguito del nuovo mandato elettorale), per effetto della quale al ricorrente era stato assegnato l'incarico di dirigente del settore traffico, trasporti, mobilità urbana e grandi infrastrutture (revocandosi di fatto quello di dirigente del settore urbanistica)”.
L’ordinanza non si dilunga sulla finalizzazione della “rotazione” alla sua correlazione al “nuovo mandato elettorale”, perché giunge alla dichiarazione di illegittimità del provvedimento del sindaco per altra strada, senza doversi soffermare sul punto.
In questa sede di commento, tuttavia, non ci si può esimere dal rilevare che la rotazione, esattamente come la riorganizzazione, sia un cavallo di Troia, affetta sovente da totale ed evidente sviamento della sua funzione.
Scrive l’ANAC nel Piano Nazionale Anticorruzione del 2016: “Per quanto riguarda i dirigenti la rotazione ordinaria è opportuno venga programmata e sia prevista nell’ambito dell’atto generale approvato dall’organo di indirizzo politico, contenente i criteri di conferimento degli incarichi dirigenziali che devono essere chiari e oggettivi. Il PTPC di ogni amministrazione deve fare riferimento a tale atto generale (come, ad esempio, la Direttiva ministeriale che disciplina gli incarichi dirigenziali) ove vengono descritti i criteri e le modalità per la rotazione dirigenziale. Ciò anche per evitare che la rotazione possa essere impiegata in modo poco trasparente, limitando l’indipendenza della dirigenza. Per il personale dirigenziale, la disciplina è applicabile ai dirigenti di prima e di seconda fascia, o equiparati”.
La rotazione, nella visione dell’Autorità, dovrebbe essere uno strumento ordinario di tutela dell’interesse generale ad evitare che la continuativa preposizione di un dirigente al medesimo incarico comporti l’assunzione di un eccessivo potere di influenza, anche all’esterno.
Ma, il PNA non nasconde il rischio serissimo che la rotazione venga utilizzata allo scopo di precarizzare gli incarichi dirigenziali, finendo per limitare l’autonomia dei dirigenti.
Ciò nonostante, le interpretazioni dell’ANAC hanno contribuito a reintrodurre, per via interpretativa (ma non solo, come si vedrà successivamente), la rotazione obbligatoria della dirigenza, un tempo presente nel d.lgs. 29/1993, ma poi eliminata dal testo del d.lgs. 165/2001 (nel quale non se ne parla proprio), per la piena consapevolezza che un tourbillon continuo di dirigenti:
   1. in molti enti non è minimamente ipotizzabile (dato il numero esiguo);
   2. soprattutto, inficia in modo comprensibile il principio di continuità dell’azione amministrativa ed esattamente le qualità in base alle quali i dirigenti si pretende siano valutati ed incaricati: competenza, esperienza, risultati raggiunti.
Secondo l’ANAC “Essendo la rotazione una misura che ha effetti su tutta l’organizzazione di un’amministrazione, progressivamente la rotazione dovrebbe essere applicata anche a quei dirigenti che non operano nelle aree a rischio. Ciò tra l’altro sarebbe funzionale anche ad evitare che nelle aree di rischio ruotino sempre gli stessi dirigenti. La mancata attuazione della rotazione deve essere congruamente motivata da parte del soggetto tenuto all’attuazione della misura”.
È una visione radicale della rotazione, che va molto oltre le disposizioni della legge 190/2012, la quale prevede, invece, la rotazione solo nell’ambito delle aree a rischio, come lascia comprendere la logica, prima ancora che il diritto. Non ha evidentemente alcun senso coinvolgere nella rotazione chi opera in aree non rischiose.
Le indicazioni dell’ANAC, quindi, se da considerare corrette nelle premesse, portano ad una conseguenza della rotazione visibilmente disfunzionale. E finiscono per ammettere in via di fatto proprio quell’abuso della rotazione che la medesima ANAC considera pericoloso per l’autonomia della dirigenza.
I sindaci ci mettono pochissimo a cogliere da indicazioni così contorte e poco meditate come quelle dell’ANAC quella parte a loro uso e consumo, volta a poter giustificare un utilizzo della rotazione distorto e produttivo di evidente sviamento dall’interesse pubblico. Sì, come nel caso di specie, da connettere la rotazione al nuovo mandato elettorale, traducendo quindi un istituto pensato a salvaguardia dalla corruzione, in uno strumento per esercitare lo spoil system!
Si comprende bene, quindi, quanto provvida sia stata la sentenza della Corte Costituzionale 251/2016, che ha fermato l’iter della sciagurata Riforma Madia della dirigenza, largamente basata proprio sull’esasperazione del potere di revoca ad libitum dei dirigenti, anche fondato su una rotazione di fatto connessa a ragioni esclusivamente politiche: quella riforma, infatti, avrebbe eliminato la necessità di motivare le ragioni non solo della revoca, ma addirittura della privazione dell’incarico al dirigente, confinandolo in una disponibilità di pochi mesi, alla quale sarebbe conseguito il licenziamento.
La rotazione, certamente strumento fondamentale, dovrebbe essere, dunque, un’extrema ratio, da adottare quando risultino evidenze di un’azione dirigenziale non perfettamente trasparente o rispondente agli obiettivi di lotta alla corruzione, non una modalità da attivare acriticamente, sempre e comunque.
Torniamo alla sentenza. La Cassazione si è accorta, comunque, che anche la rotazione invocata era fasulla: lo “scambio di incarichi (peraltro, come si rileva sempre dal controricorso -pag. 2- limitata a tre soli settori dell'organigramma comunale: tributi, traffico-trasporti e urbanistica e senza che vi fosse una ragione diversa dall'esigenza di garantire la rotazione degli incarichi e specificamente collegata al settore cui il (OMISSIS) era stato assegnato) non integra, evidentemente, quella riorganizzazione richiesta dalla disciplina pattizia per una revoca anticipata di un incarico dirigenziale”.
Quindi, si è determinata null’altro se non una revoca anticipata, in assoluta assenza della giusta causa che dovrebbe sorreggere, in assenza di effettiva riorganizzazione, la decisione.
Per tornare come indicato prima al problema della rotazione, lo schema di CCNL dell’area dirigenza del comparto Funzioni Locali, per quanto concerne specificamente la dirigenza di Regioni ed Enti locali disapplica l’articolo 13 del CCNL 23.12.2020 e non regola la revoca. Il che significa che essa resta attivabile solo al ricorrere dei casi normativamente previsti, che non contemplano la “riorganizzazione”: un elemento importante, perché si cancella uno strumento utilizzato, come di dimostra, in modo spesso improprio e falsato.
Improvvidamente, tuttavia, il medesimo schema prevede che “Nel conferimento degli incarichi dirigenziali, gli enti si attengono al principio generale della rotazione degli stessi”, ingerendosi in materie che non spettano alla contrattazione e, in ogni caso, esponendo il conferimento degli incarichi all’altro pericolo di utilizzo distorto della rotazione.
In ogni caso, la Cassazione aiuta a comprendere che la rotazione non può essere considerata presupposto o causa della revoca anticipata, operando solo nel momento in cui vengano a scadere gli incarichi e, dunque, nella fase del loro conferimento (04.11.2020 - tratto da e link a www.fedir.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La revoca anticipata dell'incarico dirigenziale deve essere adottata con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni chiare e attinenti alla specifica area in cui è investito il manager in questione.
Mentre per il conferimento (id est la conferma) di un incarico di funzione dirigenziale, rimesso alla discrezionalità del datore di lavoro, si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente nel rispetto dei criteri generali eventualmente stabiliti dalla pubblica amministrazione (potendo il giudice solo verificare se l'operato dell'amministrazione trovi o meno fondamento nei predetti criteri generali), la revoca dell'incarico, presupponendo l'instaurazione di un rapporto contrattuale, incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti;
La normativa prevede che la revoca di un incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente motivate;
Quanto, in particolare alle indicate ragioni riorganizzative, questa Corte ha affermato che la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il dirigente.
---------------

   4. con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell'art. 2119 cod. civ. nonché degli artt. 109 e 110 del TUEL, degli artt. 3 e 7 l. n. 241 del 1990 (difetto di motivazione del provvedimento di trasferimento e mancata comunicazione dell'inizio del procedimento), degli artt. 1175, 1373 (regole di correttezza e buona fede), della l. n. 241 del 1990 e dell'art. 97 Cost. (principio di ragionevolezza);
   critica la sentenza impugnata per non aver tenuto conto dell'insegnamento della Suprema Corte (S.0 n. 3677/2009) secondo il quale il conferimento dell'incarico dirigenziale determina (accanto al rapporto fondamentale a tempo indeterminato, secondo il c.d. sistema 'binario') l'instaurazione di contratto a tempo determinato, il quale, ai sensi dell'art. 2119 cod. civ., è passibile di recesso prima della scadenza solo per giusta causa;
   rileva che l'incarico di dirigente del settore urbanistica gli era stato confermato dall'01.07.2009 per l'esercizio 2009 e che, con deliberazione G.M. 364/2009 18.09.2009, gli erano stati anche fissati gli obiettivi, per cui tale incarico scadeva alla fine dell'esercizio 2009 e poteva essere oggetto di recesso solo per 'giusta causa' (art. 2119 cod. civ.);
   sostiene che certamente non poteva essere ritenuta 'giusta causa', tale da non consentire neppure la prosecuzione provvisoria del rapporto, la rotazione tra i settori tecnici, che avrebbe potuto essere disposta solo dopo la scadenza dell'incarico (se motivata adeguatamente);
...
   7. è invece fondato il secondo motivo di ricorso (assorbito il terzo);
   7.1. è pacifico tra le parti che l'incarico del Ci. quale dirigente del settore urbanistica e assetto del territorio dei Comune di Brindisi dal 1998 fosse stato, da ultimo, confermato in data 01/07/2009 fino alla fine dell'esercizio 2009 (e cioè fino al 30.06.2010);
   alla suddetta conferma aveva fatto seguito la fissazione degli obiettivi da raggiungere (v. deliberazione di G.M. n. 364/2009 del 18.09.2009 richiamata e depositata dal ricorrente);
   il decreto sindacale n. 43 del 03.11.2009, con il quale il Sindaco del comune di Brindisi aveva disposto il trasferimento del Ci. alla dirigenza del settore traffico, trasporti, mobilità urbana e grandi infrastrutture era, dunque, intervenuto prima della scadenza dell'incarico confermato in data 01/07/2009;
   ha allora errato la Corte territoriale a richiamare una giurisprudenza di legittimità riferita a fattispecie di conferimento di incarico laddove nella specie è indubbio che le determinazioni dell'Ente abbiano di fatto comportato una revoca dell'incarico ancora in corso di svolgimento;
   7.2. le doglianze del Ci. andavano allora vagliate in rapporto alle ipotesi in cui la revoca dell'incarico dirigenziale è consentita;
   7.3. del resto, mentre per il conferimento (id est la conferma) di un incarico di funzione dirigenziale, rimesso alla discrezionalità del datore di lavoro, si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente nel rispetto dei criteri generali eventualmente stabiliti dalla pubblica amministrazione (potendo il giudice solo verificare se l'operato dell'amministrazione trovi o meno fondamento nei predetti criteri generali), la revoca dell'incarico, presupponendo l'instaurazione di un rapporto contrattuale, incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti;
   7.4. muovendo dall'esame della normativa di riferimento, va ricordato che l'art. 109 del d.lgs. n. 267 del 2000, rubricato "Conferimento di incarichi dirigenziali" prevede, al primo comma: «Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato» (...) «con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione» (...) «o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro. L'attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi»;
l'art. 13 del c.c.n.l. dirigenza enti locali 1998-2001 del 09.12.1999, rubricato "Affidamento e revoca degli incarichi dirigenziali", integrando la disciplina normativa stabilisce ai commi 1-3: «1. Gli enti attribuiscono ad ogni dirigente uno degli incarichi istituiti secondo la disciplina dell'ordinamento vigente. 2. Gli enti, con gli atti previsti dai rispettivi ordinamenti, adeguano le regole sugli incarichi dirigenziali ai principi stabiliti dall'art. 19, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 29/1993, con particolare riferimento ai criteri per il conferimento e la revoca degli incarichi e per il passaggio ad incarichi diversi nonché per relativa durata che non può essere inferiore a due anni, fatte salve le specificità da indicare nell'atto di affidamento e gli effetti derivanti dalla valutazione annuale dei risultati. 3. La revoca anticipata dell'incarico rispetto alla scadenza può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e produttive o per effetto dell'applicazione del procedimento di valutazione di cui all'art. 14, comma 2»;
   7.5. la suddetta normativa prevede, dunque, che la revoca di un incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente motivate;
   7.6. quanto, in particolare alle indicate ragioni riorganizzative, questa Corte ha affermato che la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il dirigente (v. Cass. 03.02.2017, n. 2972);
   7.7. nel caso di specie, invece, come è pacifico tra le parti, la revoca anticipata era scaturita da una mera rotazione di incarichi (si rileva dallo stesso controricorso del Comune -pag. 8- che vi era stato uno 'scambio' di incarichi a seguito del nuovo mandato elettorale), per effetto della quale al ricorrente era stato assegnato l'incarico di dirigente del settore traffico, trasporti, mobilità urbana e grandi infrastrutture (revocandosi di fatto quello di dirigente del settore urbanistica); ma tale 'scambio' di incarichi (peraltro, come si rileva sempre dal controricorso -pag. 2- limitata a tre soli settori dell'organigramma comunale: tributi, traffico-trasporti e urbanistica e senza che vi fosse una ragione diversa dall'esigenza di garantire la rotazione degli incarichi e specificamente collegata al settore cui il Ci. era stato assegnato) non integra, evidentemente, quella riorganizzazione richiesta dalla disciplina pattizia per una revoca anticipata di un incarico dirigenziale;
   7.8. i principi posti dalla Corte territoriale a sostegno della legittimità del decreto del Sindaco di Brindisi n. 43/2009 (e cioè la turnazione, rotazione degli incarichi) se sono fondatamente invocabili a sostegno di una scelta di affidamento di un determinato incarico non possono avallare -stanti le indicate specifiche disposizioni normativa e pattizia- una revoca di un incarico prima della scadenza naturale dello stesso;
   7.9. si è trattato, pertanto, di revoca anticipata avvenuta al di fuori dei presupposti normativi (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 06.10.2020 n. 21482).

PUBBLICO IMPIEGO: L. Di Donna, Conseguenze della mancata conferma dell’incarico dirigenziale (22.06.2020 - tratto da a e link a www.neopa.it).
Questa Corte ha più volte affermato che fanno capo al dirigente due distinte situazioni giuridiche soggettive, perché rispetto alla cessazione anticipata dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato, non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti (v. Cass. 13.11.2018, n. 29169; Cass. 10.12.2017, n. 28879; Cass. 03.02.2017, n. 2972; Cass. 18.06.2014, n. 13867).
Non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al conferimento dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato correlato all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi di imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost., sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi gravanti sull'amministrazione (v. Cass. 23.09.2013, n. 21700; Cass. 24.09.2015, n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495).
Quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio generale secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (per i dirigenti statali in virtù di espressa previsione dell'art. 19 d.lgs. n. 165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442).
Anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti locali (trasfuso, come detto, nel d.lgs. n. 267 del 2000, art. 109) esclude la configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta '
privatizzazione' (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.12.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442); lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ. (e l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche (v. Cass. n. 23760/2004 cit.; Cass. n. 3451/2010 cit.; Cass. n. 4621/2017 cit.; Cass. n. 19442/2018 cit.).
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (Sez. Lavoro) nella recente ordinanza 18.06.2020 n. 11891.

PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego – dirigenza – cessazione anticipata incarico – diritto soggettivo alla conservazione di determinate tipologie di incarico dirigenziale - demansionamento – rigetto ricorso.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto da un dirigente che a seguito della mancata riconferma dell’incarico di funzione lamenta di essere stato vittima di demansionamento all’atto di attribuzione del nuovo incarico di dirigente in posizione di staff.
La Corte pronunciandosi riguardo alla cessazione anticipata dell'incarico, ribadisce che fanno capo al dirigente due distinte situazioni giuridiche: rispetto alla cessazione anticipata dell’incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre rispetto al mancato conferimento di un nuovo incarico il dirigente può far valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato, non legittima lo stesso a richiedere l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti.
La Suprema Corte conferma il principio generale per cui alla qualifica dirigenziale corrisponde esclusivamente l’idoneità professionale all’assunzione degli incarichi dirigenziali di qualunque tipo, senza che sia configurabile un diritto soggettivo a mantenere o a conservare un determinato incarico, la cessazione di un incarico di funzione e la successiva attribuzione di un incarico di studio ai sensi dell'art. 19, comma 10, Dlgs 165/2001 pertanto non determina un demansionamento
(commento tratto da www.aranagenzia.it).
---------------
   4.4. del resto non pare dubitabile, sulla base della stessa motivazione della sentenza impugnata (fondata sull'esame dei provvedimenti del Comune resistente, esame non rivedibile in questa sede), che l'assegnazione alla Ca., dopo la cessazione dell'incarico di direzione del Servizio Supporto alle Scuole, del compito di svolgere funzioni dirigenziali di studio e ricerca (v. pag. 5 della sentenza: "alla Ca., alla scadenza dell'incarico di direzione ... non è stata affidata la titolarità di una struttura ma ... il compito di svolgere funzioni dirigenziali di studio ..."), fosse riconducibile alla previsione di cui all'art. 19, comma 10, d.lgs. n. 165 del 2001, norma di carattere generale che si riferisce anche alle amministrazioni locali e si aggiunge alle previsioni specifiche contenute nel d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico degli enti locali) e in particolare negli artt. 109 e 110 (si consideri che la vicenda in esame si colloca prima delle modifiche apportate all'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 dal d.lgs. n. 150 del 2009);
   del tutto impropria è, allora, una lettura della sentenza quale quella offerta dalla ricorrente secondo cui la Corte territoriale avrebbe considerato anche l'incarico in staff quale incarico dirigenziale di struttura (nuova e tutta da creare);
   4.5. questa Corte ha più volte affermato che fanno capo al dirigente due distinte situazioni giuridiche soggettive, perché rispetto alla cessazione anticipata dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato, non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti (v. Cass. 13.11.2018, n. 29169; Cass. 10.12.2017, n. 28879; Cass. 03.02.2017, n. 2972; Cass. 18.06.2014, n. 13867);
   4.6. non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al conferimento dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato correlato all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi di imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost., sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi gravanti sull'amministrazione (v. Cass. 23.09.2013, n. 21700; Cass. 24.09.2015, n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495);
   4.7. quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio generale secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (per i dirigenti statali in virtù di espressa previsione dell'art. 19 d.lgs. n. 165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442);
   4.8. anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti locali (trasfuso, come detto, nel d.lgs. n. 267 del 2000, art. 109) esclude la configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta 'privatizzazione' (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.12.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442);
   lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ. (e l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche (v. Cass. n. 23760/2004 cit.; Cass. n. 3451/2010 cit.; Cass. n. 4621/2017 cit.; Cass. n. 19442/2018 cit.);
   4.9. tale essendo il sistema, gli incarichi di studio conferiti alla Ca. dopo la cessazione di quello di direzione di struttura non potevano essere letti in termini di dequalificazione;
   ed infatti, come è stato da questa Corte già affermato, proprio sulla base dell'assunto secondo cui, in tema di dirigenza pubblica, la qualifica dirigenziale esprime esclusivamente l'idoneità professionale del dipendente, senza che sia configurabile un diritto soggettivo a mantenere o a conservare un determinato incarico, la cessazione di un incarico di funzione e la successiva attribuzione di un incarico di studio ai sensi dell'art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, non determina un demansionamento (così Cass. 09.04.2018, n. 8674; si veda anche la già citata Cass. n. 19442/2018 riguardante proprio l'assegnazione di un dirigente di Ente locale ad una struttura di staff denominata Ufficio studi e ricerche);
   ed allora non può essere addebitato alla Corte territoriale alcun errore di diritto laddove ha escluso ogni demansionamento nell'attribuzione alla Ca., dopo la cessazione di un incarico di funzione, di incarichi di studio ai sensi dell'art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, attenendo la verifica dell'effettività e pienezza delle mansioni di cui ai nuovi incarichi all'accertamento di merito della Corte territoriale non suscettibile di revisione in questa sede;
   4.10. né fondatamente la ricorrente lamenta, quale pregiudizio, la perdita della retribuzione di posizione e di risultato atteso che, come non integra un demansionamento l'attribuzione di un incarico di studio, non può riconoscersi come danno la perdita (di quota) della retribuzione di posizione e di risultato, non configurandosi, per quanto sopra detto, un diritto del dirigente alla preposizione ad un ufficio di direzione di struttura, alle quali le predette voci siano connesse;
   4.11. quanto, poi, alla ritenuta omessa considerazione dei rilievi concernenti le valutazioni negative della Ca. sotto il profilo dei risultati raggiunti ed in particolare dell'omesso esame di quello che la stessa sentenza impugnata indica come 'terzo motivo di ricorso', le doglianze non meritano accoglimento;
   la Corte territoriale, infatti, dopo aver ritenuto infondato il primo motivo di ricorso ha esaminato congiuntamente, in quanto logicamente connessi, il secondo ed il terzo motivo di ricorso ed ha ritenuto entrambi infondati considerando che la versione dei fatti rappresentata dal Comune di Parma, secondo cui la Ca. aveva dimostrato "scarsa attitudine alle scelte autonome di sua competenza" oltre che manifestato "la propria insoddisfazione per il ruolo assegnatole con frequenti assenze, rigidità di orario e ridotta disponibilità", avesse trovato conferma nell'istruttoria svolta (e ciò sia per quanto atteneva al progetto Europa sia per quanto riguardava i periodi pregressi);
   ciò costituisce un'adeguata risposta ai rilievi di parte appellante secondo la quale, al contrario, per quanto si evince dalla stessa sentenza impugnata, le valutazioni negative effettuate dal datore di lavoro, lungi dall'essere ricollegabili alle attitudini professionali della Ca. erano piuttosto da porsi in relazione alla stessa condotta del Comune di Parma che la aveva posta in condizioni di totale inattività;
   anche con riguardo a tale aspetto la ricorrente pretende, allora, in modo inammissibile, una diversa e personale lettura delle risultanze di causa;
   4.12. quanto, infine alle censure relative all'asserito difetto di motivazione dei provvedimenti attributivi degli incarichi di studio la ricorrente non ha specificato se ed in quali termini la questione fosse stata sottoposta già in sede di ricorso di primo grado, non potendo il suddetto onere ritenersi soddisfatto mediante la trascrizione della sentenza di appello riportante i motivi di gravame (v. pag. 24 del ricorso per cassazione) ovvero mediante il richiamo al passaggio argomentativo di tale sentenza (riportato alla medesima pag. 24 ed alla successiva pag. 25), specie a fronte dell'eccezione di novità della questione formulata in sede di controricorso dal Comune di Parma, per non essere stata la stessa esplicitata nel ricorso di primo grado e per essere state le conclusioni assunte, sul punto, assolutamente generiche;
   peraltro la questione è stata dalla ricorrente posta esclusivamente in relazione alla ritenuta (e qui esclusa) configurazione da parte della Corte territoriale dell'incarico di staff quale incarico dirigenziale ai sensi dell'art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 laddove, come sopra evidenziato, si era trattato di un incarico di studio ex art. 19, comma 10, del medesimo d.lgs.; (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 18.06.2020 n. 11891).
---------------
MASSIMA
In tema di dirigenza pubblica, la cessazione di un incarico di funzione, e la successiva attribuzione di un incarico di studio ai sensi dell’art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, non determina un demansionamento, in quanto la qualifica dirigenziale esprime esclusivamente l’idoneità professionale del dipendente, senza che sia configurabile un diritto soggettivo a mantenere o a conservare un determinato incarico.

PUBBLICO IMPIEGO: Conferimento di incarichi dirigenziali nella PA: tra diritto soggettivo e interesse legittimo.
Fanno capo al dirigente due distinte situazioni giuridiche soggettive, perché rispetto alla cessazione anticipata dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato, non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti.
Non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al conferimento dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato correlato all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi di imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost., sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi gravanti sull'amministrazione.
Quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio generale secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (per i dirigenti statali in virtù di espressa previsione dell'art. 19 d.lgs. n. 165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico.
Anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti locali (trasfuso nel d.lgs. n. 267/2000, art. 109) esclude la configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta 'privatizzazione'.
Lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche
.
---------------
    1. con il primo motivo il ricorrente denuncia error in judicando, in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per violazione dell'art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, dell'art. 13 del c.c.n.l. enti locali, del c.c.d.i. Comune di Salerno, dell'art. 2103 cod. civ.;
   rileva che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che il comportamento del Comune non fosse violativo dei criteri di assegnazione degli incarichi dirigenziali;
   insiste nel ritenere che il suo passaggio da Dirigente del Settore a Dirigente del Sevizio avesse integrato un demansionamento;
   sostiene che l'amministrazione fosse tenuta a garantire il livello di professionalità conseguito in virtù dell'incarico in precedenza ricoperto;
   2. il motivo è infondato;
   2.1. questa Corte ha più volte affermato che fanno capo al dirigente due distinte situazioni giuridiche soggettive, perché rispetto alla cessazione anticipata dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato, non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti (v. Cass. 13.11.2018, n. 29169; Cass. 10.12.2017, n. 28879; Cass. 03.02.2017, n. 2972; Cass. 18.06.2014, n. 13867);
   2.2. non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al conferimento dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato correlato all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi di imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost., sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi gravanti sull'amministrazione (Cass. 23.09.2013, n. 21700; Cass. 24.09.2015, n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495);
   2.3. quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio generale secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (per i dirigenti statali in virtù di espressa previsione dell'art. 19 d.lgs. n. 165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico (v. Cass. 22.12.2004; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442);
   2.4. anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti locali (trasfuso nel d.lgs. n. 267/2000, art. 109) esclude la configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta 'privatizzazione' (v. Cass 22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442);
   lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451 nonché Cass. n. 4621/2017 cit.; Cass. n. 19442/2018 cit.);
   2.5. nella specie, per quello che si evince dalla sentenza impugnata, non è in discussione la legittimità della disposta cessazione ante tempus dell'incarico di direzione del Settore Trasporti e Viabilità già conferito al Pa. (per effetto dello smembramento e trasformazione del Settore in Servizi, Impianti, Viabilità e Manutenzione, costituito da due distinti Servizi) ma il mancato conferimento allo stesso dell'incarico di dirigente di Settore e l'assegnazione della sola dirigenza di uno di detti Servizi;
   non vigendo la regola dell'equivalenza delle mansioni e non essendo in discussione che fosse stata, nello specifico, compromessa la professionalità 'tecnica' (discutendosi solo dell'assegnazione ad un incarico di direzione per il quale, in dipendenza dell'operato smembramento dei servizi del precedente settore e della successiva graduazione delle funzioni in sette distinti gruppi, era stata prevista una diversa, e ridotta, retribuzione di risultato e conseguentemente di posizione) non può sostenersi che la mancata assegnazione di un incarico equivalente a quello in precedenza ricoperto costituisca automaticamente fonte di danno risarcibile (si consideri che, in tema di dirigenza pubblica, è stato ritenuto che non determina un demansionamento la cessazione di un incarico di funzione e la successiva attribuzione di un incarico di studio: v. da ultimo Cass. 09.04.2018, n. 8674);
   2.6. discutendosi di danno da violazione di interesse legittimo di diritto privato alla linearità e congruità delle determinazioni assunte dall'Ente, lo stesso non poteva certo coincidere con quanto sarebbe stato dovuto in forza del contratto non concluso, occorrendo la deduzione e prova di una lesione dannosa di legittimo affidamento rispetto all'incarico al quale il Pa. aspirava (si pensi, ad esempio, al pregiudizio derivato dall'eventuale inadempimento di obblighi gravanti sul Comune in relazione agli atti preliminari, all'assenza di adeguate forme di partecipazione dell'interessato medesimo al processo decisionale, alla omessa esternazione delle ragioni giustificatrici della scelta, alla perdita patrimoniale per le spese inutilmente sostenute in relazione alle trattative, alla mancata possibilità di cogliere altre occasioni professionali presentatesi nel corso della fase preliminare, circostanze, tutte, non prospettate nel caso in esame -v. anche infra-);
   2.7. anche un autonomo danno all'immagine professionale non poteva dirsi conseguenza automatica della supposta illegittimità del conferimento ad altri dell'incarico preteso, ma doveva essere dedotto e provato;
   ed infatti, se è possibile che l'assegnazione ad un nuovo incarico dirigenziale sia realizzata con modalità tali da configurare un inadempimento contrattuale per la compromissione della professionalità del lavoratore, anche nella forma della perdita di chance, ovvero per la lesione della sua dignità professionale (v. Cass. 08.11.2017, n. 26469, in motivazione; più in generale v. Cass. 20.06.2016, n. 12678 del 2016), il danno risarcibile deve essere allegato e provato dal danneggiato secondo i noti principi che presiedono all'accertamento ed alla liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali, senza alcun automatismo che faccia ritenere lo stesso sussistente in re ipsa (v. Cass. 07.01.2019, n. 137) e soprattutto senza che lo stesso possa coincidere (come pretenderebbe il ricorrente) con quanto sarebbe stato dovuto in forza del contratto non concluso;
   peraltro, nello specifico, quanto alla professionalità, proprio il ricorrente assume che in punto di fatto nulla o poco fosse cambiato visto che il Comune aveva comunque assegnato al predetto i medesimi plurimi incarichi di prima;
   2.8. il Pa. sostiene, più precisamente, che fosse degradante essere assegnato ad un Servizio di IV gruppo rispetto ad un Settore di I gruppo;
   tale affermazione non risulta, però, supportata da una corrispondente chiara differenziazione di livelli dirigenziali e correlativi complessivi trattamenti retributivi né da circostanze quali ad esempio il venir meno di funzioni apicali e la sottoposizione ad altrui direttive;
   invero a pag. 32 del ricorso il Pa. assume che per effetto dell'assegnazione al IV gruppo gli fosse stata riconosciuta una retribuzione di posizione inferiore a quella prevista per I gruppo ('con conseguenti riflessi sulla retribuzione di risultato');
   tuttavia non integra un demansionamento né non può riconoscersi come danno la perdita (di quota) della retribuzione di posizione e di risultato, non configurandosi, per quanto sopra detto, un diritto del dirigente alla preposizione ad un ufficio di direzione, alle quali le predette voci siano connesse; (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 20.05.2020 n. 9294).

PUBBLICO IMPIEGO: La revoca anticipata dell'incarico dirigenziale deve essere adottata con un atto formale e deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo fondamento, devono attenere al settore cui è preposto il dirigente.
Nel lavoro pubblico privatizzato, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo, e non è pertanto applicabile -come, peraltro, espressamente previsto dall'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001- l'art. 2103 cc, risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, la quale va tuttavia interpretata in senso stretto, ossia nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche.
Tuttavia, con riguardo all'istituto della revoca anticipata (di cui all'art. 22 del CCNL dirigenza enti locali del 1996 e all'art. 13 del CCNL dirigenza enti locali del 1999), ai fini della salvaguardia dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità dell'Amministrazione, la revoca deve essere adottata con un atto formale e deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono attenere al settore cui è preposto il dirigente.
---------------

1. Con il primo motivo di impugnazione (indicato come n. 2 nel ricorso), prospettandosi la mancanza di un motivato provvedimento espresso di revoca, si deduce
   - la violazione e falsa applicazione degli artt. 109 e 110 del d.lgs. n. 267 del 2000, dell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 20001 e dell'art. 22 del CCNL del 10.04.1996, degli artt. 13 e 14 del CCNL per il personale dirigenziale degli enti locali del 23.12.1999.
   - Nullità della revoca ex artt. 1324 e 1418 cc per mancanza di forma e contrasto con norme imperative, violazione dell'art. 2 del d.lgs. n. 29 del 1995 e n. 165 del 2001.
   - Vizio di motivazione per omesso esame di documenti decisivi. Violazione dell'art. 360, n. 3 e n. 5, cpc.
Assume il ricorrente che la Provincia illegittimamente aveva revocato implicitamente l'incarico dirigenziale conferito il 10.05.1999, prima della scadenza del mandato della Presidente della Provincia (maggio 2001) e prima del biennio di durata minima degli incarichi (l'incarico sarebbe scaduto il 10.05.2001), senza esplicitare le ragioni della revoca.
La Corte d'Appello poneva a fondamento della revoca le motivazioni del conferimento del diverso nuovo incarico, nelle quali non vi era riferimento e non si accennava che il conferimento del nuovo incarico comportava la cessazione anticipata dall'incarico di Capo settore edilizia.
La Corte d'Appello, pertanto, avrebbe dovuto rilevare la mancanza di motivazione della revoca e dello stesso provvedimento espresso di revoca, con conseguente nullità dei provvedimenti di conferimento dei nuovi incarichi. Ciò anche considerato che il settore lavori pubblici presso cui lavorava il ricorrente non era stato interessato da alcuna riorganizzazione.
2. Il motivo è fondato e deve essere accolto nei sensi di seguito indicati.
Occorre premettere, dovendosi disattendere la relativa eccezione della Provincia, che il motivo è ammissibile, in quanto la questione della illegittimità della revoca intervenuta prima della scadenza e senza le richieste ragioni organizzative, non afferendo al settore cui era preposto il ricorrente le problematiche della protezione civile, come si evince dalla sentenza di appello (pag. 18 e 20) veniva introdotta dal Fa. nel corso del giudizio di merito.
Peraltro, nel controricorso, la Provincia nel dedurre che non occorre che il provvedimento di revoca sia formalmente autonomo da quello di conferimento di un nuovo incarico, conviene della sussistenza di un unico provvedimento (pag. 9 del controricorso).
3. La Corte d'Appello, come si è accennato ha posto a fondamento della ritenuta legittimità della revoca le argomentazioni di seguito riportate in sintesi:
   la fungibilità degli incarichi dirigenziali;
   la sussistenza di ragioni organizzative, al momento della revoca, che determinavano la riorganizzazione dei servizi della Provincia istituendo un nuovo settore protezione civile;
   la legittimità della revoca anticipata dell'incarico per ragioni organizzative che non riguardano il settore cui il dirigente era preposto, non rinvenendosi tale previsione nell'art. 22 del CCNL.
4. La statuizione della Corte d'Appello non è corretta.
L'art. 109 del d.lgs. 267 del 2000 che reca "Conferimento di incarichi dirigenziali" prevede al comma 1 «Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato» (...) «con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione» (...) «o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro. L'attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi».
L'art. 22 del CCNL dirigenza enti locali del 1996 stabilisce che «la revoca anticipata rispetto alla scadenza dell'incarico può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e produttive o in seguito all'accertamento dei risultati negativi di gestione o della inosservanza delle direttive impartite ai sensi dell'art. 20 del decreto legislativo n. 29 del 1993».
L'art. 13 del successivo CCNL dirigenza enti locali 1998-2001 del 09.12.1999 (già citato art. 22 del CCNL del 1996), che reca "Affidamento e revoca degli incarichi dirigenziali" stabilisce ai commi 1-3: «1. Gli enti attribuiscono ad ogni dirigente uno degli incarichi istituiti secondo la disciplina dell'ordinamento vigente. 2. Gli enti, con gli atti previsti dai rispettivi ordinamenti, adeguano le regole sugli incarichi dirigenziali ai principi stabiliti dall'art. 19, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 29/1993, con particolare riferimento ai criteri per il conferimento e la revoca degli incarichi e per il passaggio ad incarichi diversi nonché per relativa durata che non può essere inferiore a due anni, fatte salve le specificità da indicare nell'atto di affidamento e gli effetti derivanti dalla valutazione annuale dei risultati. 3. La revoca anticipata dell'incarico rispetto alla scadenza può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e produttive o per effetto dell'applicazione del procedimento di valutazione di cui all'art. 14, comma 2».
A sua volta l'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 -in cui è confluito l'art. 19 del d.lgs. n. 29 del 1993 come succ. modificato- come vigente ratione temporis (testo precedente alle modifiche apportate dalla legge n. 145 del 2002) stabilisce al comma 1: «Per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale e per il passaggio ad incarichi di funzioni dirigenziali diverse, si tiene conto della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e della capacità professionale del singolo dirigente, anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza, applicando di norma il criterio della rotazione degli incarichi. Al conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l'articolo 2103 del codice civile», e al comma 2, per quanto qui d'interesse: «Tutti gli incarichi di direzione degli uffici delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, sono conferiti a tempo determinato, secondo le disposizioni del presente articolo. Gli incarichi hanno durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni, con facoltà di rinnovo. Sono definiti contrattualmente, per ciascun incarico, l'oggetto, gli obiettivi da conseguire, la durata dell'incarico, salvi i casi di revoca di cui all'articolo 21» (ndr, a carattere sanzionatorio), «nonché il corrispondente trattamento economico».
5. Il quadro normativo vigente ratione temporis (la revoca interveniva nel 2001) pone in evidenza che:
   - l'incarico doveva essere conferito con specifico contratto che costituiva la fonte delle rispettive obbligazione, stabilendo anche la durata del medesimo, che comunque non poteva essere nel minimo inferiore a due anni;
   - la revoca anticipata dell'incarico rispetto alla scadenza poteva avvenire per motivate ragioni organizzative e produttive o per effetto dell'applicazione del procedimento di valutazione.
6. Nella specie l'incarico di Capo servizio settore edilizia lavori pubblici interveniva dal 01.05.1999 (come esposto dal ricorrente e non contestato specificamente nel controricorso, ove a pag. 20 si afferma che con delibera 36/6851 del 04.02.1999 la Provincia aveva deliberato l'inserimento del Fa. come dirigente tecnico nell'area 4, nella quale, assume la Provincia nel 1999 era inserita anche il settore servizio di prevenzione protezione), e nel marzo del 2001 (decreto n. 6 prot. 13901, del 09.03.2001) veniva conferito all'arch. Ra.Fa. "attualmente in servizio presso l'Area 4 Lavori pubblici il seguente incarico: Capo servizio protezione civile e servizio sicurezza 626, con competenze generali in materia di protezione civile, di protezione civile, di prevenzione e protezione dai rischi professionali nei luoghi di lavoro dell'Ente, ai sensi della legge n. 626/1994 e succ. modifiche".
Nel suddetto provvedimento si fa riferimento alla delibera di ricognizione e riorganizzazione delle posizioni dirigenziali a seguito del trasferimento di funzioni e compiti alla Provincia nell'ambito del processo di decentramento amministrativo attuato con il DPCM del 22.12.2000.
Si assume quindi che nella suddetta delibera si stabiliva di inserire il settore servizio di prevenzione protezione già previsto nell'area 4 Lavori pubblici, nell'ambito dell'Area 6 territorio e ambiente, così modificato "Protezione civile e servizio sicurezza 626".
Si conferiva quindi l'incarico al Fa. tenendo conto della professionalità del dirigente.
7. Il suddetto provvedimento pone in evidenza che la revoca del precedente incarico interveniva in modo del tutto implicito, senza che fosse adottata una specifica motivazione della revoca stessa con riguardo all'incarico di dirigente del settore Area 4.
Né, come assume erroneamente, la Corte d'Appello le ragioni che determinavano l'Amministrazione a rimodulare l'Area 6, in relazione a sopravvenute competenze in materia di protezione civile, prevedendo in relazione alla stessa il posto di dirigente tecnico, possono valere come giustificazione della revoca implicita dall'incarico di dirigente dell'Area 4, atteso, tra l'altro, che come afferma la Corte d'Appello la revoca non dipendeva da ragioni disciplinari o legate ad esiti negativi di valutazione. Né l'assorbimento nell'Area 6 del settore servizio di prevenzione protezione, già inserito nell'Area 4 lavori pubblici, può valere implicitamente come riorganizzazione di quest'ultima, essendo connessa alle esigenze di rimodulazione dell'Area 6 e all'ambito protezione civile.
8. Nel lavoro pubblico privatizzato, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo, e non è pertanto applicabile -come, peraltro, espressamente previsto dall'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001- l'art. 2103 cc, risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, la quale va tuttavia interpretata in senso stretto, ossia nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche (Cass., n. 3451 del 2010).
9. Tuttavia, con riguardo all'istituto della revoca anticipata (di cui all'art. 22 del CCNL dirigenza enti locali del 1996 e all'art. 13 del CCNL dirigenza enti locali del 1999), ai fini della salvaguardia dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità dell'Amministrazione, la revoca deve essere adottata con un atto formale e deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono attenere al settore cui è preposto il dirigente.
10. Pertanto il motivo di ricorso deve essere accolto nei suddetti termini, dovendo la Corte d'Appello in sede di rinvio fare applicazione del principio di diritto sopra enunciato (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 03.02.2017 n. 2972).

aggiornamento all'11.08.2022

Gli obblighi di cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili.

URBANISTICA: Impegni assunti in sede convenzionale e scadenza del termine di validità del piano attuativo.
Il TAR Milano ricorda che:
<<La giurisprudenza è costante nell’affermare che gli impegni assunti in sede convenzionale -al contrario di quanto si verifica in caso rilascio del singolo titolo edilizio, in cui gli oneri di urbanizzazione e di costruzione a carico del destinatario sono collegati alla specifica trasformazione del territorio oggetto del titolo, con la conseguenza che ove, in tutto o in parte, l'edificazione non ha luogo, può venire in essere un pagamento indebito fonte di un obbligo restitutorio- non vanno riguardati isolatamente, ma vanno rapportati alla complessiva remuneratività dell'operazione, che costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma contrattuale e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni assunti.
La causa della convenzione urbanistica, e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, quindi, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale del negozio, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione.
Inoltre, occorre sottolineare che non è affatto escluso dal sistema che un operatore, nella convenzione urbanistica, possa assumere oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera scelta volta al benessere della collettività locale), rientrante nella ordinaria autonomia privata, non contrastante di per sé con norme imperative.
È stato quindi affermato che il principio generale, secondo cui l'obbligo di contribuzione è indissolubilmente correlato all'effettivo esercizio dello ius aedificandi, non vale rispetto ai casi in cui la partecipazione agli oneri di urbanizzazione costituisce oggetto di un'obbligazione non già imposta ex lege, ma assunta contrattualmente nell'ambito di un rapporto di natura pubblicistica correlato alla pianificazione territoriale>>.
Nella fattispecie, a fronte di un impegno dei proprietari a cedere gratuitamente l’area in favore dell’amministrazione, a titolo di urbanizzazione secondaria, e a conferirne al Comune il possesso anticipato, per consentire l’immediata utilizzazione della stessa, il TAR osserva che:
<<poiché, per espressa volontà delle parti, l’obbligo avente ad oggetto la cessione gratuita dell’area in questione non è stato condizionato alla futura attività edificatoria, in applicazione dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, deve di conseguenza ritenersi che esso non venga meno in conseguenza dello scadere del termine previsto dal piano particolareggiato per la realizzazione dei lavori di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia della villa>>
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 21.03.2022 n. 649 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
... per l'accertamento dell'illecita occupazione del terreno di proprietà della ricorrente e per la condanna del Comune resistente alla restituzione del terreno medesimo ed al risarcimento dei danni patiti.
...
1. Con il ricorso in epigrafe, la Im.Sa.An. s.r.l. ha domandato l’accertamento dell’illecita occupazione, da parte del Comune di Rivanazzano Terme di un terreno -che afferma essere di sua proprietà- situato all’incrocio tra via Bischizio e Corso della Repubblica e la condanna dell’amministrazione alla restituzione del terreno stesso ed al risarcimento dei danni patiti per il periodo in cui è stata privata del possesso del bene, ovvero, dal momento in cui la società ricorrente è divenuta proprietaria dell’area, fino alla restituzione del bene o all’adozione di un provvedimento ai sensi dell’art. 42-bis, d.lgs. n. d.P.R. n. 327/2001.
...
4. Questi i fatti che afferiscono alla controversia:
   - il 20.01.1988, con deliberazione n. 8, la Giunta Comunale di Rivazzano Terme ha approvato un piano particolareggiato -nel quale era incluso il terreno in questione– che prevedeva il risanamento conservativo e la ristrutturazione edilizia di una villa di proprietà dei signori Ro.Sa. e Gi.Sa., all’epoca proprietari del comparto; la delibera è stata ratificata con deliberazione del Consiglio Comunale n. 17 del 25.03.1988; il piano particolareggiato è stato approvato, in via definitiva, con deliberazione della Giunta municipale n. 117 del 30.06.1988;
   - in data 07.03.1990, i sig.ri Sa. hanno stipulato con il Comune di Rivanazzano Terme la convenzione urbanistica rep. 47754, con la quale, all’art. 3, hanno assunto l’impegno a cedere gratuitamente all’amministrazione comunale il terreno oggetto della presente controversia;
   - in data 05.04.1990 la convenzione, unitamente al trasferimento di proprietà del terreno in favore del Comune, è stata trascritta nei registri immobiliari;
   - nel 1990 il Comune ha realizzato sull’area un parcheggio;
   - la destinazione ad area pubblica–verde attrezzato adibita a parcheggio è stata recepita dallo strumento urbanistico, approvato con delibera del Consiglio Comunale n. 2/2012;
   - gli interventi di risanamento conservativo e ristrutturazione degli immobili di proprietà dei sig.ri Sa. previsti dal piano non sono stati attuati entro il termine del 06.03.2000 previsto dalla convenzione;
   - con scrittura privata del 26.07.2001 la Im.Sa.An. S.r.l. ha acquistato l’intera area dai sig.ri Sa.;
   - in data 05.02.2021, la società ha indirizzato al Comune una nota con cui ha chiesto chiarimenti quanto al titolo in forza del quale il Comune ha occupato l’area interessata dal parcheggio.
5. A fondamento delle domande di accertamento dell’illecita occupazione del terreno da parte del Comune di Rivanazzano Terme e di condanna alla restituzione dell’area ed al risarcimento dei danni subiti la ricorrente ha affermato che:
   - la proprietà dell’area non sarebbe mai stata trasferita dai sig.ri Sa. all’amministrazione Comunale;
   - la scadenza del piano, per decorso del termine decennale, il 06.03.2000, avrebbe determinato il venir meno della causa che giustificava l’obbligo di trasferimento dell’area, da destinare alla urbanizzazione secondaria, previsto all’art. 3 della convenzione urbanistica e avrebbe reso illegittima l’occupazione del terreno da parte del Comune;
   - non sarebbe stato adottato un decreto di occupazione d’urgenza o un decreto d’esproprio.
6. Le domande non sono fondate.
7. La giurisprudenza, richiamata anche dalla ricorrente, è costante nell’affermare che gli impegni assunti in sede convenzionale -al contrario di quanto si verifica in caso rilascio del singolo titolo edilizio, in cui gli oneri di urbanizzazione e di costruzione a carico del destinatario sono collegati alla specifica trasformazione del territorio oggetto del titolo, con la conseguenza che ove, in tutto o in parte, l'edificazione non ha luogo, può venire in essere un pagamento indebito fonte di un obbligo restitutorio- non vanno riguardati isolatamente, ma vanno rapportati alla complessiva remuneratività dell'operazione, che costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma contrattuale e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni assunti (Cons. Stato, IV, 15.02.2019, n. 1069).
La causa della convenzione urbanistica, e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, quindi, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale del negozio, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione (Con. Stato, Sez. V, 26.11.2013, n. 5603).
Inoltre, occorre sottolineare che non è affatto escluso dal sistema che un operatore, nella convenzione urbanistica, possa assumere oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera scelta volta al benessere della collettività locale), rientrante nella ordinaria autonomia privata, non contrastante di per sé con norme imperative.
È stato quindi affermato che il principio generale, secondo cui l'obbligo di contribuzione è indissolubilmente correlato all'effettivo esercizio dello ius aedificandi, non vale rispetto ai casi in cui la partecipazione agli oneri di urbanizzazione costituisce oggetto di un'obbligazione non già imposta ex lege, ma assunta contrattualmente nell'ambito di un rapporto di natura pubblicistica correlato alla pianificazione territoriale (Cons. Stato, sentenza n. 6339 del 12.11.2018).
8. Nel caso di specie, la convenzione stipulata il 07.03.1990, all’art. 3, dispone che: “i signori Sa. rag. Ro. e Sa. rag. Gi., trattandosi nel caso in esame di interventi previsti nel piano particolareggiato, si impegnano a cedere gratuitamente al Comune di Rivanazzano metri quadrati 1643 di area, salvo più esatte misure in luogo e conformemente al frazionamento catastale a titolo di urbanizzazione secondaria ed a conferire il possesso anticipato per l’immediata utilizzazione da parte del Comune per i fini previsti dandosi atto dell’avvenuta approvazione del Piano Particolareggiato”).
Essa prevede, dunque, l’impegno dei proprietari a cedere gratuitamente l’area in favore dell’amministrazione, a titolo di urbanizzazione secondaria, e a conferirne al Comune il possesso anticipato, per consentire l’immediata utilizzazione della stessa.
La disposizione finalizza gli obblighi di cessione della proprietà e di conferimento del possesso alla “immediata” destinazione pubblica dell’area, svincolando in tal modo il trasferimento del bene dalle vicende inerenti la realizzazione degli interventi previsti dal piano particolareggiato.
Ciò diversamente da altre disposizioni della convenzione: all’art. 1, ultimo comma, viene previsto che “il piano potrà attuarsi anche per singoli interventi purché i lavori di recupero avvengano in modo coordinato con la realizzazione delle opere ed infrastrutture mancanti […]” e, all’art. 2, viene disposto che le somme dovute per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione saranno versate al momento del rilascio della concessione edilizia.
Poiché, per espressa volontà delle parti, l’obbligo avente ad oggetto la cessione gratuita dell’area in questione non è stato condizionato alla futura attività edificatoria, in applicazione dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, deve di conseguenza ritenersi che esso non venga meno in conseguenza dello scadere del termine previsto dal piano particolareggiato per la realizzazione dei lavori di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia della villa.
Pertanto, quand’anche per effetto della sottoscrizione della convenzione non vi sia stato il trasferimento della proprietà, non può ritenersi che l’occupazione dell’area da parte dell’amministrazione sia divenuta illecita a seguito dello scadere del termine del 06.03.2000, previsto per l’attuazione degli interventi previsti dal piano, e che sia insorto in capo ad essa di un obbligo restitutorio.
I dubbi che la lettera dell’art. 3 della convenzione pone –se cioè con essa le parti abbiano inteso trasferire immediatamente la proprietà dell’area o assumere solamente l’obbligo di un futuro trasferimento- non hanno, quindi, rilievo determinante.
9. In ogni caso, a questo riguardo, il Collegio ritiene maggiormente rispettosa della volontà delle parti, espressa nella convenzione, la linea interpretativa prospettata dalla difesa dell’amministrazione resistente secondo cui con la stipula della convenzione è stata trasferita la proprietà dell’area.
10. A questa conclusione si giunge dando applicazione ai principi espressi dalla giurisprudenza in materia di interpretazione del contratto, in forza dei quali il carattere prioritario dell'elemento letterale non va inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell'art. 1362 c.c. alla comune intenzione delle parti impone di estendere l'indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche laddove il testo dell'accordo sia chiaro, ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti; pertanto, sebbene la ricostruzione della comune intenzione delle parti debba essere operata innanzitutto sulla base del criterio dell'interpretazione letterale delle clausole, assume valore rilevante anche il criterio logico-sistematico di cui all'art. 1363 c.c., che impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti da un esame complessivo delle diverse clausole aventi attinenza alla materia in contesa, tenendosi, altresì, conto del comportamento, anche successivo, delle parti (ex plurimis, Cass. 26/07/2019 n. 20294).
11. Nel caso di specie, portano a propendere per un immediato trasferimento della proprietà la mancata previsione nella convenzione di disposizioni volte a regolare tempi e modi della cessione gratuita e financo del conferimento del possesso anticipato dell’area, nonché il comportamento complessivo delle parti successivamente alla stipula della convenzione.
In particolare assumono rilievo a quest’ultimo riguardo:
   - la trascrizione, nei registri immobiliari, della cessione della proprietà dell’area, effettuata dai sig.ri Sa., come previsto dall’art. 6 della convenzione;
   - la delibera del Consiglio Comunale n. 60 del 21.03.1990, in cui viene dato atto che, con l’art. 3 della convenzione, l’area, di cui era stato precedentemente conferito il possesso anticipato, è stata ceduta gratuitamente al Comune e che sull’area “sussiste la demanialità comunale”;
   - le spese sostenute dall’amministrazione comunale per la realizzazione del verde pubblico e la manutenzione dell’area da un lato, il mancato pagamento delle imposte relative all’area in questione da parte dei sig.ri Sa. e della Im.Sa.An. s.r.l. dall’altro.
12. Per le ragioni esposte le domande di accertamento e di condanna sono infondate e devono essere, pertanto, respinte.

URBANISTICA: Sulla non applicabilità della prescrizione ex art. 2934 c.c. alla situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il Comune nei confronti del privato in forza di una convenzione di lottizzazione o comunque in base ad una convenzione urbanistica.
Il Collegio, pur consapevole che la questione della applicabilità della prescrizione ex art. 2934 c.c. alla situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il Comune nei confronti del privato in forza di una convenzione di lottizzazione o comunque in base ad una convenzione urbanistica ex art. 28 della L. 17.08.1942, n. 1150 non ha trovato soluzione unanime in giurisprudenza, ritiene di aderire all’orientamento secondo il quale dalla natura "sostitutiva" del potere pianificatorio che si riconosce ex art. 11 della L. n. 241 del 1990 alla convenzione di lottizzazione, deriva la non applicabilità dell’istituto della prescrizione a fronte della pretesa dell’amministrazione all’esecuzione di impegni a carico del privato derivanti dalla convenzione stessa.
Non essendo, infatti, tale pretesa riducibile ad una posizione di diritto soggettivo "disponibile" di cui sarebbe titolare il Comune, essendo volta, sia pure mediante l'adozione di una modalità di esercizio concordata del "potere di pianificazione" ad essa attribuito dalla legge, a perseguire l'interesse pubblico al razionale assetto urbanistico del territorio, la stessa è di carattere non rinunciabile né estinguibile per effetto del mero decorso del tempo (o, secondo una diversa ricostruzione della prescrizione dalla quale deriverebbe solo un effetto preclusivo all'esercizio del diritto, suscettibile di essere "indebolita" dall'eccezione sollevata dalla controparte).
Ne consegue che “gli obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria assunti con le convenzioni urbanistiche mantengono la loro piena validità a tempo indeterminato, e che con riguardo al "vincolo di cessione" delle aree del privato strumentale all'ottemperanza di tali obblighi, non possono configurarsi né decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di area che il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione”.
---------------

Preliminarmente va disattesa l’eccezione di prescrizione del vincolo discendente dal piano di lottizzazione, sollevata sul rilievo dell’ampio periodo di tempo trascorso tra la data di approvazione dello strumento urbanistico da cui viene fatto derivare l’obbligo della cessione gratuita e quella in cui è stata riscontrata la mancata cessione dell’area.
Il Collegio, pur consapevole che la questione della applicabilità della prescrizione ex art. 2934 c.c. alla situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il Comune nei confronti del privato in forza di una convenzione di lottizzazione o comunque in base ad una convenzione urbanistica ex art. 28 della L. 17.08.1942, n. 1150 non ha trovato soluzione unanime in giurisprudenza, ritiene di aderire all’orientamento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2019, n. 1341: "gli obblighi di cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili”; Idem 29.03.2019, n. 2084; Idem n. 3672 del 14.06.2018; n. 4278 del 26.08.2014, nonché n. 5413 del 30.11.2015) secondo il quale dalla natura "sostitutiva" del potere pianificatorio che si riconosce ex art. 11 della L. n. 241 del 1990 alla convenzione di lottizzazione, deriva la non applicabilità dell’istituto della prescrizione a fronte della pretesa dell’amministrazione all’esecuzione di impegni a carico del privato derivanti dalla convenzione stessa.
Non essendo, infatti, tale pretesa riducibile ad una posizione di diritto soggettivo "disponibile" di cui sarebbe titolare il Comune, essendo volta, sia pure mediante l'adozione di una modalità di esercizio concordata del "potere di pianificazione" ad essa attribuito dalla legge, a perseguire l'interesse pubblico al razionale assetto urbanistico del territorio, la stessa è di carattere non rinunciabile né estinguibile per effetto del mero decorso del tempo (o, secondo una diversa ricostruzione della prescrizione dalla quale deriverebbe solo un effetto preclusivo all'esercizio del diritto, suscettibile di essere "indebolita" dall'eccezione sollevata dalla controparte).
Ne consegue che “gli obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria assunti con le convenzioni urbanistiche mantengono la loro piena validità a tempo indeterminato, e che con riguardo al "vincolo di cessione" delle aree del privato strumentale all'ottemperanza di tali obblighi, non possono configurarsi né decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di area che il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione” (TAR Napoli, Sez. II, 05/12/2019, n. 5705, TAR Cagliari, Sez. II, 10.01.2018, n. 8) (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 14.03.2022 n. 742 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe opere di urbanizzazione e le relative aree su cui esse insistono non sono usucapibili, stante la loro precisa destinazione funzionale, cioè quella di garantire la dotazione legale di standards urbanistici previsti per la specifica zona di intervento edilizio e la funzionalità o congruità delle opere di servizio, indispensabili per la vivibilità di un contesto intensamente antropizzato; destinazione che le fa rientrare nel patrimonio indisponibile del Comune.
Tanto, in virtù di quanto previsto dall’art. 826, u.c., cod. civile, secondo cui “Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio”.
In altri termini, le opere di urbanizzazione primaria, proprio in quanto tali, integrano il requisito, sia amministrativo che effettivo, di essere preordinate alla soddisfazione di interessi generali, dunque destinate a un pubblico servizio, ai sensi dell’art. 826 c.c.; in particolare, nel caso in esame, è pacifico che le opere in questione siano state realizzate per ottemperare ad obblighi di legge prodromici al rilascio dei permessi edilizi, che presuppongono la cessione degli standards urbanistici di zona e che le stesse siano state effettivamente utilizzate per assicurare l’idoneità funzionale dell’intero insediamento, a servizio non solo dei proprietari ma di tutti coloro che accedono alla Cittadella commerciale (seppur nell’erronea convinzione della reclamante-ricorrente di aver “riscattato” i suddetti beni e di averne per questo acquisito la proprietà).
Sul punto, consolidata giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che “Le opere di urbanizzazione sono preordinate alla fruizione collettiva indifferenziata e alla soddisfazione di interessi generali, tanto più allorché siano realizzate a soddisfazione dei necessari standard urbanistici: in tale prospettiva, gli spazi a parcheggio concretanti opere di urbanizzazione vanno ritenuti per definizione pubblici, o comuni, palesandosi abusiva ed illecita la pretesa di una fruizione riservata e limitata” e che “Le opere di urbanizzazione primaria, o tecnologica, comprendono tutte le attrezzature a rete, o infrastrutture, necessarie per assicurare ad un'area edificabile l'idoneità insediativa in senso tecnico, cioè tutte quelle attrezzature che rendono possibile l'uso degli edifici”.
---------------
Quanto all’eccepita prescrizione del diritto del Comune a veder concretamente attuati gli obblighi convenzionali, si osserva che correttamente il Commissario ad acta ha osservato che “Operando il trasferimento automatico non può nemmeno porsi questione relativa alla prescrizione”.
Ove pure si dovesse opinare, ma solo in astratto, che non vi fosse sui beni de quibus un inscindibile legame con la cosa pubblica, collegato alla natura di beni del patrimonio indisponibile del Comune, comunque le aree e le opere di servizio, per come qualificate dalla stessa ricorrente, resterebbero dedicate e destinate ab origine alla fruizione di una collettività indeterminata di cittadini-utenti, così da vedersi comprese nella c.d. dicatio ad patriam che, pur non escludendo gli esiti traslativi invocati dalla società ricorrente, impedirebbe l’uso economico che la stessa pretende di protrarre nel tempo.
Il Consiglio di Stato ha precisato le caratteristiche della c.d. “dicatio ad patriam”, intesa come modo di costituzione di un uso pubblico mediante la messa a disposizione della collettività del bene, ancorché di proprietà privata.
Le argomentazioni addotte dal Commissario ad acta, nel provvedimento qui impugnato dalla società ..., resistono alle critiche formulate dalla medesima, essendosi chiarito in giurisprudenza che:
   - “l'acquisizione delle opere e delle relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo è la cessione delle stesse per la società lottizzante; ciò in quanto, oltre ad essere tassativamente previsto dalla legge nei termini sopra descritti (ovvero secondo quanto prescritto all’art. 28 l. 1150/1942, comma 5), detto trasferimento è condizione necessaria affinché possa concretamente realizzarsi l'assetto del territorio cui sovrintende l'attività di pianificazione ed è, altresì, presupposto necessario affinché possano poi concretamente operare le norme nazionali e regionali vigenti in materia di corretta gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore espressamente affida all'autorità amministrativa”. Invero
   - le opere di urbanizzazione “unitamente alle aree su cui esse insistono, per principio generale appartengono necessariamente alla mano pubblica, secondo il regime del patrimonio indisponibile”, ex art. 826, comma 3, c.c.; ed ancora
   - "sussiste, sia pure dopo l’entrata in vigore del DPR 380/2001, una presunzione juris et de jure di proprietà pubblica delle opere di urbanizzazione"; nonché
   - “Il trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione in capo al comune costituisce un'obbligazione ex lege -inderogabile e indisponibile per le parti della convenzione di lottizzazione in base alla quale le opere stesse sono state realizzate-, ex art. 28 della L. n. 1150 del 17.08.1942, con la conseguenza che le parti non potrebbero legittimamente accordarsi sul loro mantenimento in capo al lottizzante, essendo tali opere strumentali allo svolgimento di pubblici servizi fisiologicamente rientranti nelle competenze dell'autorità amministrativa”.
Tale è l’orientamento giurisprudenziale che ha trovato conferma prima in un arresto del Tar Brescia (la sentenza n. 902/2018), quindi nella decisione del Consiglio di Stato (Sez. IV, 26.02.2019, n. 1341) che ha ritenuto le obbligazioni pubblicistiche derivanti da Convenzioni di lottizzazioni come imprescrittibili.
Afferma il Tar Brescia, nella richiamata decisione, che “l’obbligo di cessione gratuita ricavabile dalla normativa urbanistica, pur non avendo carattere periodico, ha una consistenza analoga a quella dell’onere reale, sia in relazione al presupposto (rapporto con la cosa), sia relativamente alla funzione (utilità protratta nel tempo). In particolare, sotto il primo profilo, perché si tratta del necessario bilanciamento al peso insediativo apportato dalle nuove costruzioni private; sotto il secondo profilo, perché soddisfa un interesse collettivo di natura permanente, che consiste nell’integrare le infrastrutture al servizio di una zona urbanistica. Pertanto, mentre per i crediti espressi in un importo monetario (ad esempio, il contributo di costruzione) decorre il normale termine di prescrizione decennale, la cessione gratuita di aree non è soggetta a prescrizione, almeno finché l’Amministrazione non decida di liberare il fondo dei privati disponendo la monetizzazione dello standard”.
L’opzione interpretativa ha trovato conferma in una decisione del Consiglio di Stato, secondo cui “gli obblighi di cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili … E ciò anche perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione”.
---------------

V.1 - Come già anticipato, l’art. 5 rinvenibile tra le pattuizioni di tutte le suddette Convenzioni stabiliva che “dopo il collaudo definitivo favorevole, le opere saranno automaticamente prese in carico dal comune e potranno essere rilasciati i certificati di abitabilità sia delle opere che degli edifici”.
La parola “automaticamente” evidenzia la volontà delle parti di ritenere verificata la cessione a scomputo delle opere di urbanizzazione -a seguito della quale erano rilasciabili i certificati di agibilità- non appena le stesse fossero venute a esistenza, senza necessità di ulteriori atti di consenso.
È vero che la Convenzione del 1990, stipulata dopo il collaudo, precisava che “resta fermo l’obbligo della Società il Ba. S.p.A., ai sensi dell’articolo 7 delle Convenzioni 27/09/1983 numero 1584 di Repertorio, 01/06/1984 numero 1636 di Repertorio e 11/02/1985 numero 1684 di Repertorio di cedere al Comune di Casamassima tutti gli impianti, manufatti ed opere elencate nell’articolo 5 delle convenzioni innanzi citate” (così l’art. 3 della Convenzione del 1990), ma questa disposizione fa riferimento a “impianti, manufatti ed opere”, quindi non smentisce che le aree siano già di proprietà del Comune e, comunque, impone un “obbligo di cedere” che non è necessariamente da intendersi come obbligo di trasferire in proprietà, ben potendo intendersi genericamente come obbligo di consegnare.
L’esistenza delle opere di urbanizzazione come tali si è perfezionata con il collaudo delle stesse che, come riferisce la stessa reclamante-ricorrente Tr.Se., è avvenuto in data 28.11.1987. Il tutto –si potrebbe ritenere- secondo lo schema contrattuale di vendita o cessione di cosa futura, di cui all’art. 1472 cod. civile, secondo cui “Nella vendita che ha per oggetto una cosa futura, l'acquisto della proprietà si verifica non appena la cosa viene ad esistenza”. In effetti, “la vendita di cosa futura, pur non comportando il passaggio della proprietà della cosa al compratore simultaneamente per effetto della semplice manifestazione del consenso, non costituisce un negozio a formazione progressiva suscettibile soltanto di effetti meramente preliminari, aventi per contenuto quello di porre in essere un successivo negozio, ma configura un'ipotesi di contratto definitivo di vendita obbligatoria, di per sé idoneo e sufficiente a produrre l'effetto traslativo della proprietà al momento in cui la cosa verrà ad esistenza a norma dell'art. 1472 c.c.” (cfr.: Cass. civile, Sez. II, n. 11840 del 06.11.1991).
L’effetto traslativo delle opere di urbanizzazione di che trattasi si è, dunque, verificato in capo al Comune di Casamassima nel momento stesso in cui è stato effettuato il collaudo; a conferma dell’automaticità dell’effetto traslativo, giunge l’ulteriore previsione contrattuale del medesimo art. 5 delle citate convenzioni, secondo cui “l’utilizzo di dette opere da parte della ditta dovrà essere oggetto di particolare convenzionamento”.
Le parti, dunque, proprio in ragione del presupposto dell’automaticità dell’effetto traslativo, avevano pure previsto la possibilità di utilizzo da parte della ditta realizzatrice, seppur mediante apposito convenzionamento atto a disciplinarne i soli risvolti gestionali.
Ulteriore conseguenza del perfezionamento dell’effetto traslativo delle opere di urbanizzazione in capo al Comune nel momento stesso della loro venuta a esistenza è che le stesse opere, sin da quel momento, sono transitate nel patrimonio indisponibile del Comune, con tutte le correlate tutele, in primis quella di cui all’art. 828 cod. civile.
Tanto ha correttamente rilevato una pertinente giurisprudenza, secondo cui «A seguito dell'entrata in vigore d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (t.u. Edilizia, ove all'art. 16, comma 2, si afferma che "2. La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'art. 2, comma 5, l. 11.02.1994 n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune"), una volta ricondotte al regime del patrimonio indisponibile, le opere di urbanizzazione godono del sistema di protezione di cui all'art. 828, comma 2, del codice civile, secondo cui "I beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano", il che ne impedisce l'alienazione e l'usucapione da parte dei privati (cfr. ex multis Cassazione civile, Sez. II, 15.02.2010, n. 3465)» (cfr.: Tar Sardegna, Sez. II, 04/08/2011, n. 880).
Come già osservato, che le suddette opere di urbanizzazione siano automaticamente transitate nel patrimonio comunale viene implicitamente confermato dalla stessa reclamante società Tr.Se., la quale nella consapevolezza della titolarità pubblica ha individuato il Comune quale soggetto proprietario contro cui proporre azione di usucapione.
V.2 - Sotto altro profilo, va comunque rilevato che le opere di urbanizzazione e le relative aree su cui esse insistono -al di là del già verificato effetto traslativo per espresso disposto delle convenzioni di urbanizzazione- non dovrebbero essere usucapibili, stante la loro precisa destinazione funzionale, cioè quella di garantire la dotazione legale di standards urbanistici previsti per la specifica zona di intervento edilizio e la funzionalità o congruità delle opere di servizio, indispensabili per la vivibilità di un contesto intensamente antropizzato; destinazione che le fa rientrare nel patrimonio indisponibile del Comune. Tanto, in virtù di quanto previsto dall’art. 826, u.c., cod. civile, secondo cui “Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio”.
In altri termini, le opere di urbanizzazione primaria, proprio in quanto tali, integrano il requisito, sia amministrativo che effettivo, di essere preordinate alla soddisfazione di interessi generali, dunque destinate a un pubblico servizio, ai sensi dell’art. 826 c.c.; in particolare, nel caso in esame, è pacifico che le opere in questione siano state realizzate per ottemperare ad obblighi di legge prodromici al rilascio dei permessi edilizi, che presuppongono la cessione degli standards urbanistici di zona e che le stesse siano state effettivamente utilizzate per assicurare l’idoneità funzionale dell’intero insediamento, a servizio non solo dei proprietari ma di tutti coloro che accedono alla Cittadella commerciale (seppur nell’erronea convinzione della reclamante-ricorrente di aver “riscattato” i suddetti beni e di averne per questo acquisito la proprietà).
Sul punto, consolidata giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che “Le opere di urbanizzazione sono preordinate alla fruizione collettiva indifferenziata e alla soddisfazione di interessi generali, tanto più allorché siano realizzate a soddisfazione dei necessari standard urbanistici: in tale prospettiva, gli spazi a parcheggio concretanti opere di urbanizzazione vanno ritenuti per definizione pubblici, o comuni, palesandosi abusiva ed illecita la pretesa di una fruizione riservata e limitata” e che “Le opere di urbanizzazione primaria, o tecnologica, comprendono tutte le attrezzature a rete, o infrastrutture, necessarie per assicurare ad un'area edificabile l'idoneità insediativa in senso tecnico, cioè tutte quelle attrezzature che rendono possibile l'uso degli edifici” (cfr.: Cons. Stato, sez. V, 13/09/2018, n. 5372).
Ciò comporta che la pretesa del privato tesa ad appropriarsi delle suddette opere per sottrarle alla mano pubblica e alla loro precipua destinazione, non può essere ritenuta meritevole di accoglimento.
V.3 - Va pure rilevato che, in virtù dello specifico regime che caratterizza questo tipo di opere, ogni atto dispositivo risulterebbe essere viziato da nullità, in quanto contrario a norme imperative o, comunque, a disposizioni non derogabili dai privati.
Nessuno degli atti dispositivi menzionati dalla reclamante-ricorrente, dunque, costituirebbe titolo idoneo al trasferimento della proprietà, così come precisato dalla Suprema Corte, secondo cui “Ai fini dell'usucapione decennale l'atto nullo non costituisce titolo idoneo al trasferimento della proprietà. (Nella specie, la Cassazione ha negato che colui che acquista un bene demaniale da un altro privato possa invocare l'usucapione abbreviata decennale, e ciò neppure dalla successiva data di sdemanializzazione del bene che non comporta alcuna convalida dell'atto di trasferimento del bene)” (cfr.: Cass. civile sez. II, 20/04/2001, n. 5894).
Alla luce di quanto sopra, risulta evidente come l’iniziativa processuale promossa in questa sede dalla società Tr.Se. sconti diversi profili di criticità, che conducono ognuno al suo integrale rigetto.
V.4 - Nessuna rilevanza preclusiva all’operato trasferimento automatico della proprietà delle aree di che trattasi in capo al Comune può enuclearsi dalla determina dirigenziale comunale n. 50 del 17.02.2003 del Comune di Casamassima, in assenza di recepimento della stessa da parte del Consiglio comunale, che è l’unico organo che, ai sensi di legge (art. 42, D.Lgs. n. 267/2000), può assumere statuizioni in merito all’acquisizione o alla dismissione di beni e opere pubbliche. A tutto voler concedere, all’atto dirigenziale in parola potrebbe attribuirsi valenza meramente interna, di atto istruttorio o proposta da sottoporre al vaglio del Consiglio comunale, quindi natura di atto endo-procedimentale, anche perché è mancato, in ogni caso, l’atto convenzionale che avrebbe dovuto costituire il titolo per il trasferimento e per la legittima fruizione delle aree di che trattasi.
V.5 - Quanto all’eccepita prescrizione del diritto del Comune di Casamassima a veder concretamente attuati gli obblighi convenzionali, si osserva che correttamente il Commissario ad acta ha osservato che “Operando il trasferimento automatico non può nemmeno porsi questione relativa alla prescrizione”.
V.6 – Ove pure si dovesse opinare, ma solo in astratto, che non vi fosse sui beni de quibus un inscindibile legame con la cosa pubblica, collegato alla natura di beni del patrimonio indisponibile del Comune, comunque le aree e le opere di servizio, per come qualificate dalla stessa ricorrente, resterebbero dedicate e destinate ab origine alla fruizione di una collettività indeterminata di cittadini-utenti, così da vedersi comprese nella c.d. dicatio ad patriam che, pur non escludendo gli esiti traslativi invocati dalla società ricorrente, impedirebbe l’uso economico che la stessa pretende di protrarre nel tempo.
Con la sentenza n. 5785 del 22.08.2019, il Consiglio di Stato ha precisato le caratteristiche della c.d. “dicatio ad patriam”, intesa come modo di costituzione di un uso pubblico mediante la messa a disposizione della collettività del bene, ancorché di proprietà privata.
V.7 - Le argomentazioni addotte dal Commissario ad acta, nel provvedimento qui impugnato dalla società Tr.Se., resistono alle critiche formulate dalla medesima, essendosi chiarito in giurisprudenza che “l'acquisizione delle opere e delle relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo è la cessione delle stesse per la società lottizzante; ciò in quanto, oltre ad essere tassativamente previsto dalla legge nei termini sopra descritti (ovvero secondo quanto prescritto all’art. 28 l. 1150/1942, comma 5), detto trasferimento è condizione necessaria affinché possa concretamente realizzarsi l'assetto del territorio cui sovrintende l'attività di pianificazione ed è, altresì, presupposto necessario affinché possano poi concretamente operare le norme nazionali e regionali vigenti in materia di corretta gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore espressamente affida all'autorità amministrativa” (cfr.: Tar Lazio, Roma, Sez. II-ter n. 5787 del 16.05.2016; vedasi anche Tar Sardegna, Cagliari sez. II, 04.08.2011, n. 880, laddove si precisa, tra l’altro, che le opere di urbanizzazione “unitamente alle aree su cui esse insistono, per principio generale appartengono necessariamente alla mano pubblica, secondo il regime del patrimonio indisponibile”, ex art. 826, comma 3, c.c.; vedasi anche T.a.r. Calabria, Catanzaro, I, 03.05.2011, nr. 606, secondo cui sussiste, sia pure dopo l’entrata in vigore del DPR 380/2001, una presunzione juris et de jure di proprietà pubblica delle opere di urbanizzazione; vedasi, infine, Tar Sardegna, Cagliari, 19.02.2010, n. 187, secondo cui “Il trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione in capo al comune costituisce un'obbligazione ex lege -inderogabile e indisponibile per le parti della convenzione di lottizzazione in base alla quale le opere stesse sono state realizzate-, ex art. 28 della L. n. 1150 del 17.08.1942, con la conseguenza che le parti non potrebbero legittimamente accordarsi sul loro mantenimento in capo al lottizzante, essendo tali opere strumentali allo svolgimento di pubblici servizi fisiologicamente rientranti nelle competenze dell'autorità amministrativa”).
Tale è l’orientamento giurisprudenziale che ha trovato conferma prima in un arresto del Tar Brescia (la sentenza n. 902/2018), quindi nella decisione del Consiglio di Stato (Sez. IV, 26.02.2019, n. 1341) che ha ritenuto le obbligazioni pubblicistiche derivanti da Convenzioni di lottizzazioni come imprescrittibili.
Afferma il Tar Brescia, nella richiamata decisione n. 902/2018, che “l’obbligo di cessione gratuita ricavabile dalla normativa urbanistica, pur non avendo carattere periodico, ha una consistenza analoga a quella dell’onere reale, sia in relazione al presupposto (rapporto con la cosa), sia relativamente alla funzione (utilità protratta nel tempo). In particolare, sotto il primo profilo, perché si tratta del necessario bilanciamento al peso insediativo apportato dalle nuove costruzioni private; sotto il secondo profilo, perché soddisfa un interesse collettivo di natura permanente, che consiste nell’integrare le infrastrutture al servizio di una zona urbanistica. Pertanto, mentre per i crediti espressi in un importo monetario (ad esempio, il contributo di costruzione) decorre il normale termine di prescrizione decennale (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 03.05.2014 n. 464), la cessione gratuita di aree non è soggetta a prescrizione, almeno finché l’Amministrazione non decida di liberare il fondo dei privati disponendo la monetizzazione dello standard (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 15.09.2015 n. 991)”.
L’opzione interpretativa ha trovato conferma in una decisione del Consiglio di Stato, secondo cui “gli obblighi di cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 4278 del 26.08.2014) … E ciò anche perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione” (cfr.: Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2019, n. 1341; in termini Cons. Stato, Sez. IV, 29.03.2019, n. 2084; idem Sez. IV, n. 5413 del 30.11.2015; idem, Sez. IV, n. 3672 del 14.06.2018) (TAR Puglia-Bari, Sez. III; sentenza 04.10.2021 n. 1429 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Per pacifica giurisprudenza, il piano di lottizzazione ha durata decennale, così che, decorso infruttuosamente questo termine, lo strumento attuativo perde efficacia (la durata in questione è desunta dall’art. 16, 5° co., l. 17.08.1942, n. 1150, sui piani particolareggiati, perché il successivo art. 28 prevede soltanto che la convenzione di lottizzazione fissi i termini, non superiori a dieci anni, entro i quali deve essere ultimata l’esecuzione delle opere convenzionate e che il piano di lottizzazione assuma nella pianificazione urbanistica una natura normalmente alternativa rispetto al piano particolareggiato).
Tale sopravvenuta inefficacia comunque “non comporta la decadenza di ogni disciplina urbanistica dell’area, poiché restano espressamente ferme, a tempo indeterminato, le prescrizioni di zona e quelle relative agli allineamenti” ai sensi dell’art. 17 l. n. 1150/1942.
Muovendo da tale premessa, la giurisprudenza ha ribadito:
   - che le “previsioni dello strumento attuativo”, comportanti “la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata” (venendo in tal modo a specificare le “regole di conformazione” disposte dal p.r.g. ai sensi dell’art. 869 cod. civ.: “I proprietari d’immobili nei comuni dove sono formati piani regolatori devono osservare le prescrizioni dei piani stessi nelle costruzioni e nelle riedificazioni o modificazioni delle costruzioni esistenti”), in linea di principio “rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo)”, mentre diventano inefficaci per decorso del termine solo le previsioni “che non abbiano avuto concreta attuazione, […] salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo […], che per questa parte ha efficacia ultrattiva” (a sostegno di questa conclusione si afferma che l’art. 17 l. n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui, “mentre le previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli, le previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale stabilità, in quanto specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l’attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina l’assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito e, quindi, contiene prescrizioni urbanistiche che rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza”);
   - che con la scadenza del termine di efficacia dello strumento attuativo “l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione”, ma “fino a quando tale potere non viene esercitato, l’assetto urbanistico dell’area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione”;
   - che “le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono […] nell’ambito della sola disciplina urbanistica non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. Cons. Stato, Adunanza plenaria, 20.07.2012, n. 28)”, restando “quindi in vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola, in particolare per quanto concerne gli obblighi correlati alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò «anche perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione»”.

---------------
Nel caso in esame, la destinazione a “verde pubblico” della particella non comporta l’imposizione sulla stessa di un vincolo espropriativo (come tale soggetto a decadenza), ma di un vincolo avente natura conformativa.
Va in proposito condiviso l’orientamento secondo cui la destinazione a verde pubblico prevista in un piano di lottizzazione (“ossia all’interno di uno strumento consensuale e per definizione perequativo”) non comporta l’imposizione di un vincolo espropriativo, trattandosi di un c.d. “vincolo di cessione”, relativamente al quale non possono configurarsi né decadenze, né prescrizione, né usucapione.
Esso grava, infatti, su un’area che “il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a cedere all’interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in stretta correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare le edificazioni previste dal piano di lottizzazione”.
Invero,
   - è stato precisato come tale vincolo sia “ancor più incisivo di un vincolo conformativo”; ed ancora
   - “gli obblighi di cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili”, nonché
   - “dalla natura ‘sostitutiva’ del potere pianificatorio che si riconosce ex art. 11 della L. 241/1990 alla convenzione di lottizzazione” deriva “l’incompatibilità dell’istituto della prescrizione alla ‘pretesa’ dell’amministrazione all’esecuzione di tali impegni; pretesa, irriducibile ad una posizione di diritto soggettivo ‘disponibile’ di cui sarebbe titolare il Comune, essendo volta, sia pure mediante l’adozione di una modalità di esercizio concordata del ‘potere di pianificazione’ ad essa attribuito dalla legge, a perseguire l’interesse pubblico al razionale assetto urbanistico del territorio; come tale di carattere non rinunciabile né estinguibile per effetto del mero decorso del tempo […]”.

--------------

5.1. Per pacifica giurisprudenza (v. ex multis Cons. Stato, sez. IV, 24.09.2020, n. 5581), il piano di lottizzazione ha durata decennale, così che, decorso infruttuosamente questo termine, lo strumento attuativo perde efficacia (la durata in questione è desunta dall’art. 16, 5° co., l. 17.08.1942, n. 1150, sui piani particolareggiati, perché il successivo art. 28 prevede soltanto che la convenzione di lottizzazione fissi i termini, non superiori a dieci anni, entro i quali deve essere ultimata l’esecuzione delle opere convenzionate e che il piano di lottizzazione assuma nella pianificazione urbanistica una natura normalmente alternativa rispetto al piano particolareggiato).
Tale sopravvenuta inefficacia comunque “non comporta la decadenza di ogni disciplina urbanistica dell’area, poiché restano espressamente ferme, a tempo indeterminato, le prescrizioni di zona e quelle relative agli allineamenti” ai sensi dell’art. 17 l. n. 1150/1942.
Muovendo da tale premessa, la giurisprudenza ha ribadito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.03.2019, n. 2084):
   - che le “previsioni dello strumento attuativo”, comportanti “la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata” (venendo in tal modo a specificare le “regole di conformazione” disposte dal p.r.g. ai sensi dell’art. 869 cod. civ.: “I proprietari d’immobili nei comuni dove sono formati piani regolatori devono osservare le prescrizioni dei piani stessi nelle costruzioni e nelle riedificazioni o modificazioni delle costruzioni esistenti”), in linea di principio “rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo)”, mentre diventano inefficaci per decorso del termine solo le previsioni “che non abbiano avuto concreta attuazione, […] salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo […], che per questa parte ha efficacia ultrattiva” (a sostegno di questa conclusione si afferma che l’art. 17 l. n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui, “mentre le previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli, le previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale stabilità, in quanto specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l’attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina l’assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito e, quindi, contiene prescrizioni urbanistiche che rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza”);
   - che con la scadenza del termine di efficacia dello strumento attuativo “l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione”, ma “fino a quando tale potere non viene esercitato, l’assetto urbanistico dell’area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione”;
   - che “le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono […] nell’ambito della sola disciplina urbanistica non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. Cons. Stato, Adunanza plenaria, 20.07.2012, n. 28)”, restando “quindi in vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola, in particolare per quanto concerne gli obblighi correlati alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò «anche perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione»” (in quest’ultimo senso è citata Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4278).
5.2. Nel caso in esame, la destinazione a “verde pubblico” della particella 334 non comporta l’imposizione sulla stessa di un vincolo espropriativo (come tale soggetto a decadenza), ma di un vincolo avente natura conformativa.
Va in proposito condiviso l’orientamento secondo cui la destinazione a verde pubblico prevista in un piano di lottizzazione (“ossia all’interno di uno strumento consensuale e per definizione perequativo”) non comporta l’imposizione di un vincolo espropriativo (Tar Lombardia, Brescia, 26.04.2017, n. 551), trattandosi di un c.d. “vincolo di cessione”, relativamente al quale non possono configurarsi né decadenze, né prescrizione, né usucapione.
Esso grava, infatti, su un’area che “il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a cedere all’interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in stretta correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare le edificazioni previste dal piano di lottizzazione” (Tar Sardegna, sez. II, 17.08.2020, n. 456, che ha precisato come tale vincolo sia “ancor più incisivo di un vincolo conformativo”; v. anche Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2019, n. 1341, secondo cui “gli obblighi di cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili”, e Tar Campania, Napoli, sez. II, 05.12.2019, n. 5705: “dalla natura ‘sostitutiva’ del potere pianificatorio che si riconosce ex art. 11 della L. 241/1990 alla convenzione di lottizzazione” deriva “l’incompatibilità dell’istituto della prescrizione alla ‘pretesa’ dell’amministrazione all’esecuzione di tali impegni; pretesa, irriducibile ad una posizione di diritto soggettivo ‘disponibile’ di cui sarebbe titolare il Comune, essendo volta, sia pure mediante l’adozione di una modalità di esercizio concordata del ‘potere di pianificazione’ ad essa attribuito dalla legge, a perseguire l’interesse pubblico al razionale assetto urbanistico del territorio; come tale di carattere non rinunciabile né estinguibile per effetto del mero decorso del tempo […]”)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 04.06.2021 n. 6593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: M. Petrulli, Imprescrittibili gli obblighi di cessione di aree a favore del comune nell’ambito di un piano di lottizzazione (14.12.2019 - tratto da e link a www.lapostadelsindaco.it).
---------------
La questione della applicabilità della prescrizione decennale alla situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il Comune nei confronti del privato in forza di una convenzione di lottizzazione, o comunque in base ad una convenzione urbanistica ex art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150, in passato non ha trovato soluzione unanime in giurisprudenza, riflettendosi in essa le più ampie problematiche concernenti la natura giuridica dell’atto bilaterale cui è condizionata l’autorizzazione ad edificare dell’ente locale e la perimetrazione della clausola di compatibilità dei principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti prevista dall’art. 11 della Legge 241/1990, cui si riconducono le convenzioni di lottizzazione.
Secondo un orientamento che fa leva sulla natura negoziale della convenzione, la pretesa dell’amministrazione di ottenere la cessione gratuita delle aree e la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, oggetto della correlativa obbligazione assunta dal privato, sarebbe assoggettata al termine di prescrizione ordinario decennale, con ciò implicitamente riconoscendo alla posizione giuridica soggettiva del Comune natura di “diritto soggettivo disponibile”.
Nell’ambito di tale opzione interpretativa, secondo una prima declinazione della tesi, il dies a quo della decorrenza della prescrizione viene individuato nella stipula della convenzione medesima
[1]; secondo un’altra, nella scadenza del termine di efficacia decennale della convenzione medesima, in forza dell’applicazione dell’art. 2935 c.c. (secondo cui la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui può essere fatta valere), non potendosi qualificare, prima di tale scadenza, come esigibile l’obbligazione convenzionalmente assunta dal privato [2].
Secondo un opposto orientamento
[3], invece, dalla natura “sostitutiva” del potere pianificatorio che si riconosce ex art. 11 della L. 241/1990 alla convenzione di lottizzazione deriva l’incompatibilità dell’istituto della prescrizione alla “pretesa” dell’amministrazione all’esecuzione di tali impegni; pretesa, irriducibile ad una posizione di diritto soggettivo “disponibile” di cui sarebbe titolare il Comune, essendo volta, sia pure mediante l’adozione di una modalità di esercizio concordata del “potere di pianificazione” ad essa attribuito dalla legge, a perseguire l'interesse pubblico al razionale assetto urbanistico del territorio; come tale di carattere non rinunciabile né estinguibile per effetto del mero decorso del tempo (o, secondo una diversa ricostruzione della prescrizione -dalla quale deriverebbe solo un effetto preclusivo all’esercizio del diritto– suscettibile di essere “indebolito” dall’eccezione sollevata dalla controparte).
È stato sul punto osservato che gli artt. 16, 17 e 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 -i quali prevedono il termine di efficacia decennale dei piani particolareggiati, con disciplina analogicamente applicabile anche alle convenzioni di lottizzazione– debbano interpretarsi nel senso che “le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.02.2007, n. 851).
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 20.07.2012, n. 28) (…)
Pertanto, tenendo conto dell’indiscussa ultrattività (nei termini di cui prima si è detto) del piano di lottizzazione in oggetto, resta tuttora in vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola e dunque, nella specie, l’obbligazione della società appellata di dar corso alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò anche perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione
"
[4].
L'ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si giustifica "alla luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell'interesse pubblico", essendo inconcepibile "ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l'urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione"
[5].
Ne consegue che:
   - gli obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria assunti con le convenzioni urbanistiche mantengono la loro piena validità a tempo indeterminato
[6];
   - con riguardo al "vincolo di cessione" delle aree del privato strumentale all’ottemperanza di tali obblighi, non possono “configurarsi né decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di area che il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in stretta correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare le edificazioni previste dal piano di lottizzazione
[7].
---------------
[1] TAR Campania, Napoli, sez. II, sent. 23.03.2007, n. 2773.
[2] Ex multis, TAR Lombardia, Brescia, sent. 03.02.2003, n. 65; Milano, sez. III, sent. 06.11.2013, n. 2428; TAR Abruzzo, L'Aquila, sent. 12.09.2013, n. 747.
[3] Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 26.02.2019, n. 1341, secondo cui “gli obblighi di cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 4278 del 26.08.2014, nonché n. 5413 del 30.11.2015; da ultimo, sez. IV, n. 3672 del 14.06.2018”; cfr. anche Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 29.03.2019, n. 2084.
[4] Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 26.08.2014, n. 4278.
[5] Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 26.08.2014, n. 4278; TAR Campania, Napoli, sez. II, sent. 05.12.2019, n. 5705.
[6] TAR Campania, Napoli, sez. II, sent. 05.12.2019, n. 5705.
[7] TAR Sardegna, sez. II, sent. 10.01.2018, n. 8.

URBANISTICA: Deve essere respinta la domanda di accertamento dell’avvenuta estinzione degli impegni posti a carico dei ricorrenti dalla convenzione di lottizzazione per prescrizione decennale.
Ritiene il Collegio che, in adesione ad un opposto orientamento giurispudenziale (laddove “gli obblighi di cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili), dalla natura “sostitutiva” del potere pianificatorio che si riconosce ex art. 11 della L. 241/1990 alla convenzione di lottizzazione derivi l’incompatibilità dell’istituto della prescrizione alla “pretesa” dell’amministrazione all’esecuzione di tali impegni.
Pretesa, irriducibile ad una posizione di diritto soggettivo “disponibile” di cui sarebbe titolare il Comune, essendo volta, sia pure mediante l’adozione di una modalità di esercizio concordata del “potere di pianificazione” ad essa attribuito dalla legge, a perseguire l'interesse pubblico al razionale assetto urbanistico del territorio; come tale di carattere non rinunciabile né estinguibile per effetto del mero decorso del tempo (o, secondo una diversa ricostruzione della prescrizione -dalla quale deriverebbe solo un effetto preclusivo all’esercizio del diritto– suscettibile di essere “indebolito” dall’eccezione sollevata dalla controparte).
E’ stato sul punto osservato che gli artt. 16, 17 e 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 -i quali prevedono il termine di efficacia decennale dei piani particolareggiati, con disciplina analogicamente applicabile anche alle convenzioni di lottizzazione– debbano interpretarsi nel senso che “le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione.
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (…) Pertanto, tenendo conto dell’indiscussa ultrattività (nei termini di cui prima si è detto) del piano di lottizzazione in oggetto, resta tuttora in vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola e dunque, nella specie, l’obbligazione della società appellata di dar corso alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò anche perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione".
L'ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si giustifica "alla luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell'interesse pubblico", essendo inconcepibile "ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l'urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione".
Ne consegue che gli obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria assunti con le convenzioni urbanistiche mantengono la loro piena validità a tempo indeterminato, e che con riguardo al "vincolo di cessione" delle aree del privato strumentale all’ottemperanza di tali obblighi, non possono “configurarsi né decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di area che il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in stretta correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare le edificazioni previste dal piano di lottizzazione”.
---------------

7. La questione della applicabilità della prescrizione ex art. 2934 c.c. alla situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il Comune nei confronti del privato in forza di una convenzione di lottizzazione o comunque in base ad una convenzione urbanistica ex art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 non ha trovato soluzione unanime in giurisprudenza, riflettendosi in essa le più ampie problematiche concernenti la natura giuridica dell’atto bilaterale cui è condizionata l’autorizzazione ad edificare dell’ente locale e la perimetrazione della clausola di compatibilità dei principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti prevista dall’art. 11 della Legge 241/1990, cui si riconducono le convenzioni di lottizzazione (quali accordi sostitutivi del piano particolareggiato ex art. 13 e ss. della L. 1150/1942 che è invece connotato dalla iniziativa esclusiva dell’amministrazione e dal “modulo autoritativo”).
8. Secondo un orientamento che fa leva sulla natura negoziale della convenzione, la pretesa dell’amministrazione di ottenere la cessione gratuita delle aree e la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, oggetto della correlativa obbligazione assunta dal privato, sarebbe assoggettata al termine di prescrizione ordinario decennale, con ciò implicitamente riconoscendo alla posizione giuridica soggettiva del Comune natura di “diritto soggettivo disponibile” (stante la conseguente operatività della deroga di carattere generale di cui all’art. 2934, comma 2 c.c.).
Nell’ambito di tale opzione interpretativa, secondo una prima declinazione della tesi, il dies a quo della decorrenza della prescrizione viene individuato nella stipula della convenzione medesima (TAR Napoli, Sez. II, 23.03.2007 n. 2773); secondo un’altra, nella scadenza del termine di efficacia decennale della convenzione medesima, in forza dell’applicazione dell’art. 2935 c.c., non potendosi qualificare, prima di tale scadenza, come esigibile l’obbligazione convenzionalmente assunta dal privato (ex multis TAR Brescia, 03.02.2003, n. 65; TAR Milano, sez. III, 06.11.2013, n. 2428; TAR L'Aquila, 12.09.2013, n. 747).
9. Ritiene il Collegio che, in adesione ad un opposto orientamento (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2019, n. 1341: “gli obblighi di cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 4278 del 26.08.2014, nonché n. 5413 del 30.11.2015; da ultimo, sez. IV, n. 3672 del 14.06.2018”; cfr. anche Cons. Stato, Sez. IV, 29.03.2019, n. 2084), dalla natura “sostitutiva” del potere pianificatorio che si riconosce ex art. 11 della L. 241/1990 alla convenzione di lottizzazione derivi invece l’incompatibilità dell’istituto della prescrizione alla “pretesa” dell’amministrazione all’esecuzione di tali impegni; pretesa, irriducibile ad una posizione di diritto soggettivo “disponibile” di cui sarebbe titolare il Comune, essendo volta, sia pure mediante l’adozione di una modalità di esercizio concordata del “potere di pianificazione” ad essa attribuito dalla legge, a perseguire l'interesse pubblico al razionale assetto urbanistico del territorio; come tale di carattere non rinunciabile né estinguibile per effetto del mero decorso del tempo (o, secondo una diversa ricostruzione della prescrizione -dalla quale deriverebbe solo un effetto preclusivo all’esercizio del diritto– suscettibile di essere “indebolito” dall’eccezione sollevata dalla controparte).
10. E’ stato sul punto osservato che gli artt. 16, 17 e 28 della legge 17.08.1942 n. 1150 -i quali prevedono il termine di efficacia decennale dei piani particolareggiati, con disciplina analogicamente applicabile anche alle convenzioni di lottizzazione– debbano interpretarsi nel senso che “le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.02.2007, n. 851).
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 20.07.2012, n. 28) (…) Pertanto, tenendo conto dell’indiscussa ultrattività (nei termini di cui prima si è detto) del piano di lottizzazione in oggetto, resta tuttora in vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola e dunque, nella specie, l’obbligazione della società appellata di dar corso alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò anche perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione
" (sentenza n. 4278/2014, cit. che riforma il precedente di questa Sezione n. 2773/2007 sopra citato al punto 8).
11. L'ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si giustifica "alla luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell'interesse pubblico", essendo inconcepibile "ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l'urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione" (Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4278).
Ne consegue che gli obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria assunti con le convenzioni urbanistiche mantengono la loro piena validità a tempo indeterminato, e che con riguardo al "vincolo di cessione" delle aree del privato strumentale all’ottemperanza di tali obblighi, non possono “configurarsi né decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di area che il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in stretta correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare le edificazioni previste dal piano di lottizzazione” (TAR Cagliari, Sez. II, 10.01.2018, n. 8).
12. Alla luce delle considerazioni riportate supra ai punti 9 e 10, la domanda di accertamento dell’avvenuta estinzione degli impegni posti a carico dei ricorrenti dalla convenzione di lottizzazione stipulata con il Comune nel 1977 per prescrizione decennale deve pertanto essere respinta (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.12.2019 n. 5705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il piano di lottizzazione ha natura di piano particolareggiato di attuazione, sicché, ai sensi dell’art. 17, comma 1, della legge 17.08.1942 n. 1150, decorso il termine stabilito per l’esecuzione esso «diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso».
Da tale disposizione «possono trarsi i seguenti corollari:
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell'art. 869 del codice civile);
   b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
   c) col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l'art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli, le previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale stabilità, in quanto specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l'attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina l'assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito e, quindi, contiene prescrizioni urbanistiche che rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza».
A tali argomentazioni deve solo aggiungersi che con la scadenza del termine l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Tuttavia, fino a quando tale potere non viene esercitato, l’assetto urbanistico dell’area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione.
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono, in sostanza, nell’ambito della sola disciplina urbanistica non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi.
Resta quindi in vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola, in particolare per quanto concerne gli obblighi correlati alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò «anche perché, alla luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell'interesse pubblico, sarebbe inconcepibile ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione».
---------------
Per quanto concerne l’istituto della monetizzazione, qui in rilievo, va poi ricordata la consolidata giurisprudenza amministrativa, secondo cui la scelta fra la cessione delle aree necessarie per la realizzazione delle opere di urbanizzazione ovvero la loro monetizzazione, rientra nella sfera di discrezionalità tecnico-amministrativa dell’ente locale, come tale non censurabile in sede giurisdizionale se non per manifesta irragionevolezza.
Nel caso dell’urbanistica convenzionata, la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione costituisce la regola, in quanto consente di reperire le aree a standard in loco e, quindi, di assicurare uno sviluppo urbanistico equilibrato.
La c.d. monetizzazione di quota parte delle suddette aree costituisce, per contro, un’eccezione e, comunque, non configura una vicenda di carattere meramente patrimoniale «poiché non può ammettersi separazione tra i commoda, sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune, dagli incommoda, cioè il peggioramento della qualità di vita dei residenti della zona».
Spetta dunque al Comune di valutare la commutazione sulla base di un apprezzamento complesso, che investe sia l’idoneità o meno delle aree offerte in funzione dell'uso pubblico cui verrebbero destinate, sia la possibilità di acquisire aree alternative, con monetizzazione a carico del lottizzante, al fine di mantenere invariato il livello di dotazione di standard fissato dal piano regolatore.
---------------

10. Ciò posto, con un primo ordine di rilievi, l’appellante imputa al TAR di non essersi pronunciato sulla censura che contestava l’avvenuta scadenza della convenzione di lottizzazione, stante il vincolo di inedificabilità assoluta imposto dal PAI.
In ogni caso, il primo giudice non avrebbe correttamente interpretato la nota del 21.12.2006 con cui la società non solo aveva chiesto di conoscere i criteri che l’amministrazione avrebbe adottato ove si fosse avvalso della facoltà di monetizzazione delle aree di urbanizzazione secondaria, ma aveva anche sollecitato il rinnovo della convenzione del 2001, stante il vincolo imposto dal PAI fino al 12.04.2006.
Il Comune medesimo avrebbe comunque omesso di valutare che l’impossibilità di realizzare qualsiasi intervento era dovuto a “factum principis”, e che, per tale ragione, i termini della convenzione stipulata dovevano intendersi come automaticamente prorogati.
10.1. Premesso che, come si è appena visto, il Comune ha fatto applicazione di una delle previsioni recate dalla convenzione stipulata nel 2001 (l’art. 5, comma 3), ritenendola, in parte qua, ancora efficace, è agevole rilevare che -al contrario di quanto assume la società appellante- il TAR ha operato una analitica ricostruzione dell’istituto della lottizzazione convenzionata, spiegando altresì le ragioni per cui non poteva essere accolta la tesi, riproposta anche in appello, di una proroga implicita.
Sotto il primo profilo, ha ricordato che il piano di lottizzazione ha natura di piano particolareggiato di attuazione, sicché, ai sensi dell’art. 17, comma 1, della legge 17.08.1942 n. 1150, decorso il termine stabilito per l’esecuzione esso «diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso».
Da tale disposizione, prosegue il TAR, «possono trarsi i seguenti corollari:
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell'art. 869 del codice civile);
   b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
   c) col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l'art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli, le previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale stabilità, in quanto specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l'attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina l'assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito e, quindi, contiene prescrizioni urbanistiche che rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV 04.12.2007 n. 6170) […]
».
A tali argomentazioni deve solo aggiungersi che con la scadenza del termine l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Tuttavia, fino a quando tale potere non viene esercitato, l’assetto urbanistico dell’area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.02.2007, n. 851).
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono, in sostanza, nell’ambito della sola disciplina urbanistica non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. Cons. Stato, Adunanza plenaria, 20.07.2012, n. 28).
Resta quindi in vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola, in particolare per quanto concerne gli obblighi correlati alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò «anche perché, alla luce dell'esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell'interesse pubblico, sarebbe inconcepibile ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all'obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione» (Consiglio di Stato sez. IV, 26/08/2014, (ud. 15/07/2014, dep. 26/08/2014), n. 4278).
Per quanto concerne l’istituto della monetizzazione, qui in rilievo, va poi ricordata la consolidata giurisprudenza amministrativa, secondo cui la scelta fra la cessione delle aree necessarie per la realizzazione delle opere di urbanizzazione ovvero la loro monetizzazione, rientra nella sfera di discrezionalità tecnico-amministrativa dell’ente locale, come tale non censurabile in sede giurisdizionale se non per manifesta irragionevolezza (Cons. St., Sez. IV, sentenza n. 824 del 07.02.2011).
Nel caso dell’urbanistica convenzionata, la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione costituisce la regola, in quanto consente di reperire le aree a standard in loco e, quindi, di assicurare uno sviluppo urbanistico equilibrato.
La c.d. monetizzazione di quota parte delle suddette aree costituisce, per contro, un’eccezione e, comunque, non configura una vicenda di carattere meramente patrimoniale «poiché non può ammettersi separazione tra i commoda, sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune, dagli incommoda, cioè il peggioramento della qualità di vita dei residenti della zona» (Cons. St., Sez. IV, sentenza n. 1820 del 14.04.2014).
Spetta dunque al Comune di valutare la commutazione sulla base di un apprezzamento complesso, che investe sia l’idoneità o meno delle aree offerte in funzione dell'uso pubblico cui verrebbero destinate, sia la possibilità di acquisire aree alternative, con monetizzazione a carico del lottizzante, al fine di mantenere invariato il livello di dotazione di standard fissato dal piano regolatore (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.03.2019 n. 2084 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAGli obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria assunti con le convenzioni urbanistiche mantengono la loro piena validità a tempo indeterminato.
---------------
Le convenzioni urbanistiche sono accordi ad oggetto pubblico con i quali l’amministrazione realizza esclusivamente finalità istituzionali.
Poiché i diritti e gli obblighi ivi previsti sono strumentali a dette finalità, la convenzione urbanistica non ha una «specifica autonomia e natura di fonte negoziale del regolamento di contrapposti interessi delle parti stipulanti» bensì si configura come «accordo endoprocedimentale dal contenuto vincolante quale mezzo rivolto al fine di conseguire l’autorizzazione edilizia».
In tale ottica, non è quindi nemmeno ravvisabile un rapporto strettamente sinallagmatico tra i soggetti stipulanti. Invero, "anche le previsioni “aggiuntive” sono sorrette dalla medesima causa meritevole di tutela secondo la previsione della legge urbanistica fondamentale".

---------------
Nel caso di specie,
alla qualificazione della prescrizione recata dall’art. 15 della convenzione urbanistica quale obbligo di cessione gratuita di un’opera necessaria all’infrastrutturazione del territorio, consegue il rigetto dell’eccezione di prescrizione opposta dalla società poiché gli obblighi di cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili.
Questo Consiglio ha infatti già rilevato, quanto al significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della legge urbanistica -secondo cui l’efficacia dei piani particolareggiati ha un termine entro il quale le opere debbano essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni- che “l'imposizione del termine suddetto va intesa nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell’area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione”.
In tal senso, la Sezione si è conformata alla statuizioni dell’Adunanza plenaria, secondo cui le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano attuativo “si esauriscono […] nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi che solo mediatamente trovano fonte nel piano urbanistico attuativo (nel caso di specie, piano di zona), radicandosi piuttosto nelle convenzioni urbanistiche, disciplinate dall'art. 11 della legge n. 167 del 1962, come modificato dalla legge n. 865 del 1971, ovvero negli atti d'obbligo accessivi al provvedimento di assegnazione”.
L’ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si giustifica “alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell’interesse pubblico”, essendo inconcepibile “ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione”.
Anche nel caso di specie, la società appellante non può giovarsi dell’eccezione di prescrizione, essendo il contestato obbligo di cessione parte inscindibile ed integrante della lottizzazione che le ha consentito di edificare il compendio immobiliare in esame.

---------------

La controversia riguarda l’esecuzione di una convenzione urbanistica, così come affermato dal Tribunale di Orbetello con statuizione coperta dal giudicato formatosi sulla pronuncia che ha declinato la giurisdizione ordinaria e della quale costituisce il necessario presupposto.
Gli obblighi di urbanizzazione primaria e secondaria assunti con le convenzioni urbanistiche mantengono la loro piena validità a tempo indeterminato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4278).
Nella fattispecie è avvenuto che, in attuazione della prescrizione contenuta nell’art. 15 della convenzione del 1975, la società appellante abbia ritualmente consegnato al Comune detta unità abitativa, al fine di consentirne il concordato uso pubblico.
Né tale uso è stato mai contestato fino a che, nell’anno 2000, la società ne ha chiesto la restituzione, rivendicando la proprietà dell’immobile sulla base della supposta intervenuta prescrizione dell’obbligo a cederlo gratuitamente.
Il Comune ha richiamato, al riguardo, la nota dell’amministratore unico della società, risalente al 03.09.1992, con la quale questi si era dichiarato disponibile a formalizzare le cessioni indicate nella convenzione del 1975, non lasciando quindi adito a dubbi circa il riconoscimento, quantomeno a tutto il 1992, degli obblighi assunti nei confronti del Comune.
A tale inequivoco riconoscimento, ha poi fatto seguito l’immediata esecuzione delle opere di urbanizzazione, nonché l’immissione nel pieno godimento e possesso dei beni immobili in questione.
Si tratta di atti e comportamenti che, secondo il Comune, possono essere interpretati solo come tacita rinuncia della società ad ogni eccezione di prescrizione e comunque quale forma di pieno riconoscimento del diritto dell’Ente ad ottenere la formalizzazione degli atti traslativi della proprietà.
7. In replica, la società appellante ha fatto rilevare che la procura speciale è stata rilasciata anteriormente alla notifica dell’atto di appello dal legale rappresentante della società ed è stata depositata dal difensore telematicamente in data 17.04.2018.
Ha poi ribadito che, nel primo grado di giudizio, il Comune ha sostenuto la tesi dell’interruzione della prescrizione dei diritti statuiti nella convenzione, da rinvenirsi nella corrispondenza intercorsa con l’odierna appellante, ma non già quella di rinuncia alla prescrizione medesima.
Infine, ha sostenuto che la giurisprudenza richiamata ex adverso sarebbe inconferente poiché nel caso di specie non si controverte di un obbligo di cessione avente natura pubblicistica.
8. L’appello, infine, è stato assunto in decisione alla pubblica udienza del 10.01.2018.
9. E’ possibile prescindere dall’esame delle eccezioni preliminari in quanto il ricorso è infondato nel merito.
10. Ai fini di una migliore comprensione dei fatti di causa, giova riportare i contenuti essenziali dell’atto stipulato tra il Comune e la società appellante il 01.10.1975, nella parte di interesse, quale viene riportato nella sentenza impugnata (non contestata in parte qua).
Esso accede al rilascio dei titoli edilizi per la realizzazione, su aree di proprietà della società, del complesso turistico-alberghiero “Il Fa.” di Isola del Giglio.
L’art. 2 della scrittura prevede l’obbligo della società proprietaria di cedere al Comune a prezzo simbolico le aree destinate a essere occupate da opere di urbanizzazione (strade, parcheggi, verde pubblico) per circa 5.500 mq complessivi.
Segue l’identificazione catastale dei beni oggetto di cessione.
L’art. 15 prevede a sua volta che la società “una volta ultimati i lavori del complesso turistico-alberghiero, cederà gratuitamente al Comune che lo [sic] utilizzerà per esigenze di natura sanitaria (infermeria, Pronto soccorso ed ambulatorio) una unità immobiliare di circa 50 mq. utili di superficie, rifinita e strutturata secondo le prescrizioni del Comune stesso. Tale unità immobiliare è rappresentata nella planimetria allegata sotto la lettera B con colorazione in giallo e potrà essere eventualmente sostituita con un’altra unità di intesa con l’Amministrazione”.
Non è in contestazione il fatto che, sin dal 1976, l’appartamento, contraddistinto dalla sigla BX09, sia stato consegnato al Comune che lo ha adibito all’uso previsto.
11. La tesi principale svolta dall’odierna appellante è quella secondo cui, all’interno di un accordo che, per ogni altro verso costituisce una convenzione urbanistica, sarebbe stata inserita una previsione del tutto eccentrica con la quale la società si sarebbe obbligata a “donare” al Comune uno degli appartamenti del complesso turistico–alberghiero che era stata contestualmente autorizzata a costruire.
La causa di tale disposizione sarebbe quindi avulsa dal resto della convenzione e alla stessa non potrebbe essere data tutela giurisdizionale trattandosi di un negozio (un “preliminare di donazione”), affetto da nullità sia in ragione dell’inconfigurabilità, nel nostro ordinamento, di una siffatta pattuizione sia per la mancanza dei requisiti di forma prescritti dall’art. 782 c.c..
11.1. Il Collegio osserva, in primo luogo, che l’appellante non ha svolto nessuna critica in ordine alle argomentazioni del TAR, nella parte in cui il primo giudice ha condivisibilmente osservato che “le cessioni gratuite (a prezzo simbolico) previste dall’art. 2 della scrittura del 01.10.1975 sono, evidentemente, quelle funzionali a soddisfare il fabbisogno dell’urbanizzazione primaria, essendo destinate a strade, parcheggi, verde pubblico.
La cessione dell’unità immobiliare prevista dal successivo art. 15 risponde, invece, alle esigenze dell’urbanizzazione secondaria, come si ricava dalla pattuita destinazione dell’immobile a infermeria e ambulatorio (le attrezzature sanitarie appartengono alle opere di urbanizzazione secondaria a norma dell’art. 4, co. 2, della legge 29.09.1964, n. 847).
L’assenza di corrispettivo, del resto, non è sufficiente per potersi parlare di donazione, ancorché obbligatoria (ovvero, di preliminare di donazione), atteso che la donazione, com’è noto, si caratterizza non per la gratuità, ma per lo spirito di liberalità che deve muovere il donante; mentre, nella specie, le cessioni immobiliari cui la società resistente si è obbligata, e gli oneri da questa assunti verso il Comune, corrispondono all’osservanza di obblighi legali condizionanti il rilascio del titolo abilitativo dell’intervento edilizio. Né la resistente ha in alcun modo allegato, e tanto meno dimostrato, che le cessioni previste dalla convenzione di lottizzazione eccedano gli obblighi sanciti dal citato art. 28 della legge n. 1150/1942 (in altri termini, sarebbe stato onere della resistente allegare e dimostrare di aver pattuito la cessione dell’appartamento per puro animus donandi, e non, come invece risulta chiaramente dal tenore della convenzione, a titolo compensativo e a scomputo di oneri nell’ambito della definizione del corretto equilibrio di interessi pubblici e privati sotteso per legge alla realizzazione dell’intervento lottizzatorio)
”.
11.2. A tali, ineccepibili, rilievi è possibile aggiungere alcune considerazioni di carattere sistematico relative, da un lato, agli ordinari criteri di ermeneutica contrattuale, dall’altro, alla funzione delle convenzioni di urbanizzazione.
Sotto il primo profilo, l’interpretazione dell’atto, cui si è attenuto il Comune, risulta conforme ai canoni legali di interpretazione della volontà negoziale, in particolare al principio secondo cui le clausole contrattuali vanno interpretate nel senso in cui possano avere qualche effetto (art. 1367 c.c.) e comunque in quello più conveniente alla natura e all'oggetto del contratto (art. 1369 c.c).
Al contrario, l’interpretazione offerta dall’appellante si basa sul carattere eccentrico della clausola rispetto al complessivo impianto della convenzione oltre ad implicarne l’ontologica inefficacia, per nullità.
Allo stesso modo, l’ascrivibilità dell’obbligo di cessione in esame a quelli che normalmente accedono alle convenzioni urbanistiche risulta coerente con il canone ermeneutico di interpretazione secondo cui le clausole di un contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto (art. 1363 c.c.).
Al contrario, la tesi svolta dall’odierna appellante presuppone un contenuto della clausola del tutto avulso dalla causa che sorregge il complesso dell’atto stipulato nel 1975.
Sotto il secondo profilo, occorre ricordare che le convenzioni urbanistiche sono accordi ad oggetto pubblico con i quali l’amministrazione realizza esclusivamente finalità istituzionali.
Poiché i diritti e gli obblighi ivi previsti sono strumentali a dette finalità, la convenzione urbanistica non ha una «specifica autonomia e natura di fonte negoziale del regolamento di contrapposti interessi delle parti stipulanti» bensì si configura come «accordo endoprocedimentale dal contenuto vincolante quale mezzo rivolto al fine di conseguire l’autorizzazione edilizia» (Cass. civ., Sez. I, 17.04.2013, n. 9314; cfr., anche, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 01.08.2018, n. 4743).
In tale ottica, non è quindi nemmeno ravvisabile un rapporto strettamente sinallagmatico tra i soggetti stipulanti (cfr. Tar Lombardia, Brescia, 25.07.2005, n. 784 e, in precedenza, Cons. Stato, Sez. V, 10.01.2003, n. 33, secondo cui anche le previsioni “aggiuntive” sono sorrette dalla medesima causa meritevole di tutela secondo la previsione della legge urbanistica fondamentale).
In definitiva, nel caso di specie, non vi è alcun elemento idoneo a supportare la tesi che la clausola in contestazione non integri, al pari di quanto previsto dall’art. 2 in ordine alle aree destinate all’urbanizzazione primaria, un atto d’obbligo, sia pure relativo ad un’opera di urbanizzazione secondaria, che la società ha assunto al fine di conseguire il permesso di costruire e non già per erogare una liberalità.
11.3. Alla qualificazione della prescrizione recata dall’art. 15 quale obbligo di cessione gratuita di un’opera necessaria all’infrastrutturazione del territorio, consegue il rigetto dell’eccezione di prescrizione opposta dalla società poiché gli obblighi di cessione recati da una convenzione di lottizzazione ovvero dagli atti a questa assimilabili sono imprescrittibili (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 4278 del 26.08.2014, nonché n. 5413 del 30.11.2015; da ultimo, sez. IV, n. 3672 del 14.06.2018).
Questo Consiglio ha infatti già rilevato, quanto al significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della legge urbanistica -secondo cui l’efficacia dei piani particolareggiati ha un termine entro il quale le opere debbano essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni- che “l'imposizione del termine suddetto va intesa nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell’area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.02.2007, n. 851)” (sentenza n. 4278/2014, cit.).
In tal senso, la Sezione si è conformata alla statuizioni dell’Adunanza plenaria, secondo cui le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano attuativo “si esauriscono […] nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi che solo mediatamente trovano fonte nel piano urbanistico attuativo (nel caso di specie, piano di zona), radicandosi piuttosto nelle convenzioni urbanistiche, disciplinate dall'art. 11 della legge n. 167 del 1962, come modificato dalla legge n. 865 del 1971, ovvero negli atti d'obbligo accessivi al provvedimento di assegnazione” (Cons. Stato, Adunanza plenaria, 20.07.2012, n. 28).
L’ultrattività, in parte qua, del piano di lottizzazione, si giustifica “alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell’interesse pubblico”, essendo inconcepibile “ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione” (sentenza n. 4278/2014, cit.).
Anche nel caso di specie, la società appellante non può giovarsi dell’eccezione di prescrizione, essendo il contestato obbligo di cessione parte inscindibile ed integrante della lottizzazione che le ha consentito di edificare il compendio immobiliare in esame.
12. In definitiva, per quanto appena argomentato, l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.02.2019 n. 1341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di zona si esauriscono nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori.
Tale indirizzo è coerente con quello che distingue -all’interno delle previsioni urbanistiche e successivamente alla scadenza del piano di lottizzazione o in generale attuativo– fra i diversi tipi di prescrizioni, nel senso che <<…sopravvivono, esclusivamente, la destinazione di zona, la destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto specifico e puntuale>>.
---------------
L’obbligo, assunto dal signor Ro. di cessione gratuita delle aree, a semplice richiesta dell’autorità comunale, integra, giuridicamente, un’obbligazione propter rem, caratterizzata da realità e ambulatorialità, idonea ad imprimere al bene una qualità giuridica stabile.
Ciò a prescindere dal termine di durata del Piano attuativo cui la convenzione accede e dall’eventuale trasferimento del diritto sul bene a titolo particolare o universale, inter vivos o mortis causa.

---------------

15.2. Pure il secondo ordine di censure (il quinto motivo dell’appello del Consorzio e il quarto e il settimo dell’appello del Condominio) non incontra migliore favore.
Il Collegio condivide l’impostazione esegetica che il primo giudice ha reso sul fondamentale arresto cui è pervenuto il Consiglio di Stato (Ad. Plen. 20.07.2012, n. 28), a mente del quale “Le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di zona si esauriscono pertanto nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori …”.
Tale indirizzo è coerente con quello che distingue -all’interno delle previsioni urbanistiche e successivamente alla scadenza del piano di lottizzazione o in generale attuativo– fra i diversi tipi di prescrizioni, nel senso che <<…sopravvivono, esclusivamente, la destinazione di zona, la destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto specifico e puntuale>> (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, n. 3002 del 2018; n. 4036 del 2017; sez. V, n. 6283 del 2013; sez. IV, n. 5199 del 2006).
Il caso all’esame, malgrado la diversità dal citato precedente (quello scrutinato dalla Plenaria atteneva ad un intervento di edilizia economica e popolare), si iscrive appieno nel richiamato principio di diritto, giacché l’obbligo, assunto dal signor Ro. di cessione gratuita delle aree, a semplice richiesta dell’autorità comunale, integra, giuridicamente, un’obbligazione propter rem, caratterizzata da realità e ambulatorialità, idonea ad imprimere al bene una qualità giuridica stabile.
Ciò a prescindere dal termine di durata del Piano attuativo cui la convenzione accede e dall’eventuale trasferimento del diritto sul bene a titolo particolare o universale, inter vivos o mortis causa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.06.2018 n. 3672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICANel caso di specie, trattasi di area oggetto di “vincolo di cessione”, relativamente al quale non può configurarsi né decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di area che il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in stretta correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare le edificazioni previste dal piano di lottizzazione.
Trattasi quindi di un vincolo ben diverso dal mero vincolo ablativo (ricadente su aree preordinate all’espropriazione) e ancor più incisivo di un vincolo conformativo, trattandosi -si ribadisce- di uno specifico vincolo di cessione di aree che il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in stretta correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare le edificazioni previste dal piano di lottizzazione.
Poiché è pacifico che la ricorrente (o relativo dante causa), così come gli altri soggetti attuatori del piano di lottizzazione in questione, hanno realizzato le edificazioni che avevano titolo a realizzare in forza delle previsioni del piano di lottizzazione e della relativa convenzione, deve ritenersi altrettanto pacifico che i medesimi soggetti siano tenuti ad adempiere ai correlati obblighi di cessione di aree ugualmente previsti dal piano di lottizzazione e relativa convenzione, senza che possa configurarsi al riguardo alcuna decadenza, prescrizione o usucapione da parte del privato.
Devono ribadirsi, anche avuto riguardo al caso in esame, i principi affermati nell’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato e nella sentenza di questo Tribunale secondo cui deve ritenersi che “la cessione dell’area de qua … omissis… in forza della convenzione inter partes stipulata il 31.07.1993 –la quale ne prevede la destinazione alla viabilità e ai servizi pubblici secondo le indicazioni del piano particolareggiato ...– si concreti, sostanzialmente, in una condizione della concessione edilizia richiesta (ex art. 1 l. n. 10 del 1977) con istanza del 10.02.1993 e rilasciata il 02.08.1993, ormai inoppugnabile e pacificamente attuata”, per cui deve conseguentemente ritenersi che, “a fronte dell’intrinseca connessione della cessione dell’area con la menzionata concessione edilizia ai sensi dell’articolo 4 delle n.t.a. (espressamente richiamato dalla convenzione), la correlativa obbligazione, di natura pubblicistica, sia insuscettibile di estinzione per prescrizione”.
Si richiamano altresì i principi secondo cui “La destinazione a verde pubblico prevista in un piano di lottizzazione, ossia all'interno di uno strumento consensuale e per definizione perequativo, equivale non all'imposizione di un vincolo espropriativo (come avviene, invece, per le aree che sono destinate a verde pubblico al di fuori di una convenzione urbanistica), ma ad un vincolo conformativo”.
---------------

Il ricorso è infondato.
Deve infatti evidenziarsi che, nel caso di specie, trattasi di area oggetto di “vincolo di cessione”, relativamente al quale non può configurarsi né decadenze, né prescrizione, né usucapione, trattandosi di area che il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in stretta correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare le edificazioni previste dal piano di lottizzazione.
Trattasi quindi di un vincolo ben diverso dal mero vincolo ablativo (ricadente su aree preordinate all’espropriazione) e ancor più incisivo di un vincolo conformativo, trattandosi -si ribadisce- di uno specifico vincolo di cessione di aree che il privato, in forza della convenzione di lottizzazione, si è obbligato a cedere all'interno del complesso delle previsioni del piano di lottizzazione quale strumento consensuale e per definizione perequativo, in stretta correlazione alla legittima possibilità per i privati di realizzare le edificazioni previste dal piano di lottizzazione.
Poiché è pacifico che la ricorrente (o relativo dante causa), così come gli altri soggetti attuatori del piano di lottizzazione in questione, hanno realizzato le edificazioni che avevano titolo a realizzare in forza delle previsioni del piano di lottizzazione e della relativa convenzione, deve ritenersi altrettanto pacifico che i medesimi soggetti siano tenuti ad adempiere ai correlati obblighi di cessione di aree ugualmente previsti dal piano di lottizzazione e relativa convenzione, senza che possa configurarsi al riguardo alcuna decadenza, prescrizione o usucapione da parte del privato.
Devono ribadirsi, anche avuto riguardo al caso in esame, i principi affermati nell’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato, sesta sezione, n. 5361 del 02.12.2015 e nella sentenza di questo Tribunale, seconda sezione, n 919 del 02.12.2016, secondo cui deve ritenersi che “la cessione dell’area de qua … omissis… in forza della convenzione inter partes stipulata il 31.07.1993 –la quale ne prevede la destinazione alla viabilità e ai servizi pubblici secondo le indicazioni del piano particolareggiato ‘Sa Molina-Terridi’– si concreti, sostanzialmente, in una condizione della concessione edilizia richiesta (ex art. 1 l. n. 10 del 1977) con istanza del 10.02.1993 e rilasciata il 02.08.1993, ormai inoppugnabile e pacificamente attuata”, per cui deve conseguentemente ritenersi che, “a fronte dell’intrinseca connessione della cessione dell’area con la menzionata concessione edilizia ai sensi dell’articolo 4 delle n.t.a. (espressamente richiamato dalla convenzione), la correlativa obbligazione, di natura pubblicistica, sia insuscettibile di estinzione per prescrizione”.
Si richiamano altresì i principi secondo cui “La destinazione a verde pubblico prevista in un piano di lottizzazione, ossia all'interno di uno strumento consensuale e per definizione perequativo, equivale non all'imposizione di un vincolo espropriativo (come avviene, invece, per le aree che sono destinate a verde pubblico al di fuori di una convenzione urbanistica), ma ad un vincolo conformativo” (TAR Lombardia–Brescia, sez. I, 26.04.2017 n. 551).
Risultano pertanto infondate tutte le censure avanzate col ricorso in esame.
In primo luogo, non può essere condiviso l’assunto della ricorrente secondo cui il vincolo di cessione non sarebbe opponibile alla medesima perché contenuto in una convenzione di lottizzazione che non è mai stata trascritta, non potendosi ritenere che la trascrizione costituisca condizione di efficacia, validità e opponibilità del vincolo in questione alla parte privata, dovendosi invece ritenere sufficiente, a tal fine, la circostanza che la ricorrente fosse a conoscenza dell’esistenza del vincolo in questione al momento dell’acquisto dell’area in data 28.09.2012 (per come espressamente dichiarato dalla ricorrente medesima nell’atto notarile di acquisto).
Infondata risulto altresì l’assunto della ricorrente secondo cui la trascrizione sarebbe condizione di efficacia della convenzione medesima, dovendosi ribadire, anche nel caso di specie, i principi in proposito affermati da questo Tribunale, sezione seconda, con la sentenza n. 1807/2007, secondo cui la trascrizione non è condizione di efficacia della convenzione.
Non può essere altresì condiviso l’assunto della ricorrente secondo cui, nel caso di specie, opererebbe il termine decennale di decadenza delle previsioni del piano particolareggiato per le parti non attuate e opererebbe altresì il termine prescrizionale ordinario di 10 anni, nonché l’ulteriore assunto secondo cui, in ogni caso, sarebbe comunque intervenuta la decadenza del vincolo di destinazione a verde pubblico attrezzato, impresso dal piano particolareggiato al fondo in questione.
A tale riguardo non può che ribadirsi quanto già sopra evidenziato secondo cui trattasi, nel caso di specie, non di area soggetta a vincolo di natura espropriativa, bensì di area soggetta a vincolo di cessione e quindi di previsioni che rilevano a tempo indeterminato così come i vincoli conformativi, senza che possa configurarsi al riguardo alcuna decadenza, prescrizione o usucapione da parte del privato, con l’ulteriore conseguenza (relativamente all’ultima censura avanzata dalla ricorrente) che nessuna rilevanza giuridica può essere riconosciuta alla circostanza invocata dalla ricorrente del disinteresse del Comune relativamente all’area in questione per un trentennio.
Per le suesposte considerazioni, disattese le contrarie argomentazioni della parte ricorrente, stante l'infondatezza delle censure avanzate, il ricorso deve essere respinto (TAR Cagliari, Sez. II, sentenza 10.01.2018 n. 8 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sulla prescrizione, o meno, del diritto in capo al comune alla cessione -da parte del lottizzante- delle aree destinate alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
La questione circa la prescrittibilità del diritto alla cessione delle aree per opere di urbanizzazione primaria e secondaria, nell’ambito di un progetto di lottizzazione, è in larga misura nuova.
L'art. 31, quinto comma, l. n. 1150/1942 stabilisce che “la concessione della licenza è comunque e in ogni caso subordinata alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte dei Comuni dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio o all'impegno dei privati di procedere all'attuazione delle medesime contemporaneamente alle costruzioni oggetto della licenza”.
La distinzione è tutt’altro che irrilevante.
Secondo la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato, in materia di efficacia del piano di attuazione (o di strumenti urbanistici analoghi, quale un piano di lottizzazione o un piano di zona per l'edilizia economica e popolare) dopo la scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, da una corretta interpretazione dell’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 debbono ritenersi discendere i seguenti principi:
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell'art. 869 c.c.);
   b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
   c) col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si potrà procedere all'edificazione residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In particolare, quanto al significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della legge urbanistica -secondo cui l'efficacia dei piani particolareggiati, ai quali si assimilano analogicamente le lottizzazioni convenzionate, ha un termine entro il quale le opere debbano essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-, la giurisprudenza ha chiarito che l'imposizione del termine suddetto va inteso nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione.
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi.
Il Collegio non vede motivo per discostarsi dal quadro interpretativo così delineato.
Pertanto che, tenendo conto dell’indiscussa ultrattività (nei termini di cui prima si è detto) del piano di lottizzazione in oggetto, resta tuttora in vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola e dunque, nella specie, l’obbligazione della società appellata di dar corso alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò anche perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione.
---------------

1. Il Comune di Marigliano contesta la sentenza di primo grado nella parte in cui -decidendo sui primi due ricorsi ricordati in narrativa- ne ha dichiarato prescritto il diritto alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, annullando le note impugnate e respingendo la domanda di sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c.
Rimane invece fuori dal perimetro del presente giudizio la questione oggetto dell’ulteriore ricorso introduttivo, proposto dalla società ora appellata e concernente le annotazioni apposte sul certificato di destinazione urbanistica.
2. In ordine al thema decidendum, viene in gioco l’art. 28 della legge urbanistica del 1942, il quale -nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla legge 06.08.1967, n. 765- recita:
Prima dell'approvazione del piano regolatore generale o del programma di fabbricazione di cui all'art. 34 della presente legge è vietato procedere alla lottizzazione dei terreni a scopo edilizio.
Nei Comuni forniti di programma di fabbricazione ed in quelli dotati di piano regolatore generale fino a quando non sia stato approvato il piano particolareggiato di esecuzione, la lottizzazione di terreno a scopo edilizio può essere autorizzata dal Comune previo nulla osta del provveditore regionale alle opere pubbliche, sentita la Sezione urbanistica regionale, nonché la competente Soprintendenza.
L'autorizzazione di cui al comma precedente può essere rilasciata anche dai Comuni che hanno adottato il programma di fabbricazione o il piano regolatore generale, se entro dodici mesi dalla presentazione al Ministero dei lavori pubblici la competente autorità non ha adottato alcuna determinazione, sempre che si tratti di piani di lottizzazione conformi al piano regolatore generale ovvero al programma di fabbricazione adottato.
Con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con i Ministri per l'interno e per la pubblica istruzione può disporsi che il nulla-osta all'autorizzazione di cui ai precedenti commi venga rilasciato per determinati Comuni con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con il Ministro per la pubblica istruzione, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici.
L'autorizzazione comunale è subordinata alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda:
   1) la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della legge 29.09.1964, n. 847, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria nei limiti di cui al successivo n. 2;
   2) l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni;
   3) i termini non superiori ai dieci anni entro i quali deve essere ultimata la esecuzione delle opere di cui al precedente paragrafo;
   4) congrue garanzie finanziarie per l'adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione.
La convenzione deve essere approvata con deliberazione consiliare nei modi e forme di legge.
Il rilascio delle licenze edilizie nell'ambito dei singoli lotti è subordinato all'impegno della contemporanea esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria relative ai lotti stessi.
Sono fatte salve soltanto ai fini del quinto comma le autorizzazioni rilasciate sulla base di deliberazioni del Consiglio comunale, approvate nei modi e forme di legge, aventi data anteriore al 02.12.1966.
Il termine per l'esecuzione di opere di urbanizzazione poste a carico del proprietario è stabilito in dieci anni a decorrere dall'entrata in vigore della presente legge, salvo che non sia stato previsto un termine diverso.
Le autorizzazioni rilasciate dopo il 02.12.1966 e prima dell'entrata in vigore della presente legge e relative a lottizzazioni per le quali non siano stati stipulati atti di convenzione contenenti gli oneri e i vincoli precisati al quinto comma del presente articolo, restano sospese fino alla stipula di dette convenzioni.
Nei Comuni forniti di programma di fabbricazione e in quelli dotati di piano regolatore generale anche se non si è provveduto alla formazione del piano particolareggiato di esecuzione, il sindaco ha facoltà di invitare i proprietari delle aree fabbricabili esistenti nelle singole zone a presentare entro congruo termine un progetto di lottizzazione delle aree stesse. Se essi non aderiscono, provvede alla compilazione d'ufficio.
Il progetto di lottizzazione approvato con le modificazioni che l'autorità comunale abbia ritenuto di apportare è notificato per mezzo del messo comunale ai proprietari delle aree fabbricabili con invito a dichiarare, entro trenta giorni dalla notifica, se l'accettino. Ove manchi tale accettazione, il podestà ha facoltà di variare il progetto di lottizzazione in conformità alle richieste degli interessati o di procedere alla espropriazione delle aree
”.
3. Come ricordato in narrativa, in data 17.09.1984 il Comune e la società Am. s.p.a., dante causa dell’odierna resistente, hanno stipulato la convenzione prevista dal quinto comma dell’art. 28 citato.
Al n. 3, la convenzione prevede l’obbligo del privato di cedere gratuitamente al Comune, all’atto dell’ultimazione degli interventi edilizi, le aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria (lett. a) nonché, entro un mese dal rilascio della prima concessione edilizia, le aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria (lett. b).
Sennonché, nulla di tutto ciò è avvenuto sino alle richieste formulate dall’Amministrazione con le note del 2004, impugnate dalla controparte, la quale ha opposto l’argomento dell’intervenuta prescrizione del diritto, condiviso dal TAR.
4. La questione circa la prescrittibilità del diritto alla cessione delle aree per opere di urbanizzazione primaria e secondaria, nell’ambito di un progetto di lottizzazione, è in larga misura nuova.
Per la verità, il Tribunale territoriale fonda la sua decisione sull’autorità di alcuni precedenti, che non appaiono però risolutivi.
Infatti:
   - TAR Lombardia–Brescia, 03.02.2003, n. 65, risolve il quesito del termine a quo del decorso della prescrizione del diritto, ma -nessuna delle parti avendolo evidentemente sollevato- non esamina il punto (che qui invece interessa) del se tale diritto sia o no effettivamente prescrivibile;
   - a Cons. Stato, sez. IV, 03.11.1998, n. 1412, viene attribuita un’affermazione (circa l’esecuzione coattiva degli obblighi assunti con le convenzioni accessorie ai piani di lottizzazione) che sembra piuttosto il frutto di una massimazione non attenta; mentre poi la tesi di fondo della sentenza (quanto agli effetti della scadenza del termine decennale di efficacia della lottizzazione convenzionata) è ampiamente superata dalla giurisprudenza successiva, di cui si dirà nel prosieguo dell’esame.
5. Ancora in tema di precedenti giurisprudenziali, la Gi.Fi., nella sua ultima memoria, riporta sentenze della Corte di Cassazione, che dovrebbero offrire sostegno alle sue difese.
Neppure questi richiami, tuttavia, colgono nel segno.
Infatti:
   - Cass. civ., sez. I, 21.10.2011, n. 21885, afferma bensì la prescrittibilità del diritto, ma sul presupposto che, esclusa la riconducibilità della fattispecie concreta a uno degli schemi previsti dalla legge n. 1150 del 1942, quello dedotto in giudizio sarebbe un contratto di diritto privato, avente a oggetto l’acquisto delle aree controverse;
   - Cass. civ., sez. II, 06.02.2013, n. 2835, discute dell’assoggettabilità a prescrizione dell’impegno unilaterale di cessione di due fondi di proprietà, assunto da un privato a titolo gratuito, in funzione del rilascio di licenze edilizie. Benché sullo sfondo compaia (anche se in termini non particolarmente nitidi) l’esigenza di consentire l’esecuzione di un intervento lottizzatorio su altri fondi, appartenenti al medesimo proprietario, è palese come in fatto venga in questione la vicenda regolata non dall’art. 28, ma dall’art. 31, quinto comma, della legge urbanistica, come modificato dall’art. 10 della legge n. 765 del 1967 (che recherebbe –secondo la sentenza di secondo grado impugnata– “la disciplina … specificamente rilevante nella fattispecie”).
Il citato art. 31, quinto comma, stabilisce che “la concessione della licenza è comunque e in ogni caso subordinata alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte dei Comuni dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio o all'impegno dei privati di procedere all'attuazione delle medesime contemporaneamente alle costruzioni oggetto della licenza”.
6. La distinzione è tutt’altro che irrilevante.
Secondo la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato (cfr. sez. V, 30.04.2009, n. 2768; Id., sez. IV, 27.10.2009, n. 6572), in materia di efficacia del piano di attuazione (o di strumenti urbanistici analoghi, quale un piano di lottizzazione o un piano di zona per l'edilizia economica e popolare) dopo la scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, da una corretta interpretazione dell’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 debbono ritenersi discendere i seguenti principi:
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell'art. 869 c.c.);
   b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
   c) col decorso del termine, diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si potrà procedere all'edificazione residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In particolare, quanto al significato da attribuire agli artt. 16, 17 e 28 della legge urbanistica -secondo cui l'efficacia dei piani particolareggiati, ai quali si assimilano analogicamente le lottizzazioni convenzionate, ha un termine entro il quale le opere debbano essere eseguite, che non può essere superiore a dieci anni-, la giurisprudenza ha chiarito che l'imposizione del termine suddetto va inteso nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l'autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ne segue che, se, e fino a quando, tale potere non viene esercitato, l'assetto urbanistico dell'area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.02.2007, n. 851).
Le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano attuativo (ovvero dei piani a questo equiparati) si esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 20.07.2012, n. 28).
7. Il Collegio non vede motivo per discostarsi dal quadro interpretativo così delineato.
Pertanto che, tenendo conto dell’indiscussa ultrattività (nei termini di cui prima si è detto) del piano di lottizzazione in oggetto, resta tuttora in vigore il complesso delle prescrizioni in cui questo si articola e dunque, nella specie, l’obbligazione della società appellata di dar corso alla cessione delle aree destinate alle opere di urbanizzazione. E ciò anche perché, alla luce dell’esigenza di un governo del territorio che sia necessariamente sollecito dell’interesse pubblico, sarebbe inconcepibile ammettere che un imprenditore privato possa godere dei profitti di una lottizzazione a danno della collettività: il che avverrebbe se egli potesse sottrarsi all’obbligo di fornire gli spazi occorrenti per l’urbanizzazione primaria e secondaria, che nel modello delineato dalla c.d. legge urbanistica non rappresentano una qualunque controprestazione, ma un elemento strutturale, caratterizzante e imprescindibile, condizione di legittimità della lottizzazione.
8. Quanto al contenuto della decisione, che segue all’accoglimento dell’appello, il ricorso dell’Amministrazione conclude “per la condanna, ex art. 2932 cod. civ., della società appellata alla cessione in favore del Comune delle aree indicate nella convenzione di lottizzazione del 17.09.1984”.
Si tratta di una richiesta non del tutto perspicua, posto che l’azione per l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto (a norma dell’art. 2932 c.c.) è, per incontestata convinzione, azione costitutiva e non di condanna (cfr. in termini Cass. civ., sez. I, 20.02.2013, n. 4184).
Dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio della conversione dell’azione ex art. 32, comma 2, c.p.a., sembra peraltro evidente che l’Amministrazione richieda una pronuncia costitutiva, che consenta l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere la cessione.
9. Qualche dubbio potrebbe sorgere circa l’ammissibilità di un’azione di tale natura nell’ambito del processo amministrativo, alla luce del principio -spesso affermato- della tipicità delle azioni.
A tale riguardo, premesso che la questione non appare comunque specificamente sollevata dalla controparte, il Collegio osserva in primo luogo che l’azione ex art. 2932 c.c., in vicende quale quella presente, è da tempo ammessa dai Tribunali regionali (a partire, forse, da TAR per la Lombardia–Brescia, 28.11.2001, n. 1126, sino, da ultimo, a TAR per la Puglia–Lecce, sez. III, 08.08.2013, n. 1776).
Peraltro, la questione deve intendersi ormai definitivamente risolta per effetto della ricordata sentenza dell’Adunanza plenaria n. 28 del 2012.
Sul presupposto della consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione -secondo la quale "il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c., al fine di ottenere l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege" (cfr., da ultimo, Cass. civ., sez. II, 30.03.2012, n. 5160)- l’Adunanza plenaria ha ritenuto che non vi sia motivo per escludere che possa essere oggetto dell'azione ex art. 2932 c.c. il mancato adempimento da parte del privato di un obbligo di cessione assunto con specifici atti d'obbligo (o, come nel caso di specie, con una convenzione urbanistica).
Né potrebbe addursi, a fondamento della pretesa inammissibilità dell'azione in oggetto, la sua asserita natura speciale ed eccezionale, in quanto mista, cognitiva ed esecutiva insieme, derogatoria pertanto della normale separazione tra azione cognitoria e azione esecutiva. Invero tale natura non la rende incompatibile con la struttura del processo amministrativo come delineato dal relativo codice, tanto più che, da un lato, non solo è espressamente prevista un'azione (di ottemperanza), anch'essa caratterizzata dalla coesistenza in capo al giudice di poteri di cognizione ed esecuzione insieme e, d'altro lato, è la stessa tesi della tipicità delle azioni proponibili nel processo amministrativo a suscitare fondate perplessità, nella misura in cui appare in stridente ed inammissibile contrasto, oltre che con i fondamentali principi di pienezza ed effettività della tutela dettati dall’art. 1 c.p.a., con la stessa previsione dell'art. 24 della Costituzione.
D’altronde, nella vicenda si verte in un’ipotesi di giurisdizione esclusiva. E questa, là dove vengano in causa controversie su diritti, come è per l'appunto nel caso in esame, non può che garantire agli interessati la medesima tutela e, dunque, le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi al giudice ordinario.
10. Dalle considerazioni che precedono, discende che l’appello del Comune è fondato e va pertanto accolto, con la pronunzia del trasferimento gratuito, in favore del Comune medesimo, delle aree identificate nella convenzione di lottizzazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.08.2014 n. 4278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aggiornamento all'08.07.2022

Ancóra in materia di casella piena della P.E.C. ed alcuni princìpi generali da memorizzare:

     1) sul piano legislativo non sussiste un obbligo generalizzato per tutti i cittadini di dotarsi di una casella di posta certificata. Tale obbligo, invero, sussiste, ai sensi dell’art. 3-bis del D.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale) soltanto per i professionisti tenuti all'iscrizione in albi ed elenchi e per i soggetti tenuti all'iscrizione nel registro delle imprese i quali devono dotarsi di un domicilio digitale iscritto nell'elenco di cui ai successivi articoli 6-bis o 6-ter;
    
2) la comunicazione telematica tramite Posta elettronica certificata (PEC) è divenuto mezzo formale ed esclusivo per le comunicazioni tra pubbliche amministrazioni e imprese, societarie ed attualmente anche individuali, come sancito espressamente dall’art. 5 del d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17.12.2012, n. 221;
    
3) le comunicazioni a mezzo PEC devono essere effettuate al recapito digitale risultante dal Registro delle imprese (C.C.I.A.A.) o da altro pubblico registro (www.inipec.gov.it/cerca-pec);
    
4) è onere dell’impresa/professionista mantenere tale recapito in condizione di efficienza, adottando ogni misura idonea ad assicurarne l’ordinaria operatività (ad es., con spostamento o eliminazione dei messaggi per prevenire l’esaurimento della capacità di ricezione; col regolare adempimento delle eventuali obbligazioni assunte nei confronti del gestore del servizio; etc.);
    
5) in caso di contestazioni in merito alla mancata ricezione, la pubblica amministrazione, per dimostrare la regolarità del procedimento di notifica, deve limitarsi a provare di avere spedito la comunicazione all’indirizzo PEC risultante dai pubblici registri; questa circostanza è da sola sufficiente e necessaria per realizzare la presunzione di notifica. Ne consegue l’irrilevanza del mancato perfezionamento del recapito, spettando all’impresa, titolare dell’indirizzo PEC, l’onere di dimostrare, al contrario, la piena funzionalità dell’account indicato nei medesimi pubblici registri;
    
6) la notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l'operatore attesta di avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario "piena", da considerarsi equiparata alla "ricevuta di avvenuta consegna", in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l'inadeguata gestione dello spazio per l'archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi;
    
7) l'art. 3 del d.P.C.M. 22.07.2011 -contenente le “Comunicazioni con strumenti informatici tra imprese e amministrazioni pubbliche” ed adottato in attuazione del menzionato art. 5-bis, comma 2, CAD),- stabilisce che, a decorrere dal 01.07.2013:
a) “
le pubbliche amministrazioni non possono accettare o effettuare in forma cartacea le comunicazioni” (comma 1);
b) “
in tutti i casi in cui non è prevista una diversa modalità di comunicazione telematica, le comunicazioni avvengono mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata”, ai sensi degli artt. 48 e 65, comma 1, lett. c-bis), CAD (comma 2).

ATTI AMMINISTRATIVI: Valido l’invio se la Pec risulta dagli elenchi pubblici. Inesistente la notifica da un indirizzo fuori dall’indice nazionale.
La notifica di una cartella di pagamento deve considerarsi giuridicamente inesistente qualora venga eseguita da un indirizzo di posta elettronica certificata che non risulti dai pubblici elenchi.

È questo, in sintesi, quanto hanno stabilito i giudici della Ctp di Napoli con la recente sentenza 10.03.2022 n. 3120 (presidente Genovese, relatore Di Pastena).
Il caso in esame traeva origine dall’’impugnazione di una cartella di pagamento notificata dall’agenzia Entrate Riscossione a seguito di controllo automatizzato della dichiarazione dei redditi, in base all’articolo 36-bis del Dpr 600/1973. In particolare, il ricorrente, tra gli altri motivi, aveva eccepito l’inesistenza giuridica del suddetto atto in quanto notificato da un indirizzo di posta elettronica certificata non ricompreso negli elenchi ufficiali.
I giudici campani hanno accolto il ricorso ed hanno annullato la cartella.
Il collegio ha evidenziato in primis che, secondo quanto disposto dall’articolo 3-bis della legge 53 del 1994 «la notificazione con modalità telematica si esegue a mezzo di posta elettronica certificata all’indirizzo risultante da pubblici elenchi... La notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi».
Al riguardo, è stato anche ricordato che il Dlgs 82 del 2005 (il Codice dell’amministrazione digitale) ha previsto l’istituzione del pubblico elenco dell’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (Ini-Pec). Inoltre, è stato osservato che, in base all’articolo 26 del Dpr 602 del 1973, la notifica della cartella deve essere eseguita a mezzo di Pec all’indirizzo del destinatario risultante dall’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (Ini-Pec), ovvero all’indirizzo dichiarato all’atto della richiesta.
In definitiva, dall’analisi delle suddette norme, emerge che è stato ritenuto necessario che l’attività di notifica avvenga attraverso l’utilizzo di indirizzi di posta elettronica risultanti dai pubblici elenchi al fine di assicurare la certezza della provenienza nonché della destinazione degli atti.
Peraltro, non va sottaciuto che tale principio è stato confermato dalla Corte di Cassazione con le sentenze n. 3709/2019 e n. 9893/2019 e le ordinanze n. 9562/2019 e n. 17346/2019.
In particolare, la Suprema corte, con l’ordinanza n. 17346/2019, ha osservato che la notifica effettuata con modalità telematiche è da considerarsi viziata se il notificante utilizza il proprio indirizzo di posta elettronica certificata che non risulta da pubblici elenchi, in base all’articolo 3-bis.
Ciò premesso, i giudici hanno concluso che, sulla base della documentazione prodotta, l’agenzia delle Entrate Riscossione aveva trasmesso la cartella di pagamento, per la notifica, da un indirizzo Pec diverso da quello presente nel pubblico registro e che, per tali ragioni, la stessa notifica doveva considerarsi inesistente.
Merita infine segnalare che si registrano alcune sentenze di merito dello stesso segno (Ctp Roma n. 2799, Ctp Perugia n. 379 del 2019 e Ctp Reggio Calabria n. 3369 del 2021) (articolo Il Sole 24 Ore del 08.06.2022).

ATTI AMMINISTRATIVIPec piena? E' colpa dell'utente. Il Tar Sardegna ha rigettato il ricorso contro un comune compensando però le spese di lite.
Osservazioni non pervenute alla p.a.: in difetto è il cittadino.
Ogni volta in cui la casella pec della p.a. risulti piena, con conseguente impossibilità di recapitarvi messaggi o documenti, anche importanti, è il cittadino a doversi attivare, allertando il suo interlocutore in merito all'esigenza di provvedere allo svuotamento della casella.
È quanto emerge dalla sentenza 14.02.2022 n. 99, emessa dal TAR Sardegna, sede di Cagliari.
Nel caso di specie, un cittadino ha ricevuto un preavviso di rigetto da parte del Comune in relazione a una pratica edilizia.
Sperando di far cambiare idea all'Amministrazione, ha trasmesso talune osservazioni a sostegno delle sue ragioni, come espressamente consentito dalla normativa sul procedimento amministrativo.
Le osservazioni sono state inoltrate alla casella di posta certificata istituzionale del Comune. Tuttavia, come attestato dalla ricevuta di "mancata consegna", la pec non è mai giunta a destinazione poiché la casella postale dell' amministrazione risultava, in quel momento, piena.
Così, il Comune -dando atto della mancanza di osservazioni da parte del cittadino (che pure si era attivato)- ha infine adottato il provvedimento negativo, ribadendo plasticamente le motivazioni anticipate nel preavviso.
Incredulo, il cittadino ha tempestivamente impugnato il provvedimento negativo dinanzi al tribunale amministrativo regionale. Ai giudici è stato chiesto di demolire la decisione gravata siccome il Comune avrebbe del tutto mancato di considerare le osservazioni del ricorrente per problemi tecnici e organizzativi dei quali non poteva essere chiamato a rispondere. In tal senso -ha insistito il cittadino- era preciso onere del titolare della casella pec (il Comune) provvedere alla sua periodica manutenzione (in particolare, allo svuotamento), di modo da garantire la corretta ricezione degli atti.
In proposito, merita ricordare come l'articolo 3 del codice dell'amministrazione digitale (c.d. "cad") preveda il diritto dei cittadini di utilizzare le tecnologie telematiche per le comunicazioni con le pp.aa., le quale, coerentemente, sono chiamate a garantire tale utilizzo.
Ebbene, le doglianze del ricorrente non sono state condivise dal collegio che, anzi, analizzando il funzionamento del sistema pec, ha mandato indenne da critica l'operato del Comune.
I giudici sardi partono da assunto di base: la trasmissione a mezzo pec è caratterizzata dal fatto che solo il mittente riceve l' eventuale comunicazione della mancata consegna; il destinatario, tutto all'opposto, ne ignora l'esistenza e, dunque, non potrebbe procedere -anche volendo- con l'eventuale recupero.
Perciò, diligenza e buona fede vogliono che sia il mittente (cittadino) a dover avvisare e, comunque, a provvedere con un nuovo invio.
La decisione affronta un altro importante aspetto: la mancata consegna per causa imputabile al destinatario può avere rilievo ai fini della prova del rispetto dei termini procedimentali, ma non anche sulla valutazione della legittimità della successiva azione dell'amministrazione.
In definitiva, secondo il Tar, l'istante con la sola ordinaria diligenza "ben avrebbe potuto rendersi conto che la pec da lui inviata, in risposta al preavviso di provvedimento negativo, non era stata ricevuta (che aveva la casella di posta piena) e ben avrebbe potuto provvedere ad un nuovo successivo invio delle sue osservazioni sempre a mezzo pec o avrebbe potuto pure consegnare le stesse a mano agli uffici".
Ricorso rigettato e spese di lite compensate
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.03.2022).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Casella Pec piena, l'Ente non può «presumere» l'esistenza del documento rifiutato dal sistema.
La violazione dei doveri di adottare i comportamenti necessari per consentire al cittadino le comunicazioni tramite posta elettronica certificata, onde evitare che risulti piena, non può comportare una presunzione di conoscenza del contenuto di documenti che non erano pervenuti all'amministrazione.

Lo ha affermato il TAR Sardegna, Sez. I, con la sentenza 14.02.2022 n. 99 (si veda NT+ Enti locali & edilizia del 17 febbraio) .
Il fatto
È stato impugnato il provvedimento con il quale un Comune ha disposto la decadenza dall'autocertificazione presentata per la realizzazione della recinzione di un'area, intimato il divieto di prosecuzione delle opere e l'immediata demolizione di quelle già eseguite. Il ricorrente contesta di aver presentato le proprie osservazioni in riscontro alla comunicazione dei motivi ostativi all'indirizzo Pec del Comune, che però non sono mai pervenute in quanto la casella risultava piena. Il Comune ha quindi adottato il provvedimento con il quale, dando anche atto della mancanza di osservazioni da parte dell'interessato, ha confermato il rigetto, dichiarato la decadenza dalla dichiarazione, vietato la prosecuzione delle opere e intimato la demolizione di quelle già abusivamente realizzate.
Il ricorrente ha sostenuto l'illegittimità dell'ordinanza in quanto non ha tenuto conto delle osservazioni presentate, non essendo a lui imputabile la mancata consegna per la saturazione della capienza massima della casella Pec del Comune, il quale avrebbe dovuto usare la normale diligenza per provvedere alla sua periodica manutenzione e svuotamento in modo da consentire la costante ricezione degli atti.
La consegna via Pec
All'esito dell'esame, il Tar Sardegna ha dichiarato il ricorso infondato. I giudici hanno ricordato che la trasmissione di un documento mediante Pec si realizza in due fasi: la spedizione, con riferimento alla quale assume rilevanza la ricevuta di accettazione da parte del gestore del mittente; e la consegna al destinatario, attestata dalla successiva ricevuta. Il documento si intende dunque consegnato quando la Pec del destinatario ha generato la ricevuta di consegna anche nel caso in cui la consegna non sia potuta avvenire per causa imputabile al destinatario, in quanto la consegna presuppone che il destinatario sia stato messo nella condizione di conoscerne effettivamente il contenuto, ossia che la comunicazione gli sia stata resa disponibile. Nel caso in cui la spedizione non va a buon fine e il mittente riceve un messaggio di mancata consegna, è quindi escluso a priori che la comunicazione sia pervenuta nella sfera di conoscibilità del destinatario.
Sussiste pertanto una netta distinzione tra il sistema delle comunicazioni tramite Pec e il sistema postale cartaceo, poiché diversamente da quanto avviene con le comunicazioni a mezzo raccomandata, dove l'operatore rilascia al destinatario una ricevuta con la quale si rende possibile il ritiro della posta in un momento successivo e si pone il destinatario nella condizione di sapere che vi è una comunicazione a lui rivolta e che è suo onere attivarsi per ritirarla, nelle trasmissioni mediante Pec è onere esclusivo del mittente che riceve la comunicazione della mancata consegna mettere il destinatario nelle condizioni di riceverla.
La diligenza
Il ricorrente, pur avendo ricevuto il messaggio di mancata consegna all'amministrazione, non si è attivato per rendere disponibili le osservazioni da lui inviate. Il Cad, ha osservato il Tar, garantisce il diritto dei cittadini all'uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le Pa a fronte del quale vi è un dovere di queste ultime di consentire che questo uso sia effettivamente garantito, ma la violazione di questi doveri non può comportare, almeno in assenza di una espressa previsione di legge, una presunzione di conoscenza del contenuto di documenti che non erano pervenuti all'amministrazione. Ne consegue che, a prescindere dai motivi per i quali l'invio a mezzo Pec non si era perfezionato con la consegna delle osservazioni trasmesse, comunque il ricorrente è incorso in una violazione della correttezza e della buona fede, limitandosi a ricevere la comunicazione di mancata consegna senza poi provvedere a re-inoltrare le osservazioni al Comune (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 02.03.2022).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La Pec spedita al Comune è valida solo se è arrivata la ricevuta di consegna.
Il cittadino che ha spedito un'istanza al Comune a mezzo Pec deve sempre accertarsi che una volta inviata al giusto indirizzo sia poi effettivamente pervenuta agli uffici dell'ente.

Rischia brutte sorprese se -come nella vicenda trattata del TAR Sardegna-Sez. I (nella sentenza 14.02.2022 n. 99)- ritiene che l'onere di diligenza del cittadino finisca col solo invio della Pec pensando che sia esclusivo onere del titolare della casella di posta elettronica provvedere alla periodica manutenzione e svuotamento in modo che sia costantemente idonea alla ricezione di atti e istanze.
Sussiste infatti una netta distinzione tra il sistema delle comunicazioni tramite pec e il sistema cartaceo "tradizionale" con raccomandata postale. Diversamente da quanto avviene per quest'ultimo dove l'operatore rilascia al destinatario una ricevuta con la quale non solo si rende possibile il ritiro della posta in un momento successivo ma soprattutto si pone il destinatario nella condizione di "sapere" che vi è una comunicazione per lui; nelle trasmissioni con Pec esclusivamente il mittente riceve la comunicazione della mancata consegna mentre il destinatario può restarne all'oscuro e soprattutto senza alcun modo di recupero della comunicazione se il mittente non provvede a inviargliela di nuovo.
La trasmissione di un documento via posta elettronica certificata si realizza in due fasi: la spedizione con riferimento alla quale assume rilevanza la ricevuta di accettazione da parte del gestore del mittente (ricevuta di invio) e la consegna al destinatario che è attestata dalla successiva ricevuta di consegna. La normativa si preoccupa da un lato di tutelare il mittente considerando adempiuto da parte di costui l'onere di trasmissione con decorrenza dalla data e dall'ora dell'avvenuta accettazione del messaggio di posta da parte del proprio gestore (ricevuta di invio); dall'altro tutela il destinatario della comunicazione perché la consegna presuppone che il messaggio sia reso disponibile nella casella di posta elettronica del destinatario (ricevuta di consegna). Il documento informatico spedito a mezzo Pec si considera recapitato se la comunicazione è resa effettivamente disponibile al domicilio digitale del destinatario salva la prova che la mancata consegna sia dovuta a fatto non attribuibile al destinatario.
Questa procedura è di particolare importanza per il caso in cui la comunicazione debba essere trasmessa all'amministrazione entro un determinato termine. Infatti in relazione alle conseguenze che possono prodursi se la comunicazione non sia stata effettivamente recapitata, la mancata consegna può in alcuni casi avere comunque rilievo ai fini della prova del rispetto dei termini. Quando la spedizione a mezzo Pec non va a buon fine e il mittente riceve un messaggio di mancata consegna generato dal sistema è invece escluso a priori che la comunicazione sia pervenuta nella sfera di "reale conoscibilità" del destinatario che può rimanere totalmente ignaro della impossibilità di ricezione di messaggi Pec (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 17.02.2022).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAComunicazioni del cittadino alla Pubblica amministrazione tramite posta elettronica certificata.
---------------
Pubblica amministrazione – Comunicazioni – Pec inviate da cittadino – Obblighi della Pubblica amministrazione – Omissioni Conseguenza.
La violazione dei doveri che incombono sulla Pubblica amministrazione di adottare i comportamenti necessari per consentire al cittadino le comunicazioni tramite posta elettronica certificata, onde evitare che risulti piena, non può comportare, almeno in assenza di una espressa previsione di legge, una presunzione di conoscenza del contenuto di documenti che non erano pervenuti all’Amministrazione (1).
---------------
   (1) Ha chiarito la Sezione che la trasmissione di un documento mediante posta elettronica certificata si realizza in più fasi: la spedizione, con riferimento alla quale assume rilevanza la ricevuta di accettazione da parte del gestore del mittente (ricevuta di invio) e la consegna al destinatario che è attestata dalla successiva ricevuta di consegna.
La normativa di cui al dal d.lgs. 07.03.2005 recante il “Codice dell’amministrazione digitale” (in particolare articoli 6, 45 e 48) si preoccupa da un lato di tutelare il mittente considerando adempiuto da parte di costui l’onere di trasmissione con decorrenza dalla data e dall’ora dell’avvenuta accettazione del messaggio di posta da parte del proprio gestore (ricevuta di invio), dall’altro tutela il destinatario della comunicazione perché la consegna presuppone che il messaggio sia "reso disponibile" nella casella di posta elettronica del destinatario (ricevuta di consegna), “salva la prova che la mancata consegna sia dovuta a fatto non imputabile al destinatario medesimo” (art. 6).
La consegna di cui al richiamato art. 6 presuppone, soprattutto nell’attività procedimentale, che il soggetto destinatario della comunicazione sia stato messo nella condizione di conoscerne effettivamente il contenuto, ossia che la stessa gli sia stata resa disponibile.
Mentre, quando la spedizione con pec non va a buon fine e il mittente riceve un messaggio di mancata consegna generata dal sistema, è escluso a priori che la comunicazione sia pervenuta nella sfera di conoscibilità del destinatario, il quale può restare peraltro completamente ignaro anche dell’impossibilità di recapitargli la pec, sussistendo al riguardo una netta distinzione da questo punto di vista tra il sistema delle comunicazioni elettroniche tramite pec e il sistema postale cartaceo.
Ha aggiunto il Tar che in relazione alle conseguenze che possono prodursi nei casi in cui la comunicazione non sia stata effettivamente recapitata all’amministrazione e debba invece, per produrre i suoi effetti, giungere effettivamente nella disponibilità dell’amministrazione, come nel caso in esame nel quale l’interessato ha presentato le sue osservazioni al preavviso di provvedimento negativo dell’amministrazione (ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990), la disposizione di cui all'art. 6 del Codice dell'amministrazione digitale sulla (mancata) avvenuta consegna per causa imputabile al destinatario può avere rilievo ai soli fini della prova del rispetto dei termini, ma non anche sulla valutazione della legittimità della successiva azione dell’amministrazione.
Ha quindi concluso la sentenza che se è vero che a norma dell’art. 3 del richiamato Codice dell’Amministrazione digitale sussiste un diritto dei cittadini all’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche Amministrazioni, a fronte del quale vi è dunque un dovere di queste ultime di consentire che tale uso sia effettivamente garantito adottando tutti i comportamenti necessari, tra cui la cura della casella di posta elettronica onde evitare che risulti piena, è altresì vero che la violazione di tali doveri, come è nel caso di specie, non può comportare, almeno in assenza di una espressa previsione di legge, una presunzione di conoscenza del contenuto di documenti che non erano pervenuti all’Amministrazione.
Il destinatario della comunicazione dei motivi ostativi che, a fronte della ricevuta di mancata consegna delle osservazioni trasmesse all'Amministrazione via pec, non provvede a re-inoltrarle incorre in una violazione dei canoni comportamentali della correttezza e della buona fede che permeano tutti i rapporti, anche quelli tra Amministrazione e cittadini, e dimostra di non coltivare con la diligenza dovuta l’interesse, pure ribadito in sede giudiziaria, di poter superare i motivi ostativi comunicatigli mediante la produzione di integrazioni e chiarimenti (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 14.02.2022 n. 99 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
1. Con l’atto introduttivo del giudizio il ricorrente impugna il provvedimento con il quale il Comune ha disposto la decadenza dalla dichiarazione autocertificativa unica (DUA) da lui presentata per la realizzazione della recinzione di un’area di sua proprietà e gli ha intimato al contempo il divieto di prosecuzione delle opere e l’immediata demolizione di quelle già eseguite.
1.1. Il ricorrente premette di aver presentato, in data 28.10.2020, una DUA, ai sensi dell’art. 31, comma 4, della L.R. n. 24 del 2016, allo Sportello unico per le attività produttive e per l’attività edilizia (SUAPE) per l’esecuzione, su un’area di proprietà, degli interventi edilizi in questione e di aver iniziato i lavori una volta decorso il termine di trenta giorni previsto dalla normativa richiamata.
Tuttavia il Responsabile dell’Ufficio tecnico comunale in data 16.12.2020 con preavviso di rigetto gli ha comunicato, ai sensi del punto 10.2.3 delle Direttive in materia di SUAPE, i motivi ostativi all’accoglimento della pratica.
Il ricorrente ha inviato, in riscontro alla comunicazione dei motivi ostativi, le proprie osservazioni in data 28.12.2020 all’indirizzo di posta elettronica certificata del Comune.
Ciò nonostante la pec non è pervenuta al Comune, come attestato dalla ricevuta di mancata consegna, in quanto la casella postale dell’Amministrazione risultava piena.
Il Comune ha quindi adottato il provvedimento, oggetto di gravame, con il quale, dando anche atto della mancanza di osservazioni da parte dell’interessato, ha confermato le motivazioni anticipate con il preavviso di rigetto e, dichiarata la decadenza dalla DUA, ha vietato la prosecuzione delle opere e intimato la demolizione di quelle già abusivamente realizzate.
1.2. Avverso il provvedimento impugnato il signor Pu. ha proposto diversi motivi di ricorso che saranno esaminati nella parte in diritto e ne ha chiesto quindi l’annullamento, con vittoria di spese.
...
6. Il ricorso è infondato e non merita accoglimento.
7. Dopo una ricostruzione della disciplina che regolamenta il procedimento presso lo Sportello unico (SUAPE) in base alla Legge regionale n. 26 del 2014 ed alle Linee guida di cui alla D.G.R. n. 49 del 2019, con il primo motivo di ricorso parte ricorrente sostiene che l’ordinanza gravata sarebbe illegittima per violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, nella parte in cui dispone che: “(…) Qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni, del loro eventuale mancato accoglimento il responsabile del procedimento o l’autorità competente sono tenuti a dare ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni”.
Nel provvedimento impugnato difatti non si tiene conto delle osservazioni presentate dal ricorrente in riscontro alla comunicazione dei motivi ostativi ed anzi è detto erroneamente che nel termine stabilito l’istante non ha presentato alcun riscontro.
7.1. Sostiene, sempre il ricorrente, che avendo inviato tali osservazioni all’indirizzo pec del Comune a nulla rileverebbe la mancata consegna delle stesse per l’impossibilità derivante dalla saturazione della capienza massima della casella di posta elettronica, dovendosi arrestare l'onere di diligenza del privato cittadino all’invio della pec e dovendo al contrario essere esclusivo onere del titolare della casella di posta provvedere alla sua periodica manutenzione e svuotamento in modo che sia costantemente idonea alla ricezione di atti.
8. La tesi non può essere condivisa.
8.1. Si deve ricordare che la disciplina sull’utilizzo del domicilio digitale nelle comunicazioni con la pubblica Amministrazione è dettata dal D.Lgs. 07.03.2005 recante il “Codice dell’amministrazione digitale”.
In particolare vengono in rilievo, ai fini del presente giudizio, le disposizioni contenute negli articoli 6, 45 e 48 del richiamato Codice, le quali così prevedono:
   - art. 6, comma 1: “Le comunicazioni tramite i domicili digitali sono effettuate agli indirizzi inseriti negli elenchi di cui agli articoli 6-bis, 6-ter e 6-quater, o a quello eletto come domicilio speciale per determinati atti o affari ai sensi dell'articolo 3-bis, comma 4-quinquies. Le comunicazioni elettroniche trasmesse ad uno dei domicili digitali di cui all'articolo 3-bis producono, quanto al momento della spedizione e del ricevimento, gli stessi effetti giuridici delle comunicazioni a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno ed equivalgono alla notificazione per mezzo della posta salvo che la legge disponga diversamente. Le suddette comunicazioni si intendono spedite dal mittente se inviate al proprio gestore e si intendono consegnate se rese disponibili al domicilio digitale del destinatario, salva la prova che la mancata consegna sia dovuta a fatto non imputabile al destinatario medesimo. La data e l'ora di trasmissione e ricezione del documento informatico sono opponibili ai terzi se apposte in conformità alle Linee guida.”
   - art. 45, comma 2: “Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all'indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore.”
   - art. 48: “1. La trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica certificata ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 11.02.2005, n. 68, o mediante altre soluzioni tecnologiche individuate con le Linee guida. 2. La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta. 3. La data e l'ora di trasmissione e di ricezione di un documento informatico trasmesso ai sensi del comma 1 sono opponibili ai terzi se conformi alle disposizioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 11.02.2005, n. 68, ed alle relative regole tecniche, ovvero conformi alle Linee guida.”
8.2. Dunque, la trasmissione di un documento mediante posta elettronica certificata si realizza in più fasi: la spedizione, con riferimento alla quale assume rilevanza la ricevuta di accettazione da parte del gestore del mittente (ricevuta di invio) e la consegna al destinatario che è attestata dalla successiva ricevuta di consegna.
La normativa, come sopra richiamata, si preoccupa da un lato di tutelare il mittente considerando adempiuto da parte di costui l’onere di trasmissione con decorrenza dalla data e dall’ora dell’avvenuta accettazione del messaggio di posta da parte del proprio gestore (ricevuta di invio), dall’altro tutela il destinatario della comunicazione perché la consegna presuppone che il messaggio sia reso disponibile nella casella di posta elettronica del destinatario (ricevuta di consegna).
8.3. La comunicazione spedita con pec si intende quindi consegnata se è resa disponibile al domicilio digitale del destinatario, “salva la prova che la mancata consegna sia dovuta a fatto non imputabile al destinatario medesimo”.
Il documento informatico si intende pertanto consegnato al destinatario quando la pec del destinatario ha generato la ricevuta di consegna ed anche nel caso in cui la consegna non sia potuta avvenire per causa imputabile al destinatario. Tale previsione è di particolare importanza per il caso in cui la comunicazione debba essere trasmessa all’amministrazione entro un determinato termine.
8.4. La consegna di cui al richiamato art. 6 presuppone peraltro, soprattutto nell’attività procedimentale, che il soggetto destinatario della comunicazione sia stato messo nella condizione di conoscerne effettivamente il contenuto, ossia che la stessa gli sia stata resa disponibile.
Mentre, quando la spedizione con pec non va a buon fine e il mittente riceve un messaggio di mancata consegna generata dal sistema, è escluso a priori che la comunicazione sia pervenuta nella sfera di conoscibilità del destinatario, il quale può restare peraltro completamente ignaro anche dell’impossibilità di recapitargli la pec.
8.5. Sussiste pertanto una netta distinzione da questo punto di vista tra il sistema delle comunicazioni elettroniche tramite pec e il sistema postale cartaceo, poiché diversamente da quanto avviene con le comunicazioni a mezzo raccomandata dove l’operatore rilascia al destinatario una ricevuta con la quale non solo si rende possibile il ritiro della posta in un momento successivo, ma soprattutto si pone il destinatario nella condizione di sapere che vi è una comunicazione a lui rivolta e che è suo onere attivarsi per ritirarla, nelle trasmissioni mediante pec è esclusivamente il mittente che riceve la comunicazione della mancata consegna, mentre il destinatario ne resta all’oscuro e soprattutto non ha alcun modo per recuperare la comunicazione non recapitatagli dal sistema se il mittente non provvede ad inviargliela di nuovo.
8.6. In relazione alle conseguenze che possono prodursi nei casi in cui la comunicazione non sia stata effettivamente recapitata all’amministrazione e debba invece, per produrre i suoi effetti, giungere effettivamente nella disponibilità dell’amministrazione, come nel caso in esame nel quale l’interessato ha presentato le sue osservazioni al preavviso di provvedimento negativo dell’amministrazione (ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990), la citata disposizione sulla (mancata) avvenuta consegna per causa imputabile al destinatario può avere quindi rilievo ai soli fini della prova del rispetto dei termini, ma non anche sulla valutazione della legittimità della successiva azione dell’amministrazione.
9. Ciò premesso, nel caso di specie, il ricorrente, pur avendo ricevuto il messaggio del gestore della posta elettronica che gli comunicava la mancata consegna all’Amministrazione delle osservazioni da lui inviate e dunque pur avendo avuto piena contezza dell’impossibilità per l’Amministrazione di conoscerne il contenuto, non si è ulteriormente attivato per mettere nella effettiva disponibilità dell’Amministrazione le sue osservazioni, salvo successivamente dolersi, in questa sede, della negata possibilità di integrare e chiarire le mancanze progettuali contestate dall’Amministrazione.
Ma la parte ricorrente, usando l’ordinaria diligenza, ben avrebbe potuto rendersi conto che la PEC da lui inviata al Comune, in risposta al preavviso di provvedimento negativo, non era stata ricevuta dallo stesso Comune (che aveva la casella di posta piena) e ben avrebbe potuto provvedere ad un nuovo successivo invio delle sue osservazioni sempre a mezzo PEC o avrebbe potuto pure consegnare le stesse a mano agli uffici, viste le piccole dimensioni del Comune di Villa Sant'Antonio, avendo interesse che l’amministrazione le potesse valutare.
Peraltro il Comune ha emesso il provvedimento interdittivo impugnato il 27.01.2021, circa un mese dopo l’invio delle contestate osservazioni in data 28.12.2020.
9.1. Se è vero, quindi, che a norma dell’art. 3 del richiamato Codice dell’Amministrazione digitale sussiste un diritto dei cittadini all’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche Amministrazioni, a fronte del quale vi è dunque un dovere di queste ultime di consentire che tale uso sia effettivamente garantito adottando tutti i comportamenti necessari, tra cui la cura della casella di posta elettronica onde evitare che risulti piena, è altresì vero che la violazione di tali doveri, come è nel caso di specie, non può comportare, almeno in assenza di una espressa previsione di legge, una presunzione di conoscenza del contenuto di documenti che non erano pervenuti all’Amministrazione.
9.2. Ne consegue che, nel caso di specie, a prescindere dai motivi per i quali l’invio a mezzo pec non si era perfezionato con la consegna delle osservazioni trasmesse, comunque il ricorrente è incorso in una violazione dei canoni comportamentali della correttezza e della buona fede che permeano tutti i rapporti, anche quelli tra Amministrazione e cittadini, non essendo tra l’altro il re-invio delle osservazioni (sempre con Pec o con altra modalità sicura) un adempimento particolarmente gravoso. Infatti, così facendo (limitandosi cioè a ricevere la comunicazione di mancata consegna della pec senza tuttavia poi provvedere a re-inoltrare le osservazioni al Comune) ha dimostrato di non coltivare con la diligenza dovuta l’interesse, pure ribadito in questa sede, di poter superare i motivi ostativi comunicatigli mediante la produzione di integrazioni e chiarimenti.
9.3. Il motivo di doglianza non risulta pertanto fondato, non avendo l’Amministrazione mai ricevuto le osservazioni dell’odierno ricorrente sui motivi ostativi.
10. Peraltro la censura, nel giudizio in esame, non può ritenersi nemmeno rilevante.
Infatti, a prescindere dalla questione riguardante la mancata ricezione della pec recante le osservazioni sui motivi ostativi all’esecuzione dei lavori oggetto della DUA, comunque, per quanto sarà chiarito con riferimento all’esame degli altri motivi di ricorso, il Comune non avrebbe potuto consentire l’esecuzione dei lavori che erano stati oggetto della DUA (o almeno di una buona parte degli stessi) che necessitavano di altro titolo edilizio, nonché dell’autorizzazione paesaggistica (o comunque di autorizzazione paesaggistica semplificata).
Con la conseguenza che nella fattispecie deve ritenersi applicabile l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 secondo il quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
10.1. Infatti, come questa Sezione ha già più volte affermato, anche dopo le modifiche che sono state apportate all’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 [da ultimo con l'art. 12, comma 1, lett. i), D.L. 16.07.2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.09.2020, n. 120], si deve ritenere che tra i vizi formali che non comportano l’annullabilità dell’atto impugnato rientri anche l’omissione del preavviso di rigetto quando, per la natura vincolata del provvedimento, il giudice rilevi che il provvedimento adottato non avrebbe potuto comunque essere diverso.
Può infatti ritenersi, operando una interpretazione della disposizione in questione coerente con il principio di economicità, di celerità e di efficienza dell’azione amministrativa, che l’omissione del preavviso di diniego non sia sempre viziante, e che in particolare tale omissione non è viziante in casi di determinazioni vincolate (TAR Sardegna, Sezione I, n. 620 del 24.08.2021, n. 578 del 05.08.2021) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 14.02.2022 n. 99 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Notifica a casella Pec piena.
Processo civile telematico: la ricevuta è equiparabile all’avvenuta consegna se il destinatario ha occupato tutta la memoria del proprio account di Posta elettronica certificata? Che fine fa la notifica a casella pec piena?
La risposta è stata fornita da una recente sentenza della Cassazione sezione lavoro
[1].
La Corte si è trovata a giudicare sulla legittimità di un atto di impugnazione allo stato passivo depositato fuori termine dal legale del ricorrente. In questo contesto, i giudici hanno ritenuto rituale la notifica dell’atto giudiziario effettuata via Pec, anche se risultava piena la casella di Posta elettronica certificata del destinatario.
Casella Pec piena: conseguenze
Secondo la pronuncia in commento, la ricevuta dell’operatore che attesta come nell’account non ci sia più spazio per l’archiviazione dei messaggi equivale a quella di avvenuta consegna: spetta al titolare della Pec non solo dotarsi di un valido indirizzo di Posta elettronica certificata, ma anche gestirne la memoria in modo da consentire la ricezione di nuovi messaggi.
Questo significa che è ugualmente valida la notifica a casella Pec piena.
Ricordiamo infatti che ai sensi del sesto comma dell’art. 16 del D.L. n. 179/2012, «Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio Pec per cause imputabili al destinatario». E la giurisprudenza della Cassazione è costante nell’annoverare tra le «cause imputabili al destinatario» la mancata comunicazione per saturazione della casella di posta elettronica.
La Cassazione ha esplicitamente affermato che «il mancato buon esito della comunicazione telematica di un provvedimento giurisdizionale, dovuto alla saturazione della capienza della casella della Posta elettronica certificata del destinatario legittima l’effettuazione della comunicazione mediante deposito in cancelleria (ai sensi dell’art. 16, comma 6, del D.L. n. 179/2021 come modificato dall’art. 47 del D.L. n. 90/2014»
[2].
Se la casella Pec del destinatario è piena, la comunicazione può essere eseguita con il deposito in cancelleria. La mancata ricezione risulta imputabile allo stesso destinatario, il quale è comunque in grado di conoscerne gli estremi, in quanto il sistema invia un avviso al portale dei servizi telematici in modo da renderne edotto il difensore interessato che vi accede
[3]; l’informativa contiene gli elementi che identificano il procedimento, le parti e i loro patrocinatori.
In caso di mancata consegna la comunicazione è generata in automatico secondo le previsioni della Dgsia, la Direzione generale dei servizi informativi automatizzati del ministero della Giustizia: altrimenti, l’avviso pubblicato nel Pst non potrebbe dare per “avvenuta” detta comunicazione o notificazione.
Casella Pec piena e rimessione in termini
La casella di Posta elettronica certificata piena non è un valido motivo per ottenere la richiesta di rimessione in termini per la notifica di un atto
[4].
La notifica a mezzo Pec ex art. 3-bis l. n. 53 del 1994 di un atto del processo–formato fin dall’inizio in forma di documento informatico ad un legale, implica, purché soddisfi e rispetti i requisiti tecnici previsti dalla normativa vigente, l’onere per il suo destinatario di dotarsi degli strumenti per decodificarla o leggerla, non potendo la funzionalità dell’attività del notificante essere rimessa alla mera discrezionalità del destinatario, salva l’allegazione e la prova del caso fortuito, come in ipotesi di malfunzionamenti del tutto incolpevoli, imprevedibili e comunque non imputabili al professionista coinvolto.
Peraltro, costituendo la normativa sulle notifiche telematiche la mera evoluzione della disciplina delle notificazioni tradizionali ed il suo adeguamento al mutato contesto tecnologico, l’onere in questione non può dirsi eccezionale od eccessivamente gravoso, in quanto la dotazione degli strumenti informatici integra un necessario complemento dello strumentario corrente per l’esercizio della professione.
In particolare, con specifico riferimento alla ipotesi di saturazione della casella Pec, è stato escluso che tale saturazione configuri un impedimento non imputabile al difensore al fine di legittimare la richiesta di rimessione in termini per la notifica di un atto.
Mancato buon esito della notifica Pec dovuto a casella piena: conseguenze
Come chiarito dalla Cassazione [4], «Il mancato buon esito della comunicazione telematica di un provvedimento giurisdizionale dovuto alla saturazione della capienza della casella PEC del destinatario è evento imputabile a quest’ultimo; di conseguenza, é legittima l’effettuazione della comunicazione mediante deposito dell’atto in cancelleria, ai sensi dell’art. 16, comma 6, del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, come modificato dall’art. 47 del d.l. n. 90 del 2014, conv. in l. n. 114 del 2014, senza che, nell’ipotesi in cui il destinatario della comunicazione sia costituito nel giudizio con due procuratori, la cancelleria abbia l’onere, una volta non andato a buon fine il primo tentativo di comunicazione, di tentare l’invio del provvedimento all’altro procuratore.  (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato tardiva l’opposizione proposta dal lavoratore avverso l’ordinanza ex art. 1, comma 49, della l. n. 92 del 2012, comunicata all’indirizzo PEC di uno dei suoi procuratori e non consegnata per “casella piena”, reputando irrilevante che la cancelleria non avesse tentato la comunicazione al secondo procuratore ed avesse invece eseguito la comunicazione telematica ad entrambi i difensori costituiti del datore di lavoro)».
Mancata visione degli allegati alla Pec
Nella notifica all’avvocato difensore mediante Posta elettronica certificata opera una presunzione di conoscenza dell’atto, analoga a quella prevista, per le dichiarazioni negoziali, dall’art. 1335 del Codice civile, nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione e di consegna del messaggio nella casella del destinatario, spetta quindi al destinatario, in un’ottica collaborativa, rendere edotto tempestivamente il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione o di presa visione degli allegati trasmessi via Pec, legate all’utilizzo dello strumento telematico, onde fornirgli la possibilità di rimediare all’inconveniente, sicché all’inerzia consegue il perfezionamento della notifica (Cass. ordinanza 21.02.2020, n. 4624).
In pratica
La notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di avere rinvenuto la c.d. casella PEC del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi (Cass. Civ, Sez. lavoro, sentenza 02.03.2021 n. 5646; Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza 11.02.2020 n. 3164).
---------------
Note
[1] Cass. sentenza 03.05.2021 n. 11559
[2] Cass. sentenza 21.03.2018 n. 7029, ordinanza 15.12.2016 n. 25968, sentenza 20.05.2019 n. 13532, sentenza n. 3163/2020
[3] Cass. ordinanza 18.02.2020  n. 3965, ordinanza 09.08.2018 n. 20698
[4] Cass. sentenza 20.05.2019 n. 13532
(09.05.2021 - tratto da www.laleggepertutti.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOk alla notifica dell’atto giudiziario via Pec anche se la casella del destinatario, obbligato per legge a munirsi di posta elettronica certificata, risulta piena. La ricevuta dell’operatore che attesta come nell’account del soggetto non ci sia più spazio equivale infatti all’avvenuta consegna, in quanto si tratta di evento imputabile al destinatario negligente nella gestione della propria Pec.
---------------
La giurisprudenza di questa Corte è costante nell'annoverare tra le "cause imputabili al destinatario" la "mancata comunicazione per saturazione della casella di posta elettronica", avendo esplicitamente affermato "che il mancato buon esito della comunicazione telematica di un provvedimento giurisdizionale, dovuto alla saturazione della capienza della casella di posta elettronica del destinatario, legittima l'effettuazione della comunicazione mediante deposito dell'atto in cancelleria, ai sensi dell'art. 16, comma 6, del d.l. n. 179/2012 cit., conv. in legge. n. 221/2012 cit., come modificato dall'art. 47 del d.l. 24/06/2014 n. 90, conv. in legge 11/08/2014 n. 114" (Cass. n. 7029 del 2018; ma già in precedenza v. Cass. n. 25968 del 2016; conf. Cass. n. 13532 del 2019 e, più di recente, Cass. n. 3163 del 2020) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 03.05.2021 n. 11559).

ATTI AMMINISTRATIVINotifica Pec su casella piena: è valida?
La procedura si perfeziona in favore del mittente anche quando il messaggio non è stato recapitato al destinatario per esaurimento dello spazio disponibile.
Quando una casella di posta elettronica esaurisce lo spazio di memoria disponibile per l’archiviazione non può più ricevere nuovi messaggi. Ma intanto i mittenti continuano ad inviarli e, spesso, non sanno che i recapiti non giungono a destinazione, a meno che il sistema non li avvisi dell’accaduto. Finché si tratta di un normale indirizzo e-mail, il problema non è grave, anche se rimane il rischio di perdere qualcosa di importante; ma quando il fenomeno avviene sulla posta elettronica certificata è possibile che sfuggano le notifiche di atti legali, giudiziali o tributari.
Per il mittente però questi messaggi risultano regolarmente inviati, tant’è che dispone anche della ricevuta di consegna, ma in concreto il destinatario non li ha visualizzati e non potrà farlo fino a quando non provvederà a svuotare la propria casella di posta. Quando ciò si verifica la notifica Pec su casella piena è valida o può essere contestata?
La legge stabilisce i rispettivi oneri posti a carico del mittente e del destinatario e la giurisprudenza si è espressa più volte al riguardo: la notifica si intende perfezionata anche quando la casella è satura e non può ricevere l’atto notificato, che però era stato validamente spedito: perciò, gli effetti della notifica si realizzano comunque nei confronti di chi non ha provveduto a gestire in modo adeguato il proprio spazio di archiviazione.
La notifica mediante Pec
La notifica a mezzo Pec (acronimo di “posta elettronica certificata”) è equiparata a quella tradizionale in formato cartaceo, che avviene attraverso la consegna mediante ufficiale giudiziario o con spedizione postale di una lettera raccomandata con avviso di ricevimento.
La prova del recapito è rappresentata dalla ricevuta di consegna in formato digitale (un file con estensione xml).
Il valore legale della notifica a mezzo Pec
La notifica effettuata a mezzo Pec ha pieno valore legale, a condizione che la comunicazione avvenga da un indirizzo di posta elettronica certificata verso un’altra Pec, e non invece quando lo scambio si realizza attraverso le normali caselle e-mail: l’invio di una Pec a un indirizzo e-mail semplice non vale affatto come notifica ai fini legali.
La prova dell’invio della Pec, e dunque dell’avvenuta notificazione in via telematica, valida agli effetti di legge, è contenuta nella ricevuta digitale che il sistema restituisce al mittente con un apposito messaggio inoltrato sulla sua Pec: sarà questo documento –chiamato ricevuta di avvenuta consegna– a valere quanto la tradizionale “cartolina” delle raccomandate A/R. Nel caso di casella del destinatario satura, e perciò impossibilitata ad accogliere il contenuto ad essa trasmesso, il sistema emette un apposito messaggio di avvertenza che, come tra poco vedremo, è considerato di valore equipollente.
Pec non ricevuta per spazio di destinazione pieno
La casella Pec di ricezione deve essere sempre mantenuta attiva e funzionante dal destinatario: se egli non provvede a farlo, il messaggio che è stato correttamente indirizzato ed inoltrato alla sua Pec avrà valore di avvenuta notifica anche se non è stato concretamente aperto oppure non è arrivato perché lo spazio disponibile a riceverlo si era esaurito.
Questo principio è stabilito dalla legge
[1] secondo cui la notifica si perfeziona, in favore del notificante, nel momento in cui viene generata dal sistema la ricevuta di accettazione (che equivale alla spedizione postale della lettera raccomandata) e, verso il destinatario, nel momento in cui il sistema crea la ricevuta di avvenuta consegna.
Il raggiungimento dello spazio massimo di capacità della casella Pec –che varia da gestore a gestore ed in base al tipo di contratto stipulato– preclude in concreto la possibilità di ricevere nuovi messaggi Pec se non viene periodicamente svuotato dai messaggi precedenti, ma non elimina gli effetti di validità della notifica, che nonostante ciò si producono in favore del mittente: egli non può essere ritenuto responsabile dell’incuria del destinatario nella gestione della sua casella.
Le notifiche giudiziarie su casella Pec piena
In particolare, per le notificazioni fatte dalle cancellerie agli avvocati, la legge [2] prevede espressamente che esse sono valide in quanto rivolte a soggetti che hanno l’obbligo di munirsi di un indirizzo Pec anche quando la mancata consegna avviene «per cause imputabili al destinatario» che evidentemente è incaricato della diligente gestione del proprio spazio di archiviazione dei messaggi digitali.
Anche quando la notifica avviene tra privati, però (o da un privato verso una pubblica amministrazione), come in uno scambio di missive legali tra avvocati o tra società, la Corte di Cassazione afferma
[3] che la notifica telematica è perfetta pur se la ricevuta di consegna non è stata generata per incapienza della casella Pec del destinatario ed ha ribadito che in tali casi egli ha un «onere di controllo» volto ad evitare che essa diventi satura.
Del resto, anche le norme in tema di notificazioni a mezzo Pec eseguite dall’Ufficiale giudiziario
[4] stabiliscono che «la notifica si intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario».
Notifica Pec valida anche quando lo spazio è saturo
Tale documento informatico che dimostra l’avvenuta notifica deve consistere per forza nella ricevuta di consegna oppure può essere anche un documento alternativo che prova la “tentata” consegna da parte del sistema, che non si è potuta realizzare a causa del riempimento della casella Pec?
Ora, in una recentissima sentenza, la Corte di Cassazione
[5] rileva che nei confronti di tutti i soggetti obbligati per legge a munirsi di un indirizzo Pec –dunque imprenditori, professionisti iscritti a Ordini o Collegi, società, titolari di ditte individuali e di partita Iva– la notifica si intende perfezionata proprio nel momento in cui il sistema attesta di aver trovato piena la casella del destinatario: questo messaggio è equiparato, ai fini della validità della notifica, alla ricevuta di avvenuta consegna, poiché la saturazione della capienza è imputabile al destinatario che non ha saputo (o voluto) gestire in modo appropriato il suo spazio destinato alla ricezione di nuovi messaggi.
Perciò, in definitiva, la mancata ricezione del messaggio a causa dello spazio pieno sulla casella Pec alla quale è stato indirizzato non potrà essere addotta dal destinatario come motivo valido per contestare la notifica effettuata nei suoi confronti.
---------------
Note
[1] Art. 3-bis, comma 3, Legge n. 54/1994
[2] Art. 16, comma 6, D.L. n. 179/2012
[3] Cass.
ordinanza 11.02.2020 n. 3164
[4] Art. 149-bis, comma 3, Cod. proc. civ.
[5] Cass. sez. Lavoro,
sentenza 02.03.2021 n. 5646 (04.03.2021 - tratto da www.laleggepertutti.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Notificazione – Notificazione attraverso posta elettronica certificata (P.E.C.) – Casella postale piena – Perfezionamento della notificazione – Configurabilità – Fattispecie.
La notificazione dell’atto da eseguirsi ad un soggetto che per legge è obbligato a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata (P.E.C.) si considera regolarmente perfezionata con la ricevuta telematica che attesta l’aver trovato piena la casella di posta elettronica certificata, equiparabile alla ricevuta di avvenuta consegna, poiché il mancato inserimento nella predetta casella si configura come un evento imputabile esclusivamente alla condotta del destinatario individuabile nella inadeguata gestione dello spazio telematico destinato alla ricezione e all’archiviazione dei documenti.
La giurisprudenza è costante nell’annoverare tra le cause imputabili al destinatario la mancata comunicazione per saturazione della casella di posta elettronica, avendo esplicitamente affermato che il mancato buon esito della comunicazione telematica di un provvedimento giurisdizionale, dovuto alla saturazione della capienza della casella di posta elettronica del destinatario, legittima l’effettuazione della comunicazione mediante deposito dell’atto in cancelleria, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012 , art. 16, comma 6, convertito in L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. 24.06.2014, n. 90, art. 47, convertito in L. 11.08.2014, n. 114. 
Nella fattispecie, si trattava del giudizio con oggetto l’opposizione allo stato passivo del fallimento di un’azienda proposto da due lavoratori dipendenti che richiedevano l’accertamento della illegittimità del licenziamento collettivo
(massima tratta da https://arsg.it).
---------------
4. Altrettanto opportuna appare una ricognizione del quadro normativo e giurisprudenziale in ordine alle comunicazioni o notificazioni effettuate dalla cancelleria tramite posta elettronica certificata.
Va premesso che, ai sensi dell'art. 99, u.c., L.fall. nel testo vigente all'epoca dei fatti di causa, come novellato prima dal d.lgs. 09.01.2006, n. 5, e poi dal d.lgs. 12.09.2007, n. 169, il decreto che decide sull'opposizione allo stato passivo "è comunicato dalla cancelleria alle parti che, nei successivi trenta giorni, possono proporre ricorso per cassazione".
Tale comunicazione effettuata dal cancelliere mediante posta elettronica certificata, ai sensi dell'art. 16, comma 4, del di. n. 179 del 2012, conv., con modif. dalla l. n. 221 del 2012, è idonea a far decorrere il termine breve per l'impugnazione in cassazione, non ostandovi il nuovo testo dell'art. 133, comma 2, c.p.c., come novellato dal d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., dalla l. n. 114 del 2014, secondo il quale la comunicazione del testo integrale della sentenza da parte del cancelliere non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all'art. 325 c.p.c., perché la norma del codice di rito trova applicazione solo nel caso di atto di impulso di controparte, ma non incide sulle norme derogatorie e speciali che ancorano la decorrenza del termine breve di impugnazione alla mera comunicazione di un provvedimento da parte della cancelleria (cfr. Cass. n. 23443 del 2019 e Cass. n. 10525 del 2016).
Tuttavia, ai sensi del comma sesto dell'art. 16 richiamato, "Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l'obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario".
La giurisprudenza di questa Corte è costante nell'annoverare tra le "cause imputabili al destinatario" la "mancata comunicazione per saturazione della casella di posta elettronica", avendo esplicitamente affermato "che il mancato buon esito della comunicazione telematica di un provvedimento giurisdizionale, dovuto alla saturazione della capienza della casella di posta elettronica del destinatario, legittima l'effettuazione della comunicazione mediante deposito dell'atto in cancelleria, ai sensi dell'art. 16, comma 6, del d.l. n. 179/2012 cit., conv. in legge n. 221/2012 cit., come modificato dall'art. 47 del d.l. 24/06/2014 n. 90, conv. in legge 11/08/2014 n. 114" (Cass. n. 7029 del 2018; ma già in precedenza v. Cass. n. 25968 del 2016; conf. Cass. n. 13532 del 2019 e, più di recente, Cass. n. 3163 del 2020).
Nonostante la mancata ricezione della comunicazione per causa a lui imputabile, il destinatario è comunque nella condizione di prendere cognizione degli estremi della comunicazione medesima, in quanto il sistema invia un avviso al portale dei servizi telematici, di modo che il difensore destinatario, accedendovi, viene informato dell'avvenuto deposito (v. Cass. n. 3965 del 2020; Cass. n. 20698 del 2018; Cass. pen. n. 54141 del 2017).
Infatti, ai sensi dell'art. 16, comma 4, del D.M. n. 44 del 2011, "nel caso in cui viene generato un avviso di mancata consegna previsto dalle regole tecniche della posta elettronica certificata (...) viene pubblicato nel portale dei servizi telematici, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell'articolo 34, un apposito avviso di avvenuta comunicazione o notificazione dell'atto nella cancelleria o segreteria dell'ufficio giudiziario contenente i soli elementi identificativi del procedimento e delle parti e loro patrocinatori".
Da tale disposizione si evince pure che, in caso "di mancata consegna", la "comunicazione o notificazione dell'atto nella cancelleria o segreteria dell'ufficio giudiziario" è generata automaticamente, conformemente alle previsioni del D.G.S.I.A., altrimenti l'"avviso" pubblicato "nel portale dei servizi telematici" non potrebbe dare per "avvenuta" detta comunicazione o notificazione (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 02.03.2021 n. 5646).
---------------
Al riguardo si legga anche:
  
● N. De Rossi, Casella Pec piena? Colpa tua. La notifica è valida (15.03.2021 - link a www.bloggiuridico.it).
...
Meglio “svuotare” regolarmente la Pec. Non è infatti una “scusante” sostenere che non si è potuto adempiere in tempo ad un atto o ad una determinata incombenza perché la propria casella di posta elettronica certificata era piena e non si è dunque riusciti a visualizzare prima un dato messaggio. La notifica, che per il mittente risulta regolarmente avvenuta, è valida. (...continua).

ATTI AMMINISTRATIVILa comunicazione telematica tramite Posta elettronica certificata (PEC) è divenuto mezzo formale ed esclusivo per le comunicazioni tra pubbliche amministrazioni e imprese, societarie ed attualmente anche individuali, come sancito espressamente dall’art. 5 del d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17.12.2012, n. 221.
Le comunicazioni a mezzo PEC devono essere effettuate al recapito digitale risultante dal Registro delle imprese o da altro pubblico registro. E' onere dell’impresa mantenere tale recapito in condizione di efficienza, adottando ogni misura idonea ad assicurarne l’ordinaria operatività.
In caso di contestazioni in merito alla mancata ricezione, la pubblica amministrazione, per dimostrare la regolarità del procedimento di notifica, deve limitarsi a provare di avere spedito la comunicazione all’indirizzo PEC risultante dai pubblici registri; questa circostanza è da sola sufficiente e necessaria per realizzare la presunzione di notifica. Ne consegue l’irrilevanza del mancato perfezionamento del recapito, spettando all’impresa, titolare dell’indirizzo PEC, l’onere di dimostrare, al contrario, la piena funzionalità dell’account indicato nei medesimi pubblici registri.
---------------
La disciplina in materia ha conosciuto una svolta significativa nel 2010, allorquando il legislatore ha sancito l’obbligo da parte della pubblica amministrazione dell’utilizzo degli strumenti digitali per comunicare con le imprese, sino a quel momento facoltativo.
L’art. 4 del dlgs 30.12.2010, n. 235 ha infatti inserito modifiche ed integrazioni al d.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale, c.d. CAD).
Tra queste ha inserito nel CAD, l’art. 5-bis -rubricato “Comunicazioni tra imprese e amministrazioni pubbliche”- il cui comma 1 prescrive che: “La presentazione di istanze, dichiarazioni, dati e lo scambio di informazioni e documenti, anche a fini statistici, tra le imprese e le amministrazioni pubbliche avviene esclusivamente utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Con le medesime modalità le amministrazioni pubbliche adottano e comunicano atti e provvedimenti amministrativi nei confronti delle imprese”.
L’avverbio “esclusivamente” ha sancito quindi il superamento del carattere facoltativo del ricorso agli strumenti digitali per le comunicazioni.
Ha fatto seguito il d.P.C.M. 22.07.2011 -contenente le “Comunicazioni con strumenti informatici tra imprese e amministrazioni pubbliche” ed adottato in attuazione del menzionato art. 5-bis, comma 2, CAD),- il cui art. 3 stabilisce che, a decorrere dal 01.07.2013:
   1) “le pubbliche amministrazioni non possono accettare o effettuare in forma cartacea le comunicazioni” (comma 1);
   2) “in tutti i casi in cui non è prevista una diversa modalità di comunicazione telematica, le comunicazioni avvengono mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata”, ai sensi degli artt. 48 e 65, comma 1, lett. c-bis, CAD (comma 2).
---------------

Dall’illustrata configurazione delle modalità d’interlocuzione formale tra pubbliche amministrazioni ed imprese e, in particolare, dall’individuazione del canale mediante il quale le comunicazioni devono ormai svolgersi, discende che
l’impresa titolare della PEC ha l’onere di mantenerla in condizioni di efficienza, anche adottando ogni accorgimento idoneo a garantirne l’ordinaria operatività (ad es., con spostamento o eliminazione dei messaggi per prevenire l’esaurimento della capacità di ricezione; col regolare adempimento delle eventuali obbligazioni assunte nei confronti del gestore del servizio; etc.).
Sicché, ove non ricorra una “causa non oggettivamente imputabile al destinatario”, opera la presunzione di ricezione della PEC, per tutti gli aspetti rientranti nella propria sfera di controllo.

Questa conclusione rappresenta quindi la trasposizione in ambito informatico della presunzione di conoscenza disciplinata in via generale dall’art. 1335 cod. civ., posto che l’indirizzo PEC assume tutti i requisiti per rientrare nella più ampia nozione di “indirizzo del destinatario”, accolta dalla norma del codice (sul punto, si confronti anche l’art. 3-bis CAD).
---------------

3.- Non fondato è anche il secondo motivo di ricorso.
3.1.- Circa la violazione dell’art. 7 L. n. 241/1990, vi è da osservare che il MISE ha correttamente inviato la comunicazione di avvio del procedimento all’indirizzo PEC della società ricorrente, come riportato nella visura storica camerale.
3.1.1.- Sul punto, si rammenta che la comunicazione telematica tramite Posta elettronica certificata (PEC) è divenuto mezzo formale ed esclusivo per le comunicazioni tra pubbliche amministrazioni e imprese, societarie ed attualmente anche individuali, come sancito espressamente dall’art. 5 del d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17.12.2012, n. 221.
Giova altresì ricordare che le comunicazioni a mezzo PEC devono essere effettuate al recapito digitale risultante dal Registro delle imprese o da altro pubblico registro e che è onere dell’impresa mantenere tale recapito in condizione di efficienza, adottando ogni misura idonea ad assicurarne l’ordinaria operatività.
Pertanto, in caso di contestazioni in merito alla mancata ricezione, la pubblica amministrazione, per dimostrare la regolarità del procedimento di notifica, deve limitarsi a provare di avere spedito la comunicazione all’indirizzo PEC risultante dai pubblici registri; questa circostanza è da sola sufficiente e necessaria per realizzare la presunzione di notifica.
Ne consegue l’irrilevanza del mancato perfezionamento del recapito, spettando all’impresa, titolare dell’indirizzo PEC, l’onere di dimostrare, al contrario, la piena funzionalità dell’account indicato nei medesimi pubblici registri (cfr., sul punto, la sentenza del TAR Lazio, Roma, Sez. III-ter 21.11.2016, n. 11614).
3.1.2.- Quanto sopra si ricava dal complesso delle disposizioni normative di settore che appare utile passare in sintetica rassegna.
L’art. 16, commi 6 e 9, d.l. 29.11.2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla Legge 28.01.2009, n. 2 chiarisce che:
   - “Le imprese costituite in forma societaria sono tenute a indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata nella domanda di iscrizione al registro delle imprese o analogo indirizzo di posta elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell’invio e della ricezione delle comunicazioni e l’integrità del contenuto delle stesse, garantendo l’interoperabilità con analoghi sistemi internazionali. Entro tre anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto tutte le imprese, già costituite in forma societaria alla medesima data di entrata in vigore, comunicano al registro delle imprese l’indirizzo di posta elettronica certificata. […]” (comma 6);
   - “[…] le comunicazioni tra i soggetti di cui ai commi 6, 7 e 8 del presente articolo, che abbiano provveduto agli adempimenti ivi previsti, possono essere inviate attraverso la posta elettronica certificata o analogo indirizzo di posta elettronica di cui al comma 6, senza che il destinatario debba dichiarare la propria disponibilità ad accettarne l’utilizzo” (comma 9; il comma 8 si riferisce alle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001).
Queste disposizioni, nella parte in cui introducono il duplice obbligo della società iscritta nel registro delle imprese di indicare l’indirizzo PEC (o “analogo indirizzo di posta elettronica” avente le caratteristiche di cui al comma 6) e di consentirne l’utilizzo indipendentemente da una corrispondente manifestazione di volontà dell’impresa interessata, assumevano portata derogatoria della regola generale, all’epoca vigente, secondo cui l’utilizzo della PEC da parte dei soggetti privati è facoltativo.
Al riguardo, è utile rinviare al D.P.R. 11.02.2005, n. 68 –contenente il regolamento per l’utilizzo della PEC- che all’art. 4, comma 5, affida alle “regole tecniche” la definizione delle “modalità attraverso le quali il privato comunica la disponibilità all’utilizzo della posta elettronica certificata […] o l’eventuale cessazione della disponibilità […]”.
Le suddette regole sono state in seguito definite col decreto ministeriale 02.11.2005, recante per l’appunto le “regole tecniche per la formazione, la trasmissione e la validazione, anche temporale, della posta elettronica certificata”.
3.1.3.- La disciplina in materia ha conosciuto una svolta significativa nel 2010, allorquando il legislatore ha sancito l’obbligo da parte della pubblica amministrazione dell’utilizzo degli strumenti digitali per comunicare con le imprese, sino a quel momento facoltativo, come sino allora desumibile dal tenore testuale dell’art. 16, comma 9, del menzionato d.l. 185/2008, secondo cui, si rammenta, “le comunicazioni […] possono essere inviate”.
L’art. 4 del decreto legislativo 30.12.2010, n. 235 –su delega dell’art. 33 della legge 18.06.2009, n. 69- ha infatti inserito modifiche ed integrazioni al d.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale, c.d. CAD).
Tra queste ha inserito nel CAD, l’art. 5-bis -rubricato “Comunicazioni tra imprese e amministrazioni pubbliche”- il cui comma 1 prescrive che: “La presentazione di istanze, dichiarazioni, dati e lo scambio di informazioni e documenti, anche a fini statistici, tra le imprese e le amministrazioni pubbliche avviene esclusivamente utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Con le medesime modalità le amministrazioni pubbliche adottano e comunicano atti e provvedimenti amministrativi nei confronti delle imprese”.
L’avverbio “esclusivamente” ha sancito quindi il superamento del carattere facoltativo del ricorso agli strumenti digitali per le comunicazioni.
Ha fatto seguito il d.P.C.M. 22.07.2011 -contenente le “Comunicazioni con strumenti informatici tra imprese e amministrazioni pubbliche” ed adottato in attuazione del menzionato art. 5-bis, comma 2, CAD),- il cui art. 3 stabilisce che, a decorrere dal 01.07.2013:
   1) “le pubbliche amministrazioni non possono accettare o effettuare in forma cartacea le comunicazioni” (comma 1);
   2) “in tutti i casi in cui non è prevista una diversa modalità di comunicazione telematica, le comunicazioni avvengono mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata”, ai sensi degli artt. 48 e 65, comma 1, lett. c-bis, CAD (comma 2).
L’art. 48 CAD appena menzionato –in seguito abrogato dall'articolo 65, comma 7, del D.Lgs. 13.12.2017, n. 217, ai fini del passaggio entro il 2019 dalla PEC al domicilio digitale, ma in vigore ratione temporis- recava per l’appunto la disciplina di principio sulla PEC, chiarendone ambito applicativo ed efficacia.
Per quanto in questa sede rileva, il comma 1 disponeva che: “La trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica certificata”, ai sensi del citato D.P.R. n. 68/2005.
Il comma 2 aggiungeva che: “La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta”.
Il comma 3 precisava, infine, che: “La data e l’ora di trasmissione e di ricezione di un documento informatico trasmesso ai sensi del comma 1 sono opponibili ai terzi se conformi alle disposizioni” di cui al D.P.R. n. 68/2005 e alle relative regole tecniche.
Circa il “valore giuridico della trasmissione”, è utile richiamare l’art. 45 CAD, il cui comma 2 precisa che: “Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all’indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore”.
Per di più, il comma 3 del menzionato art. 5 del D.L. 179 del 2019 –con l’inserimento nel CAD dell’art. 6-bis- ha istituito l’indice nazionale dei domicili digitali delle imprese e dei professionisti, chiamato anche “INI-PEC”.
Il comma 2 del predetto art. 6-bis CAD è stato da ultimo modificato dall’art. 7 d.lgs. 26.08.2016, n. 179, nel senso che gli indirizzi riportati nell’INI-PEC “costituiscono mezzo esclusivo di comunicazione e notifica con i soggetti di cui all’articolo 2, comma 2” (tra cui le pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001.
Al riguardo, la Commissione speciale del Consiglio di Stato, col parere n. 785/2016, reso nell’adunanza del 17.03.2016 sullo schema del d.lgs. n. 179/2016, ha sottolineato il significato del “nuovo corso” del “processo di digitalizzazione e di utilizzo delle nuove tecnologie da parte sia della pubblica amministrazione sia dei cittadini e delle imprese che interagiscono con essa”, processo che persegue una maggiore efficienza ed economicità dell’apparato pubblico con miglioramento del livello di soddisfazione dei cittadini relativamente ai servizi resi dall’amministrazione e risparmi in termini di risorse pubbliche e private.
3.2.- Dal descritto quadro normativo, si ha inequivocabile conferma che -in assenza di “diversa modalità di comunicazione telematica”- la PEC costituisce mezzo non solo idoneo ma ormai esclusivo per le comunicazioni tra pubblica amministrazione e imprese societarie e, attualmente, anche individuali, come precisato dal menzionato art. 5, comma 1, d.l. 179 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 221 del 2012.
Dall’illustrata configurazione delle modalità d’interlocuzione formale tra pubbliche amministrazioni ed imprese e, in particolare, dall’individuazione del canale mediante il quale le comunicazioni devono ormai svolgersi, discende che l’impresa titolare della PEC ha l’onere di mantenerla in condizioni di efficienza, anche adottando ogni accorgimento idoneo a garantirne l’ordinaria operatività (ad es., con spostamento o eliminazione dei messaggi per prevenire l’esaurimento della capacità di ricezione; col regolare adempimento delle eventuali obbligazioni assunte nei confronti del gestore del servizio; etc.).
Sicché, ove non ricorra una “causa non oggettivamente imputabile al destinatario”, opera la presunzione di ricezione della PEC, per tutti gli aspetti rientranti nella propria sfera di controllo.
Questa conclusione rappresenta quindi la trasposizione in ambito informatico della presunzione di conoscenza disciplinata in via generale dall’art. 1335 cod. civ., posto che l’indirizzo PEC assume tutti i requisiti per rientrare nella più ampia nozione di “indirizzo del destinatario”, accolta dalla norma del codice (sul punto, si confronti anche l’art. 3-bis CAD).
3.3.- Alla luce del ricostruito quadro normativo in materia, nella fattispecie in esame la società ricorrente, titolare dell’indirizzo PEC indicato nella visura camerale, era responsabile della sua piena funzionalità, con conseguente irrilevanza del mancato perfezionamento materiale del procedimento di notifica (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 16.06.2020 n. 2416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICasella piena PEC? Ecco quando la notificazione di un atto è perfezionata.
Con la sentenza 11.05.2020 n. 14216 la Corte di Cassazione, III Sez. penale, chiarisce che la notificazione di un atto via posta elettronica certificata può ritenersi perfezionata anche quando la casella mail di destinazione risultasse piena.
Più volte in passato le sezioni civili della Cassazione hanno affermato il principio secondo cui il perfezionamento della notificazione di un atto a un soggetto obbligato per legge ad avere un proprio indirizzo PEC la cui casella però risulti piena si ha con la ricevuta che attesta tale stato della casella.
Il messaggio in cui si comunica che la casella PEC del destinatario è piena è equiparabile alla ricevuta di avvenuta consegna poiché il mancato
download nella casella PEC piena è causato dalla mancata manutenzione della stessa da parte del destinatario/proprietario. (Cass. civ., Sez. 6-3, ordinanza 11.02.2020 n. 3164; Cass. civ., Sez. 5, sent. n. 7029 del 21/03/2018; Cass. civ., Sez. L, sent. n. 13532 del 20/05/2019).
Nel caso oggetto della sentenza, la cancelleria della Corte aveva trasmesso l’avviso di fissazione dell’udienza via PEC al difensore di ufficio di uno degli imputati, vedendosi poi restituire il messaggio con l’avviso che la casella del destinatario risultava piena.
Il ricorso da parte dell’imputato è stato dichiarato inammissibile anche in considerazione di quanto detto poco sopra a proposito dell’equipollenza tra il messaggio di avvenuta consegna e quello di ‘casella piena’.
Nella sentenza, la Cassazione fa presente che l’art. 16, comma 4, del D.L. n. 179 del 18.10.2012 (convertito con modificazioni dalla L. n. 221 del 17.12.2012) permette che la notificazione a persone diverse dall’imputato sia effettuata per mezzo di posta PEC (art. 148 c.p.p., comma 2-bis) e che l’art. 20, comma 5, del D.M. n. 44 del 2011 stabilisce che «il soggetto abilitato esterno è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare la effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione».
L’insegnamento da trarre da questa sentenza è di prestare massima attenzione alla propria casella PEC al fine di evitare che risulti piena e non possa ricevere messaggi importanti le cui conseguenze potrebbero davvero essere rilevanti (commento tratto da https://servicematica.com).

ATTI AMMINISTRATIVILa notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l'operatore attesta di avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario "piena", da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l'inadeguata gestione dello spazio per l'archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi.
---------------

5. E' necessario precisare, preliminarmente, che l'avviso di fissazione dell'udienza odierna, trasmesso via p.e.c. dalla cancelleria della Corte all'avv. Ri.Pi., difensore di ufficio di Ro.Lo., oggi assente, è stato restituito al mittente con l'indicazione "casella piena".
5.1. L'art. 16, comma 4, d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17.12.2012, n. 221, consente che la notificazione a persone diverse dall'imputato venga effettuata, ai sensi dell'art. 148, comma 2-bis, cod. proc. pen., a mezzo posta elettronica certificata.
L'art. 20, comma 5, d.m. n. 44 del 2011 (recante, "Regolamento concernente le regole tecniche per l'adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi dell'articolo 4, commi 1 e 2, del decreto-legge 29.12.2009, n. 193, convertito nella legge 22.02.2010, n. 24"), stabilisce che «il soggetto abilitato esterno è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell'imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare la effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione».
5.2. Trova dunque applicazione, anche in sede penale, il principio più volte affermato dalle sezioni civili della Corte di cassazione secondo il quale la notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l'operatore attesta di avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario "piena", da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l'inadeguata gestione dello spazio per l'archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi (Cass. civ., Sez. 6-3, n. 3164 dell'11/02/2020, Rv. 657013; Cass. civ., Sez. 5, sent. n. 7029 del 21/03/2018, Rv. 647554; Cass. civ., Sez. L, sent. n. 13532 del 20/05/2019, Rv. 653961) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.05.2020 n. 14216).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il destinatario di una PEC che non ha riguardo a mantenere libera la propria casella di posta ne risponde se, nella fattispecie, non si genera al mittente la mail quale "ricevuta di avvenuta consegna".
La mancata generazione della ricevuta di avvenuta consegna, relativa alla comunicazione via pec, deve imputarsi ad una negligenza dell’Amministrazione ricevente -che non ha predisposto le misure organizzative adeguate a garantire la ricezione di tutte le istanze inviate, mediante lo svuotamento della casella di posta elettronica, soprattutto in prossimità della scadenza del termine finale- sicché non può ritenersi che il non corretto funzionamento della procedura telematica possa costituire una valida ragione ostativa alla partecipazione dell’instante alla selezione.
In definitiva, il fatto che il plico non sia mai pervenuto alla amministrazione, non può ridondare in danno della ricorrente, non emergendo dalla documentazione in atti elementi che denotino una sua negligenza nella spedizione della domanda di partecipazione alla selezione de qua.
In proposito, può essere richiamato anche il condivisibile orientamento, formatosi con riguardo alla diversa fattispecie del disguido del servizio postale, secondo il quale è contrario ai principi di giustizia e di ragionevolezza imputare al candidato il disservizio nel quale è incorso l'amministrazione postale, conclusione che vale a maggior ragione allorquando la mancata consegna del plico è attribuibile ad una disfunzione della stessa Amministrazione ricevente.

---------------

   Considerato che il ricorrente agisce per l’annullamento:
a) del diniego prot n. 201900278-12 del 01/04/2019, di ammissione al Concorso Pubblico per n. 15 posti di Dirigente Psicologo, pubblicato in B.U.R.C. n. 77 del 22.10.2018 e G.U. n. 94 del 27/11/2018, ammissione di cui alla richiesta inoltrata con nota dell’08.03.2019 acquisita al prot. n. 20587;
b) della tacita reiezione della istanza finalizzata a partecipare alla procedura concorsuale inoltrata a mezzo pec il 26.12.2018 e respinta dal sistema telematico per circostanze non ascrivibili a responsabilità del ricorrente;
c) di ogni altro atto agli stessi preordinato, presupposto, connesso, collegato e conseguente, ivi compreso, se ed in quanto esistente, il provvedimento di approvazione dell’elenco dei soggetti ammessi alla procedura concorsuale, provvedimento ignoto, nella parte in cui non contempla il ricorrente;
   Considerato che il ricorrente espone in fatto:
- di aver ‹‹chiesto di essere ammesso a partecipare … inoltrando la … domanda, in conformità alle previsioni del bando, a mezzo pec alle ore 23,12 di sabato 26.12.2018. … (quindi che) … l’inoltro, ancorché accettato dal sistema informatico, non veniva consegnato all’amm.ne destinataria per essere risultata la casella di quest’ultima piena.››;
- di aver chiesto successivamente di accertare la tempestività della predetta istanza o di concedere nuovi termini;
- che detta domanda è stata respinta con il provvedimento impugnato;
   Considerato che, nel lamentare la violazione di legge [artt. 42, comma 2, d.lgs. 07.03.2005, n. 82, 20 D.M. 21.02.2011 n. 44, 3 l. 241/1990 e 97 Cost.] e l’eccesso di potere sotto svariati profili, il ricorrente ha argomentato:
(1) di aver optato per una delle possibilità riconosciute dal bando per la trasmissione della istanza di partecipazione, dal che la rilevanza del secondo comma dell’art. 42 del d.lgs. 82/2005 per il quale ‹‹“il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all'indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore” … dettato normativo [questo] … di immediata intelligibilità [e per il quale]: il recapito si intende legalmente avvenuto allorquando il documento informatico viene reso disponibile nella casella di posta elettronica del destinatario, il quale, tuttavia, è gravato, ai sensi del pure richiamato art. 20, co. 5, del D.M. n. 44 del 2011, dell’onere di dotarsi di servizio automatico di avviso dell'imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e di verificare la effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione.››;
(2) il difetto di motivazione perché l’Asl ‹‹in luogo di giustificare la condotta tenuta …, a fronte del chiaro obbligo di garantire l’efficienza della casella di posta elettronica, si limita a sollevare contestazioni in ordine a ciò che il ricorrente non avrebbe fatto -nella specie “optare sia di inoltrare nuovamente la PEC, in quanto la stessa è stata prontamente liberata il primo giorno utile, sia di effettuare l’invio tramite il servizio sempre entro e non oltre il 27/12/2018”- omettendo tuttavia di considerare che il 27.12.2018 è caduto di domenica, con l’ovvio corollario per cui il “primo giorno utile”, cui fa generico ma capzioso riferimento l’estensore della nota in argomento, è ovviamente coinciso con lunedì 28 dicembre, ovvero oltre il termine “perentorio” entro il quale, a termini di bando, avrebbe potuto inoltrarsi la domanda a mezzo pec››;
(3) quindi che, se l’amministrazione non è stata diligente, la notificazione si ha per avvenuta, secondo anche quando rilevabile da specifico precedente della Sezione (Tar Campania, Napoli, V, 03.07.2017 n. 3534);
   Visto l’atto di costituzione in giudizio con il quale l’Asl ha opposto l’infondatezza rilevando che ‹‹il termine per la presentazione della domanda di partecipazione … era … dal 28/11/2018 al 27/12/2018, sia tramite PEC che a mezzo Racc.ta A/R. Il giorno 27.12.2018 (poi) è caduto di giovedì e non di domenica, come erroneamente indicato da controparte. Pertanto, nel momento in cui il ricorrente ha avuto certezza che la Pec inviata non era andata a buon fine perché la casella ricevente risultava piena , avrebbe dovuto e ben potuto ripetere l’invio il giorno giovedì 27.12.2018 allorquando la Asl, rientrato dalle festività natalizie (25 e 26 dicembre) il personale amministrativo preposto, ha provveduto prontamente a liberare la casella piena, permettendo, a tutta la platea di aspiranti, il regolare inoltro delle istanze di partecipazione al Concorso. Nella mattinata del 27 dicembre la casella è stata prontamente resa fruibile.››;
   Considerato che nel corso dell’odierna camera di consiglio ricorrente e resistente hanno ribadito le iniziali posizioni e in particolare il primo, in relazione a specifica obiezione sull’impiegabilità del servizio postale ha, sul punto, richiamato la previsione del bando secondo la quale ‹‹Si considerano, comunque, prevenute fuori termine, qualunque ne sia la causa, le domande presentate al servizio postale ma recapitate a questa Azienda oltre 10 giorni dal termine di scadenza.››;
   Considerato che ad esito della detta discussione è stata rappresentata alle parti la possibile definizione del giudizio in forma semplificata;
   Considerato che non emergono elementi per non ritenere applicabile alla fattispecie quanto già statuito nel detto precedente per il quale: ‹‹… la mancata generazione della ricevuta di avvenuta consegna, relativa alla comunicazione via pec, deve imputarsi ad una negligenza dell’Amministrazione ricevente -che non ha predisposto le misure organizzative adeguate a garantire la ricezione di tutte le istanze inviate, mediante lo svuotamento della casella di posta elettronica, soprattutto in prossimità della scadenza del termine finale- sicché non può ritenersi che il non corretto funzionamento della procedura telematica possa costituire una valida ragione ostativa alla partecipazione dell’instante alla selezione. In definitiva, il fatto che il plico non sia mai pervenuto alla amministrazione, non può ridondare in danno della ricorrente, non emergendo dalla documentazione in atti elementi che denotino una sua negligenza nella spedizione della domanda di partecipazione alla selezione de qua. In proposito, può essere richiamato anche il condivisibile orientamento, formatosi con riguardo alla diversa fattispecie del disguido del servizio postale, secondo il quale è contrario ai principi di giustizia e di ragionevolezza imputare al candidato il disservizio nel quale è incorso l'amministrazione postale (TAR Campania, Napoli, sez. V, 09.09.2016 n. 4226; sez. III, 11.06.2007 n. 6069), conclusione che vale a maggior ragione allorquando la mancata consegna del plico è attribuibile ad una disfunzione della stessa Amministrazione ricevente›› (Tar Campania, Napoli, V, 03.07.2017 n. 3534);
   Considerato che la condivisibilità del corrispondente profilo, qui sintetizzato sub (1), esaurisce la controversia deponendo per la fondatezza della proposta domanda che va, pertanto, accolta con conseguente annullamento degli atti impugnati in parte qua e nei limiti dell’interesse del ricorrente (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 04.07.2019 n. 3725 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa giurisprudenza ha avuto modo più volte di chiarire che le comunicazioni e notificazioni effettuate per via telematica “all'indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) del destinatario e la trasmissione del documento informatico, equivalente alla notificazione a mezzo posta, si intendono perfezionate, con riferimento alla data ed all'ora della loro ricezione, quando la stesse siano avvenute in conformità alle disposizioni di cui al d.P.R. n. 68 del 2005, il cui art. 6 stabilisce che il gestore della PEC utilizzata dal destinatario deve fornire al mittente, presso il suo indirizzo elettronico, la cd. ricevuta di avvenuta consegna (RAC) che costituisce, quindi, il documento idoneo a dimostrare, fino a prova contraria, che il messaggio informatico è pervenuto nella casella di posta elettronica del destinatario".
Analogamente, la giurisprudenza amministrativa, per quanto riguarda il versante processuale, ma con considerazioni estensibili per ogni comunicazione via PEC, ha chiarito che l'inoltro da una PEC assicura "l'assoluta affidabilità, in ordine all'indirizzo del mittente, a quello del destinatario, al contenuto della comunicazione e all'avvenuto recapito del messaggio" con l’ulteriore precisazione che “l'appartenenza del dominio non incide sull'assegnazione e sulla disponibilità della casella di posta elettronica, come è noto, in base ai principi generali di funzionamento tecnologico delle mail elettroniche”.
L'invio può avvenire da qualsiasi indirizzo PEC (anche non di "proprietà" del mittente) purché lo stesso consenta la certa identificazione del mittente e, a tal fine:
   - alleghi documenti sottoscritti digitalmente;
   - alleghi copia di documento di identità;
   - trasmetta tramite sistema che prevede un previo riconoscimento tramite SPID;
   - trasmetta tramite sistema che provenga dal proprio domicilio digitale.
In sostanza, rileva la prova dell'avvenuta spedizione di un messaggio di posta elettronica certificata, e, dal lato del destinatario, la ricevuta di avvenuta consegna, la quale dimostra che il messaggio di posta elettronica certificata è pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento dell'avvenuta consegna tramite un testo leggibile dal mittente.
D’altra parte, sul piano legislativo non sussiste un obbligo generalizzato per tutti i cittadini di dotarsi di una casella di posta certificata. Tale obbligo, invero, sussiste, ai sensi dell’art. 3-bis del D.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale) soltanto per i professionisti tenuti all'iscrizione in albi ed elenchi e per i soggetti tenuti all'iscrizione nel registro delle imprese i quali devo dotarsi di un domicilio digitale iscritto nell'elenco di cui ai successivi articoli 6-bis o 6-ter.
Ne consegue che l’aver ancorato la “validità” della domanda di partecipazione al bando esclusivamente ad una casella di posta elettronica certificata personale oltre a non trovare una sua legittimazione in una norma primaria, al pari di quella innanzi richiamata, risulta eccessivamente gravosa e preclusiva dell’esercizio di determinati diritti del cittadino.
---------------

L’art. 3 del d.P.R. 11.02.2005, n. 68 (Regolamento recante disposizioni per l'utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell'articolo 27 della L. 16.01.2003, n. 3) dispone che “Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all'indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore".
L’art. 4, comma 1, a sua volta, prevede che “la posta elettronica certificata consente l'invio di messaggi la cui trasmissione è valida agli effetti di legge” e, a mente del successivo art. 6, comma 3, "la ricevuta di avvenuta consegna fornisce al mittente prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento della consegna tramite un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione".
Ai sensi dell’art. 48, commi 1 e 2, D.lgs. 07.03.2005, n. 82, "la trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica certificata ai sensi del D.P.R. 11.02.2005, n. 68, o mediante altre soluzioni tecnologiche individuate con le regole tecniche adottate ai sensi all'art. 7" e "la trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta”.
La giurisprudenza ha avuto modo più volte di chiarire che le comunicazioni e notificazioni effettuate per via telematica “all'indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) del destinatario e la trasmissione del documento informatico, equivalente alla notificazione a mezzo posta, si intendono perfezionate, con riferimento alla data ed all'ora della loro ricezione, quando la stesse siano avvenute in conformità alle disposizioni di cui al d.P.R. n. 68 del 2005, il cui art. 6 stabilisce che il gestore della PEC utilizzata dal destinatario deve fornire al mittente, presso il suo indirizzo elettronico, la cd. ricevuta di avvenuta consegna (RAC) che costituisce, quindi, il documento idoneo a dimostrare, fino a prova contraria, che il messaggio informatico è pervenuto nella casella di posta elettronica del destinatario" (Cass. civ. Sez. I, Ord., 26.11.2018, n. 30532; Sez. VI-3, Ord., 15.09.2017, n. 21375).
Analogamente, la giurisprudenza amministrativa, per quanto riguarda il versante processuale, ma con considerazioni estensibili per ogni comunicazione via PEC (Consiglio di Stato, Ad. plen., 10.12.2014, n. 33; Sez. V, Sent., 24.10.2018, n. 6042), ha chiarito che l'inoltro da una PEC assicura "l'assoluta affidabilità, in ordine all'indirizzo del mittente, a quello del destinatario, al contenuto della comunicazione e all'avvenuto recapito del messaggio" con l’ulteriore precisazione che “l'appartenenza del dominio non incide sull'assegnazione e sulla disponibilità della casella di posta elettronica, come è noto, in base ai principi generali di funzionamento tecnologico delle mail elettroniche”.
L'invio può avvenire da qualsiasi indirizzo PEC (anche non di "proprietà" del mittente) purché lo stesso consenta la certa identificazione del mittente e, a tal fine:
   - alleghi documenti sottoscritti digitalmente;
   - alleghi copia di documento di identità;
   - trasmetta tramite sistema che prevede un previo riconoscimento tramite SPID;
   - trasmetta tramite sistema che provenga dal proprio domicilio digitale.
In sostanza, rileva la prova dell'avvenuta spedizione di un messaggio di posta elettronica certificata, e, dal lato del destinatario, la ricevuta di avvenuta consegna, la quale dimostra che il messaggio di posta elettronica certificata è pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento dell'avvenuta consegna tramite un testo leggibile dal mittente (Cass. civ. Sez. VI-01, 07.07.2016, n. 13917).
D’altra parte, sul piano legislativo non sussiste un obbligo generalizzato per tutti i cittadini di dotarsi di una casella di posta certificata. Tale obbligo, invero, sussiste, ai sensi dell’art. 3-bis del D.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale) soltanto per i professionisti tenuti all'iscrizione in albi ed elenchi e per i soggetti tenuti all'iscrizione nel registro delle imprese i quali devo dotarsi di un domicilio digitale iscritto nell'elenco di cui ai successivi articoli 6-bis o 6-ter.
Ne consegue che l’aver ancorato la “validità” della domanda di partecipazione al bando esclusivamente ad una casella di posta elettronica certificata personale oltre a non trovare una sua legittimazione in una norma primaria, al pari di quella innanzi richiamata, risulta eccessivamente gravosa e preclusiva dell’esercizio di determinati diritti del cittadino.
Come emerge dalla giurisprudenza richiamata, ai fini in esame, rileva la certa identificazione dei partecipanti e l’utilizzo dello strumento informatico indicato, presupposti che, nel caso in esame, sussistono entrambi (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 12.04.2019 n. 1113 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn tema di notificazioni alle persone giuridiche, se la notificazione non può essere eseguita con le modalità di cui all'art. 145, comma 1, c.p.c. -ossia mediante consegna di copia dell'atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa- e nell'atto è indicata la persona fisica che rappresenta l'ente, si osservano, in applicazione del comma 3 del medesimo art. 145, le disposizioni degli art. 138, 139 e 141 c.p.c..
Se neppure l'adozione di tali modalità consente di pervenire alla notificazione, si procede con le formalità dell'art. 140 c.p.c. (nei confronti del legale rappresentante, se indicato nell'atto e purché abbia un indirizzo diverso da quello della sede dell'ente; oppure, nel caso in cui la persona fisica non sia indicata nell'atto da notificare, direttamente nei confronti della società).
Ove neppure ricorrano i presupposti per l'applicazione di tale norma e nell'atto sia indicata la persona fisica che rappresenta l'ente (la quale tuttavia risulti di residenza, dimora e domicilio sconosciuti), la notificazione è eseguibile, nei confronti di detto legale rappresentante, ricorrendo alle formalità dettate dall'art. 143 c.p.c..
---------------
La Giurisprudenza penale ha avuto occasione di occuparsi delle notificazioni a mezzo PEC non andate a buon fine affermando che, se la mancata consegna è dovuta alla "casella piena" del destinatario, si tratta di una causa a lui imputabile (nella specie, la mancata ricezione del messaggio era da imputare alla saturazione della casella PEC in violazione dell'obbligo di verificare l'effettiva disponibilità dello spazio disco).
Ma ciò in quanto il D.M. 21.02.2011, n. 44, art. 20 (recante "Regolamento concernente le regole tecniche per l'adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 07.03.2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi del D.L. 29.12.2009, n. 193, art. 4, commi 1 e 2, convertito nella L. 22.02.2010, n. 24"), disciplina i "requisiti della casella di PEC del soggetto abilitato esterno", imponendo a costui una serie di obblighi finalizzati a "garantire il corretto funzionamento della casella di PEC e, quindi, la regolare ricezione dei messaggi di posta elettronica, tra cui un sistema di alert che avvisi dell'imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare l'effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione" (comma 5).
Di conseguenza, la mancata consegna è imputabile al destinatario nel caso in cui costui, venendo meno agli obblighi previsti dal D.M. n. 44 del 2011, art. 20, non si doti dei necessari strumenti informatici ovvero non ne verifichi l'efficienza.
---------------

Si deve quindi accertare, ai fini della verifica del rispetto dell’ordine istruttorio, se, mediante le notifiche tentate (sia attraverso il servizio postale che a mezzo Pec), parte ricorrente abbia assolto all’obbligo di integrare il contraddittorio contenuto nell’ordinanza n. 1567/2017.
Per quanto attiene la notifica a mezzo posta, sicuramente no.
All’indirizzo della ditta tratto dal certificato camerale la stessa è risultata irreperibile. Allora il ricorrente, correttamente, ha tentato di eseguire la notifica presso il legale rappresentante, nell’indirizzo indicato nel certificato della Camera di Commercio.
Tale opzione risulta correttamente individuata, atteso che l'irreperibilità della società presso la sede risultante dai pubblici registri commerciali, con conseguente impossibilità di eseguire la notificazione alla persona giuridica secondo la previsione del primo e del comma 2 dell'art. 145 c.p.c., giustifica -ai sensi del successivo comma 3- l’adozione delle modalità di cui all'art. 145, u.c., c.p.c. (effettuazione della notificazione alla persona fisica del legale rappresentante).
Ma presso tale indirizzo il destinatario è risultato irreperibile.
A questo punto, tralasciando per un attimo la circostanza che non risulta se il ricorrente abbia accertato, mediante indagini anagrafiche, se la residenza del destinatario fosse nel frattempo cambiata, in ogni caso la notifica avrebbe dovuto essere ripetuta ai sensi dell’articolo 140 cpc ovvero dell’art. 143 cpc.
Occorre ricordare il principio giurisprudenziale secondo il quale "in tema di notificazioni alle persone giuridiche, se la notificazione non può essere eseguita con le modalità di cui all'art. 145, comma 1, c.p.c. -ossia mediante consegna di copia dell'atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa- e nell'atto è indicata la persona fisica che rappresenta l'ente, si osservano, in applicazione del comma 3 del medesimo art. 145, le disposizioni degli art. 138, 139 e 141 c.p.c.; se neppure l'adozione di tali modalità consente di pervenire alla notificazione, si procede con le formalità dell'art. 140 c.p.c. (nei confronti del legale rappresentante, se indicato nell'atto e purché abbia un indirizzo diverso da quello della sede dell'ente; oppure, nel caso in cui la persona fisica non sia indicata nell'atto da notificare, direttamente nei confronti della società); ove neppure ricorrano i presupposti per l'applicazione di tale norma e nell'atto sia indicata la persona fisica che rappresenta l'ente (la quale tuttavia risulti di residenza, dimora e domicilio sconosciuti), la notificazione è eseguibile, nei confronti di detto legale rappresentante, ricorrendo alle formalità dettate dall'art. 143 c.p.c. (TAR Lazio-Latina, 28.05.2004, n. 394; Cassazione civile, sez. III, 05.03.2003, n. 3269)".
Cosa che il ricorrente non ha fatto.
D’altra parte, dall’esame della documentazione prodotta in giudizio non si evince se e che tipo di ricerche anagrafiche siano state eseguite al fine di verificare la persistenza della residenza del destinatario della notificazione nel luogo indicato nel certificato della Camera di Commercio, circostanza decisiva ai fini dell’individuazione della norma del codice di rito applicabile, considerato che, come chiarito da questo Tribunale (sez. I, 13/11/2008, n. 2094), la notificazione può essere effettuata nelle forme prescritte dall'art. 140 c.p.c. per l'ipotesi d'irreperibilità solo quando nella residenza del destinatario non si sia potuta eseguire la consegna perché questi (o altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo da dove, tuttavia, non risulti trasferito, mentre, qualora egli risulti trasferito, la notifica deve essere effettuata applicando la disciplina di cui all'art. 143 cod. proc. civ., quando il notificatore non reperisca il destinatario che, dalle notizie acquisite all'atto della notifica, risulti trasferito in luogo sconosciuto, e cioè qualora si ignori il nuovo luogo di residenza, dimora o domicilio del destinatario, e tale ignoranza non sia superata con le ricerche e richieste di informazioni suggerite nel caso concreto dall'ordinaria diligenza; ciò perché, in caso contrario, la notificazione va eseguita nell'individuato nuovo luogo di effettiva residenza, dimora o domicilio, ai sensi dell'art. 139 c.p.c. e, ove ne ricorrano i presupposti, del successivo art. 140 cpc (giurisprudenza assolutamente costante, richiamata nella citata sentenza).
In ogni caso, che si dovesse applicare l’articolo 140 ovvero l’articolo 143 cpc, parte ricorrente non è ricorsa a nessuna di tali disposizioni, essendosi arrestata alla constatazione della mancata presenza del destinatario nell’indirizzo desunto dal certificato della Camera di Commercio. In altri termini, ammesso che la residenza fosse ancora presso tale indirizzo, il ricorrente avrebbe dovuto richiedere la notificazione nelle forme prescritte dall'art. 140 c.p.c. per l'ipotesi d'irreperibilità.
Occorre a questo punto verificare la regolarità della notifica tentata a mezzo Pec, ma non andata a buon fine in quanto rifiutata dal gestore essendo la casella del destinatario piena.
Si deve osservare che le notificazioni a mezzo Pec (disciplinate dal d.p.c.m. numero 40/2016) costituiscono, tutt’oggi, solo una delle modalità ammesse per l’espletamento dell’attività notificatoria disciplinata dalla legge 21.01.1994 n. 53, pacificamente applicabile al processo amministrativo in virtù di quanto previsto all’articolo 1 della medesima legge e dall’articolo 39, comma 2, c.p.a.
Continuano pertanto a trovare applicazione le norme riguardanti la notificazione a mezzo ufficiale giudiziario ovvero a mezzo del servizio postale, il cui utilizzo risulta indispensabile nei casi in cui la notificazione a mezzo Pec risulti impossibile.
Ora, la Giurisprudenza penale ha avuto occasione di occuparsi delle notificazioni a mezzo PEC non andate a buon fine affermando che, se la mancata consegna è dovuta alla "casella piena" del destinatario, si tratta di una causa a lui imputabile (nella specie, la mancata ricezione del messaggio era da imputare alla saturazione della casella PEC in violazione dell'obbligo di verificare l'effettiva disponibilità dello spazio disco: Cassazione penale, sez. III, 24/11/2017, n. 54141).
Ma ciò in quanto il D.M. 21.02.2011, n. 44, art. 20 (recante "Regolamento concernente le regole tecniche per l'adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 07.03.2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi del D.L. 29.12.2009, n. 193, art. 4, commi 1 e 2, convertito nella L. 22.02.2010, n. 24"), disciplina i "requisiti della casella di PEC del soggetto abilitato esterno", imponendo a costui una serie di obblighi finalizzati a "garantire il corretto funzionamento della casella di PEC e, quindi, la regolare ricezione dei messaggi di posta elettronica, tra cui un sistema di alert che avvisi dell'imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare l'effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione" (comma 5). Di conseguenza, la mancata consegna è imputabile al destinatario nel caso in cui costui, venendo meno agli obblighi previsti dal D.M. n. 44 del 2011, art. 20, non si doti dei necessari strumenti informatici ovvero non ne verifichi l'efficienza.
Tale principio, affermato, peraltro, solo in ambito processuale, comporta, secondo la richiamata sentenza, l’applicazione del D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, secondo cui le notificazioni e le comunicazioni "sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria". Per cui, nonostante la mancata ricezione della comunicazione per causa a lui imputabile, il destinatario è comunque nella condizione di prendere cognizione degli estremi della comunicazione medesima, in quanto il sistema invia un avviso al portale dei servizi telematici, di modo che il difensore destinatario, accedendovi, viene informato dell'avvenuto deposito.
In altri termini, nonostante la mancata ricezione della comunicazione per causa a lui imputabile, il destinatario dev’essere comunque nella condizione di prendere cognizione degli estremi della comunicazione medesima.
Analogamente, la Cassaz. Civ. civile, sez. VI, con dec. 20579 del 30/08/2017 che, in un caso in cui la notifica telematica non è stata consegnata perché presso il gestore ricevente si è verificato un errore tecnico che ha impedito la consegna, e di conseguenza il messaggio è stato rifiutato, ha ritenuto valida la notificazione in cancelleria a norma del D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6 che recita "Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l'obbligo di un indirizzo di posta elettronica, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria”.
La decisione, sostanzialmente, assimila alle ipotesi di mancata consegna, per le quali sovviene l’obbligo del deposito in cancelleria, anche il rifiuto del destinatario per errore del suo stesso server, circostanza, che, conseguentemente, non libera il mittente.
Ciò posto, deve evidenziarsi la peculiarità del caso in esame: anzitutto, trattandosi di vicenda estranea all’ambito processuale, manca la base normativa che consenta di ritenere sussistenti, nei rapporti tra una persona giuridica e la generalità degli altri soggetti privati, quelle stringenti conseguenze in caso di inosservanza degli obblighi di cura del proprio account.
Tra l’altro, come visto, tali conseguenze risultano attenuate dall’obbligo di eseguire, comunque, la notificazione in cancelleria, proprio allo scopo di porre il destinatario nella condizione di prendere cognizione degli estremi della comunicazione medesima.
Non essendo, però, tale modalità utilizzabile in una vicenda, quale quella in esame, relativa alla notifica di un atto introduttivo del giudizio, il mancato perfezionamento della notifica telematica (per causa imputabile al destinatario) comporterebbe -ove non seguito da una notifica a mezzo posta ovvero mediante ufficiale giudiziario- in concreto la mancata conoscenza in capo al destinatario dell’avvenuta notifica di un atto giudiziario.
Ma tale conclusione risulta in evidente contrasto con il principio di effettività del diritto alla difesa.
Viene, allora, in esame l’interessante ricostruzione della decisione del TAR Lazio, sez. III di Roma, 21/11/2016, n. 11614, secondo la quale: <A tenore dell'art. 16, commi 6 e 9, d.l. 29.11.2008, n. 185 (conv. con modif. dalla l. 28.01.2009, n. 2):
   - "Le imprese costituite in forma societaria sono tenute a indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata nella domanda di iscrizione al registro delle imprese o analogo indirizzo di posta elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell'invio e della ricezione delle comunicazioni e l'integrità del contenuto delle stesse, garantendo l'interoperabilità con analoghi sistemi internazionali. Entro tre anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto tutte le imprese, già costituite in forma societaria alla medesima data di entrata in vigore, comunicano al registro delle imprese l'indirizzo di posta elettronica certificata. [...]" (co. 6);
   - "[...] le comunicazioni tra i soggetti di cui ai commi 6, 7 e 8 del presente articolo, che abbiano provveduto agli adempimenti ivi previsti, possono essere inviate attraverso la posta elettronica certificata o analogo indirizzo di posta elettronica di cui al comma 6, senza che il destinatario debba dichiarare la propria disponibilità ad accettarne l'utilizzo" (co. 9; il co. 8 si riferisce alle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001).
Queste disposizioni, nella parte in cui introducono il duplice obbligo della società iscritta nel registro delle imprese di indicare l'indirizzo pec (…….) e di consentirne l'utilizzo indipendentemente da una corrispondente manifestazione di volontà dell'interessata, hanno portata derogatoria della regola generale secondo cui l'utilizzo della pec da parte dei soggetti privati è facoltativo (v. il d.P.R. 11.02.2005, n. 68, regolamento per l'utilizzo della posta elettronica certificata, [...]"; v. anche il d.m. 02.11.2005, recante per l'appunto le "regole tecniche per la formazione, la trasmissione e la validazione, anche temporale, della posta elettronica certificata").
Tale disciplina è stata significativamente innovata nel 2010, nel senso del superamento della facoltatività dell'utilizzo della pec da parte della pubblica amministrazione [...].
L'art. 4 d.lgs. 30.12.2010, n. 235, ha infatti inserito nel d.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale, c.d. Cad), l'art. 5-bis, "Comunicazioni tra imprese e amministrazioni pubbliche (omissis) ".
Il d.P.C.M. 22.07.2011, "Comunicazioni con strumenti informatici tra imprese e amministrazioni pubbliche" (adottato in attuazione dell'art. 5-bis, co. 2, Cad), all'art. 3 stabilisce che a decorrere dal 01.07.2013:
   i) "le pubbliche amministrazioni non possono accettare o effettuare in forma cartacea le comunicazioni" ex art. 5-bis, co. 1, cit. (co. 1);
   ii) "in tutti i casi in cui non è prevista una diversa modalità di comunicazione telematica, le comunicazioni avvengono mediante l'utilizzo della posta elettronica certificata" ai sensi degli artt. 48 e 65, co. 1, lett. c-bis), Cad (co. 2).
L'art. 48 appena menzionato reca la disciplina di principio sulla "posta elettronica certificata", chiarendone ambito applicativo ed efficacia.
Per quanto oggi rileva (e con riferimento alla sola pec), il co. 1 prevede che "La trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica certificata" ai sensi del d.P.R. n. 68/2005 cit. e il co. 2 che "La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta" (omissis).
Giova infine richiamare l'art. 45 Cad, sul "Valore giuridico della trasmissione", secondo cui "Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all'indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore" (co. 2).
Da queste disposizioni si evince dunque che la pec (in assenza di "diversa modalità di comunicazione telematica") è mezzo non solo idoneo, ma ormai esclusivo per le comunicazioni tra pubblica amministrazione e imprese, societarie e, oggi, anche individuali, giusta l'art. 5, co. 1, d.l. 18.10.2012, n. 179 (conv. con modif. dalla l. 17.12.2012, n. 221).
È altresì opportuno ricordare che il co. 3 di detto art. 5 ha istituito l'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata, c.d. INI-PEC, inserendo nel Cad l'art. 6-bis, e che il co. 2 di quest'ultimo articolo è stato da ultimo modificato dall'art. 7 d.lgs. 26.08.2016, n. 179, nel senso che gli indirizzi pec riportati nell'INI-PEC "costituiscono mezzo esclusivo di comunicazione e notifica con i soggetti di cui all'articolo 2, comma 2" (tra cui le pubbliche amministrazioni ex art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001).
Ciò in vista del perseguimento di scopi di semplificazione ed economicità delle comunicazioni tra pubblica amministrazione e imprese (omissis).
…….. Dall'illustrata configurazione delle modalità di interlocuzione formale tra p.a. e imprese e, in particolare, dall'individuazione del canale attraverso cui le inerenti comunicazioni devono ormai avere luogo, discende che sull'impresa titolare della casella di posta elettronica certificata grava un onere di mantenerla in condizioni di efficienza, attraverso l'adozione di ogni accorgimento idoneo a garantirne l'ordinaria operatività (a es. spostamento o eliminazione dei messaggi al fine di impedire l'esaurimento della capacità di ricezione; regolare adempimento delle eventuali obbligazioni assunte nei confronti del gestore del servizio; ecc.).
(omissis)
Sicché, se non ricorre una "causa non imputabile al destinatario", opera la presunzione di ricezione della pec.
Questa conclusione, che costituisce la trasposizione al settore in esame della presunzione di conoscenza disciplinata in via generale dall'art. 1335 cod. civ. (l'indirizzo pec pare infatti rientrare nella più ampia nozione di "indirizzo del destinatario" accolta dalla norma codicistica; v. anche art. 3-bis Cad), (omissis) implica il correlato dovere dell'impresa di vigilare sull'efficienza della casella "ufficiale" di posta elettronica (vale a dire quella inserita nel registro delle imprese e nell'INI-PEC), per tutti gli aspetti rientranti nella propria sfera di controllo.
Si può dunque ritenere che anche per questo tipo di comunicazioni operi la menzionata presunzione di ricezione, superabile solo se il destinatario deduca, dandone prova, che la mancata consegna del messaggio sia dipesa da causa a lui oggettivamente non imputabile.
…………, da quanto sin qui osservato discende ……..che l'impresa titolare dell'indirizzo pec è responsabile della piena funzionalità dell'account indicato nei pubblici registri, con conseguente irrilevanza del mancato perfezionamento del recapito (fin qui TAR Lazio, sez. III di Roma, 21/11/2016, n. 11614)
>.
Osserva il Collegio che, ferma restando l’approfondita ricostruzione di tale decisione, la conclusione cui il Tribunale perviene (non del tutto condivisibile, come si dirà), sarebbe anzitutto riferibile solo ai rapporti con la PA, “essendo precluso all'amministrazione, per le sue comunicazioni formali, il ricorso ai tradizionali sistemi di inoltro della corrispondenza (decisione cit.)”, e non ai rapporti tra privati.
Inoltre, appare discutibile la stessa conclusione circa la presunzione di ricezione, come dimostra anche la disciplina in tema di notifica a mezzo pec degli atti tributari destinati alle imprese individuali o costituite in forma societaria e ai professionisti iscritti in albi o elenchi (art. 60 D.P.R. 29/09/1973, n. 600 come modif. dall'art. 7-quater D.L. 22.10.2016, n. 193)
Il Legislatore, infatti, si è preoccupato di disporre che, se la casella di posta elettronica risulta satura, l'ufficio effettui un secondo tentativo di consegna decorsi almeno sette giorni dal primo invio. Se anche a seguito di tale tentativo la casella di posta elettronica risulta satura oppure se l'indirizzo di posta elettronica del destinatario non risulta valido o attivo, la notificazione deve essere eseguita mediante deposito telematico dell'atto nell'area riservata del sito internet della società InfoCamere Scpa e pubblicazione, entro il secondo giorno successivo a quello di deposito, del relativo avviso nello stesso sito, per la durata di quindici giorni; l'ufficio inoltre dà notizia al destinatario dell'avvenuta notificazione dell'atto a mezzo di lettera raccomandata, senza ulteriori adempimenti a proprio carico.
Tale disciplina evidenzia la preoccupazione del Legislatore di evitare che il vantaggio derivante dalla semplificazione che indubbiamente comporta l’utilizzo delle notificazioni mediante modalità telematica non si traduca in un irrimediabile vulnus di primari diritti dei cittadini, consentendo a vantaggio del mittente una conoscenza meramente fittizia di atti anche enormemente pregiudizievoli per il destinatario.
Pertanto, il punto di equilibrio tra le due esigenze può essere individuato riconducendo le ipotesi di impossibilità di notificazione telematica per fatto imputabile al destinatario (tra le quali la casella piena) alle fattispecie di irreperibilità, per le quali il codice di rito, come noto, non prevede affatto l’esonero del richiedente la notificazione da ogni attività, ma richiede l’utilizzo di specifiche forme di notificazione.
Poiché l’utilizzo di una modalità telematica non può comportare un arretramento in termini di garanzie per il destinatario, ancorché lo stesso si sia reso volontariamente irreperibile, in analogia con le previsioni del codice di rito deve ritenersi che, ove la notificazione telematica non sia andata a buon fine presso l’indirizzo di PEC (del quale -nel caso specifico- l’imprenditore è obbligato a dotarsi, ex D.L. 29.11.2008, n. 185, ex art. 16, convertito, con modificazioni, dalla L. 28.01.2009, n. 2, e che è tenuto a mantenere attivo durante la vita dell'impresa), ai fini di una conoscibilità effettiva dell'atto da notificare, in modo sostanzialmente equipollente a quella conseguibile con i meccanismi ordinari (ufficiale giudiziario e agente postale), sarà necessario eseguire la notificazione (a mezzo sistemi tradizionali: postale o ufficiale giudiziario) presso la sede legale dell'impresa: ossia, presso quell'indirizzo da indicare obbligatoriamente nell'apposito registro ex L. 29.12.1993, n. 580 (Riordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura) e successive modifiche, la cui funzione è proprio quella di assicurare un sistema di pubblicità legale volto a rendere conoscibili i dati concernenti l'impresa.
Ovviamente, in caso di esito negativo di tale secondo meccanismo di notifica, deve farsi ricorso alle modalità previste dal codice di rito nell’ipotesi di irreperibilità.
A conferma, deve ricordarsi che la Corte Costituzionale (decisione del 16.06.2016 n. 146) ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 3, r.d. 16.03.1942, n. 267, come sostituito dall'art. 17, comma 1, lett. a), d.l. 18.10.2012, n. 179, conv., con modif., in l. 17.12.2012, n. 221, censurato, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., ove stabilisce che alla notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento e del decreto di fissazione dell'udienza debba procedere la cancelleria all'indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) del destinatario risultante dal registro delle imprese ovvero dall'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata e che, solo nel caso in cui ciò risulti impossibile, o se la notifica abbia avuto esito negativo, della stessa venga onerato il creditore istante che dovrà procedervi a mezzo di ufficiale giudiziario, il quale, a tal fine, dovrà accedere di persona presso la sede legale del debitore con successivo deposito nella casa comunale, ove il destinatario non sia lì reperito.
La Corte ha ritenuto che non sussista la prospettata violazione dell'art. 3 Cost. rispetto alla notifica ordinaria a persona giuridica, attesa la diversità delle fattispecie poste a confronto, che ne giustifica, in termini di ragionevolezza, la diversa disciplina delle notificazioni, in quanto, a differenza della notifica “ordinaria” di cui all'art. 145 c.p.c. (esclusivamente finalizzata all'esigenza di assicurare alla persona giuridica l'effettivo esercizio del diritto di difesa in relazione agli atti ad essa indirizzati ad alle connesse procedure), la norma censurata si propone di coniugare quella stessa finalità di tutela del diritto di difesa dell'imprenditore collettivo con le esigenze di celerità e speditezza cui deve essere improntato il procedimento concorsuale e, a tal fine appunto, prevede che il tribunale è esonerato dall'adempimento di ulteriori formalità quando la situazione di irreperibilità deve imputarsi all'imprenditore medesimo. La Corte ha anche escluso la violazione dell'art. 24 Cost., atteso che il diritto di difesa, nella sua declinazione di conoscibilità, da parte del debitore, dell'attivazione del procedimento fallimentare a suo carico, è adeguatamente garantito dalla norma denunciata, proprio in ragione del predisposto duplice meccanismo di ricerca della società e, in caso di esito negativo di tale duplice meccanismo di notifica, il deposito dell'atto introduttivo della procedura fallimentare presso la casa comunale ragionevolmente si pone come conseguenza immediata e diretta della violazione, da parte dell'imprenditore collettivo, dei descritti obblighi impostigli dalla legge.
Deve quindi concludersi, a contrario, che all’infuori dell’ipotesi (ad es. procedure concorsuali) in cui la legge riconosca prevalenti le esigenze di celerità e speditezza (nel qual caso è comunque previsto che in caso di insuccesso della notifica telematica deve essere eseguita la notifica a mezzo di ufficiale giudiziario), riprende quota il principio di effettività del diritto di difesa tutelato dall’articolo 24 della Costituzione, che induce ad escludere qualsiasi meccanismo fittizio in relazione alla notifica di atti pregiudizievoli.
Diversamente interpretando il complesso di norme che hanno introdotto nel nostro ordinamento le modalità di notifica telematica, ne deriverebbe una inammissibile violazione (a seconda della scelta operata dal notificante) del principio di eguaglianza tra tale modalità (viziata da un vulnus in termini di garanzie per il diritto alla difesa) e le ordinarie notificazioni previste dal codice di rito a mezzo ufficiale giudiziario ovvero a mezzo posta (che impongono un insieme di attività finalizzate a rendere conoscibile in capo al destinatario l’esistenza di una notificazione); opzione che va esclusa dovendo l’interprete orientarsi nel senso di una interpretazione costituzionalmente orientata.
In conclusione, il ricorso principale dev’essere dichiarato improcedibile stante la consumazione dei termini assegnati con l’ordine di integrazione del contraddittorio senza che il ricorrente abbia provveduto alla notificazione nei confronti di uno dei cd. controinteressati successivi (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 27.02.2018 n. 478 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa pec (in assenza di “diversa modalità di comunicazione telematica”) è mezzo non solo idoneo, ma ormai esclusivo per le comunicazioni tra pubblica amministrazione e imprese, societarie e, oggi, anche individuali, giusta l’art. 5, co. 1, d.l. 18.10.2012, n. 179 (conv. con modif. dalla l. 17.12.2012, n. 221).
È altresì opportuno ricordare che il co. 3 di detto art. 5 ha istituito l’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata, c.d. INI-PEC, inserendo nel Cad l’art. 6-bis, e che il co. 2 di quest’ultimo articolo è stato da ultimo modificato dall’art. 7 d.lgs. 26.08.2016, n. 179, nel senso che gli indirizzi pec riportati nell’INI-PEC “costituiscono mezzo esclusivo di comunicazione e notifica con i soggetti di cui all’articolo 2, comma 2” (tra cui le pubbliche amministrazioni ex art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001).
Ciò in vista del perseguimento di scopi di semplificazione ed economicità delle comunicazioni tra pubblica amministrazione e imprese.
Dall’illustrata configurazione delle modalità di interlocuzione formale tra p.a. e imprese e, in particolare, dall’individuazione del canale attraverso cui le inerenti comunicazioni devono ormai avere luogo, discende che sull’impresa titolare della casella di posta elettronica certificata grava un onere di mantenerla in condizioni di efficienza, attraverso l’adozione di ogni accorgimento idoneo a garantirne l’ordinaria operatività (a es. spostamento o eliminazione dei messaggi al fine di impedire l’esaurimento della capacità di ricezione; regolare adempimento delle eventuali obbligazioni assunte nei confronti del gestore del servizio; ecc.).
Nella disciplina del processo telematico –avente carattere di specialità rispetto al quadro generale delineato dal Cad (v. art. 2, co. 6, ult. per., Cad, introdotto dal d.lgs. n. 179/2016 cit., secondo cui le disposizioni del Cad “si applicano altresì al processo civile, penale, amministrativo, contabile e tributario, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo telematico”)– gli effetti della negligenza del destinatario nella tenuta della casella di posta sono desumibili dall’art. 16, co. 8, d.l. n. 179/2012 cit., che prevede l’applicazione degli artt. 136, 3° co., e 137 ss. c.p.c., in materia di notificazioni, quando non è possibile procedere alla comunicazione di cancelleria a mezzo pec “per causa non imputabile al destinatario” (ciò con riferimento al processo civile nonché, in forza dell’art. 16, co. 17-bis, d.l. cit., al processo amministrativo telematico; v. anche art. 15, 3° co., r.d. 16.03.1942, n. 267, come sostituito dall’art. 17 d.l. cit.).
Sicché, se non ricorre una “causa non imputabile al destinatario”, opera la presunzione di ricezione della pec.
Questa conclusione, che costituisce la trasposizione al settore in esame della presunzione di conoscenza disciplinata in via generale dall’art. 1335 cod. civ. (l’indirizzo pec pare infatti rientrare nella più ampia nozione di “indirizzo del destinatario” accolta dalla norma codicistica; v. anche art. 3-bis Cad), sembra applicabile anche all’ipotesi per cui è controversia, in cui, come si è detto, non rileva più la volontà dell’impresa in ordine all’utilizzo della pec (ex art. 16, co. 9, d.l. n. 185/2008) ed è ormai precluso all’amministrazione, per le sue comunicazioni formali, il ricorso ai tradizionali sistemi di inoltro della corrispondenza.
Ciò implica il correlato dovere dell’impresa di vigilare sull’efficienza della casella “ufficiale” di posta elettronica (vale a dire quella inserita nel registro delle imprese e nell’INI-PEC), per tutti gli aspetti rientranti nella propria sfera di controllo.
Si può dunque ritenere che anche per questo tipo di comunicazioni operi la menzionata presunzione di ricezione, superabile solo se il destinatario deduca, dandone prova, che la mancata consegna del messaggio sia dipesa da causa a lui oggettivamente non imputabile.
---------------

2.1. Con il primo mezzo egli lamenta l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento.
L’amministrazione deduce di avere effettuato regolarmente l’adempimento attraverso l’invio della comunicazione (risalente al 09.07.2014) a mezzo pec, all’indirizzo risultante dalla visura camerale (all. 6 amm.: “...@pec.it"), invio che però ha avuto esito negativo (v. all. 7 amm.: “user unknomn” “il messaggio è stato rifiutato dal sistema”).
L’esame della doglianza richiede una breve illustrazione della disciplina d’interesse.
2.1.1. A tenore dell’art. 16, commi 6 e 9, d.l. 29.11.2008, n. 185 (conv. con modif. dalla l. 28.01.2009, n. 2):
   - “Le imprese costituite in forma societaria sono tenute a indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata nella domanda di iscrizione al registro delle imprese o analogo indirizzo di posta elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell’invio e della ricezione delle comunicazioni e l’integrità del contenuto delle stesse, garantendo l’interoperabilità con analoghi sistemi internazionali. Entro tre anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto tutte le imprese, già costituite in forma societaria alla medesima data di entrata in vigore, comunicano al registro delle imprese l’indirizzo di posta elettronica certificata. […]” (co. 6);
   - “[…] le comunicazioni tra i soggetti di cui ai commi 6, 7 e 8 del presente articolo, che abbiano provveduto agli adempimenti ivi previsti, possono essere inviate attraverso la posta elettronica certificata o analogo indirizzo di posta elettronica di cui al comma 6, senza che il destinatario debba dichiarare la propria disponibilità ad accettarne l’utilizzo” (co. 9; il co. 8 si riferisce alle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001).
Queste disposizioni, nella parte in cui introducono il duplice obbligo della società iscritta nel registro delle imprese di indicare l’indirizzo pec (o “analogo indirizzo di posta elettronica” avente le caratteristiche di cui al co. 6; per comodità espositiva si continuerà a fare riferimento alla pec) e di consentirne l’utilizzo indipendentemente da una corrispondente manifestazione di volontà dell’interessata, hanno portata derogatoria della regola generale secondo cui l’utilizzo della pec da parte dei soggetti privati è facoltativo (v. il d.P.R. 11.02.2005, n. 68, regolamento per l’utilizzo della posta elettronica certificata, che all’art. 4, co. 5, demanda alle “regole tecniche” la definizione delle “modalità attraverso le quali il privato comunica la disponibilità all’utilizzo della posta elettronica certificata […] o l’eventuale cessazione della disponibilità […]”; v. anche il d.m. 02.11.2005, recante per l’appunto le “regole tecniche per la formazione, la trasmissione e la validazione, anche temporale, della posta elettronica certificata”).
Tale disciplina è stata significativamente innovata nel 2010, nel senso del superamento della facoltatività dell’utilizzo della pec da parte della pubblica amministrazione (caratteristica desumibile dal tenore testuale dell’art. 16, co. 9, cit., secondo cui “le comunicazioni […] possono essere inviate”).
L’art. 4 d.lgs. 30.12.2010, n. 235, ha infatti inserito nel d.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale, c.d. Cad), l’art. 5-bis, “Comunicazioni tra imprese e amministrazioni pubbliche”, di cui giova riportare il comma 1: “La presentazione di istanze, dichiarazioni, dati e lo scambio di informazioni e documenti, anche a fini statistici, tra le imprese e le amministrazioni pubbliche avviene esclusivamente utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Con le medesime modalità le amministrazioni pubbliche adottano e comunicano atti e provvedimenti amministrativi nei confronti delle imprese” (enf. agg.).
Il d.P.C.M. 22.07.2011, “Comunicazioni con strumenti informatici tra imprese e amministrazioni pubbliche” (adottato in attuazione dell’art. 5-bis, co. 2, Cad), all’art. 3 stabilisce che a decorrere dal 01.07.2013:
   i) “le pubbliche amministrazioni non possono accettare o effettuare in forma cartacea le comunicazioni” ex art. 5-bis, co. 1, cit. (co. 1);
   ii) “in tutti i casi in cui non è prevista una diversa modalità di comunicazione telematica, le comunicazioni avvengono mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata” ai sensi degli artt. 48 e 65, co. 1, lett. c-bis), Cad (co. 2).
L’art. 48 appena menzionato reca la disciplina di principio sulla “posta elettronica certificata”, chiarendone ambito applicativo ed efficacia.
Per quanto oggi rileva (e con riferimento alla sola pec), il co. 1 prevede che “La trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica certificata” ai sensi del d.P.R. n. 68/2005 cit. e il co. 2 che “La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta” (con la finale puntualizzazione che “La data e l’ora di trasmissione e di ricezione di un documento informatico trasmesso ai sensi del comma 1 sono opponibili ai terzi se conformi alle disposizioni” di cui al d.P.R. n. 68/2005 e alle relative regole tecniche; co. 3).
Giova infine richiamare l’art. 45 Cad, sul “Valore giuridico della trasmissione”, secondo cui “Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all’indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore” (co. 2).
Da queste disposizioni si evince dunque che la pec (in assenza di “diversa modalità di comunicazione telematica”) è mezzo non solo idoneo, ma ormai esclusivo per le comunicazioni tra pubblica amministrazione e imprese, societarie e, oggi, anche individuali, giusta l’art. 5, co. 1, d.l. 18.10.2012, n. 179 (conv. con modif. dalla l. 17.12.2012, n. 221).
È altresì opportuno ricordare che il co. 3 di detto art. 5 ha istituito l’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata, c.d. INI-PEC, inserendo nel Cad l’art. 6-bis, e che il co. 2 di quest’ultimo articolo è stato da ultimo modificato dall’art. 7 d.lgs. 26.08.2016, n. 179, nel senso che gli indirizzi pec riportati nell’INI-PEC “costituiscono mezzo esclusivo di comunicazione e notifica con i soggetti di cui all’articolo 2, comma 2” (tra cui le pubbliche amministrazioni ex art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001).
Ciò in vista del perseguimento di scopi di semplificazione ed economicità delle comunicazioni tra pubblica amministrazione e imprese (v., da ultimo, il parere Cons. Stato, comm. spec., n. 785/2016, reso nell’adunanza 17.03.2016 sullo schema del d.lgs. n. 179/2016, che fa riferimento al “nuovo corso” del “processo di digitalizzazione e di utilizzo delle nuove tecnologie sia da parte della PA sia da parte dei cittadini e delle imprese che interagiscono con essa, nuovo corso che determinerà maggiore efficienza dell’apparato pubblico, incremento del grado di soddisfazione dei cittadini relativamente ai servizi resi dall’Amministrazione nonché risparmi in termini di risorse pubbliche e private […]”).
2.2.2. Dall’illustrata configurazione delle modalità di interlocuzione formale tra p.a. e imprese e, in particolare, dall’individuazione del canale attraverso cui le inerenti comunicazioni devono ormai avere luogo, discende che sull’impresa titolare della casella di posta elettronica certificata grava un onere di mantenerla in condizioni di efficienza, attraverso l’adozione di ogni accorgimento idoneo a garantirne l’ordinaria operatività (a es. spostamento o eliminazione dei messaggi al fine di impedire l’esaurimento della capacità di ricezione; regolare adempimento delle eventuali obbligazioni assunte nei confronti del gestore del servizio; ecc.).
Nella disciplina del processo telematico –avente carattere di specialità rispetto al quadro generale delineato dal Cad (v. art. 2, co. 6, ult. per., Cad, introdotto dal d.lgs. n. 179/2016 cit., secondo cui le disposizioni del Cad “si applicano altresì al processo civile, penale, amministrativo, contabile e tributario, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo telematico”)– gli effetti della negligenza del destinatario nella tenuta della casella di posta sono desumibili dall’art. 16, co. 8, d.l. n. 179/2012 cit., che prevede l’applicazione degli artt. 136, 3° co., e 137 ss. c.p.c., in materia di notificazioni, quando non è possibile procedere alla comunicazione di cancelleria a mezzo pec “per causa non imputabile al destinatario” (ciò con riferimento al processo civile nonché, in forza dell’art. 16, co. 17-bis, d.l. cit., al processo amministrativo telematico; v. anche art. 15, 3° co., r.d. 16.03.1942, n. 267, come sostituito dall’art. 17 d.l. cit.).
Sicché, se non ricorre una “causa non imputabile al destinatario”, opera la presunzione di ricezione della pec.
Questa conclusione, che costituisce la trasposizione al settore in esame della presunzione di conoscenza disciplinata in via generale dall’art. 1335 cod. civ. (l’indirizzo pec pare infatti rientrare nella più ampia nozione di “indirizzo del destinatario” accolta dalla norma codicistica; v. anche art. 3-bis Cad), sembra applicabile anche all’ipotesi per cui è controversia, in cui, come si è detto, non rileva più la volontà dell’impresa in ordine all’utilizzo della pec (ex art. 16, co. 9, d.l. n. 185/2008) ed è ormai precluso all’amministrazione, per le sue comunicazioni formali, il ricorso ai tradizionali sistemi di inoltro della corrispondenza.
Ciò implica il correlato dovere dell’impresa di vigilare sull’efficienza della casella “ufficiale” di posta elettronica (vale a dire quella inserita nel registro delle imprese e nell’INI-PEC), per tutti gli aspetti rientranti nella propria sfera di controllo.
Si può dunque ritenere che anche per questo tipo di comunicazioni operi la menzionata presunzione di ricezione, superabile solo se il destinatario deduca, dandone prova, che la mancata consegna del messaggio sia dipesa da causa a lui oggettivamente non imputabile (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, sentenza 21.11.2016 n. 11614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa giurisprudenza amministrativa si è già pronunciata sull’argomento affermando che “La notifica telematica si perfeziona con l'accettazione del messaggio da parte del sistema di posta elettronica certificata del destinatario”.
Più in dettaglio, in materia di comunicazione dell’aggiudicazione, si è precisato che “La comunicazione dell'aggiudicazione, ai sensi dell'art. 79, d.lgs. n. 163 del 2006, che sia effettuata a mezzo di posta elettronica certificata, si intende avvenuta nella data indicata nella ricevuta di avvenuta consegna fornita al mittente dal gestore di posta elettronica certificata utilizzato dal destinatario” e ciò sulla scorta del rilievo, più sopra enucleato dall’art. 45, comma 2, del Codice, che “la disciplina richiamata prevede espressamente che la ricevuta di avvenuta consegna fornisce al mittente la prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento della consegna mediante un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione”.
---------------
Del pari ininfluente è la circostanza che il destinatario abbia o meno acceduto alla posta certificata ed abbia effettivamente letto il messaggio.
L’art. 45, comma 2 cit., scolpisce infatti un meccanismo di legale conoscenza del tutto analogo a quello definito per la posta tradizionale dall’art. 8, comma 4, della L. n. 890/1982, secondo il quale la notifica mediante raccomandata postale si considera perfezionata decorsi dieci giorni dall’invio al destinatario dell’atto notificando, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, dell’avviso di avvenuto deposito (c.d. C.A.D.) all’ufficio postale della prima raccomandata inesitata per temporanea assenza del destinatario.
Sul punto la richiamata sentenza ha condivisibilmente precisato infatti che “Il momento in cui il destinatario legge il messaggio è del tutto irrilevante ai fini della conoscenza legale del documento trasmesso; conoscenza che si correla al fatto che il documento sia stato trasmesso secondo le modalità tecniche previste per l'uso della PEC, attestata dalla ricevuta di avvenuta consegna, atteso che la trasmissione così effettuata "è valida agli effetti di legge".
---------------
Il legislatore ha concepito l’impiego della posta elettronica certificata come un favor sia per il privato che per la pubblica amministrazione, istituendo conseguentemente una facultas agendi il cui esercizio non è sottoposto a termini di decadenza o a previe assunzioni di impegno al relativo esercizio, nel senso che sia la pubblica amministrazione che il privato, quand’anche abbiano fino ad un certo momento fatto uso di mezzi tradizionali di comunicazione, possono in qualsiasi momento avvalersi dello strumento semplificato e snello della comunicazione mediante posta elettronica certificata.
La creazione dello strumento della posta certificata risponde ad istanze di ammodernamento, snellimento e accelerazione delle comunicazioni tra privato e pubblica amministrazione, permeate da una finalità agevolativa delle trasmissioni del pensiero che muove sia nell’interesse dei cittadini che in quello della pubblica amministrazione.
Così come, infatti, per i privati i documenti trasmessi ad una pubblica amministrazione in formato digitale sono validi ed efficaci e soddisfano il requisito della forma scritta e “la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale” (art. 45, comma 1, d.lgs. n. 82/2005), altrettanto deve ritenersi per i documenti inviati da una pubblica amministrazione ad un privato, discendendone che l’avvenuta trasmissione di un atto amministrativo per via digitale ed informatica esime la P.A. dall’effettuare la trasmissione del documento in originale.
Corollario della ricostruita valenza forale della trasmissione documentale effettuata mediante posta certificata è la sussistenza di un onere di tutti i soggetti dell’ordinamento, sia pubblici che privati, i quali si avvalgano e si dotino dello strumento della posta certificata, di vigilare quotidianamente sulla loro casella di posta elettronica, onde verificare lo stato delle comunicazioni ricevute e prendere effettivamente conoscenza dei messaggi e dei relativi allegati ricevuti.
Ad un’istanza agevolativa, perseguita mediante l’istituzionalizzazione dei sistemi di comunicazione elettronica certificata deve fare da contraltare un canone di autoresponsabilizzazione che impone a chiunque si doti di un indirizzo di p.e.c., di attivarsi a verificare e leggere la posta ricevuta, in ossequio al broccardo cuius commoda eius et incommoda.
---------------

2.2. Deve ora il Collegio interrogarsi sul valore giuridico agli effetti processuali delle trasmissioni di atti amministrativi effettuate mediante l’impiego della posta certificata.
Osserva al riguardo che l’impiego di tale mezzo elettronico di comunicazione è contemplato dal d.lgs. 07.03.2005, n. 82, recante il codice dell’amministrazione digitale.
A norma del’art. 20 del Codice, dunque, “Il documento informatico da chiunque formato, la memorizzazione su supporto informatico e la trasmissione con strumenti telematici conformi alle regole tecniche di cui all'articolo 71 sono validi e rilevanti agli effetti di legge, ai sensi delle disposizioni del presente codice”.
A sua volta l’art. 45, comma 2, del d.lgs. n. 82/2005, in vigore dal 20.01.2011 e quindi da una data precedente all’adozione e alla trasmissione dell’impugnato decreto di revoca, stabilisce a chiare note che “Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all'indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore”.
Orbene, nel caso all’esame del Collegio è documentata, come sopra illustrato, l’avvenuta spedizione e la relativa consegna, concretata dalla disponibilità del documento all’indirizzo elettronico della A.S., del messaggio originale con allegato sia il decreto di revoca, che il file contenente l’allegato “daticert.xml”, recante informazioni di dettaglio e di servizio sulla trasmissione.
Il messaggio e l’allegato decreto sono stati dunque resi disponibili all’indirizzo di posta elettronica della A.S. destinataria, messo a disposizione dal gestore della posta certificata, conseguendone che a norma dell’art. 45, comma 2, sopra riportato del codice dell’amministrazione digitale, deve ritenersi perfezionata la consegna al destinatario del decreto di revoca impugnato.
2.3. A nulla rileva la modalità con la quale il mittente sia venuto in possesso dell’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario, poiché a siffatta modalità il legislatore non annette alcun valore dirimente e qualificante nel paradigma normativo che definisce il perfezionarsi della conoscenza legale della comunicazione.
Non assume pertanto, contrariamente alla linea difensiva propugnata dal ricorrente, circostanza escludente la delineata acquisita conoscenza legale della comunicazione del provvedimento, il dato che è solo con l’art. 5, comma 3, del d.l. 18.10.2012 n. 179, successivo dunque all’adozione del decreto impugnato, che, mediante l’inserimento dell’art. 6-bis al d.lgs. n. 82/2005, è stato istituito l’Indice Nazionale degli indirizzi p.e.c. ai quali la P.A. può direttamente attingere prescindendo dalla dichiarazione del privato.
Ciò che infatti rileva nella parabola normativa che delinea il perfezionamento della comunicazione, è l’invio in sé del documento all’indirizzo di posta certificata del destinatario messa a disposizione dal gestore, irrilevante essendo la modalità con la quale il mittente sia venuto a conoscenza dell’indirizzo medesimo.
La giurisprudenza amministrativa si è già del resto pronunciata sull’argomento, sia pur su casi settoriali e non nei termini generali qui affrontati, affermando che “La notifica telematica si perfeziona con l'accettazione del messaggio da parte del sistema di posta elettronica certificata del destinatario.” (TAR Toscana, Sez. I, 09/05/2013 n. 745).
Più in dettaglio, in materia di comunicazione dell’aggiudicazione, si è precisato che “La comunicazione dell'aggiudicazione, ai sensi dell'art. 79, d.lgs. n. 163 del 2006, che sia effettuata a mezzo di posta elettronica certificata, si intende avvenuta nella data indicata nella ricevuta di avvenuta consegna fornita al mittente dal gestore di posta elettronica certificata utilizzato dal destinatario” e ciò sulla scorta del rilievo, più sopra enucleato dall’art. 45, comma 2, del Codice, che “la disciplina richiamata prevede espressamente che la ricevuta di avvenuta consegna fornisce al mittente la prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento della consegna mediante un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione” (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, 03/12/2013, n. 2677).
Del pari ininfluente è la circostanza che il destinatario abbia o meno acceduto alla posta certificata ed abbia effettivamente letto il messaggio e il decreto ad esso allegato.
L’art. 45, comma 2 cit., scolpisce infatti un meccanismo di legale conoscenza del tutto analogo a quello definito per la posta tradizionale dall’art. 8, comma 4, della L. n. 890/1982, secondo il quale la notifica mediante raccomandata postale si considera perfezionata decorsi dieci giorni dall’invio al destinatario dell’atto notificando, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, dell’avviso di avvenuto deposito (c.d. C.A.D.) all’ufficio postale della prima raccomandata inesitata per temporanea assenza del destinatario.
Sul punto la richiamata sentenza ha condivisibilmente precisato infatti che “Il momento in cui il destinatario legge il messaggio è del tutto irrilevante ai fini della conoscenza legale del documento trasmesso; conoscenza che si correla al fatto che il documento sia stato trasmesso secondo le modalità tecniche previste per l'uso della PEC, attestata dalla ricevuta di avvenuta consegna, atteso che la trasmissione così effettuata "è valida agli effetti di legge" (TAR Lombardia Milano, Sez. II, n. 2677/2013 cit.).
2.4. Né, per le medesime ragioni, può assumere rilievo la circostanza che le parti abbiano utilizzato nel procedimento amministrativo culminato con l’adozione dell’impugnato provvedimento di revoca, gli strumenti tradizionali di comunicazione.
Si oppone, infatti, a siffatta pretesa natura escludente sostenuta dalla difesa della ricorrente, la considerazione che il legislatore ha concepito l’impiego della posta elettronica certificata come un favor sia per il privato che per la pubblica amministrazione, istituendo conseguentemente una facultas agendi il cui esercizio non è sottoposto a termini di decadenza o a previe assunzioni di impegno al relativo esercizio, nel senso che sia la pubblica amministrazione che il privato, quand’anche abbiano fino ad un certo momento fatto uso di mezzi tradizionali di comunicazione, possono in qualsiasi momento avvalersi dello strumento semplificato e snello della comunicazione mediante posta elettronica certificata.
Rimarca in chiave di interpretazione storico-evolutiva il Collegio che la creazione dello strumento della posta certificata risponde ad istanze di ammodernamento, snellimento e accelerazione delle comunicazioni tra privato e pubblica amministrazione, permeate da una finalità agevolativa delle trasmissioni del pensiero che muove sia nell’interesse dei cittadini che in quello della pubblica amministrazione.
Così come, infatti, per i privati i documenti trasmessi ad una pubblica amministrazione in formato digitale sono validi ed efficaci e soddisfano il requisito della forma scritta e “la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale” (art. 45, comma 1, d.lgs. n. 82/2005), altrettanto deve ritenersi per i documenti inviati da una pubblica amministrazione ad un privato, discendendone che l’avvenuta trasmissione di un atto amministrativo per via digitale ed informatica esime la P.A. dall’effettuare la trasmissione del documento in originale.
2.5. Osterebbe, invero, il principio di uguaglianza tra cittadino e amministrazione radicato nell’art. 3 Cost., alla tesi che vorrebbe vigente un differenziato regime formale tra gli atti trasmessi da privati e quelli formati e/o trasmessi dalla P.A., regime, deteriore per quest’ultima, predicante l’esonero a favore del solo privato ex art. 45, comma 1, d.lgs. cit. appena riportato, dell’onere della trasmissione del documento originale già inviato in formato elettronico.
Corollario della ricostruita valenza forale della trasmissione documentale effettuata mediante posta certificata è la sussistenza di un onere di tutti i soggetti dell’ordinamento, sia pubblici che privati, i quali si avvalgano e si dotino dello strumento della posta certificata, di vigilare quotidianamente sulla loro casella di posta elettronica, onde verificare lo stato delle comunicazioni ricevute e prendere effettivamente conoscenza dei messaggi e dei relativi allegati ricevuti.
Ad un’istanza agevolativa, perseguita mediante l’istituzionalizzazione dei sistemi di comunicazione elettronica certificata deve fare da contraltare un canone di autoresponsabilizzazione che impone a chiunque si doti di un indirizzo di p.e.c., di attivarsi a verificare e leggere la posta ricevuta, in ossequio al broccardo cuius commoda eius et incommoda.
2.6. Del resto l’esattezza e il realismo della linea ermeneutica che la Sezione ritiene di dover enunciare con la presente sentenza, rinviene una plausibile cartina di tornasole nella considerazione che è la ricorrente stessa ad affermare in ricorso di non aver mai ricevuto notifica o comunicazione tradizionale del decreto gravato, ragion per cui deve inferirsi che l’unica modalità attraverso la quale essa ha acquisito la conoscenza del provvedimento è data dalla avvenuta sua comunicazione mediante p.e.c.
E la conoscenza legale del documento sottesa all’utilizzo della posta certificata è da individuare nell’avvenuta consegna del messaggio da parte del gestore utilizzato dalla destinataria odierna ricorrente, situandosi nell’area dell’indifferente giuridico l’eventuale diverso e postumo momento in cui la destinataria abbia aperto l’e-mail certificata e letto il relativo contenuto, essendo suo preciso onere, lo si ribadisce, controllare, aprire e leggere tutti i messaggi informatici ricevuti.
Non può, altrimenti detto, la ricorrente, procrastinare a suo uso e consumo il dies perfezionativo della conoscenza onde posporre il termine decadenziale per ricorrere, non avendo oltretutto a tal fine, allegato né documentato cause di forza maggiore che le avrebbero in ipotesi impedito di prendere effettiva conoscenza del messaggio elettronico recante in allegato il decreto gravato in una data successiva alla sua messa a disposizione da parte del gestore di posta certificata (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.03.2014 n. 1875 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIVa ribadita l’assenza di qualsivoglia presunzione di conoscenza del messaggio di posta elettronica derivante dalla sua semplice trasmissione all'indirizzo PEC indicato dal destinatario.
Al contrario, la legge si premura di sancire espressamente che è solo mediante la "ricevuta di avvenuta consegna" che il mittente acquisisce la prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo di posta elettronico del destinatario.
Quindi, una presunzione di conoscenza può eventualmente ricorrere solo una volta intervenuta la ricevuta di avvenuta consegna.

---------------

6.1 L'uso della posta elettronica certificata nell'ambito dei rapporti tra pubblica amministrazione e privato è disciplinato dal D.P.R. 11.02.2005 n. 68. L’esistenza di una puntuale e specifica fonte normativa esclude la possibilità di richiami analogici a discipline collaterali, non direttamente pertinenti, quale quella invocata dalla parte resistente con riferimento all’art. 136 del D.lgs. 104/2010.
6.2 Dunque, l’art. 3 del D.P.R. 11.02.2005 n. 68 statuisce che «il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all'indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore».
Ai sensi del successivo art. 4, "la posta elettronica certificata consente l'invio di messaggi la cui trasmissione è valida agli effetti di legge. La validità della trasmissione e ricezione del messaggio di posta elettronica certificata è attestata rispettivamente dalla ricevuta di accettazione e dalla ricevuta di avvenuta consegna, di cui all'art. 6”.
Quest’ultimo articolo, infine, chiarisce che "il gestore di posta elettronica certificata utilizzata dal mittente fornisce al mittente stesso la ricevuta di accettazione nella quale sono contenuti i dati di certificazione che costituiscono prova dell'avvenuta spedizione di un messaggio di posta elettronica certificata. Il gestore di posta elettronica certificata utilizzato dal destinatario fornisce al mittente, all'indirizzo elettronico del mittente, la ricevuta di avvenuta consegna. La ricevuta di avvenuta consegna fornisce al mittente prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo di posta elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento della consegna tramite un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione".
6.3 Dal quadro normativo sin qui richiamato è immediato desumere l’assenza di qualsivoglia presunzione di conoscenza del messaggio di posta elettronica derivante dalla sua semplice trasmissione all'indirizzo PEC indicato dal destinatario. Al contrario, la legge in esame si premura di sancire espressamente che è solo mediante la ricevuta di avvenuta consegna che il mittente acquisisce la prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo di posta elettronico del destinatario. Quindi, una presunzione di conoscenza può eventualmente ricorrere solo una volta intervenuta la ricevuta di avvenuta consegna.
6.4 Nel caso di specie detta ricevuta non è mai stata vantata o esibita a riprova dell’avvenuta consegna del messaggio.
Si deve quindi concludere che l’amministrazione non ha regolarmente ottemperato alle modalità di inoltro e di ricezione dei messaggi telematici, secondo i criteri che essa stessa si era imposta, nell’avviso pubblico di avvio della procedura negoziata, a massima garanzia del buon fine delle comunicazioni (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 06.02.2014 n. 222 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aggiornamento al 18.05.2022

Abusi edilizi (ed altro):
accedere coattivamente nel domicilio per svolgervi un'attività di accertamento di illeciti amministrativi presuppone la necessità del preventivo nulla-osta dell'autorità giudiziaria.

EDILIZIA PRIVATA: Poteri di vigilanza urbanistico-edilizia – Facoltà di accedere coattivamente nel domicilio al fine di accertare illeciti amministrativi – Insussistenza – Art. 14 Cost. – Art. 27 d.P.R. n. 380/2001 – Art. 13, c. 4, L. n. 689/1981.
Il comune, a fronte degli esposti presentati dai ricorrenti, ha chiesto e sollecitato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale l’autorizzazione ad effettuare l’accesso presso l’immobile del controinteressato, in quanto luogo di privata dimora, per potervi svolgere i necessari accertamenti e verificarne la regolarità urbanistico-edilizia.
Circa la necessità del nulla osta dell'autorità giudiziaria, come chiarito in una recente sentenza di questa stessa sezione, “basti rammentare che l'art. 14 Cost. sancisce l'inviolabilità del domicilio, presso il quale l'esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie prescritte dalla legge per la tutela della libertà personale, ovvero alle previsioni di leggi speciali nell'ipotesi di ispezioni da eseguirsi per motivi di sanità e incolumità pubblica.
L'art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri di vigilanza urbanistico-edilizia dell'amministrazione, non contiene alcuna previsione dalla quale possa ricavarsi che detti poteri includano la facoltà di accedere coattivamente nel domicilio per svolgervi un'attività di accertamento di illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà -che la garanzia costituzionale del domicilio non consente di desumere in via interpretativa quale potere implicito- non è prevista neppure ai fini dell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria al di fuori dell'ipotesi, che qui certo non ricorre, degli accertamenti urgenti disciplinati dall'art. 354 c.p.p..
L'assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo al domicilio, ma) a luoghi di proprietà privata per l'accertamento di eventuali abusi edilizi è confermata dalla legge n. 689/1981, recante la disciplina fondamentale in materia di sanzioni amministrative, che, all'art. 13, co. 4, esige l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria per l'accesso ispettivo "ai luoghi diversi dalla privata dimora", volendo significare, a contrario, che nei luoghi di privata dimora il potere di ispezione finalizzato all'accertamento di illeciti amministrativi non può essere esercitato affatto”.
---------------

1. Il sig. Ve.Ra. è proprietario di terreni e fabbricati posti in Poggibonsi, località ..., censiti al foglio di mappa n. 66, particelle nn. 93, 116, 135, 256, 257, 258, 259, 260, 261.
A confine con detti beni si trova l’immobile di proprietà del fratello, sig. Ve.Ni., censito con la particella n. 119, del medesimo foglio di mappa n. 66.
Con note del 09.04.2021 e del 16.08.2021, il sig. Ve.Ra., per il tramite del tecnico incaricato, ha denunciato ex art. 27 d.P.R. 380/2001 l’abusiva trasformazione di locali di sgombero, termo e lavanderia posti al piano terreno del confinante edificio di proprietà del controinteressato in locali di abitazione principale (cucina, camera e bagno), lamentando che la stessa provocherebbe un incremento del carico urbanistico sull’area e, in particolare, un maggior transito sulla strada che consente l’accesso ai due edifici, in comproprietà con il fratello.
2. Con l’odierno gravame i ricorrenti lamentano che il Comune sarebbe rimasto inerte a fronte di tali denunce, nonostante lo stesso possieda già una serie di elementi dai quali poter desumere la fondatezza delle segnalazioni formulate, violando così l’obbligo di attivare i poteri di vigilanza attribuiti dall’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001 e di concludere il relativo procedimento con un provvedimento espresso entro il termine generale di 30 giorni.
Essi chiedono che, accertata l’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione, la stessa sia condannata ad attivare il procedimento di vigilanza e a concluderlo entro un termine stabilito dal giudice, con condanna al pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell’adempimento e nomina di un commissario ad acta in caso di perdurante inerzia.
3. Il Comune di Poggibonsi si è costituito, eccependo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per mancanza di un concreto pregiudizio a danno dei ricorrenti, riconducibile ai presunti abusi realizzati sul fondo del sig. Ve.Ni. e chiedendo la reiezione del gravame nel merito, posto che a carico del Comune non sarebbe comunque configurabile un’inerzia colpevole.
L’amministrazione, invero, si sarebbe diligentemente attivata per ottenere dalla Procura della Repubblica l’autorizzazione ad accedere presso la dimora del controinteressato per ispezionare i locali oggetto delle suddette segnalazioni, senza tuttavia ricevere alcun riscontro; né, d’altra parte, sarebbe in condizione di adottare un provvedimento senza il preventivo sopralluogo e l’accertamento in ordine al reale stato dei beni.
4. Il ricorrente ha altresì formulato istanza istruttoria chiedendo al Tribunale di ordinare all’Agenzia delle Entrate di Siena di trasmettere la planimetria dell’abitazione del controinteressato censita al Catasto Fabbricati del Comune di Poggibonsi al foglio di mappa n. 66 con la particella n. 119 e subalterno n. 3, quale prova della perdurante esistenza dell’abusiva trasformazione di locali deposito in abitazione; nella pendenza del giudizio tale documento è stato fornito spontaneamente ai ricorrenti dalla stessa Agenzia delle Entrate.
...
7. Fermo quanto appena rilevato in ordine all’inammissibilità del gravame, lo stesso si rivela comunque palesemente infondato, posto che nella fattispecie non è configurabile l’inerzia colpevole del Comune.
Quest’ultimo, infatti, a fronte degli esposti presentati dai ricorrenti, ha chiesto e sollecitato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Siena l’autorizzazione ad effettuare l’accesso presso l’immobile del controinteressato, in quanto luogo di privata dimora, per potervi svolgere i necessari accertamenti e verificarne la regolarità urbanistico-edilizia (cfr. docc. 6 e 7 del Comune).
Circa la necessità del nulla osta dell'autorità giudiziaria, come chiarito in una recente sentenza di questa stessa sezione, “basti rammentare che l'art. 14 Cost. sancisce l'inviolabilità del domicilio, presso il quale l'esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie prescritte dalla legge per la tutela della libertà personale, ovvero alle previsioni di leggi speciali nell'ipotesi di ispezioni da eseguirsi per motivi di sanità e incolumità pubblica.
L'art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri di vigilanza urbanistico-edilizia dell'amministrazione, non contiene alcuna previsione dalla quale possa ricavarsi che detti poteri includano la facoltà di accedere coattivamente nel domicilio per svolgervi un'attività di accertamento di illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà -che la garanzia costituzionale del domicilio non consente di desumere in via interpretativa quale potere implicito- non è prevista neppure ai fini dell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria al di fuori dell'ipotesi, che qui certo non ricorre, degli accertamenti urgenti disciplinati dall'art. 354 c.p.p..
L'assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo al domicilio, ma) a luoghi di proprietà privata per l'accertamento di eventuali abusi edilizi è confermata dalla legge n. 689/1981, recante la disciplina fondamentale in materia di sanzioni amministrative, che, all'art. 13, co. 4, esige l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria per l'accesso ispettivo "ai luoghi diversi dalla privata dimora", volendo significare, a contrario, che nei luoghi di privata dimora il potere di ispezione finalizzato all'accertamento di illeciti amministrativi non può essere esercitato affatto (per tutte, cfr. Cass. civ., sez. I, 24.03.2005, n. 6361)
” (cfr. TAR Toscana, sez. III, 14.05.2021, n. 717).
Né, d’altra parte, il Comune avrebbe potuto provvedere sulla base della documentazione in suo possesso, che non fornisce la prova dell’esistenza, della natura e della effettiva consistenza delle eventuali violazioni urbanistiche e edilizie presenti nell’immobile.
8. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.02.2022 n. 167 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per verificare eventuali abusi edilizi, il comune non ha la possibilità di eseguire coattivamente gli accessi agli edifici interessati in assenza di autorizzazione dell’A.G..
Circa la necessità del nulla osta dell’autorità giudiziaria, basti rammentare che l’art. 14 Cost. sancisce l’inviolabilità del domicilio, presso il quale l’esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie prescritte dalla legge per la tutela della libertà personale, ovvero alle previsioni di leggi speciali nell’ipotesi di ispezioni da eseguirsi per motivi di sanità e incolumità pubblica.
L’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri di vigilanza urbanistico-edilizia dell’amministrazione, non contiene alcuna previsione dalla quale possa ricavarsi che detti poteri includano la facoltà di accedere coattivamente nel domicilio per svolgervi un’attività di accertamento di illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà –che la garanzia costituzionale del domicilio non consente di desumere in via interpretativa quale potere implicito– non è prevista neppure ai fini dell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria al di fuori dell’ipotesi, che qui certo non ricorre, degli accertamenti urgenti disciplinati dall’art. 354 c.p.p..
L’assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo al domicilio, ma) a luoghi di proprietà privata per l’accertamento di eventuali abusi edilizi è confermata dalla legge n. 689/1981, recante la disciplina fondamentale in materia di sanzioni amministrative, che, all’art. 13, co. 4, esige l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per l’accesso ispettivo “ai luoghi diversi dalla privata dimora”, volendo significare, a contrario, che nei luoghi di privata dimora il potere di ispezione finalizzato all’accertamento di illeciti amministrativi non può essere esercitato affatto.

---------------

1. La signora Su.Ve. agisce in veste di procuratrice generale dei propri genitori, signori Ra.Ve. e Pi.Mi., i quali sono proprietari e condomini di alcuni fabbricati ubicati in Poggibonsi, alla via ....
Ella espone di aver presentato al Comune di Poggibonsi, nella medesima veste, un’istanza di accesso contenente altresì la denuncia di una cospicua serie di abusi edilizi che sarebbero stati commessi in danno dei predetti fabbricati da altri condomini, ovvero dai proprietari di immobili confinanti.
L’istanza-denuncia è stata protocollata dal Comune il 19.10.2020. Non avendo ottenuto riscontro, il 10.12.2020 la signora Ve. si è rivolta al segretario comunale per sollecitare l’attivazione dei poteri sostitutivi disciplinati dall’art. 2, co. 9-bis e 9-ter, della legge n. 241/1990.
Con la nota del 21.12.2020, in epigrafe, il segretario comunale ha tuttavia rifiutato di intervenire, sul presupposto che la mancata definizione dei procedimenti sanzionatori degli abusi in questione, avviati sin da epoca precedente alla presentazione dell’istanza-denuncia, sarebbe dipesa dalla necessità di fare accesso ai luoghi interessati dalle opere asseritamente illegittime, attività necessitante dell’assenso dell’autorità giudiziaria, chiesto dal Comune e non ancora pervenuto.
Tanto premesso in fatto, la ricorrente affida a un unico motivo in diritto le proprie doglianze avverso la condotta serbata nell’occasione dal Comune di Poggibonsi e dai suoi funzionari, e conclude per l’accertamento dell’illegittimità della ricordata nota del 21.12.2020, nonché dell’obbligo del Comune di concludere con provvedimento espresso il procedimento avviato a seguito dell’istanza-denuncia del 18.10.2020.
La signora Ve. chiede altresì accertarsi se effettivamente sussistesse la necessità per il Comune di rivolgersi all’autorità giudiziaria per accedere ai luoghi oggetto dell’istruttoria e, comunque, condannarsi l’amministrazione procedente a concludere il procedimento di vigilanza edilizia entro un preciso termine. 
...
2.2. Residua, nondimeno, l’interesse della signora Ve. a sentire accertata, se non altro ai fini della pronuncia sulle spese processuali, l’ammissibilità e la fondatezza della domanda.
Quanto al primo aspetto, le conclusioni spiegate in ricorso ai punti da 1 a 5 afferiscono tutte all’accertamento della presunta, ingiustificata, violazione del termine massimo di durata del procedimento e non eccedono, pertanto, i confini dell’azione contro il silenzio.
Nondimeno, il ricorso non può essere favorevolmente delibato nel merito.
L’art. 3 del regolamento comunale sul procedimento amministrativo del 1997 stabilisce in sessanta giorni il termine massimo di durata del procedimento. La chiara espressione utilizzata dalla norma (secondo la quale il termine stesso, ove non risultante dalla tabella allegata al regolamento, “deve intendersi non superiore a sessanta giorni”) non lascia spazio ad alcuna incertezza.
Ne consegue che la sollecitazione ad attivare i poteri sostitutivi, rivolta dalla ricorrente al segretario comunale prima che il termine suddetto fosse trascorso, è da considerarsi prematura.
In disparte gli aspetti formali, nessun ritardo può peraltro essere imputato al Comune di Poggibonsi nella complessiva gestione del procedimento.
Come risulta dalla documentazione di causa, è del 17.11.2020 la PEC trasmessa dalla Polizia Municipale di Poggibonsi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Siena per chiedere l’autorizzazione ad effettuare l’accesso agli edifici interessati dagli abusi edilizi segnalati dalla ricorrente sin dal luglio del 2020 e, di nuovo, con l’istanza-denuncia del 19.10.2020 in esame.
La richiesta dell’autorizzazione si era resa necessaria a fronte dell’opposizione manifestata dai proprietari degli edifici da ispezionare onde verificarne la regolarità urbanistico-edilizia, trattandosi di luoghi di privata dimora.
Il nulla osta all’accesso è stato infine rilasciato dalla Procura della Repubblica il 07.03.2021, a seguito di ulteriore istanza del Comune, che, una volta eseguiti gli accessi e completate le proprie verifiche, ha celermente definito i procedimenti sanzionatori con le ordinanze del 09.04.2021, di cui si è detto.
Circa la necessità del nulla osta dell’autorità giudiziaria, basti rammentare che l’art. 14 Cost. sancisce l’inviolabilità del domicilio, presso il quale l’esecuzione di ispezioni è subordinata al rispetto delle garanzie prescritte dalla legge per la tutela della libertà personale, ovvero alle previsioni di leggi speciali nell’ipotesi di ispezioni da eseguirsi per motivi di sanità e incolumità pubblica.
L’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, nel disciplinare i poteri di vigilanza urbanistico-edilizia dell’amministrazione, non contiene alcuna previsione dalla quale possa ricavarsi che detti poteri includano la facoltà di accedere coattivamente nel domicilio per svolgervi un’attività di accertamento di illeciti amministrativi. Del resto, una tale facoltà –che la garanzia costituzionale del domicilio non consente di desumere in via interpretativa quale potere implicito– non è prevista neppure ai fini dell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria al di fuori dell’ipotesi, che qui certo non ricorre, degli accertamenti urgenti disciplinati dall’art. 354 c.p.p..
L’assenza di una generalizzata facoltà di accesso (non solo al domicilio, ma) a luoghi di proprietà privata per l’accertamento di eventuali abusi edilizi è confermata dalla legge n. 689/1981, recante la disciplina fondamentale in materia di sanzioni amministrative, che, all’art. 13, co. 4, esige l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per l’accesso ispettivo “ai luoghi diversi dalla privata dimora”, volendo significare, a contrario, che nei luoghi di privata dimora il potere di ispezione finalizzato all’accertamento di illeciti amministrativi non può essere esercitato affatto (per tutte, cfr. Cass. civ., sez. I, 24.03.2005, n. 6361).
Non importa poi stabilire se il nulla osta rilasciato dalla Procura della Repubblica di Siena nel marzo 2021 integri l’autorizzazione richiesta dalla legge (la questione potrebbe, semmai, rilevare nei rapporti tra il Comune e i proprietari degli immobili oggetto di ispezione, ovvero nel procedimento penale a carico di costoro). Quel che conta è che il Comune di Poggibonsi non aveva la possibilità di eseguire coattivamente gli accessi in assenza di autorizzazione dell’A.G. e che, una volta ottenuta l’autorizzazione nelle forme descritte, l’accesso è stato consentito dai proprietari interessati e il procedimento sanzionatorio, inevitabilmente rimasto sospeso sino a quel momento, è stato portato a conclusione (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.05.2021 n. 717 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAStante il disposto di cui all’art. 13 della legge n. 689 del 1981, gli organi preposti all’accertamento di illeciti amministrativi possono procedere a ispezioni solo in luoghi diversi dalla «privata dimora».
Tale nozione coincide con quella rilevante per la commissione del reato di violazione di domicilio di cui all’art. 614 cod. pen., la quale prescinde dall’accertamento della proprietà e degli eventuali diritti reali che interessano un determinato luogo, ma dipende dal fatto che in esso si svolgano non occasionalmente atti della vita privata e che si tratti di uno spazio inaccessibile ai terzi senza il consenso del titolare: su questa base, per esempio, si ritiene che gli spazi comuni di un condominio, come l’ingresso, le scale o i pianerottoli, siano luoghi aperti al pubblico, perché di fatto accessibili a un’indistinta categoria di persone, e non soltanto ai condomini.
---------------

1. La ricorrente impugna l’ordinanza con cui il Comune di Gignod le ha ordinato di rimuovere -OMISSIS- collocata nel terreno di sua proprietà, sul presupposto che si tratti di un rifiuto abbandonato.
...
6. Con il primo motivo, si denuncia: violazione dell’art. 13 della legge n. 689 del 1981; violazione dell’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006; sviamento di potere; violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990; difetto d’istruttoria e motivazione; contraddittorietà.
In particolare, la ricorrente lamenta che l’ispezione, sulla quale l’ordinanza si fonda, sia stata svolta sul suo terreno senza il suo consenso e in assenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria, come invece richiesto per gli accessi a una proprietà privata; a tal fine, contesta che il fondo sia gravato da una servitù di uso pubblico e sostiene che l’eventuale circostanza che sia gravato da una servitù a vantaggio di altri privati non lo renderebbe comunque aperto a un ingresso da parte di una collettività indeterminata.
La difesa dell’Ente sostiene invece che la strada che attraversa il terreno, ancorché di proprietà privata, sia asservita all’uso pubblico (e sia dunque una “strada vicinale”), come dimostrerebbero il fatto che vi passano una serie di condutture pubbliche, che sia stata asfaltata a cura e spese del Comune e che a essa accedano indiscriminatamente tutti gli abitanti della frazione.
Sebbene le parti abbiano dibattuto soprattutto sulla natura privata o pubblica della strada che attraversa il terreno e sul novero dei soggetti che possano legittimamente percorrerla, tale questione non appare dirimente, con la conseguenza che questo Tribunale può esimersi dall’affrontarla (anche perché si tratta di un problema di natura squisitamente civilistica che, di per sé, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario).
A ben vedere, infatti, la ricorrente la solleva solo al fine d’invocare l’applicabilità dell’art. 13 della legge n. 689 del 1981, secondo cui gli organi preposti all’accertamento di illeciti amministrativi possono procedere a ispezioni solo in luoghi diversi dalla «privata dimora».
Tale nozione coincide con quella rilevante per la commissione del reato di violazione di domicilio di cui all’art. 614 cod. pen. (in questi termini, si v. Cass. civ., sez, I, sent. n. 6361 del 2005), la quale prescinde dall’accertamento della proprietà e degli eventuali diritti reali che interessano un determinato luogo, ma dipende dal fatto che in esso si svolgano non occasionalmente atti della vita privata e che si tratti di uno spazio inaccessibile ai terzi senza il consenso del titolare: su questa base, per esempio, si ritiene che gli spazi comuni di un condominio, come l’ingresso, le scale o i pianerottoli, siano luoghi aperti al pubblico, perché di fatto accessibili a un’indistinta categoria di persone, e non soltanto ai condomini (si v., tra le tante, Cass. pen., sez. V, sentt. n. 24755 del 01.06.2018 e n. 53438 del 24.11.2017).
Pertanto, nel caso di specie non è necessario verificare se, sul piano del diritto privato, la strada che attraversa il terreno della ricorrente sia gravata da una servitù privata o asservita all’uso pubblico, quanto piuttosto se, in punto di fatto, risulti o meno accessibile ai terzi.
La risposta non può che essere positiva, perché si tratta di un’area aperta e potenzialmente accessibile da un’indistinta categoria di persone, ovvero dagli abitanti delle case vicine e da coloro che vi si dirigono (occorre infatti rammentare che la stessa servitù di passaggio “civilistica” può essere esercitata dal proprietario del fondo dominante anche in via indiretta, attraverso le visite di terzi riferibili alle normali esigenze della vita di relazione: sul punto si v., tra le più recenti, Cass. civ., sez. II, sent. n. 4821 del 2019).
Pertanto, per quanto è d’interesse in questo giudizio, il terreno della ricorrente non può essere considerato una «privata dimora», ai sensi dell’art. 13 della legge n. 689 del 1981, con la conseguenza che, sotto questo profilo, l’accertamento è legittimo e il primo motivo di ricorso è meritevole di rigetto (TAR Valle d'Aosta, sentenza 16.09.2020 n. 41 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Sulla riconducibilità, o meno, del pianerottolo, sito sulle scale condominiali, ad una pertinenza dell'abitazione.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, compresi i luoghi destinati all'esercizio di attività lavorativo o professionale; ed infatti, per "luogo aperto al pubblico", deve intendersi quello al quale chiunque può accedere a determinate condizioni, ovvero quello frequentabile da un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di soggetti, che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi, senza la legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto.
Acclarate tali nozioni, di "luogo aperto al pubblico" e, a contrario, di "privata dimora", è conseguenziale ritenere il pianerottolo, antistante l'abitazione, come riconducibile alla prima categoria, e non ad un luogo, rientrante nel concetto di abitazione ovverosia luogo di privata dimora.
Conferma specifica si ricava da altre pronunce, secondo le quali, ai fini dell'integrazione del reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.), deve escludersi che le scale condominiali ed i relativi pianerottoli siano "luoghi di privata dimora" cui estendere la tutela penalistica alle immagini ivi riprese, trattandosi di zone che non assolvono alla funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al riparo di sguardi indiscreti, essendo destinate all'uso di un numero indeterminato di soggetti.
Ed ancora, il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio costituisce luogo aperto al pubblico in quanto consente l'accesso ad un'indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini.
Il discrimine fra le due figure è rappresentato, pertanto, dalla possibilità di accesso da parte di un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedere senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto.
---------------

1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
La problematica centrale riguarda la nozione di luogo pubblico o aperto al pubblico, posto che il reato contravvenzionale, ex art. 4 legge n. 110/1975, implica il porto in luogo pubblico o aperto al pubblico.
Ed invero, nell'ambito del presente procedimento, il contrasto è insorto, proprio a seguito dell'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, circa la riconducibilità del pianerottolo, sito sulle scale condominiali, ad una pertinenza dell'abitazione dell'imputato.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, compresi i luoghi destinati all'esercizio di attività lavorativo o professionale (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017 - dep. 22/06/2017, D'Amico, Rv. 270076); ed infatti, per "luogo aperto al pubblico", deve intendersi quello al quale chiunque può accedere a determinate condizioni, ovvero quello frequentabile da un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di soggetti, che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedervi, senza la legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto (Sez. 3, n. 29586 del 17/02/2017 - dep. 14/06/2017, C., Rv. 270251).
Acclarate tali nozioni, di "luogo aperto al pubblico" e, a contrario, di "privata dimora", è conseguenziale ritenere il pianerottolo, antistante l'abitazione, come riconducibile alla prima categoria, e non ad un luogo, rientrante nel concetto di abitazione ovverosia luogo di privata dimora.
Conferma specifica si ricava da altre pronunce, secondo le quali, ai fini dell'integrazione del reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.), deve escludersi che le scale condominiali ed i relativi pianerottoli siano "luoghi di privata dimora" cui estendere la tutela penalistica alle immagini ivi riprese, trattandosi di zone che non assolvono alla funzione di consentire l'esplicazione della vita privata al riparo di sguardi indiscreti, essendo destinate all'uso di un numero indeterminato di soggetti (Sez. 5, n. 34151 del 30/05/2017 - dep. 12/07/2017, P.C. in proc. Tinervia, Rv. 270679).
Ed ancora, il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio costituisce luogo aperto al pubblico in quanto consente l'accesso ad un'indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini. (applicazione in tema di porto abusivo di armi) (Sez. 1, n. 934 del 28/09/1982 - dep. 03/02/1983, CHIAPPERO, Rv. 157237).
Il discrimine fra le due figure è rappresentato, pertanto, dalla possibilità di accesso da parte di un'intera categoria di persone o comunque da un numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità giuridica e pratica di accedere senza legittima opposizione di chi sul luogo esercita un potere di fatto o di diritto (Sez. 5, n. 22890 del 10/04/2013 - dep. 27/05/2013, Ambrosio, Rv. 256949) (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 01.06.2018 n. 24755).

EDILIZIA PRIVATAPrivata dimora e proprietà privata sono concetti non sovrapponibili, in quanto il primo è molto più circoscritto del secondo, basti pensare ai beni privati destinati ad uso pubblico o aperti al pubblico.
Sotto il secondo profilo deve richiamarsi la recente decisione, con cui le Sezioni Unite hanno fornito la definizione di luogo di privata dimora e relative pertinenze nei termini che seguono: «rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale».
La pronuncia è intervenuta specificamente sull'art. 624-bis cod. pen., ma ha espressamente coinvolto tutte le norme a carattere sostanziale e processuale che a tale nozione fanno riferimento, tra cui l'art. 614 cod. pen..
Ne consegue che anche nello scrutinare gli elementi costitutivi del reato di violazione di domicilio occorre fare riferimento ai principi dettati con la sentenza appena citata.
Pertanto, al fine di assegnare ad un luogo la qualifica di privata dimora o relative pertinenze, occorre verificare la sussistenza dei seguenti, indefettibili elementi:
   «a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne;
   b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità;
   c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare».
---------------

1. Il primo motivo merita accoglimento nella parte relativa al vizio di motivazione.
L'ordinanza impugnata premette che l'aggressione è avvenuta in un tratto di strada, che conduce all'abitazione della persona offesa, avente le caratteristiche di spazio aperto al pubblico non delimitato da alcuna recinzione. Riconduce, tuttavia, tale luogo al perimetro di tutela delineato dall'art. 614 cod. pen., qualificandolo come pertinenza dell'abitazione di proprietà del D'Am..
Specifica, poi, che l'area è destinata a sosta e parcheggio delle auto riservata ai soli proprietari degli immobili, come si evince dalla documentazione fotografica, prodotta dall'indagato, che indica la natura di "proprietà privata" della zona in questione.
Tali argomentazioni sono, per un verso, giuridicamente erronee e, per altro verso, sganciate dalla nozione di privata di dimora come delineata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
Sotto il primo profilo va osservato che privata dimora e proprietà privata sono concetti non sovrapponibili, in quanto il primo è molto più circoscritto del secondo, basti pensare ai beni privati destinati ad uso pubblico o aperti al pubblico.
Sotto il secondo profilo deve richiamarsi la recente decisione, con cui le Sezioni Unite hanno fornito la definizione di luogo di privata dimora e relative pertinenze nei termini che seguono: «rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale» (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D'Amico, Rv. 270076).
La pronuncia è intervenuta specificamente sull'art. 624-bis cod. pen., ma ha espressamente coinvolto tutte le norme a carattere sostanziale e processuale che a tale nozione fanno riferimento, tra cui l'art. 614 cod. pen. (cfr. Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D'Amico, cit., in motivazione).
Ne consegue che anche nello scrutinare gli elementi costitutivi del reato di violazione di domicilio occorre fare riferimento ai principi dettati con la sentenza appena citata.
Pertanto, al fine di assegnare ad un luogo la qualifica di privata dimora o relative pertinenze, occorre verificare la sussistenza dei seguenti, indefettibili elementi:
   «a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne;
   b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità;
   c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare
» (cfr. Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D'Amico, cit., in motivazione) (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 24.11.2017 n. 53438).

EDILIZIA PRIVATANon c'è dubbio che la nozione di privata dimora sia più ampia di quella di abitazione. E' arbitrario, tuttavia, far discendere da tale constatazione un significato che prescinde, innanzitutto, dalla lettera della norma. L'aver il legislatore adoperato l'espressione "privata dimora" ha una indubbia valenza sul piano interpretativo.
"Dimora", secondo i dizionari della lingua italiana, è, invero, il luogo in cui una persona, che non vi risiede in modo stabile, attualmente abita e permane. La parola, derivata dal latino morari, implica il fermarsi, trattenersi, soggiornare.
Basterebbe già questo per escludere dalla nozione di dimora tutti i casi in cui ci si trovi in un luogo in modo del tutto occasionale (anche se per svolgere atti della vita privata) e senza avere alcun rapporto (tranne la presenza fisica) con il luogo medesimo.
Per di più occorre considerare che, nella descrizione della fattispecie di cui all'art. 624-bis cod. pen., l'espressione "privata dimora" è preceduta dalle parole "in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte [...]". Deve trattarsi, quindi, di un luogo "destinato" a privata dimora: il che rafforza il significato dell'espressione.
Il riferimento della norma è, allora, ad un luogo che sia stato adibito (in modo apprezzabile sotto il profilo cronologico) allo svolgimento di atti della vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita familiare e intima (propri dell'abitazione).
Va aggiunto ancora che, significativamente, la rubrica dell'art. 624-bis è intitolata «Furto in abitazione» e il riferimento è in linea con il significato restrittivo della nozione di privata dimora in precedenza evidenziato. In essa vanno, conseguentemente, ricompresi i luoghi che, ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica, abbiano, comunque, le "caratteristiche" dell'abitazione.
---------------

1. La soluzione della questione controversa sottoposta alle Sezioni Unite ("Se, ed eventualmente a quali condizioni, ai fini della configurabilità del delitto previsto dall'art. 624-bis cod. pen., i luoghi di lavoro possano rientrare nella nozione di privata dimora") comporta che venga correttamente definita la nozione di "privata dimora".
A tale nozione si fa riferimento non solo nell'art. 624-bis, ma anche in altre norme, sia di carattere sostanziale (artt. 614, 615, 615-bis, 624-bis, 628, terzo comma, n. 3-bis, 52, secondo comma, cod. pen.), sia di carattere processuale (art. 266, comma 2, cod. proc. pen.).
L'orientamento maggioritario, richiamato nell'ordinanza di rimessione, partendo dalla considerazione che il concetto di privata dimora sia più ampio di quello di abitazione, ne dà una interpretazione estensiva, tanto da ricomprendervi tutti i luoghi, non pubblici, nei quali le persone si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata.
Si è ritenuto, pertanto, configurabile il delitto previsto dall'art. 624-bis cod. pen. in ordine al furto commesso:
   - all'interno di un ristorante in orario di chiusura (Sez. 2, n. 24763 del 26/05/2015, Mori, Rv. 264283);
   - in un bar-tabacchi in orario di chiusura (Sez. 5, n. 6210 del 24/11/2015, Tedde, Rv. 265875);
   - all'interno di un cantiere edile allestito nel cortile di un immobile in cui erano in corso lavori di ristrutturazione (Sez. 5, n. 2768 del 01/10/2014, Baldassin, Rv. 262677);
   - all'interno di un'edicola (Sez. 5, n. 7293 del 17/12/2014, Lattanzio, Rv. 262659);
   - in uno studio odontoiatrico (Sez. 5, n. 10187 del 15/02/2011, Gelasio, Rv. 249850);
   - in una farmacia durante l'orario di apertura (Sez. 4, n. 37908 del 25/06/2009, Apprezzo, Rv. 244980);
   - all'interno di un ripostiglio di un esercizio commerciale (Sez. 5, n. 22725 del 05/05/2010, Dunca, Rv. 247969);
   - in una baracca di un cantiere edile adibito a spogliatoio (Sez. 5, n. 32093 del 25/06/2010, Truzzi, Rv. 248356).
Della nozione di "privata dimora" si è data una interpretazione ancora più ampia in tema di rapina, ritenendo sussistente la circostanza aggravante prevista dall'art. 628, terzo comma, n. 3-bis, cod. pen., nell'ipotesi in cui la condotta delittuosa venga commessa, nell'area aperta al pubblico, nei confronti dei clienti di un istituto di credito (Sez. 2, n. 28405 del 05/04/2012, Foglia, Rv. 253413), o all'interno di un supermercato durante l'orario di apertura (Sez. 2, n. 24761 del 12/052015, Porcu, Rv. 264383).
2. Secondo tale indirizzo, cui si richiama anche la sentenza impugnata, gli elementi identificativi del luogo di privata dimora sarebbero uno di carattere strutturale (vale a dire l'astratta possibilità di inibire l'accesso al pubblico attraverso dispositivi di sbarramento, quali portoni, saracinesche o altri meccanismi; senza escludere che, in determinate ore del giorno, sia liberamente consentito detto accesso) e l'altro di carattere funzionale (la natura privata, cioè, dell'attività che vi si svolge; specificandosi che atti della vita privata non sono soltanto quelli della vita intima o familiare, ma anche quelli dell'attività professionale o lavorativa, o quelli posti in essere a contatto con altri soggetti, quali l'acquisto di merce in un supermercato, la fruizione di una prestazione professionale, il compimento di operazioni bancarie).
2.1. Ritiene il Collegio che l'ampliamento della nozione, propugnato dall'indicato orientamento, contrasti sia con il dato letterale sia con la ratio e la interpretazione sistematica della norma.
Non c'è dubbio che la nozione di privata dimora sia più ampia di quella di abitazione. E' arbitrario, tuttavia, far discendere da tale constatazione un significato che prescinde, innanzitutto, dalla lettera della norma. L'aver il legislatore adoperato l'espressione "privata dimora" ha una indubbia valenza sul piano interpretativo.
"Dimora", secondo i dizionari della lingua italiana, è, invero, il luogo in cui una persona, che non vi risiede in modo stabile, attualmente abita e permane. La parola, derivata dal latino morari, implica il fermarsi, trattenersi, soggiornare.
Basterebbe già questo per escludere dalla nozione di dimora tutti i casi in cui ci si trovi in un luogo in modo del tutto occasionale (anche se per svolgere atti della vita privata) e senza avere alcun rapporto (tranne la presenza fisica) con il luogo medesimo.
Per di più occorre considerare che, nella descrizione della fattispecie di cui all'art. 624-bis cod. pen., l'espressione "privata dimora" è preceduta dalle parole "in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte [...]". Deve trattarsi, quindi, di un luogo "destinato" a privata dimora: il che rafforza il significato dell'espressione.
Il riferimento della norma è, allora, ad un luogo che sia stato adibito (in modo apprezzabile sotto il profilo cronologico) allo svolgimento di atti della vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita familiare e intima (propri dell'abitazione).
Va aggiunto ancora che, significativamente, la rubrica dell'art. 624-bis è intitolata «Furto in abitazione» e il riferimento è in linea con il significato restrittivo della nozione di privata dimora in precedenza evidenziato. In essa vanno, conseguentemente, ricompresi i luoghi che, ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica, abbiano, comunque, le "caratteristiche" dell'abitazione.
2.2. L'indirizzo interpretativo sopra richiamato, inoltre, nel dare rilievo al "luogo in sé", si limita a far riferimento allo svolgimento in esso di atti della vita privata, siano essi lavorativi, professionali o di altro genere, senza ulteriori approfondimenti.
Si ritiene, cioè, configurabile il reato di furto in abitazione, disciplinato dall'art. 624-bis cod. pen., tutte le volte in cui l'azione delittuosa venga commessa in un luogo nel quale si svolgano atti della vita privata, a prescindere dall'orario e dalla presenza di persone (tra le altre, Sez. 2, n. 24763 del 26/05/2015, Mori, Rv. 264283; Sez. 5, n. 6210 del 24/11/2015, Tedde, Rv. 265875; Sez. 5, n. 428 del 30/06/2015, Feroleto, Rv. 265694).
In altre decisioni, invece, rendendosi evidentemente conto della portata troppo estensiva, nella interpretazione della norma, del generico riferimento ai luoghi in cui si svolgano atti della vita privata, si cerca di delimitarne l'applicazione.
Si afferma, invero, che non commette il reato di furto in abitazione il soggetto che si introduca all'interno di un esercizio commerciale in orario notturno, trattandosi di un locale non adibito a privata dimora in ragione del mancato svolgimento di attività commerciali che caratterizza le ore di chiusura (Sez. 4, n. 11490 del 24/01/2013, Pignalosa, Rv. 254854).
Secondo altre pronunce il criterio discretivo da applicare è rappresentato dall'accertamento della prevedibile presenza di persone nel luogo di svolgimento di atti della vita privata, a prescindere dall'orario (notte o giorno) e dalla chiusura o meno dell'esercizio (Sez. 5, n. 10747 del 17/11/2015, Casalanguida, Rv. 267560; Sez. 5, n. 18211 del 10/03/2015, Hadovic, Rv. 263458; Sez. 5, n. 55040 del 20/10/2016, Rover, Rv. 268409; Sez. 4, n. 12256 del 26/01/2016, Cisulli, Rv. 266701; Sez. 5, n. 10440 del 21/12/2015, Fernandez, Rv. 266807).
Tali soluzioni risultano non condivisibili, in quanto si fa dipendere l'applicazione di un trattamento sanzionatorio più grave (previsto dal legislatore per il reato di furto in abitazione, al fine di apprestare una più intensa tutela al luogo in cui l'azione delittuosa viene commessa) da elementi estranei alla fattispecie e, per di più, vaghi, incerti ed accidentali (di carattere temporale o di effettivo esercizio dell'attività ivi svolta).
L'esigenza di maggior tutela dei luoghi destinati a privata dimora non viene meno solo perché il furto è commesso in orario notturno o diurno, in orario di apertura o di chiusura, oppure in presenza o in assenza di persone.
E' stato, in proposito, incisivamente osservato che lo "spostamento del baricentro della previsione normativa dal luogo del commesso reato al momento della consumazione" determinerebbe una inaccettabile "tutela ad intermittenza" (Sez. 5, n. 428 del 2015, cit.).
2.3. Che il luogo destinato a privata dimora debba avere determinate "caratteristiche", che non possono essere certamente quelle del mero svolgimento in esso di atti della vita privata, è confermato dal dato sistematico nella sua evoluzione.
Il Codice Zanardelli faceva riferimento, in ordine al reato di violazione di domicilio (art. 157), «all'abitazione altrui o alle appartenenze di essa».
Dopo però che la dottrina maggioritaria, sotto la vigenza di quel codice, aveva già ritenuto che il termine abitazione andasse interpretato estensivamente come ogni luogo adibito ad uso domestico, nel quale si fossero compiuti atti caratteristici della vita privata, il codice Rocco, nell'art. 614, introduceva la nozione di "altro luogo di privata dimora", affiancandola a quella di abitazione, e nella Relazione si precisava che la tutela apprestata dalla norma riguardava «tutti i luoghi che servano, in modo permanente o transitorio, alla esplicazione della vita privata».
Per il reato di furto la tutela (più intensa in termini di trattamento sanzionatorio) rimaneva, però, limitata alla sola abitazione: l'art. 625, primo comma, n. 1, cod. pen., prevedeva, infatti, come circostanza aggravante, «se il colpevole, per commettere il furto, si introduce o si trattiene in un edificio o in altro luogo destinato ad abitazione».
Con la legge 26.03.2001, n. 128, venne inserito nel codice penale l'art. 624-bis. Previa abrogazione dell'art. 625, primo comma, n. 1, cod. pen., è stata introdotta una ipotesi autonoma di reato definita in rubrica come "Furto in abitazione e furto con strappo", con l'evidente scopo di ampliare la tutela penale non solo sotto il profilo patrimoniale, ma anche personale.
E ciò è tanto vero che l'approvazione della legge n. 128 del 2001 era stata preceduta dalla presentazione al Parlamento, da parte del Governo, del disegno di legge n. 5925, nel quale il reato di furto in abitazione, attraverso la previsione nel codice penale di un art. 614-bis, era stato inserito nel Libro II, Titolo XII ("Delitti contro la persona"), al fine di rafforzare «la tutela del domicilio non tanto nella sua consistenza oggettiva, quanto nel suo essere proiezione spaziale della persona, cioè ambito primario ed imprescindibile alla libera estrinsecazione della personalità individuale».
Tale originaria impostazione non poteva non riflettersi nella formulazione del "nuovo" art. 624-bis, pur mantenendosi la collocazione dello stesso nei reati contro il patrimonio.
Si è visto già come, a fronte della rubrica che fa riferimento al furto in abitazione, il testo normativo ricomprende qualsiasi luogo destinato in tutto in parte a privata dimora o nelle pertinenze di esso.
L'ampliamento dell'ambito di applicabilità della "nuova" fattispecie anche a luoghi che non possano considerasi abitazione in senso stretto risulta dettato, da un lato, dalla necessità di superare le incertezze manifestatesi in giurisprudenza in ordine alla definizione della nozione di abitazione e, dall'altro, di tutelare l'individuo anche nel caso in cui compia atti della sua vita privata al di fuori dell'abitazione.
Deve, però, trattarsi, come si evince dalla ratio della norma, di luoghi che abbiano le stesse caratteristiche dell'abitazione, in termini di riservatezza e, conseguentemente, di non accessibilità, da parte di terzi, senza il consenso dell'avente diritto.
2.4. Tale interpretazione della norma è conforme ai principi enucleabili dalla giurisprudenza costituzionale in tema di privata dimora.
La Corte costituzionale è stata chiamata a decidere le questioni di costituzionalità sollevate in relazione all'art. 266, comma 2, cod. proc. pen. con riferimento alle intercettazioni eseguite «nei luoghi indicati dall'art. 614 del codice penale», vale a dire nell'abitazione o in altro luogo di privata dimora o nelle appartenenze di essi.
E, per stabilire se detti luoghi avessero la copertura dell'art. 14 Cost., il Giudice delle leggi ne ha individuato ambito, limiti e caratteristiche.
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 135 del 2002, evidenziava che il domicilio, cui fa riferimento l'art. 14 Cost., viene in rilievo «nel panorama dei diritti fondamentali di libertà come proiezione spaziale della persona, nella prospettiva di preservare da interferenze esterne comportamenti tenuti in un determinato ambiente: prospettiva che vale, per altro verso, ad accomunare la libertà in parola a quella di comunicazione (art. 15 Cost.), quali espressioni salienti di un più ampio diritto alla riservatezza della persona».
Nel dichiarare non fondata la questione di costituzionalità sollevata, la Corte costituzionale, con la sentenza sopra indicata, dopo aver inquadrato la libertà domiciliare nel sistema delle libertà fondamentali, sottolineava che il problema di costituzionalità si poneva con riferimento a forme di «intrusione nel domicilio in quanto tale», avendo la libertà di domicilio «una valenza essenzialmente negativa, concretandosi nel diritto di preservare da interferenze esterne, pubbliche o private, determinati luoghi in cui si svolge la vita intima di ciascun individuo».
Tali principi venivano ancor di più rimarcati nella sentenza n. 149 del 2008.
Il Giudice delle Leggi osservava, infatti, che la tutela del domicilio prevista dall'art. 14 Cost. viene in rilievo sotto due aspetti: «come diritto di ammettere o escludere altre persone da determinati luoghi, in cui si svolge la vita intima di ciascun individuo; e come diritto alla riservatezza su quanto si compie nei medesimi luoghi».
Perché sia operativa la tutela costituzionale del domicilio è necessario, quindi, che si tratti di un luogo in cui sia inibito l'accesso ad estranei e sia tale da garantire la riservatezza ovvero la impossibilità di essere "percepito" dall'esterno anche senza necessità di una intrusione fisica. Laddove, invece, il luogo sia accessibile visivamente da chiunque, venendo meno la caratteristica della riservatezza, si rimane fuori «dall'area di tutela prefigurata dalla norma costituzionale de qua».
2.5. Gli elementi, delineati dalla giurisprudenza costituzionale come caratterizzanti il "domicilio" e ritenuti indefettibili per garantire la copertura costituzionale dell'art. 14 Cost., si rinvengono anche nella sentenza delle Sezioni Unite n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, Rv. 234269.
Dopo aver premesso che la nozione di domicilio di cui all'art. 14 Cost. è più estesa di quella ricavabile dall'art. 614 cod. pen., le Sezioni Unite sottolineano che, quale che sia il rapporto tra le due disposizioni, «il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza».
Non c'è dubbio che «il concetto di domicilio individui un rapporto tra la persona ed un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza. Ma il rapporto tra la persona ed il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente. In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive,  indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia questo o meno presente».
Sulla base di tali considerazioni le Sezioni Unite introducono, come elemento caratterizzante la nozione di privata dimora, il requisito della stabilità, «perché è solo questa, anche se intesa in senso relativo, che può trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che può fargli acquistare un'autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità».
2.6. La interpretazione letterale e sistematica della norma, confortata dai principi enucleabili dalle sentenze della Corte costituzionale sopra richiamate e dalla sentenza Prisco delle Sezioni Unite, consente di delineare la nozione di privata dimora sulla base dei seguenti, indefettibili elementi:
   a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne;
   b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità;
   c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare.
3. Non resta che applicare le linee tracciate in precedenza in relazione alla nozione di privata dimora, contenuta nell'art. 624-bis cod. pen., ai luoghi di lavoro.
E' indiscutibile che nei luoghi di lavoro il soggetto compia atti della vita privata. Ma ciò non è sufficiente, come invece ritiene l'indirizzo interpretativo maggioritario, per affermare che tali luoghi rientrino nella nozione di privata dimora e che, per i reati di furto in essi commessi, trovi applicazione la norma rubricata come furto in abitazione (con conseguente tutela rafforzata in termini di trattamento sanzionatorio).
I luoghi di lavoro, generalmente, sono accessibili ad una pluralità di soggetti anche senza il preventivo consenso dell'avente diritto: ad essi è quindi estraneo ogni carattere di riservatezza, essendo esposti, per definizione, alla "intrusione" altrui. Si pensi agli esercizi commerciali o agli studi professionali o agli stabilimenti industriali accessibili a un numero indeterminato di persone, che possono pertanto prendere contatto (e non solo visivo) con il luogo senza alcun filtro o controllo.
L'attività privata svolta in detti luoghi avviene a contatto con un numero indeterminato di altri soggetti e, talvolta, in rapporto con gli stessi.
Con riferimento ad essi è, pertanto, fuor di luogo parlare di riservatezza o di necessità di tutela della sfera privata dell'individuo.
L'orientamento che interpreta estensivamente la nozione di privata dimora si pone, quindi, in contrasto con la lettera e la ratio della norma.
Ritengono le Sezioni Unite che vada confermato l'orientamento che interpreta la disciplina dettata dall'art. 624-bis cod. pen. come estensibile ai luoghi di lavoro soltanto se essi abbiano le caratteristiche proprie dell'abitazione (accertamento questo riservato ai giudici di merito).
Potrà, quindi, essere riconosciuto il carattere di privata dimora ai luoghi di lavoro se in essi, o in parte di essi, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l'accesso a terzi (ad esempio, retrobottega, bagni privati o spogliatoi, area riservata di uno studio professionale o di uno stabilimento).
La conferma che i luoghi di lavoro, di per sé, non costituiscano privata dimora si ricava, infine, dal terzo comma dell'art. 52 cod. pen. (aggiunto dall'art. 1 della legge 13.02.2006, n. 59), nel quale si afferma che la disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Nel richiamato secondo comma si fa riferimento, ai fini della presunzione di proporzionalità tra offesa e difesa, ai luoghi previsti dall'art. 614 cod. pen. (vale a dire a quelli di privata dimora).
Se, dunque, la nozione di privata dimora comprendesse, indistintamente, tutti i luoghi in cui il soggetto svolge atti della vita privata, non vi sarebbe stata alcuna necessità di aggiungere il terzo comma nell'art. 52 per estendere l'applicazione della norma anche ai luoghi di svolgimento di attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Evidentemente tale precisazione è stata ritenuta necessaria perché, secondo il legislatore, la nozione di privata dimora non è, in generale, comprensiva dei luoghi di lavoro.
4. Va, quindi, affermato il seguente principio di diritto:
"
Ai fini della configurabilità del delitto previsto dall'art. 624-bis cod. pen., i luoghi di lavoro non rientrano nella nozione di privata dimora, salvo che il fatto sia avvenuto all'interno di un'area riservata alla sfera privata della persona offesa. Rientrano nella nozione di privata dimora di cui all'art. 624-bis cod. pen. esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare" (Corte di cassazione, Sezz. unite penali, sentenza 22.06.2017 n. 31345).

EDILIZIA PRIVATA: A. Manzione, POTERI E LIMITI NELL’ACCESSO A PROPRIETA’ PRIVATA PER L’ACCERTAMENTO DI REATI ED ILLECITI AMMINISTRATIVI (20.09.2008 - link a https://lexambiente.it).
---------------
Premessa.
Il problema dell’accesso ad aree o immobili privati costituisce da sempre uno dei “nodi gordiani” nell’attività di controllo della Polizia Locale e non solo. In pratica, è questione pregiudiziale ad ogni accertamento in quanto ne rappresenta il limite negativo di partenza. Le norme di riferimento tutto sommato sono poche, ma le problematiche decisamente molteplici.
Senza alcuna pretesa di esaustività cercheremo di tracciare la cornice normativa di riferimento per poi individuare, attraverso casisistica di sicuro interesse per la P.M., soluzioni operative che tutelino da possibili responsabilità e nel contempo contengano suggerimenti “spiccioli” tratti dalla propria esperienza di settore, oltre che dalle massime giurisprudenziali più recenti.
L’accesso ad un’area privata, dunque, se finalizzato alla necessarietà di accertare un presunto illecito amministrativo e/o penale deve rispondere alle modalità di cui ad apposita norma a carattere generale che lo legittimi, consentendo all’operatore di polizia di violare il diritto di proprietà costituzionalmente garantito. Non a caso, il risvolto negativo di un’attività’ siffatta non rispondente ai criteri di legge è rappresentato dal reato di cui all’art. 615 del C.P., rubricato, appunto, “Violazione di domicilio commessa da un pubblico ufficiale”.
Non a caso, dunque, il punto di partenza di una corretta disamina della materia deve essere l’analisi di tale ipotesi di reato, in quanto la sua conoscenza rappresenta la cartina di tornasole della esatta conoscenza della liceità del proprio operato. (...continua).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di "privata dimora" rilevante, agli effetti dell'art. 13 della legge n. 689 del 1981, per delimitare il potere di ispezione degli organi addetti all'accertamento di illeciti amministrativi (potere che può, appunto, esercitarsi esclusivamente in luoghi diversi dalla privata dimora) coincide con quella rilevante agli effetti del reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.), e dunque comprende non soltanto la casa di abitazione, ma anche qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente all'esplicazione della vita privata o di attività lavorativa, e, quindi, qualunque luogo, anche se -appunto- diverso dalla casa di abitazione, in cui la persona si soffermi per compiere, pur se in modo contingente e provvisorio, atti della sua vita privata riconducibili al lavoro, al commercio, allo studio, allo svago (nella fattispecie, la Corte di Cassazione ha ritenuto che costituisse privata dimora la sede di un'associazione privata, e ha quindi considerato illegittima l'ispezione ivi eseguita degli accertatori).
---------------

2.1 Con il primo motivo (con cui deduce: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 466, 615 e 323 c.p., 13 LS 689/1981, 43 c.c., 57 c.p.p."), il ricorrente critica la sentenza impugnata, sostenendo, innanzitutto, che "il luogo dove i VV.UU. sono acceduti e un luogo di privata dimora" e riproponendo, poi, tutti i motivi di opposizione, relativi alla illegittimità dell'accertamento, sia per (pianto attiene alle modalità con cui era stato carpito il consenso all'accesso, sia per quanto attiene alle dedotte violazioni, da parte degli agenti accertatori, di specifiche disposizioni di disposizioni penalmente sanzionate, nonché di disposizioni del codice di rito penale.
...
2.2 Il primo motivo del ricorso merita accoglimento, con conseguente assorbimento degli altri.
L'art. 13, comma 1, della legge n. 689 del 1981 prevede, infatti, tra l'altro, che "gli organi addetti al controllo sull'osservanza delle disposizioni per la cui violazione prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro possono, per l'accertamento delle violazioni di loro competenza, assumere informazioni e procedere a ispezioni di cose e di luoghi diversi dalla privata dimora, a rilievi segnaletici descrittivi e fotografici ed a ogni altra operazione tecnica".
Posto, dunque, che per i "luoghi di privata dimora" la legge esclude il potere di ispezione dei predetti organi, il controllo sulla legittimità dell'operato degli agenti della Polizia Municipale nel caso di specie (e del verbale da essi conseguentemente compilato) presuppone la corretta individuazione della relativa nozione.
A tal fine, occorre fare riferimento alla disciplina dettata dall'art. 14, comma 1, Cost. ("Il domicilio è inviolabile") e dall'art. 614, comma 1, cod. pen., che, nel delineare il delitto di "violazione di domicilio", punisce con la reclusione fino a tre anni "chiunque s'introduce nell'abitazione altrui o in altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essa, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi s'introduce clandestinamente o con inganno".
In mancanza di specifici precedenti sull'art. 13, comma 1, della legge n. 689 del 1981, deve sottolinearsi che la giurisprudenza di questa Corte, in sede penale, ha affermato che deve intendersi per "privata dimora" non soltanto la casa di abitazione, bensì anche qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente all'esplicazione della vita privata o di attività lavorative, e, quindi, qualunque luogo, anche se -appunto- diverso dalla casa di abitazione, in cui la persona si soffermi per compiere, pur se in modo contingente e provvisorio, atti della sua vita privata riconducibili al lavoro, al commercio, allo studio, allo svago (cfr., ex pluribus, sentt. nn. 9992 e 10531 del 1983, 10745 del 1985, 6844 e 11277 del 1994, 879 del 1997).
Alla luce della nozione di privata dimora quale risultante da tale orientamento giurisprudenziale, integralmente condiviso dal Collegio, si deve dunque ritenere che, nella specie, l'ispezione dei vigili urbani -in quanto eseguita nella sede di un'associazione privata (Nu.Mi.)- lo è stata in un luogo di privata dimora e, pertanto, illegittimamente.
Da ciò discenda l'illegittimità dell'accertamento posto a fondamento dell'ordinanza ingiunzione opposta, la nullità degli atti relativi ad esso (processo verbale di accertamento ed ordinanza ingiunzione) e, conseguentemente, la cassazione della sentenza impugnata, che, fondandosi su principi opposti, ha rigettato l'opposizione.
Peraltro, la relativa causa, non essendo all'evidenza necessari ulteriori accertamenti di fatto, può essere decisa nel merito, secondo quanto disposto dall'art. 384, comma 1, secondo periodo, cod. proc. civ., nel senso dell'accoglimento dell'opposizione, proposta con il ricorso introduttivo del presente giudizio, e dell'annullamento dell'ordinanza-ingiunzione opposta: infatti -posto che l'accertamento su cui si basa il provvedimento di irrogazione della sanzione deve considerarsi nullo e privo di effetti- ne consegue che l'odierno ricorrente, sulla base delle considerazioni dianzi svolte, non può essere chiamato a rispondere della violazione allo stesso addebitata (Corte di cassazione, Sez. I civile, sentenza 24.03.2005 n. 6361).

aggiornamento al 30.04.2022 (ore 23,59)

Procedimenti amministrativi:
sull'incompatibilità del funzionario istruttore e sul dovere, o meno, di astensione.

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOIl Consiglio di Stato disegna il profilo del funzionario in «conflitto d'interessi».
Nel quadro normativo del nostro Paese non esiste una definizione univoca di conflitto d'interessi del pubblico funzionario. I profili di tale condizione si trovano per così dire allo "stato diffuso" in varie leggi e disposizioni di settore; e ciò determina non di rado l'insorgenza di zone d'ombra, incertezze operative, e persino irrazionali rallentamenti dei procedimenti amministrativi.

Con la sentenza 22.03.2022 n. 2069, il Consiglio di Stato -Sez. VI- ha declinato questa definizione generale. E lo ha fatto rievocando le norme operative di riferimento più calzanti. Per il massimo giudice amministrativo tale anomalia si verifica quando lo svolgimento di una attività sia assegnata a chi affidatario della cura dell'interesse generale sia titolare nella vicenda anche di interessi personali, con conseguente "riduzione" del soddisfacimento dell'interesse pubblico. In tale evenienza il funzionario deve astenersi da pratiche e incartamenti, e informare al più presto della situazione i propri superiori gerarchici.
La legge sul procedimento amministrativo del '90 prevede che il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi anche se solo potenziale. Questa regola è espressione del principio costituzionale di imparzialità della Pa il quale impone che le scelte adottate dall'organo vanno compiute nel rispetto della regola della "equidistanza" da tutti coloro che vengano a contatto con il potere pubblico.
Ulteriori lineamenti del divieto in parola sono contenuti nel Codice di comportamento dei dipendenti pubblici del 2013 secondo il quale il dipendente deve astenersi dal partecipare alla adozione di decisioni o attività che possano coinvolgere interessi propri, di suoi parenti, del coniuge ovvero di soggetti con cui sia in una situazione di «grave inimicizia».
Alla medesima esigenza di equidistanza si ispira la disciplina relativa alle incompatibilità presente nel Testo unico del 2001 sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche; nonché quella del 2013 in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico.
Altra importante disciplina di settore è contenuta nel Codice del 2016 in materia di procedure di affidamento dei contratti pubblici.
Secondo il massimo giudice amministrativo, dalla lettura d'insieme della richiamata normativa va dedotto univocamente che la mancata astensione del funzionario pubblico in condizioni di conflitto d'interessi comporta una illegittimità procedimentale che ricade sulla stessa validità dell'atto finale della pubblica amministrazione. Ciò a meno che non venga scrupolosamente dimostrato che la situazione d'incompatibilità del funzionario non ha in alcun modo influenzato il contenuto del provvedimento deviandolo dalla sua meta: l'interesse pubblico (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.04.2022).

---------------
SENTENZA
5.‒ Il motivo di appello incentrato sulla situazione di asserita incompatibilità, nella quale avrebbe operato la dottoressa Ma.Gi., è destituito di fondamento.
5.1.‒ L’art. 6-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale».
Tale regola è espressione del principio generale di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., il quale impone che «le scelte adottate dall’organo devono essere compiute nel rispetto della regola dell’equidistanza da tutti coloro che vengano a contatto con il potere pubblico» (cfr. Consiglio di Stato, comm. spec., n. 667 del 2019, sullo schema di Linee guida ANAC in materia di conflitti di interesse nell'affidamento dei contratti pubblici).
Una declinazione del principio è contenuta anche nell’art. 7 del decreto del Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165), il quale prevede che: «il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente».
Alla medesima esigenza si ispira la disciplina relativa alle incompatibilità nell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché il d.lgs. n. 39 del 2013, in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico).
Una specifica disciplina è prevista, in materia di procedure di affidamento dei contratti pubblici, dall’art. 42 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Per quanto non esista, all’interno del quadro normativo appena richiamato, una definizione univoca che preveda analiticamente tutte le ipotesi e gli elementi costitutivi di tale fattispecie, il conflitto di interessi può definirsi quella condizione giuridica che si verifica quando, all’interno di una pubblica amministrazione, lo svolgimento di una determinata attività sia affidato ad un funzionario che ha contestualmente titolare di interessi personali o di terzi, la cui eventuale soddisfazione implichi necessariamente una riduzione del soddisfacimento dell’interesse funzionalizzato. Operare in conflitto di interessi significa agire nonostante sussista una situazione del genere e, quindi, sorge l’obbligo del dipendente di informare l'Amministrazione e di astenersi.
La mancata astensione del funzionario comporta una illegittimità procedimentale che refluisce sulla validità dell’atto finale, a meno che non venga rigorosamente dimostrato (dall’Amministrazione procedente) che la situazione d’incompatibilità del funzionario non ha in alcun modo influenzato il contenuto del provvedimento facendolo divergere con il fine di interesse pubblico.
5.2.‒ Nel caso in esame, non è emerso che la dottoressa Gi. fosse portatrice di un interesse personale confliggente con quello all’imparziale finanziamento delle iniziative culturali sul territorio.
In primo luogo, dalla carica di membro del Comitato culturale dell’Associazione Te.Cr., la dottoressa si è dimessa in data 13.06.2019, prima quindi della presentazione in data 27.09.2019 delle due domande di contributo straordinario oggetto del presente ricorso.
Il Comitato culturale di cui si parla, peraltro, è un organo meramente consultivo del Consiglio Direttivo dell’Associazione Te.Cr. che fornisce pareri in merito alla qualità della proposta artistica e dove i componenti non percepiscono nessuna indennità o emolumento di altro genere.
Sotto altro profilo, dalla documentazione prodotta in giudizio si ricava che la dottoressa Gi. non era il titolare dell’organo competente a decidere sull’ammissione dei contributi, spettando tale attribuzione al Direttore di Ripartizione provinciale Cultura italiana (la dottoressa Ma.Gi. rilasciava invece il visto, ai sensi dell’art. 13 della legge della Provincia di Bolzano n. 17 del 1993, sulla responsabilità tecnica, amministrativa e contabile).
Va pure rimarcato che, in ordine ad analoghe accuse sollevate in sede penale, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bolzano, con provvedimento del 15.03.2021, ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero.
L’ulteriore affermazione, secondo cui la dottoressa Gi. avrebbe ricevuto negli anni abbonamenti gratuiti a tutta la programmazione del Te.Cr., è rimasta poi sfornita di qualsivoglia riscontro.

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOL’art. 6-bis l. 241/1990 (peraltro ratione temporis inapplicabile alla fattispecie, perché in vigore dal 28.12.2012) impone al responsabile del procedimento ed ai titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale, il dovere di astensione nel caso di conflitto di interessi.
La predetta situazione di conflitto di interessi viene intesa dalla giurisprudenza come coincidente con le ipotesi di incompatibilità di cui all’art. 51 c.p.c. (disposizione questa, considerata da sempre applicabile alla Pubblica Amministrazione: cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, 11.01.1999, n. 8).
Orbene, tra le ipotesi tassative di incompatibilità in cui sorge in capo al preposto all’organo il dovere di astensione, l’art. 51, primo comma, n. 3, c.p.c. elenca la “grave inimicizia”: sennonché, per giurisprudenza consolidata, la situazione di “grave inimicizia”, rilevante ai sensi dell’art. 51 c.p.c., presuppone la reciprocità, inoltre deve trovare fondamento solo in rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili circostanze di conflittualità.
La giurisprudenza ha quindi escluso che la presentazione di una denuncia o di un atto di impulso idoneo a dare inizio a un procedimento giudiziale possa bastare alla configurazione di una situazione di “grave inimicizia”, dovendo questa riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali; né la presentazione di una denuncia è idonea a creare una situazione di causa pendente, attesa la natura oggettiva della giurisdizione penale.
---------------

8.4. In merito, poi, alla pretesa che il menzionato Comandante interregionale si astenesse, in quanto in situazione di conflitto di interessi e difetto di terzietà, perché sottoposto a due procedimenti penali avviati su impulso dell’odierno appellato, osserva il Collegio che la censura non trova conforto negli atti di causa.
8.4.1. L’art. 6-bis l. 241/1990 (peraltro ratione temporis inapplicabile alla fattispecie, perché in vigore dal 28.12.2012) impone al responsabile del procedimento ed ai titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale, il dovere di astensione nel caso di conflitto di interessi. La predetta situazione di conflitto di interessi viene intesa dalla giurisprudenza (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 09.06.2021, n. 1152) come coincidente con le ipotesi di incompatibilità di cui all’art. 51 c.p.c. (disposizione questa, considerata da sempre applicabile alla Pubblica Amministrazione: cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, 11.01.1999, n. 8).
8.4.2. Orbene, tra le ipotesi tassative di incompatibilità in cui sorge in capo al preposto all’organo il dovere di astensione, l’art. 51, primo comma, n. 3, c.p.c. elenca la “grave inimicizia”: sennonché, per giurisprudenza consolidata, la situazione di “grave inimicizia”, rilevante ai sensi dell’art. 51 c.p.c., presuppone la reciprocità (cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. II, 31.10.2018, n. 27923; C.d.S., Sez. V, 20.12.2018, n. 7170; Sez. III, 02.04.2014, n. 1577), inoltre deve trovare fondamento solo in rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili circostanze di conflittualità (v. C.d.S., Sez. V, n. 7170/2018, cit., e Sez. III, n. 1577/2014, cit.).
La giurisprudenza ha quindi escluso che la presentazione di una denuncia o di un atto di impulso idoneo a dare inizio a un procedimento giudiziale possa bastare alla configurazione di una situazione di “grave inimicizia”, dovendo questa riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cass. civ., Sez. III, 13.04.2005, n. 7683); né la presentazione di una denuncia è idonea a creare una situazione di causa pendente, attesa la natura oggettiva della giurisdizione penale (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, n. 1152/2021, cit.) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 31.01.2022 n. 667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOOsserva il Collegio come le cause di incompatibilità abbiano specifica natura tassativa; pertanto, gli obblighi di astensione non operano laddove non ricorrano gli specifici presupposti indicati dal legislatore.
Nel caso di specie, non costituisce ex se causa di incompatibilità l’eventuale difforme avviso espresso dai funzionari comunali rispetto a precedenti pareri. Inoltre, la presunta incompatibilità non è, certamente, dimostrata dalla sola diversità dell’avviso in difetto di indici inferenziali che consentano di ritenere la causa pendente ragione effettiva del mutamento di avviso dedotto.
---------------
Nel caso di specie, non può ritenersi sussistente la condizione di “grave inimicizia” tra l’operatore ed i funzionari pubblici.
Pur prescindendo dal tema della legittimazione a proporre una simile ragione di incompatibilità, il Collegio osserva come la grave inimicizia attenga a “ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali” e non ricorra qualora il funzionario abbia posto in essere condotte istituzionali che abbiano dato vita a “molteplici provvedimenti pregiudizievoli tali da determinare l'insorgere di diverse controversie giurisdizionali”.
---------------

   H. Sull’incompatibilità dei funzionari (primo motivo del ricorso introduttivo).
15. Prendendo l’abbrivo dal primo motivo si rammenta che, con esso, i ricorrenti deducono l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in ragione della pendenza di un giudizio avanti il Tribunale civile di Pavia tra la società Es. e taluni amministratori e funzionari comunali, tra cui anche il responsabile del procedimento e il dirigente dell’ufficio tecnico comunale. Tale giudizio ha ad oggetto una domanda di risarcimento del danno personalmente diretta ai funzionari e agli amministratori per il diniego di approvazione di una precedente istanza di piano attuativo proposta dalla società Es. sulle medesime aree oggetto del presente giudizio. Gli atti impugnati sarebbero, quindi, emessi in violazione degli obblighi di astensione gravanti sui funzionari pubblici.
15.1. Osserva il Collegio che il giudizio al quale fanno riferimento i ricorrenti termina in data anteriore alla presentazione dell’istanza. La sentenza del Tribunale ordinario di Pavia n. 860/2019 è pubblicata in data 16.05.2019 e notificata nella stessa data (doc. n. 24 dell’Amministrazione comunale). La sentenza transita in rem iudicatam in data 15.06.2019, e, quindi, prima della presentazione dell’istanza di piano attuativo di Es., depositata in data 08.07.2019. Pertanto, al momento di approvazione del Piano la causa di incompatibilità consistente nella pendenza di una lite non sussiste.
15.2. I ricorrenti evidenziano, tuttavia, come i due funzionari comunali coinvolti nel giudizio civile redigano un parere preliminare in data 21.12.2018 e che tale parere abbia contenuto difforme dalla posizione assunta nel 2013 e nel 2014 (f. 24 della memoria di merito dei ricorrenti).
15.3. Osserva il Collegio come le cause di incompatibilità abbiano specifica natura tassativa; pertanto, gli obblighi di astensione non operano laddove non ricorrano gli specifici presupposti indicati dal legislatore. Nel caso di specie, non costituisce ex se causa di incompatibilità l’eventuale difforme avviso espresso dai funzionari comunali rispetto a precedenti pareri. Inoltre, la presunta incompatibilità non è, certamente, dimostrata dalla sola diversità dell’avviso in difetto di indici inferenziali che consentano di ritenere la causa pendente ragione effettiva del mutamento di avviso dedotto.
15.4. Inoltre, il parere del 21.12.2018 ha effettivamente carattere preliminare e, come tale, non solo non impegna l’Ente ma neppure costituisce il punto di riferimento istruttorio dei provvedimenti adottati. Infatti, il parere è reso in relazione alla “documentazione presentata in data 24.09.2018, prot. 44078”, e, quindi, su una rappresentazione ancora astratta dell’ipotesi progettuale che si sostanzia nella successiva istanza.
15.4.1. Lo confermano le risposte ai vari quesiti all’attenzione dell’Ufficio.
15.4.2. In relazione al tema della realizzazione delle strutture di vendita il parere conclude: “la proposta di realizzare 13 medie strutture di vendita è ammissibile, sempre che la stessa trovi fondamento, circostanza da dimostrare nel corso del procedimento di approvazione del piano sia con elaborati grafici che descrittivi, nell’attuazione dell’obiettivo affidato all’ambito di trasformazione, quello cioè di realizzare una città mista, attraverso uno sviluppo rispettoso dei principi di tutela e di valorizzazione della salute e dell’ambiente”. Il parere ha, quindi, un esito istruttorio rinviando alle evidenze da acquisire nel procedimento di approvazione del Piano.
15.4.3. In relazione al tema della “autonomia realizzativa e gestionale delle medesime medie strutture di vendita” il parere conclude: “il progetto di piano attuativo che sarà sviluppato dovrà dare piena e concreta dimostrazione di quanto rappresentato nella documentazione in esame, anche per la dimostrazione degli indici e grandezze urbanistiche, nonché dell’indipendenza delle superfici fondiarie e permeabili”. Anche in tal caso vi è, quindi, un rinvio alla necessità di una piena e concreta dimostrazione di quanto rappresentato nell’ambito dello specifico procedimento di approvazione del Piano.
15.4.4. In relazione al tema del “rispetto del principio di contestualità dei procedimenti urbanistico, edilizi e commerciali” il parere chiarisce che “l’istruttoria della richiesta di autorizzazione commerciale verrà sospesa sino alla conclusione del procedimento di adozione/approvazione del piano attuativo, il rilascio dell’autorizzazione potrà avvenire successivamente all’approvazione e/o stipula della convenzione urbanistica”. Il parere ha, quindi, contenuto meramente esplicativo della normativa di riferimento.
15.4.5. In relazione al tema del “rilascio di autorizzazioni commerciali intestate a Es. srl in qualità di proprietario degli immobili o suo eventuale avente titolo” il parere, dopo aver chiarito la normativa di riferimento, espone alcuni aspetti di carattere propriamente urbanistico da approfondire nell’apposito procedimento.
15.5. E’, inoltre, indimostrata la tesi secondo la quale il parere definirebbe la fase istruttoria atteso che il provvedimento impugnato fa espresso riferimento non a tale parere ma alla diversa “relazione” redatta dall’Ufficio e, quindi, ad un atto istruttorio formatosi nel procedimento e in relazione allo specifico progetto concretamente presentato dopo il parere preliminare. Né tale conclusione è suscettibile di smentita in quanto “il parere 21.12.2018 del resto già indica il contenuto del Pa quanto a dimostrazione delle superfici, dell’autonomia e via dicendo” (f. 25 della memoria difensiva dei ricorrenti). Infatti, il parere non è, comunque, sostitutivo dell’istruttoria ed è espresso su uno scenario progettuale la cui conferma nell’apposita istanza non è circostanza che muta la natura preliminare del parere.
15.6. In ultimo, non può ritenersi sussistente la condizione di “grave inimicizia” tra l’operatore ed i funzionari pubblici. Pur prescindendo dal tema della legittimazione a proporre una simile ragione di incompatibilità, il Collegio osserva come la grave inimicizia attenga a “ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali” (Cassazione civile, Sez. II, 31.10.2018 n. 27923) e non ricorra qualora il funzionario abbia posto in essere condotte istituzionali che abbiano dato vita a “molteplici provvedimenti pregiudizievoli tali da determinare l'insorgere di diverse controversie giurisdizionali” (Consiglio di Stato, Sez. V, 20.12.2018, n. 7170).
15.7. In definitiva il primo motivo di ricorso è infondato e deve, pertanto, respingersi (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.11.2021 n. 2570 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOLa giurisprudenza anche della Cassazione ai fini della configurabilità dell'obbligo di astensione (art. 51, n. 3, c.p.c.) in sede disciplinare per "grave inimicizia” richiede, oltre la reciprocità, la riferibilità a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali.
---------------

6.- Non miglior sorte merita il terzo motivo di gravame.
A prescindere da ogni altra considerazione il semplice alterco intervenuto tra il ricorrente ed il Comandante di Stazione non appare sufficiente a giustificare la sussistenza a carico di quest’ultimo di un obbligo di astensione, essendo pressoché fisiologica all’interno di ogni ambiente lavorativo l’insorgenza di contrasti verbali tra il personale in merito all’organizzazione ed all’adempimento degli obblighi lavorativi, senza che ciò comporti una “grave inimicizia” tale ai sensi dell’art. 51, n. 3, c.p.c. da imporre l’astensione del superiore gerarchico.
Infatti la giurisprudenza anche della Cassazione ai fini della configurabilità del predetto obbligo di astensione (art. 51, n. 3, c.p.c.) in sede disciplinare per "grave inimicizia” richiede, oltre la reciprocità, la riferibilità a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cassazione civile sez. II, 31.10.2018, n. 27923; id. n. 7683/2005) circostanza non rinvenibile nel caso di specie (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 19.11.2021 n. 948 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOLa presentazione di denunce, come anche le pubbliche accuse di scorretta amministrazione dell’urbanistica comunale, non possono essere considerate motivo di astensione obbligatoria del funzionario.
Per opinione consolidata, infatti, il conflitto d’interessi, rilevante ai sensi dell’art. 6-bis l. 241/1990, coincide con le ipotesi d’incompatibilità di cui all’art. 51 cod. proc. civ., che rivestono carattere tassativo e sfuggono, di conseguenza, a ogni tentativo di manipolazione analogica.
Pertanto, la presentazione di denuncia in sede penale non costituisce causa di legittima ricusazione perché inidonea a creare una situazione di causa pendente –per la natura oggettiva della giurisdizione penale– o di grave inimicizia –che deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili circostanze di conflittualità.

---------------

(III) Con il terzo motivo, i ricorrenti hanno dedotto che il responsabile del procedimento avrebbe dovuto astenersi per incompatibilità (art. 6-bis l. 241/1990), in quanto destinatario –assieme ad altri funzionari del Comune– di una serie di denunce penali presentate da Il.Ma. nel 2020 nonché di pubbliche lamentele effettuate da quest’ultimo in ordine all’illegittimità di alcune lottizzazioni.
...
6. Nel merito, deve essere dapprima analizzato il terzo motivo di ricorso, stante la riconducibilità dell’incompatibilità del funzionario al vizio d’incompetenza. La fondatezza di tale motivo inibirebbe la valutazione delle restanti censure sostanziali, essendo impedito al giudice di pronunciarsi su poteri non ancora esercitati (art. 34, comma 2, cod. proc. amm.), tali dovendosi considerare le valutazioni di spettanza dell’organo competente cui il procedimento dovrebbe essere assegnato in caso di annullamento dell’atto per incompetenza (per tutte, Cons. Stato, Ad. Plen., 27.04.2015, n. 5).
La relativa doglianza è infondata, giacché la presentazione di denunce, come anche le pubbliche accuse di scorretta amministrazione dell’urbanistica comunale, non possono essere considerate motivo di astensione obbligatoria del funzionario.
Per opinione consolidata, infatti, il conflitto d’interessi, rilevante ai sensi dell’art. 6-bis l. 241/1990, coincide con le ipotesi d’incompatibilità di cui all’art. 51 cod. proc. civ., che rivestono carattere tassativo e sfuggono, di conseguenza, a ogni tentativo di manipolazione analogica.
Pertanto, la presentazione di denuncia in sede penale non costituisce causa di legittima ricusazione perché inidonea a creare una situazione di causa pendente –per la natura oggettiva della giurisdizione penale– o di grave inimicizia –che deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili circostanze di conflittualità (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 02.04.2014, n. 1577; TAR Ancona, Sez. I, 26.03.2019, n. 175) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 09.06.2021 n. 1152 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGONella specie non è configurabile l’ipotesi della «grave inimicizia» dei due componenti del collegio giudicante nei confronti del menzionato difensore, dovendo questa essere reciproca sicché non è sufficiente ad integrarla la mera presentazione di una denuncia o, comunque, di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale o disciplinare, ma la grave inimicizia deve ricondursi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali e alla realtà processuale, con l’indicazione di correlativi fatti circostanziati, concreti e specifici.
---------------

Ebbene, premesso che s’intendono qui richiamate, per ragioni di sinteticità imposte dall’art. 3 cod. proc. amm., le esposizioni in fatto contenute a pp. 3-9 nella menzionata ordinanza n. 245/2019 del TRGA, reiettiva dell’istanza di ricusazione, si rileva che il TRGA, nel respingere l’istanza –fondata sulle ipotesi di «causa pendente» e di «grave inimicizia» tra due dei magistrati componenti il collegio e uno dei difensori dei ricorrenti, ai sensi degli artt. 18, comma 1, cod. proc., amm. e 51, comma 1, numero 3), cod. proc. civ.–, ha fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali elaborati da questo Consiglio di Stato in tema di ricusazione, in quanto:
   - l’ipotesi della «causa pendente», con riferimento al processo penale, in applicazione del criterio interpretativo restrittivo e tassativo sopra enunciato, deve ritenersi integrata soltanto con l’esercizio dell’azione penale ai sensi degli artt. 60 e 405 cod. proc. pen.;
   - infatti, la pendenza del giudizio penale presuppone la richiesta del pubblico ministero di rinvio a giudizio a norma dell’art. 416 cod. proc. pen. e con gli altri atti con i quali si chiede al giudice di decidere sulla pretesa punitiva (v., ex plurimis –seppur con riferimento ed fattispecie diverse dalla ricusazione–, Cons. Stato, Sez. VI, 13.03.2019, n. 1666; Cons. Stato, Sez. III, 22.01.2016, n. 206);
   - nel caso di specie il procedimento penale iscritto sub R.G.N.R. n. 813/2018 dinanzi al Tribunale di Bolzano, Sezione penale, a carico del difensore degli originari ricorrenti su denuncia dei giudici ricusati –peraltro, per ragioni che trovano la loro origine in un precedente processo svoltosi dinanzi allo stesso TRGA, e quindi attinenti all’esercizio di attività istituzionali–, non può essere considerato alla stregua di «causa pendente» ai fini di cui al citato art. 51, comma 1, numero 3), cod. proc. civ., poiché tale procedimento all’epoca della decisione di primo grado si trovava nella fase di opposizione alla richiesta di archiviazione ai sensi dell’art. 409 e ss. cod. proc. pen., formulata dai due magistrati ricusati, e l’azione penale non risultava ancora esercitata dal pubblico ministero ai sensi degli artt. 50 e 60 cod. proc. pen. (v., sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 19.06.2003, n. 3658, secondo cui l’opposizione al decreto che abbia disposto l’archiviazione dell’esposto penale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 50, comma 1, 405, comma 1, e 409, comma 5, cod. proc. pen., non integra l’avvenuto esercizio dell’azione penale ed inibisce, di conseguenza, che si configuri il presupposto della «causa pendente» ex art. 51 cod. proc. civ., da intendere in senso tecnico-giuridico);
   - anticipare la ‘soglia’ dei procedimenti penali, ai fini di cui all’art. 51, comma 1, numero 3), cod. proc. civ., alla fase anteriore all’esercizio dell’azione penale, comporterebbe, per un verso, il pericolo di impedire e/o aggravare l’esercizio, da parte dell’organo giudicante e/o dei suoi componenti, dei doveri istituzionali di presentare rapporti o esposti ai competenti organi sia giurisdizionali (quali le Procure presso i Tribunali o la Corte dei conti) sia disciplinari (quali i Consigli degli ordini professionali), e, per altro verso, il rischio di una possibile strumentalizzazione delle denunzie o degli esposti ad opera delle parti private in funzione della creazione di situazioni di incompatibilità per eludere il principio della precostituzione del giudice naturale sancito dall’art. 25 Cost.;
   - né nella specie è configurabile l’ipotesi della «grave inimicizia» dei due componenti del collegio giudicante nei confronti del menzionato difensore, dovendo questa essere reciproca sicché non è sufficiente ad integrarla la mera presentazione di una denuncia o, comunque, di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale o disciplinare, ma la grave inimicizia deve ricondursi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali e alla realtà processuale, con l’indicazione di correlativi fatti circostanziati, concreti e specifici (v. in tal senso, ex plurimis, Cass. civ., 31.10.2018, n. 27923; Cass. civ., ord. 24.09.2015, n. 18976; id., ord. 24.11.2014), nella specie né allegati né tanto meno provati.
Conclusivamente, il motivo all’esame deve essere disatteso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.05.2021 n. 3556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOL’obbligo di astensione sancito dall’art. 51 c.p.c. sussiste solo allorché la grave inimicizia sia reciproca, trovi fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivi da vicende estranee allo svolgimento delle funzioni e si estrinsechi in dati di fatto concreti, precisi e documentati; la grave inimicizia non equivale alla mera presentazione di una denuncia o comunque di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in linea di principio, originare dall'attività consiliare del componente il collegio per questioni comunque inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali.
Sul carattere tassativo delle cause di incompatibilità di cui al richiamato articolo 51 c.p.c. si è ripetutamente espressa la giurisprudenza che ha chiarito come esse sfuggano “ad ogni tentativo di manipolazione analogica all'evidente scopo di tutelare l'esigenza di certezza dell'azione amministrativa e la stabilità della composizione delle commissioni giudicatrici. Tanto soprattutto per evitare interferenze o interventi esterni, preordinati, con effetto parimenti abusivo a quello dell'omessa astensione di chi versi in patente conflitto d'interessi, a determinare, mediante usi forzati o infondati di detti obblighi, una composizione gradita o intimorita dell'organo giudicante”.
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che tali precisazioni sono ancora più necessarie “sol che si pensi alla regola evincibile dall'art. 51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi "...se egli stesso... ha causa pendente... con una delle parti...". In altre parole, la norma, come s'è visto applicabile per analogia nell'esercizio del pubblico potere, individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza necessità di verifica di elementi ulteriori. Ebbene, nella specie si trattò d'un esposto che l'appellato indirizzò a vari soggetti tra cui la predetta Procura in relazione a certi fatti anteriori, ma il TAR non s'avvede anzitutto che già l'asserita (o attuata) presentazione di denuncia in sede penale da parte del ricusante nei confronti del Giudice (o, per analogia, del commissario di concorso) non costituisce causa di legittima ricusazione perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente (per la natura oggettiva della giurisdizione penale) o di grave inimicizia”.
---------------

7. Parimenti infondato è il motivo di ricorso con cui il ricorrente deduce la illegittimità della delibera impugnata per violazione del principio di imparzialità, in ragione del fatto che il Commissario Straordinario che ha adottato il provvedimento impugnato (dott. In.) versava in una situazione di incompatibilità nei confronti del Me., che aveva proposto contro di lui più esposti e denunce “nell’adempimento di preciso obbligo di rapporto” (pag. 5 del ricorso).
Anche tale rilievo è del tutto destituito di fondamento alla luce del consolidato orientamento secondo il quale l’obbligo di astensione sancito dall’art. 51 c.p.c. sussiste solo allorché la grave inimicizia sia reciproca, trovi fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivi da vicende estranee allo svolgimento delle funzioni e si estrinsechi in dati di fatto concreti, precisi e documentati (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 7170/2018); la grave inimicizia non equivale alla mera presentazione di una denuncia o comunque di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in linea di principio, originare dall'attività consiliare del componente il collegio per questioni comunque inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cassazione, sez. II, sentenza n. 27923/2018).
Sul carattere tassativo delle cause di incompatibilità di cui al richiamato articolo 51 c.p.c. si è ripetutamente espressa la giurisprudenza che ha chiarito come esse sfuggano “ad ogni tentativo di manipolazione analogica (arg. ex Cons. St., VI, 03.03.2007 n. 1011; id., 26.01.2009 n. 354; id., 19.03.2013 n. 1606) all'evidente scopo di tutelare l'esigenza di certezza dell'azione amministrativa e la stabilità della composizione delle commissioni giudicatrici. Tanto soprattutto per evitare interferenze o interventi esterni, preordinati, con effetto parimenti abusivo a quello dell'omessa astensione di chi versi in patente conflitto d'interessi, a determinare, mediante usi forzati o infondati di detti obblighi, una composizione gradita o intimorita dell'organo giudicante” (Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 1577/2014).
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che tali precisazioni sono ancora più necessarie “sol che si pensi alla regola evincibile dall'art. 51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi "...se egli stesso... ha causa pendente... con una delle parti...". In altre parole, la norma, come s'è visto applicabile per analogia nell'esercizio del pubblico potere, individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza necessità di verifica di elementi ulteriori. Ebbene, nella specie si trattò d'un esposto che l'appellato indirizzò a vari soggetti tra cui la predetta Procura in relazione a certi fatti anteriori, ma il TAR non s'avvede anzitutto che già l'asserita (o attuata) presentazione di denuncia in sede penale da parte del ricusante nei confronti del Giudice (o, per analogia, del commissario di concorso) non costituisce causa di legittima ricusazione perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente (per la natura oggettiva della giurisdizione penale) o di grave inimicizia (cfr. Cons. St., IV, 02.04.2012 n. 1958)” (Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 1577/2014).
Il Collegio non ravvisa, nel caso di specie, la sussistenza dei presupposti, così come individuati dalla giurisprudenza sopra richiamata, necessari per poter configurare la contestata causa di incompatibilità. Il ricorrente, invero, fa riferimento ad esposti e denunce che, oltre ad attenere al rapporto lavorativo tra i due soggetti e non a rapporti personali, non sono idonei a dimostrare la reciprocità dell’assunta inimicizia. Si osserva, peraltro, che non risulta neanche dimostrato che dalle suddette denunce siano derivati condanne o procedimenti penali a carico del dott. In. (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 04.03.2019 n. 416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGONon ricorre, nella fattispecie in esame, alcuna delle condizioni tassativamente previste dall’art. 51 c.p.c. e dall’articolo 42 del dlgs n. 50/2016 in presenza delle quali sussiste l’obbligo di astensione dalle funzioni di commissario né un potenziale conflitto di interessi per l’esistenza di grave ragioni di convenienza, di una causa pendente tra le parti o di una grave inimicizia tra le medesime (che, peraltro, per essere rilevante ai fini che qui interessano deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivare da vicende estranee allo svolgimento delle funzioni ed estrinsecarsi in dati di fatto concreti, precisi e documentati).
Né è idonea ad invalidare la determinazione di nomina della Commissione ovvero l’intera procedura di gara (con conseguente necessità di una sua riedizione) la circostanza che il soggetto, designato Presidente della Commissione, non abbia compiutamente e preventivamente rappresentato alla Stazione appaltante l’esistenza di una situazione di potenziale conflitto di interessi: quel che rileva è, infatti, che le Amministrazioni appellate abbiano, nel corso del procedimento, correttamente valutato l’inesistenza di ipotesi tali da determinare la ricorrenza effettiva e concreta di una situazione di incompatibilità del componente la Commissione, tale da renderne doverosa l’astensione, senza che possa perciò assumere alcuna valenza dirimente, ai fini dell’illegittimità dell’esclusione, il fatto che l’Amministrazione non ne sia stata previamente informata dal commissario versante, secondo le altre imprese partecipanti alla gara, in potenziale conflitto, bensì dalla concorrente che di quel conflitto assume l’esistenza.
Ed infatti, una volta accertata –per le ragioni dinanzi esaminate– l’assenza in capo all’avv. Cu. di una situazione di conflitto (anche solo potenziale) di interesse con l’odierna appellante, è evidente che nessun obbligo di preventiva dichiarazione sussistesse in capo a lui e che, conseguentemente, nessuna conseguenza possa essere connessa alla mancata dichiarazione.
---------------

4.1. In primo luogo, la Sezione qui rileva come devono essere respinte le censure con cui l’appellante ha dedotto l’esistenza, nel caso di specie, di una situazione di conflitto di interessi, quanto meno potenziale, in cui verserebbe l’avv. Cu., membro esterno e Dirigente del Comune di Ardea, designato quale Presidente della Commissione di gara.
Tale situazione, che conseguirebbe all’adozione nel corso degli anni, da parte del predetto dirigente, di molteplici provvedimenti pregiudizievoli nei confronti della sua socia di maggioranza, tali da determinare l’insorgere di diverse controversie giurisdizionali tra l’appellante e il Comune di Ardea (di cui una tuttora pendente dinanzi alla Corte di Appello di Roma e non definita bonariamente proprio per l’assenza della sottoscrizione dell’avv. Cu. sull’accordo transattivo intervenuto tra le parti) e comportanti, perfino, una segnalazione (pur senza irrogazione di sanzioni) all’ANAC per l’asserita falsa dichiarazione da parte degli organi societari in ordine ai requisiti generali, avrebbe dunque, ad avviso dell’appellante, imposto l’astensione del predetto dalla funzione di Presidente della Commissione esaminatrice o, perlomeno, richiesto una segnalazione dell’incompatibilità alla Stazione appaltante mediante apposita dichiarazione, sì da consentire alla CUC l’opportuna valutazione circa il ricorrere delle ipotesi di astensione obbligatoria da parte dei commissari.
4.2. La Sezione qui rileva come le vicende e gli elementi addotti dall’appellante a sostegno della sua tesi non siano in alcun modo idonei a ledere o ad esporre a pericolo i principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, non consentendo di ravvisare un’effettiva situazione di conflitto di interesse o di incompatibilità, nemmeno potenziale, nella posizione dell’avv. Cu.: ciò non tanto a ragione della risalenza nel tempo dei provvedimenti controversi adottati nei confronti dell’appellante (la quale ha evidenziato come di questi taluni sono stati, invece, adottati in epoca piuttosto recente) ovvero della loro assunzione nei confronti di società diversa da quella appellante (posto che la prima è, in effetti, socia di maggioranza della seconda al 99 per cento), quanto piuttosto in considerazione del fatto che detti provvedimenti, benché abbiano inciso negativamente sulla sfera giuridica della destinataria (comportando l’esclusione da una procedura gara o la decadenza dall’affidamento del servizi), sono stati assunti dall’avv. Cu. unicamente nell’esplicazione delle funzioni dirigenziali, in qualità di RUP o di dirigente del Servizio competente, presso altro Comune, e sono stati anche dichiarati legittimi all’esito dei contenziosi instaurati dall’odierna appellante (si vedano sentenze del Tar per il Lazio n. 11876/2010 e 4719/2015 di reiezione dei ricorsi introduttivi proposti dall’Al.Fo.).
Del resto, quest’ultima non ha dimostrato l’esistenza di una condotta addebitabile al detto dirigente circa la mancata sottoscrizione dell’accordo transattivo del 2014 (che avrebbe impedito il componimento bonario della lite, tuttora pendente, tra il Comune e la Al.Fo.) e anche la mancata aggiudicazione da parte dell’appellante rispetto a gare in cui il Cu. era nella Commissione (come pure il diverso esito ottenuto in competizioni in cui ciò non si è verificato) non costituisce di per sé elemento idoneo a far insorgere un sospetto consistente di violazione dei principi di imparzialità, di trasparenza e di parità di trattamento: non è dato, infatti, comprendere in cosa consisterebbe il presunto interesse finanziario, economico o personale costituente una possibile minaccia all’imparzialità o indipendenza nel contesto della procedura de qua sì da far ritenere fondato e ragionevole il dubbio circa l’esistenza di una situazione di parziarietà, ostilità o pregiudizio tale da inficiare la valutazione espressa dall’avv. Cu. nei confronti dell’offerta della società appellante o, addirittura, da condizionare, visto il ruolo in concreto rivestito, anche il giudizio formulato dagli altri commissari (sì da determinare, di fatto, l’ingiustizia del punteggio attribuito e del mancato superamento della soglia stabilita dal disciplinare ai fini dell’ammissione della concorrente alle successive fasi di gara).
In tutti i casi evidenziati, invero, l’avv. Cu. si è limitato allo svolgimento dei propri compiti istituzionali mediante l’adozione di provvedimenti che, nei casi di esiti contenziosi, sono stati riconosciuti legittimi in giudizio e riferibili solo all’Ente di appartenenza (come pure le controversie giurisdizionali che ne sono poi conseguite), senza che in ciò possano ravvisarsi gli estremi di “oggettivi e innegabili trascorsi conflittuali” cui fa riferimento l’appellante.
Non ricorre, dunque, nella fattispecie in esame alcuna delle condizioni tassativamente previste dall’art. 51 c.p.c. e dall’articolo 42 del decreto legislativo n. 50 del 2016 in presenza delle quali sussiste l’obbligo di astensione dalle funzioni di commissario né un potenziale conflitto di interessi per l’esistenza di grave ragioni di convenienza, di una causa pendente tra le parti o di una grave inimicizia tra le medesime (che, peraltro, per essere rilevante ai fini che qui interessano deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivare da vicende estranee allo svolgimento delle funzioni ed estrinsecarsi in dati di fatto concreti, precisi e documentati).
4.3. Né è idonea ad invalidare la determinazione di nomina della Commissione ovvero l’intera procedura di gara (con conseguente necessità di una sua riedizione) la circostanza che il soggetto, designato Presidente della Commissione, non abbia compiutamente e preventivamente rappresentato alla Stazione appaltante l’esistenza di una situazione di potenziale conflitto di interessi: quel che rileva è, infatti, che le Amministrazioni appellate abbiano, nel corso del procedimento, correttamente valutato l’inesistenza di ipotesi tali da determinare la ricorrenza effettiva e concreta di una situazione di incompatibilità del componente la Commissione, tale da renderne doverosa l’astensione, senza che possa perciò assumere alcuna valenza dirimente, ai fini dell’illegittimità dell’esclusione, il fatto che l’Amministrazione non ne sia stata previamente informata dal commissario versante, secondo le altre imprese partecipanti alla gara, in potenziale conflitto, bensì dalla concorrente che di quel conflitto assume l’esistenza.
Ed infatti, una volta accertata –per le ragioni dinanzi esaminate– l’assenza in capo all’avv. Cu. di una situazione di conflitto (anche solo potenziale) di interesse con l’odierna appellante, è evidente che nessun obbligo di preventiva dichiarazione sussistesse in capo a lui e che, conseguentemente, nessuna conseguenza possa essere connessa alla mancata dichiarazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.12.2018 n. 7170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOAi sensi dell'art. 51, numero 3, c.p.c. la "grave inimicizia" del componente del consiglio dell'ordine nei confronti dell'incolpato deve essere reciproca, non equivale alla mera presentazione di una denuncia o comunque di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in linea di principio, originare dall'attività consiliare del componente il collegio per questioni comunque inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali.
---------------

II.1. II secondo motivo di ricorso del dottor Ma.Po.Ma.Mi. è infondato.
Ai sensi dell'art. 64 del d.P.R. 05.04.1950, n. 221 (contenente il regolamento di esecuzione del d.lgs. 13.09.1946, n. 233 sull'esercizio delle professioni sanitarie), i componenti del consiglio dell'ordine professionale dei medici, collegio disciplinare, possono essere ricusati per i motivi stabiliti dal codice di procedura civile e, quindi, anche allorché esistano rapporti di grave inimicizia con l'incolpato.
Ora, l'oggettiva mancanza di motivazione, da parte della Commissione centrale, con riferimento al secondo motivo di ricorso per cui dall'incolpato era stato domandato l'annullamento della sanzione disciplinare (valendo come motivazione apparente l'argomento che "dalle evidenze documentali non emergono evidenze probatorie idonee ad attestare una situazione di conflittualità o di pregiudizio da parte dei componenti dell'Ordine..."), non si traduce, automaticamente, in un vizio di omissione di pronuncia, con conseguente annullamento con rinvio della decisione, quando, come appare nel caso in esame, il motivo di annullamento avrebbe dovuto essere rigettato, non essendo i fatti allegati dal deducente di per sé idonei in diritto a sorreggere l'accoglimento dell'impugnazione, e perciò potendo all'uopo provvedere questa Corte attraverso l'impiego del potere di correzione della motivazione ai sensi dell'art. 384, comma 4, c.p.c. (così Cass. Sez. 3, 23/01/2002, n. 743; più in generale, Cass. Sez. U, 02/02/2017, n. 2731).
Ed allora, per quanto il ricorrente riporta del contenuto della ricusazione presentata nella memoria depositata per l'udienza disciplinare del 29.09.2014, l'infondatezza della stessa deriva dalla considerazione dell'interpretazione, offerta da questa Corte, secondo cui la ricusazione dei componenti del consiglio dell'ordine professionale, ai sensi dell'art. 64 del d.P.R. 05.04.1950, n. 221, non può essere rivolta, come invece pretende il Mi., nei confronti dell'organo collegiale nel suo complesso, in quanto il richiamato art. 51 c.p.c. prevede l'astensione e la ricusazione solo per cause riferibili direttamente o indirettamente al giudice come persona fisica (Cass. Sez. 3, 02/03/2006, n. 4657).
D'altro canto, ai sensi dell'art. 51, numero 3, c.p.c. la "grave inimicizia" del componente del consiglio dell'ordine nei confronti dell'incolpato deve essere reciproca, non equivale alla mera presentazione di una denuncia o comunque di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in linea di principio, originare dall'attività consiliare del componente il collegio per questioni comunque inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (cfr. Cass. Sez. 3, 13/04/2005, n. 7683) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 31.10.2018 n. 27923).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGONon è qui in discussione il principio secondo cui l’obbligo di astensione, per incompatibilità, dei componenti un organo collegiale si verifica per il sol fatto che questi siano portatori di interessi personali atti ad inverare una posizione di conflittualità o anche di divergenza rispetto a quello, generale, affidato alle cure della P.A., indipendentemente dalla circostanza che, nel corso del procedimento, che l’organo abbia proceduto in modo imparziale, o che non via sia prova di condizionamento per effetto del potenziale conflitto d’interessi.
Non è allora chi non veda, proprio per evitare l’uso strumentale dell’obbligo d’astensione e della correlata ricusazione, la necessità d’una lettura assai stringente delle norme ex art. 51 c.p.c., sia in generale, sia con riguardo alla specifica fattispecie di conflitto d’interessi, nel caso in esame individuata nella pendenza di lite.
In termini generali, occorre rammentare che le cause di incompatibilità di cui al ripetuto art. 51, com’è noto estensibili a tutti i campi dell'azione amministrativa quale applicazione dell’obbligo costituzionale d’imparzialità —maxime alla materia concorsuale—, rivestono un carattere tassativo. Esse sfuggono quindi ad ogni tentativo di manipolazione analogica all’evidente scopo di tutelare l’esigenza di certezza dell'azione amministrativa e la stabilità della composizione delle commissioni giudicatrici. Tanto soprattutto per evitare interferenze o interventi esterni, preordinati, con effetto parimenti abusivo a quello dell’omessa astensione di chi versi in patente conflitto d’interessi, a determinare, mediante usi forzati o infondati di detti obblighi, una composizione gradita o intimorita dell’organo giudicante.
Queste precisazioni s’appalesano, agli occhi del Collegio, tanto più necessarie, sol che si pensi alla regola evincibile dall’art. 51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi «…se egli stesso... ha causa pendente... con una delle parti...». In altre parole, la norma, come s’è visto applicabile per analogia nell’esercizio del pubblico potere, individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza necessità di verifica di elementi ulteriori.
Ebbene, nella specie si trattò d’un esposto che l’appellato indirizzò a vari soggetti tra cui la predetta Procura in relazione a certi fatti anteriori, ma il TAR non s’avvede anzitutto che già l'asserita (o attuata) presentazione di denuncia in sede penale da parte del ricusante nei confronti del Giudice (o, per analogia, del commissario di concorso) non costituisce causa di legittima ricusazione perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente (per la natura oggettiva della giurisdizione penale) o di grave inimicizia. Tanto non volendo considerare quanto già detto prima, cioè che l’abuso della denuncia sarebbe uno strumento per evitare una composizione della Commissione non gradita al candidato.
Né basta: rettamente l’appellante rende noto il fatto che del predetto esposto l’ufficio giudiziario adito non poté fornire riscontro, donde l’assenza d’ogni seria prova, a tutto concedere, sia della “pendenza” della lite, sia della conoscenza di questa da parte del dott. Pu.. Del pari, siffatta pendenza non si verifica nella controversia instaurata dall’appellato innanzi al TAR Milano, giacché di essa o dei suoi estremi non v’è traccia, né riscontro nell’impugnazione di primo grado. Pare solo che su di essa penda tuttora un ricorso in appello, proposto dallo stesso dott. La. innanzi a questo Consiglio, ma non ancora esitato.
È solo da precisare, ai fini dell’esatto inquadramento del concetto di «grave inimicizia», che esso descrive non già un sentimento di mera antipatia o di acrimonia, bensì una situazione oggettiva ed articolata (originata da fatti e circostanze complete, significative ed estranee al processo) di ostilità talmente radicata e tenace, da far presumere che il Giudice (o, per analogia, il commissario di concorso) decida, aprioristicamente, in senso contrario al suo avversario.
---------------

... per la riforma della sentenza del TAR Lombardia–Milano, sez. IV, n. 1230/2011, resa tra le parti e concernente gli atti della selezione interna per la progressione verticale nel profilo collaboratore amministrativo;
...
L’ASL della Provincia di Varese, che aveva indetto una procedura selettiva per la progressione verticale nel profilo professionale Collaboratore amministrativo —cui, senza esito, partecipò l’appellato (dott. Ma.La.)—, impugna la sentenza con cui il TAR accolse il ricorso di questi sotto il solo profilo della mancata astensione del presidente della relativa Commissione giudicatrice (dott. Lu.Pu.), che versava in pretesa situazione d’inimicizia nei suoi riguardi.
Si può prescindere da ogni considerazione sull’ammissibilità del ricorso di primo grado, in quanto l’appello è meritevole d’accoglimento nel merito, per le ragioni di cui appresso.
Al riguardo, il TAR ha accolto, di tutti i svariati motivi del gravame dell’odierno appellato, soltanto quello dell’inimicizia con il dott. Pu., in base ai documenti allegati dal n. 8) al n. 11) della produzione di primo grado.
In particolare, il TAR rende nota anzitutto la segnalazione, da parte dell’appellato stesso ed in più occasioni precedenti allo svolgimento di tal procedura, di «… presunte e gravi anomalie legate alla posizione lavorativa, nell’ambito dell’Azienda sanitaria..., di una stretta congiunta del predetto dott. Pu.…». Inoltre, l’appellato aveva a suo tempo prodotto un esposto, nei confronti del medesimo dott. Pu., alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio, pur dando lealmente atto che, alla data di decisione del ricorso di primo grado, il relativo procedimento penale fosse stato già archiviato.
Ebbene, lo deduce espressamente l’ASL appellante, i documenti, su cui il TAR ha formato il suo convincimento circa l’illegittima omessa astensione del dott. Pu., riguardano:
   A) – il n. 8) la missiva rivolta, tra gli altri, a detta Procura della Repubblica, relativamente ad irregolarità accadute in un pregresso concorso cui partecipò l’appellato;
   B) – i nn. 9) e 10) le corrispondenti istanze di accesso a documenti amministrativi, rivolte non all’ASL, ma al Commissario straordinario della soppressa USSL n. 2 di Gallarate;
   C) – il n. 11), la risposta fornita da quest’ultimo all’appellato, in una con il disposto accesso agli atti.
Reputa sul punto il Collegio, in disparte ogni questione sulla risalenza delle vicende descritte in tali documenti, nonché sulla circostanza che l’ASL o il dott. Pu. ne avessero, o no, avuto contezza anteriore, che il loro contenuto non integri i rigorosi presupposti affinché si determini l’astensione ex art. 51 c.p.c., neppure con lo specifico riguardo alla pendenza di lite tra i soggetti coinvolti.
Non è qui in discussione il principio, pur rammentato dal TAR e da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi, secondo cui l’obbligo di astensione, per incompatibilità, dei componenti un organo collegiale si verifica per il sol fatto che questi siano portatori di interessi personali atti ad inverare una posizione di conflittualità o anche di divergenza rispetto a quello, generale, affidato alle cure della P.A., indipendentemente dalla circostanza che, nel corso del procedimento, che l’organo abbia proceduto in modo imparziale, o che non via sia prova di condizionamento per effetto del potenziale conflitto d’interessi.
 Non è allora chi non veda, proprio per evitare l’uso strumentale dell’obbligo d’astensione e della correlata ricusazione, la necessità d’una lettura assai stringente delle norme ex art. 51 c.p.c., sia in generale, sia con riguardo alla specifica fattispecie di conflitto d’interessi, nel caso in esame individuata nella pendenza di lite.
In termini generali, occorre rammentare che le cause di incompatibilità di cui al ripetuto art. 51, com’è noto (cfr., per tutti, Cons. St., III, 24.01.2013 n. 477) estensibili a tutti i campi dell'azione amministrativa quale applicazione dell’obbligo costituzionale d’imparzialità —maxime alla materia concorsuale—, rivestono un carattere tassativo. Esse sfuggono quindi ad ogni tentativo di manipolazione analogica (arg. ex Cons. St., VI, 03.03.2007 n. 1011; id., 26.01.2009 n. 354; id., 19.03.2013 n. 1606) all’evidente scopo di tutelare l’esigenza di certezza dell'azione amministrativa e la stabilità della composizione delle commissioni giudicatrici. Tanto soprattutto per evitare interferenze o interventi esterni, preordinati, con effetto parimenti abusivo a quello dell’omessa astensione di chi versi in patente conflitto d’interessi, a determinare, mediante usi forzati o infondati di detti obblighi, una composizione gradita o intimorita dell’organo giudicante.
Queste precisazioni s’appalesano, agli occhi del Collegio, tanto più necessarie, sol che si pensi alla regola evincibile dall’art. 51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi «…se egli stesso... ha causa pendente... con una delle parti...». In altre parole, la norma, come s’è visto applicabile per analogia nell’esercizio del pubblico potere, individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza necessità di verifica di elementi ulteriori.
Ebbene, nella specie si trattò d’un esposto che l’appellato indirizzò a vari soggetti tra cui la predetta Procura in relazione a certi fatti anteriori, ma il TAR non s’avvede anzitutto che già l'asserita (o attuata) presentazione di denuncia in sede penale da parte del ricusante nei confronti del Giudice (o, per analogia, del commissario di concorso) non costituisce causa di legittima ricusazione perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente (per la natura oggettiva della giurisdizione penale) o di grave inimicizia (cfr. Cons. St., IV, 02.04.2012 n. 1958). Tanto non volendo considerare quanto già detto prima, cioè che l’abuso della denuncia sarebbe uno strumento per evitare una composizione della Commissione non gradita al candidato.
Né basta: rettamente l’appellante rende noto, lo si legge bene in sentenza, il fatto che del predetto esposto l’ufficio giudiziario adito non poté fornire riscontro, donde l’assenza d’ogni seria prova, a tutto concedere, sia della “pendenza” della lite, sia della conoscenza di questa da parte del dott. Pu.. Del pari, siffatta pendenza, come giustamente precisa l’appellante, non si verifica nella controversia instaurata dall’appellato innanzi al TAR Milano, giacché di essa o dei suoi estremi non v’è traccia, né riscontro nell’impugnazione di primo grado (cfr. pag. 18 del relativo ricorso). Pare solo che su di essa penda tuttora un ricorso in appello, proposto dallo stesso dott. La. innanzi a questo Consiglio, ma non ancora esitato.
È solo da precisare, ai fini dell’esatto inquadramento del concetto di «grave inimicizia», che esso descrive non già un sentimento di mera antipatia o di acrimonia, bensì una situazione oggettiva ed articolata (originata da fatti e circostanze complete, significative ed estranee al processo) di ostilità talmente radicata e tenace, da far presumere che il Giudice (o, per analogia, il commissario di concorso) decida, aprioristicamente, in senso contrario al suo avversario.
In questi termini, l’appello va accolto, ma giusti motivi suggeriscono la non ripetibilità delle spese del presente giudizio nei confronti dell’appellato (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 02.04.2014 n. 1577 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aggiornamento al 31.03.2022 (ore 23,59)

Dopo l'AGGIORNAMENTO AL 31.08.2020, ecco altri pronunciamenti in materia:
le misure di salvaguardia si applicano anche ai piani attuativi e non solo al rilascio dei titoli edilizi.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: V. De Napoli, Le misure di salvaguardia: alcuni spunti di riflessione (06.05.2019 - link a https://blogs.dlapiper.com).
---------------
L’adozione del Piano di Governo del Territorio di Milano, con la Delibera di Consiglio Comunale del 05.03.2019, che ha fatto scattare l’operatività delle cd. Misure di Salvaguardia, è l’occasione per ricordare cosa sono queste misure e a quali strumenti urbanistici si collegano.
Lo spunto è anche offerto dalla recente sentenza 08.03.2019 n. 1599 del Consiglio di Stato che ha chiarito che l’istituto in questione si applica “a tutti i piani comunali, generali o particolareggiati, indipendentemente dal loro nomen iuris e dalla loro configurazione procedimentale, sempre che sussistano gli stessi presupposti della disposizione statale“.
Lo scopo delle Misure di salvaguardia. Le misure di salvaguardia, in una prospettiva esclusivamente cautelare, hanno lo scopo di evitare che, nel periodo intercorrente tra l’adozione e l’approvazione definitiva di un piano urbanistico, il rilascio di provvedimenti che consentono attività edificatorie (o comunque trasformative) del territorio –alla stregua di norme più permissive– possa compromettere l’assetto urbanistico previsto dagli strumenti adottati, ma non ancora approvati.
Per queste ragioni, fino all’approvazione di un nuovo strumento urbanistico pianificatorio, ogni determinazione sulle domande che involgano attività trasformative del territorio dovrà essere sospesa in attesa dell’entrata in vigore del nuovo piano, alla stregua del quale dovrà assumersi la determinazione definitiva. Da qui la natura obbligatoria, vincolata e temporanea di dette misure.
Gli strumenti a cui si applica. Introdotto dall’art. 4 del D.L. n. 740/1948 sui piani di ricostruzione, disciplinato dall’articolo unico della L. n. 1902/1952 e riferito esclusivamente ai piani regolatori generali e ai piani particolareggiati, l’istituto delle misure di salvaguardia è stato esteso, nel corso degli anni dapprima dal legislatore e poi a livello giurisprudenziale, a molti strumenti urbanistici (piani di lottizzazione, piani di zona PEEP, piani per insediamenti produttivi, piani di recupero).
Attualmente è disciplinato dall’art. 12, commi 3 e 4, del D.P.R. n. 380/2001 che ne ha cristallizzato la forza espansiva laddove, nel confermarne l’obbligatorietà, ne ha riconosciuto l’applicabilità agli “strumenti urbanistici adottati” in tal modo estendendolo a qualunque piano urbanistico.
La giurisprudenza amministrativa ha attribuito una valenza generale a detto istituto riconoscendone l’applicabilità a qualsivoglia atto dell’amministrazione (autoritativo o convenzionale) che possa comportare la modificazione dello stato di fatto o di diritto dei suoli, difformemente dalle previsioni del piano in corso di approvazione (cfr. ex pluribus, Cons. Stato, Sez. IV, 08.06.2000, n. 3243).
Presupposto necessario è che gli strumenti urbanistici siano stati formalmente adottati, a prescindere dalla pubblicazione della delibera di adozione. Si precisa, inoltre, che l’istituto in esame può trovare applicazione non soltanto in relazione al permesso di costruire (che richiede, quindi, l’adozione di un provvedimento espresso da parte dell’amministrazione), ma anche con riferimento alle DIA perfezionatesi nel lasso di tempo intercorrente tra la approvazione del piano e la sua entrata in vigore.
Le istanze presentate durante la vigenza della salvaguardia. Nell’ipotesi in cui, quindi, sia in corso di approvazione la nuova strumentazione urbanistica, dinanzi alla presentazione di un’istanza diretta ad ottenere un titolo edilizio gli scenari potranno essere i seguenti:
   - in primo luogo, se il progetto sia in contrasto con la normativa urbanistica vigente l’intervento non potrà essere autorizzato, anche se eventualmente conforme con il nuovo piano adottato e in corso di approvazione, con la conseguenza che non vengono neppure in rilievo le misure di salvaguardia. Se manca la conformità agli strumenti urbanistici vigenti, infatti, la domanda va rigettata anche in presenza di una istanza conforme alla previsione urbanistica adottata;
   - diversamente, se il progetto, autorizzabile in base alla normativa vigente, non sia aderente a quella del piano in itinere, l’intervento non potrà essere negato, ma dovrà essere sospesa qualsiasi determinazione al riguardo, sino alla definitiva determinazione del nuovo strumento urbanistico, con la conseguenza che l’amministrazione comunale dovrà adottare la misura di salvaguardia ai sensi dell’art. 12 del D.P.R. n. 380/2001.
Detta misura, pertanto, pur non consentendo immediatamente l’attività edificatoria attribuisce all’interessato una significativa utilità sostanziale –se pure non attuale– non ravvisabile nel provvedimento negativo, poiché definitivamente preclusivo della realizzazione della costruzione.
L’esigenza sottesa alle misure di salvaguardia è di carattere conservativo e deve essere individuata nella necessità che le richieste dei privati –fondate su una pianificazione ritenuta non più attuale– finiscano per alterare profondamente la situazione di fatto e, di conseguenza, per pregiudicare definitivamente proprio gli obiettivi generali cui invece è finalizzata la programmazione urbanistica generale, rendendo estremamente difficile, se non addirittura impossibile, l’attuazione del piano urbanistico in itinere (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 20.01.2014, n. 257).
Il carattere obbligatorio e vincolato. Nell’istituto di salvaguardia delineato dall’art. 12 convergono due interessi: quello del privato all’edificazione, secondo gli strumenti urbanistici vigenti, e quello pubblico, teso a realizzare l’effettività delle previsioni urbanistiche fin dal momento della loro adozione.
Di qui il carattere obbligatorio e vincolato della misura, sia nella emanazione sia nel contenuto, una volta che venga accertata l’incompatibilità del progetto presentato con le norme dello strumento in itinere, ivi inclusa l’adozione di varianti.
Sicché, in costanza di un procedimento di approvazione di un piano urbanistico o sue varianti, grava sull’amministrazione comunale l’onere di sospendere ogni determinazione sulla domanda di rilascio del permesso di costruire in attesa della definitiva approvazione del piano (cfr. ex pluribus, Cons. Stato, Sez. IV, 23.07.2009, n. 4660; Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2005, n. 764; Cons. Stato, Sez. IV, 06.03.1998, n. 382).
La temporaneità. Proprio perché si traducono in un divieto della facoltà di edificare –giustificato dall’interesse pubblico che accompagna la pianificazione delle trasformazioni territoriali– le misure di salvaguardia non possono che avere natura eccezionale e temporanea, commisurabile al tempo ragionevolmente occorrente per il perfezionamento della nuova strumentazione urbanistica, vincolando così le amministrazioni al fine di evitare un incontrollato trascinamento in avanti della durata di tali misure impeditive (cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 25.05.2002, n. 1682; Cons. Stato, Sez. V, 06.12.1999, n. 2496).
Il termine di durata delle misure di salvaguardia è stato fissato dal legislatore in 3 anni dalla data della delibera di adozione del piano –e protratto sino a 5 anni per quei Comuni che abbiano presentato il piano alla Regione per l’approvazione-.
Detti termini hanno carattere perentorio, come ribadito pure dalla Corte Costituzionale con la decisione n. 109/2013 che, nel dichiarare l’incostituzionalità della legislazione regionale della Lombardia laddove aveva previsto una durata temporale delle misure di salvaguardai eccedente rispetto a quella fissata dalla norma statale, ha ribadito la natura temporanea e cautelativa di detto istituto, nonché la sua valenza mista: edilizia perché volta ad incidere sui tempi dell’attività edificatoria, ed urbanistica, perché finalizzata alla salvaguardia degli assetti urbanistici in itinere (Corte Cost. 29.05.2013, n. 109; cfr. pure Cons. Stato, Ad.Plen., 07.04.2008, n. 2).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAE’ noto che in presenza di uno strumento urbanistico adottato (cioè deliberato per la prima volta dal Consiglio comunale) scattano le misure di salvaguardia di cui all’articolo unico della legge 03.11.1952, n. 1902 (oggi articolo 12, comma 3, del Testo Unico per l’edilizia approvato con d.P.R. n. 380 del 2001), in forza delle quali il Comune deve sospendere ogni determinazione sulle domande di permesso di costruire che siano in contrasto con lo strumento urbanistico adottato.
Ancorché l’articolo unico della legge n. 1902 del 1952, parli di sospensione della “licenza di costruzione” (poi “concessione edilizia” e ora “permesso di costruire”), e l’articolo 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, a sua volta, parli di sospensione del “permesso di costruire”, le misure di salvaguardia si applicano anche alla denuncia di inizio attività. Qualora l’intervento denunciato sia in contrasto con le previsioni di uno strumento urbanistico adottato prima che siano trascorsi i trenta giorni dalla presentazione della D.I.A., è obbligatoria l’applicazione delle misure di salvaguardia (con la conseguente necessità di emettere un provvedimento che inibisca l’esecuzione dei lavori previsti dalla stessa D.I.A.).
Ad avviso del Collegio le misure di salvaguardia trovano applicazione fin dalla data della deliberazione comunale di adozione dello strumento urbanistico generale, e quindi prima che la delibera divenga esecutiva per effetto della pubblicazione.
La funzione delle misure di salvaguardia è, infatti, quella di impedire che, nelle more del complesso procedimento di approvazione definitiva dello strumento urbanistico, siano posti in essere interventi edilizi che comportino una modificazione del territorio tale da rendere estremamente difficile se non addirittura impossibile l’attuazione del piano urbanistico in itinere.
Proprio per tale finalità di carattere conservativo, le misure devono ritenersi operative sin dal momento in cui l’organo deliberativo dell’ente locale ha manifestato la propria volontà sull’adozione del piano, quand’anche la relativa deliberazione non sia ancora esecutiva.
La mera adozione della delibera, infatti, al di là della sua esecutività, configura inequivocabilmente l’assetto che l’Amministrazione intende imprimere al territorio e tale assetto non può –nelle more del procedimento che dovrebbe portare alla definitiva approvazione del piano– essere messo in discussione o addirittura vanificato per effetto di interventi edilizi con esso contrastanti.
---------------

L’appello è fondato e merita di essere accolto per il seguente ordine di considerazioni.
E’ noto che in presenza di uno strumento urbanistico adottato (cioè deliberato per la prima volta dal Consiglio comunale) scattano le misure di salvaguardia di cui all’articolo unico della legge 03.11.1952, n. 1902 (oggi articolo 12, comma 3, del Testo Unico per l’edilizia approvato con d.P.R. n. 380 del 2001), in forza delle quali il Comune deve sospendere ogni determinazione sulle domande di permesso di costruire che siano in contrasto con lo strumento urbanistico adottato.
Ancorché l’articolo unico della legge n. 1902 del 1952, parli di sospensione della “licenza di costruzione” (poi “concessione edilizia” e ora “permesso di costruire”), e l’articolo 12, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, a sua volta, parli di sospensione del “permesso di costruire”, le misure di salvaguardia si applicano anche alla denuncia di inizio attività. Qualora l’intervento denunciato sia in contrasto con le previsioni di uno strumento urbanistico adottato prima che siano trascorsi i trenta giorni dalla presentazione della D.I.A., è obbligatoria l’applicazione delle misure di salvaguardia (con la conseguente necessità di emettere un provvedimento che inibisca l’esecuzione dei lavori previsti dalla stessa D.I.A.).
Ad avviso del Collegio le misure di salvaguardia trovano applicazione fin dalla data della deliberazione comunale di adozione dello strumento urbanistico generale, e quindi prima che la delibera divenga esecutiva per effetto della pubblicazione.
La funzione delle misure di salvaguardia è, infatti, quella di impedire che, nelle more del complesso procedimento di approvazione definitiva dello strumento urbanistico, siano posti in essere interventi edilizi che comportino una modificazione del territorio tale da rendere estremamente difficile se non addirittura impossibile l’attuazione del piano urbanistico in itinere.
Proprio per tale finalità di carattere conservativo, le misure devono ritenersi operative sin dal momento in cui l’organo deliberativo dell’ente locale ha manifestato la propria volontà sull’adozione del piano, quand’anche la relativa deliberazione non sia ancora esecutiva.
La mera adozione della delibera, infatti, al di là della sua esecutività, configura inequivocabilmente l’assetto che l’Amministrazione intende imprimere al territorio e tale assetto non può –nelle more del procedimento che dovrebbe portare alla definitiva approvazione del piano– essere messo in discussione o addirittura vanificato per effetto di interventi edilizi con esso contrastanti.
A tale conclusione si perviene anche dall’esegesi della specifica disciplina sulle misure di salvaguardia.
In primo luogo, deve rilevarsi che l’abrogato articolo unico della legge n. 1902/1952 stabiliva espressamente che le misure fossero disposte <<A decorrere dalla data della deliberazione comunale di adozione dei piani (…)>>; mentre l’attuale art. 12, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 fissa la durata massima delle misure con decorrenza <<(…) dalla data di adozione dello strumento urbanistico>>, prescindendo quindi dall’esecutività della suddetta delibera di adozione.
Se, dunque, la normativa relativa alle misure di salvaguardia ha lo scopo di evitare la realizzazione di interventi che nelle more dell’approvazione degli strumenti urbanistici adottati possono compromettere l’assetto del territorio programmato dal Comune, vanificandone la sua concreta attuazione e se, proprio per ovviare a tali inconvenienti, la legge ha stabilito che a decorrere dalla data della deliberazione di adozione dei piani regolatori generali e fino all’emanazione del decreto di approvazione il dirigente dell’ufficio comunale sia obbligato a sospendere ogni determinazione in ordine ai progetti che risultino in contrasto con le relative previsioni, ne consegue che, attesa l’immediata operatività delle misure di salvaguardia e verificata l’assenza della c.d. "doppia conformità", ovvero la conformità dell’intervento proposto agli strumenti urbanistici vigenti e a quelli medio tempore adottati, l’Amministrazione nella specie, come fondatamente dedotto nel primo motivo di appello, non poteva che procedere all’annullamento del silenzio-assenso formatosi nel frattempo in relazione alla D.I.A. presentata dalla signora Ma., odierna appellata, in data 22.07.2009.
In accoglimento dell’appello, e rimanendo assorbito ogni altro motivo od eccezione, la sentenza impugnata, in quanto in contrasto con la normativa in materia di misure di salvaguardia e con la ratio che la sottende, deve, dunque, essere riformata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.01.2014 n. 257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAL’entrata in vigore delle misure di salvaguardia è sempre collegata all’adozione della delibera del consiglio comunale del progetto di variante al PRG ovvero alla modifica sostanziale dello stesso.
L’esigenza sottesa all'applicazione della misura di salvaguardia di cui all'art. 12, comma 3, D.P.R. 06.06.2001 n. 380 -fin dal momento dell'adozione di una variante al piano regolatore generale o della sua modifica sostanziale contenente una differente disciplina urbanistica del progetto di variante- deve infatti essere individuata con la necessità che, nelle more del relativo procedimento di approvazione, le richieste dei privati fondate su una pianificazione ritenuta non più attuale, finiscano per alterare profondamente la situazione di fatto e, di conseguenza, per pregiudicare definitivamente proprio gli obiettivi generali cui invece è finalizzata la programmazione urbanistica generale.
Tali finalità naturalmente sussistono identicamente anche in caso di richieste di interventi realizzabili senza alcun titolo abilitativo come nel caso della d.i.a. di cui all’art. 22 per gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'articolo 10 e all'articolo 6, in quanto gli stessi comunque devono essere “… conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
---------------

2.§. Le doglianze del Comune avverso la decisione impugnata meritano di essere condivise nei sensi e nei termini che seguono.
In primo luogo si deve rilevare che l’entrata in vigore delle misure di salvaguardia è sempre collegata all’adozione della delibera del consiglio comunale del progetto di variante al PRG ovvero alla modifica sostanziale dello stesso (e quindi, nel caso, della deliberazione n. 46 del 29.05.2000).
L’esigenza sottesa all'applicazione della misura di salvaguardia di cui all'art. 12, comma 3, D.P.R. 06.06.2001 n. 380 -fin dal momento dell'adozione di una variante al piano regolatore generale o della sua modifica sostanziale contenente una differente disciplina urbanistica del progetto di variante- deve infatti essere individuata con la necessità che, nelle more del relativo procedimento di approvazione, le richieste dei privati fondate su una pianificazione ritenuta non più attuale, finiscano per alterare profondamente la situazione di fatto e, di conseguenza, per pregiudicare definitivamente proprio gli obiettivi generali cui invece è finalizzata la programmazione urbanistica generale (cfr. Consiglio Stato sez. IV 17.12.2008 n. 6242; Sez. V, Ord.za Cautelare n. 303 del 27.01.2004).
Tali finalità naturalmente sussistono identicamente anche in caso di richieste di interventi realizzabili senza alcun titolo abilitativo come nel caso della d.i.a. di cui all’art. 22 per gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'articolo 10 e all'articolo 6, in quanto gli stessi comunque devono essere “… conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.07.2012 n. 4254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAIn costanza di procedimento di approvazione del piano regolatore generale e sue varianti, nel corso della durata della normativa di salvaguardia di cui all'articolo unico della legge n. 1902 del 1952 ed all'art. 3, ultimo comma, della legge n. 765 del 1967, è consentito il rilascio del permesso di costruire solo qualora il progetto si presenti conforme sia allo strumento urbanistico vigente sia a quello in corso di approvazione.
In caso contrario, grava sul Comune l'onere di sospendere ogni determinazione in attesa della definitiva approvazione del piano in itinere, la normativa relativa alle misure di salvaguardia non determinando l'anticipata vigenza degli strumenti urbanistici adottati in sede comunale.

---------------

L’appello è infondato.
Come noto, in costanza di procedimento di approvazione del piano regolatore generale e sue varianti, nel corso della durata della normativa di salvaguardia di cui all'articolo unico della legge n. 1902 del 1952 ed all'art. 3, ultimo comma, della legge n. 765 del 1967, è consentito il rilascio del permesso di costruire solo qualora il progetto si presenti conforme sia allo strumento urbanistico vigente sia a quello in corso di approvazione.
In caso contrario, grava sul Comune l'onere di sospendere ogni determinazione in attesa della definitiva approvazione del piano in itinere, la normativa relativa alle misure di salvaguardia non determinando l'anticipata vigenza degli strumenti urbanistici adottati in sede comunale.
Nel caso in esame, correttamente il Comune di Casagiove ha ritenuto in sostanza che sussistessero i presupposti per l’applicabilità delle misure di salvaguardia, rifiutando il rilascio di permesso di costruire in contrasto con il piano regolatore vigente, la cui indicata variante (rispetto alla quale la pretesa attività edificatoria si sarebbe potuta considerare assentibile) doveva considerarsi ancora in itinere, sia alla data di adozione del diniego comunale impugnato, che alla data di contestata interruzione, ad opera della Regione, dell’iter procedurale della variante medesima (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.07.2009 n. 4660 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICALa misura di salvaguardia comunale di cui all'art. 12, comma 3, dpr 380/2001 consiste nella sospensione di ogni determinazione in ordine alla domanda di permesso di costruire, in caso di contrasto dell’intervento da realizzare con le previsioni degli strumenti urbanistici adottati.
Tale misura presuppone che la domanda sia conforme alla strumentazione vigente ma non anche a quella adottata.
Se manca la conformità agli strumenti urbanistici vigenti, la domanda di permesso di costruire và rigettata, senza applicazione della misura soprassessoria, anche in presenza di un’istanza conforme alla previsione urbanistica adottata.
Il provvedimento soprassessorio ha natura cautelare e temporanea, in quanto impone al privato, che abbia presentato un progetto conforme alla pianificazione vigente, di attendere –per un periodo di tempo da tre a cinque anni– il perfezionamento delle previsioni adottate, mediante l’approvazione: pertanto, l’attività edificatoria rimane sì regolata dallo strumento urbanistico vigente, salvo il limite legale, per cui possono essere rilasciati solo permessi di costruire che non contrastino con le previsioni del piano adottato ed in attesa di approvazione.
Ne consegue che:
   - da un lato, è illegittimo il diniego di permesso, in luogo della sospensione delle determinazioni sull’istanza di permesso,
   - dall’altro, non può essere rilasciato un permesso che sia conforme alle previsioni adottate ma in contrasto con quelle vigenti.
In via sostanziale, non è sospesa ogni determinazione –come si esprime la disposizione in esame– bensì solo l’accoglimento dell’istanza che è conforme agli strumenti urbanistici vigenti, ma in contrasto con le previsioni adottate.
---------------
Anche nell’istituto della salvaguardia, delineato dall’art. 12 cit., convergono due interessi, quello del privato all’edificazione, secondo gli strumenti urbanistici vigenti, e quello pubblico, teso a realizzare l’effettività delle previsioni urbanistiche fin dal momento della loro adozione.
Da qui
   - il carattere vincolato della misura, sia nell’emanazione sia nel contenuto, una volta che venga accertata l’incompatibilità del progetto presentato con le norme dello strumento in itinere;
   - la necessità di una congrua motivazione che specifichi in cosa consista il contrasto, in relazione alla complessità del singolo caso;
   - la responsabilità dell’amministrazione sub specie di colpa grave del dirigente del competente ufficio comunale, in caso di illegittima omessa applicazione della misura.
---------------

18. Scendendo all’esame del prospettato vizio proprio della misura di salvaguardia (motivo n. 6 dell’atto di gravame che reitera la censura di violazione dell’art. 12, T.U. edilizia), la sezione osserva che la doglianza è infondata.
18.1. La misura di salvaguardia comunale di cui al menzionato art. 12, comma 3, consiste nella sospensione di ogni determinazione in ordine alla domanda di permesso di costruire, in caso di contrasto dell’intervento da realizzare con le previsioni degli strumenti urbanistici adottati.
Tale misura presuppone che la domanda sia conforme alla strumentazione vigente ma non anche a quella adottata.
Se manca la conformità agli strumenti urbanistici vigenti, la domanda di permesso di costruire và rigettata, senza applicazione della misura soprassessoria, anche in presenza di un’istanza conforme alla previsione urbanistica adottata.
Il provvedimento soprassessorio ha natura cautelare e temporanea, in quanto impone al privato, che abbia presentato un progetto conforme alla pianificazione vigente, di attendere –per un periodo di tempo da tre a cinque anni– il perfezionamento delle previsioni adottate, mediante l’approvazione: pertanto, l’attività edificatoria rimane sì regolata dallo strumento urbanistico vigente, salvo il limite legale, per cui possono essere rilasciati solo permessi di costruire che non contrastino con le previsioni del piano adottato ed in attesa di approvazione.
Ne consegue che, da un lato, è illegittimo il diniego di permesso, in luogo della sospensione delle determinazioni sull’istanza di permesso, dall’altro, non può essere rilasciato un permesso che sia conforme alle previsioni adottate ma in contrasto con quelle vigenti: in via sostanziale, non è sospesa ogni determinazione –come si esprime la disposizione in esame– bensì solo l’accoglimento dell’istanza che è conforme agli strumenti urbanistici vigenti, ma in contrasto con le previsioni adottate (cfr. sez. V, 22.02.2002, n. 1079; sez. II, 15.01.1997, n. 817; sez. V, 10.12.1990, n. 856).
Anche nell’istituto della salvaguardia delineato dall’art. 12 cit., convergono due interessi, quello del privato all’edificazione, secondo gli strumenti urbanistici vigenti, e quello pubblico, teso a realizzare l’effettività delle previsioni urbanistiche fin dal momento della loro adozione.
Da qui
   - il carattere vincolato della misura, sia nell’emanazione sia nel contenuto, una volta che venga accertata l’incompatibilità del progetto presentato con le norme dello strumento in itinere (cfr. sez. V, 30.04.1997, n. 421);
   - la necessità di una congrua motivazione che specifichi in cosa consista il contrasto, in relazione alla complessità del singolo caso (cfr. sez. IV, 06.03.1998, n. 282);
   - la responsabilità dell’amministrazione sub specie di colpa grave del dirigente del competente ufficio comunale, in caso di illegittima omessa applicazione della misura (cfr. sez. V, 15.02.2002, n. 924; Cass. Sez. un., 23.07.1993, n. 8239) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2005 n. 764 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La circostanza che la variante vigente è solo adottata, e non anche approvata dalla Regione, impedisce al Comune di pronunciare un diniego della concessione edilizia e gli impone di adottare le misure di salvaguardia di cui al combinato disposto dell’articolo unico della L. n. 1902/1952 e dell’art. 3, ult. c., L. n. 765/1967.
Né, ancora, può fondatamente reputarsi l’atto soprassessorio equivalente ad un diniego, ai fini della soddisfazione degli interessi sostanziali dei richiedenti, atteso che la misura di salvaguardia non può essere legittimamente protratta per un periodo complessivo superiore a cinque anni dalla data della delibera di adozione della variante e che, quindi, qualora nel predetto termine non intervenga l’approvazione dello strumento urbanistico adottato, viene meno qualsiasi effetto impeditivo del rilascio del titolo edilizio.
Ne discende che l’adozione della misura di salvaguardia, pur non consentendo immediatamente l’attività edificatoria, attribuisce all’interessato una significativa utilità sostanziale, per quanto non attuale, non ravvisabile nel provvedimento negativo (in quanto definitivamente preclusivo della realizzazione della costruzione).

---------------

Come, infatti, correttamente rilevato dal TAR, con la sentenza della quale si chiedeva l’ottemperanza con il ricorso disatteso con la decisione impugnata, la circostanza che la variante vigente era stata solo adottata, e non anche approvata dalla Regione, impediva al Comune di pronunciare un diniego della concessione edilizia e gli imponeva di adottare le misure di salvaguardia di cui al combinato disposto dell’articolo unico della L. n. 1902/1952 e dell’art. 3, ult. c., L. n. 765/1967 (cfr. in tal senso Cons. Stato, Sez. IV, 06.03.1998 n. 382, Cons. Stato, Sez. V, 30.04.1997 n. 421).
Né, ancora, può fondatamente reputarsi l’atto soprassessorio equivalente ad un diniego, ai fini della soddisfazione degli interessi sostanziali dei richiedenti, atteso che la misura di salvaguardia non può essere legittimamente protratta per un periodo complessivo superiore a cinque anni dalla data della delibera di adozione della variante (Cons. Stato, Sez. V, 20.04.1999, n. 462) e che, quindi, qualora nel predetto termine non intervenga l’approvazione dello strumento urbanistico adottato, viene meno qualsiasi effetto impeditivo del rilascio del titolo edilizio.
Ne discende che l’adozione della misura di salvaguardia, pur non consentendo immediatamente l’attività edificatoria, attribuisce all’interessato una significativa utilità sostanziale, per quanto non attuale, non ravvisabile nel provvedimento negativo (in quanto definitivamente preclusivo della realizzazione della costruzione)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.02.2002 n. 1079 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Misure di salvaguardia.
E' legittimo il provvedimento col quale il sindaco di un comune, in pendenza dell'approvazione del programma di fabbricazione, applica la misura di salvaguardia alla coltivazione di una cava, in quanto in contrasto col programma stesso.
---------------
Tenuto conto dell'evoluzione della legislazione relativa al contenuto degli strumenti urbanistici comunali e della dilatazione della pianificazione urbanistica, che ha finito con l'identificarsi con la pianificazione di tutto il territorio del comune, in relazione non soltanto all'interesse connesso all'attività edificatoria propriamente detta, bensì anche ad altri, diversi e molteplici interessi che sono comunque correlati alla salvaguardia del territorio, la misura di salvaguardia di cui alla l. 03.11.1952, n. 1902, sono applicabili non alla sola attività edilizia, in senso stretto, bensì a tutte le forme di utilizzazione del territorio che sono anch'esse specifico oggetto di pianificazione territoriale, compresa quindi l'attività estrattiva di materiale lapideo da cave.
---------------
L'attività di cava, in considerazione della sua peculiare incidenza sul suolo, è da ricomprendere tra le attività idonee ad incidere negativamente sull'ambiente e sul paesaggio.
Pertanto, è legittima la disciplina urbanistica dell'attività estrattiva contenuta nel piano regolatore generale di un comune, o in altro strumento di programmazione urbanistica, sia in quanto espressamente disponga il divieto di attività dirette alla trasformazione ambientale dei luoghi, quale è sicuramente la coltivazione di cave, sia in quanto preveda destinazione urbanistiche, e pertanto utilizzazioni del territorio, rispondenti al preminente interesse della collettività ed incompatibili con le mutazioni territoriali conseguenti all'attività in questione, che risultano conseguentemente illegittime.
---------------
Posta la legittimità della disciplina urbanistica dell'attività estrattiva da cava, contenuta nel piano regolatore generale di un comune per fini di tutela paesistica ed ambientale, deve ritenersi ugualmente legittima l'inclusione di tale disciplina nel programma di fabbricazione, attesa la equiparazione di quest'ultimo al piano regolatore generale.
---------------
E' legittima la norma del programma di fabbricazione di un comune che, con adeguata motivazione, vieta la coltivazione di cave in determinate zone del territorio comunale, al fine di evitarne la deturpazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.11.1986 n. 865).

aggiornamento al 30.01.2022

     Il "permesso di costruire" rilasciato in assenza della preliminare "autorizzazione  paesaggistica" deve ritenersi inefficace nell’ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato emanato nella consapevolezza della necessità dell’autorizzazione medesima.
     Diverso è il caso in cui il "permesso di costruire" sia stato rilasciato sull’erroneo convincimento della non necessità dell’"autorizzazione paesaggistica". In tal caso il titolo edilizio abilitativo non è inefficace ma
illegittimo perché rilasciato sul falso presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico.

Ma in questi casi cosa succede?

EDILIZIA PRIVATAVa ricordato come l'assenso edilizio, rilasciato in carenza dell'autorizzazione paesaggistica, sia inefficace (cfr. art. 146, commi 2, e 4, d.lgs. 42 cit.); analogamente, ove l’assenso edilizio sia rilasciato sulla base di un presupposto (id est, l'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (come nel caso di specie, in cui erano stati adottati pareri settoriali, non integranti la forma e la sostanza dell’autorizzazione ex art. 146 cit. per il diverso quadro pianificatorio non correttamente prospettato), si è in presenza di una doppia situazione patologica.
---------------

6.1 In linea generale, va ricordato altresì come lo stesso assenso edilizio, rilasciato in carenza dell'autorizzazione paesaggistica, sia inefficace (cfr. art. 146, commi 2, e 4, d.lgs. 42 cit.); analogamente, ove l’assenso edilizio sia rilasciato sulla base di un presupposto (id est, l'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (come nel caso di specie, in cui erano stati adottati pareri settoriali, non integranti la forma e la sostanza dell’autorizzazione ex art. 146 cit. per il diverso quadro pianificatorio non correttamente prospettato), si è in presenza di una doppia situazione patologica (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14/12/2015, n. 5663)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.12.2021 n. 8641 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Conformemente alla ormai univoca giurisprudenza amministrativa, va esclusa ogni rilevanza alla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, atteso che il requisito della doppia conformità deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità.
---------------
Non vi è coincidenza tra precarietà e utilizzo stagionale delle opere qualora le cicliche esigenze stagionali vadano a trasformare in modo durevole l’area scoperta preesistente con conseguente impatto sul territorio.
Ed invero, «i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale».
Ne discende che la realizzazione di interventi non meramente manutentivi, ma determinanti la creazione di superfici utili o volumi, con conseguente aumento di carico urbanistico, richiede la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, che è un titolo autonomo non conseguibile a sanatoria ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 146 e 167, commi 4 e 5, del decreto legislativo n. 42/2004.
---------------
Nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (specie dopo l’entrata in vigore, a regime, dell’art. 146 del D.lgs. 42/2004), il previo parere della Soprintendenza ha natura vincolante».
In ogni caso, la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che, anche in presenza di un permesso di costruire, l’inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio anche dell’autorizzazione paesaggistica, trattandosi di titoli che hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e di ambedue i titoli, sicché il permesso di costruire, in assenza del nulla osta paesaggistico, è inefficace.
---------------

1. L’odierno appellante ha proposto il ricorso di primo grado n. -OMISSIS-, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la -OMISSIS-, sede -OMISSIS-, avverso: il provvedimento del Comune di Polignano a Mare prot. n. -OMISSIS-, avente ad oggetto «diffida all’esercizio dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande in località -OMISSIS-. Diffida al conferimento di rifiuti ai contenitori ubicati sul territorio comunale»; dell’ivi richiamato verbale di atti di accertamento del 18.05.2009, prot. n. -OMISSIS-.; la nota del Comune di Polignano a Mare prot. n. -OMISSIS-, avente ad oggetto «divieto di prosecuzione dell’esercizio di attività abusiva di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande» e del richiamato verbale del 18.05.2009; all’occorrenza, l’ordinanza di sospensione lavori del Comune di Polignano a Mare n. -OMISSIS-.
...
Il diniego di istanza di permesso di costruire in sanatoria è basato su plurimi motivi ostativi alla doppia conformità, trattandosi di opere realizzate su un’area in concessione demaniale e con vincolo paesaggistico ai sensi del decreto legislativo 42/2004.
Al riguardo, conformemente alla ormai univoca giurisprudenza amministrativa, va esclusa ogni rilevanza alla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, atteso che il requisito della doppia conformità deve considerarsi principio fondamentale nella materia del governo del territorio, in quanto adempimento finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità (ex aliis, Consiglio di Stato, sezione VI, sentenze 17.02.2021, n. 1457, 04.01.2021, n. 43, e 18.07.2016, n. 3194).
Ciò posto, è assorbente quanto precisato nel parere contrario della Soprintendenza del 13.10.2010 sul riscontrato aumento di volume e superficie utile del chiosco, trattandosi di struttura chiusa su tre lati, con una conseguente variazione essenziale rispetto al progetto assentito nel 2003, a cui non è applicabile “mini-sanatoria” paesaggistica di cui all’articolo 167, comma 4, del decreto legislativo n. 42/2004.
In proposito va evidenziato che non vi è coincidenza tra precarietà e utilizzo stagionale delle opere qualora le cicliche esigenze stagionali vadano a trasformare in modo durevole l’area scoperta preesistente con conseguente impatto sul territorio. Ed invero, «i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale» (Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 03.06.2014, n. 2842; nello stesso senso cfr., ex aliis, Consiglio di Stato, sezione IV, decisione 22.12.2007, n. 6615; Consiglio Stato, sezione V, decisione 12.12.2009, n. 7789; Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 01.12.2014, n. 5934).
Ne discende che la realizzazione di interventi non meramente manutentivi, ma determinanti la creazione di superfici utili o volumi, con conseguente aumento di carico urbanistico, richiede la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, che è un titolo autonomo non conseguibile a sanatoria ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 146 e 167, commi 4 e 5, del decreto legislativo n. 42/2004.
Nel caso di specie è stata cagionata inoltre un’alterazione dello stato dei luoghi determinata dallo scavo del banco di roccia per la realizzazione della fossa di tipo Imhoff, non prevista dalle concessioni demaniali e dal permesso di costruire, che non autorizzavano alcun tipo di scavo della roccia, ma soltanto l’installazione di bagni chimici e facendo comunque salva la necessità di realizzarle nell’ambito dell’area oggetto della concessione, e non fuori da essa, come, invece, in concreto verificatosi.
Sul punto è inconferente il richiamo all’art. 11 della legge regionale della -OMISSIS- n. 17/2006 recante l’obbligo in capo al concessionario di stabilimento demaniale marittimo di garantire i servizi minimi (igienico-sanitari, docce e chiosco-bar), poiché tale obbligo va ottemperato nel rispetto della normativa e non autorizza ovviamente la realizzazione di opere abusive.
Con riferimento all’occupazione abusiva del demanio marittimo per la realizzazione di tali opere, la normativa di settore non prevede la possibilità di una specifica sanatoria, non avendo peraltro il pagamento dell’indennità per l’occupazione abusiva alcun effetto sanante; diversamente opinando, infatti, si darebbe ingresso ad un’illegale sanatoria atipica demaniale e si aggirerebbe l’obbligo di una procedura di evidenza pubblica aperta a tutti gli operatori economici interessati propedeutica all’affidamento della concessione.
Ne deriva che l’amministrazione comunale non avrebbe potuto in alcun modo accoglier l’istanza di sanatoria edilizia, stante la natura vincolata del predetto parere negativo di compatibilità paesaggistica poiché, «nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (specie dopo l’entrata in vigore, a regime, dell’art. 146 del D.lgs. 42/2004), il previo parere della Soprintendenza ha natura vincolante» (Consiglio di Stato, sezione VI, 08.08.2018, n. 5770); in ogni caso, la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che, anche in presenza di un permesso di costruire, l’inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio anche dell’autorizzazione paesaggistica, trattandosi di titoli che hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e di ambedue i titoli, sicché il permesso di costruire, in assenza del nulla osta paesaggistico, è inefficace (cfr., ex aliis, Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 14.12.2015, n. 5663, 13.04.2016, n. 1436, e 21.05.2021, n. 3952).
Ne consegue peraltro che ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 qualsivoglia vizio formale e procedimentale verrebbe sterilizzato dalla natura vincolata e necessitata del diniego di sanatoria edilizia adottato dal Comune (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 14.10.2021 n. 6912 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer l’art. 146, comma 4, del D.lgs. 22.01.2004, n. 42, «l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio».
Per consolidata giurisprudenza, ciò si sostanzia in un rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche e valutazioni urbanistiche.
I due atti di assenso si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma l’uno in termini di compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto, l’altro in termini di sua conformità urbanistico-edilizia: essi, dunque, operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti.
Pertanto, il rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il necessario rilascio anche dell’altro e, di conseguenza, la mancanza del necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un’opera anche se per la stessa è stato rilasciato l’atto di assenso a fini paesaggistici.
---------------

9. – Il motivo è fondato.
E’ incontestato che il progetto per la realizzazione dell’area di servizio attrezzata in fregio alla S.S. 38 non sia stato mai approvato, pur avendo ricevuto l’autorizzazione paesaggistica.
Per l’art. 146, comma 4, del D.lgs. 22.01.2004, n. 42, «l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio».
Per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, ciò si sostanzia in un rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche e valutazioni urbanistiche (ex aliis, C.d.S., sez. I, 18.01.2019, n. 232; C.d.S., sez. VI, 16.06.2016, n. 2568; C.d.S., sez. IV, 09.02.2016, n. 521).
I due atti di assenso si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma l’uno in termini di compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto, l’altro in termini di sua conformità urbanistico-edilizia (C.d.S., sez. IV, 27.11.2010, n. 8260): essi, dunque, operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti (C.d.S., sez. VI, n. 2568/2016).
Pertanto, il rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il necessario rilascio anche dell’altro e, di conseguenza, la mancanza del necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un’opera anche se per la stessa è stato rilasciato l’atto di assenso a fini paesaggistici (C.d.S., sez. VI, n. 2568/2016).
Nel caso in esame, il progetto di realizzazione dell’area di servizio comprensiva di impianti tecnologici e di pubblica utilità (servizio di autolavaggio; officina, elettrauto, gommista; servizi igienici di uso pubblico; area attrezzata per camper; impianto di distribuzione di carburante; edificio per la somministrazione di alimenti e bevande e ristorazione; aree a parcheggio pubblico; area destinata a parco giochi–giardino di sosta; opere varie di sistemazione e compensazione ambientale), di cui alle tavole progettuali prodotte agli atti del giudizio (doc. 14 della produzione di primo grado di parte ricorrente), pur assentito per il profilo paesaggistico, non era stato approvato sotto quello urbanistico-edilizio.
Pertanto, alla base della richiesta di permesso di costruire per la «realizzazione del rilevato al fine di adeguare le quote dell’area di intervento al piano stradale esistente», mediante l’innalzamento del terreno per un’altezza media di ml. 4,00 su una superficie di mq 11.750 e la costruzione di un muro di contenimento delle terre all’interno della fascia di rispetto stradale, difettava, sotto il profilo urbanistico-edilizio, l’approvazione del progetto finale, senza il quale la trasformazione dello stato dei luoghi, con la mera creazione di un terrapieno privo di uno scopo autonomo, non rispondeva ad alcuna funzione, se non futura e sperata, e non poteva certamente giovarsi delle previsioni specifiche dettate per la costruzione di impianti di distribuzione di carburante, ragion per cui, già solo per questo motivo, si palesava illegittimo.
Si tratta di un motivo di censura su cui, in effetti, il giudice di primo grado ha omesso di pronunciarsi e che possiede portata assorbente di tutte le altre censure relative alla impugnazione del titolo edilizio per vizi propri: dunque, anche degli ulteriori profili fatti valere in questa sede sia col primo motivo di appello (supra, § 8) che col secondo motivo di appello (nel quale, come poc’anzi detto al § 5, parte appellante critica la decisione di primo grado per non aver accolto le censure di inosservanza delle norme e delle regole generali dell’azione amministrativa in materia idrogeologica) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 26.03.2021 n. 2553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl fatto di aver ottenuto un permesso a costruire in assenza di autorizzazione paesaggistica (non richiesta né in via diretta né in base ad una valutazione di conformità) non è di per sé sufficiente ad abilitare nessuna forma di affidamento. La giurisprudenza ha infatti da tempo stabilito l’autonomia strutturale dei due titoli.
Nelle ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato rilasciato sulla base del presupposto della non necessità di una autorizzazione paesaggistica, lo stesso non risulta invalido ma inefficace, anche in considerazione del fatto che l’autorizzazione potrebbe sempre intervenire.
Invero, “Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori”.
---------------
Stante il rapporto di autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e titolo paesaggistico, in virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è -di per sé, ossia se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di costruire- suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è, d’altro lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum infectum fieri nequit’), ove non rientranti nelle categorie degli ‘abusi minori’, i lavori eseguiti a dispetto di essa.

Tale considerazione trova appiglio per quanto statuito dal Consiglio di Stato. Invero:
«È ben nota al Collegio la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale “i due titoli, permesso di costruire e nulla-osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli”.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla-osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla-osta paesaggistico. L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura." Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla-osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme".
Sennonché, occorre osservare che:
   a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende dall'accertamento di non incompatibilità della prospettata attività di trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso, nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare che il mancato rilascio del nulla-osta non legittima il Sindaco al ritiro della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
   a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente orientata nel ritenere che per costruire in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che, laddove l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985;
   b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione secondo la quale "è legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato presupposto. Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla-osta ambientale:
«la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione paesaggistica».

---------------

4. Con il primo motivo di ricorso si lamenta la insufficiente, contraddittoria e carente motivazione dell’ordinanza impugnata, nonché la violazione di una aspettativa giuridicamente qualificata in capo alla ricorrente ritenuta, nel caso di specie, prevalente rispetto all’interesse pubblico da tutelare.
In particolare si censura l’ordinanza con riferimento alla tardiva contestazione dell’assenza di autorizzazione paesaggistica che, a fronte di un permesso a costruire favorevole (il n. 5/2008) che avrebbe ingenerato una aspettativa giuridicamente qualificata, condurrebbe l’amministrazione a ledere il legittimo affidamento della ricorrente (del resto, sottolinea sempre la ricorrente, il PDC non è mai stato annullato proprio in ragione del tempo trascorso).
Il titolo abilitativo alla costruzione dell’immobile sarebbe stato regolarmente emesso e l’attività di costruzione posta in essere sarebbe stata svolta dalla ricorrente nel legittimo affidamento di essere pienamente autorizzata ad operare in un’area priva di vincolo.
Anche alla luce del tempo trascorso, la ricorrente sostiene infine che la motivazione dell’ordinanza di demolizione avrebbe dovuto essere completa ed esaustiva, oltre che in punto di affidamento, anche sull’interesse pubblico alla demolizione.
Le doglianze non colgono nel segno.
In primo luogo il fatto di aver ottenuto un permesso a costruire in assenza di autorizzazione paesaggistica (non richiesta né in via diretta né in base ad una valutazione di conformità) non è di per sé sufficiente ad abilitare nessuna forma di affidamento.
La giurisprudenza ha infatti da tempo stabilito l’autonomia strutturale dei due titoli. Nelle ipotesi, come nel caso di specie, in cui il titolo edilizio sia stato rilasciato sulla base del presupposto della non necessità di una autorizzazione paesaggistica, lo stesso non risulta invalido ma inefficace, anche in considerazione del fatto che l’autorizzazione potrebbe sempre intervenire. “Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori” (TAR Piemonte, 07/11/2012, sent. n. 1166; conformi Cons. Stato, sez. IV 14/12/2015, sent. n. 5663; TAR Campania, Salerno, 01/08/2020, sent. n. 973).
Su tale filone si è espressa recentissima giurisprudenza sostenendo che “7. Innanzitutto, non coglie nel segno la R., allorquando predica la sussistenza della fonte abilitativa dell’edificio controverso, costituita dai PdC n. 40/2007 e n. 3/2012 e vi ricollega l’affidamento ingeneratole circa la legittimazione anche paesaggistica dell’edificio medesimo (cfr. retro, sub n. 3.a).
7.1. A ripudio della censura in esame, milita, precipuamente, il rapporto di autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e titolo paesaggistico ed alla cui stregua gli stessi vanno reciprocamente riguardati. In virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è -di per sé, ossia se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di costruire- suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è, d’altro lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum infectum fieri nequit’), ove non rientranti –come, appunto, nella specie– nelle categorie degli ‘abusi minori’, i lavori eseguiti a dispetto di essa.
Tale considerazione trova appiglio nella seguente disamina, svolta da Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2015, n. 5663.
«È ben nota al Collegio –recita la pronuncia richiamata– la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex aliis, ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.06.2012, n. 2652) “i due titoli, permesso di costruire e nulla-osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli”.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468; Cons. Stato, sez. VI, n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla-osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla-osta paesaggistico. L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura." Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla-osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme" (Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. VI, 19.06.2001, n. 3242).
Sennonché, occorre osservare che:
   a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile, sez. I, 07.04.2006, n. 8244) ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende dall'accertamento di non incompatibilità della prospettata attività di trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso, nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare che il mancato rilascio del nulla-osta non legittima il Sindaco al ritiro della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
   a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente orientata nel ritenere che (Cass. pen., sez. III, 23.11.1999) per costruire in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che, laddove l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 (Cass. pen., n. 10502/1999, n. 1093/1998, n. 6681/1998; di recente: Cassazione penale, sez. III, 07.10.2014, n. 952 …);
   b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione secondo la quale (TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.12.2014, n. 12140) "è legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato presupposto. Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166,
«la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.03.2015 n. 1815)» (TAR Campania, Salerno, 29/01/2021, sent. n. 266)
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 26.03.2021 n. 342 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA ripudio della censura in esame, milita, precipuamente, il rapporto di autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e titolo paesaggistico ed alla cui stregua gli stessi vanno reciprocamente riguardati.
In virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è, di per sé, ossia se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di costruire, suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è, d’altro lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum infectum fieri nequit’), ove non rientranti nelle categorie degli ‘abusi minori’, i lavori eseguiti a dispetto di essa.
---------------

1. Col ricorso in epigrafe, la Ru. s.a.s. (in appresso, R.) impugnava, chiedendone l’annullamento, la nota del 06.06.2019, prot. n. 13186, con la quale la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Salerno e Avellino (in appresso, Soprintendenza di Salerno e Avellino) aveva espresso il proprio parere sfavorevole in merito all’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica prot. n. 897 del 07.02.2019, avente per oggetto il fabbricato ad uso abitativo-rurale, assentito giusta permessi di costruire (PdC) n. 40 del 14.09.2007 e n. 3 dell’08.02.2012, ubicato in Mugnano del Cardinale, via ..., censito in catasto al foglio 8, particella 174, e ricadente in fascia di rispetto fluviale ex art. 142, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 42/2004 dall’alveo del Lagno di Sciminaro e Acqualonga.
2. L’impugnato diniego di accertamento di compatibilità paesaggistica risultava motivato in base al rilievo che il fabbricato anzidetto risultava ab origine sprovvisto della propedeutica e necessaria autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, cosicché esso non avrebbe potuto essere legittimato ex post a norma del successivo art. 167, commi 4 e 5, non rientrando in alcuna delle fattispecie contemplate da quest’ultima disposizione.
3. Nell’avversare siffatta determinazione declinatoria, la R. lamentava, in estrema sintesi, che:
   a) la costruzione controversa rinverrebbe comunque la propria fonte abilitativa nei PdC n. 40/2007 e n. 3/2012, la quale avrebbe ingenerato il legittimo affidamento dell’interessata nella conformità dell’intervento non solo sotto il profilo urbanistico-edilizio, ma anche sotto il profilo paesaggistico;
   b) tale legittimo affidamento sarebbe stato precipuamente salvaguardabile attraverso lo strumento apprestato dall’art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004, a fronte dell’incertezza circa la perdurante sussistenza di un vincolo paesaggistico connesso ad un alveo ormai abbandonato;
   c) il parere del 06.06.2019, prot. n. 13186, difetterebbe di adeguata motivazione, non avendo tenuto, segnatamente, conto delle concrete caratteristiche del contesto territoriale tutelato.
...
7. Innanzitutto, non coglie nel segno la R., allorquando predica la sussistenza della fonte abilitativa dell’edificio controverso, costituita dai PdC n. 40/2007 e n. 3/2012 e vi ricollega l’affidamento ingeneratole circa la legittimazione anche paesaggistica dell’edificio medesimo (cfr. retro, sub n. 3.a).
7.1. A ripudio della censura in esame, milita, precipuamente, il rapporto di autonomia-presupposizione che intercorre tra titolo edilizio e titolo paesaggistico ed alla cui stregua gli stessi vanno reciprocamente riguardati.
In virtù di tale rapporto, la mancanza dell’autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, se, da un lato, non è, di per sé, ossia se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del permesso di costruire, suscettibile di precludere o infirmare quest’ultimo, è, d’altro lato, suscettibile di rendere inefficace il medesimo e di rendere, comunque, paesaggisticamente illeciti e insanabili (‘factum infectum fieri nequit’), ove non rientranti –come, appunto, nella specie– nelle categorie degli ‘abusi minori’, i lavori eseguiti a dispetto di essa.
Tale considerazione trova appiglio nella seguente disamina, svolta da Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2015, n. 5663.
«È ben nota al Collegio –recita la pronuncia richiamata– la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex aliis, ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.06.2012, n. 2652) “i due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli”.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468; Cons. Stato, sez. VI n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura.".
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme" (Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. VI, 19.06.2001, n. 3242).
Sennonché, occorre osservare che:
   a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile, sez. I, 07.04.2006, n. 8244) ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende dall'accertamento di non-incompatibilità della prospettata attività di trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle costruzioni, ma anche il nulla osta paesaggistico, rimesso, nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare che il mancato rilascio del nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
   a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente orientata nel ritenere che (Cass. pen., sez. III, 23.11.1999) per costruire in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che, laddove l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 (Cass. pen., n. 10502/1999, n. 1093/1998, n. 6681/1998; di recente: Cassazione penale, sez. III, 07.10.2014, n. 952 …);
   b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione secondo la quale (TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.12.2014, n. 12140) "è legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166, "la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla-osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.03.2015 n. 1815)
».
7.2. Ora, la Soprintendenza di Salerno e Avellino risulta aver fatto, nel caso in esame, buon governo delle direttive ermeneutico-applicative dianzi declinate.
Ed invero, se l’intervento progettato dalla R., pur essendo assistito dai PdC n. 40/2007 e n. 3/2012, difettava ab origine della necessaria autorizzazione paesaggistica, siccome giammai richiesta dall’interessata, e se, ciononostante, lo stesso è stato comunque portato ad esecuzione, sulla base di un titolo edilizio rimasto inefficace (per mancanza di quello paesaggistico), la costruzione realizzata, per le relative caratteristiche tipologiche e dimensionali, non avrebbe potuto, ictu oculi, fruire della minisanatoria ambientale ex art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004.
7.3. Non vale a menomare il superiore approdo l’arresto sancito da Cons. Stato, sez. VI, 14.10.2015, n. 4759 e invocato da parte ricorrente a suffragio della propria tesi.
La pronuncia in parola radica, infatti, in capo al soggetto beneficiario di permesso di costruire non accompagnato da autorizzazione ex art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, il legittimo affidamento nella conformità anche paesaggistica dell’edificazione posta in essere, con riferimento ad una ipotesi in cui il titolo paesaggistico risultava prescritto non già –come, appunto, nella specie– all’epoca della presentazione dell’istanza, bensì, soltanto successivamente, all’epoca del rilascio di quello edilizio (
TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 29.01.2021 n. 266 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il parere favorevole espresso dal Sindaco in relazione alla richiesta di permesso di demolire e ricostruire con ampliamento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, non può qualificarsi come licenza edilizia … perché il parere di per sé non rappresenta in modo definitivo la volontà del Comune in punto di assentimento del titolo edilizio.
Pertanto, “Sebbene per realizzare un'opera edilizia nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico occorra sia l'assenso a fini edilizi sia l'assenso a fini paesaggistici, con la conseguenza che in tali aree non si può realizzare un'opera edilizia se non sono presenti entrambi i titoli abilitativi, tuttavia i due atti di assenso operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti.
Pertanto, il possibile rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il necessario rilascio anche dell'altro e la mancanza del necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un'opera anche se per la stessa è stato rilasciato l'assenso a fini paesaggistici”.
Ciò è tanto vero che, di norma, “E' inammissibile il ricorso proposto avverso l'autorizzazione paesaggistica comunale, non costituendo essa un atto conclusivo del procedimento edilizio di autorizzazione alla richiesta trasformazione edilizia, ma -ai sensi dell'art. 146, d.lgs. n. 42/2004- atto presupposto del titolo edilizio
”.

---------------

V.3. Con il secondo motivo di ricorso, la società ricorrente si duole dell’eccesso di potere per contrasto con i precedenti atti amministrativi adottati.
Evidenzia, in particolare, che già nel 2011 e, poi, nel 2013 aveva presentato progetti identici a quello attuale per la realizzazione del distributore di carburanti in questione, per i quali aveva ottenuto il parere favorevole della Soprintendenza “considerato che l’intervento in oggetto è da considerarsi ammissibile perché compatibile con i valori paesaggistici riconosciuti dal vincolo e che opere non apportano modifiche significative al contesto, si esprime parere favorevole al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica per le opere in oggetto” (provvedimento prot. n. 5019 del 03.03.2014).
A tale parere era seguita l’autorizzazione paesaggistica n. 2901 del 18.03.2014, rilasciata dal medesimo Comune di Sant’Anastasia, nell’ambito della quale dovrebbe ritenersi accertata anche la regolarità urbanistica dell’intervento.
V.3.1. Il motivo è infondato.
V.3.2. Come correttamente controdedotto dall’Amministrazione comunale, l’avere acquisito il parere favorevole dal punto di vista ambientale non equivale all’accertamento della corrispondenza anche alla conformità urbanistica del progetto presentato, nel caso, dalla Soc. La Pr. S.r.l., attuale ricorrente.
Secondo principi applicabili anche al caso di specie, infatti, “il parere favorevole espresso dal Sindaco in relazione alla richiesta di permesso di demolire e ricostruire con ampliamento in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, non può qualificarsi come licenza edilizia … perché il parere di per sé non rappresenta in modo definitivo la volontà del Comune in punto di assentimento del titolo edilizio” (TAR Toscana, Firenze, sez. III, 08/03/2013, n. 396).
Pertanto, “Sebbene per realizzare un'opera edilizia nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico occorra sia l'assenso a fini edilizi sia l'assenso a fini paesaggistici, con la conseguenza che in tali aree non si può realizzare un'opera edilizia se non sono presenti entrambi i titoli abilitativi, tuttavia i due atti di assenso operano su piani diversi, essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti. Pertanto, il possibile rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il necessario rilascio anche dell'altro e la mancanza del necessario titolo edilizio non consente la realizzazione di un'opera anche se per la stessa è stato rilasciato l'assenso a fini paesaggistici” (Consiglio di Stato, sez. VI, 16/06/2016, n. 2658).
Ciò è tanto vero che, di norma, “E' inammissibile il ricorso proposto avverso l'autorizzazione paesaggistica comunale, non costituendo essa un atto conclusivo del procedimento edilizio di autorizzazione alla richiesta trasformazione edilizia, ma -ai sensi dell'art. 146, d.lgs. n. 42/2004- atto presupposto del titolo edilizio” (TAR Campania, Napoli, sez. III, 04/07/2018, n. 4422; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 12/09/2018, n. 2058).
Non vi è allora alcuna irragionevolezza nel comportamento dell’Ente che, in presenza di un'autorizzazione paesaggistica riferita, peraltro, ad altra pratica urbanistica, abbia respinto dal punto di vista urbanistico l’istanza in esame, in quanto il predetto nulla osta paesaggistico non si estende anche all’asserito rilascio di un titolo abilitativo edilizio, per il quale valgono, invece, le regole sancite dal D.P.R. n 380 del 2001 e dalla strumentazione urbanistica
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 14.10.2020 n. 4524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn questo senso, milita, precipuamente, il rapporto di autonomia-presupposizione intercorrente tra i due titoli abilitativi, in virtù del quale la mancanza del titolo paesaggistico non è, di per sé, ossia se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del titolo edilizio, suscettibile di infirmare, ma è soltanto suscettibile di rendere inefficace quest’ultimo e di rendere, comunque, abusivi i lavori a dispetto di essa.
Invero, «È ben nota al Collegio la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale “i due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli”
».
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura.".
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme".

---------------
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166, "la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione paesaggistica.

---------------

Osserva, al riguardo, il Collegio che la contestazione formulata con l’ordinanza di demolizione n. 4 dell’08.07.2019 ha espressamente per oggetto l’esecuzione di una nuova costruzione, all’indomani dell’introduzione del vincolo paesaggistico ex art. 82, comma 5, lett. c), del d.p.r. n. 616/1977, in assenza dell’autorizzazione all’uopo prevista.
E’ evidente, dunque, che l’adottata misura repressivo-ripristinatoria non è venuta ad incidere sul perimetro abilitativo della rilasciata concessione edilizia n. 17 del 07.08.1990, ma concerne il distinto profilo dell’illecito paesaggistico, autonomamente sanzionabile ai sensi e per gli effetti dell’art. 167, commi 1-3, del d.lgs. n. 42/2004 («1. In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4. 2. Con l'ordine di rimessione in pristino è assegnato al trasgressore un termine per provvedere. 3. In caso di inottemperanza, l'autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica provvede d'ufficio per mezzo del prefetto e rende esecutoria la nota delle spese. Laddove l'autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica non provveda d'ufficio, il direttore regionale competente, su richiesta della medesima autorità amministrativa ovvero, decorsi centottanta giorni dall'accertamento dell'illecito, previa diffida alla suddetta autorità competente a provvedervi nei successivi trenta giorni, procede alla demolizione avvalendosi dell'apposito servizio tecnico-operativo del Ministero, ovvero delle modalità previste dall' articolo 41 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, a seguito di apposita convenzione che può essere stipulata d'intesa tra il Ministero e il Ministero della difesa»).
In questo senso, milita, precipuamente, il rapporto di autonomia-presupposizione intercorrente tra i due titoli abilitativi, in virtù del quale la mancanza del titolo paesaggistico non è, di per sé, ossia se e in quanto rimasta ininfluente sul processo di formazione del titolo edilizio, suscettibile di infirmare, ma è soltanto suscettibile di rendere inefficace quest’ultimo e di rendere, comunque, abusivi i lavori a dispetto di essa.
Tale considerazione trova appiglio nella seguente disamina, svolta da Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2015, n. 5663.
«È ben nota al Collegio –recita la pronuncia richiamata– la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex aliis, ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.06.2012, n. 2652) “i due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli”
».
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468; Cons. Stato, sez. VI n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L'assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un'autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura.".
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: "l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme" (Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. VI, 19.06.2001, n. 3242).
Sennonché, occorre osservare che:
   a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile, sez. I, 07.04.2006, n. 8244) ha avuto modo di precisare che: "ove l'area per la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende dall'accertamento di non-incompatibilità della prospettata attività di trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato. Si suole argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle costruzioni, ma anche il nulla osta paesaggistico, rimesso, nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale per delega della regione. La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nulla osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario. L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il giudice amministrativo può affermare che il mancato rilascio del nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.";
      a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente orientata nel ritenere che (Cass. pen., sez. III, 23.11.1999) per costruire in area vincolata non è sufficiente l'autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che, laddove l'autorizzazione manchi, la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia integrato il reato di cui all'art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 (Cass. pen., n. 10502/1999, n. 1093/1998, n. 6681/1998; di recente: Cassazione penale, sez. III, 07.10.2014, n. 952 …);
   b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente tende ad attenuare il regime di "separatezza" pervenendo all'affermazione secondo la quale (TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.12.2014, n. 12140) "è legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone soggette a vincoli ambientali" (così configurando, quindi un vizio di invalidità del titolo concessorio).
In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L'autonomia dei due procedimenti sussiste certamente. Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell'autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però … la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l'autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove l'autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima dell'inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada … ci si trova al cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla osta ambientale: TAR Piemonte, Torino, sez. I, 07.11.2012, n. 1166, "la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori", ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso presupposto dell'avvenuto rilascio … di una autorizzazione paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.03.2015 n. 1815).
I superiori approdi non restano, infine, menomati dalla circostanza che l’ordinanza di demolizione n. 4 dell’08.07.2019 menzioni l’art. 27, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, anziché l’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
Ciò, in quanto gli atti amministrativi vanno interpretati risalendo al relativo contenuto e al potere in concreto esercitato dall’autorità promanante, dovendosi prescindere dall’appropriato utilizzo o meno del nomen iuris o dei formali richiami normativi (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27.07.2010, n. 4902; TAR Lazio, Roma, sez. III, 17.06.2008, n. 5916; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 17.09.2009, n. 4977). E in quanto, appunto, nella specie, la gravata misura repressivo-ripristinatoria figura incontrovertibilmente motivata in base all’esclusivo ed assorbente rilievo dell’esecuzione di opere «in assenza del prescritto nulla osta paesaggistico» in area vincolata ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. c), della l. n. 431/1985 (ora art. 142, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 42/2004), senza alcun riferimento ad ipotetici profili di illiceità edilizia, ossia, all’evidenza, irrogata nell’esercizio del potere sanzionatorio di cui all’art. 167, commi 1-3, del d.lgs. n. 42/2004 (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 01.08.2020 n. 973 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Inefficace la DIA (ora SCIA) in assenza dell'autorizzazione paesaggistica.
Come evidenziato da un condivisibile orientamento giurisprudenziale, le esigenze di protezione dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i principi garantistici dell’autotutela, richiedono la sussistenza di alcuni requisiti minimi in assenza dei quali la d.i.a. deve ritenersi inefficace, con conseguente sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi dell’Amministrazione.
Detti requisiti sono precisati nell’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001 (vigente ratione temporis), che al comma 5 prevede, al fine di comprovare il carattere non abusivo delle opere realizzate, che gli interessati debbano esibire non solo la domanda, ma anche “gli atti di assenso eventualmente necessari”.
La stessa previsione contenuta nel comma 4 –in cui si prevede la convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di servizi, quando non risulti allegato alla d.i.a., sebbene richiesto e non ancora ottenuto, il “parere favorevole del soggetto preposto alla tutela” del bene (con inefficacia della stessa d.i.a. in caso di esito non favorevole della conferenza)– «non può non ritenersi ostativa dell’efficacia della medesima DIA alla scadenza del termine, in astratto previsto per l’esecuzione delle opere oggetto della domanda: non a caso, il comma 6 dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001 subordina la realizzazione degli interventi edilizi, per gli immobili vincolati, al “preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative” (con evidente riferimento alla non decorrenza del termine, previsto per l’inizio dei lavori, in assenza di detti pareri o autorizzazioni)».
Sicché, l’inefficacia della d.i.a. rende privi di un idoneo titolo abilitativo i lavori realizzati e, quindi, legittima l’attività sanzionatoria posta in essere dal Comune.
---------------
La qualificazione del provvedimento amministrativo deve essere operata sulla base del suo effettivo contenuto e degli effetti concretamente prodotti, e non anche del nomen iuris assegnatogli dall’Autorità emanante.
---------------
Non assume rilievo determinante, in senso opposto, l’orientamento giurisprudenziale segnalato dalle parti ricorrenti, secondo il quale il titolo edilizio privo dell’autorizzazione paesaggistica è illegittimo e non inefficace –laddove “il permesso di costruire è stato rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non necessità dell’autorizzazione paesaggistica [lo stesso] non è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda pertanto una fattispecie in cui l’attività edilizia posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare l’intervento” (TAR Veneto, II, 07.11.2018, n. 1033)– giacché tale pronuncia ha ad oggetto un permesso di costruire che è un atto amministrativo a tutti gli effetti ed è quindi assoggettato a tutte le prescrizioni regolanti la validità e l’efficacia degli atti amministrativi in generale: è evidente che nell’adozione di un provvedimento amministrativo il contenuto e gli effetti dello stesso sono totalmente riferibili all’Amministrazione procedente anche laddove il procedimento sia avviato o mediato da un’istanza del privato.
Diversamente, la d.i.a. (oggi s.c.i.a.) è un atto soggettivamente e oggettivamente privato (cfr. art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990) che abilita all’esecuzione di determinate categorie di interventi edilizi, ferma restando però la necessaria sussistenza di tutti gli altri presupposti richiesti dalla normativa, soprattutto quelli posti a presidio di interessi particolarmente sensibili e rilevanti, in carenza dei quali la denuncia non può esplicare alcun effetto.
La natura privata della d.i.a. genera una differenziazione del trattamento giuridico della stessa rispetto ad un atto amministrativo, qual è il permesso di costruire –si veda la posizione deteriore dei terzi lesi dall’intervento effettuato con d.i.a. o s.c.i.a. rispetto a quelli effettuati con il permesso di costruire (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019)– da cui necessariamente discende una parziale divergenza di regime; in tal senso, vanno richiamate le previsioni del Testo unico dell’edilizia che hanno previsto per l’interessato la facoltà di chiedere il rilascio di permesso di costruire per la realizzazione degli interventi effettuabili con s.c.i.a. (art. 22, comma 7) o viceversa di avvalersi della s.c.i.a. in alternativa al permesso di costruire (art. 23), in modo da consentire al privato, a prescindere dalla tipologia di intervento programmato, di scegliersi un regime giuridico più formalistico ma più garantito, oppure più snello ma con maggiori oneri e responsabilità a proprio carico.
Pertanto, avendo realizzato il box (abusivo) in un ambito sottoposto a vincolo, in assenza della previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, i ricorrenti lo hanno fatto sulla base di un titolo non efficace, dando in tal modo vita ad un intervento totalmente abusivo, cui consegue la necessaria rimozione del manufatto, come desumibile dall’art. 146, comma 4, del D.Lgs. n. 42 del 2004, secondo il quale “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio”.
---------------

2. Con le prime tre doglianze proposte dalle parti ricorrenti, da trattare contestualmente in quanto strettamente e logicamente connesse, si assume l’illegittimità dei provvedimenti comunali impugnati, poiché la d.i.a. in base alla quale è stato realizzato, in maniera del tutto conforme al titolo, il box sarebbe assolutamente legittima, come sarebbe dimostrato anche dalle plurime verifiche effettuate dall’Ufficio tecnico comunale nel corso del tempo e dalla circostanza che nel termine previsto dalla normativa non sarebbe stata effettuata alcuna attività di autotutela nel rispetto dei presupposti individuati dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, non potendo assumere rilevanza, in senso contrario, il tardivo sollecito dei poteri di controllo del Comune da parte dei vicini controinteressati; infine, non sarebbe giustificata la circostanza assunta a fondamento degli atti impugnati, in origine nemmeno presa in considerazione dallo stesso tecnico comunale, ovvero che l’autorimessa dei ricorrenti rientri tra i beni di cui agli art. 10-13 del D.Lgs. n. 42 del 2004 o tra quelli di cui all’art. 134 del medesimo Decreto (rientrando nel perimetro del Parco Agricolo Sud Milano).
2.1. Le doglianze sono infondate.
Va premesso che, in data 06.05.2019, in esecuzione dell’ordinanza n. 428/2019, il Comune di Lacchiarella ha depositato in giudizio una Relazione attraverso la quale ha segnalato la sussistenza di un vincolo indiretto gravante sugli immobili limitrofi alla Chiesa di San Martino ed imposto dal P.G.T. entrato in vigore il 01.01.2013.
Nello specifico, nel paragrafo “3.4 Vincoli gravanti sul territorio comunale” dell’elaborato “Piano delle regole- RP.03- Relazione”, si è evidenziato che, “per effetto del DLgs 42/2004 (codice Urbani), oltre al territorio compreso nel Parco regionale: - uno specifico vincolo di rispetto della chiesa di San Martino è in vigore per effetto dell’art. 10 e riguarda le modalità di intervento negli isolati al contorno della chiesa”.
L’art. 28.1 (“Immobili assoggettati a tutela”) delle Norme Tecniche di Attuazione del Piano delle Regole prescrive che “sono assoggettati alla tutela prevista dal decreto legislativo 22.01.2004, n. 42: - ai sensi degli artt. 10-13, gli immobili identificati nella tav. DA. 02, nonché gli immobili di proprietà pubblica nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico e di persone giuridiche private senza fine di lucro, anche in assenza della dichiarazione di sussistenza di specifico interesse”.
La Tavola “DA. 02- Vincoli gravanti sul territorio comunale” inserisce i fondi di proprietà dei ricorrenti Tr./Ta. (e delle controinteressate Bo. e Ri.) tra gli “Isolati interessati dal vincolo ex art. 136 del d.lgs. 42/2004”. Anche la tavola “RP 01-bis Carta di sintesi dei contenuti del PGT” inserisce le residenze dei ricorrenti e delle controinteressate all’interno degli isolati soggetti al vincolo ex art. 136 del D.Lgs. n. 42 del 2004 (“Vincoli ambientali e monumentali”).
Pertanto, si è al cospetto di un vicolo diretto (assoluto) sulla Chiesa di San Martino e indiretto (relativo) sugli isolati posti nell’intorno, in cui è collocata anche l’area di proprietà dei ricorrenti su cui è stato realizzato il box oggetto del presente contenzioso. Ne discende che, ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs. n. 42 del 2004, in presenza di un intervento che altera lo stato dei luoghi dei fondi interessati dal vincolo, si impone il previo ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica.
2.2. Trattandosi di intervento effettuato con d.i.a. n. 26/2013 del 15.04.2013, lo stesso è assoggettato alla disciplina urbanistica vigente a quella data e quindi al richiamato P.G.T., entrato in vigore il 01.01.2013. È altrettanto pacifico tra le parti di causa che nessuna autorizzazione paesaggistica è stata richiesta e ottenuta per la realizzazione del box.
Tuttavia, le parti ricorrenti ritengono che la mancanza della predetta autorizzazione non abbia alcuna conseguenza sulla validità ed efficacia della d.i.a. n. 26/2013 (e sulla successiva variante, n. 50/2013), poiché lo stesso Tecnico comunale, all’atto della presentazione del titolo edilizio, ne aveva escluso la indispensabilità, e in ogni caso sarebbe maturato un affidamento legittimo in capo ai ricorrenti in ordine alla regolarità dell’intervento edilizio posto in essere, anche in relazione al lungo lasso di tempo trascorso tra la sua realizzazione e la conclusione dell’attività sanzionatoria comunale, avvenuta nel mese di febbraio 2019.
I predetti rilievi non appaiono persuasivi, atteso che, come evidenziato da un condivisibile orientamento giurisprudenziale, le esigenze di protezione dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i principi garantistici dell’autotutela richiedono la sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei quali la d.i.a. deve ritenersi inefficace, con conseguente sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi dell’Amministrazione. Detti requisiti sono precisati nell’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001 (vigente ratione temporis), che al comma 5 prevede, al fine di comprovare il carattere non abusivo delle opere realizzate, che gli interessati debbano esibire non solo la domanda, ma anche “gli atti di assenso eventualmente necessari”.
La stessa previsione contenuta nel comma 4 –in cui si prevede la convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di servizi, quando non risulti allegato alla d.i.a., sebbene richiesto e non ancora ottenuto, il “parere favorevole del soggetto preposto alla tutela” del bene (con inefficacia della stessa d.i.a. in caso di esito non favorevole della conferenza)– «non può non ritenersi ostativa dell’efficacia della medesima DIA alla scadenza del termine, in astratto previsto per l’esecuzione delle opere oggetto della domanda: non a caso, il comma 6 dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001 subordina la realizzazione degli interventi edilizi, per gli immobili vincolati, al “preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative” (con evidente riferimento alla non decorrenza del termine, previsto per l’inizio dei lavori, in assenza di detti pareri o autorizzazioni)» (Consiglio di Stato, VI, 20.11.2013, n. 5513; altresì, IV, 11.10.2018, n. 5841; VI, 24.03.2014, n. 1413).
L’inefficacia della d.i.a. rende privi di un idoneo titolo abilitativo i lavori di realizzazione del box e quindi legittima l’attività sanzionatoria posta in essere dal Comune. La circostanza che nel provvedimento di chiusura del procedimento impugnato sia stata eccepita la “carenza di un requisito di legittimità” e non sia invece stata prospettata l’inefficacia della d.i.a. non appare invalidante, atteso che comunque era evidente e nettamente percepibile il riferimento alla carenza dell’autorizzazione paesaggistica (punto 1 del provvedimento); del resto, la qualificazione del provvedimento amministrativo deve essere operata sulla base del suo effettivo contenuto e degli effetti concretamente prodotti, e non anche del nomen iuris assegnatogli dall’Autorità emanante (Consiglio di Stato, IV, 13.04.2017, n. 1718; TAR Lombardia, Milano, IV, 18.03.2019, n. 567).
Infine, non assume rilievo determinante, in senso opposto, l’orientamento giurisprudenziale segnalato dalle parti ricorrenti, secondo il quale il titolo edilizio privo dell’autorizzazione paesaggistica è illegittimo e non inefficace –laddove “il permesso di costruire è stato rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non necessità dell’autorizzazione paesaggistica [lo stesso] non è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda pertanto una fattispecie in cui l’attività edilizia posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare l’intervento” (TAR Veneto, II, 07.11.2018, n. 1033)– giacché tale pronuncia ha ad oggetto un permesso di costruire che è un atto amministrativo a tutti gli effetti ed è quindi assoggettato a tutte le prescrizioni regolanti la validità e l’efficacia degli atti amministrativi in generale: è evidente che nell’adozione di un provvedimento amministrativo il contenuto e gli effetti dello stesso sono totalmente riferibili all’Amministrazione procedente anche laddove il procedimento sia avviato o mediato da un’istanza del privato.
Diversamente, la d.i.a. (oggi s.c.i.a.) è un atto soggettivamente e oggettivamente privato (cfr. art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990; Corte costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019; Consiglio di Stato, II, 12.03.2020, n. 1795; TAR Lombardia, Milano, II, 26.06.2020, n. 1205) che abilita all’esecuzione di determinate categorie di interventi edilizi, ferma restando però la necessaria sussistenza di tutti gli altri presupposti richiesti dalla normativa, soprattutto quelli posti a presidio di interessi particolarmente sensibili e rilevanti, in carenza dei quali la denuncia non può esplicare alcun effetto.
La natura privata della d.i.a. genera una differenziazione del trattamento giuridico della stessa rispetto ad un atto amministrativo, qual è il permesso di costruire –si veda la posizione deteriore dei terzi lesi dall’intervento effettuato con d.i.a. o s.c.i.a. rispetto a quelli effettuati con il permesso di costruire (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 45 del 13.03.2019)– da cui necessariamente discende una parziale divergenza di regime; in tal senso, vanno richiamate le previsioni del Testo unico dell’edilizia che hanno previsto per l’interessato la facoltà di chiedere il rilascio di permesso di costruire per la realizzazione degli interventi effettuabili con s.c.i.a. (art. 22, comma 7) o viceversa di avvalersi della s.c.i.a. in alternativa al permesso di costruire (art. 23), in modo da consentire al privato, a prescindere dalla tipologia di intervento programmato, di scegliersi un regime giuridico più formalistico ma più garantito, oppure più snello ma con maggiori oneri e responsabilità a proprio carico.
Pertanto, avendo realizzato il box (abusivo, come evidenziato in precedenza) in un ambito sottoposto a vincolo, in assenza della previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, i ricorrenti lo hanno fatto sulla base di un titolo non efficace, dando in tal modo vita ad un intervento totalmente abusivo, cui consegue la necessaria rimozione del manufatto, come desumibile dall’art. 146, comma 4, del D.Lgs. n. 42 del 2004, secondo il quale “l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio” (sulla prevalenza della disciplina paesaggistica su quella edilizia, cfr. Consiglio di Stato, IV, 08.07.2019, n. 4778; anche, TAR Lombardia, Milano, II, 11.03.2020, n. 471; 21.01.2019, n. 118).
2.3. Ciò determina il rigetto delle scrutinate censure (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.07.2020 n. 1303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire e vincolo paesaggistico.
L'autorizzazione paesaggistica è un titolo che mantiene la sua autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, rispetto al permesso di costruire: trattasi invero di due procedimenti distinti in ragione della diversità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali, finalizzati l'uno alla compatibilità dell'intervento edilizio volto ad incidere sul patrimonio paesaggistico e l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico in conformità agli strumenti di pianificazione del territorio.
La giurisprudenza tanto ordinaria quanto amministrativa ha avuto modo di sottolineare, con consolidato orientamento, che il procedimento di rilascio del permesso di costruire ha un rapporto di autonomia e non di interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, secondo quanto risulta dalla stessa lettera della legge (articolo 159, per la disciplina transitoria e articolo 146, Dlgs 22.01.2004, n. 42), che prevede, per un verso, che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti intervento urbanistico-edilizio e, per un altro, che i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa.

Muovendo dalla disposizione dell’art. 146 d.lgs. 42/2004, secondo la quale “i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alle amministrazioni competenti i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, preordinata alla verifica della compatibilità fra interesse paesaggistico tutelato ed intervento progettato, al fine di ottenere la preventiva autorizzazione”, ne deriva che costituisce onere dell’interessato rappresentare, nel richiedere il permesso di costruire, che l’intervento progettato insiste su una zona vincolata sul piano paesaggistico, così come verificare, una volta conseguito il titolo abilitativo ai fini urbanistici, se lo stesso sia congruo in relazione alla situazione di fatto, riferita cioè alla specifica zona in cui l’intervento deve essere realizzato.
---------------
L'
autorizzazione paesaggistica si configura quale presupposto di efficacia del permesso di costruire.
---------------

Il ricorso non può essere ritenuto ammissibile.
L'assunto della difesa, secondo il quale la delega da parte della Regione della funzione autorizzatoria di cui agli articoli 146, 153 e 154 del Codice dei beni culturali e del paesaggio ai comuni imporrebbe di individuare nell'ente locale, proprio in quanto preposto al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, il soggetto chiamato a valutare in primis la necessità o meno del suddetto titolo abilitativo e in caso affermativo ad attivarsi motu proprio per acquisire il parere della competente Soprintendenza, risulta manifestamente infondato.
Quand'anche all'epoca del commesso reato competesse al Comune, e non già alla Regione, il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica secondo la legge regionale toscana n. 1 del 2005, ciò non toglie che trattasi di un titolo che mantiene la sua autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, rispetto al permesso di costruire: trattasi invero di due procedimenti distinti in ragione della diversità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali, finalizzati l'uno alla compatibilità dell'intervento edilizio volto ad incidere sul patrimonio paesaggistico e l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico in conformità agli strumenti di pianificazione del territorio.
La giurisprudenza tanto ordinaria quanto amministrativa ha avuto modo di sottolineare, con consolidato orientamento, che il procedimento di rilascio del permesso di costruire ha un rapporto di autonomia e non di interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, secondo quanto risulta dalla stessa lettera della legge (articolo 159, per la disciplina transitoria e articolo 146, Dlgs 22.01.2004, n. 42), che prevede, per un verso, che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti intervento urbanistico-edilizio e, per un altro, che i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa (cfr. in termini la pronuncia del Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 5016/2017, nonché Consiglio di Stato, Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4234 del 21.08.2013).
Del resto che la procedura per il rilascio del permesso di costruire sia ontologicamente diversa e comunque autonoma rispetto a quella per l'autorizzazione paesaggistica, del resto trova conferma nella stessa legge regionale della Toscana 1/2015 che all'art. 88, terzo comma prevede espressamente che "il responsabile del procedimento amministrativo in materia urbanistico-edilizia non può essere responsabile del procedimento amministrativo in materia di autorizzazione paesaggistica".
Muovendo infatti dalla disposizione dell'art. 146 d.lgs. 42/2004, secondo la quale "i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alle amministrazioni competenti i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, preordinata alla verifica della compatibilità fra interesse paesaggistico tutelato ed intervento progettato, al fine di ottenere la preventiva autorizzazione", ne deriva che costituisce onere dell'interessato rappresentare, nel richiedere il permesso di costruire, che l'intervento progettato insiste su una zona vincolata sul piano paesaggistico, così come verificare, una volta conseguito il titolo abilitativo ai fini urbanistici, se lo stesso sia congruo in relazione alla situazione di fatto, riferita cioè alla specifica zona in cui l'intervento deve essere realizzato.
Il ricorrente non può perciò sottrarsi agli obblighi su lui stesso incombenti per la realizzazione dei capannoni in un'area boscata trincerandosi dietro un'insussistente autonoma iniziativa del Comune sol perché si tratta dello stesso ente deputato al rilascio sia dell'autorizzazione paesaggistica che del permesso di costruire, quando è lui stesso ad aver taciuto quale fosse l'effettivo stato dei luoghi al momento della domanda. Né di alcun supporto alla tesi difensiva propugnata può ritenersi la costituzione da parte dell'Amministrazione comunale dello Sportello Unico per l'Edilizia in conformità a quanto previsto dall'art. 5 d.P.R. 380/2001 al quale lo stesso imputato si è rivolto: tale ufficio, il quale assolve alla funzione di curare tutti i rapporti fra il privato, l'amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio oggetto della richiesta di permesso o di denuncia di inizio attività, ha unicamente finalità di semplificazione procedimentale ed organizzativa, fungendo da tramite tra il privato e l'amministrazione per il rilascio dei titoli abilitativi (Sez. 3, n. 19315 del 27/04/2011 - dep. 17/05/2011, Manera, Rv. 250017), ma certamente non può sostituirsi alla carente rappresentazione dello stato dei luoghi da parte dell'interessato che, invece, era ben consapevole dell'esistenza di un bosco sull'area in questione essendo stato lui stesso ad averne eseguito preventivamente il taglio senza averne richiesto neppure in tale occasione l'autorizzazione.
Del resto, l'assunto secondo il quale competeva al Comune attivarsi per il conseguimento dell'autorizzazione paesaggistica secondo le proprie autonome determinazioni è contraddetta dalle successive allegazioni della stessa difesa che sostiene che, non sussistendo alcun bosco sull'area al momento dell'edificazione, non doveva essere rilasciata alcuna autorizzazione paesaggistica, così negando nel medesimo ricorso l'autonomia decisionale dell'ente locale fermamente sostenuta poche pagine prima.
La tesi, anche a prescindere dalla sua intrinseca incoerenza con il precedente assunto difensivo, mostra tutta la sua fragilità sol che si consideri che così opinando verrebbe con un sol colpo annullato lo stesso vincolo paesaggistico, contemplante per sua natura la valutazione dell'impatto sul contesto ambientale circostante dell'opera realizzanda, rimettendo allo stesso interessato la possibilità, con una condotta, necessariamente arbitraria proprio in quanto non preventivamente autorizzata, mediante la preventiva modifica dello stato dei luoghi, di aggirare il vincolo stesso: conseguenza questa all'evidenza paradossale, tenuto conto che nello specifico l'imputato non aveva mai chiesto, neppure in relazione al disboscamento, che entrambi i giudici di merito ritengono logicamente preordinato alla successiva edificazione, alcuna autorizzazione sul piano paesaggistico essendosi munito soltanto del parere favorevole ai fini del diverso vincolo idrogeologico, che attesta in via ineludibile la preesistente sussistenza di un'area boschiva, così come la consapevolezza in capo al medesimo di operare in area vincolata.
E poiché il vincolo paesaggistico sussiste per il solo fatto della presenza di un bosco, inteso secondo il previgente art. 2 d.lgs. 227/2001, come un "terreno coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri, larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale maggiore del 20 per cento", definizione questa non modificata dalla vigente normativa, costituita dal T.U. in materia forestale del 03.04.2018 n. 34 null'altro evincendosi dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 che rimanda alla nozione recepita dal legislatore nazionale in materia forestale, ne consegue che nessuna rilevanza possa attribuirsi alle determinazioni assunte dal Comune al riguardo.
Va infatti considerato che sono solo le Regioni che possono nell'ambito della potestà legislativa concorrente in subiecta materia a poter integrare, per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate aree, e che in ogni caso la nozione di bosco assunta dalla legge regionale toscana n. 1/2005, all'epoca vigente, non si discosta da quella nazionale testé riportata: conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali. Deve perciò ritenersi priva di rilievo l'affermazione resa dal Comune di Trequanda, in risposta ai rilievi della Provincia di Siena, secondo cui l'area in esame non era qualificabile come boscata, sussistendo l'imprescindibile obbligo in capo all'imputato di rappresentare all'amministrazione competente la sussistenza dello specifico vincolo paesaggistico dovuto alla presenza del bosco.
D'altra parte è stata proprio la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica, configurante presupposto di efficacia del permesso di costruire, ad aver determinato la contestazione di illegittimità del titolo urbanistico in quanto mancante dell'atto presupposto ex lege e comunque in violazione delle norme previste per il suo rilascio, ancorché il relativo reato sia stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione sin dalla sentenza di primo grado: epilogo questo sufficiente ad escludere la rilevanza delle disquisizioni difensive volte a contrastare il potere di disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo da parte del giudice penale, trattandosi di questioni estranee al delitto paesaggistico, consumatosi per l'omesso conseguimento della relativa autorizzazione, ma semmai attinenti al permesso di costruire, non più oggetto di disamina da parte dei giudici del gravame (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.03.2020 n. 9402).

EDILIZIA PRIVATAL’autorizzazione paesaggistica costituisce un atto autonomo rispetto al permesso di costruire: si tratta, infatti, di due procedimenti distinti in ragione della diversità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali, finalizzati l'uno alla compatibilità dell'intervento edilizio volto ad incidere sul patrimonio paesaggistico e l'altro alla tutela dell'assetto urbanistico in conformità agli strumenti di pianificazione del territorio.
---------------

Il ricorrente non può perciò sottrarsi agli obblighi su lui stesso incombenti per la realizzazione dei capannoni in un'area boscata trincerandosi dietro un'insussistente autonoma iniziativa del Comune sol perché si tratta dello stesso ente deputato al rilascio sia dell'autorizzazione paesaggistica che del permesso di costruire, quando è lui stesso ad aver taciuto quale fosse l'effettivo stato dei luoghi al momento della domanda. Né di alcun supporto alla tesi difensiva propugnata può ritenersi la costituzione da parte dell'Amministrazione comunale dello Sportello Unico per l'Edilizia in conformità a quanto previsto dall'art. 5 d.P.R. 380/2001 al quale lo stesso imputato si è rivolto: tale ufficio, il quale assolve alla funzione di curare tutti i rapporti fra il privato, l'amministrazione e, ove occorra, le altre amministrazioni tenute a pronunciarsi in ordine all'intervento edilizio oggetto della richiesta di permesso o di denuncia di inizio attività, ha unicamente finalità di semplificazione procedimentale ed organizzativa, fungendo da tramite tra il privato e l'amministrazione per il rilascio dei titoli abilitativi (Sez. 3, n. 19315 del 27/04/2011 - dep. 17/05/2011, Manera, Rv. 250017), ma certamente non può sostituirsi alla carente rappresentazione dello stato dei luoghi da parte dell'interessato che, invece, era ben consapevole dell'esistenza di un bosco sull'area in questione essendo stato lui stesso ad averne eseguito preventivamente il taglio senza averne richiesto neppure in tale occasione l'autorizzazione.
Del resto, l'assunto secondo il quale competeva al Comune attivarsi per il conseguimento dell'autorizzazione paesaggistica secondo le proprie autonome determinazioni è contraddetta dalle successive allegazioni della stessa difesa che sostiene che, non sussistendo alcun bosco sull'area al momento dell'edificazione, non doveva essere rilasciata alcuna autorizzazione paesaggistica, così negando nel medesimo ricorso l'autonomia decisionale dell'ente locale fermamente sostenuta poche pagine prima.
La tesi, anche a prescindere dalla sua intrinseca incoerenza con il precedente assunto difensivo, mostra tutta la sua fragilità sol che si consideri che così opinando verrebbe con un sol colpo annullato lo stesso vincolo paesaggistico, contemplante per sua natura la valutazione dell'impatto sul contesto ambientale circostante dell'opera realizzanda, rimettendo allo stesso interessato la possibilità, con una condotta, necessariamente arbitraria proprio in quanto non preventivamente autorizzata, mediante la preventiva modifica dello stato dei luoghi, di aggirare il vincolo stesso: conseguenza questa all'evidenza paradossale, tenuto conto che nello specifico l'imputato non aveva mai chiesto, neppure in relazione al disboscamento, che entrambi i giudici di merito ritengono logicamente preordinato alla successiva edificazione, alcuna autorizzazione sul piano paesaggistico essendosi munito soltanto del parere favorevole ai fini del diverso vincolo idrogeologico, che attesta in via ineludibile la preesistente sussistenza di un'area boschiva, così come la consapevolezza in capo al medesimo di operare in area vincolata.
E poiché il vincolo paesaggistico sussiste per il solo fatto della presenza di un bosco, inteso secondo il previgente art. 2 d.lgs. 227/2001, come un "terreno coperto da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva, di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri, larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale maggiore del 20 per cento", definizione questa non modificata dalla vigente normativa, costituita dal T.U. in materia forestale del 03.04.2018 n. 34 null'altro evincendosi dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 che rimanda alla nozione recepita dal legislatore nazionale in materia forestale, ne consegue che nessuna rilevanza possa attribuirsi alle determinazioni assunte dal Comune al riguardo.
Va infatti considerato che sono solo le Regioni che possono nell'ambito della potestà legislativa concorrente in subiecta materia a poter integrare, per addizione o sottrazione, la definizione di area boschiva assunta dalla legge nazionale, aggiungendo o escludendo da essa determinate aree, e che in ogni caso la nozione di bosco assunta dalla legge regionale toscana n. 1/2005, all'epoca vigente, non si discosta da quella nazionale testé riportata: conseguentemente una volta accertata la natura boschiva di un'area, il vincolo paesaggistico derivante ex lege dall'art. 142 d.lgs. 42/2004 produce effetti indipendentemente da eventuali diverse definizioni ad essa date dagli strumenti urbanistici comunali.
Deve perciò ritenersi priva di rilievo l'affermazione resa dal Comune di Trequanda, in risposta ai rilievi della Provincia di Siena, secondo cui l'area in esame non era qualificabile come boscata, sussistendo l'imprescindibile obbligo in capo all'imputato di rappresentare all'amministrazione competente la sussistenza dello specifico vincolo paesaggistico dovuto alla presenza del bosco.
D'altra parte è stata proprio la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica, configurante presupposto di efficacia del permesso di costruire, ad aver determinato la contestazione di illegittimità del titolo urbanistico in quanto mancante dell'atto presupposto ex lege e comunque in violazione delle norme previste per il suo rilascio, ancorché il relativo reato sia stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione sin dalla sentenza di primo grado: epilogo questo sufficiente ad escludere la rilevanza delle disquisizioni difensive volte a contrastare il potere di disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo da parte del giudice penale, trattandosi di questioni estranee al delitto paesaggistico, consumatosi per l'omesso conseguimento della relativa autorizzazione, ma semmai attinenti al permesso di costruire, non più oggetto di disamina da parte dei giudici del gravame (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.03.2020 n. 9402).

EDILIZIA PRIVATA: E’ principio giurisprudenziale unanimemente affermato quello per cui l’assenza dell’autorizzazione paesaggistica implica l’applicazione della sanzione demolitorio/ripristinatoria indipendentemente dal titolo edilizio che –in zona non sottoposta a vincolo paesaggistico– sarebbe necessario per la realizzazione delle stesse.
Ciò in quanto le opere realizzate in aree vincolate sono considerate, ai sensi dell’art. 32, c. 3, DPR 380/2001, in totale difformità dal permesso di costruire o variazioni essenziali.

---------------

6. Per ragioni di ordine logico il Collegio ritiene di dover procedere preliminarmente all’esame del terzo motivo del ricorso n. 363/2017, con cui la ricorrente impugna il diniego di autorizzazione paesaggistica. Tale censura ha carattere assorbente rispetto a quelle formulate nel primo e nel secondo motivo di ricorso, entrambe rivolte a contestare l’applicabilità della sanzione demolitoria di cui all’art. 31 DPR 380/2001, in ragione della natura della opere realizzate.
E’, infatti, principio giurisprudenziale unanimemente affermato quello per cui l’assenza dell’autorizzazione paesaggistica implica l’applicazione della sanzione demolitorio/ripristinatoria indipendentemente dal titolo edilizio che –in zona non sottoposta a vincolo paesaggistico– sarebbe necessario per la realizzazione delle stesse (ex multis Cons. Stato Sez. IV, 21/03/2019, n. 1874). Ciò in quanto le opere realizzate in aree vincolate sono considerate, ai sensi dell’art. 32, c. 3, DPR 380/2001, in totale difformità dal permesso di costruire o variazioni essenziali
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 28.06.2019 n. 781 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl sistema normativo, articolato su più livelli di governo del territorio, prevede che per poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica, i quali hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
---------------

Il ricorso è infondato e va respinto per le ragioni che seguono.
Come esposto in fatto l’oggetto del presente giudizio verte sulla legittimità, contestata sotto più profili dal ricorrente, del provvedimento di diniego ad istanza di condono assunto dal Comune di Colognola ai Colli, a fronte della realizzazione, in assenza di alcun titolo, dell’intervento edilizio sopra meglio descritto.
Con le prime censure, il ricorrente deduce il vizio di violazione dell’art. 32, co. 27, lett. d), legge 326/2003 e della legge regionale Veneto 21/2004, contestando la circostanza che il diniego non ha tenuto in debito conto il nulla osta paesaggistico previsto dall’art. 7 della L. n. 1497/1939, rilasciato dalla Provincia di Verona.
Il Collegio ritiene priva di fondamento tale asserzione, in quanto tale atto di per sé non è sufficiente ad abilitare alla realizzazione di opere, essendo contestualmente necessario un titolo edilizio.
Il sistema normativo, articolato su più livelli di governo del territorio, prevede che per poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica, i quali hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibili le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino. Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato sez. VI n. 547 del 10.02.2006) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 24.06.2019 n. 754 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di interventi edificatori in aree assoggettate a vincolo paesaggistico non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una DIA che, in mancanza di previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001.
---------------

5) Con il terzo motivo e il quarto motivo, il ricorrente sostiene che la DIA 03/09/2012 si sarebbe consolidata per effetto del mancato esercizio del potere inibitorio comunale.
In ogni caso, la mancanza del titolo paesaggistico non avrebbe comportato l’inefficacia della DIA, ma soltanto la sua “annullabilità” e non risulta che sia stato adottato alcun provvedimento in autotutela da parte del Comune di Loano.
L’esponente dubita anche dell’effettiva esistenza di un vincolo gravante sull’area di intervento, la cui natura non è stata individuata nel contesto dell’impugnata ordinanza di demolizione.
Tali rilievi non colgono nel segno.
Nel caso di interventi edificatori in aree assoggettate a vincolo paesaggistico, infatti, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una DIA che, in mancanza di previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 (cfr., fra le ultime, TAR Campania, Napoli, sez. III, 28.11.2018, n. 6897).
L’intervento indicato nella DIA inefficace, pertanto, è stato correttamente sanzionato con la demolizione in quanto realizzato in mancanza del titolo abilitativo obbligatorio.
Gli ulteriori rilievi inerenti all’effettiva sussistenza del vincolo hanno carattere congetturale e perseguono finalità essenzialmente esplorative: in quanto tali, essi non possono trovare ingresso nel presente giudizio.
Ha chiarito la difesa comunale, comunque, che l’area oggetto di intervento è assoggettata a vincolo paesaggistico ex art. 142, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 42 del 2004, poiché compresa nella fascia di 150 metri dall’alveo del torrente Nimbalto, iscritto nell’elenco delle acque pubbliche della Provincia di Savona (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 22.05.2019 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso in cui il permesso di costruire è rilasciato dal Comune sull'erroneo convincimento della non necessità dell'autorizzazione paesaggistica ma invece la stessa è necessaria, il permesso di costruire non è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto dell'assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare l'intervento.
In un tale contesto l'Amministrazione non può pertanto adottare direttamente un'ordinanza di demolizione senza aver prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al titolo edilizio che, rispetto all'illiceità paesaggistica, si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante relativamente all'attività edilizia posta in essere in senso conforme al titolo.
---------------

Nulla di tutto ciò, evidentemente, è dato ravvisare nell'ordinanza di demolizione gravata nel presente processo, sicché si ritiene fondata la censura articolata da parte ricorrente.
A conferma di quanto appena affermato può riportarsi un precedente del TAR Veneto, Sez. II, 07/11/2018, n. 1033, che, in un caso simile, ha disposto che “Nel caso in cui il permesso di costruire è rilasciato dal Comune sull'erroneo convincimento della non necessità dell'autorizzazione paesaggistica ma invece la stessa è necessaria, il permesso di costruire non è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto dell'assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare l'intervento. In un tale contesto l'Amministrazione non può pertanto adottare direttamente un'ordinanza di demolizione senza aver prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al titolo edilizio che, rispetto all'illiceità paesaggistica, si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante relativamente all'attività edilizia posta in essere in senso conforme al titolo” (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 12.12.2018 n. 1799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per ragioni di carattere testuale e sistematico, tenuto conto che nel caso in esame è stato rilasciato un titolo edilizio nella convinzione dell’assenza di un vincolo paesaggistico, l’autorizzazione paesaggistica costituisce -ferma restando la sua autonomia– condizione di validità del permesso di costruire.
La giurisprudenza richiamata dal Comune nelle proprie difese, laddove afferma che in mancanza dell’autorizzazione paesaggistica il permesso di costruire rilasciato antecedentemente alla stessa deve ritenersi inefficace, si riferisce all’ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato rilasciato nella consapevolezza della necessità dell’autorizzazione paesaggistica, ed ha il significato di affermare che i lavori non possono essere iniziati fino a che non sia intervenuto l’atto di assenso sotto il profilo paesaggistico, come risulta dall’art. 146, comma 2, del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, il quale prevede che gli interessati debbano “astenersi dall'avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l'autorizzazione” e dall’art. 159, comma 2, quinto periodo, del medesimo decreto legislativo per il quale, “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”.
Diverso è il caso in esame in cui il permesso di costruire è stato rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non necessità dell’autorizzazione paesaggistica. In un caso come questo, il permesso di costruire non è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare l’intervento.
In un tale contesto l’Amministrazione non può pertanto adottare direttamente un’ordinanza di demolizione senza aver prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al titolo edilizio che, rispetto all’illiceità paesaggistica, si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante relativamente all’attività edilizia posta in essere in senso conforme al titolo. Altrimenti si dovrebbe giungere ad affermare che il titolo edilizio rilasciato in assenza dell’autorizzazione paesaggistica dovrebbe essere dichiarato radicalmente nullo nonostante la mancanza di un’espressa previsione di legge in tale senso (che invece è necessaria per poter affermare la nullità degli atti amministrativi), ma ciò, come osservato dalla giurisprudenza, non è accettabile perché “l'estensione della sanzione della nullità a fattispecie non riconducibili alle tassative ipotesi previste dall'art. 21-septies l. n. 241/1990 equivarrebbe ad un inammissibile vulnus al principio di certezza del diritto pubblico.
Tranne queste ipotesi tassative, ogni violazione di legge, più o meno grave, determina la annullabilità del provvedimento, con la conseguenza che -nel caso di mancata emanazione di un atto amministrativo o di una pronuncia del g.a. che ne disponga l'annullamento o la sospensione degli effetti- il medesimo atto deve essere ritenuto efficace da ogni autorità tenuta alla sua esecuzione”.

---------------
Con permesso di costruire n. 56 del 17.10.2009, la ricorrente è stata autorizzata a realizzare un fabbricato residenziale con annesso deposito agricolo nel territorio del comune di Gazzo Veronese.
Il comune con ordinanza n. 4 del 16.03.2017, ha ingiunto la demolizione e la riduzione in pristino dello stato dei luoghi perché l’immobile è stato realizzato in area soggetta a vincolo paesaggistico in assenza della necessaria autorizzazione paesaggistica.
La sussistenza del vincolo paesaggistico è ricondotta all’esistenza in prossimità dell’immobile di un corso d’acqua denominato “Dugal Zimel” che ricade negli appositi elenchi dei corsi d’acqua tutelati ai sensi dell’art. 142, comma 1, lett. c), del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, originariamente non rilevato dal Comune.
Tale provvedimento è impugnato per le seguenti censure:
...
III) violazione degli artt. 5, 20, 27 e 31 del DPR 06.06.2001, n. 380, e dell’art. 146 del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, sotto altro profilo, perché non è corretta l’affermazione contenuta nel ricorso secondo cui la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica rende ex se da sempre irreversibilmente inefficace il permesso di costruire; il Comune pertanto avrebbe dovuto agire in autotutela per rimuovere la validità del permesso di costruire in base al quale è stato realizzato l’immobile;
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto per le censure, che hanno carattere assorbente, di cui al terzo motivo.
Infatti la tesi del Comune secondo la quale il permesso di costruire rilasciato senza autorizzazione paesaggistica sarebbe nullo o inefficace non è condivisibile.
La giurisprudenza richiamata dal Comune nelle proprie difese, laddove afferma che in mancanza dell’autorizzazione paesaggistica il permesso di costruire rilasciato antecedentemente alla stessa deve ritenersi inefficace, si riferisce all’ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato rilasciato nella consapevolezza della necessità dell’autorizzazione paesaggistica, ed ha il significato di affermare che i lavori non possono essere iniziati fino a che non sia intervenuto l’atto di assenso sotto il profilo paesaggistico, come risulta dall’art. 146, comma 2, del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, il quale prevede che gli interessati debbano “astenersi dall'avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l'autorizzazione” e dall’art. 159, comma 2, quinto periodo, del medesimo decreto legislativo per il quale, “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”.
Diverso è il caso in esame in cui il permesso di costruire è stato rilasciato dal Comune sull’erroneo convincimento della non necessità dell’autorizzazione paesaggistica.
In un caso come questo, il permesso di costruire non è inefficace ma illegittimo, perché rilasciato sul falso presupposto dell’assenza di un vincolo paesaggistico, e riguarda pertanto una fattispecie in cui l'attività edilizia posta in essere è stata ab origine supportata da un titolo edilizio che appariva oggettivamente idoneo a legittimare l’intervento.
In un tale contesto l’Amministrazione non può pertanto adottare direttamente un’ordinanza di demolizione senza aver prima esercitato i propri poteri di autotutela in ordine al titolo edilizio che, rispetto all’illiceità paesaggistica, si è ormai cristallizzato nella sua portata scriminante relativamente all’attività edilizia posta in essere in senso conforme al titolo. Altrimenti si dovrebbe giungere ad affermare che il titolo edilizio rilasciato in assenza dell’autorizzazione paesaggistica dovrebbe essere dichiarato radicalmente nullo nonostante la mancanza di un’espressa previsione di legge in tale senso (che invece è necessaria per poter affermare la nullità degli atti amministrativi; cfr. ad esempio quanto previsto dall’art. 5, comma 4, del testo originario del Dlgs. 03.04.2006, n. 152, il quale, relativamente alla valutazione di impatto ambientale, disponeva che “i provvedimenti di autorizzazione o approvazione adottati senza la previa valutazione di impatto ambientale, ove prescritta, sono nulli”), ma ciò, come osservato dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.08.2013, n. 4167), non è accettabile perché “l'estensione della sanzione della nullità a fattispecie non riconducibili alle tassative ipotesi previste dall'art. 21-septies l. n. 241/1990 equivarrebbe ad un inammissibile vulnus al principio di certezza del diritto pubblico. Tranne queste ipotesi tassative, ogni violazione di legge, più o meno grave, determina la annullabilità del provvedimento, con la conseguenza che -nel caso di mancata emanazione di un atto amministrativo o di una pronuncia del g.a. che ne disponga l'annullamento o la sospensione degli effetti- il medesimo atto deve essere ritenuto efficace da ogni autorità tenuta alla sua esecuzione”.
Sotto tale profilo il Collegio, per ragioni di carattere testuale e sistematico, tenuto conto che nel caso in esame è stato rilasciato un titolo edilizio nella convinzione dell’assenza di un vincolo paesaggistico, aderisce pertanto all’orientamento giurisprudenziale per il quale, l’autorizzazione paesaggistica costituisce -ferma restando la sua autonomia– condizione di validità del permesso di costruire (sul punto cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 17.12.2014, n. 3062 e i numerosi riferimenti giurisprudenziali ivi richiamati).
Ne consegue che l’ordinanza di demolizione adottata senza il previo esercizio dei poteri di autotutela, nei confronti del titolo edilizio in base al quale è stato realizzato l’immobile rilasciato sul presupposto che quella determinata porzione di territorio non fosse sottoposta ad alcun vincolo, deve essere annullata per le assorbenti censure di cui al terzo motivo (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 07.11.2018 n. 1033 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ormai pacifica ha ritenuto che in presenza di aree assoggettate a vincolo paesistico non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, d.p.r. n. 380/2003 per cui “… correttamente l’amministrazione comunale intimata ha posto a base del provvedimento gli artt. 27 e 31 del testo unico sull’edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, avendo fatto riferimento, nel preambolo dell’atto, alla sussistenza, in loco, di vincolo paesaggistico, ciò che, come è pacifico, preclude la maturazione degli effetti abilitativi della d.i.a. edilizia in mancanza della specifica, previa autorizzazione paesaggistica …”.
Ed ancora “Gli interventi edilizi, come quello in esame, eseguiti in zona vincolata, compresi quelli in parziale difformità dal titolo abilitativo, sono considerati, in base a quanto dispone l’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, variazioni essenziali, alle quali consegue sempre l’applicazione della sanzione demolitoria di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001”.
Invero, “… In ogni caso dirimente è la considerazione che in presenza di zona vincolata si impone la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che l’applicazione della sanzione demolitoria è in ogni caso doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesistica. Difatti, in presenza di aree assoggettate a vincolo paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, T.U. Edilizia. A prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi dell’art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (ovvero ai sensi dell’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001) deve essere sanzionato”.
---------------
È evidente che rispetto alla recinzione in cemento armato di cui alla citata DIA non vi era mai stata alcuna autorizzazione paesaggistica e, quindi, la DIA va considerata tam quam non esset.
Pertanto, a fronte di una DIA inefficace ai sensi dell’art. 23, comma 3, d.p.r. n. 380/2001, correttamente l’Amministrazione comunale ha applicato con la gravata ordinanza di demolizione il disposto dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 con riferimento ad un’opera totalmente abusiva in quanto priva di titolo abilitativo valido ed efficace.
---------------
Altresì, «… Va sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo, la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto effetti e le opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo. …”.
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001, con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria. …
… Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che, difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi perfezionate.
L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal Comune. Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione rende, evidentemente, inconferenti tutte le restanti argomentazioni dei ricorrenti che espressamente fanno riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
Per costante giurisprudenza, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come osservato da condivisa giurisprudenza, “non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell’interessato, non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato”.
In simili casi, del resto, anche l’attuale formulazione dell’art. 19 legge n. 241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della liberalizzazione, al comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali». ...».
Pertanto, in mancanza di autorizzazione paesaggistica la stessa DIA non produce alcun effetto con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 dlgs n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Come correttamente evidenziato dal Comune si tratta di opere abusive in quanto realizzate in difformità rispetto alla autorizzazione rilasciata dalla Soprintendenza.
Pertanto, ciò che è stato in concreto realizzato (muro in c.a.) è privo della autorizzazione paesaggistica necessaria ai sensi dell’art. 146 dlgs n. 42/2004, in mancanza della quale la stessa DIA non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 d.p.r. n. 380/2001, con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 dlgs n. 42/2004, non surrogabile con la sanzione pecuniaria.
---------------

4.2.1. - Relativamente al primo motivo del ricorso introduttivo, va evidenziato quanto segue.
Tutte le aree, oggetto della D.I.A del 17.07.2009, sono parte di un percorso antico utilizzato per la transumanza.
Tali percorsi sono tutelati, oltre che con decreti ministeriali del 15.06.1976, del 20.03.1980 e del 22.12.1983, anche dalla più recente normativa di cui al dlgs n. 42/2004 e da varie norme regionali.
Per quel che qui rileva la Regione Puglia, con DGR n. 1748/2000 ha approvato il P.U.U.T, che ha inserito i percorsi armentizi, appartenenti al demanio, tra i beni culturali vincolati ai sensi della legge n. 1089/1939.
Tra l’altro la recinzione, oggetto dell’ordinanza di demolizione impugnata, è tutta collocata in zona vincolata in quanto ricade interamente nel tracciato del Regio Tratturo Foggia-Ofanto, così come si evince dal provvedimento della Regione Puglia di riorganizzazione dell’assetto dei Tratturi e dalla planimetria allegata (cfr. documenti nn. 6 e 7 depositati dal controinteressato Novelli Antonio in data 30.04.2018, peraltro non specificamente contestati da alcuna delle parti costituite).
Per cui la situazione sopra descritta (i.e. realizzazione di opera permanente in cemento armato in zona vincolata) ha determinato la legittima adozione dell’ordinanza di demolizione e dei successivi provvedimenti comunali.
Alla luce di quanto sin qui esposto e dell’iter procedimentale non è, pertanto, condivisibile l’affermazione della società ricorrente secondo cui l’intervento de quo sarebbe stato realizzato su un suolo di proprietà privata non assoggettato ad alcun vincolo.
E’, infatti, certo che vi sia stata la realizzazione in area vincolata di un intervento idoneo ad alterare l’aspetto del territorio in contrasto con il parere espresso dall’Autorità preposta alla tutela del vincolo e ciò di per sé legittima l’emissione dell’ordinanza di demolizione oggetto di impugnativa, non risultando fondata alcuna delle censure formulate da parte ricorrente.
Sul punto la giurisprudenza ormai pacifica ha -come sopra visto- ritenuto che in presenza di aree, assoggettate a vincolo paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, d.p.r. n. 380/2003 per cui “… correttamente l’amministrazione comunale intimata ha posto a base del provvedimento gli artt. 27 e 31 del testo unico sull’edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, avendo fatto riferimento, nel preambolo dell’atto, alla sussistenza, in loco, di vincolo paesaggistico, ciò che, come è pacifico, preclude la maturazione degli effetti abilitativi della d.i.a. edilizia in mancanza della specifica, previa autorizzazione paesaggistica …” (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295).
Ed ancora “Gli interventi edilizi, come quello in esame, eseguiti in zona vincolata, compresi quelli in parziale difformità dal titolo abilitativo, sono considerati, in base a quanto dispone l’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, variazioni essenziali, alle quali consegue sempre l’applicazione della sanzione demolitoria di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.12.2016, n. -OMISSIS-59).
Si richiama altresì TAR Campania, Napoli, Sez. III, 02.03.2018, n. 1352: “… In ogni caso dirimente è la considerazione che in presenza di zona vincolata -come nella specie- si impone la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che l’applicazione della sanzione demolitoria è in ogni caso doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesistica. Difatti, in presenza di aree assoggettate a vincolo paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una previa D.I.A., poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, T.U. Edilizia. A prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi dell’art. 27, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (ovvero ai sensi dell’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001) deve essere sanzionato. (cfr. TAR Napoli, (Campania), sez. VI, 15/09/2016, n. 4319). …”.
Ne consegue che in applicazione del principio di diritto affermato dalla costante giurisprudenza amministrativa, il motivo di gravame sub 1) va disatteso, a fronte di una DIA (quella del 17.07.2009) avente espressamente ad oggetto la realizzazione di una recinzione in cemento armato.
Per quanto detto si tratta di una DIA certamente inefficace ai sensi dell’art. 23, comma 3, d.p.r. n. 380/2001 (“Nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell’esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l’immobile oggetto dell’intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti”) poiché in difformità rispetto alla autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Soprintendenza avente ad oggetto una recinzione provvisoria con materiali facilmente asportabili (rete metallica), come espressamente evidenziato nella nota del 02.02.2016.
È quindi evidente che rispetto alla recinzione in cemento armato di cui alla citata DIA non vi era mai stata alcuna autorizzazione paesaggistica e quindi la DIA del 17.07.2009 va considerata tam quam non esset.
Va, inoltre, evidenziato che, diversamente da quanto sostenuto da parte ricorrente, la DIA del 2009 non è stata confermata nel 2011.
Infatti, la determina dirigenziale dell’11.01.2011 revoca la precedente diffida del 02.09.2009 e l’ordinanza dirigenziale di sospensione dei lavori del 09.09.2009, comunque precisando che la recinzione sarebbe potuta essere realizzata con le caratteristiche costruttive indicate nelle premesse, vale a dire nei termini autorizzati dalla Soprintendenza con nota prot. n. -OMISSIS- del 29.07.2010 (recinzione provvisoria con materiali facilmente asportabili).
Pertanto, a fronte di una DIA inefficace ai sensi dell’art. 23, comma 3, d.p.r. n. 380/2001, correttamente l’Amministrazione comunale ha applicato con la gravata ordinanza di demolizione il disposto dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 con riferimento ad un’opera totalmente abusiva in quanto priva di titolo abilitativo valido ed efficace.
...
Inoltre, come evidenziato da TAR Puglia, Bari, Sez. III, 09.03.2017, n. 223: «… Va, infatti, sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo, la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto effetti (cfr. TAR Venezia, Veneto, Sez. II, 24.07.2015, n. 873; TAR Emilia Romagna, Bologna, 30.07.2014, n. 803; TAR Lazio, Roma, Sez. I, 23.01.2013, n. 76; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295) e le opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo. …” (TAR Marche, Sez. I, sent. n. 413 del 18.06.2016; cfr. altresì TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. n. 1350 del 02.12.2016).
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001 (TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 05.03.2012, n. 1111), con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria (TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. 1350 del 02.12.2016). …
… Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che, difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi perfezionate (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 14.11.2016, n. 5248; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 10.01.2011, n. 35; Cassazione penale, Sez. III, 08.04.2010, n. 17973).
15. - L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal Comune. Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione rende, evidentemente, inconferenti tutte le restanti argomentazioni dei ricorrenti che espressamente fanno riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
15.1.- Per costante giurisprudenza a cui il Collegio presta adesione, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come osservato da condivisa giurisprudenza, “non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato (si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, Sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato” (ex multis, da ultimo, TAR Puglia, Bari, Sez. III, 06.02.2017, n. 96 e TAR Campania, Sez. IV, sent. n. 5726 del 13.12.2016 e sent. n. 5248 del 14.11.2016).
16. - In simili casi, del resto, anche l’attuale formulazione dell’art. 19 legge n. 241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della liberalizzazione, al comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali». ...
».
Pertanto, in mancanza di autorizzazione paesaggistica la stessa DIA non produce alcun effetto con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 dlgs n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Come correttamente evidenziato dal Comune di Cerignola si tratta di opere abusive in quanto realizzate in difformità rispetto alla autorizzazione rilasciata dalla Soprintendenza (con note del 29.07.2010 e del 02.02.2016).
Pertanto, ciò che è stato in concreto realizzato (muro in c.a.) è privo della autorizzazione paesaggistica necessaria ai sensi dell’art. 146 dlgs n. 42/2004, in mancanza della quale la stessa DIA del 17.07.2009 non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 d.p.r. n. 380/2001, con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 dlgs n. 42/2004, non surrogabile con la sanzione pecuniaria (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. II, 02.12.2016, n. 1350; cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 05.03.2012, n. 1111).
Stante la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica relativamente alle opere realizzate, deve quindi ritenersi immune da censure il provvedimento di demolizione emesso dall’Amministrazione comunale (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 19.07.2018 n. 1094 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In assenza di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, la DIA non ha effetto e l'intervento deve considerarsi eseguito in assenza di titolo e l'Amministrazione -una volta constatato che l'intervento realizzato riguarda un edificio sottoposto a vincolo paesaggistico e che per lo stesso intervento non è stato previamente rilasciato un provvedimento di autorizzazione paesaggistica- non può fare altro che ordinare la rimessione in pristino.
Invero, l’art. 22, comma 6, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, dispone che l'esecuzione di lavori che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è comunque subordinata, nonostante l'avvenuta presentazione di una d.i.a., al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative.
In presenza di zona vincolata si impone la previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che l'applicazione della sanzione demolitoria è, in ogni caso, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesistica. Difatti, in presenza di aree assoggettate a vincolo paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all'inoltro di una previa D.I.A. poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell'art. 23, comma 3, T.U. Edilizia.

---------------

La censura è infondata.
La DIA presentata il 03.02.2007 pacificamente mancava dell’autorizzazione necessaria per tutti gli interventi da realizzarsi su immobili sottoposti a vincolo.
Infatti, in base alla espressa previsione dell’allora vigente art. 22, comma 6, del d.p.r. 380 del 2001, “la realizzazione degli interventi di cui ai commi 1, 2 e 3 che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è subordinata al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative. Nell'ambito delle norme di tutela rientrano, in particolare, le disposizioni di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490”.
Per tutti gli interventi realizzabili mediante DIA in base all’art. 22 era quindi necessaria la previa autorizzazione paesaggistica.
Ne deriva che in assenza di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, la DIA non ha effetto e l'intervento deve considerarsi eseguito in assenza di titolo e l'Amministrazione -una volta constatato che l'intervento realizzato riguarda un edificio sottoposto a vincolo paesaggistico e che per lo stesso intervento non è stato previamente rilasciato un provvedimento di autorizzazione paesaggistica- non può fare altro che ordinare la rimessione in pristino (cfr. TAR Lombardia Milano Sez. II, 29.07.2014, n. 2148, per cui l’art. 22, comma 6, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, dispone che l'esecuzione di lavori che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è comunque subordinata, nonostante l'avvenuta presentazione di una d.i.a., al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative).
In presenza di zona vincolata si impone la previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che l'applicazione della sanzione demolitoria è, in ogni caso, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesistica. Difatti, in presenza di aree assoggettate a vincolo paesistico, non può attribuirsi alcun rilievo all'inoltro di una previa D.I.A. poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell'art. 23, comma 3, T.U. Edilizia (TAR Campania, Napoli, 02.03.2018, n. 1352).
L’art. 23 del d.p.r. 380 del 2001, inoltre, nel testo allora vigente, ai commi 3 e 4 conteneva le seguenti disposizioni: “Qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti.
Qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela non compete all'amministrazione comunale, ove il parere favorevole del soggetto preposto alla tutela non sia allegato alla denuncia, il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater, della legge 07.08.1990, n. 241. Il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dall'esito della conferenza. In caso di esito non favorevole, la denuncia è priva di effetti
”.
Nel caso di specie, è circostanza altrettanto pacifica che l’immobile di via ... 19 sia sottoposto a vincolo paesaggistico in base al D.M. del 26.04.1973; né può rilevare la circostanza dedotta dalla difesa ricorrente, per cui il vincolo richiedeva l’autorizzazione solo per “opere che possano modificare l’aspetto esteriore della località”, dovendo comunque essere applicata la disciplina dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, per cui “i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree oggetto degli atti e dei provvedimenti elencati all'articolo 157, oggetto di proposta formulata ai sensi degli articoli 138 e 141, tutelati ai sensi dell'articolo 142, ovvero sottoposti a tutela dalle disposizioni del piano paesaggistico, non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione. I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati al comma 1, hanno l'obbligo di sottoporre alla regione o all'ente locale al quale la regione ha delegato le funzioni i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, affinché ne sia accertata la compatibilità paesaggistica e sia rilasciata l'autorizzazione a realizzarli”.
Nel caso di specie, la ampiezza degli interventi, risultanti dalla relazione tecnica allegata alla DIA presentata il 03.02.2007 (consistenti tra gli altri in mutamenti di destinazione d’uso, frazionamento dell’immobile in 12 unità immobiliari, nonché nuova intonacatura e nuovi infissi di tutto l’edificio) comportavano necessariamente l’autorizzazione paesaggistica. Infatti, pur prescindendo dalla qualificazione dell’intervento edilizio, l’art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004, richiede, comunque, l’autorizzazione paesaggistica anche nel caso di interventi minori (di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo) che alterino “lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore dell’edificio”.
La DIA presentata al Comune il 03.02.2007 non ha quindi mai avuto alcun effetto in relazione alle allora vigenti disposizioni degli articoli 22 e 23 del d.p.r. n. 380 del 2001 e dell’art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004..
La mancanza della autorizzazione paesaggistica non può essere neppure stata sanata dalla successiva autorizzazione paesaggistica in sanatoria del 07.04.2011, che riguarda solo l’abbaino e i comignoli della copertura del tetto, che erano estranei alla DIA del 2007, essendo compresi nella DIA in variante presentata il 09.07.2008 (oggetto del provvedimento di demolizione del 12.09.2008).
Il titolo edilizio del 2007 non si è dunque mai formato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 12.06.2018 n. 6567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 prevede che «l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire». Ne consegue che, qualora si accerti l’esistenza del vincolo, l’assenza di detta autorizzazione determina illegittimità del titolo edilizio adottato.
---------------

4.3.− Con il secondo motivo l’appellante ha dedotto che la mancanza di autorizzazione paesaggistica costituirebbe un requisito di efficacia e non di validità del permesso di costruire, con la conseguenza che non ne poteva essere disposto l’annullamento d’ufficio. Aggiunge, inoltre, che non sussisterebbe neanche il vincolo, perché non risulterebbe neanche dal certificato di destinazione urbanistica.
Il motivo è infondato.
Anche in questo caso la fondatezza della prima censura per mancanza del titolo edilizio rende priva di rilevanza l’analisi di tale motivo, in quanto le opere sono abusive.
In ogni caso, e parimenti ad abundantiam, si osserva che l’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 prevede che «l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire». Ne consegue che, qualora si accerti l’esistenza del vincolo, l’assenza di detta autorizzazione determina illegittimità del titolo edilizio adottato (Cons. Stato, IV, 19.08.2016, n. 3660; id., V, 08.11.2012, n. 5691) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.03.2018 n. 1465 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha chiarito che il difetto dell’autorizzazione paesaggistica non incide sulla legittimità del titolo edilizio, ma ne determina l’inefficacia.
---------------

1. Il Responsabile del Servizio Urbanistica del Comune di Joppolo con ordinanza n. 5 del 18.04.2013, richiamato il verbale di accertamento del 12.11.2011, ha ingiunto al sig. Gi.Ci. la demolizione delle opere abusivamente realizzate, con ordine di ripristino dello stato dei luoghi.
Tali opere sono:
   - veranda in legno di circa m. 13,00 x 7,00;
   - piscina con relativo solarium delle dimensioni di circa m. 9,15 x 5.
Sulla base di altro accertamento d’ufficio ha ingiunto, altresì, la demolizione di una lavanderia e un locale deposito mancanti del prescritto nulla osta ambientale, il cui cambiamento di destinazione d’uso non è stato autorizzato.
...
4.3 Gli ultimi due motivi dedotti dal ricorrente si riferiscono ai locali adibiti a lavanderia e deposito.
Il ricorrente ha evidenziato che con provvedimento del 03.07.1989 il Comune di Joppolo ha autorizzato la costruzione di una tettoia per frescura in legno e una baracca in legno e lamiera per deposito attrezzi e WC. Lo stesso ricorrente ha, quindi, precisato che con permesso di costruire n. 8 del 2009 l’immobile del ricorrente, con le relative pertinenze, ha ottenuto il cambio di destinazione d’uso da civile abitazione a ristorante.
Le difese del ricorrente si incentrano sostanzialmente su tali argomenti, rilevando profili quali il lungo tempo trascorso, il consolidarsi di una situazione di affidamento, l’intervenuta autorizzazione alla modificazione della destinazione d’uso.
Osserva il Collegio che il provvedimento repressivo nel caso dei locali in questione non si basa sull’assenza di titolo edilizio, ma sulla mancanza del nulla osta ambientale, in relazione all’operato mutamento di destinazione d’uso.
È pacifico fra le parti che i manufatti in questione siano sottoposti a vincolo ambientale, ai sensi della legge 08.08.1985 n. 431.
Orbene, è innegabile che l’azione dell’amministrazione si sia svolta in modo non aderente ai canoni di buona amministrazione, se è vero che essa si è resa conto dell’esistenza del vincolo dopo circa vent’anni dal rilascio del primo titolo edilizio e dopo avere rilasciato nel 2009 un permesso di costruire per cambio di destinazione d’uso.
Gli stessi atti di accertamento e il provvedimento impugnato non brillano per chiarezza e completezza espositiva. Anzi risultano, per certi versi, lacunosi e scarsamente comprensibili.
Ciò premesso, vi è un dato che risulta, tuttavia, insuperabile: manca l’autorizzazione paesaggistica.
Occorre tenere conto, in proposito, che la giurisprudenza ha chiarito che il difetto dell’autorizzazione paesaggistica non incide sulla legittimità del titolo edilizio, ma ne determina l’inefficacia (Cons. Stato, sez. IV, 14.12.2015 n. 5663).
Ne consegue che, pur in presenza del titolo edilizio, l’intervento assentito non è eseguibile fino a quando non intervenga detta autorizzazione.
L’intervento repressivo da parte dell’autorità comunale non rende, quindi, necessario l’esercizio di poteri di autotutela, con la conseguenza che non risultano applicabili i principi in materia di tutela di affidamento vigenti in relazione a tale potere.
I motivi dedotti risultano, pertanto, infondati.
5. In conclusione il ricorso deve essere rigettato (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 13.12.2017 n. 1991 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo, la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto effetti e le opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo. …”.
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001, con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria.
Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che, difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi perfezionate.
---------------
L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal Comune.
Per costante giurisprudenza, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come osservato da condivisa giurisprudenza, non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato”.

---------------
In presenza di opere realizzate senza titolo in zona vincolata, l’ordinanza di demolizione, ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 è da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato.
L’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, infatti, “in re ipsa” anche per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, anche in considerazione della non scorporabilità di quanto abusivamente realizzato da ciò che era stato originariamente assentito.

---------------
1.1.- In data 28.10.2015 la Polizia Municipale ed il dirigente dell’U.T.C. di Mattinata effettuavano un sopralluogo nell’area in questione, predisponendo il relativo verbale.
1.2.- Successivamente il dirigente, con la censurata ordinanza n. 21 del 07.12.2015, riportando il contenuto del suddetto verbale di sopralluogo, accertava l’inefficacia delle D.I.A. presentate “… in quanto gli interventi previsti e realizzati incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia ed alterano la sagoma delle opere precedentemente approvate …” e, dunque, rilevava che detti interventi erano stati eseguiti “… in totale difformità da quanto autorizzato con il permesso di costruire n. 58/2006 …”, anche perché compiuti in difetto “… delle autorizzazioni previste in relazione ai vincoli esistenti sulla zona …”.
...
Sulla base di quanto esposto, va affermato che alcuna fattispecie tacita di autorizzazione può ritenersi formata correttamente poiché l’intervento non poteva essere assentito con DIA, tanto che la denunziata violazione delle regole e dei principi che governano l’esercizio del potere di autotutela ed il connesso principio dell’affidamento del privato, non è meritevole di positiva delibazione.
Va, infatti, sottolineato che “… Trattandosi di beni soggetti a vincolo, la denuncia di inizio attività in assenza dell’autorizzazione paesaggistica non ha prodotto effetti (cfr. TAR Venezia, Veneto, Sez. II, 24.07.2015, n. 873; TAR Emilia Romagna, Bologna, 30.07.2014, n. 803; TAR Lazio, Roma, Sez. I, 23.01.2013, n. 76; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 15.01.2013, n. 295) e le opere costruite in relazione ad essa possono ritenersi al pari di opere realizzate in assenza di titolo abilitativo. …” (TAR Marche, Sez. I, sent. n. 413 del 18.06.2016; cfr. altresì TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. n. 1350 del 02.12.2016).
In mancanza di autorizzazione paesaggistica, dunque, la DIA non produce alcun effetto, ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.p.r. n. 380/2001 (TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 05.03.2012, n. 1111), con conseguente obbligo di ripristino delle opere edilizie di cui all’art. 167 d.lgs. n. 42/2004, non surrogabile con la pena pecuniaria (TAR Puglia, Bari, Sez. II, sent. 1350 del 02.12.2016).
13. - Né va tralasciato di considerare che l’intervento riferito all’interrato del lotto 3, quand’anche singolarmente valutato, per come realizzato, necessitasse, altresì, di nulla osta previsto dal R.D. n. 3267/1923 e dal R.D. n. 1126/1926, sussistendo sull’area anche il vincolo idrogeologico.
14. – Ne consegue che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare le DIA che, difettandone i relativi presupposti, non potevano ritenersi perfezionate (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 14.11.2016, n. 5248; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 10.01.2011, n. 35; Cassazione penale, Sez. III, 08.04.2010, n. 17973).
15. - L’atto gravato, pertanto, si configura quale atto avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento delle DIA che restano, pertanto, inefficaci, come correttamente accertato dal Comune.
Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione rende, evidentemente, inconferenti tutte le restanti argomentazioni dei ricorrenti che espressamente fanno riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
15.1.- Per costante giurisprudenza a cui il Collegio presta adesione, “l’atto di rimozione delle DIA si configura quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che, come osservato da condivisa giurisprudenza, non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell’interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato (si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, Sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato
” (ex multis, da ultimo, TAR Puglia, Bari, Sez. III, 06.02.2017, n. 96 e TAR Campania, Sez. IV, sent. n. 5726 del 13.12.2016 e sent. n. 5248 del 14.11.2016).
16. - In simili casi, del resto, anche l’attuale formulazione dell’art. 19 legge n. 241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della liberalizzazione, al comma 6-bis consente al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori in simili ipotesi, prevedendo che «restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali».
17. – Alla luce delle suesposte considerazioni diventa superfluo -in quanto irrilevante ai fini della decisione e comunque inidoneo a supportare una conclusione di tipo diverso- soffermarsi ulteriormente sulla questione della destinazione d’uso degli immobili realizzati (con particolare riferimento alla eliminazione della ricezione e della camera per il personale, con consequenziale cambio di destinazione d’uso del lotto n. 3 di cui si fa menzione a pag. 5 -lett. e), in relazione agli interventi contemplati dalla DIA del 31.05.2007, ed a pag. 6 -punto 3 della censurata ordinanza), in quanto per consolidata giurisprudenza (ex pluribus, Cons. Stato, Sez. V, 06.06.2011, n. 3382; Cons. Stato, Sez. IV, 06.07.2012, n. 3970; Cons. Stato, Ad. Plen., 27.04.2015, n. 5), quando un provvedimento amministrativo negativo è sorretto da una pluralità di motivi è sufficiente che resti dimostrata, all’esito del giudizio, la fondatezza di uno solo di questi perché ne derivi la consolidazione dell’atto, stante l’impossibilità di disporne l’annullamento giurisdizionale.
18. – La natura e la corretta qualificazione degli interventi eseguiti (sottoposti al regime del permesso di costruire), consentono di concludere per la legittimità del provvedimento impugnato.
In presenza di opere realizzate senza titolo in zona vincolata, l’ordinanza di demolizione, ai sensi dell’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 è da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato. L’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, infatti, “in re ipsa” anche per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, anche in considerazione della non scorporabilità di quanto abusivamente realizzato da ciò che era stato originariamente assentito (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 23.06.2015, n. 3179) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 09.03.2017 n. 223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rapporto intercorrente tra autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire.
L’autorizzazione paesaggistica ha il carattere di atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire. Infatti il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire è un rapporto di presupposizione, necessitato e strumentale tra le valutazioni paesistiche e quelle urbanistiche.
E tale principio resta fermo anche quando le disposizioni urbanistiche sono dettate tenendo conto pure dei valori paesaggistici di un’area
(massima tratta da https://lexambiente.it).
---------------
9.- Al riguardo, si deve preliminarmente chiarire che non possono avere decisiva rilevanza in questo giudizio amministrativo, concernente la legittimità di un ordine di demolizione determinato dalla realizzazione di opere edilizie in assenza del (necessario) titolo abilitativo edilizio, le autorizzazioni paesaggistiche rilasciate per le stesse opere dalla Regione Lazio.
9.1.- Sebbene infatti per realizzare un’opera edilizia nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico occorra sia l’assenso a fini edilizi e sia l’assenso a fini paesaggistici, con la conseguenza che in tali aree non si può realizzare un’opera edilizia se non sono presenti entrambi i titoli abilitativi, tuttavia i due atti di assenso operano su piani diversi essendo posti a tutela di interessi pubblici che sono solo parzialmente coincidenti.
Pertanto il possibile rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il necessario rilascio anche dell’altro e la mancanza del necessario titolo edilizio non consente, come nella fattispecie, la realizzazione di un’opera anche se per la stessa è stato rilasciato l’assenso a fini paesaggistici.
9.2.- In proposito, si è anche di recente ricordato che, per principio consolidato, l’autorizzazione paesaggistica ha il carattere di atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire. Infatti il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire è un rapporto di presupposizione, necessitato e strumentale tra le valutazioni paesistiche e quelle urbanistiche (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 521 del 09.02.2016).
E tale principio resta fermo anche quando le disposizioni urbanistiche sono dettate tenendo conto pure dei valori paesaggistici di un’area
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.06.2016 n. 2658 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACostituisce principio pacifico quello per cui laddove si voglia edificare in zona vincolata, occorre ottenere due titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica.
E perché il principio sia rispettato è necessario che entrambi si formino sul medesimo elaborato progettuale, che altrimenti di tale “doppia” abilitazione non rimarrebbe che la forma, perché nel merito si sarebbe al cospetto di due distinti atti ampliativi, formatisi su istanze non aventi analogo contenuto e tenore.
E ciò quale che sia l’ampiezza delle modifiche e delle differenze tra essi intercorrenti: il progetto su cui si pronuncia il Comune e la Soprintendenza deve di necessità essere il medesimo essendo i rispettivi atti di assenso diretti a tutelare interessi diversi (paesaggistico, la seconda, edilizio ed urbanistico, il primo).
---------------
E’ ben nota al Collegio la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale “i due titoli, permesso di costruire e nulla-osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un’autorizzazione paesaggistica rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori, quale un’ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L’assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un’autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura”.
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: “l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme“.
---------------
L’autonomia dei due procedimenti (titolo edilizio abilitativo ed autorizzazione paesaggistica) sussiste certamente.
Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell’autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio dell’autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l’autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione patologica. La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove l’autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima dell’inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada –e ciò non è accaduto nella vicenda in esame, al momento della presentazione del mezzo e durante il giudizio di primo grado, quantomeno- ci si trova al cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla-osta ambientale: - TAR Torino–Piemonte - sez. I 07/11/2012 n. 1166 “la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori” ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso presupposto dell’avvenuto rilascio –su progetto conforme- di una autorizzazione paesaggistica.
---------------

4.4.1. Sennonché, risulta dagli atti di causa che la concessione del 2008 si fonda su un progetto, oggetto di variante progettuale presentata dalla ditta appellata nel 2007, che non risulta essere stato previamente presentato alla Soprintendenza (vedasi verbale di sopralluogo del 2008 a più riprese citato dove espressamente ciò si attesta) e che il progetto ivi contenuto risulta difforme da quello oggetto di esame -e di parere favorevole- nel 2005.
E parte appellante, ad abundantiam, ha rimarcato (senza che sul punto siano state avanzate contestazioni, il che rileva ex art. 64, comma 2, del codice del processo amministrativo) la differenza tra le tavole progettuali, e la presenza nel progetto assentito dal comune, -tra l’altro- di numerose cabine.
Elemento, questo, di rilievo, laddove si consideri che:
   a) il progetto per lo stabilimento balneare era complessivo ed unitario (corpo principale, e corpi accessori);
   b) la stessa Soprintendenza, in passato, (nel 2003) allorché era intervenuta in funzione repressiva dell’assenso paesaggistico rilasciato dal comune, ivi aveva evidenziato il pregio dell’area, la necessità che la battigia rimanesse libera, etc., ed esprimendosi negativamente sui materiali di cui il progetto prospettava la futura utilizzazione, linee estetiche, etc.: non potrebbe certo dirsi che la divergenza tra progetti sul numero e sul posizionamento delle cabine, fosse indifferente o neutra.
Di tanto peraltro, ha dato atto anche il Tar nella sentenza n. 183/2011 resa nell’ambito del ricorso di primo grado proposto dal Condominio n. 1112/2009 e gravata dalla Società Ac. mercé l’appello n. 7618/2011, del pari chiamato in decisione in data odierna (ivi così si espresse il Tar: “i ricorrenti osservano che la tavola progettuale n. 3, sulla quale la Soprintendenza ha espresso parere favorevole con prescrizioni, non riporta le cabine, indica il piano di calpestio dello stabilimento al pari della quota zero posta sulla via Tirreno e pone il piano di campagna dell’arenile a – 2,40 metri.”).
4.4.2. A questo punto occorre interrogarsi sulle conseguenze di tale discrasia.
Ciò in quanto, costituisce principio pacifico quello per cui laddove si voglia edificare in zona vincolata, occorre ottenere due titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica.
E perché il principio sia rispettato è necessario che entrambi si formino sul medesimo elaborato progettuale, che altrimenti di tale “doppia” abilitazione non rimarrebbe che la forma, perché nel merito si sarebbe al cospetto di due distinti atti ampliativi, formatisi su istanze non aventi analogo contenuto e tenore.
E ciò quale che sia l’ampiezza delle modifiche e delle differenze tra essi intercorrenti: il progetto su cui si pronuncia il Comune e la Soprintendenza deve di necessità essere il medesimo essendo i rispettivi atti di assenso diretti a tutelare interessi diversi (paesaggistico, la seconda, edilizio ed urbanistico, il primo).
4.4.3. Accertato che ciò non è avvenuto nel caso di specie, ed accertato peraltro che non trattavasi di modifiche marginalissime, per quanto prima chiarito, ma incidenti sull’impatto visivo dell’opera, sulla occupazione da parte della stessa della battigia, etc. (elementi questi, tutti, dei quali si lamentava l’appellante condominio, in quanto lesivi dei propri interessi) occorre interrogarsi sulle conseguenze di tale accadimento.
Ciò, tenendo peraltro conto della circostanza che –come colto dallo stesso Tar nella sentenza gravata- l’odierna appellante nell’ambito del mezzo di primo grado aveva comunque chiesto “l'accertamento dell'illegittimità dei lavori in corso d'opera in pretesa esecuzione dell'impugnato permesso a costruire denominato "concessione edilizia" n. C/08/10 del 18.01.2008.”
4.4.4. E’ ben nota al Collegio la costante affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo la quale (ex aliis, ancora di recente TAR Campania Napoli, sez. VIII, 05.06.2012 sent. 2652) “i due titoli, permesso di costruire e nulla-osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un’autorizzazione paesaggistica rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori, quale un’ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti. (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato sez. VI n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico. L’assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un’autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura
.”.
Alla base di tale orientamento, riposa il convincimento per cui: “l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme“ (C.d.S., sez. V, 11.03.1995, n. 376; C.d.S. Sez. VI, 19.06.2001, n. 3242).
4.4.5. Sennonché, occorre osservare che:
   a) da un canto, tale costruzione è stata riduttivamente interpretata dalla Suprema Corte di Cassazione che (Cassazione civile sez. I 07/04/2006 n. 8244) ha avuto modo di precisare che “ove l'area per la quale si è conseguito il titolo alla trasformazione edilizia, sia interessata da altri tipi di vincoli, a tutela di diversi interessi, e tra questi viene in considerazione il vincolo paesaggistico, che, in via generale, non conferisce al bene una condizione di intangibilità, ma richiede, a sua volta, un provvedimento abilitativo che dipende dall'accertamento di non incompatibilità della prospettata attività di trasformazione, rispetto all'interesse pubblico tutelato.
Si suole argomentare, correttamente, che in presenza del vincolo estetico-culturale, l'esercizio dell'attività costruttiva presuppone non solo la concessione edilizia, di competenza dell'autorità preposta al controllo delle costruzioni, ma anche il nulla-osta paesaggistico, rimesso, nel corso del tempo e dell'evoluzione del concetto di tutela dei valori culturali e ambientali, alla valutazione dell'autorità statale, e successivamente, in via di delega o, da ultimo, in virtù di vero e proprio conferimento di funzioni, dall'autorità regionale, e infine alla stessa autorità comunale per delega della regione.
La necessità di un doppio titolo abilitativo osta alla qualificazione dello ius aedificandi come facoltà acquisita per effetto del rilascio della concessione edilizia, ove difetti l'autorizzazione paesaggistica: e viceversa, ove si sia conseguito il nullaosta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, il diritto all'attività costruttiva non può dirsi consolidato a favore del proprietario.
L'autonomia dei due titoli, in nome della quale il Giudice amministrativo può affermare che il mancato rilascio del nullaosta non legittima il Sindaco al ritiro della concessione edilizia, non toglie che l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli
.”;
   a1) la giurisprudenza penale, poi, è stata da tempo stabilmente orientata nel ritenere che (Cass. Pen. Sez. III 23.11.1999) per costruire in area vincolata non è sufficiente l’autorizzazione paesaggistica, ma occorre anche la concessione edilizia e che laddove l’autorizzazione manchi la concessione edilizia sia del tutto inefficace, e sia integrato il reato di cui all’art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 ed 1-sexies legge n. 431/1985 (Cass. Pen. n. 10502/1999, 1093/1998, 6681/1998; di recente: Cassazione penale sez. III 07/10/2014 n. 952: “i climatizzatori/condizionatori d'aria costituiscono impianti tecnologici e, pertanto, se collocati all'esterno dei fabbricati, rientrano nel novero degli interventi edilizi definiti dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001, sicché la loro realizzazione o installazione, seppure non necessitante del permesso di costruire, è tuttavia soggetta a segnalazione certificata di inizio di attività (s.c.i.a.) ai sensi dell'art. 22 d.P.R. cit., non rientrando tra gli interventi eseguibili senza alcun titolo abilitativo".
In ogni caso, poiché anche l'attività edilizia c.d. libera deve essere attuata nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, ne consegue che ove l'installazione di condizionatore (già soggetta a s.c.i.a.) abbia luogo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, essa è da ritenersi condizionata anche a nulla-osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, derivando dal mancato rilascio dell'autorizzazione paesaggistica l'integrazione della fattispecie di reato prevista dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004);
   b) secondariamente, la giurisprudenza amministrativa più recente tende ad attenuare il regime di “separatezza” pervenendo all’affermazione secondo la quale (TAR Roma (Lazio) sez. II 02/12/2014 n. 12140 “è legittimo il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo a costruire un locale servizio conseguito su denunzia di inizio attività edificatoria, in ragione del mancato preventivo intervento dell'autorizzazione paesaggistica necessaria per le costruzioni in zone soggette a vincoli ambientali.” (così configurando, quindi un vizio di invalidità del titolo concessorio).
4.4.6. In realtà, osserva il Collegio, il contrasto è più apparente che reale.
L’autonomia dei due procedimenti sussiste certamente.
Ciò implica che la concessione edilizia rilasciata in carenza dell’autorizzazione paesaggistica non sia invalida, ma inefficace, in quanto la predetta autorizzazione potrebbe sopravvenire.
Ove però –per venire alla fattispecie verificatasi nella presente causa- la concessione edilizia sia stata rilasciata sulla base di un presupposto (id est: avvenuto rilascio dell’autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (in quanto l’autorizzazione paesaggistica venne rilasciata su un progetto diverso) si è in presenza di una doppia situazione patologica.
La concessione edilizia è inefficace, in quanto la autorizzazione paesaggistica è carente; ed è anche invalida, in quanto fondata su un errato presupposto.
Trattasi in entrambi i casi di vizi (in teoria) sanabili, ove l’autorizzazione sia rilasciata (su quel medesimo progetto posto a supporto della domanda di rilascio del permesso di costruire, è ovvio) e sopravvenga prima dell’inizio dei lavori.
Ma ove ciò non accada –e ciò non è accaduto nella vicenda in esame, al momento della presentazione del mezzo e durante il giudizio di primo grado, quantomeno- ci si trova al cospetto (non solo di lavori illegittimamente eseguiti in quanto non assistiti, a monte, dal nulla-osta ambientale: - TAR Torino–Piemonte - sez. I 07/11/2012 n. 1166 “la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che la stessa è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica, quindi, rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori” ma anche) di una concessione edilizia viziata ed annullabile in quanto fondata sul falso presupposto dell’avvenuto rilascio –su progetto conforme- di una autorizzazione paesaggistica (si vedano, le recenti, perentorie, affermazioni, di cui a TAR Napoli–Campania- sez. VI 26.03.2015 n. 1815).
4.7. Dalla ricostruzione sinora rappresentata consegue:
   a) la declaratoria di illegittimità dei lavori eseguiti, e constatati dalla Soprintendenza mercé il sopralluogo del 2008 a più riprese citato;
   b) la illegittimità del gravato permesso di costruire del 2008 in quanto fondato sul “falso” (rectius: errato) presupposto dell’avvenuto rilascio di una autorizzazione paesaggistica intervenuta (nel 2005) sul medesimo progetto delibato in sede di rilascio del permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.12.2015 n. 5663 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’autorizzazione paesaggistica -ferma restando la sua autonomia- è condizione di validità e non soltanto di efficacia del permesso di costruire.
Sulla questione degli effetti della mancanza dell’autorizzazione paesaggistica sul permesso di costruire, se cioè tale atto sia condizione di validità o condizione di efficacia del titolo edilizio, la giurisprudenza ha assunto, nel corso del tempo, posizioni non univoche.
L’orientamento giurisprudenziale formatosi sotto il vigore del previgente art. 7 della legge 29.06.1939, n. 1497, riteneva che, in ragione del carattere autonomo dell’accertamento di compatibilità paesaggistica rispetto alla concessione edilizia, il permesso di costruire rilasciato in carenza dell’autorizzazione paesaggistica, ove prescritta, non fosse illegittimo ma soltanto inefficace, essendo detta carenza unicamente preclusiva dell’avvio dei lavori.
Secondo questa tesi, il titolo abilitativo poteva, dunque, essere rilasciato anche in mancanza dell’autorizzazione paesaggistica, fermo restando che lo stesso era ritenuto inefficace, e i lavori non potevano essere iniziati, finché non fosse intervenuto il nulla osta paesaggistico.
Questo orientamento è stato ribadito dalla quarta sezione del Consiglio di Stato anche successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004, con una pronuncia, la n. 413/2012: i giudici di Palazzo Spada hanno affermato che tale linea interpretativa è confermata dal tenore dell’attuale secondo comma dell’art. 146 del d.lgs. nr. 42 del 2004 il quale, nell’imporre la previa acquisizione del parere di compatibilità paesaggistica presso le autorità competenti, espressamente prescrive ai richiedenti il permesso di costruire di “astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione”.
Vi sono poi pronunce di segno opposto, che considerano l’autorizzazione paesaggistica condizione di validità del permesso di costruire.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 5371/2013 afferma espressamente il principio. Con essa la IV sezione del Consiglio di Stato ha, invero, sostenuto che deve “escludersi, per ragioni sistematiche e normative, che, in assenza di un’espressa qualificazione legislativa, il nulla osta paesaggistico possa essere considerato una semplice condizione integrativa dell’efficacia del provvedimento edilizio” ed ha quindi ritenuto illegittimo un titolo edilizio rilasciato in assenza di autorizzazione paesaggistica.
Vi sono poi decisioni che, pur non pronunciandosi espressamente sulla questione, sono prese sul presupposto che l’autorizzazione paesaggistica non sia una mera condizione di efficacia dei titoli edilizi, bensì una condizione di legittimità degli stessi: con sentenza n. 5025 del 09.10.2014, la VI sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto legittimo l’annullamento in autotutela di un permesso di costruire in conseguenza dell’annullamento statale dell’autorizzazione paesaggistica; con la sentenza n. 788/2014, la IV sezione ha invece ritenuto illegittimo l’annullamento in autotutela di una s.c.i.a. affermando la non necessità dell’autorizzazione paesaggistica; con la sentenza n. 7570/2009, la VI sezione del Consiglio di Stato, richiamando il rapporto di presupposizione esistente tra titolo paesaggistico e titolo edilizio, ha ritenuto legittimo un provvedimento con cui un Comune, dopo avere negato il rilascio di un nulla osta paesaggistico, ha conseguentemente ritenuto di non potere vagliare l’istanza volta ad ottenere il permesso di costruire.
Il Collegio aderisce a questo secondo orientamento.
Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo, oltre che riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui l’autorizzazione paesaggistica è una condizione di validità del permesso di costruire e non di mera efficacia:
   - in primo luogo, l’art. 146, d.lgs. n. 42/2004 qualifica l’autorizzazione paesaggistica atto “autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico”.
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un “rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche”, nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia.
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l’illegittimità, e non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio rilasciato in mancanza dell’autorizzazione paesaggistica, atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Tale conclusione non va in alcun modo ad intaccare l’autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo oltretutto, nell’ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato rilasciato in mancanza della previa autorizzazione paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti valere i vizi di un’autorizzazione paesaggistica che non sia stata tempestivamente gravata).
L’autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se non previa adozione dell’atto presupposto. D’altro canto, è il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto all’autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di presupposizione tra di essi;
   - l’art. 5 d.p.r. n. 380/2001 afferma espressamente che gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistica sono condizione per “il rilascio del permesso di costruire” (il comma 1-bis fa carico lo sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale, ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni, gli atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell'intervento edilizio tra i quali “gli atti di assenso, comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, fermo restando che, in caso di dissenso manifestato dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai sensi del medesimo codice”);
   - l’art. 20, c. 9, d.P.R. n. 380/2001 condiziona il rilascio del permesso di costruire al previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, nel caso in cui l’autorità preposta al vincolo neghi il proprio assenso, “decorso il termine per l'adozione del provvedimento finale, la domanda di rilascio del permesso di costruire si intende respinta”. La norma prevede il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo abilitativo, sia pur inefficace;
   - e poi, ancora, l’articolo 22, c. 6, d.P.R. n. 380/2001 consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo subordinatamente “al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative”. La disposizione va coordinata con l’art. 23, c. 3 e 4, d.p.r. n. 380/2001, ai sensi del quale “nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti. Nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela non compete all'amministrazione comunale, ove il parere favorevole del soggetto preposto alla tutela non sia allegato alla denuncia, il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater, della legge 07.08.1990, n. 241. Il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dall'esito della conferenza. In caso di esito non favorevole, la denuncia è priva di effetti”. La norma prevede che il termine di trenta giorni, trascorso il quale il titolo abilitativo si perfeziona, decorra solo dal momento in cui viene rilasciata l’autorizzazione paesaggistica: in mancanza di tale autorizzazione, perciò, la denuncia di inizio attività non si perfeziona neppure.
Per queste ragioni, quindi, ad avviso del Collegio, l’autorizzazione paesaggistica -ferma restando la sua autonomia- è condizione di validità e non soltanto di efficacia del permesso di costruire.
---------------
10. Parimenti fondata è la censura con cui viene contestata l’illegittimità del permesso di costruire impugnato per carenza dell’autorizzazione paesaggistica.
10.1 Sulla questione degli effetti della mancanza dell’autorizzazione paesaggistica sul permesso di costruire, se cioè tale atto sia condizione di validità o condizione di efficacia del titolo edilizio, la giurisprudenza ha assunto, nel corso del tempo, posizioni non univoche.
L’orientamento giurisprudenziale formatosi sotto il vigore del previgente art. 7 della legge 29.06.1939, n. 1497, riteneva che, in ragione del carattere autonomo dell’accertamento di compatibilità paesaggistica rispetto alla concessione edilizia, il permesso di costruire rilasciato in carenza dell’autorizzazione paesaggistica, ove prescritta, non fosse illegittimo ma soltanto inefficace, essendo detta carenza unicamente preclusiva dell’avvio dei lavori (cfr. Cass. pen., sez. III, 26.02.2003, nr. 22824; id., 26.03.2001, nr. 11716; id., 09.02.1998, nr. 1492; Cons. Stato, sez. V, 14.01.2003, nr. 88; id., 02.05.2001, nr. 2471; sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468, in Cons. Stato, 1999, I, 746; sez. VI, n. 547/2006).
Secondo questa tesi, il titolo abilitativo poteva, dunque, essere rilasciato anche in mancanza dell’autorizzazione paesaggistica, fermo restando che lo stesso era ritenuto inefficace, e i lavori non potevano essere iniziati, finché non fosse intervenuto il nulla osta paesaggistico.
Questo orientamento è stato ribadito dalla quarta sezione del Consiglio di Stato anche successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004, con una pronuncia, la n. 413/2012: i giudici di Palazzo Spada hanno affermato che tale linea interpretativa è confermata dal tenore dell’attuale secondo comma dell’art. 146 del d.lgs. nr. 42 del 2004 il quale, nell’imporre la previa acquisizione del parere di compatibilità paesaggistica presso le autorità competenti, espressamente prescrive ai richiedenti il permesso di costruire di “astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione”.
Vi sono poi pronunce di segno opposto, che considerano l’autorizzazione paesaggistica condizione di validità del permesso di costruire.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 5371/2013 afferma espressamente il principio. Con essa la quarta sezione del Consiglio di Stato ha, invero, sostenuto che deve “escludersi, per ragioni sistematiche e normative, che, in assenza di un’espressa qualificazione legislativa, il nulla osta paesaggistico possa essere considerato una semplice condizione integrativa dell’efficacia del provvedimento edilizio” ed ha quindi ritenuto illegittimo un titolo edilizio rilasciato in assenza di autorizzazione paesaggistica.
Vi sono poi decisioni che, pur non pronunciandosi espressamente sulla questione, sono prese sul presupposto che l’autorizzazione paesaggistica non sia una mera condizione di efficacia dei titoli edilizi, bensì una condizione di legittimità degli stessi: con sentenza n. 5025 del 09.10.2014, la sesta sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto legittimo l’annullamento in autotutela di un permesso di costruire in conseguenza dell’annullamento statale dell’autorizzazione paesaggistica (v. anche Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 7491/2010); con la sentenza n. 788/2014, la quarta sezione ha invece ritenuto illegittimo l’annullamento in autotutela di una s.c.i.a. affermando la non necessità dell’autorizzazione paesaggistica; con la sentenza n. 7570/2009, la sesta sezione del Consiglio di Stato, richiamando il rapporto di presupposizione esistente tra titolo paesaggistico e titolo edilizio, ha ritenuto legittimo un provvedimento con cui un Comune, dopo avere negato il rilascio di un nulla osta paesaggistico, ha conseguentemente ritenuto di non potere vagliare l’istanza volta ad ottenere il permesso di costruire.
11.2 Il Collegio aderisce a questo secondo orientamento.
Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo, oltre che riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui l’autorizzazione paesaggistica è una condizione di validità del permesso di costruire e non di mera efficacia:
   - in primo luogo, l’art. 146, d.lgs. n. 42/2004 qualifica l’autorizzazione paesaggistica atto “autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico”.
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un “rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche”, nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia (cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 27.11.2010 n. 8260; 21/08/2013, n. 4234).
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l’illegittimità, e non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio rilasciato in mancanza dell’autorizzazione paesaggistica, atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare l’autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo oltretutto, nell’ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato rilasciato in mancanza della previa autorizzazione paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti valere i vizi di un’autorizzazione paesaggistica che non sia stata tempestivamente gravata).
L’autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se non previa adozione dell’atto presupposto. D’altro canto, è il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto all’autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di presupposizione tra di essi;
   - l’art. 5 d.p.r. n. 380/2001 afferma espressamente che gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistica sono condizione per “il rilascio del permesso di costruire” (il comma 1-bis fa carico lo sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale, ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni, gli atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell'intervento edilizio tra i quali “gli atti di assenso, comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, fermo restando che, in caso di dissenso manifestato dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai sensi del medesimo codice”);
   - l’art. 20, c. 9, d.P.R. n. 380/2001 condiziona il rilascio del permesso di costruire al previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, nel caso in cui l’autorità preposta al vincolo neghi il proprio assenso, “decorso il termine per l'adozione del provvedimento finale, la domanda di rilascio del permesso di costruire si intende respinta”. La norma prevede il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo abilitativo, sia pur inefficace;
   - e poi, ancora, l’articolo 22, c. 6, d.P.R. n. 380/2001 consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo subordinatamente “al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative”. La disposizione va coordinata con l’art. 23, c. 3 e 4, d.p.r. n. 380/2001, ai sensi del quale “nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti. Nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela non compete all'amministrazione comunale, ove il parere favorevole del soggetto preposto alla tutela non sia allegato alla denuncia, il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater, della legge 07.08.1990, n. 241. Il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dall'esito della conferenza. In caso di esito non favorevole, la denuncia è priva di effetti”. La norma prevede che il termine di trenta giorni, trascorso il quale il titolo abilitativo si perfeziona, decorra solo dal momento in cui viene rilasciata l’autorizzazione paesaggistica: in mancanza di tale autorizzazione, perciò, la denuncia di inizio attività non si perfeziona neppure (cfr. Tar Campania, Napoli, 20/03/2014, n. 1616).
Per queste ragioni, quindi, ad avviso del Collegio, l’autorizzazione paesaggistica -ferma restando la sua autonomia- è condizione di validità e non soltanto di efficacia del permesso di costruire.
11.3 Venendo al caso di specie, il titolo edilizio impugnato è stato rilasciato in assenza di autorizzazione paesaggistica.
Il Comune di Milano ha ritenuto sufficiente il parere della commissione paesaggistica rilasciato nel 2012 sul più ampio progetto di realizzazione dell’intervento di recupero del sottotetto.
Ad avviso della difesa dell’amministrazione, una volta che un intervento edilizio è stato autorizzato sotto il profilo paesaggistico, lo stesso ben può essere realizzato solo parzialmente, senza che ciò porti ad alcuna elusione della normativa vigente.
Il Collegio non condivide queste argomentazioni e ritiene illegittimo l’operato del Comune.
La commissione paesaggistica ha invero assentito un intervento edilizio differente, in quanto più ampio, rispetto a quello di cui al titolo edilizio impugnato.
Un progetto che prevede la realizzazione solo parziale delle opere assentite richiede un nuovo intervento dell’autorità preposta alla tutela del vincolo affinché venga valutata l’incidenza sul paesaggio della diversa soluzione edilizia: ben potrebbe, invero, una realizzazione parziale delle opere avere un differente impatto sul contesto paesaggistico e portare ad esiti che, a differenza del complessivo intervento edilizio, non sono rispettosi del paesaggio.
Alla sola autorità preposta alla tutela del vincolo, invero, compete decidere se la realizzazione di una parte soltanto di un intervento edilizio in precedenza autorizzato sia o meno indifferente dal punto di vista paesaggistico, se quindi il precedente giudizio positivo, espresso con riferimento all’intervento più ampio, debba essere confermato anche per l’intervento più contenuto.
La decisione del privato di non realizzare integralmente ciò che era stato valutato favorevolmente ai fini paesaggistici comportava, pertanto, la necessità per lo stesso di ottenere, se non una nuova autorizzazione, quantomeno una conferma del precedente titolo autorizzatorio da parte della commissione per il paesaggio.
Il titolo edilizio impugnato è quindi illegittimo anche per essere stato rilasciato in mancanza della necessaria autorizzazione paesaggistica.
12. Per le ragioni esposte il ricorso è fondato e va, pertanto accolto. Le ulteriori censure proposte, anche con il ricorso per motivi aggiunti, possono essere assorbite, al pari dell’eccezione di rito formulata dai controinteressati, in quanto ininfluente ai fini della presente sentenza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.12.2014 n. 3062 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Concessione edilizia valida ma inefficace senza l'autorizzazione paesaggistica.
La struttura del procedimento di rilascio del permesso di costruire, sia nella legislazione statale sia nella disciplina regionale, è costruita in termini di autonomia e non di interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, anche nei casi in cui il detto parere sia rimesso alla competente commissione comunale quale autorità subdelegata.
Ed infatti l’art. 159 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 421, in via transitoria sino al 31.12.2009 e, da quella data in via definitiva, l’art. 146 del medesimo decreto legislativo, prevedono che “l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio” e l’art. 159 specifica espressamente che “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”.
Di qui consegue che l’autorizzazione paesaggistica non può essere intesa quale mero presupposto di legittimità del titolo legittimamente l’edificazione, connotandosi piuttosto per una sua autonomia strutturale e funzionale rispetto al permesso di costruire.
Al riguardo il Consiglio di Stato ha più volte affermato che: “l'autonomia strutturale dei due procedimenti non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme“.
---------------
A ben vedere i due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un’autorizzazione paesaggistica rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori, quale un’ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico.
---------------

2. Il ricorso è infondato e va respinto come di seguito argomentato.
Nel giudizio in esame si controverte in ordine alla legittimità dell’ordine di demolizione n. 1709 del 2.01.2007 di una scaffalatura metallica autoportante da destinare a deposito, realizzata dalla società ricorrente La. s.p.a. in virtù di p.c. n. 7485/2005 rilasciato in assenza del necessario nulla osta in materia paesaggistica per un intervento realizzato in area vincolata ricadente su una fascia di rispetto dei “Regi Lagni”.
Parte ricorrente sostiene l’illegittimità della sanzione ripristinatoria gravata poiché l’intervento è stato realizzato sulla base di un valido permesso di costruire rilasciato dallo stesso Comune di Marcianise e mai preventivamente annullato, nonché per la omessa comunicazione dell’avvio del procedimento sanzionatorio e per la lesione del legittimo affidamento ingenerato dalla ultimazione dei lavori regolarmente comunicata all’amministrazione.
La ricostruzione proposta in ricorso non convince.
2.1 L’assunto difensivo trae spunto dal presupposto secondo cui il Comune, prima di intervenire con il provvedimento demolitorio impugnato, avrebbe dovuto procedere all’annullamento in via di autotutela del permesso di costruire rilasciato in assenza del parere della competente commissione paesaggistica ambientale. Ciò in quanto, a dire del ricorrente, la omessa acquisizione del prescritto parere ambientale sarebbe imputabile all’amministrazione comunale medesima quale autorità sub-delegata per legge al rilascio del parere medesimo.
Tale ricostruzione, a ben vedere, si fonda su un presupposto erroneo sostenendosi, infondatamente, l’illegittimità di un permesso di costruire rilasciato in assenza di parere ambientale.
Ciò non corrisponde al vero dal momento che una siffatta conclusione contrasta apertamente con la struttura del procedimento di rilascio del permesso di costruire che, sia nella legislazione statale, sia nella disciplina regionale, come si vedrà più innanzi, è costruita in termini di autonomia e non di interdipendenza rispetto al rilascio del parere ambientale, anche nei casi, come nella specie, in cui il detto parere sia rimesso alla competente commissione comunale quale autorità subdelegata.
Ed infatti l’art. 159 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 421, in via transitoria sino al 31.12.2009 e, da quella data in via definitiva, l’art. 146 del medesimo decreto legislativo, prevedono che “l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio” e l’art. 159 specifica espressamente che “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”. Di qui consegue che l’autorizzazione paesaggistica non può essere intesa quale mero presupposto di legittimità del titolo legittimamente l’edificazione, connotandosi piuttosto per una sua autonomia strutturale e funzionale rispetto al permesso di costruire.
Al riguardo il Consiglio di Stato ha più volte affermato che: “l'autonomia strutturale dei due procedimenti, non consente di considerare la procedura per il rilascio del nulla osta quale "presupposto necessario" del procedimento per il rilascio della concessione edilizia, neppure nell'ipotesi di opere da realizzarsi su aree vincolate come bellezze di insieme“ (C.d.S., sez. V, 11.03.1995, n. 376; C.d.S. Sez. VI, 19.06.2001, n. 3242).
2.2 Inoltre, la circostanza che lo stesso Comune abbia la competenza su aspetti diversi della medesima vicenda abilitativa, urbanistica ed ambientale, non può assecondare l’enucleazione di un principio secondo cui, in assenza di una specifica disposizione normativa, il Comune sarebbe tenuto ad esprimersi con un unico provvedimento finale riassuntivo e contenente un’autorizzazione unica comprensiva di tutti i diversi aspetti.
Tale conclusione è smentita peraltro anche dalla normativa della Regione Campania che, nel disciplinare il procedimento per il rilascio del permesso di costruire, all’art. 1, comma 3, della legge reg. n. 19/2001, stabilisce espressamente, per i casi in cui sia necessario acquisire il parere della commissione edilizia e della commissione edilizia integrata, ove prescritto, che qualora esse non si esprimano entro il termine perentorio stabilito dal comma 2, il responsabile del procedimento è comunque tenuto a formulare la proposta motivata all’organo comunale competente all’emanazione del provvedimento finale. Ai sensi del successivo comma 4, il permesso di costruire è rilasciato entro il termine perentorio di quindici giorni dalla scadenza del termine fissato per l’istruttoria dal precedente comma 2. E, per quanto concerne i casi di cui al comma 3 in cui sia prescritta l’acquisizione del previo parere della commissione edilizia anche integrata, il comma 5 consente che il permesso di costruire sia rilasciato anche per il caso di inutile decorso del termine assegnato per l’acquisizione del prescritto parere.
Alla luce di quanto sopra, sarebbe quindi illogico e privo di giustificazione razionale stabilire un nesso di antecedenza necessaria tra il rilascio del nulla osta ambientale e la conclusione del procedimento di rilascio del permesso di costruire, ove si consideri che si tratta di due procedimenti distinti, ed entrambi necessari per l’avvio dei lavori edilizi.
3. A ben vedere i due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli.
La mancanza di un’autorizzazione paesaggistica rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio–ripristinatori, quale un’ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico. La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato sez. VI n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico.
L’assoggettamento a vincolo paesaggistico delle opere e la necessità della presenza di un’autorizzazione non è stata messa in dubbio, nel caso di specie, nemmeno da parte ricorrente che non li ha sollevati come motivi di censura (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.06.2012 n. 2652 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati edilizi l'interesse protetto è non soltanto quello formale della realizzazione della costruzione nel rispetto della concessione, ma anche quello della tutela sostanziale del territorio, il cui sviluppo deve avvenire in conformità alle previsioni urbanistiche.
La concessione, costituendo un elemento normativo delle fattispecie tipiche di cui all'art. 20 l. 28.02.1985 n. 47, va sottoposta a verifica di legalità da parte dell'autorità giudiziaria, la quale deve accertare che il provvedimento sia conforme al modello legale previsto, anche con riferimento all'osservanza della normativa vigente in materia.
---------------
In tema di reati edilizi, qualora la zona sia sottoposta a vincolo paesaggistico la relativa autorizzazione si inserisce nel procedimento di rilascio della concessione e ne condiziona l'emanazione, assumendo il ruolo di presupposto. Ne consegue che la concessione è priva di efficacia qualora il Sindaco l'abbia rilasciata in assenza del c.d. nulla-osta.
---------------

Il ricorso è fondato.
La Corte territoriale non ha esaminato alcuno dei profili prospettati, dal pubblico ministero ricorrente, aderendo ad un orientamento di questa corte, attualmente superato dal più recente indirizzo della giurisprudenza.
Il dibattito culturale sulla cosiddetta disapplicazione dell'atto amministrativo ha conosciuto il suo massimo approfondimento nella materia edilizia, poiché, intorno agli anni settanta e cioè poco dopo le modifiche apportate alla legge 17.05.1942, n. 1150, dalla legge 06.08.1967, n. 765, per accentuare la tutela dei centri urbani dallo sviluppo di un incontrollato abusivismo, taluni pretori iniziarono un'attività di penetrante controllo anche su quella parte di edilizia, realizzata in base a licenze, che, come si desume dalla lettura delle sentenze del tempo, erano rilasciate in violazione della disciplina urbanistica generale e locale.
Passaggio indispensabile, per giungere, in questi casi, all'incriminazione di coloro che costruivano sulla base di atti abilitativi illegali, fu quello di esaminarne il contenuto, allo scopo di verificare la legittimità.
A tale risultato si pervenne in base all'interpretazione della legge 20.03.1865, n. 2248, all. E, che all'art. 2 stabilisce: "Sono devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause per contravvenzioni"; all'art. 4 dispone: "Quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell'autorità amministrativa, i Tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell'atto... L'atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative..."; ed infine all'art. 5 recita: "In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi".
Fondandosi proprio sull'espressione "in questo come in ogni altro caso" si individuarono gli "altri casi" in tutte le vicende penali, nelle quali si fosse in presenza di atti amministrativi illegittimi.
Ovviamente, poi, pur disapplicando la licenza edilizia e considerando il privato come costruttore abusivo in quanto privo di titolo giustificativo, molto spesso si perveniva al proscioglimento sotto il profilo dell'assenza dell'elemento soggettivo (cosiddetta buona fede).
Alla metà degli anni ottanta, in contrasto con la consolidata giurisprudenza, vi fu una pronuncia, con la quale si affermò che (Cass., Sez. III, sent. n. 576, cc. 13.03.1985, ric. Meraviglia, mass. 168422): "Il controllo di legittimità dell'atto amministrativo da parte del giudice penale deve essere rigorosamente limitato agli atti che incidono negativamente sui diritti soggettivi ed a condizione che si tratti di accertamento incidentale, che lasci persistere gli effetti di cui l'atto è capace all'esterno del giudizio. L'istituto della disapplicazione degli atti amministrativi da parte del giudice ordinario non riguarda quegli atti che rimuovono un ostacolo al libero esercizio dei diritti (nullaosta, autorizzazione) ovvero costituiscono diritti soggettivi (concessioni). In particolare il giudice penale non ha cognizione della legittimità della concessione edilizia neppure sotto il diverso profilo che la questione costituisca l'oggetto diretto del giudizio, perché tra i presupposti della disposizione incriminatrice non è previsto che la concessione edilizia debba essere stata "legalmente" data. La cognizione del giudice penale è limitata, nel caso considerato, al controllo dell'esistenza della concessione sulla base della esteriorità formale dell'atto e della sua provenienza dall'organo investito della correlativa potestà".
Nella pronunzia n. 3, cc. 31.01.1987, ric. Giordano, le Sezioni Unite, pur inserendosi in questo filone volto a contenere la possibilità di controllo del contenuto del provvedimento, affermarono il principio, secondo cui il giudice penale non ha il potere di disapplicare un atto amministrativo, quando quest'ultimo ampli il diritto soggettivo dell'interessato ovvero lo costituisca ex novo, tranne che tale possibilità sia disciplinata in modo espresso dall'ordinamento giuridico ovvero la valutazione della legittimità dell'atto rappresenti l'oggetto del reato od ancora se il rilascio del medesimo sia frutto di attività illecita del soggetto pubblico (funzionario o amministratore) o privato.
La massima è così formulata: “Il reato di costruzione in assenza della concessione di cui all'art. 17, lett. b), della legge 28.01.1977, n. 10, non è configurabile nel caso che la concessione rilasciata prima dello inizio dei lavori sia illegittima; si verte invece in ipotesi di assenza dell'atto non solo quando l'atto in questione sia stato emesso da organo assolutamente privo del potere di provvedere, ma anche qualora il provvedimento sia frutto di attività criminosa del soggetto pubblico che lo rilascia o del soggetto privato che lo consegue e, quindi non sia riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, oltre la quale non è dato operare ai pubblici poteri.”.
La questione però non è stata definitivamente risolta, poiché si è nuovamente affermato (Cass., Sez. III, n. 2766, ud. 09.01.1989, ric. Bisceglia, mass. 182411) che "in virtù dell'art. 5 della legge 20.03.1865, n. 2248, all. E, al giudice penale è affidato un generale controllo di legalità su tutti gli atti amministrativi limitatamente al processo in corso: egli ha quindi il potere-dovere di non applicare gli atti illegittimi per violazione di legge e non soltanto quelli illeciti, frutto cioè di collusione tra pubblico amministratore e privato. Ne deriva che al reato di costruzione senza concessione deve essere parificato quello di costruzione con provvedimento illegittimo e quindi da disapplicare. Il principio di tassatività in tal caso non viene violato, poiché esso trova fondamento in quello di legalità".
Sul tema, successivamente, non si rinvengono molte altre decisioni, poiché i giudici di merito si sono, in maggioranza, attenuti al principio fissato dalle Sezioni Unite e la Corte non si è più interessata del problema.
Vi sono, invece, numerose pronunzie sulla concessione in sanatoria, che, però, non interessano per la specificità della questione, attinente alle ipotesi estintive del reato, che -come tali- non possono essere sottratte alla "conoscenza" del giudice ordinario.
Sul quesito principale si deve osservare che l'illegittimità dell'atto può venire in rilievo -oltre che nell'ipotesi di collusione tra soggetto pubblico ed interessato- anche quando ad essa espressamente si riferisca il legislatore, come per esempio nel caso dell'art. 650 cod. pen..
In quest'ultima ipotesi è la stessa disposizione incriminatrice ad indicare tale requisito, tra i presupposti del reato.
Sostengono i fautori dell'opposto orientamento che, quando, invece, la struttura della fattispecie tipica non prevede un espresso controllo sulla legalità dell'atto, quest'ultimo non sarebbe consentito al giudice.
La Corte condivide l'opinione, secondo cui la tesi, precedentemente affermata in ordine alla "disapplicazione dell'atto amministrativo" in base all'art. 5 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo risulta superata nel più recente sviluppo della scienza del diritto penale.
Quest'ultima utilizza propri strumenti ermeneutici, adeguati alla specificità della materia.
È improprio, quindi, il richiamo alla legge n. 2248 del 1865, che mira a regolare rapporti nel campo del diritto civile.
In materia penale, come è noto, vige in virtù dell'art. 25 della Costituzione, il principio di legalità, dal quale deriva quello di tassatività della fattispecie.
L'indagine sulla legittimità dell'atto amministrativo, però, può venire in rilievo, non soltanto qualora sia formalmente statuita, ma anche quando dalla ricostruzione dell'ipotesi tipica in relazione alle finalità legislative, si desume che tale verifica è un passaggio indispensabile, per la stessa configurabilità del reato.
La "concessione edilizia" fa parte della fattispecie tipica ed è un elemento normativo, in quanto la sua nozione è stabilita dall'ordinamento giuridico, non, corrispondendo ad un concetto naturalistico (es. animale).
È, quindi, necessario che vi sia perfetta coincidenza tra l'atto e la fattispecie tipica del diritto amministrativo, per ritenere che il soggetto agisca lecitamente nel porre in essere l'opera.
Se manca tale coincidenza l'atto soltanto formalmente è catalogabile tra i provvedimenti amministrativi, essendo nel suo contenuto contra ius.
Tale contrarietà rende l'atto invalido sotto il profilo penale, atteso che nel settore edilizio la violazione delle norme vigenti integra gli estremi del reato di cui all'art. 20, lett. a), della legge n. 47 del 1985 ed appartiene al campo dell'illecito, sanzionato come contravvenzione.
V'è, inoltre, da rilevare che la legge edilizia non riserva all'amministrazione il compito esclusivo ed assoluto di controllo del territorio, sottraendo al magistrato qualsiasi possibilità di accertamento.
Le sezioni unite nella ricordata sentenza n. 4 del 1987 evidenziavano che la ratio della disciplina sarebbe volta ad assegnare soltanto all'Amministrazione l'esercizio del potere di verifica e concludevano che, in caso diverso, diversa doveva essere la soluzione del quesito.
Due sono le affermazioni di quella pronuncia da sottoporre ad una nuova valutazione.
La prima è la seguente "l'equiparazione tra mancanza di concessone e concessione illegittimamente rilasciata potrebbe ritenersi valida in quanto fosse possibile ritenere che la disposizione dell'art. 17, lett. b), della legge 28.01.1977, n. 10 (ora art. 20, lett. b), della legge 28.02.1985, n. 47), sia funzionale alla tutela dell'interesse all'osservanza delle norme di diritto sostanziale che disciplinano l'attività edilizia".
La seconda consiste nell'individuazione dell'interesse tutelato soltanto in quello pubblico di assoggettare l'attività edilizia al controllo preventivo della pubblica amministrazione, per cui il reato sussiste anche se si è costruito nel rispetto della normativa sostanziale che la disciplina.
Al riguardo va osservato che la sentenza delle sezioni unite concerneva una vicenda realizzata prima dell'entrata in vigore della legge n. 47 del 1985 e le osservazioni su quest'ultima normativa era un obiter dictum.
Sotto il profilo dell'approfondimento critico, già con la decisione n. 614 del 1987 (Sez. III, cc. 13.03.1987, rv. 175671, ric. Ginevoli) si osservò che il rilascio di qualsiasi concessione -sia ordinaria che in sanatoria- è attualmente -in virtù delle modifiche apportate alla normativa urbanistica dagli artt. 6, 13, 15 e 26 della legge 28.02.1985, n. 47 ("Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive")- subordinato all'indagine di conformità agli elementi normativi che consentono l'edificabilità del suolo: l'interesse protetto non è più soltanto quello di assicurare che la modifica del territorio avvenga sotto il controllo dell'autorità amministrativa, ma che tale sviluppo si verifichi in piena aderenza al programmato assetto urbanistico.
Tale tesi nel 1993 è stata ripresa con riferimento alla contravvenzione di cui all'art. 20, lett. a), della legge n. 47 del 1985 (inosservanza dei regolamenti edilizi e degli strumenti urbanistici) ed ha trovato l'autorevole avallo delle Sezioni Unite con la decisione n. 11635 del 1993 (ud. 12.11.1993, rv. 195358, ric. P.M. in proc. Borgia), nella quale è stato "rilevato che l'accertamento che il giudice penale è chiamato a compiere con riferimento alla suddetta fattispecie contravvenzionale consiste nel verificare la conformità tra l'ipotesi di fatto, ossia l'opera eseguenda od eseguita, e la fattispecie legale."
Ha, poi, "escluso che, sussistendo difformità dell'opera edilizia rispetto agli strumenti normativi urbanistici ovvero alle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale, il giudice penale dovrebbe comunque concludere per la mancanza di illiceità penale nel caso in cui sia stata rilasciata la concessione edilizia," in quanto "
la concessione non è idonea a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell'opera realizzanda senza rinviare al quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle rappresentazioni grafiche del progetto approvato, di tal che nella specie non si configura una non consentita disapplicazione" da parte del giudice penale dell'atto amministrativo concessorio.
Questo profilo deve essere attualmente vieppiù valorizzato.
Nella decisione n. 4 del 1987 le Sezioni Unite non poterono condurre un esame meditato sulla legge n. 47 del 1985 per i limiti imposti dalla fattispecie concreta; omisero, quindi, di porre in modo adeguato l'accento sugli articoli 4, 6, 7, 13, 14 e 22.
Vanno, in senso contrario, svolte le seguenti considerazioni.
Se, in virtù dell'art. 6 della legge n. 47 del 1985, l'accertamento sulla conformità dell'opera alla normativa urbanistica ed alle previsioni di piano rientra tra i doveri di committente, titolare della concessione e costruttore, la medesima verifica non può essere sottratta all'autorità giudiziaria.
Gli artt. 13 e 22, poi, prevedono che un'opera sorta in assenza di concessione, ma conforme a quella disciplina sostanziale, di cui parlavano le sezioni unite, può ed anzi, sussistendone i presupposti, deve essere sanata.
Ciò dimostra che non è il solo dato formale dell'atto abilitativo ad avere rilevanza, ma la concreta rispondenza alle previsioni edilizie.
Né va trascurato di rilevare che l'aspetto sostanziale è considerato tanto prevalente dal legislatore del 1985, che è frequentissimo l'uso delle espressioni "abuso", "abusivo", "abusivamente" (artt. 7, 12, 13, 14, 19).
Infine l'art. 7 ha assegnato anche al giudice penale il potere-dovere di disporre ed eseguire la demolizione.
L'interesse protetto ha, dunque, natura sostanziale e non meramente formale; si è, quindi, verificato proprio l'estremo indicato dalle sezioni unite (già innanzi riportato): "L'equiparazione tra mancanza di concessione e concessione illegittimamente rilasciata potrebbe ritenersi valida in quanto fosse possibile ritenere che la disposizione dell'art. 17, lett. b), della legge 28.01.1977, n. 10 -ora art. 20, lett. b), della legge 28.02.1985, n. 47- sia funzionale alla tutela dell'interesse all'osservanza delle norme di diritto sostanziale che disciplinano l'attività edilizia".
Ne deriva, in conclusione, che la concessione integra un elemento normativo e deve essere sottoposta ad accertamento di legalità sostanziale.
Nella vicenda in esame v'è, poi, un altro aspetto da considerare: lo stretto collegamento, che la legge n. 47 del 1985 ha creato tra edilizia da un lato e vincoli storici, archeologici e paesaggistici dall'altro.
Già l'art. 25 del R.D. 03.06.1940, n. 1357 (menzionato nel capo d'imputazione) stabilisce che "...i sindaci non possono concedere licenza di costruzione se non previo favorevole avviso della competente soprintendenza".
In base a questa disposizione, l'autorizzazione paesaggistica s'inserisce come elemento indispensabile nel procedimento di rilascio della concessione in modo da incidere sulla sua efficacia: soltanto con il provvedimento abilitativo dell'autorità preposta alla tutela del vincolo la concessione medesima spiega interamente tutti i suoi effetti.
Tale intima connessione, già statuita dal R.D. n. 1357 del 1940, è stata ulteriormente rafforzata nella legge n. 47 del 1985, che all'art. 4 ha assegnato al sindaco il dovere di "provvedere alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti, le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa" "qualora si tratti ... delle aree di cui alle leggi ... 29.06.1939, n. 1497 ...".
Quest'ultima statuizione attribuisce all'amministrazione comunale ampio potere d'intervento anche in materia di vincoli.
È evidente che il sindaco (o il soggetto da lui delegato) non può e non deve ignorare tale aspetto anche quando rilascia la concessione.
Quest'ultima s'inserisce come atto conclusivo di un procedimento articolato, nel quale l'autorizzazione paesaggistica, pur avendo natura diversa, assume un ruolo fondamentale.
Essa si pone come presupposto, che garantisce l'indispensabile coordinamento tra le autorità preposte al controllo del territorio.
A volte queste sono rappresentate dallo stesso sindaco, al quale per delega o subdelega è attribuita la competenza con riferimento alla tutela dei vincoli.
Le osservazioni svolte inducono a considerare il provvedimento dell'autorità preposta al controllo dei vincoli medesimi, quanto meno, requisito d'efficacia della concessione, la cui operatività è sempre subordinata alla sussistenza dell'autorizzazione predetta.
In tal senso si è più volte espresso anche il Consiglio di Stato, secondo cui (Sez. VI, sent. n. 51 del 13.02.1987, pd. 870118) "a norma dell'art. 25 del R.D. 03.06.1940, n. 1357, l'esecuzione di una costruzione in una zona vincolata ai piani territoriali paesaggistici non può essere autorizzata dal sindaco se non previo favorevole avviso della competente soprintendenza la quale, in quanto preposta alla tutela dei valori ambientali, svolge una funzione condizionante nei confronti della concessione comunale ad edificare" (conf.: Sez. V, sent. n. 100 del 20.02.1985, pd. 850208, Sez. VI, sent. n. 394 del 07.07.1981 pd. 811004; Sez. V, sent. n. 376 del 28.08.1981, pd. 810981; Sez. V, dec. n. 969 del 04.11.1977, pd. 772967; Sez. V, dec. n. 92 del 08.02.1972, pd. 720234).
In conclusione, va fissato il seguente principio di diritto: “in tema di reati edilizi l'interesse protetto è non soltanto quello formale della realizzazione della costruzione nel rispetto della concessione, rilasciata dall'amministrazione comunale, ma anche quello della tutela sostanziale del territorio, il cui sviluppo deve avvenire in conformità alle previsioni urbanistiche”.
La concessione costituisce un elemento normativo delle fattispecie tipiche di cui all'art. 20, lett. b) e c).
Essa va sottoposta a verifica di legalità da parte dell'autorità giudiziaria, la quale deve accertare che il provvedimento sia conforme al modello legale previsto anche con riferimento all'osservanza della normativa vigente in materia.
Nell'ipotesi in cui la zona sia soggetta a vincolo paesaggistico, l'autorizzazione relativa s'inserisce nel procedimento di rilascio della concessione e ne condiziona l'emanazione, assumendo il ruolo di presupposto.
Consegue che la concessione è priva d'efficacia qualora il sindaco l'abbia rilasciata in assenza del cosiddetto nullaosta (v. Sez. III, sent. n. 1053 del 20.11.1993, cc. 04.05.1993, rv. 195559; conf. Sez. III, sent. n. 113, cc. 13.01.1995, rv. 201960, imp. Cutonilli; Sez. III, sent. n. 1756, ud. 12.05.1995, rv. 202077 imp. Di Pasquale; Sez. III, sent. n. 11988, ud. 28.10.1997, rv. 209194, imp. Controzzi).
È superfluo aggiungere -perché rientra nelle regole generali fissate in tema di elemento soggettivo- che tale verifica è limitata al solo caso in cui l'illegittimità sia macroscopica od eclatante e sia tale da non sfuggire a un soggetto normalmente informato a livelli minimi di conoscenza normativa.
Nella specie, dunque, la Corte d'Appello ha fondato la sua pronunzia su un'affermazione superata, che questa Corte ritiene di non dovere condividere.
Ne è conseguito il mancato esame dell'intera vicenda processuale.
In questa sede, dunque, non devono essere prese in considerazioni le osservazioni prospettate dalla difesa, in quanto alla loro valutazione provvederà il giudice di rinvio, che dovrà decidere sulla base del principio innanzi formulato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.06.1998 n. 6671).

aggiornamento al 25.01.2022

RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA:
oramai, è chiaro che se non c'è un "aggravio del carico urbanistico" gli oneri di urbanizzazione non sono più dovuti!!
E le casse comunali "piangono"...

EDILIZIA PRIVATAAi fini dell’insorgenza dell’obbligo “di corresponsione degli oneri concessori è rilevante il realizzarsi di un maggiore carico urbanistico quale effetto dell’intervento edilizio assentito, di modo che non occorre che la trasformazione interessi l’intero immobile ma è sufficiente che ne risultino, anche solo in parte, variate la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri di conseguenza riferiti all’oggettiva rivalutazione del bene e funzionali ad affrontare l’aggiuntivo peso socio-economico che ne deriva, anche quando l’incremento dell’impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori dovuti ad una diversa distribuzione dell’immobile fra più proprietari o fruitori”.
---------------
Come già rilevato dal Consiglio di Stato:
   - “mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere all’amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla collettività di riferimento per la trasformazione del territorio consentita al privato istante, la quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti”;
   - “in base al generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, tale carico sussiste anche in caso di divisione e frazionamento di immobile che da uno si trasforma in due unità. Pertanto è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell’intervento edilizio, sicché è sufficiente che risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri riferiti all’oggettiva rivalutazione dell’immobile e funzionali a sopportare l’aggiuntivo carico socio-economico che l’attività edilizia comporta, anche quando l’incremento dell’impatto sul territorio consegua solo a lavori dovuti a una divisione dell’immobile in due unità o fra due o più proprietari”;
   - “sulla base del generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta il pagamento di detti oneri allorché l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico –e considerato che il carico urbanistico sussiste anche allorquando l’intervento di ristrutturazione comporti la divisione ed il frazionamento di un immobile, … per essere l’edificio adibito ad attività di impresa di due distinti soggetti, con l’apertura di due nuovi ingressi, per due distinte unità abitative– deve ritenersi che anche in tal caso si realizza un aumento dell’impatto sul territorio e sono pertanto dovuti i predetti oneri”.
---------------

1. Giova, preliminarmente alla disamina dei proposti motivi di appello, procedere ad una ricognizione degli essenziali tratti motivazionali della gravata sentenza del TAR dell’Emilia Romagna.
Premesso che, ai fini dell’insorgenza dell’obbligo “di corresponsione degli oneri concessori è rilevante il realizzarsi di un maggiore carico urbanistico quale effetto dell’intervento edilizio assentito, di modo che non occorre che la trasformazione interessi l’intero immobile ma è sufficiente che ne risultino anche solo in parte variate la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri di conseguenza riferiti all’oggettiva rivalutazione del bene e funzionali ad affrontare l’aggiuntivo peso socio-economico che ne deriva, anche quando l’incremento dell’impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori dovuti ad una diversa distribuzione dell’immobile fra più proprietari o fruitori”, il giudice di prime cure ha ritenuto che:
   - “la chiusura degli accessi interni fra le due unità immobiliari, lungi dal risolversi nel mero esercizio del diritto di proprietà della società ricorrente –che ha in tal modo impedito il libero ingresso da proprietà altrui–, integri in realtà un’oggettiva variazione delle modalità d’uso dell’immobile, d’ora in poi suscettibile di impiego da parte di un ulteriore operatore commerciale, in aggiunta a quello dell’altra unità immobiliare, e per questo fonte di maggiore carico urbanistico”;
   - e che, anche in assenza di “una vera e propria creazione di più unità immobiliari … si è comunque realizzato un frazionamento di fruibilità urbanistica per effetto della moltiplicazione di soggetti che possono servirsi di locali in precedenza riservati, in ragione dell’uso comune (adesso precluso dalla soppressione degli accessi interni), ad un unico operatore commerciale”;
   - da ultimo, escludendo che possa “essere rimproverato all’Amministrazione comunale di avere fatto indebitamente gravare sulla società ricorrente oneri concessori dovuti in realtà dall’altro proprietario, in quanto il contributo edilizio è legalmente a carico di chi ottiene il titolo abilitativo, mentre eventuali vantaggi indiretti da parte di terzi devono essere regolati inter partes nelle forme e nei limiti ammessi dall’ordinamento”.
2. Il percorso argomentativo che ha condotto alla reiezione del ricorso di primo grado, merita in questa sede integrale conferma.
Come da questa Sezione rilevato con recente sentenza 12.04.2021, n. 2956:
   - “mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere all’amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla collettività di riferimento per la trasformazione del territorio consentita al privato istante, la quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti” (Cons. Stato, Sez. VI, 02.07.2015, n. 3298);
   - “in base al generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, tale carico sussiste anche in caso di divisione e frazionamento di immobile che da uno si trasforma in due unità. Pertanto è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell’intervento edilizio, sicché è sufficiente che risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri riferiti all’oggettiva rivalutazione dell’immobile e funzionali a sopportare l’aggiuntivo carico socio-economico che l’attività edilizia comporta, anche quando l’incremento dell’impatto sul territorio consegua solo a lavori dovuti a una divisione dell’immobile in due unità o fra due o più proprietari” (Cons. Stato, Sez. IV, 17.05.2012, n. 2838);
   - “sulla base del generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta il pagamento di detti oneri allorché l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico –e considerato che il carico urbanistico sussiste anche allorquando l’intervento di ristrutturazione comporti la divisione ed il frazionamento di un immobile, … per essere l’edificio adibito ad attività di impresa di due distinti soggetti, con l’apertura di due nuovi ingressi, per due distinte unità abitative– deve ritenersi che anche in tal caso si realizza un aumento dell’impatto sul territorio e sono pertanto dovuti i predetti oneri” (Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611).
3. Se, per effetto degli illustrati principi, l’immanenza dell’obbligo di corresponsione degli oneri di urbanizzazione accede alla realizzazione di un maggiore carico urbanistico, quale effetto di un assentito intervento edilizio, anche nell’ipotesi in cui (come nella fattispecie all’esame) venga in considerazione un intervento di divisione e frazionamento di immobile (con riveniente creazione di due distinte unità), deve darsi atto della piena condivisibilità della pretesa nei confronti dell’odierna appellante fatta valere dal Comune di Bologna, attesa la rilevanza –ai fini di che trattasi– del verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell’intervento edilizio, con conseguente immutazione della realtà strutturale e della fruibilità urbanistica ed aggiuntivo carico socio-economico indotto dall’attività edilizia (quand’anche sostanziatasi esclusivamente in lavori dovuti a una divisione dell’immobile in due unità o fra due o più proprietari).
Né, in contrario avviso, rileva la preesistente alienità, sotto il profilo della titolarità dominicale, delle due unità componenti l’immobile (precedentemente destinato, unitariamente, ad attività commerciale), atteso che tale dato si dimostra appieno irrilevante, con riferimento alla separazione degli ambienti (alla quale ha fatto seguito la pretesa di corresponsione degli oneri di urbanizzazione da parte dell’appellata Amministrazione) e alla elettiva potenzialità di ciascuna delle stesse ad una difforme adibizione, con riveniente incremento del carico urbanistico in esse riconoscibile.
La chiusura degli accessi interni fra le due unità immobiliari (precedentemente funzionale ad un’unica conduzione, a fini commerciali, dei locali) ha determinato una obiettiva immutazione delle modalità d’uso dell’immobile, con duplicazione delle modalità di impiego e corrispondente accrescimento del carico urbanistico.
Il frazionamento del compendio immobiliare, precedentemente oggetto di unitaria conduzione commerciale, ha quindi determinato un corrispondente frazionamento di fruibilità urbanistica, con riveniente duplicazione dei soggetti abilitati a servirsi di locali già riservati, in conseguenza di un uso unitario (ora, inibito dalla eliminazione degli accessi interni), ad un unico operatore commerciale.
Se tale presupposto appieno integra idoneo fondamento ai fini della corresponsione degli oneri concessori di urbanizzazione, va da ultimo escluso che (come correttamente osservato dal giudice di primo grado) abbia errato l’appellata Amministrazione nel porre il relativo carico esclusivamente sull’odierna appellante, atteso che –impregiudicata, ovviamente, l’esercitabilità, da parte di Ca’ To., di eventuali azioni volte alla regolamentazione dei rapporti inter partes– il contributo edilizio grava sul soggetto che abbia richiesto (ed ottenuto) il titolo abilitativo.
4. La riscontrata infondatezza delle censure esposte con il presente appello, ne impone la reiezione, con conseguente conferma della sentenza di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 21.07.2021 n. 5494 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esistenza di una costruzione abusiva può aggravare il c.d. carico urbanistico e, quindi, protrarre le conseguenze del reato.
---------------
L'aumento del carico urbanistico non costituisce una conseguenza ontologicamente connaturata alla mera esistenza dell'immobile abusivo, ma può determinarsi per effetto dell'utilizzazione di esso, secondo le finalità (nella specie abitative) cui è destinato, dal che discende l'aggravio delle preesistenti infrastrutture e delle opere collettive correlate sotto il profilo di una maggiore esigenza di esse.
L'aggravio del carico urbanistico deve dunque essere valutato in concreto, avuto riguardo alla portata delle opere abusivamente realizzate e all'incidenza del loro utilizzo sul contesto delle infrastrutture esistenti e dunque sull'equilibrio urbanistico.
Nel caso di specie si tratta di una villa di rilevanti dimensioni, con destinazione in parte alberghiera, in relazione alla quale è stato, inoltre, accertato un mutamento della destinazione d'uso (abitativo) di parte dei locali; l'utilizzo dell'immobile, pertanto, senza dubbio determinerebbe una significativa incidenza sul carico urbanistico di zona, oltre al pericolo di un ulteriore deterioramento dell'ecosistema protetto dal vincolo paesaggistico.
---------------

2. Avverso tale ordinanza propone ricorso per cassazione Ni.Se., a mezzo del proprio difensore, lamentando (in sintesi giusta il disposto di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.):
...
   III) violazione di legge in relazione alle esigenze cautelari.
Deduce che la motivazione sul punto è viziata da un error in procedendo che si manifesta sotto due differenti profili: in primo luogo, l'apparato argomentativo, posto a sostegno del provvedimento, appare privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza in tema dei requisiti cautelari idonei alla conferma della misura cautelare; manca ogni motivazione; in secondo luogo, la decisione del Collegio del Riesame è censurabile nella parte concernente la sussistenza delle esigenze cautelari.
...
   V) violazione di legge per erronea applicazione della normativa urbanistica in ordine ai capi e ai punti dell'ordinanza concernenti il concetto di carico urbanistico posto a fondamento della sussistenza del periculum in mora.
Deduce che la nozione di carico urbanistico deriva dall'osservazione per cui ogni insediamento umano risulta costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, strade,fognature, elettrificazione, servizio idrico, etc.) che deve essere proporzionato all'insediamento primario.
Ciò che deve connotare l'immobile abusivo è lo sperequato incremento del carico urbanistico ossia il carico urbanistico realizzato in assenza di valido permesso o in difformità della normativa urbanistica o ambientale.
Nella specie, l'incremento non aggrava né protrae le conseguenze del fatto di reato contestato ovvero il periculum in mora.
Il Ni., infatti, aveva ottenuto un nuovo permesso di costruire in variante a tutti gli effetti valido ed astrattamente idoneo a legittimare l'attuale costruzione.
...
8. Le censure sub III) e V) -da trattarsi congiuntamente poiché logicamente avvinte- al di là della qualificazione assegnata dal ricorrente, attengono, sostanzialmente, a presunti vizi della motivazione.
Nondimeno, è opportuno evidenziare la presenza di una sufficiente motivazione -per altro priva di aporie manifeste- resa dal Tribunale, secondo cui la sussistenza delle esigenze cautelari deriva da fatto che «l'esistenza di una costruzione abusiva può aggravare il c.d. carico urbanistico e quindi protrarre le conseguenze del reato [...] l'aumento del carico urbanistico non costituisce una conseguenza ontologicamente connaturata alla mera esistenza dell'immobile abusivo, ma può determinarsi per effetto dell'utilizzazione di esso, secondo le finalità (nella specie abitative) cui è destinato, dal che discende l'aggravio delle preesistenti infrastrutture e delle opere collettive correlate sotto il profilo di una maggiore esigenza di esse. L'aggravio del carico urbanistico deve dunque essere valutato in concreto, avuto riguardo alla portata delle opere abusivamente realizzate e all'incidenza del loro utilizzo sul contesto delle infrastrutture esistenti e dunque sull'equilibrio urbanistico. Nel caso di specie si tratta di una villa di rilevanti dimensioni, con destinazione in parte alberghiera, in relazione alla quale è stato, inoltre, accertato un mutamento della destinazione d'uso (abitativo) di parte dei locali; l'utilizzo dell'immobile, pertanto, senza dubbio determinerebbe una significativa incidenza sul carico urbanistico di zona, oltre al pericolo di un ulteriore deterioramento dell'ecosistema protetto dal vincolo paesaggistico», facendo, così, anche buon uso del principio fissato da Sez. 3, Sentenza n. 11146/2002 (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 20.05.2021 n. 20109).

EDILIZIA PRIVATA: L’edificio di nuova costruzione, derivante dalla demolizione di quello preesistente, pur presentando nove piani fuori terra (in luogo dei precedenti quattro), è tuttavia caratterizzato dalla medesima volumetria e dalla stessa superficie lorda di pavimento (occupa infatti un’area ridotta rispetto a prima), mentre la destinazione d’uso abitativa è aumentata a discapito di quella commerciale. Sicché, non sussiste l'aggravio del carico urbanistico e, conseguente, l'obbligo di versare gli oneri di urbanizzazione.
Quanto agli oneri di urbanizzazione, il Collegio ricorda che, per orientamento giurisprudenziale costante e consolidato, il contributo di costruzione è configurabile come un corrispettivo di diritto pubblico di natura non tributaria, posto in connessione ad un intervento edilizio. Si tratta di una prestazione patrimoniale imposta che prescinde dalle singole opere di urbanizzazione e dalle concrete utilità che il concessionario trae dal titolo rilasciato, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare le opere.
Tali posizioni sono state fatte proprie anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che ha precisato altresì che “le prestazioni da adempiere da parte dell'amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica. Come si è detto, infatti, l'amministrazione è tenuta ad eseguire le opere di urbanizzazione ed a dotare degli indispensabili standard il comparto ove viene allocato il nuovo insediamento edilizio a prescindere dal puntuale pagamento del contributo di costruzione da parte del soggetto che abbia ottenuto il titolo edilizio; per parte sua, questi è tenuto al pagamento del contributo senza poter pretendere la previa realizzazione delle opere di urbanizzazione”.
La giurisprudenza, pertanto, ha colto e fissato l’autonomia della debenza del contributo rispetto ai singoli parametri che caratterizzano le opere autorizzate, dovendosi avere riguardo al complessivo valore dello stesso in termini di fruibilità urbanistica e realtà strutturale edificata.

---------------
Per gli interventi di demolizione e ricostruzione la valutazione della incidenza del carico urbanistico sia determinante per valutare an e quantum del contributo.
Questo Tribunale ha avuto modo di evidenziare che nel caso di interventi di sostituzione edilizia
   - da un lato comportino il mantenimento delle superfici e
   -  dall’altro non comportino né mutamento di destinazione d’uso né aumenti di volume il contributo,
   - per la parte degli oneri di urbanizzazione, non è dovuto in quanto non vi è induzione di maggior carico urbanistico.
“In senso analogo si è espresso il giudice d’appello, proprio in una fattispecie di sostituzione edilizia, nella cui sentenza si legge: “il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche.
In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico”.
“È illegittimo il provvedimento che impone il pagamento degli oneri di urbanizzazione e di costruzione nel caso in cui il permesso di costruire ha ad oggetto una ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione di un preesistente edificio, che non ha comportato un aumento del carico urbanistico, a nulla rilevando, a tal fine, la modifica di sagoma e prospetti dell'immobile stesso".
---------------
L’incremento dei più comuni indici edilizi (volumetria, superficie, ecc.) così come il prospettato concreto riutilizzo di immobili disabitati da tempo, possono lasciar presumere la variazione del carico urbanistico ma ciò deve formare oggetto di precipua istruttoria; ciò è poi maggiormente necessario quando l’intervento porti ad un decremento dei citati indici e ad una sostanziale continuatività del carico insediativo.
“Il presupposto imponibile per il pagamento del contributo va dunque ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell'area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d'uso concretamente impressa all'immobile; ma poiché l'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d'uso possa non comportare l’obbligo della corresponsione del contributo nella misura in cui non risulti aggravato il carico urbanistico. Correlativamente, è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell'ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e siano quindi dovuti i relativi oneri concessori.
Ne segue che, in presenza di un insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche funzionali, ed a fronte di un intervento edilizio che l’abbia strutturalmente modificato (come nell’ipotesi della demolizione e contestuale ricostruzione), l'amministrazione, per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione, deve dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evince il maggior carico urbanistico rispetto alla preesistente situazione.
È pertanto da considerare illegittimo il provvedimento che impone il pagamento degli oneri di urbanizzazione nel caso in cui il permesso di costruire ha ad oggetto una ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione di un preesistente edificio, che non ha comportato un aumento del carico urbanistico, a nulla rilevando, a tal fine, la modifica di sagoma e prospetti dell'immobile stesso.

---------------
Richiamando la giurisprudenza già citata e che evidenzia come anche per interventi di sostituzione edilizia l’analisi dell’induzione di domanda di carico urbanistico debba comunque essere svolta, si evidenzia che per giurisprudenza costante tale automatismo non vale per gli interventi di demolizione e ricostruzione.
“Non vi è contestazione tra le parti sulle circostanze di fatto; è dunque pacifico che l’edificio oggetto di ricostruzione è crollato accidentalmente e che la ricostruzione non ha modificato né la volumetria né la destinazione d’uso. Parte resistente propone una lettura letterale della normativa applicabile, senza tuttavia valorizzare quella che in giurisprudenza viene pacificamente individuata quale ratio fondamentale e giustificatrice della corresponsione degli oneri di urbanizzazione, ossia il carico urbanistico, con connessa esigenza di realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Se pure suddetta ratio giustificatrice non trasforma l’onere in una imposta di scopo (non vi è la necessità che gli oneri di urbanizzazione incassati in una determinata area siano devoluti alle opere di urbanizzazione ivi realizzate e/o necessarie) né il rapporto tra carico urbanistico ed oneri di urbanizzazione è rigoroso al punto da non ammettere la modulazione degli oneri stessi anche in funzione di diverse finalità (ad esempio scoraggiare l’espansione in determinate aree ovvero incentivarla in altre), la giustificazione sostanziale di tale forma di imposizione resta il carico urbanistico ingenerato da un nuovo insediamento o da un mutamento di destinazione d’uso)”.
---------------
“Ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri concessori, è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell'intervento edilizio, sicché non è neanche necessario che la ristrutturazione interessi globalmente l'edificio, ma basta che ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri conseguentemente riferiti all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e funzionali a sopportare l'aggiuntivo carico socio-economico che l'attività edilizia comporta, anche quando l'incremento dell'impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori”.

---------------
A diverse conclusioni, invece, si giunge con riferimento alla componente relativa al costo di costruzione.
Nel caso di specie, non vi è dubbio che dall'intervento realizzato derivi un concreto e significativo aumento di valore della proprietà immobiliare la quale, da edificio sostanzialmente inabitabile, è diventa una palazzina bifamiliare di pregio, come emerge dalla relazione tecnica depositata.
Questo Tribunale ha già avuto modo di precisare che:
   - “riguardo alla differenza tra oneri di urbanizzazione e costi di costruzione si ritiene che i primi espletino la funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della consentita attività edificatoria, mentre i secondi si configurino quale compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore”;
   - “Riguardo alla differenza tra oneri di urbanizzazione e costi di costruzione, la giurisprudenza concordemente ritiene che i primi espletino la funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della consentita attività edificatoria, mentre i secondi si configurino quale compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore”.
Questa componente del contributo, pertanto, essendo non direttamente connessa con il presupposto della modifica del carico urbanistico o con la domanda di servizi, ma afferendo direttamente all’incremento del pregio e del valore della proprietà e quindi con la pura manifestazione dello ius aedificandi, viene correttamente ancorata dall’amministrazione comunale alla qualificazione formale dell’intervento di sostituzione edilizia mediante permesso a costruire, in grado di apportare una trasformazione urbana significativa ed evidente.
Risultano pertanto neutri, a tali scopi, i parametri evidenziati da parte ricorrente circa il decremento dei volumi, delle superfici e delle unità immobiliari, essendo pacifico che trattasi comunque di ricostruzione di corpi di fabbrica con diversa sagoma e che solo in minima parte mantengono le componenti preesistenti.
Per tali ragioni il contributo risulta legittimamente richiesto ed applicato per la parte relativa ai costi di costruzione.

---------------

5. Passando al merito, con l’unico motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione di legge [art. 3, comma 1, lett. d); art. 10, comma 1, lett. c); artt. 16 e 17 del DPR n. 380/2001] nonché eccesso di potere per travisamento di fatto e di diritto, carenza istruttoria, erroneità, illogicità manifesta, irragionevolezza e arbitrarietà.
In particolare i ricorrenti sostengono che l’intervento di ristrutturazione assentito sarebbe “neutro” dal punto di vista urbanistico, non determinerebbe un maggior carico urbanistico dell’area né un più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti, con conseguente venir meno di ogni pretesa di versamento di un corrispettivo (trattandosi nello specifico di una riduzione del volume complessivo del fabbricato, previamente demolito, nonché dell’abbassamento di un piano dello stesso, con mantenimento della medesima destinazione d’uso e riduzione, da otto a due, delle unità abitative).
Nell’articolare le proprie memorie i ricorrenti evidenziano che la pretesa del Comune viene considerata illegittima sotto due profili: con riferimento alla richiesta di pagamento degli oneri di urbanizzazione in ragione della diminuzione del carico urbanistico; con riferimento al costo di costruzione, per la mancata motivata emersione d’una asserita maggior capacità contributiva.
L’amministrazione, nelle proprie memorie, sostiene che l’intervento debba essere qualificato non come ristrutturazione semplice, ma come intervento di sostituzione edilizia, assimilabile ad una nuova costruzione, di per sé sottoposto al versamento degli oneri di cui all’art. 16 del DPR n. 380/2001. Il nuovo manufatto, avendo caratteristiche del tutto distinte da quelle del complesso originario (da due edifici preesistenti ne viene realizzato uno solo), sarebbe solo parzialmente sovrapponibile ad uno degli immobili preesistenti e costituirebbe un corpo di fabbrica inedito sia per sagoma sia per collocazione spaziale.
La difesa di parte resistente fa altresì leva sulla diversa situazione di fatto che la nuova edificazione verrebbe a determinare nell’area. Se pure il nuovo edificio risulta avere una volumetria inferiore rispetto a quella dei due edifici preesistenti ed un minor numero di unità abitative, l'intervento muterebbe radicalmente la consistenza della struttura realizzando un edificio, oltre che completamente nuovo, anche concretamente utilizzato. I due immobili, nella ricostruzione di parte, erano disabitati da tempo: uno dei due era un rudere abbandonato da decenni, mentre gli appartamenti dell'altro sono stati gradualmente abbandonati negli anni in quanto inidonei a costituire un'abitazione dignitosa fino a che, nel 2016, nessuno degli alloggi risultava occupato. Sempre secondo la ricostruzione di parte resistente, la realizzazione di un nuovo immobile, con caratteristiche di pregio e destinato ad effettiva abitazione, determinerebbe una nuova domanda di servizi per il Comune il quale si trova a fare fronte alle esigenze di due nuovi nuclei familiari, mentre prima gli immobili versavano in stato di sostanziale abbandono.
Ciò premesso ritiene il Collegio che le posizioni dei ricorrenti risultino parzialmente fondate. La pretesa dei ricorrenti infatti, risulta condivisibile quanto alla quota parte degli oneri di urbanizzazione, mentre non è fondata quanto a quella del costo di costruzione.
6. Quanto agli oneri di urbanizzazione, infatti, il Collegio ricorda che, per orientamento giurisprudenziale costante e consolidato, il contributo di costruzione è configurabile come un corrispettivo di diritto pubblico di natura non tributaria, posto in connessione ad un intervento edilizio. Si tratta di una prestazione patrimoniale imposta che prescinde dalle singole opere di urbanizzazione e dalle concrete utilità che il concessionario trae dal titolo rilasciato, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare le opere.
Tali posizioni sono state fatte proprie anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che ha precisato altresì che “le prestazioni da adempiere da parte dell'amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica. Come si è detto, infatti, l'amministrazione è tenuta ad eseguire le opere di urbanizzazione ed a dotare degli indispensabili standard il comparto ove viene allocato il nuovo insediamento edilizio a prescindere dal puntuale pagamento del contributo di costruzione da parte del soggetto che abbia ottenuto il titolo edilizio; per parte sua, questi è tenuto al pagamento del contributo senza poter pretendere la previa realizzazione delle opere di urbanizzazione” (Cons Stato Ad. Plen. 07.12.2016, sent. n. 24).
La giurisprudenza, pertanto, ha colto e fissato l’autonomia della debenza del contributo rispetto ai singoli parametri che caratterizzano le opere autorizzate, dovendosi avere riguardo al complessivo valore dello stesso in termini di fruibilità urbanistica e realtà strutturale edificata.
Nella istanza di permesso a costruire e nel provvedimento rilasciato dal Comune l’intervento viene qualificato come ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione di edificio esistente.
L’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380/2001 definisce "interventi di ristrutturazione edilizia", gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, per l'applicazione della normativa sull'accessibilità, per l'istallazione di impianti tecnologici e per l'efficientamento energetico. Solo con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio (di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42), nonché, fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444 (o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali), nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell'edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria.
L’amministrazione resistente evidenzia che l’intervento effettuato nel caso di specie si configura come sostituzione edilizia, così come definita dall’art. 13, comma 3, della LRP n. 56/1977 che così definisce le seguenti tipologie di intervento: “d) ristrutturazione edilizia: gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti e quanto ulteriormente previsto all'articolo 3, comma 1, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380; d-bis) sostituzione edilizia: gli interventi di integrale sostituzione edilizia dell'immobile esistente, ricadenti tra quelli di cui all'articolo 3, comma 1, lettera e) del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, da attuarsi mediante demolizione e ricostruzione anche con diversa localizzazione nel lotto e con diversa sagoma”. La normativa regionale, pertanto, associa la sostituzione edilizia alle “nuove costruzioni” di cui all’art. 3, comma 1, lett. e), del DPR 380/2001.
I ricorrenti, nelle proprie memorie, non offrono argomentazioni a confutazione della riconduzione dell’intervento a tale fattispecie.
Occorre premettere altresì che, nel caso di specie, è pacifico tra le parti che l’intervento non rientri tra le esenzioni di cui all’art. 17 del DPR n. 380/2001, ed in particolare tra quelle previste al comma 2, lett. b), “per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”, poiché nel caso di specie trattasi di demolizione e ricostruzione di una villa bifamiliare (come emerge dalla relazione tecnica allegata al permesso di costruire, cfr. doc. 3 allegato al ricorso).
Nel quadro delle facoltà degli enti locali di graduare l’ammontare del contributo, l’art. 16 del DPR n. 380/2001 ha riconosciuto ai comuni la possibilità di determinare l'incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria anche in base “alla differenziazione tra gli interventi al fine di incentivare, in modo particolare nelle aree a maggiore densità del costruito, quelli di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), anziché quelli di nuova costruzione” (comma 4, lett. d-bis e comma 5). Il medesimo articolo, al comma 10, riconosce ai comuni “nel caso di interventi su edifici esistenti il costo di costruzione è determinato in relazione al costo degli interventi stessi, così come individuati dal comune in base ai progetti presentati per ottenere il permesso di costruire. Al fine di incentivare il recupero del patrimonio edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), i comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori determinati per le nuove costruzioni”.
Il Comune di Momo evidenzia che, con Delibera del Consiglio Comunale n. 1/2017 (cfr. doc. 5 allegato di parte resistente) ha approvato tali riduzioni per gli interventi su patrimonio esistente (pari al 50% rispetto alle nuove costruzioni), con esclusione di quelli di sostituzione edilizia.
Ciò premesso la difesa comunale insiste, da un lato, a giustificare l’imposizione del contributo in ragione della tipologia di intervento sostanzialmente assentita (sostituzione edilizia) e dall’altra ad evidenziare l’aumento del carico urbanistico che l’intervento comporta.
6.1 Partendo da quest’ultimo profilo il Collegio ritiene innegabile che, per gli interventi di demolizione e ricostruzione (genus all’interno del quale rientra quello in esame), la valutazione della incidenza del carico urbanistico sia determinante per valutare an e quantum del contributo.
Questo Tribunale ha avuto modo di evidenziare che nel caso di interventi di sostituzione edilizia da un lato comportino il mantenimento delle superfici e dall’altro non comportino né mutamento di destinazione d’uso né aumenti di volume il contributo, per la parte degli oneri di urbanizzazione, non è dovuto in quanto non vi è induzione di maggior carico urbanistico.
In senso analogo si è espresso il giudice d’appello, proprio in una fattispecie di sostituzione edilizia realizzata nel comune di Torino, con la sentenza Cons. St. sez. IV, n. 4950/2015, nella quale si legge: “il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae. In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio. Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche. In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico. Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico” (Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611)” (Tar Piemonte 07/01/2020 n. 20).
È illegittimo il provvedimento che impone il pagamento degli oneri di urbanizzazione e di costruzione nel caso in cui il permesso di costruire ha ad oggetto una ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione di un preesistente edificio, che non ha comportato un aumento del carico urbanistico, a nulla rilevando, a tal fine, la modifica di sagoma e prospetti dell'immobile stesso” (TAR Piemonte, sez. I, 13/12/2013, n. 1346).
L’incremento dei più comuni indici edilizi (volumetria, superficie, ecc.) così come il prospettato concreto riutilizzo di immobili disabitati da tempo, possono lasciar presumere la variazione del carico urbanistico ma ciò deve formare oggetto di precipua istruttoria; ciò è poi maggiormente necessario quando l’intervento porti ad un decremento dei citati indici e ad una sostanziale continuatività del carico insediativo.
Il presupposto imponibile per il pagamento del contributo va dunque ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell'area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d'uso concretamente impressa all'immobile; ma poiché l'entità degli oneri di urbanizzazione è in buona sostanza correlata alla variazione del carico urbanistico, è ben possibile che un intervento di ristrutturazione e mutamento di destinazione d'uso possa non comportare l’obbligo della corresponsione del contributo nella misura in cui non risulti aggravato il carico urbanistico. Correlativamente, è altrettanto possibile che in caso di mutamento di destinazione di uso nell'ambito della stessa categoria urbanistica, faccia seguito un maggior carico urbanistico indotto dalla realizzazione di quanto assentito e siano quindi dovuti i relativi oneri concessori (così, ancora, TAR Piemonte, questa II sez., n. 1009 del 2013, cit.; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 11213 del 2007).
Ne segue che, in presenza di un insediamento già in possesso di analoghe caratteristiche funzionali, ed a fronte di un intervento edilizio che l’abbia strutturalmente modificato (come nell’ipotesi della demolizione e contestuale ricostruzione), l'amministrazione, per poter legittimamente esigere il contributo per gli oneri di urbanizzazione, deve dare contezza degli indici o, comunque, delle condizioni da cui si evince il maggior carico urbanistico rispetto alla preesistente situazione (cfr., analogamente, TAR Sicilia, Catania, sez. I, n. 2249 del 2013; TAR Marche, n. 699 del 2013).
È pertanto da considerare illegittimo il provvedimento che impone il pagamento degli oneri di urbanizzazione nel caso in cui il permesso di costruire ha ad oggetto una ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione di un preesistente edificio, che non ha comportato un aumento del carico urbanistico, a nulla rilevando, a tal fine, la modifica di sagoma e prospetti dell'immobile stesso (così questo TAR, sez. I, sent. n. 1346 del 2013).
Proprio questa è la situazione che caratterizza la fattispecie oggetto dell’odierno giudizio: l’edificio di nuova costruzione, derivante dalla demolizione di quello preesistente, pur presentando nove piani fuori terra (in luogo dei precedenti quattro), è tuttavia caratterizzato dalla medesima volumetria e dalla stessa superficie lorda di pavimento (occupa infatti un’area ridotta rispetto a prima), mentre –come da ultimo confermato dalla relazione tecnica comunale– la destinazione d’uso abitativa è aumentata a discapito di quella commerciale (e salva la necessità, in futuro, di dover riconsiderare la fattispecie qualora dovesse essere assentita la richiesta di variante che innalzerebbe l’edificio di un ulteriore piano)
” (TAR Piemonte, 19/12/2014, sent. n. 2033).
Nessuna delle parti ha fornito prova dello stato di conservazione degli immobili in demolizione. Parte resistente deduce che una porzione era disabitata da decenni, ma entrambe riconoscono in maniera pacifica che una porzione fosse abitata sino al 2016. Dal corredo fotografico prodotto dall’amministrazione (cfr. doc. n. 6) risulta che una consistente porzione di fabbricato non appare collabente o priva dei connotati minimi per individuare una civile abitazione e che, pertanto, corrisponda a quello abitato sino al 2016. I ricorrenti, dal canto loro, evidenziano che la nuova volumetria corrisponda a circa la metà di quella preesistente ed è pertanto ragionevole dedurre che le valutazioni sulla variazione di carico urbanistico non possano non tenere in considerazione tale realtà di fatto.
Lo stesso regolamento comunale definisce, all’art. 2.1, il carico urbanistico “l'effetto prodotto dall'insediamento primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) che determina domanda di strutture ed opere collettive (opere pubbliche in genere, strade, fognature, condutture e reti), in dipendenza del numero di persone insediate su di un determinato territorio; le strutture e le opere collettive devono essere proporzionate all'insediamento primario, ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro svolte, con riferimento a standard di legge” (cfr. doc. 4 allegato si parte resistente).
L’amministrazione per giustificare l’incremento del carico urbanistico fa leva sul fatto che il nuovo intervento, che prevede la creazione di due nuove villette, benché di volumetria e superficie inferiore, riporterebbe la zona ad essere concretamente abitata, a differenza di quanto avvenuto negli ultimi anni. Orbene tale deduzione, sul piano probatorio, non è corroborata da riscontri significativi. Ciò che è pacifico tra le parti è che almeno una parte del complesso immobiliare sia stato abitato sino al 2016 (circa due anni prima della presentazione della istanza di permesso), mentre per la restante parte non sono forniti riferimenti temporali precisi. Dal tenore degli atti istruttori, dalla relazione tecnica allegata al permesso a costruire (doc. 6 allegato al ricorso) e dagli elementi dedotti dalle parti, pertanto, si desume che il carico urbanistico generato dal nuovo edificio, va a sostituire quello del vecchio immobile, senza apprezzabile soluzione di continuità, e che nessun nuovo carico, tale da giustificare l’imposizione degli oneri di urbanizzazione, si deve nella specie considerare prodotto.
In un caso analogo questo Tribunale ha precisato che “l’amministrazione, nelle proprie difese, ha invece valorizzato la circostanza (indicata nella relazione tecnica asseverata, allegata all’istanza di permesso di costruire) che il vecchio edificio fosse da tempo disabitato ed in pessimo stato di conservazione con conseguente “irrilevanza del precedente carico urbanistico”: ma tale asserzione –che aveva peraltro indotto questo TAR a respingere la domanda cautelare– risulta destituita di fondamento, posto che la ricorrente ha successivamente allegato di aver concesso in locazione gli appartamenti del vecchio edificio fino a pochi anni prima rispetto alla richiesta di realizzazione dell’intervento di sostituzione edilizia e che “i contratti di affitto [...] sono andati ad esaurimento in ragione di tale programmata attività” (TAR Piemonte, 19/12/2014, sent. n. 2033).
6.2 Anche il primo ordine di argomentazioni utilizzato dall’amministrazione per giustificare l’addebito degli oneri di urbanizzazione, che fa leva sulla tipologia di intervento (sostituzione edilizia), non persuade.
Richiamando la giurisprudenza già citata e che evidenzia come anche per interventi di sostituzione edilizia l’analisi dell’induzione di domanda di carico urbanistico debba comunque essere svolta, si evidenzia che per giurisprudenza costante tale automatismo non vale per gli interventi di demolizione e ricostruzione. “Non vi è contestazione tra le parti sulle circostanze di fatto; è dunque pacifico che l’edificio oggetto di ricostruzione è crollato accidentalmente e che la ricostruzione non ha modificato né la volumetria né la destinazione d’uso. Parte resistente propone una lettura letterale della normativa applicabile, senza tuttavia valorizzare quella che in giurisprudenza viene pacificamente individuata quale ratio fondamentale e giustificatrice della corresponsione degli oneri di urbanizzazione, ossia il carico urbanistico, con connessa esigenza di realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Se pure suddetta ratio giustificatrice non trasforma l’onere in una imposta di scopo (non vi è la necessità che gli oneri di urbanizzazione incassati in una determinata area siano devoluti alle opere di urbanizzazione ivi realizzate e/o necessarie) né il rapporto tra carico urbanistico ed oneri di urbanizzazione è rigoroso al punto da non ammettere la modulazione degli oneri stessi anche in funzione di diverse finalità (ad esempio scoraggiare l’espansione in determinate aree ovvero incentivarla in altre), la giustificazione sostanziale di tale forma di imposizione resta il carico urbanistico ingenerato da un nuovo insediamento o da un mutamento di destinazione d’uso. Per la fisiologica connessione tra aumento del carico urbanistico e oneri di urbanizzazione, ex pluribus, si veda Cons. St., sez. IV, n. 1187/2018)” (TAR Piemonte, sez. II, 21/05/2018 n. 630).
6.3 Così stando le cose è ragionevole dedurre che, nel particolarissimo caso di specie, non vi sia aumento del carico urbanistico. Ciò, come si è detto, è desumibile dal combinato di più elementi: il decremento di tutti gli parametri edilizi (volumetria, superficie, mantenimento della destinazione residenziale); il ragionevole minor potenziale carico antropico rispetto al recente passato (riduzione del numero di unità residenziali da otto a due); l’assenza di alcuna motivazione o argomentazione che lasci anche solo presumere che l’intervento esprima, anche a livello potenziale, un incremento della domanda di servizi che vada a gravare sul complesso infrastrutturale su cui l’area ricade.
È indicativo, peraltro, che la stessa amministrazione resistente, nelle proprie memorie, giunga e riconoscere, benché in via subordinata, la possibilità che per la parte degli oneri di urbanizzazione, possa effettivamente giungersi a conclusioni differenti, in ragione di una lettura più sostanzialista dell’incidenza sul carico urbanistico, circa la relativa debenza.
La stessa giurisprudenza citata nelle memorie dell’amministrazione resistente, peraltro, ha avuto modo di precisare che “ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri concessori, è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell'intervento edilizio, sicché non è neanche necessario che la ristrutturazione interessi globalmente l'edificio, ma basta che ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri conseguentemente riferiti all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e funzionali a sopportare l'aggiuntivo carico socio-economico che l'attività edilizia comporta, anche quando l'incremento dell'impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori.” (Cons. Stato, II, 19.04.2019, n. 2561).
Si aggiunga, infine, che non costituisce ostacolo alla conferma di tale linea interpretativa quanto previsto nella citata Deliberazione n. 1/2017 che disciplina una serie di incentivi per gli interventi sul patrimonio edilizio esistente (con riduzioni sui contributi, inclusi gli oneri di urbanizzazione, ad eccezione degli interventi di sostituzione edilizia, quale quello in commento), poiché ciò che si discute non è l’assoggettamento dell’intervento alla scontistica sperimentalmente approvata, quanto il ricorrere del presupposto stesso dell’applicazione della quota degli oneri di urbanizzazione (al di là della formale qualificazione dell’intervento).
Da quanto precede, pertanto, occorre concludere che la richiesta del contributo di costruzione, per la quota parte relativa agli oneri di urbanizzazione, è stata illegittimamente computata in capo ai ricorrenti e dev’essere, pertanto, restituita.
7. A diverse conclusioni, invece, si giunge con riferimento alla componente relativa al costo di costruzione.
Nel caso di specie, non vi è dubbio che dall'intervento realizzato derivi un concreto e significativo aumento di valore della proprietà immobiliare la quale, da edificio sostanzialmente inabitabile, è diventa una palazzina bifamiliare di pregio, come emerge dalla relazione tecnica depositata.
Questo Tribunale ha già avuto modo di precisare che “riguardo alla differenza tra oneri di urbanizzazione e costi di costruzione si ritiene che i primi espletino la funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della consentita attività edificatoria, mentre i secondi si configurino quale compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore (TAR Piemonte, n. 630/2018)” (TAR Piemonte, 25/11/2020, n. 769). “Riguardo alla differenza tra oneri di urbanizzazione e costi di costruzione, la giurisprudenza concordemente ritiene che i primi espletino la funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della consentita attività edificatoria, mentre i secondi si configurino quale compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore” (TAR Piemonte sez. II, 21/05/2018 n. 630, conforme Cons. St., sez. IV, n. 2915/2016).
Questa componente del contributo, pertanto, essendo non direttamente connessa con il presupposto della modifica del carico urbanistico o con la domanda di servizi, ma afferendo direttamente all’incremento del pregio e del valore della proprietà e quindi con la pura manifestazione dello ius aedificandi, viene correttamente ancorata dall’amministrazione comunale alla qualificazione formale dell’intervento di sostituzione edilizia mediante permesso a costruire, in grado di apportare una trasformazione urbana significativa ed evidente. Risultano pertanto neutri, a tali scopi, i parametri evidenziati da parte ricorrente circa il decremento dei volumi, delle superfici e delle unità immobiliari, essendo pacifico che trattasi comunque di ricostruzione di corpi di fabbrica con diversa sagoma e che solo in minima parte mantengono le componenti preesistenti.
Per tali ragioni il contributo risulta legittimamente richiesto ed applicato per la parte relativa ai costi di costruzione.
8. Il ricorso, nel suo complesso, risulta parzialmente fondato limitatamente all’accertamento della non debenza della quota degli oneri di urbanizzazione nella qualificazione e quantificazione del contributo di costruzione, richiesto e versato dalla ricorrente e, per l’effetto: la nota impugnata è illegittima e viene annullata nella parte in cui prevede l’inclusione di tale voce nel contributo di costruzione; il Comune di Momo è condannato a restituire la somma di euro 10.804,00.
Quanto agli interessi la relativa decorrenza deve essere individuata nel giorno della domanda e non in quello del pagamento (trattandosi di percezione di indebito intervenuta in buona fede, che si presume). Non può essere riconosciuta la rivalutazione monetaria, non avendo parte ricorrente dimostrato un maggior danno che resterebbe non compensato dalla corresponsione degli interessi
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 04.05.2021 n. 457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl TAR ha ritenuto che l’operazione effettuata dal ricorrente rappresenta un intervento di restauro risanamento conservativo e non una ristrutturazione edilizia; tuttavia siffatta qualificazione non è sufficiente per qualificare l’intervento sotto il profilo oneroso o gratuito, poiché è necessario considerare anche l’aspetto funzionale dello stesso.
In particolare, nel caso di specie l’intervento di restauro ha comportato una profonda modificazione dell’immobile, cambiandone la destinazione da esclusivamente terziaria e unifunzionale (ufficio bancario) a mista e polifunzionale (banca, uffici e appartamenti); ne è seguito altresì un frazionamento dell’edificio con un notevole aumento di unità immobiliari [da quattro (di cui n. 1 D/5 e n. 3 A/10 e n. 1 A/2) a venti (di cui n. 1 D/5, n. 9 A/10, n. 6 A/2 e quattro beni comuni non censibili)].
La tesi ermeneutica del Tar è in linea con la prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato, atteso peraltro che nel caso di specie vi è stato un cambio di destinazione e un notevole aumento dei locali. In particolare è stato precisato che:
   - “In caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico, nella misura in cui unicamente in tale ipotesi deriva un incremento della domanda di servizi nella zona”;
   - “Mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere all’amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla collettività di riferimento per la trasformazione del territorio consentita al privato istante, la quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti”;
   - “Il mutamento di destinazione d’uso di un immobile da produttiva a ricreativa (nella specie da officina a sala giochi), deve considerarsi attuato tra distinte categorie funzionali e comporta variazione del carico urbanistico, con conseguente mutamento degli standard che è sufficiente a giustificare la richiesta di contributo per oneri di urbanizzazione”;
   - “In base al generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, tale carico sussiste anche in caso di divisione e frazionamento di immobile che da uno si trasforma in due unità. Pertanto è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell’intervento edilizio, sicché è sufficiente che risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri riferiti all’oggettiva rivalutazione dell’immobile e funzionali a sopportare l’aggiuntivo carico socio-economico che l’attività edilizia comporta, anche quando l’incremento dell’impatto sul territorio consegua solo a lavori dovuti a una divisione dell’immobile in due unità o fra due o più proprietari”;
   - “Sulla base del generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta il pagamento di detti oneri allorché l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico -e considerato che il carico urbanistico sussiste anche allorquando l’intervento di ristrutturazione comporti la divisione ed il frazionamento di un immobile, conseguenti ad una scissione societaria per essere l’edificio adibito ad attività di impresa di due distinti soggetti, con l’apertura di due nuovi ingressi, per due distinte unità abitative- deve ritenersi che anche in tal caso si realizza un aumento dell’impatto sul territorio e sono pertanto dovuti i predetti oneri”.
---------------

10. Tramite il secondo motivo l’appellante ha sostenuto che le opere di restauro e risanamento non possono essere sottoposte a contributi concessori.
Questa censura è infondata.
In proposito si evidenzia che il Tar ha ritenuto che l’operazione effettuata dall’interessato rappresenti un intervento di restauro risanamento conservativo e non una ristrutturazione edilizia, tuttavia ha affermato che siffatta qualificazione non è sufficiente per qualificare l’intervento sotto il profilo oneroso o gratuito, poiché è necessario considerare anche l’aspetto funzionale dello stesso.
In particolare, nel caso di specie l’intervento di restauro ha comportato una profonda modificazione dell’immobile, cambiandone la destinazione da esclusivamente terziaria e unifunzionale (ufficio bancario) a mista e polifunzionale (banca, uffici e appartamenti); ne è seguito altresì un frazionamento dell’edificio con un notevole aumento di unità immobiliari da quattro (di cui 1 D/5 e 3 A/10 e 1 A/2) a venti (di cui 1 D/5, 9 A/10, 6 A/2 e quattro beni comuni non censibili).
La tesi ermeneutica del Tar è in linea con la prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato, da cui il Collegio non intende discostarsi, atteso peraltro che nel caso di specie vi è stato un cambio di destinazione e un notevole aumento dei locali. In particolare è stato precisato che:
   - “In caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico, nella misura in cui unicamente in tale ipotesi deriva un incremento della domanda di servizi nella zona” (Consiglio di Stato, sezione IV, 29/10/2015, n. 4950);
   - “Mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere all’amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla collettività di riferimento per la trasformazione del territorio consentita al privato istante, la quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti” (Consiglio di Stato, sezione VI, 02/07/2015, n. 3298);
   - “Il mutamento di destinazione d’uso di un immobile da produttiva a ricreativa (nella specie da officina a sala giochi), deve considerarsi attuato tra distinte categorie funzionali e comporta variazione del carico urbanistico, con conseguente mutamento degli standard che è sufficiente a giustificare la richiesta di contributo per oneri di urbanizzazione” (Consiglio di Stato, sezione V, 30/08/2013, n. 4326);
   - “In base al generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, tale carico sussiste anche in caso di divisione e frazionamento di immobile che da uno si trasforma in due unità. Pertanto è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell’intervento edilizio, sicché è sufficiente che risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri riferiti all’oggettiva rivalutazione dell’immobile e funzionali a sopportare l’aggiuntivo carico socio-economico che l’attività edilizia comporta, anche quando l’incremento dell’impatto sul territorio consegua solo a lavori dovuti a una divisione dell’immobile in due unità o fra due o più proprietari” (Consiglio di Stato, sezione IV, 17/05/2012, n. 2838);
   - “Sulla base del generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta il pagamento di detti oneri allorché l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico -e considerato che il carico urbanistico sussiste anche allorquando l’intervento di ristrutturazione comporti la divisione ed il frazionamento di un immobile, conseguenti ad una scissione societaria per essere l’edificio adibito ad attività di impresa di due distinti soggetti, con l’apertura di due nuovi ingressi, per due distinte unità abitative- deve ritenersi che anche in tal caso si realizza un aumento dell’impatto sul territorio e sono pertanto dovuti i predetti oneri” (Consiglio di Stato, sezione IV, 29/04/2004, n. 2611) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 12.04.2021 n. 2956 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa maggioritaria giurisprudenza, da tempo, si è evoluta nel senso di ritenere che gli oneri di urbanizzazione sono dovuti (in ipotesi anche per il mero mutamento di destinazione d’uso senza opere) allorquando un intervento determini un maggiore carico urbanistico.
Altresì,
«il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae. In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei servizi.
All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche. In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico"
».
---------------

Il ricorso risulta parzialmente fondato.
Deve premettersi che è pacifico tra le parti che l’intervento assentito è stato un intervento di ristrutturazione, nella forma della demo-ricostruzione con ampliamento; è ugualmente pacifico che non vi siano stati cambi di destinazione d’uso in quanto, già in precedenza, il complesso ospitava un’area produttiva, un’area uffici ed un alloggio del custode, ciascuna delle quali ha subito ampliamenti. E’ ugualmente pacifico che il calcolo degli oneri di urbanizzazione è stato effettuato dal comune in relazione all’intero edificio, ivi compresa la parte realizzata in sostituzione delle preesistenti strutture.
La maggioritaria giurisprudenza, per contro, da tempo si è evoluta nel senso di ritenere che gli oneri di urbanizzazione sono dovuti (in ipotesi anche per il mero mutamento di destinazione d’uso senza opere) allorquando un intervento determini un maggiore carico urbanistico (in tal senso ex pluribus Tar Piemonte, sez. I, n. 630/2018; Tar Brescia n. 449/2018).
In senso analogo si è espresso il giudice d’appello, proprio in una fattispecie di sostituzione edilizia realizzata nel comune di Torino, con la sentenza Cons. St. sez. IV, n. 4950/2015, nella quale si legge: “il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae. In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio. Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche. In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico. Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico” (Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611).”.
Condividendosi i principi sopra affermati ne consegue che, per la quota parte di edificio che trova corrispondenza nella pregressa SUL, non si è realizzato alcun aumento di carico urbanistico e non sono dovuti, come in effetti lamentato in ricorso, gli oneri di urbanizzazione (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 01.03.2021 n. 213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio, richiamando quanto già espresso in ordine alla rilevanza sul piano giuridico del mutamento di destinazione d’uso, osserva che, secondo la costante giurisprudenza:
   a) “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico”;
   b) “la variazione della misura del contributo di costruzione è legittimamente imposta anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o, comunque, per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico”;
   c) invero, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è connesso all’aumento del carico urbanistico determinato dal nuovo intervento, nella misura in cui da ciò deriva un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione; del resto, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Del resto, tale orientamento non può dirsi superato con l’entrata in vigore dell’art. 23-ter del d.P.R. n. 380/2001, non risultando dal combinato disposto di tale norma con quella di cui all’art. 16 del medesimo d.P.R. alcuna esenzione (ancorché parziale) per l’ipotesi che interessa, potendo osservarsi in particolare che:
   a) l’articolo 23-ter attiene unicamente alla definizione dei mutamenti di destinazione d’uso urbanisticamente rilevanti, nulla disponendo in ordine al regime degli oneri concessori;
   b) nemmeno l’articolo 16, laddove con specifico riferimento ai costi di costruzione li rapporta ai costi delle opere edili, afferma alcunché sulla sua applicabilità o meno ai mutamenti di destinazione d’uso;
   c) così come il successivo articolo 17, che elenca i casi tassativi di esonero totale o parziale dagli oneri concessori, non vi ricomprende i mutamenti di destinazione d’uso senza opere.
Alla luce di tali considerazioni, il Collegio ritiene che gli oneri di urbanizzazione sono dovuti solo se l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione, atteso che le opere di urbanizzazione, sia primarie che secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
Ne consegue che se, come nel caso di specie, rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, come quello derivante dal mutamento di destinazione d’uso da “terziario” a “residenziale”, determina la necessità di una nuova spesa per fornire ulteriori servizi per far fronte ad un incremento delle connesse esigenze urbanistiche.
Risulta pertanto legittima la richiesta di versamento di tali ulteriori oneri di urbanizzazione in vista della predisposizione degli strumenti idonei, nella misura differenziale rispetto a quanto già in precedenza corrisposto per la realizzazione dell’edificio a destinazione terziaria.
---------------

7. Con un secondo motivo di appello il Comune di Bari censura l’impugnata sentenza laddove ha affermato la non debenza del contributo di costruzione per la fattispecie in esame, senza considerare che, alla stregua della normativa applicabile, il passaggio di destinazione d’uso da “terziario direzionale” a “residenziale”, essendo queste categorie non omogenee, è un cambio di destinazione d’uso di tipo rilevante, indipendentemente dall’esecuzione di opere edilizie, e quindi deve essere subordinato al pagamento del contributo di costruzione ex art. 16 d.P.R. n. 380/2001.
7.1. La censura è fondata.
7.2. Il Collegio, al riguardo, richiamando quanto già espresso in ordine alla rilevanza sul piano giuridico del mutamento di destinazione d’uso, osserva che, secondo la costante giurisprudenza:
   a) “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico” (Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611);
   b) “la variazione della misura del contributo di costruzione è legittimamente imposta anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall’esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o, comunque, per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico” (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2015, n. 4296; Sez. IV, 03.09.2014, n. 4483);
   c) invero, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è connesso all’aumento del carico urbanistico determinato dal nuovo intervento, nella misura in cui da ciò deriva un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione; del resto, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico (Cons. Stato, Sez. IV, 29.10.2015, n. 4950).
7.3. Del resto, tale orientamento non può dirsi superato con l’entrata in vigore dell’art. 23-ter del d.P.R. n. 380/2001, non risultando dal combinato disposto di tale norma con quella di cui all’art. 16 del medesimo d.P.R. alcuna esenzione (ancorché parziale) per l’ipotesi che interessa, potendo osservarsi in particolare che:
   a) l’articolo 23-ter attiene unicamente alla definizione dei mutamenti di destinazione d’uso urbanisticamente rilevanti, nulla disponendo in ordine al regime degli oneri concessori;
   b) nemmeno l’articolo 16, laddove con specifico riferimento ai costi di costruzione li rapporta ai costi delle opere edili, afferma alcunché sulla sua applicabilità o meno ai mutamenti di destinazione d’uso;
   c) così come il successivo articolo 17, che elenca i casi tassativi di esonero totale o parziale dagli oneri concessori, non vi ricomprende i mutamenti di destinazione d’uso senza opere.
7.4. Alla luce di tali considerazioni, il Collegio ritiene che gli oneri di urbanizzazione sono dovuti solo se l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione, atteso che le opere di urbanizzazione, sia primarie che secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
Ne consegue che, se, come nel caso di specie, rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, come quello derivante dal mutamento di destinazione d’uso da “terziario” a “residenziale”, determina la necessità di una nuova spesa per fornire ulteriori servizi per far fronte ad un incremento delle connesse esigenze urbanistiche.
Risulta pertanto legittima la richiesta di versamento di tali ulteriori oneri di urbanizzazione in vista della predisposizione degli strumenti idonei, nella misura differenziale rispetto a quanto già in precedenza corrisposto per la realizzazione dell’edificio a destinazione terziaria.
7.5. In conclusione, essendo rilevante il mutamento di destinazione da terziario a residenziale, e comportando ciò un aumento del carico urbanistico, è legittima la richiesta di pagamento del corrispondente costo di costruzione aggiuntivo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2021 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca l’obbligo di versamento del contributo di costruzione, quindi comprensivo degli oneri di urbanizzazione, si è espresso, di recente, questo Consiglio, affermando quanto segue: “occorre, dunque, perché sia necessario il rilascio del permesso di costruire una modifica (parziale o totale) dell'organismo edilizio preesistente ed un aumento della volumetria complessiva; solo in questi casi, d’altra parte, l'intervento si caratterizza (in ossequio alla prescrizione normativa) come “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”.
Nelle ipotesi, invece, di “ristrutturazione ricostruttiva”, a maggior ragione se con invarianza, oltre che di volume, anche di sagoma e di area di sedime, "non vi è necessità di permesso di costruire e, dunque, ai sensi dell'art. 16 D.P.R. n. 380 del 2001, manca il presupposto per la richiesta e corresponsione del contributo di costruzione”.
Si deve concludere ravvisando che emerge il principio, di conio statale, secondo cui l’obbligo al pagamento degli oneri di urbanizzazione postula l’incremento del carico urbanistico.
---------------

11.1 Col primo mezzo, l’appellante, dopo aver ripercorso i passaggi essenziali della complessa vicenda di causa, ha dedotto che il Tar sarebbe incorso in difetto motivazionale non avendo preso in considerazione le difese dell’ente comunale articolate nel corso del giudizio di primo grado ed imperniate sulla riconducibilità dell’intervento abusivamente realizzato dagli appellati nel novero di quelli di ristrutturazione edilizia per ritenerlo sottoposto alla previsione di cui all’art. 120 della legge Regione Toscana n. 1 del 2005, secondo cui in casi siffatti si applica la Tabella C dell’Allegato A della stessa legge, la quale prevede il coefficiente di 0,30 ai fini della determinazione degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria.
Secondo le prospettazioni dell’appellante, quindi, seppur l’intervento contestato a controparte consiste nella demolizione e fedele ricostruzione del manufatto originario senza alcuna aggiunta di volumi, sarebbe applicabile nel caso di specie l’anzidetta norma regionale che prevede, proprio nel caso di interventi siffatti, l’applicazione di un coefficiente, sia pur ridotto, ai fini della determinazione degli oneri a carico del richiedente la sanatoria.
L’infondatezza del motivo si deve innanzitutto al fatto che il giudice di prime cure non ha alcun onere di soffermarsi su tutte le articolazioni difensive della parte resistente dovendo anzi calibrare la propria pronuncia sulle censure dedotte da parte ricorrente.
Esclusa, quindi, la carenza motivazionale da cui sarebbe affetta la sentenza impugnata, occorre esaminare il merito delle deduzioni sollevate dall’appellante in ordine alla effettiva ricorrenza dei presupposti per far gravare sulla richiedente il titolo in sanatoria una quota parte di oneri di urbanizzazione.
Giova premettere che, a fronte di quanto argomentato da parte appellante circa la prevalenza della norma regionale su quella statale, è proprio il riferimento alla prima e segnatamente allo stesso articolo 120 invocato dall’appellante, che emerge la rilevanza attribuita all’incidenza plano-volumetrica dell’intervento ai fini della soggezione o meno al versamento degli oneri di urbanizzazione.
Infatti detta norma, al comma 1, statuisce che “gli oneri di urbanizzazione sono dovuti in relazione agli interventi, soggetti a permesso o a denuncia di inizio dell'attività, che comportano nuova edificazione o determinano un incremento dei carichi urbanistici in funzione di: a) aumento delle superfici utili degli edifici; b) mutamento delle destinazioni d'uso degli immobili; c) aumento del numero di unità immobiliari”.
È di tutta evidenza, pertanto, che anche il legislatore regionale riconnette l’onere di versare gli oneri di urbanizzazione alla realizzazione di un intervento che sia in grado di determinare un incremento dei carichi urbanistici, evenienza questa da escludere nel caso di specie proprio in considerazione del fatto che trattasi di un intervento di demolizione e fedele ricostruzione senza quindi che si possa configurare alcun surplus volumetrico.
Circa l’obbligo di versamento del contributo di costruzione, quindi comprensivo degli oneri di urbanizzazione, si è espresso, di recente, questo Consiglio, affermando coerentemente con quanto testé opinato, quanto segue: “occorre, dunque, perché sia necessario il rilascio del permesso di costruire una modifica (parziale o totale) dell'organismo edilizio preesistente ed un aumento della volumetria complessiva; solo in questi casi, d’altra parte, l'intervento si caratterizza (in ossequio alla prescrizione normativa) come “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”.
Nelle ipotesi, invece, di “ristrutturazione ricostruttiva” (come definita dalla giurisprudenza: Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015 n. 1763; 09.05.2014 n. 2384; 06.07.2012 n. 3970), a maggior ragione se con invarianza, oltre che di volume, anche di sagoma e di area di sedime, "non vi è necessità di permesso di costruire e, dunque, ai sensi dell'art. 16 D.P.R. n. 380 del 2001, manca il presupposto per la richiesta e corresponsione del contributo di costruzione” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.05.2017, n. 2567; Tar Roma, sez. II-bis, 12.09.2019, n. 10887).
Si deve concludere ravvisando che emerge il principio, di conio statale, secondo cui l’obbligo al pagamento degli oneri di urbanizzazione postula l’incremento del carico urbanistico, che, nel caso di specie, è pacificamente da escludere. Ne consegue che non ricorrono i presupposti per ritenere che gli appellati siano tenuti al versamento del contributo, e ciò anche in virtù di quanto disposto dalla norma regionale ritenuta dall’Amministrazione prevalente, che detto principio non contraddice (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 15.01.2021 n. 489 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: In merito alla richiesta del contributo di costruzione, è utile premettere che lo stesso trova causa nell’utilità che il proprietario ritrae appunto dall’edificazione assentita. Trattandosi di principio di portata generale, la deroga alla onerosità del titolo edilizio non può che ricorrere nelle “…sole ipotesi tassativamente previste dalla legge… da intendersi di stretta interpretazione”.
---------------
In base al prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa “…la controversia sulla quantificazione del contributo di costruzione involge l'apprezzamento del diritto soggettivo alla determinazione dell'obbligazione contributiva. Attività questa, non autoritativa, vincolata, da eseguirsi secondo criteri predeterminati o tabelle parametriche in ragione della natura paratributaria del contributo…”, con la conseguenza che “trova campo elettivo d'applicazione, specie con riguardo alle norme che prevedono l'esonero e la riduzione del pagamento del contributo, il criterio interpretativo delle norme c.d. "a fattispecie esclusiva", proprio delle disposizioni tributarie. Ossia l'interprete, oltre a doversi attenere alla littera legis deve individuare il criterio in base al quale è stato disposto il beneficio che deroga all'ordinario regime paratributario, al fine di non estenderne l'applicazione oltre i casi espressamente preveduti”.
---------------
Con specifico riferimento al costo di costruzione, è stato statuito che:
   - “l’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce, al primo comma, che il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione. Presupposto per la debenza del costo di costruzione è che l’intervento rientri nell’ambito di quelli per i quali l’art. 10 del medesimo del D.P.R. n. 380/2001 prevede il titolo abilitativo del permesso di costruire. In tal senso deve essere interpretato anche il comma 10, dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, secondo il quale “nel caso di interventi su edifici esistenti il costo di costruzione è determinato in relazione al costo degli interventi stessi, così come individuati dal comune in base ai progetti presentati per ottenere il permesso di costruire. Al fine di incentivare il recupero del patrimonio edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), i Comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori determinati per le nuove costruzioni”.
Questo comma rileva l’esistenza di interventi di ristrutturazione edilizia soggetti al pagamento dell’onere, ma deve essere interpretato nel senso che, in caso di interventi di ristrutturazione, il costo di costruzione è dovuto solo qualora le opere medesime richiedano il titolo abilitativo del permesso di costruire in conformità a quanto previsto dall’art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, ovverosia per quelle opere di ristrutturazione che “che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42”; mentre il costo di costruzione non deve essere corrisposto per gli interventi di ristrutturazione realizzabili con d.i.a..
Significativi dell’esattezza di tale interpretazione si rivelano il comma 5 dell’art. 22 del D.P.R. n. 380/2001, che assoggetta al pagamento del costo di costruzione gli interventi effettuati con d.i.a. solo nel caso in cui questa sia sostitutiva del permesso di costruire nelle ipotesi previste nel comma 3, tra le quali si trova l’ipotesi degli interventi di ristrutturazione assoggettati al regime del permesso di costruire ai sensi del già indicato art. 10, comma 1, lettera c), D.P.R. n. 380/2001. Inoltre, la giurisprudenza ha precisato che per le opere di ristrutturazione edilizia (soggette al regime del permesso di costruire), il pagamento degli oneri concessori è dovuto solo nel caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico. [.. omissis ..]. Gli oneri concessori richiesti non risultavano, pertanto dovuti, per due ragioni, ciascuna delle quali autonomamente sufficiente; ovverosia perché le opere poste in essere non rientrano nel regime abilitativo del permesso di costruire e in quanto le stesse non hanno comportato l’aumento del carico urbanistico”.
...
Speculari considerazioni valgono con riferimento alla debenza degli oneri di urbanizzazione, dal momento che “è consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico”.
---------------

1. Il ricorrente, in qualità di proprietario dell’immobile sito nel Comune di Vico Equense, al corso ... n. 125 (Cinema – teatro Aequa), è stato autorizzato, con permesso di costruire n. 35 del 2003, ad effettuare interventi di riqualificazione e ripristino funzionale, unitamente alla realizzazione di un parcheggio interrato di natura pertinenziale. Il titolo edilizio è stato successivamente volturato in favore della società Ge. s.p.a, incaricata di eseguirne i lavori.
1.1. A fronte del rilievo della realizzazione di opere difformi dal progetto originario, peraltro non conformi alle norme edilizie in quanto integranti un’ipotesi di ristrutturazione pesante, l’amministrazione comunale ha ordinato, in espressa applicazione dell’art. 33 DPR 380/2001, il ripristino fedele della costruzione originaria, irrogando una sanzione per le opere difformi, ed ha contestualmente richiesto per la prima volta il pagamento del contributo di costruzione, quantificato in 81.672,66 euro.
1.2. Avverso l’atto così adottato, limitatamente alla richiesta del contributo e all’applicazione della sanzione pecuniaria ex art. 33 DPR 380/2001, insorge con il presente ricorso, articolando censure di violazione e falsa applicazione degli artt. 16, 17 e 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché degli artt. 74 e 75 del P.r.g. del Comune di Vico Equense, nonché per violazione degli obblighi nascenti dalla convenzione stipulata fra le parti e per difetto dei presupposti. Evoca inoltre la violazione del principio di affidamento, tenuto anche conto che nei pregressi atti autorizzatori il contributo non è stato mai stato richiesto, con violazione dei principi posti a presidio dell’esercizio del potere di autotutela.
In ogni caso contesta la genericità e la carenza di motivazione in ordine ai criteri seguiti per quantificare il contributo di costruzione, nonché le argomentazioni spese dall’amministrazione in merito alla natura degli interventi di ristrutturazione pesante.
...
2. Il ricorso è fondato nei seguenti termini.
2.1. In via preliminare occorre chiarire che la contestazione relativa all’irrogazione della sanzione non ha avuto alcuno sviluppo nel corpo del ricorso, ed anzi il Comune di Vico Equense ha incontestatamente affermato e documentato (cfr. deposito in atti del 05.02.2020) l’avvenuto pagamento appunto della sanzione ad opera della GE. srl in data 19.06.2019, onde l’impugnazione sul punto si rivela del tutto inammissibile. Parimenti inammissibile per genericità e carenza di interesse è la contestazione (evidentemente ipotetica) dell’ammissibilità o meno degli interventi di ristrutturazione pesante nell’area interessata.
2.2. In merito alla richiesta del contributo di costruzione, è utile premettere che lo stesso trova causa nell’utilità che il proprietario ritrae appunto dall’edificazione assentita. Trattandosi di principio di portata generale, la deroga alla onerosità del titolo edilizio non può che ricorrere nelle “…sole ipotesi tassativamente previste dalla legge… da intendersi di stretta interpretazione” (cfr., Cons. Stato, Sez. V, 07.05.2013, n. 2467; TAR Emilia Romagna –BO- sez. I, 12/10/2016 n. 846).
In base al prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa “…la controversia sulla quantificazione del contributo di costruzione involge l'apprezzamento del diritto soggettivo alla determinazione dell'obbligazione contributiva. Attività questa, non autoritativa, vincolata, da eseguirsi secondo criteri predeterminati o tabelle parametriche in ragione della natura paratributaria del contributo…” (v. TAR Emilia Romagna –BO- n. 846 del 2016 cit.; TAR Lombardia –BS- 24/08/2012 n. 1467; Cons. Stato, sez. V, 14.12.1994 n. 1471), con la conseguenza che “trova campo elettivo d'applicazione, specie con riguardo alle norme che prevedono l'esonero e la riduzione del pagamento del contributo, il criterio interpretativo delle norme c.d. "a fattispecie esclusiva", proprio delle disposizioni tributarie. Ossia l'interprete, oltre a doversi attenere alla littera legis deve individuare il criterio in base al quale è stato disposto il beneficio che deroga all'ordinario regime paratributario, al fine di non estenderne l'applicazione oltre i casi espressamente preveduti” (TAR Liguria, Sez. I, 30/09/2014, n. 1401).
3. Fatte queste premesse, il ricorso va accolto, sulla scorta delle considerazioni già fatte proprie da questo Tribunale, in cui, con specifico riferimento al costo di costruzione, è stato statuito che:
   - “l’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce, al primo comma, che il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione. Presupposto per la debenza del costo di costruzione è che l’intervento rientri nell’ambito di quelli per i quali l’art. 10 del medesimo del D.P.R. n. 380/2001 prevede il titolo abilitativo del permesso di costruire. In tal senso deve essere interpretato anche il comma 10, dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, secondo il quale “nel caso di interventi su edifici esistenti il costo di costruzione è determinato in relazione al costo degli interventi stessi, così come individuati dal comune in base ai progetti presentati per ottenere il permesso di costruire. Al fine di incentivare il recupero del patrimonio edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), i Comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai valori determinati per le nuove costruzioni”.
Questo comma rileva l’esistenza di interventi di ristrutturazione edilizia soggetti al pagamento dell’onere, ma deve essere interpretato nel senso che, in caso di interventi di ristrutturazione, il costo di costruzione è dovuto solo qualora le opere medesime richiedano il titolo abilitativo del permesso di costruire in conformità a quanto previsto dall’art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, ovverosia per quelle opere di ristrutturazione che “che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42”; mentre il costo di costruzione non deve essere corrisposto per gli interventi di ristrutturazione realizzabili con d.i.a..
Significativi dell’esattezza di tale interpretazione si rivelano il comma 5 dell’art. 22 del D.P.R. n. 380/2001, che assoggetta al pagamento del costo di costruzione gli interventi effettuati con d.i.a. solo nel caso in cui questa sia sostitutiva del permesso di costruire nelle ipotesi previste nel comma 3, tra le quali si trova l’ipotesi degli interventi di ristrutturazione assoggettati al regime del permesso di costruire ai sensi del già indicato art. 10, comma 1, lettera c), D.P.R. n. 380/2001. Inoltre, la giurisprudenza ha precisato che per le opere di ristrutturazione edilizia (soggette al regime del permesso di costruire), il pagamento degli oneri concessori è dovuto solo nel caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico (Cons. Stato Sez. IV, 29.10.2015, n. 4950; Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611). [.. omissis ..]. Gli oneri concessori richiesti non risultavano, pertanto dovuti, per due ragioni, ciascuna delle quali autonomamente sufficiente; ovverosia perché le opere poste in essere non rientrano nel regime abilitativo del permesso di costruire e in quanto le stesse non hanno comportato l’aumento del carico urbanistico
” (da ultimo TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 28.04.2020 n. 1541).
3.1. Speculari considerazioni valgono con riferimento alla debenza degli oneri di urbanizzazione, dal momento che “è consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l'intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico (TAR Piemonte, sez. I, 26.11.2003 n. 1675 e, da ultimo, TAR Piemonte, sez. II, 16.09.2013 n. 1009; Cons. Stato, sez. IV, 29.04.2004, n. 2611)” (TAR Lombardia Milano, Sez. II, 03.10.2018 n. 2198).
4. Nel caso in esame, è incontestato che, a seguito del tortuoso percorso relativo agli interventi edilizi sull’immobile in questione, alla fine il proprietario, mediante una demo-ricostruzione fedele, si è conformato all’ordine di riduzione in pristino della struttura pregressa, con conseguente elisione di ogni carico urbanistico aggiuntivo. È pur vero che l’intervento di ristrutturazione non sarebbe stato consentito dagli strumenti urbanistici del territorio (onde correttamente l’amministrazione comunale ha proceduto ad irrogare la relativa sanzione), ma, sul piano sostanziale, la modalità di recupero del manufatto pre-esistente (mediante ristrutturazione ovvero mediante recupero conservativo), non condiziona la debenza o meno degli oneri di costruzione, i quali sono comunque collegati a tutti quegli interventi suscettibili di determinare una diversa destinazione ovvero una trasformazione strutturale che comportino una incidenza qualitativa o quantitativa sul carico urbanistico.
4.1. Pertanto la richiesta degli oneri concessori non risulta pertinente rispetto all’intervento realizzato dal ricorrente e la relativa pretesa avanzata dall’amministrazione comunale si rivela priva di fondamento (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 12.01.2021 n. 207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di demolizione e successiva ricostruzione di fabbricato, il presupposto dell'onerosità della trasformazione edilizia è costituito dal maggior carico urbanistico determinato dall'intervento, per cui l'Ente locale deve richiedere il pagamento degli oneri di urbanizzazione se il peso insediativo aumenta, mentre non deve chiedere alcunché se non si verifica alcuna variazione.
Il contributo concessorio (comprendente oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) è un’obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione edilizia ed è qualificabile come corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici arrecati al nuovo manufatto.
La disposizione che regola la fattispecie si rinviene all’art. 16 del DPR 380/2001 (rubricato “Contributo per il rilascio del permesso di costruire”), il quale dispone al comma 1 che “Salvo quanto disposto dall'articolo 17, comma 3, il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo e fatte salve le disposizioni concernenti gli interventi di trasformazione urbana complessi di cui al comma 2-bis”.
Osserva il Collegio che, in linea generale, la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione dell’immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico.
Come ha statuito questo TAR di recente <<Mentre il costo di costruzione rappresenta una compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare, gli oneri di urbanizzazione svolgono la funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della consentita attività edificatoria. Essi sono pertanto dovuti nel caso di trasformazioni edilizie che, indipendentemente dall’esecuzione di opere, si rivelino produttive di vantaggi economici per il proprietario, determinando un aumento del carico urbanistico. Tale incremento può derivare anche da una mera modifica della destinazione d’uso di un immobile, mentre può non configurarsi nell’ipotesi di intervento edilizio con opere. … Secondo consolidata e risalente giurisprudenza il fondamento del contributo di urbanizzazione pertanto “non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità con la conseguenza che, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa”…>>.
Anche il Consiglio di Stato ha chiarito che “In linea di diritto, mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all'entità (superficie e volumetria) dell'intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere all'amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla collettività di riferimento alla trasformazione del territorio consentita al privato istante (ossia, a compensare la c.d. compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova edificazione), la quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione "assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l'esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti".
In definitiva, il presupposto dell'onerosità della trasformazione edilizia è costituito dal maggior carico urbanistico determinato dall'intervento, per cui l'Ente locale deve richiedere il pagamento degli oneri se il peso insediativo aumenta, mentre non deve chiedere alcunché se non si verifica alcuna variazione.
Detto altrimenti, "in caso di intervento di ristrutturazione edilizia, dal contributo per gli oneri di urbanizzazione deve essere sottratto l'importo imputabile al carico urbanistico generato dall'edificio preesistente".
---------------
Laddove siano state versate al comune somme non dovute a titolo di oneri di urbanizzazione ovvero di costo di costruzione, la restituzione del quantum indebitamente percepito soggiace alla quantificazione degli interessi maturati.
Invero, dispone l’articolo 2033 cod. civ. che “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda
”.
---------------
FATTO
   A. Espongono i ricorrenti di essere proprietari, nel Comune di Cologne (BS), di un immobile bifamiliare destinato a residenza, identificato in catasto al Fg. 9, mappale 77, sub. 8, 9 e 10.
   B. Alla luce delle esigenze abitative del nucleo, hanno presentato domanda di permesso di costruire per un intervento di demolizione del fabbricato esistente, per realizzare una nuova villa unifamiliare. Come illustrato nella relazione tecnica (doc. 5), i committenti hanno inteso trasformare l’edificio –composto da 2 unità immobiliari indipendenti che occupavano una superficie di 408,32 mq.– in una villa unifamiliare ad uso esclusivo del nucleo, con superficie complessiva di poco superiore (431,35 mq.) e un incremento volumetrico di 379,41 mc (cfr. doc. 5-bis).
   C. Il 28/05/2010 il Comune intimato rilasciava il titolo abilitativo, che assentiva l’intervento edilizio e lo assoggettava al pagamento del contributo ex art. 16 del DPR 380/2001 per 47.859,66 €, suddivisi in 29.008,48 € per costo di costruzione, 5.924,66 € per oneri di urbanizzazione primaria e 12.926,52 € per oneri di urbanizzazione secondaria.
   D. Gli esponenti ravvisavano l’erroneità dell’ammontare richiesto per la voce “oneri di urbanizzazione”, in quanto l’Ufficio Tecnico aveva applicato l’aliquota prevista per interventi di nuova costruzione e demo-ricostruzione all’intero immobile in progetto (per l’intero volume di 1.077,21 mc.) senza considerare la preesistenza di un fabbricato bifamiliare. Il versamento veniva eseguito integralmente, per evitare effetti pregiudizievoli sull’efficacia del permesso di costruire, con l’espressa riserva di tutela in sede giurisdizionale.
   E. Con gravame ritualmente notificato e tempestivamente depositato presso la Segreteria della Sezione i ricorrenti propongono azione di accertamento, assumendo la non debenza delle somme versate a titolo di oneri di urbanizzazione e deducendo la violazione dell’art. 16 del DPR 380/2001, nonché l’eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto e il difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto:
      a) l’edificio, in origine, era formato da due unità immobiliari al piano terra e al piano primo (2 appartamenti indipendenti e idonei per due nuclei, per una superficie totale pari a 408,32 mq.) mentre con l’intervento si è ricavato un manufatto unico da destinare ad abitazione principale, esteso per 431,35 mq.;
      b) l’art. 16 del T.U. Edilizia è stato interpretato nel senso che il pagamento degli oneri di urbanizzazione deve essere quantificato nella sola misura determinata dall’incremento del carico urbanistico;
      c) il contributo è un corrispettivo di diritto pubblico di natura non tributaria, il cui presupposto si rinviene nella domanda di maggiore dotazione di servizi nell’area di riferimento, indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’immobile realizzato;
      d) il Comune non ha verificato che l’intervento non ha incrementato il carico urbanistico preesistente, dal momento che un’abitazione singola ha sostituito due unità immobiliari ivi ubicate, con mantenimento della destinazione d’uso residenziale (non sorge alcuna necessità di potenziamento di strutture o servizi pubblici ed anzi il peso per la comunità sarà inferiore);
      e) l’aumento di superficie è del tutto trascurabile (23 mq.), mentre la variazione volumetrica è stata determinata dalla collocazione delle pertinenze accessorie (autorimessa e lavanderia) al piano terreno, con conseguente computo nella SLP e nel volume urbanisticamente rilevante;
      f) come si evince dalla relazione tecnica e dalla tavola di sovrapposizione (doc. 5 e 8), l’ingombro del nuovo fabbricato è inferiore, risultando più piccolo e meno profondo;
      g) in via subordinata, la pretesa creditoria deve comunque essere rapportata all’ampliamento dell’edificio in termini di metri cubi (maggior onere effettivo sul tessuto urbanistico), posto che il volume del fabbricato ante operam era pari a 697,81 mc. e dopo la ricostruzione ha raggiunto 1.077,21 mc. (l’obbligo di restituzione sarebbe pari a 12.211,68 €).
In conclusione, i ricorrenti chiedono la restituzione della somma indebitamente versata, con interessi dal versamento al saldo.
   F. Si è costituito in giudizio il Comune di Cologne, chiedendo la reiezione del gravame. Nei propri scritti difensivi puntualizza che la quota di contributo afferente all’incidenza degli oneri di urbanizzazione è dovuta per legge al rilascio del titolo edilizio, è individuata dal Consiglio comunale secondo tabelle parametriche predisposte dalla Regione e prescinde dalla verifica in concreto del maggior carico urbanistico indotto dalla nuova costruzione.
   G. Alla pubblica udienza del 10/01/2020 il gravame introduttivo è stato chiamato per la discussione e trattenuto in decisione.
DIRITTO
I ricorrenti, che hanno ottenuto il titolo abilitativo per i lavori di demo-ricostruzione di un edificio (da bifamiliare a unifamiliare), censurano la pretesa del Comune di esigere il pagamento della quota di oneri di urbanizzazione. La controversia ha quindi ad oggetto un giudizio di accertamento negativo in ordine all’obbligazione pecuniaria relativa al pagamento del contributo, nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, rispetto alla quale gli atti di liquidazione sono privi di contenuto ed effetti provvedimentale (Consiglio di Stato, sez. IV – 01/02/2017 n. 425).
Il gravame è parzialmente fondato e merita accoglimento, nei termini di seguito precisati.
1. Il Collegio richiama anzitutto i principi giurisprudenziali elaborati nella materia controversa, per cui il contributo concessorio (comprendente oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) è un’obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione edilizia (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 07/02/2017 n. 728) ed è qualificabile come corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici arrecati al nuovo manufatto (Consiglio di Stato, sez. IV – 29/10/2015 n. 4950; sentenza Sezione 04/04/2018 n. 449).
2. La disposizione che regola la fattispecie si rinviene all’art. 16 del DPR 380/2001 (rubricato “Contributo per il rilascio del permesso di costruire”), il quale dispone al comma 1 che “Salvo quanto disposto dall'articolo 17, comma 3, il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo e fatte salve le disposizioni concernenti gli interventi di trasformazione urbana complessi di cui al comma 2-bis”.
Nel caso di specie, è pacifica la natura dell’intervento, consistente nella demolizione di un edificio bifamiliare e ricostruzione di un fabbricato monofamiliare (villa con piscina di 1.077,22 mc. – cfr. doc. 3 e ss. del Comune).
3. Osserva il Collegio che, in linea generale, la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione dell’immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico (sentenza sez. I – 26/04/2018 n. 449).
Come ha statuito questo TAR di recente (cfr. sentenza Sezione I – 17/06/2019 n. 574, che non risulta appellata) <<Mentre il costo di costruzione rappresenta una compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare, gli oneri di urbanizzazione svolgono la funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della consentita attività edificatoria (TAR Piemonte, sez. I, 21.05.2018, n. 630). Essi sono pertanto dovuti nel caso di trasformazioni edilizie che, indipendentemente dall’esecuzione di opere, si rivelino produttive di vantaggi economici per il proprietario, determinando un aumento del carico urbanistico. Tale incremento può derivare anche da una mera modifica della destinazione d’uso di un immobile, mentre può non configurarsi nell’ipotesi di intervento edilizio con opere. … Secondo consolidata e risalente giurisprudenza il fondamento del contributo di urbanizzazione pertanto “non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità con la conseguenza che, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa” (Cons. Stato, Sez. V, 30.08.2013, n. 4326; id. ex multis TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 04.05.2009, n. 3604; Cons. Stato, Sez. V, 21.12.1994, n. 1563) …>>.
Anche il Consiglio di Stato (cfr. sentenza sez. II – 09/12/2019 n. 8377) ha chiarito che “In linea di diritto, cioè, mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all'entità (superficie e volumetria) dell'intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere all'amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla collettività di riferimento alla trasformazione del territorio consentita al privato istante (ossia, a compensare la c.d. compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova edificazione), la quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione "assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l'esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti" (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 07.05.2015, n. 2294; id., 29.08.2019, n. 5964)” (si veda anche Consiglio di Stato, sez. II – 21/10/2019 n. 7119).
4. In definitiva, il presupposto dell'onerosità della trasformazione edilizia è costituito dal maggior carico urbanistico determinato dall'intervento, per cui l'Ente locale deve richiedere il pagamento degli oneri se il peso insediativo aumenta, mentre non deve chiedere alcunché se non si verifica alcuna variazione.
5. Nel caso di specie può dirsi realizzato un aumento solo parziale del carico urbanistico, atteso che gli esponenti hanno trasformato l’edificio bifamiliare in unifamiliare, aumentandone il volume: ricorre pertanto il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento degli oneri di urbanizzazione limitatamente al surplus realizzato (in termini volumetrici).
Come ha rilevato TAR Lazio-Roma, sez. II-bis – 12/09/2019 n. 10887 <<Il Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato al riguardo che "in caso di intervento di ristrutturazione edilizia, dal contributo per gli oneri di urbanizzazione deve essere sottratto l'importo imputabile al carico urbanistico generato dall'edificio preesistente … (cfr. Cons. St., Sez. VI; 02.07.2015 n. 3298)>>.
Per effettuare il calcolo dovrà essere utilizzata la tabella adottata dal Comune di Cologne (doc. 8 amministrazione), che pre-determina in via generale ed astratta l’ammontare dovuto assumendo come unità di misura il metro cubo.
6. In conclusione, il ricorso deve essere parzialmente accolto, con l’accertamento della non debenza da parte degli esponenti –per l’intervento di demolizione e successiva ricostruzione– della quota degli oneri di urbanizzazione versati in eccedenza e con la condanna dell’amministrazione comunale alla restituzione del quantum indebitamente percepito, oltre agli interessi maturati dalla data di notificazione dell'atto introduttivo del presente giudizio.
Dispone infatti l’articolo 2033 cod. civ. che “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda”. In assenza di prova contraria, deve presumersi la buona fede dell’amministrazione comunale (cfr. sentenze sez. I – 20/05/2019 n. 499; sez. II – 02/05/2019 n. 426).
7. Il Comune intimato dovrà conseguentemente provvedere –entro 90 giorni dalla comunicazione della presente pronuncia– al ricalcolo, alla liquidazione del dovuto e al relativo pagamento. La somma dovrà essere maggiorata degli interessi, calcolati dalla data di notificazione del ricorso fino al saldo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.01.2020 n. 75 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa maggioritaria giurisprudenza si è evoluta nel senso che gli oneri di urbanizzazione sono dovuti (in ipotesi anche per il mero mutamento di destinazione d’uso senza opere) allorquando un intervento determini un maggiore carico urbanistico.
In senso analogo si è espresso il giudice d’appello, proprio in una fattispecie di sostituzione edilizia (demolizione/ricostruzione), nella quale si legge: “il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei servizi.
All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche. In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico”.
---------------

Le ricorrenti hanno adito l’intestato TAR deducendo di essere state rispettivamente proprietaria (F. s.r.l.) e titolare del relativo permesso di costruire volturato (Pr. s.r.l.) di un edificio in Torino via ... n. 8, originariamente suddiviso in 28 unità immobiliari a destinazione residenziale, oltre una porzione a deposito.
A partire dal 2000 si è dato corso ad un intervento di sostituzione edilizia, consistente nella demolizione delle strutture esistenti e loro integrale riedificazione; per assentire il progetto l’amministrazione ha reclamato il versamento di € 235.557,59, di cui € 172.099,66 a titolo di oneri di urbanizzazione.
Le società hanno dato corso al versamento (gli oneri sono stati versati per le ultime due rate dalla Pr. s.r.l. nelle more divenuta titolare del permesso di costruire), contestando tuttavia l’addebito in quanto l’intervento non avrebbe comportato alcun aumento di carico urbanistico e dunque non avrebbe giustificato l’applicazione di oneri.
L’intervento rientra nella disciplina di cui all’art. 4, co. 36, delle NTA del PRGC vigente, che consente di fatto di demolire l’esistente ricostruendolo nei limiti della SLP precedente. La ricostruzione ha portato alla realizzazione di 19 unità immobiliari in luogo di 28, oltre box auto, in area di PRG già classificata “consolidata residenziale”, e dunque urbanizzata. Il contributo di urbanizzazione, trovando causa nell’aumento di carico urbanistico, non avrebbe giustificazione nel caso di specie.
Hanno chiesto pertanto la restituzione di quanto corrisposto oltre interessi e rivalutazione monetaria.
...
Il ricorso risulta parzialmente fondato.
Deve premettersi che, come evidenziato dall’amministrazione, rispetto alle somme complessivamente versate menzionate in ricorso (contributo di costruzione ed oneri di urbanizzazione), la quota in effettiva contestazione è quella relativa agli oneri di urbanizzazione, quantificati dal Comune in € 172.099,60 e versati a rate in connessione con il rilascio del titolo.
E’ poi pacifico tra le parti che una parte delle preesistenti strutture non avesse destinazione residenziale; in particolare, come chiarito da una congiunta valutazione dei tecnici di parte, la volumetria in precedenza destinata ad attività produttiva era pari a mc. 425,73, corrispondenti ad oneri di urbanizzazione per € 21.243,92.
E’ ugualmente pacifico che, esclusa l’area a destinazione produttiva, le ricorrenti abbiano realizzato la sostituzione edilizia di un edificio per il resto già adibito ad uso residenziale ed in precedenza composto di 28 unità immobiliari; non vi è invece prova o evidenza alcuna in atti (né se ne fa cenno nel provvedimento impugnato) che le menzionate unità immobiliari, poi oggetto di un intervento radicale, fossero da tempo dismesse o praticamente inservibili, fattispecie alla quale si fa riferimento nelle difese dell’amministrazione ma che, per le ragioni indicate, non può essere presa in considerazione.
Ne consegue che l’immobile aveva già in precedenza una parziale destinazione residenziale, di cui aveva scontato gli oneri; d’altro canto, già in fase procedimentale, l’amministrazione, a fronte delle obiezioni circa l’importo calcolato a titolo di oneri di urbanizzazione si è limitata ad osservare che:
   - l’intervento non ricade in nessuno dei casi di esenzione previsti espressamente dall’art. 17 del d.p.r. n. 380/2001;
   - l’intervento ha comportato la sostituzione edilizia anche di una parte di strutture ad uso non residenziale e, per questa parte, ha comportato un aumento di carico urbanistico (cfr. doc. 6 di parte resistente, risposta del comune alla richiesta di ricalcolo).
Così configurata in fatto la fattispecie, dal punto di vista normativo, la maggioritaria giurisprudenza si è evoluta nel senso che gli oneri di urbanizzazione sono dovuti (in ipotesi anche per il mero mutamento di destinazione d’uso senza opere) allorquando un intervento determini un maggiore carico urbanistico (in tal senso Tar Piemonte, sez. I, n. 630/2018; Tar Brescia n. 449/2018).
In senso analogo si è espresso il giudice d’appello, proprio in una fattispecie di sostituzione edilizia realizzata nel comune di Torino, con la sentenza Cons. St. sez. IV, n. 4950/2015, nella quale si legge: “il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae. In effetti, gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio. Ciò posto, se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche. In sostanza, gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico. Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico” (Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611)”.
Condividendosi i principi sopra affermati ne consegue che, per la quota parte di edificio che trova corrispondenza nella pregressa SUL a destinazione residenziale, non si è realizzato alcun aumento di carico urbanistico e non sono dovuti, come in effetti lamentato in ricorso, gli oneri di urbanizzazione (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 07.01.2020 n. 20 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa trasformazione dei locali adibiti ad uso industriale in locali adibiti ad attività di culto -attraverso la realizzazione di opere interne con le quali sono state create, tra le altre, una cucina, due locali wc, etc.- ha implicato una modifica funzionale dei locali interessati con conseguente incidenza sul carico urbanistico.
La giurisprudenza amministrativa è pacifica nel ritenere che la trasformazione dell’immobile con incremento del carico urbanistico rappresenti una ristrutturazione edilizia subordinata al rilascio di apposito permesso di costruire.
---------------

5. Il ricorso non merita accoglimento.
La trasformazione dei locali adibiti ad uso industriale in locali adibiti ad attività di culto, compiuta dai ricorrenti attraverso la realizzazione di opere interne con le quali sono state create, tra le altre, una cucina, due locali wc, etc. ha implicato una modifica funzionale dei locali interessati con conseguente incidenza sul carico urbanistico.
La giurisprudenza amministrativa è pacifica nel ritenere che la trasformazione dell’immobile con incremento del carico urbanistico rappresenti una ristrutturazione edilizia subordinata al rilascio di apposito permesso di costruire.
Ai sensi dell’art. 3, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001, infatti, per “interventi di ristrutturazione edilizia" si intendono: gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l’eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Per tali interventi e per l’insieme sistematico di opere che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, il successivo art. 10 richiede che il privato sia preventivamente in possesso di apposito permesso di costruire.
Nel caso di specie, invece, vi è assenza del titolo edilizio richiesto per il mutamento della destinazione d’uso originariamente assentita e la contestuale realizzazione di opere interne idonee ad incidere sul carico urbanistico (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 21.11.2019 n. 2918 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAGiusta la disposizione ex art. 16 dpr 380/2001, il legislatore ha stabilito, evidentemente al fine di contemperare i contrapposti interessi, che l’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione scatta solo nel momento in cui si prospetta la concreta possibilità di sfruttamento del fondo, nei limiti in cui tale sfruttamento ha luogo, della qual cosa il rilascio del permesso di costruire dà evidenza: ciò sul presupposto che l’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione realizza, in chiave solidaristica, il contributo di ogni proprietario di suoli alla realizzazione delle opere necessarie per consentire ai cittadini di accedere ai servizi che debbono considerarsi indispensabili alla vita moderna, ed inoltre sul presupposto che tale concorso deve essere proporzionale all’effettiva richiesta di tali servizi, in proporzione, cioè, al c.d. aumento del carico urbanistico.
Si è quindi formato un consolidato orientamento di giurisprudenza secondo cui l’obbligo di contribuzione è indissolubilmente correlato all’effettivo esercizio dello ius aedificandi, essendo gli oneri di urbanizzazione, e di costruzione, oggetto di una obbligazione ex lege, che ne collega la debenza alla specifica trasformazione del territorio oggetto del titolo, conseguendo da ciò che se l’edificazione non ha luogo, in tutto o in parte, le somme già corrisposte a titolo di oneri di urbanizzazione, e/o di costo di costruzione, danno luogo ad un indebito, fonte di un obbligo restitutorio.
La giurisprudenza, tuttavia, ha anche affermato che il ricordato principio vale solo nel caso in cui il pagamento degli oneri di urbanizzazione, o il costo di costruzione, trovi origine, direttamente e soltanto, in un titolo edilizio, versandosi in tal caso in una obbligazione ex lege. Viceversa, ove l’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione, nonché del costo di costruzione, sia fatto oggetto di una convenzione urbanistica, esso assume natura convenzionale e trova causa nella convenzione di lottizzazione, nell’ambito della quale tale debenza deve essere valutata e rapportata alla intera operazione, la cui complessiva remuneratività “costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma a base dell’accordo e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni assunti”.
E stato infatti puntualizzato che “La causa della convenzione urbanistica, e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, in particolare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale della convenzione, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione” e che, inoltre, “non è affatto escluso dal sistema che un operatore, nella convenzione urbanistica, possa assumere oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera scelta volta al benessere della collettività locale), rientrante nella ordinaria autonomia privata, non contrastante di per sé con norme imperative”.
...
Il Collegio non ritiene di doversi discostarsi da tale orientamento, anche per la ragione che le convenzioni urbanistiche, ancorché le si voglia qualificare come contratti pubblici, sono riconducibili ad accordi sostitutivi di atti amministrativi che, ai sensi dell’art. 11 della L. 241/1990, sono soggetti alle norme di diritto privato.
Segue da tale constatazione che per effetto della avvenuta stipula di una convenzione urbanistica che recepisca l’obbligo, per la parte privata, di pagare gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione, tale obbligo assume natura convenzionale, risultando assistito da una causa che è costituita, appunto, dalla convenzione urbanistica e dal complesso delle pattuizioni in essa contenute, così che l’eventuale venir meno dell’obbligo di che trattasi può determinarsi solo per il venir meno della stessa convenzione urbanistica, che, secondo i principi civilistici, può essere risolta consensualmente o per le altre cause indicate nel codice civile.
Del resto, la stipula di una convenzione urbanistica fa nascere sicuramente, in capo alla amministrazione comunale, un affidamento circa il pagamento degli oneri di urbanizzazione ivi previsti, nonché circa la completa attuazione della convenzione, e proprio tale affidamento legittima l’amministrazione medesima ad utilizzare le somme nel frattempo già versate per la realizzazione di opere di urbanizzazione, che tra l’altro, nel caso di opere di urbanizzazione secondaria, sono di fruizione collettiva e servono gli abitanti di più quartieri: la pretesa della parte privata di una convenzione urbanistica, tesa ad ottenere il rimborso di quanto corrisposto per oneri di urbanizzazione in dipendenza della mancata attuazione, in tutto o in parte della lottizzazione, rischia, allora, di creare gravi squilibri, che giustificano l’affermazione secondo cui fintanto che la convenzione urbanistica non viene invalidata o risolta, essa costituisce una giusta causa di ritenzione di tali somme da parte dell’amministrazione, e, correlativamente, l’eventuale restituzione di esse non può che passare da un accordo consensuale o –come già precisato– da altra forma di invalidazione/risoluzione della convenzione, che all’occorrenza deve essere fatta oggetto di specifica azione giudiziale.
L’eventuale arricchimento per il Comune derivante dalla mancata attuazione, totale o parziale, della convenzione urbanistica, deve, a maggior ragione, essere fatta valere espressamente, ai sensi dell’art. 2041 del codice civile, con azione che ha natura sussidiaria e che, quindi, richiede preliminarmente, l’esperimento e l’esaurimento di ogni altro mezzo di tutela del soggetto che si ritiene impoverito.
---------------

10. Il ricorso è infondato.
11. Va ricordato, preliminarmente, che l’obbligo di pagare gli oneri di urbanizzazione trova causa nella normativa di settore, attualmente rappresentata dall’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, il quale, contiene le seguenti previsioni:
   “1. Salvo quanto disposto dall'articolo 17, comma 3, il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo.
   2. La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune .
   …………….
   3. La quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio, è corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione.
   4. L'incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche……
   ……………..
   7. Gli oneri di urbanizzazione primaria sono relativi ai seguenti interventi: strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato.
   7-bis. Tra gli interventi di urbanizzazione primaria di cui al comma 7 rientrano i cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazioni, salvo nelle aree individuate dai comuni sulla base dei criteri definiti dalle regioni.
   8. Gli oneri di urbanizzazione secondaria sono relativi ai seguenti interventi: asili nido e scuole materne, scuole dell'obbligo nonché strutture e complessi per l'istruzione superiore all'obbligo, mercati di quartiere, delegazioni comunali, chiese e altri edifici religiosi, impianti sportivi di quartiere, aree verdi di quartiere, centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie. Nelle attrezzature sanitarie sono ricomprese le opere, le costruzioni e gli impianti destinati allo smaltimento, al riciclaggio o alla distruzione dei rifiuti urbani, speciali, pericolosi, solidi e liquidi, alla bonifica di aree inquinate...
”.
12. Come si può constatare, il legislatore ha stabilito, evidentemente al fine di contemperare i contrapposti interessi, che l’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione scatta solo nel momento in cui si prospetta la concreta possibilità di sfruttamento del fondo, nei limiti in cui tale sfruttamento ha luogo, della qual cosa il rilascio del permesso di costruire dà evidenza: ciò sul presupposto che l’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione realizza, in chiave solidaristica, il contributo di ogni proprietario di suoli alla realizzazione delle opere necessarie per consentire ai cittadini di accedere ai servizi che debbono considerarsi indispensabili alla vita moderna, ed inoltre sul presupposto che tale concorso deve essere proporzionale all’effettiva richiesta di tali servizi, in proporzione, cioè, al c.d. aumento del carico urbanistico.
13. Si è quindi formato un consolidato orientamento di giurisprudenza secondo cui l’obbligo di contribuzione è indissolubilmente correlato all’effettivo esercizio dello ius aedificandi, essendo gli oneri di urbanizzazione, e di costruzione, oggetto di una obbligazione ex lege, che ne collega la debenza alla specifica trasformazione del territorio oggetto del titolo, conseguendo da ciò che se l’edificazione non ha luogo, in tutto o in parte, le somme già corrisposte a titolo di oneri di urbanizzazione, e/o di costo di costruzione, danno luogo ad un indebito, fonte di un obbligo restitutorio (tra le più recenti: C.d.S., Sez. IV, 04.10.2019, n. 6668).
14. La giurisprudenza, tuttavia, ha anche affermato che il ricordato principio vale solo nel caso in cui il pagamento degli oneri di urbanizzazione, o il costo di costruzione, trovi origine, direttamente e soltanto, in un titolo edilizio, versandosi in tal caso in una obbligazione ex lege. Viceversa, ove l’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione, nonché del costo di costruzione, sia fatto oggetto di una convenzione urbanistica, esso assume natura convenzionale e trova causa nella convenzione di lottizzazione, nell’ambito della quale tale debenza deve essere valutata e rapportata alla intera operazione, la cui complessiva remuneratività “costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma a base dell’accordo e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni assunti (cfr. Cons. Stato, IV, 15.02.2019, n. 1069)” (C.d.S., Sez. IV, 04.10.2019, n. 6668).
E stato infatti puntualizzato che “La causa della convenzione urbanistica, e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, in particolare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale della convenzione, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione (Cons. Stato, V, 26.11.2013, n. 5603)” e che, inoltre, “non è affatto escluso dal sistema che un operatore, nella convenzione urbanistica, possa assumere oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera scelta volta al benessere della collettività locale), rientrante nella ordinaria autonomia privata, non contrastante di per sé con norme imperative” (C.d.S., Sez. IV, 04.10.2019, n. 6668).
15. Il Collegio non ritiene di doversi discostarsi da tale orientamento, anche per la ragione, correttamente prospettata nelle difese del Comune, che le convenzioni urbanistiche, ancorché le si voglia qualificare come contratti pubblici, sono riconducibili ad accordi sostitutivi di atti amministrativi che, ai sensi dell’art. 11 della L. 241/1990, sono soggetti alle norme di diritto privato (tra le più recenti: C.d.S., Sez. II, 29/07/2019 n. 5304; Consiglio di Stato sez. IV, 07/05/2015, n. 2313; Consiglio di Stato sez. IV, 26/09/2013, n. 4810).
16. Segue da tale constatazione che per effetto della avvenuta stipula di una convenzione urbanistica che recepisca l’obbligo, per la parte privata, di pagare gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione, tale obbligo assume natura convenzionale, risultando assistito da una causa che è costituita, appunto, dalla convenzione urbanistica e dal complesso delle pattuizioni in essa contenute, così che l’eventuale venir meno dell’obbligo di che trattasi può determinarsi solo per il venir meno della stessa convenzione urbanistica, che, secondo i principi civilistici, può essere risolta consensualmente o per le altre cause indicate nel codice civile.
16.1. Del resto, la stipula di una convenzione urbanistica fa nascere sicuramente, in capo alla amministrazione comunale, un affidamento circa il pagamento degli oneri di urbanizzazione ivi previsti, nonché circa la completa attuazione della convenzione, e proprio tale affidamento legittima l’amministrazione medesima ad utilizzare le somme nel frattempo già versate per la realizzazione di opere di urbanizzazione, che tra l’altro, nel caso di opere di urbanizzazione secondaria, sono di fruizione collettiva e servono gli abitanti di più quartieri: la pretesa della parte privata di una convenzione urbanistica, tesa ad ottenere il rimborso di quanto corrisposto per oneri di urbanizzazione in dipendenza della mancata attuazione, in tutto o in parte della lottizzazione, rischia, allora, di creare gravi squilibri, che giustificano l’affermazione secondo cui fintanto che la convenzione urbanistica non viene invalidata o risolta, essa costituisce una giusta causa di ritenzione di tali somme da parte dell’amministrazione, e, correlativamente, l’eventuale restituzione di esse non può che passare da un accordo consensuale o –come già precisato– da altra forma di invalidazione/risoluzione della convenzione, che all’occorrenza deve essere fatta oggetto di specifica azione giudiziale.
L’eventuale arricchimento per il Comune derivante dalla mancata attuazione, totale o parziale, della convenzione urbanistica, deve, a maggior ragione, essere fatta valere espressamente, ai sensi dell’art. 2041 del codice civile, con azione che ha natura sussidiaria e che, quindi, richiede preliminarmente, l’esperimento e l’esaurimento di ogni altro mezzo di tutela del soggetto che si ritiene impoverito (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 28.10.2019 n. 1090 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La demolizione e fedele ricostruzione dell’originario edificio, quanto a sagoma e volumetria, non sconta il pagamento degli oo.uu. poiché non v'è incremento del carico urbanistico.
Se il contributo per oneri di urbanizzazione costituisce un corrispettivo di diritto pubblico previsto dal legislatore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese che l'Amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell'edificio e del connesso utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti, la sua debenza non dipende tanto, ai sensi degli artt. 16 e 22 del DPR n. 380/2001, dalla tipologia del titolo abilitativo richiesto (permesso di costruire o DIA, oggi SCIA) per la realizzazione delle opere, quanto, piuttosto, dalla natura e dagli effetti dell’intervento edilizio posto in essere. Di aumento o meno, appunto, del carico antropico.
Invero, “il criterio discretivo tra l’intervento di demolizione e ricostruzione e la nuova costruzione è costituito, nel primo caso, dall’assenza di variazioni di volume dell’altezza e della sagoma dell’edificio per cui, in assenza di tali indefettibili e precise condizioni, si deve parlare di intervento equiparabile a nuova costruzione, da assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente attività edilizia. Detti criteri vanno osservati con particolare rigore, specie a seguito dell'ampliamento della categoria della demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301/2002, dato che, proprio perché non vi è più il limite della fedele ricostruzione, si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti gli elementi fondamentali, in particolare per i volumi per cui la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, deve conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio deve riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi”.
Altresì, “il presupposto dell’onerosità della trasformazione edilizia … è costituito dal maggior carico urbanistico determinato dall’intervento, per cui l’Ente locale deve richiedere il pagamento degli oneri se il peso insediativo aumenta, mentre non deve chiedere alcunché se non si verifica alcuna variazione del carico urbanistico” sicché, per tale motivo, “è solo nell’ipotesi di <<ristrutturazione ricostruttiva>> (come definita dalla Giurisprudenza) che gli oneri di urbanizzazione potrebbero al più ritenersi non dovuti, non anche quando, in ossequio alla prescrizione normativa, l’intervento risulti caratterizzato da una <<trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio>>”.
Il Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato al riguardo che “in caso di intervento di ristrutturazione edilizia, dal contributo per gli oneri di urbanizzazione deve essere sottratto l'importo imputabile al carico urbanistico generato dall'edificio preesistente e, laddove la costruzione originaria sia stata realizzata in un periodo antecedente (all’introduzione dell')…istituto del contributo concessorio, il relativo onere deve ritenersi assolto virtualmente, visto che, in caso contrario, verrebbe data un'inammissibile applicazione retroattiva alla sopravvenuta disciplina impositiva”.
---------------

Con il ricorso in epigrafe il [omissis] ha chiesto al Tribunale di “accertare il (suo) diritto … all’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria relativi all’intervento di demolizione e ricostruzione del fabbricato condominiale e… condannare il Comune di Roma … al rimborso della somma di € 78.518,68 corrisposta… per tale causale, oltre rivalutazione monetaria ed interessi come per legge”.
...
Con il ricorso in epigrafe il [omissis] ha dedotto:
   - a) di aver presentato in data 31.07.2003 denuncia di inizio attività dei lavori di demolizione e ricostruzione dell’edificio condominiale, divenuto del tutto inagibile a causa di un precario equilibrio strutturale;
   - b) di essersi vista richiedere da Roma Capitale per tale intervento il pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria;
   - c) di aver provveduto “al solo fine di impedire l’interruzione del procedimento instaurato con il deposito della DIA” all’elaborazione di una perizia asseverata estimativa per la determinazione dei suddetti oneri ed al versamento, “in via cautelativa”, delle relative somme, in data 29.09.2004;
   - d) di aver posto in essere un semplice intervento di recupero edilizio, che si sostanziava nella demolizione e fedele ricostruzione dell’originario edificio quanto a sagoma e volumetria e, in quanto tale, avrebbe dovuto essere considerato esente da qualsiasi onere contributivo;
   - e) di aver reclamato invano il rimborso degli oneri versati senza ricevere alcuna risposta dall’Amministrazione Comunale.
Alla luce di tali circostanze il [omissis] ha, quindi, chiesto al Tribunale di accertare il suo diritto all’esenzione dal pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria e di condannare Roma Capitale alla rifusione della somma di € 78.518,68 già corrisposta, lamentando la violazione da parte dell’Amministrazione del DPR n. 380/2001 ed eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di istruttoria ed omessa motivazione circa le ragioni alla base della affermata debenza degli oneri.
Tali censure sono fondate e meritevoli di accoglimento.
Nel caso di specie, l'intervento edilizio, attuato tramite DIA non ha comportato un aumento del carico urbanistico, in quanto ha previsto la demolizione di un fabbricato divenuto ormai pericolante e la sua successiva riedificazione con pari volumetria, stessa sagoma e medesimi prospetti.
L'edificio risultante dalla ristrutturazione ha conservato, dunque, la stessa volumetria, le medesime caratteristiche e la stessa destinazione d'uso dell'edificio precedente, non determinando alcuna modifica dei parametri e del carico urbanistico.
Se, perciò, il contributo per oneri di urbanizzazione costituisce un corrispettivo di diritto pubblico previsto dal legislatore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese che l'Amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell'edificio e del connesso utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti, la sua debenza, come ricordato anche da Roma Capitale nelle sue difese, non dipende tanto, ai sensi degli artt. 16 e 22 del DPR n. 380/2001, dalla tipologia del titolo abilitativo richiesto (permesso di costruire o DIA, oggi SCIA) per la realizzazione delle opere, quanto, piuttosto, dalla natura e dagli effetti dell’intervento edilizio posto in essere. Di aumento o meno, appunto, del carico antropico.
Come evidenziato anche da questo Tribunale (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II-quater, 06.11.2018 n. 10729) “il criterio discretivo tra l’intervento di demolizione e ricostruzione e la nuova costruzione è costituito, nel primo caso, dall’assenza di variazioni di volume dell’altezza e della sagoma dell’edificio per cui, in assenza di tali indefettibili e precise condizioni, si deve parlare di intervento equiparabile a nuova costruzione, da assoggettarsi alle regole proprie della corrispondente attività edilizia. Detti criteri vanno osservati con particolare rigore, specie a seguito dell'ampliamento della categoria della demolizione e ricostruzione operata dal d.lgs. n. 301/2002, dato che, proprio perché non vi è più il limite della fedele ricostruzione, si richiede la conservazione delle caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente nel senso che debbono essere presenti gli elementi fondamentali, in particolare per i volumi per cui la ristrutturazione edilizia, per essere tale e non finire per coincidere con la nuova costruzione, deve conservare le caratteristiche fondamentali dell'edificio preesistente e la successiva ricostruzione dell'edificio deve riprodurre le precedenti linee fondamentali quanto a sagoma, superfici e volumi”.
La stessa Amministrazione Comunale ha, poi, riconosciuto che “il presupposto dell’onerosità della trasformazione edilizia … è costituito dal maggior carico urbanistico determinato dall’intervento, per cui l’Ente locale deve richiedere il pagamento degli oneri se il peso insediativo aumenta, mentre non deve chiedere alcunché se non si verifica alcuna variazione del carico urbanistico” e che, per tale motivo, “è solo nell’ipotesi di <<ristrutturazione ricostruttiva>> (come definita dalla Giurisprudenza: Cons. Stato Sez. IV, 07.04.2015 n. 1763; 09.05.2014 n. 2384; 06.07.2012 n. 3970) che gli oneri di urbanizzazione potrebbero al più ritenersi non dovuti, non anche quando, in ossequio alla prescrizione normativa, l’intervento risulti caratterizzato da una <<trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio>>”.
Dagli atti di causa l’intervento posto in essere dal [omissis] ricorrente risulta appartenere proprio al genus della “ristrutturazione ricostruttiva”, constando nella demolizione e nella fedele ricostruzione di un fabbricato degli anni ’50 che, divenuto ormai pericolante, non risultava altrimenti recuperabile.
Né l’Amministrazione Comunale, nell’esigere dal ricorrente il pagamento degli oneri di urbanizzazione nel corso del procedimento o nell’ambito del presente giudizio, dinanzi alle precise doglianze del ricorrente, ha motivato in alcun modo la sua pretesa, esponendo le ragioni per cui il carico urbanistico e, dunque, il peso antropico dell’edificio ricostruito avrebbe dovuto essere considerato comunque aumentato rispetto a quello del fabbricato precedente, così da rendere necessaria un’integrazione di quanto eventualmente già versato.
Il Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato al riguardo che “in caso di intervento di ristrutturazione edilizia, dal contributo per gli oneri di urbanizzazione deve essere sottratto l'importo imputabile al carico urbanistico generato dall'edificio preesistente e, laddove la costruzione originaria sia stata realizzata in un periodo antecedente (all’introduzione dell')…istituto del contributo concessorio, il relativo onere deve ritenersi assolto virtualmente, visto che, in caso contrario, verrebbe data un'inammissibile applicazione retroattiva alla sopravvenuta disciplina impositiva” (cfr. Cons. St., Sez. VI; 02.07.2015 n. 3298).
In conclusione, il ricorso deve essere, perciò, accolto, con l’accertamento della non debenza da parte del [omissis] ricorrente, per l’intervento di demolizione e ricostruzione dell’edificio condominiale con medesima sagoma, altezza, volumetria e destinazione del precedente, degli oneri di urbanizzazione e condanna di Roma Capitale alla restituzione delle relative somme versate da [omissis] a tale titolo, oltre interessi legali dalla notifica del ricorso.
Trattandosi di un debito di valuta per la restituzione di somme indebitamente versate, deve essere, infine, respinta la richiesta di corresponsione della rivalutazione monetaria (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 12.09.2019 n. 10887 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La demolizione/ricostruzione di un fabbricato, addirittura con diminuzione del volume (nel caso di specie), non deve scontare il pagamento degli oneri di urbanizzazione poiché non sussiste un incremento del carico urbanistico.
La controversia investe la questione circa la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione degli oneri di urbanizzazione previsti dall’articolo 16 del dpr 380/2001. Prevede tale disposizione che: “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
Invero, mentre il costo di costruzione rappresenta una compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare, gli oneri di urbanizzazione svolgono la funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della consentita attività edificatoria. Essi sono pertanto dovuti nel caso di trasformazioni edilizie che, indipendentemente dall’esecuzione di opere, si rivelino produttive di vantaggi economici per il proprietario, determinando un aumento del carico urbanistico. Tale incremento può derivare anche da una mera modifica della destinazione d’uso di un immobile, mentre può non configurarsi nell’ipotesi di intervento edilizio con opere.
Secondo consolidata e risalente giurisprudenza il fondamento del contributo di urbanizzazione pertanto “non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità con la conseguenza che, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa”.
Pertanto “la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l'intervento determini un incremento del peso insediativo con un'oggettiva rivalutazione dell'immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio-economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico”.
---------------
Nel caso di specie non può dirsi realizzato un aumento del carico urbanistico, atteso che gli esponenti hanno trasformato l’edificio bifamiliare in unifamiliare, riducendone anche la S.L.P. Non ricorre pertanto il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Ne consegue la fondatezza del ricorso, che deve essere accolto, con la condanna dell’amministrazione comunale resistente alla restituzione degli oneri di urbanizzazione indebitamente percepiti, pari ad euro 11.446,81, oltre agli interessi maturati dalla data di notificazione dell'atto introduttivo del presente giudizio.
Dispone infatti l’articolo 2033 cod. civ. che “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda”. In assenza di prova contraria deve infatti presumersi la buona fede dell’amministrazione comunale. Non è, invece, dovuta la rivalutazione monetaria.
---------------

FATTO
1. I signori An.Ma.So. e Da.Vi., proprietari di un fabbricato sito nel Comune di Cremona, con ricorso depositato in data 22.05.2014 hanno chiesto l’accertamento della non debenza, e quindi la restituzione, degli oneri di urbanizzazione imposti dall’amministrazione per l’intervento di ristrutturazione del loro immobile. Nel corso del giudizio, deceduto il signor Vi., si sono costituiti in giudizio gli eredi, indicati in epigrafe.
2. Espongono i ricorrenti che l’edificio era originariamente disposto su tre piani ed aveva utilizzo bifamiliare e che, in ragione del suo stato di vetustà, lo avevano demolito e ricostruito, trasformandolo in un’unica unità immobiliare con autorimessa accessoria. La Superficie Lorda di Pavimento (S.L.P.) era stata ridotta con l’intervento da 180,40 mq a 153,06 mq.
3. L’amministrazione comunale, dopo la richiesta di verifica della non onerosità della DIA formulata dal tecnico dei proprietari, ha comunicato di ritenere l’intervento soggetto al contributo concessorio ai sensi dell’articolo 16 del d.P.R. 380/2001 (Testo unico dell’edilizia) per essere l’abitazione di carattere bifamiliare.
4. L’importo da versare è stato quantificato in complessivi 19.940,42 euro, di cui 1.956,72 euro per oneri di urbanizzazione primaria, 9.490,09 per oneri di urbanizzazione secondaria e 8.493,61 quale costo di costruzione.
5. Con il gravame proposto i ricorrenti censurano la pretesa del comune per “violazione o falsa applicazione dell’art. 16 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380. Eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e diritto e difetto di motivazione”. Denunciano che il contributo per oneri di urbanizzazione è previsto solo per interventi edilizi che determinano un aumento del carico urbanistico dell’area in cui è localizzato e che nel caso di specie detto aumento non si è realizzato, atteso che essi hanno trasformato un’abitazione bifamiliare in unifamiliare e ne hanno ridotto la S.L.P.
6. A tale argomento il Comune, costituitosi in giudizio, contrappone il richiamo al tenore letterale dell’articolo 17, comma 3, lett. b), del d.P.R. 380/2001, che prevede l’esenzione dal contributo di costruzione “per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”, evidenziando che il requisito della unifamiliarità dell’edificio deve sussistere sia prima che dopo l’intervento edilizio.
...
DIRITTO
1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
2. Il comune resistente deduce che l’esonero previsto dall’articolo 17 del d.P.R. 380/2001 per l’ampliamento di edifici unifamiliari non troverebbe applicazione al caso di specie, perché l’intervento edilizio di cui è questione è stato effettuato su un edificio originariamente bifamiliare; l’amministrazione sottolinea la natura eccezionale delle esenzioni dal contributo e richiama un precedente conforme pronunciamento di questo Tribunale.
3. L’argomento non coglie nel segno.
4. La controversia non verte sulla verifica della ricorrenza delle condizioni poste dal richiamato articolo 17 del Testo unico ai fini dell’esonero dal contributo di costruzione, ma investe una questione logicamente antecedente, ovvero la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione degli oneri di urbanizzazione previsti dall’articolo 16 del medesimo testo normativo.
5. Prevede tale disposizione che: “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
6. Mentre il costo di costruzione rappresenta una compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare, gli oneri di urbanizzazione svolgono la funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della consentita attività edificatoria (TAR Piemonte, sez. I, 21.05.2018, n. 630). Essi sono pertanto dovuti nel caso di trasformazioni edilizie che, indipendentemente dall’esecuzione di opere, si rivelino produttive di vantaggi economici per il proprietario, determinando un aumento del carico urbanistico. Tale incremento può derivare anche da una mera modifica della destinazione d’uso di un immobile, mentre può non configurarsi nell’ipotesi di intervento edilizio con opere.
7. Secondo consolidata e risalente giurisprudenza il fondamento del contributo di urbanizzazione pertanto “non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime secondo modalità eque per la comunità con la conseguenza che, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa” (Cons. Stato, Sez. V, 30.08.2013, n. 4326; id. ex multis TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 04.05.2009, n. 3604; Cons. Stato, Sez. V, 21.12.1994, n. 1563).
Pertanto “la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l'intervento determini un incremento del peso insediativo con un'oggettiva rivalutazione dell'immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico” (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 26.04.2018, n. 449).
8. Nel caso di specie non può dirsi realizzato un aumento del carico urbanistico, atteso che gli esponenti hanno trasformato l’edificio bifamiliare in unifamiliare, riducendone anche la S.L.P. Non ricorre pertanto il presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento degli oneri di urbanizzazione.
9. Ne consegue la fondatezza del ricorso, che deve essere accolto, con la condanna dell’amministrazione comunale resistente alla restituzione degli oneri di urbanizzazione indebitamente percepiti, pari ad euro 11.446,81, oltre agli interessi maturati dalla data di notificazione dell'atto introduttivo del presente giudizio.
Dispone infatti l’articolo 2033 cod. civ. che “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda”. In assenza di prova contraria deve infatti presumersi la buona fede dell’amministrazione comunale. Non è, invece, dovuta la rivalutazione monetaria (conformi: TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 20.05.2019, n. 499 e le pronunce ivi richiamate; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 02.05.2019, n. 426) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 17.06.2019 n. 574 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico.
---------------

5. Il quarto motivo, fondato sull’erronea qualificazione dell’intervento quale modificazione della destinazione d’uso invece che come nuova costruzione, è infondato in quanto da esso non possono derivarsi conseguenze ai fini della sottrazione all’individuazione e quantificazione degli standard edilizi. Lo stesso vale per la discussione relativa alla destinazione commerciale o industriale del precedente manufatto. Infatti è consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico (TAR Piemonte, sez. I, 26.11.2003 n. 1675 e, da ultimo, TAR Piemonte, sez. II, 16.09.2013 n. 1009; Cons. Stato, sez. IV, 29.04.2004, n. 2611).
Nel caso di specie la sostituzione edilizia di un edificio di due piani fuori terra, destinato a parcheggio privato a pagamento e residenza, con due nuovi edifici di 7 e 5 piani fuori terra, interamente destinati a residenza, ha sicuramente comportato un aumento del carico urbanistico. A ciò si aggiunge che, se occorre verificare in concreto l’aumento del carico urbanistico nel caso di trasformazione dell’esistente, deve ritenersi che la nuova costruzione comporti sempre un aumento del carico urbanistico. Il riferimento nell’atto impugnato al mutamento d’uso è quindi riferibile al carico urbanistico e non al titolo in base al quale è stato effettuato l’intervento.
Il motivo va quindi respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.10.2018 n. 2198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASussiste l'obbligo di corrispondere il contributo di costruzione per la ricostruzione di una porzione di fabbricato crollata a seguito di un incendio.
Il permesso di costruire è provvedimento naturalmente oneroso di modo che le norme di esenzione devono essere interpretate come “eccezioni” ad una regola generale (e da considerarsi, quindi, di stretta interpretazione), non essendo consentito alla stessa potestà legislativa concorrente di ampliare le ipotesi al di là delle indicazioni della legislazione statale, da ritenersi quali principi fondamentali in tema di governo del territorio.
---------------
L’art. 17, co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001 prevede la esenzione dal contributo di costruzione “per gli interventi da realizzare in attuazione di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità”. Si tratta di due distinte ipotesi, ambedue sorrette dal presupposto della “pubblica calamità”.
Quest’ultima deve essere intesa come un evento imprevisto e dannoso che, per caratteristiche, estensione, potenzialità offensiva sia tale da colpire e/o mettere in pericolo non solo una o più persone o beni determinati, bensì una intera ed indistinta collettività di persone ed una pluralità non definibile di beni, pubblici o privati.
Ciò che caratterizza, dunque, il carattere “pubblico” della calamità e la differenzia da altri eventi dannosi, pur gravi, è la riferibilità dell’evento (in termini di danno e di pericolo) a una comunità, ovvero ad una pluralità non definibile di persone e cose, laddove, negli altri casi, l’evento colpisce (ed è dunque circoscritto) a singoli, specifici soggetti o beni e, come tale, è affrontabile con ordinarie misure di intervento.
Se, dunque, l’evento deve caratterizzarsi per straordinarietà, imprevedibilità e una portata tale da essere “anche solo potenzialmente pericoloso per la collettività”, ciò non è, tuttavia, sufficiente a qualificarlo quale “calamità pubblica”, posto che deve comunque trattarsi di un evento non afferente a beni determinati e non affrontabile e risolvibile con ordinari strumenti di intervento, sia sul piano concreto che su quello degli atti amministrativi.
In senso riconducibile al concetto ora espresso, gli artt. 2, co. 1, lett. c) e 5 l. 24.02.1992 n. 225, prevedono il conferimento di poteri straordinari di ordinanza per il caso di “calamità naturali” (e, come tali, “pubbliche”), e l’art. 54 DPR 08.08.2000 n. 267, conferisce al Sindaco, quale Ufficiale di Governo, il potere (delegabile nei limiti previsti dal medesimo articolo) di emanare ordinanze contingibili ed urgenti “al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”; potere di ordinanza che va tenuto distinto da quello, di carattere “ordinario” e riferito al Sindaco quale rappresentante della comunità locale, previsto dall’art. 50 del medesimo Testo Unico degli Enti locali.
In conclusione, perché possa ricorrere l’ipotesi di esenzione di cui all’art. 17 cit., occorre che gli interventi da realizzare costituiscano attuazione di norme o di provvedimenti amministrativi che espressamente li prevedono (e non siano invece effetto di una scelta volontaria del soggetto, sia pure in conseguenza di provvedimenti emanati), e che siano stati adottati a seguito di eventi eccezionali, dannosi o pericolosi per la collettività, tali da richiedere l’esercizio di poteri straordinari.
Nel caso di specie, l’incendio che ha colpito l’immobile della società ricorrente, se pur grave e tale da poter divenire fonte di pericolo per la collettività, ove non tempestivamente circoscritto, tuttavia si caratterizza quale evento che ha colpito beni specifici e che, per dimensioni, caratteristiche ed intensità, è stato tale da non richiedere particolari interventi di contrasto o esercizio di poteri straordinari. Ne consegue, quindi, la inapplicabilità dell’esenzione di cui all’art. 17, co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001.
---------------

... per la riforma della sentenza 25.05.2016 n. 1079 del TAR LOMBARDIA-MILANO, SEZ. II, resa tra le parti, concernente quantificazione contributo di costruzione a fronte del rilascio del permesso di costruire.
...
1. Con l’appello in esame, la società Nu.Gu. e Ra. s.r.l. impugna la sentenza 25.05.2016 n. 1079, con la quale il TAR per la Lombardia, sez. II, ha respinto il suo ricorso avverso il provvedimento del Responsabile del Settore governo del territorio del Comune di Monza 11.04.2015, nella parte in cui con tale provvedimento, oltre a rilasciare il richiesto permesso di costruire, è stato richiesto il versamento del contributo di costruzione per un importo di Euro 257.377,54.
La società espone di essere proprietaria di un immobile a destinazione produttiva, realizzato sulla base di concessione edilizia del 1985 e di aver dovuto richiedere nuovo titolo edilizio, al fine di ricostruire una porzione del fabbricato, crollata a seguito di un incendio; tanto anche per ottemperare ad una ordinanza emessa in data 24.09.2012 dal Comune di Monza, di ripristino delle condizioni minime di sicurezza delle unità interessate dall’incendio.
La presente controversia concerne, in sostanza, la sussistenza dell’obbligo di corrispondere il richiesto contributo di costruzione, in occasione di interventi edilizi effettuati nelle circostanze come innanzi descritte.
La sentenza impugnata afferma, in particolare:
   - non ricorre il motivo di esenzione dal pagamento del contributo di costruzione, di cui all’art. 17, co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001, poiché il caso verificatosi non può essere annoverato tra le “pubbliche calamità”, poiché si “è trattato di un episodio grave e dannoso per l’impresa, ma non certo catastrofico, le cui conseguenze nocive sono risultate arginabili mediante l’attuazione di normali operazioni di messa in sicurezza, né tanto meno risultano essere stati adottati piani di emergenza o di evacuazione dei residenti, a conferma del fatto che non è stata messa ad immediato repentaglio ... la pubblica incolumità”;
   - nel caso di specie, ricorre un’ipotesi di ristrutturazione edilizia, intervento per il quale la delibera 03.11.2008 n. 43 della Giunta Comunale di Monza ha previsto che “per gli interventi di ristrutturazione comportanti demolizione e ricostruzione si applichino gli oneri di urbanizzazione relativi alle nuove costruzioni”.
...
4. Nel merito, il Collegio ritiene opportuno rilevare –anche al fine di meglio circoscrivere le ragioni per le quali l’appello deve essere accolto- che sia il motivo con il quale si censura la sentenza impugnata per non aver considerato applicabili, nel caso di specie, gli artt. 16, co. 1, e 17, co. 3, DPR n. 380/2001, recante quest’ultimo (lett. d) l’esenzione per la ricostruzione a seguito di “pubbliche calamità” (motivo sub lett. a) dell’esposizione in fatto), sia il motivo con il quale si censura la sentenza per non aver ricondotto le opere alla manutenzione straordinaria, anziché alla ristrutturazione edilizia (sub lett. b1) dell’esposizione in fatto), sono infondati e devono essere, pertanto, respinti.
4.1. Quanto al primo, occorre premettere che il permesso di costruire è provvedimento naturalmente oneroso (da ultimo, Corte Cost., 03.11.2016 n. 231), di modo che le norme di esenzione devono essere interpretate come “eccezioni” ad una regola generale (e da considerarsi, quindi, di stretta interpretazione), non essendo consentito alla stessa potestà legislativa concorrente di ampliare le ipotesi al di là delle indicazioni della legislazione statale, da ritenersi quali principi fondamentali in tema di governo del territorio (Corte Cost., n. 231/2016 cit.).
L’art. 17, co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001 prevede la esenzione dal contributo di costruzione “per gli interventi da realizzare in attuazione di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità”.
Si tratta di due distinte ipotesi, ambedue sorrette dal presupposto della “pubblica calamità”. Quest’ultima deve essere intesa come un evento imprevisto e dannoso che, per caratteristiche, estensione, potenzialità offensiva sia tale da colpire e/o mettere in pericolo non solo una o più persone o beni determinati, bensì una intera ed indistinta collettività di persone ed una pluralità non definibile di beni, pubblici o privati.
Ciò che caratterizza, dunque, il carattere “pubblico” della calamità e la differenzia da altri eventi dannosi, pur gravi, è la riferibilità dell’evento (in termini di danno e di pericolo) a una comunità, ovvero ad una pluralità non definibile di persone e cose, laddove, negli altri casi, l’evento colpisce (ed è dunque circoscritto) a singoli, specifici soggetti o beni e, come tale, è affrontabile con ordinarie misure di intervento.
Se, dunque –come sostenuto dall’appellante– l’evento deve caratterizzarsi per straordinarietà, imprevedibilità e una portata tale da essere “anche solo potenzialmente pericoloso per la collettività”, ciò non è, tuttavia, sufficiente a qualificarlo quale “calamità pubblica”, posto che deve comunque trattarsi di un evento non afferente a beni determinati e non affrontabile e risolvibile con ordinari strumenti di intervento, sia sul piano concreto che su quello degli atti amministrativi.
In senso riconducibile al concetto ora espresso, gli artt. 2, co. 1, lett. c) e 5 l. 24.02.1992 n. 225, prevedono il conferimento di poteri straordinari di ordinanza per il caso di “calamità naturali” (e, come tali, “pubbliche”), e l’art. 54 DPR 08.08.2000 n. 267, conferisce al Sindaco, quale Ufficiale di Governo, il potere (delegabile nei limiti previsti dal medesimo articolo) di emanare ordinanze contingibili ed urgenti “al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”; potere di ordinanza che va tenuto distinto da quello, di carattere “ordinario” e riferito al Sindaco quale rappresentante della comunità locale, previsto dall’art. 50 del medesimo Testo Unico degli Enti locali.
In conclusione, perché possa ricorrere l’ipotesi di esenzione di cui all’art. 17 cit., occorre che gli interventi da realizzare costituiscano attuazione di norme o di provvedimenti amministrativi che espressamente li prevedono (e non siano invece effetto di una scelta volontaria del soggetto, sia pure in conseguenza di provvedimenti emanati), e che siano stati adottati a seguito di eventi eccezionali, dannosi o pericolosi per la collettività, tali da richiedere l’esercizio di poteri straordinari.
Nel caso di specie, l’incendio che ha colpito l’immobile della società ricorrente, se pur grave e tale da poter divenire fonte di pericolo per la collettività, ove non tempestivamente circoscritto, tuttavia si caratterizza quale evento che ha colpito beni specifici e che, per dimensioni, caratteristiche ed intensità, è stato tale da non richiedere particolari interventi di contrasto o esercizio di poteri straordinari. Ne consegue, quindi, la inapplicabilità dell’esenzione di cui all’art. 17, co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.05.2017 n. 2567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 16 DPR n. 380/2001 prevede che, salvi i casi di esenzione di cui all’art. 17, co. 3, “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
Come appare evidente, la norma collega il pagamento del contributo di costruzione al rilascio del permesso di costruire; in altre parole, è per quelle opere per la cui realizzazione la legge prevede tale titolo autorizzatorio che il contributo di costruzione è dovuto.
Il precedente art. 10 prevede che il permesso di costruire è necessario per gli “interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”, espressamente indicando, tra questi, (comma 1) gli interventi di nuova costruzione (lett. a), gli interventi di ristrutturazione urbanistica (lett. b), e gli interventi di ristrutturazione edilizia (lett. c).
Il comma 2 prevede, inoltre, che le Regioni possono stabilire con legge “quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività”.
In sostanza, il legislatore statale collega la necessità di permesso di costruire a fenomeni di “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio” e, in primo luogo, qualifica tali la nuova costruzione, la ristrutturazione urbanistica e la ristrutturazione edilizia; in secondo luogo, demanda alle Regioni di individuare quali interventi (diversi da quelli precedentemente indicati) comportanti trasformazione urbanistica (ma non necessariamente edilizia), richiedano il permesso di costruire in ragione della loro natura ed incidenza, in particolare, sul carico urbanistico.
In ambedue le ipotesi innanzi considerate, appare evidente come il permesso di costruire si colleghi sempre ad interventi che incidono sul territorio, trasformandolo sul piano urbanistico–edilizio, o anche su uno solo dei due.
---------------
Più in particolare, per il caso di ristrutturazione edilizia, l’art. 10, co. 1, lett. c) –nel testo vigente al momento del rilascio del titolo edilizio- prevede la necessità del permesso di costruire non già per tutti i casi di ristrutturazione edilizia, bensì, più precisamente, per quelli che “portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 e successive modificazioni”.
Al contempo, l’art. 3, co. 1, lett. d), del DPR n. 380/2001 “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di chiarire, con considerazioni che qui si intendono completamente riportate, come, pur nella successione di modifiche interessanti le norme in tema di ristrutturazione edilizia, quest’ultima tipologia di intervento edilizio ricomprenda, nel proprio ambito generale, tipologie differenti, solo per alcune delle quali il legislatore prevede la necessità del permesso di costruire; da un lato, dunque, vi è la generale definizione di ristrutturazione edilizia (art. 3, co. 1, lett. d); dall’altro, le specifiche “species” del genus ristrutturazione edilizia per le quali occorre il permesso di costruire (art. 10, co. 1, lett. c).
Si è, in particolare, affermato:
“Per effetto della modifica introdotta dall'art. 30, comma 1, lett. a), D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito dalla L. 09.08.2013, n. 98, ... vi sono ora
tre distinte ipotesi di intervento rientranti nella definizione di “ristrutturazione edilizia”, che possono portare “ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”:
   - la prima, non comportante demolizione del preesistente fabbricato e comprendente (dunque, in via non esaustiva) “il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”;
   - la seconda, caratterizzata da demolizione e ricostruzione, per la quale è richiesta “la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica” (ed in questo caso, rispetto al testo previgente, non è più richiesta l’identità di sagoma);
   - la terza, rappresentata dagli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”".
Inoltre, qualora la seconda e la terza delle ipotesi innanzi indicate riguardino immobili sottoposti a vincoli di cui al d.lgs. n. 42/2004, potrà parlarsi di ristrutturazione edilizia solo in presenza, nell’immobile ricostruito, della identità di sagoma dell’edificio preesistente.
---------------
In definitiva, non tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitano del rilascio del permesso di costruire, ma solo quelli specificamente indicati dall’art. 10, co. 1, lett. c) e, per quel che interessa nella presente sede, quelli che “portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti”, posto che le ulteriori due ipotesi contemplate dalla norma (mutamenti di destinazione d’uso di immobili in zona A, interventi che modificano la sagoma di immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.Lgs. n. 42/2004), non interessano il caso di specie.
Occorre, dunque, perché sia necessario il rilascio del permesso di costruire una modifica (parziale o totale) dell’organismo edilizio preesistente ed un aumento della volumetria complessiva; solo in questi casi, d’altra parte, l’intervento si caratterizza (in ossequio alla prescrizione normativa) come “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”.
Nelle ipotesi, invece, di “
ristrutturazione ricostruttiva”, a maggior ragione se con invarianza, oltre che di volume, anche di sagoma e di area di sedime, non vi è necessità di permesso di costruire e, dunque, ai sensi dell’art. 16 DPR n. 380/2001, manca il presupposto per la richiesta e corresponsione del contributo di costruzione.
---------------
Alla luce delle considerazioni esposte, l’appello è fondato poiché, in presenza di interventi che non comportano “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”, nei sensi e limiti normativamente considerati ed innanzi esposti, non è dovuto il contributo di cui all’art. 16, co. 1, DPR n. 380/2001.
---------------

... per la riforma della sentenza 25.05.2016 n. 1079 del TAR LOMBARDIA-MILANO, SEZ. II, resa tra le parti, concernente quantificazione contributo di costruzione a fronte del rilascio del permesso di costruire.
...
1. Con l’appello in esame, la società Nu.Gu. e Ra. s.r.l. impugna la sentenza 25.05.2016 n. 1079, con la quale il TAR per la Lombardia, sez. II, ha respinto il suo ricorso avverso il provvedimento del Responsabile del Settore governo del territorio del Comune di Monza 11.04.2015, nella parte in cui con tale provvedimento, oltre a rilasciare il richiesto permesso di costruire, è stato richiesto il versamento del contributo di costruzione per un importo di Euro 257.377,54.
La società espone di essere proprietaria di un immobile a destinazione produttiva, realizzato sulla base di concessione edilizia del 1985 e di aver dovuto richiedere nuovo titolo edilizio, al fine di ricostruire una porzione del fabbricato, crollata a seguito di un incendio; tanto anche per ottemperare ad una ordinanza emessa in data 24.09.2012 dal Comune di Monza, di ripristino delle condizioni minime di sicurezza delle unità interessate dall’incendio.
La presente controversia concerne, in sostanza, la sussistenza dell’obbligo di corrispondere il richiesto contributo di costruzione, in occasione di interventi edilizi effettuati nelle circostanze come innanzi descritte.
La sentenza impugnata afferma, in particolare:
   - non ricorre il motivo di esenzione dal pagamento del contributo di costruzione, di cui all’art. 17, co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001, poiché il caso verificatosi non può essere annoverato tra le “pubbliche calamità”, poiché si “è trattato di un episodio grave e dannoso per l’impresa, ma non certo catastrofico, le cui conseguenze nocive sono risultate arginabili mediante l’attuazione di normali operazioni di messa in sicurezza, né tanto meno risultano essere stati adottati piani di emergenza o di evacuazione dei residenti, a conferma del fatto che non è stata messa ad immediato repentaglio ... la pubblica incolumità”;
   - nel caso di specie, ricorre un’ipotesi di ristrutturazione edilizia, intervento per il quale la delibera 03.11.2008 n. 43 della Giunta Comunale di Monza ha previsto che “per gli interventi di ristrutturazione comportanti demolizione e ricostruzione si applichino gli oneri di urbanizzazione relativi alle nuove costruzioni”.
...
5. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, con riferimento al primo profilo del secondo motivo ed al terzo motivo di ricorso (rispettivamente sub lett. b1) e c) dell’esposizione in fatto), per le ragioni e nei limiti di seguito esposti.
Con il primo motivo ora indicato, la società appellante lamenta che “il permesso di costruire è stato richiesto per ripristinare quella parte di fabbricato distrutto dall’incendio accidentalmente occorso; le opere da realizzare non hanno alcuna incidenza sul territorio, sia sotto il profilo della trasformazione dell’area oggetto di intervento sia in termini di aggravio del carico urbanistico della zona” ed inoltre a suo tempo la società ha già corrisposto gli oneri dovuti per realizzare quella parte del fabbricato ora da ricostruire a seguito di incendio.
Con il terzo motivo di appello, la società appellante lamenta, in sostanza, il difetto di motivazione in ordine alle ragioni di fatto e di diritto che hanno indotto l’amministrazione a determinare il contenuto dell’atto oggetto di censura, non considerando la “peculiarità della fattispecie”.
Giova osservare, in punto di fatto, che è pacifico tra le parti che l’intervento per il quale la società ricorrente ha richiesto il permesso di costruire non comporta modifica della sagoma, della superficie esistente ed autorizzata, dei volumi e della destinazione d’uso (v. pagg. 11-12 app.; pag. 13 memoria Comune di Monza del 11.01.2017).
Inoltre, il permesso di costruire n. 91 del Comune di Monza, oggetto di (parziale) impugnazione, è stato emesso il 13.01.2015, ed è, dunque, a tale data che occorre fare riferimento onde individuare la normativa urbanistico-edilizia concretamente applicabile.
5.1. Tanto precisato, occorre osservare che l’art. 16 DPR n. 380/2001 prevede che, salvi i casi di esenzione di cui all’art. 17, co. 3, “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
Come appare evidente, la norma collega il pagamento del contributo di costruzione al rilascio del permesso di costruire; in altre parole, è per quelle opere per la cui realizzazione la legge prevede tale titolo autorizzatorio che il contributo di costruzione è dovuto.
Il precedente art. 10 prevede che il permesso di costruire è necessario per gli “interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”, espressamente indicando, tra questi, (comma 1) gli interventi di nuova costruzione (lett. a), gli interventi di ristrutturazione urbanistica (lett. b), e gli interventi di ristrutturazione edilizia (lett. c).
Il comma 2 prevede, inoltre, che le Regioni possono stabilire con legge “quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività”.
In sostanza, il legislatore statale collega la necessità di permesso di costruire a fenomeni di “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio” e, in primo luogo, qualifica tali la nuova costruzione, la ristrutturazione urbanistica e la ristrutturazione edilizia; in secondo luogo, demanda alle Regioni di individuare quali interventi (diversi da quelli precedentemente indicati) comportanti trasformazione urbanistica (ma non necessariamente edilizia), richiedano il permesso di costruire in ragione della loro natura ed incidenza, in particolare, sul carico urbanistico.
In ambedue le ipotesi innanzi considerate, appare evidente come il permesso di costruire si colleghi sempre ad interventi che incidono sul territorio, trasformandolo sul piano urbanistico–edilizio, o anche su uno solo dei due.
5.2. Più in particolare, per il caso di ristrutturazione edilizia, l’art. 10, co. 1, lett. c) –nel testo vigente al momento del rilascio del titolo edilizio- prevede la necessità del permesso di costruire non già per tutti i casi di ristrutturazione edilizia, bensì, più precisamente, per quelli che “portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 e successive modificazioni”.
Al contempo, l’art. 3, co. 1, lett. d), del DPR n. 380/2001 “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di chiarire, con considerazioni che qui si intendono completamente riportate (v. Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2017 n. 443, e giurisprudenza ivi richiamata), come, pur nella successione di modifiche interessanti le norme in tema di ristrutturazione edilizia, quest’ultima tipologia di intervento edilizio ricomprenda, nel proprio ambito generale, tipologie differenti, solo per alcune delle quali il legislatore prevede la necessità del permesso di costruire; da un lato, dunque, vi è la generale definizione di ristrutturazione edilizia (art. 3, co. 1, lett. d); dall’altro, le specifiche “species” del genus ristrutturazione edilizia per le quali occorre il permesso di costruire (art. 10, co. 1, lett. c).
Si è, in particolare, affermato:
Per effetto della modifica introdotta dall'art. 30, comma 1, lett. a), D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito dalla L. 09.08.2013, n. 98, ... vi sono ora tre distinte ipotesi di intervento rientranti nella definizione di “ristrutturazione edilizia”, che possono portare “ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”:
   - la prima, non comportante demolizione del preesistente fabbricato e comprendente (dunque, in via non esaustiva) “il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”;
   - la seconda, caratterizzata da demolizione e ricostruzione, per la quale è richiesta “la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica” (ed in questo caso, rispetto al testo previgente, non è più richiesta l’identità di sagoma);
   - la terza, rappresentata dagli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza
”".
Inoltre, qualora la seconda e la terza delle ipotesi innanzi indicate riguardino immobili sottoposti a vincoli di cui al d.lgs. n. 42/2004, potrà parlarsi di ristrutturazione edilizia solo in presenza, nell’immobile ricostruito, della identità di sagoma dell’edificio preesistente.
Per effetto della lett. c) del medesimo articolo, anche l’art. 10, co. 1, lett. c), del DPR n. 380/2001 è stato modificato, di modo che è necessario il permesso di costruire per “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni”.
Infine, con modifica introdotta dall’art. 17, co. 1, lett. d), d.l. 12.09.2014 n. 133, conv. in l. 11.11.2014 n. 164, alla necessità di permesso di costruire per i casi in cui il nuovo fabbricato comporti anche “aumento di unità immobiliari” e “modifica del volume”, si è sostituita la più limitata ipotesi di “modifiche della volumetria complessiva degli edifici” (eliminando, dunque, il caso dell’aumento delle unità immobiliari).
E’ appena il caso di osservare che il legislatore, in sede di elencazione delle ipotesi di ristrutturazione edilizia con necessità di permesso di costruire, ha ricompreso anche quella comportante modifiche di sagoma di edifici vincolati ex d.lgs. n. 42/2004, ipotesi da riferirsi ai soli casi in cui la ristrutturazione riguardi edifici vincolati, ma senza abbattimento, poiché, in tale ultima ipotesi, ai sensi del precedente art. 3, co. 1, lett. d), si fuoriesce dalla definizione di “ristrutturazione edilizia”.
In definitiva, non tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitano del rilascio del permesso di costruire, ma solo quelli specificamente indicati dall’art. 10, co. 1, lett. c) e, per quel che interessa nella presente sede, quelli che “portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti”, posto che le ulteriori due ipotesi contemplate dalla norma (mutamenti di destinazione d’uso di immobili in zona A, interventi che modificano la sagoma di immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.Lgs. n. 42/2004), non interessano il caso di specie.
Occorre, dunque, perché sia necessario il rilascio del permesso di costruire una modifica (parziale o totale) dell’organismo edilizio preesistente ed un aumento della volumetria complessiva; solo in questi casi, d’altra parte, l’intervento si caratterizza (in ossequio alla prescrizione normativa) come “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”.
Nelle ipotesi, invece, di “ristrutturazione ricostruttiva” (come definita dalla giurisprudenza: Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015 n. 1763; 09.05.2014 n. 2384; 06.07.2012 n. 3970), a maggior ragione se con invarianza, oltre che di volume, anche di sagoma e di area di sedime, non vi è necessità di permesso di costruire e, dunque, ai sensi dell’art. 16 DPR n. 380/2001, manca il presupposto per la richiesta e corresponsione del contributo di costruzione.
Infine, giova osservare che, del tutto coerentemente, il legislatore, all’art. 22, co. 1, lett. c), DPR n. 380/2001, prevede, tra gli interventi sottoposti a segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), anche i casi di ristrutturazione edilizia per i quali non è necessario il permesso di costruire, fermo restando la possibilità per l’interessato (co. 7) di richiedere comunque il permesso di costruire “senza obbligo del pagamento del contributo di costruzione di cui all’art. 16” (con esclusione dei casi in cui, ai sensi dell’art. 23, la SCIA è sostitutiva del permesso di costruire).
5.3. Le conclusioni alle quali si è innanzi pervenuti non contrastano con quanto previsto, per la Regione Lombardia, dall’art. 44 l. reg. 11.03.2005 n. 12, posto che, nel definire le modalità di determinazione degli oneri di urbanizzazione per gli interventi di ristrutturazione edilizia, tale disposizione non impone una generalizzata onerosità dell’intervento, come si evince dall’inciso “se dovuti”, riferito agli oneri e più volte ripetuto (v. co. 8, 10, 10-bis).
Inoltre –diversamente considerando rispetto alla sentenza impugnata (pag. 10)- è solo nei sensi e limiti innanzi esposti che può trovare applicazione quanto previsto dalla delibera della Giunta comunale di Monza 03.11.2008 n. 43, laddove la stessa prevede il pagamento di oneri di urbanizzazione per gli interventi di ristrutturazione comportanti demolizione e ricostruzione, in misura pari a quelli previsti per le nuove costruzioni.
6. Alla luce delle considerazioni esposte, l’appello è fondato:
   - sia in relazione al primo profilo del secondo motivo (sub lett. b1), poiché, in presenza di interventi che non comportano “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”, nei sensi e limiti normativamente considerati ed innanzi esposti, non è dovuto il contributo di cui all’art. 16, co. 1, DPR n. 380/2001;
   - sia in relazione al terzo motivo di appello (sub lett. c), posto che l’amministrazione, lungi dal procedere ad una “automatica” applicazione dell’art. 16, co. 1, cit. ai casi di ristrutturazione edilizia, avrebbe dovuto congruamente motivare le ragioni per le quali, in presenza della (affatto particolare) tipologia di intervento oggetto di istanza di permesso di costruire, riteneva di procedere all’adozione del permesso di costruire con corrispondente onerosità dell’intervento e, dunque, imposizione degli oneri a carico del richiedente.
Da quanto esposto consegue, in riforma della sentenza di I grado, ed in corrispondenza della domanda formulata con il ricorso instaurativo del giudizio, l’annullamento del permesso di costruire 13.01.2015 n. 91, nella parte in cui con il medesimo è stato richiesto il versamento del contributo di costruzione per un importo di Euro 257.377,54.
Resta fermo il potere del Comune di Monza di verificare che il progetto presentato ed oggetto di istanza, presenti tutte le caratteristiche innanzi indicate che, ove esistenti, comportano la non corresponsione di oneri ai sensi dell’art. 16 DPR n. 380/2001 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.05.2017 n. 2567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACome è noto, il contributo di costruzione costituisce un corrispettivo di diritto pubblico previsto a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti.
In caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico.

---------------

I ricorrenti hanno presentato denuncia di inizio attività, in data 26.11.2010, per la ristrutturazione del fabbricato unifamiliare residenziale di loro proprietà in via ... n. 39.
Il progetto ha previsto il rifacimento del solaio del primo piano e del balcone, modifiche alla tramezzatura interna, il rifacimento degli intonaci e dei pavimenti, la modifica delle aperture esterne. Non sono stati realizzati incrementi di volume e superficie utile, né è aumentato il numero di unità immobiliari.
Con l’atto impugnato, il Comune di Cambiano ha determinato il contributo di costruzione, ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, in euro 9.749,35.
I ricorrenti rivendicano la gratuità dell’intervento e deducono, in tal senso, la violazione degli artt. 11, 16, 17 e 22 del d.P.R. n. 380 del 2001 nonché l’eccesso di potere sotto molteplici profili.
Si è costituito il Comune di Cambiano, chiedendo il rigetto del ricorso.
...
Il ricorso è fondato.
Con la d.i.a. n. 2033 del 2010, i ricorrenti hanno effettuato una ristrutturazione edilizia “leggera” senza demolire e ricostruire l’edificio, senza aumentare la superficie, il volume ed il numero di unità immobiliari, senza mutare la destinazione d’uso.
E’ stato realizzato un nuovo bagno al piano primo.
Siccome costruito prima del 1975, l’edificio era già abitabile su entrambi i piani, sebbene i locali fossero, prima della ristrutturazione, di altezza interna pari a 2,55 mt. (e perciò inferiore all’altezza minima di 2,70 mt. prescritta dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975).
L’intervento di ristrutturazione ha consentito di ottenere, per tutti i piani, un’altezza di 2,70 mt. mediante la demolizione e ricostruzione delle solette interne.
Ma ciò non ha determinato un incremento del carico urbanistico, come erroneamente ritenuto dal Comune.
Come è noto, il contributo di costruzione costituisce un corrispettivo di diritto pubblico previsto a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti.
In caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico (cfr., tra molte, TAR Piemonte, sez. I, 13.12.2013 n. 1346).
Nella specie, la d.i.a. presentata dai ricorrenti non era alternativa al permesso di costruire.
Per il combinato disposto dell’art. 22, terzo comma – lett. a) e quinto comma, e dell’art. 10, primo comma – lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, l’intervento non è soggetto a contributo di costruzione.
Peraltro, come correttamente affermato dai ricorrenti, la gratuità dell’intervento discende (anche) dalla previsione dell’art. 17, terzo comma – lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, relativo alle ristrutturazioni di edifici unifamiliari.
In conclusione, ed assorbite le ulteriori censure riferite al regolamento comunale sugli oneri di urbanizzazione ed alla delibera regionale n. 179/CR-4170 del 1977, il ricorso è fondato a va accolto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 21.04.2017 n. 532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le controversie sulla debenza o meno del contributo per il rilascio di una concessione edilizia e sul suo ammontare, devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dall’art. 16 l. 28.01.1977 n. 10, riguardando diritti soggettivi, non sottostanno ai termini decadenziali propri dei giudizi impugnatori e possono essere attivate nei normali termini di prescrizione”.
La giurisdizione esclusiva è stata confermata anche in seguito all’introduzione del c.p.a. che all’art. 133, lett. f), devolve al Giudice Amministrativo “le controversie aventi ad oggetto gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia”.
La qualificazione delle situazioni giuridiche coinvolte in termini di diritto soggettivo, derivano dalla circostanza secondo cui, in caso di contestazione circa la quantificazione o la debenza degli oneri connessi al permesso di costruire, ci si limita a censurare la misura del contributo imposto, non l’esercizio del potere al rilascio del titolo edilizio.
---------------
Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae
”.
In effetti,
gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto,
se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche.
In sostanza,
gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “
in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico”.
Da ultimo, il Collegio non ritiene rilevante l’affermazione di parte appellante circa il mancato versamento degli oneri di urbanizzazione al momento dell’originaria costruzione dell’edificio di proprietà della sig.ra Cu.. In effetti,
l’indagine relativa all’incremento del carico urbanistico di un determinato insediamento non può coinvolgere anche il regime contributivo riferibile all’edificio originario.

---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Piemonte-Torino: Sezione II n. 2033/2014, resa tra le parti, concernente accertamento della non debenza degli oneri di urbanizzazione
...
1. L’oggetto del presente giudizio afferisce alla verifica circa la sussistenza dell’obbligo di versamento degli oneri di urbanizzazione, da parte del privato, in presenza di un intervento di sostituzione edilizia che non determini un incremento del carico urbanistico preesistente.
2. Preliminarmente va esaminata l’eccezione, respinta in primo grado e riproposta in sede di impugnazione, con cui l’Amministrazione appellante afferma l’inammissibilità del ricorso di primo grado: secondo il Comune, infatti, l’intervento assentito rientrerebbe nell’ambito della disciplina prevista dall’art. 3 D.P.R. n. 380/2001 per le nuove costruzioni e, di conseguenza, sarebbe soggetto alla normativa sul contributo di urbanizzazione.
Tale premessa avrebbe dovuto condurre all’individuazione del nesso sussistente fra la normativa regionale in tema di oneri di urbanizzazione (D.C.R. n. 179 C.R. 4170 in data 26.05.1977) ed il permesso di costruire rilasciato in favore della sig.ra Cu., al fine di affermare la necessità di previa impugnazione, entro i termini, del permesso di costruire, in presenza di contestazioni relative all’ammontare degli oneri di urbanizzazione.
Per altro verso, con riferimento all’ammontare degli oneri aggiuntivi per l’impatto acustico, parte appellante afferma che è mancata, in primo grado, la pregiudiziale impugnazione del provvedimento di compatibilità acustica nel quale sono stati quantificati i relativi oneri.
2.1 Il motivo è infondato e va respinto.
Sul punto, il Collegio ritiene di condividere le argomentazioni proposte dal giudice di prime cure, che evidenzia l’illogicità dell’iter processuale ipotizzato dall’Amministrazione appellante: in effetti non pare ragionevole sostenere “che parte ricorrente avrebbe dovuto impugnare provvedimenti a sé favorevoli [...] solo perché essi hanno costituito la necessaria occasione per la determinazione degli oneri”. In effetti il contenzioso introdotto con il ricorso della sig.ra Cu. inerisce all’an ed al quantum debeatur a titolo di oneri di urbanizzazione ed oneri aggiuntivi, non, invece, all’ammissibilità del progetto proposto dall’odierna appellata.
Sul punto, inoltre, la giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di precisare che “
le controversie sulla debenza o meno del contributo per il rilascio di una concessione edilizia e sul suo ammontare, devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dall’art. 16 l. 28.01.1977 n. 10, riguardando diritti soggettivi, non sottostanno ai termini decadenziali propri dei giudizi impugnatori e possono essere attivate nei normali termini di prescrizione” (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 06.12.1999 n. 2056; id. 15.02.2001, n. 790).
La giurisdizione esclusiva è stata confermata anche in seguito all’introduzione del c.p.a. che all’art. 133, lett. f), devolve al Giudice Amministrativo “le controversie aventi ad oggetto gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia”. La qualificazione delle situazioni giuridiche coinvolte in termini di diritto soggettivo, derivano dalla circostanza secondo cui, in caso di contestazione circa la quantificazione o la debenza degli oneri connessi al permesso di costruire, ci si limita a censurare la misura del contributo imposto, non l’esercizio del potere al rilascio del titolo edilizio.
Non può affermarsi, dunque, con riferimento al presente giudizio, il suo carattere impugnatorio e, correlativamente, non troveranno ingresso le disposizioni processuali inerenti ai termini di decadenza, poiché la domanda giudiziale è soggetta al solo termine di prescrizione.
3. Con il secondo motivo di appello l’Amministrazione comunale afferma l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui sostiene l’inammissibilità di oneri di urbanizzazione in presenza di un intervento edilizio che diminuisca il carico urbanistico.
In particolare, nel caso di specie, nonostante l’intervento assentito non determini un incremento di S.L.P. complessiva e non modifichi la destinazione d’uso preesistente, si sarebbe in presenza di una creazione di un organismo edilizio del tutto nuovo per sagoma, numero di piani, distribuzione interna, posizionamento e realizzazione di piani interrati.
Inoltre, l’assoggettamento dell’intervento al rilascio del permesso di costruire e la sua ascrivibilità nel novero delle “nuove costruzioni”, condurrebbero ad assoggettare l’immobile agli oneri di urbanizzazione. Per altro verso, tali oneri non potrebbero dirsi nemmeno già scontati da quelli sopportati all’origine, stante la vetustà del fabbricato che esclude ex se l’avvenuto versamento degli oneri concessori, la cui disciplina risale alla l. n. 10 del 1977.
3.1 Il motivo è infondato e va respinto.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere integralmente le argomentazioni fornite dal giudice di prime cure, secondo cui “
il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae”.
In effetti,
gli oneri di urbanizzazione sono dovuti se ed in quanto l’intervento edilizio comporti un incremento della domanda di servizi nella zona coinvolta dalla costruzione: le opere di urbanizzazione, distinte in primarie e secondarie, si caratterizzano per essere necessarie, rispettivamente, all’utilizzo degli edifici e alla vita di relazione degli abitanti di un territorio.
Ciò posto,
se rispetto ad una zona circoscritta sono già state sostenute le spese necessarie a fornire i suddetti servizi ai cittadini ivi residenti, un intervento edilizio che non implichi un maggior carico urbanistico nella medesima zona, non può determinare la necessità di una nuova spesa per fornire i medesimi servizi già predisposti: diversamente ragionando, si giungerebbe ad affermare la duplicazione di costi a fronte dell’unicità dei servizi. All’opposto, se l’intervento edilizio assentito imponesse un incremento del carico urbanistico nella zona interessata, gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere versati in vista della predisposizione degli strumenti idonei a far fronte ad un incremento di dette esigenze urbanistiche.
In sostanza,
gli oneri di urbanizzazione si caratterizzano per avere natura compensativa rispetto alle spese di cui l’amministrazione si fa carico per rendere accessibile e pienamente utilizzabile un nuovo o rinnovato edificio, purché vi sia una nuova destinazione, dato che non può essere chiesto due volte il pagamento per gli stessi interventi di sistemazione e adeguamento del contesto urbanistico.
Sul punto, il Collegio condivide il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “
in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico” (Cons. di Stato, Sez. IV, 29.04.2004, n. 2611).
Da ultimo, il Collegio non ritiene rilevante l’affermazione di parte appellante circa il mancato versamento degli oneri di urbanizzazione al momento dell’originaria costruzione dell’edificio di proprietà della sig.ra Cu.. In effetti,
l’indagine relativa all’incremento del carico urbanistico di un determinato insediamento non può coinvolgere anche il regime contributivo riferibile all’edificio originario.
Gli elementi su indicati consentono, in definitiva, di condividere gli argomenti del giudice di prime cure e rigettare le censure sollevate sul punto dall’Amministrazione appellante (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.10.2015 n. 4950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOccorre premettere, quanto al riferimento temporale della disciplina applicabile in materia di an e quantum del contributo concessorio, che secondo consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato il contributo di concessione va determinato con riferimento alla disciplina, legislativa e regolamentare, vigente al momento del rilascio del titolo edilizio, che segna il perfezionamento della fattispecie concessoria (o autorizzatoria, a seconda della tipologia di titolo edilizio).
L’orientamento, per un verso, è fondato sulle previsioni normative che correlano la determinazione e, in parte, anche la corresponsione del contributo di concessione (nelle sue varie componenti), all’atto di rilascio del titolo edilizio, e, per altro verso, è espressione del principio generale sancito dall’art. 11 disp. prel. cod. civ., secondo cui ciascun fatto genetico di effetti giuridici è sottoposto, salva diversa previsione normativa, alla legge del tempo in cui viene in essere (se, poi, gli effetti giuridici sono costituiti da un rapporto giuridico di durata, lo ius superveniens, a seconda delle varie ipotesi, potrà incidere anche sulla disciplina del rapporto).
---------------
Alla qualificazione delle opere come intervento di ristrutturazione edilizia consegue che dal contributo per gli oneri di urbanizzazione deve essere scomputato l’importo imputabile al carico urbanistico generato dall’edificio preesistente.
In linea generale, giova al riguardo rimarcare che, mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere all’Amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla collettività di riferimento per la trasformazione del territorio consentita al privato istante (ossia, a compensare la c.d. compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova edificazione), la quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti.
È, pertanto, pienamente condivisibile il principio, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui, qualora il progetto riguardi la ristrutturazione di un edificio esistente, il suo impatto è destinato ad incidere su una zona già urbanizzata, per cui la sua incidenza sarà data dalla consistenza del nuovo intervento, detratto l’impatto di quanto già esistente, con conseguente sussistenza del correlativo onere contributivo in ragione del solo incremento del carico urbanistico.

---------------

6.1. Merita, in particolare, accoglimento il primo motivo di appello principale, di cui sopra sub § 2.a), con cui si deduce l’erronea esclusione del diritto allo scomputo del contributo per oneri di urbanizzazione assolto in relazione all’edificio preesistente (nel caso di specie, virtualmente, trattandosi di edificio costruito nel 1952), basata sul rilievo che si verterebbe in fattispecie di costruzione nuova, e non già di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione.
Occorre premettere, quanto al riferimento temporale della disciplina applicabile in materia di an e quantum del contributo concessorio, che secondo consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato (v., ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, 07.06.2012, n. 3379; Cons. St., Sez. IV, 25.06.2010, n. 4109; Cons. St., Sez. V, 13.06.2003, n. 3332) il contributo di concessione va determinato con riferimento alla disciplina, legislativa e regolamentare, vigente al momento del rilascio del titolo edilizio, che segna il perfezionamento della fattispecie concessoria (o autorizzatoria, a seconda della tipologia di titolo edilizio).
L’orientamento, per un verso, è fondato sulle previsioni normative che correlano la determinazione e, in parte, anche la corresponsione del contributo di concessione (nelle sue varie componenti), all’atto di rilascio del titolo edilizio, e, per altro verso, è espressione del principio generale sancito dall’art. 11 disp. prel. cod. civ., secondo cui ciascun fatto genetico di effetti giuridici è sottoposto, salva diversa previsione normativa, alla legge del tempo in cui viene in essere (se, poi, gli effetti giuridici sono costituiti da un rapporto giuridico di durata, lo ius superveniens, a seconda delle varie ipotesi, potrà incidere anche sulla disciplina del rapporto).
Nel caso di specie, ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile, si dovrà, pertanto, aver riguardo a quella vigente al momento dell’emissione/rilascio della concessione n. 89/2005 (marzo-aprile 2005).
Orbene, l’art. 59 l. urb. prov. –emanato nell’esplicazione della potestà legislativa primaria della Provincia autonoma di Bolzano in materia urbanistica, ai sensi dell’art. 8, n. 5) dello Statuto di autonomia– definisce come interventi di ristrutturazione edilizia «quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo per sagoma, superficie, dimensione e tipologia in tutto o in parte diverso dal precedente», aggiungendo che «tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti», e sancendo, nel secondo comma, la prevalenza delle disposizioni dello stesso art. 59 sulle previsioni dei piani urbanistici comunali e dei regolamenti edilizi (in parte qua, l’attuale formulazione normativa coincide con quella vigente all’epoca del rilascio della concessione edilizia de qua).
Il terzo comma del citato art. 59 –come sostituito dall’art. 25 l. prov. 31.03.2003, n. 5, nella formulazione anteriore all’entrata in vigore dell’art. 14, comma 3, l. prov. 02.07.2007, n. 3– prevede(va), poi, che «il recupero di edifici siti in zone residenziali non soggette a un piano di attuazione (quale, pacificamente, la zona di ubicazione dell’edificio in questione; n.d.e.) può essere effettuato anche tramite interventi di ristrutturazione edilizia ai sensi del comma 1, lett. d)», nel rispetto delle distanze, della cubatura (urbanisticamente rilevante) e dell’altezza dell’edificio preesistente.
La citata previsione normativa, ai fini della qualificazione dell’intervento edilizio come ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, a differenza dalla disciplina statale di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001 [olim, art. 31, lett. d), l. n. 347 del 1978], non postula dunque la fedele ricostruzione con il rispetto anche della sagoma dell’edificio preesistente, ma sancisce la continuità tra i due manufatti alla sola condizione del rispetto di distanze, volumetria ed altezza (peraltro, anche nell’ordinamento statale, con la recente novella apportata dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito nella legge 09.08.2013, n. 98, all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 è stata eliminata la condizione del rispetto della sagoma dell’edificio preesistente).
La previsione provinciale trova la sua ratio giustificatrice nella circostanza che, a cagione della sua particolare conformazione geomorfologica, solo una parte esigua del territorio provinciale è suscettibile di utilizzazione edificatoria, e nella conseguente filosofia di risparmio del territorio che permea la locale legislazione urbanistica, tesa, per quanto possibile, a concentrare gli interventi edilizi nell’ambito del territorio già edificato ed a rivalorizzare le volumetrie esistenti (v., sulla riportata ricostruzione della disciplina provinciale in materia, la recente sentenza 07.05.2015, n. 2294, di questa Sezione).
Ne deriva l’inconcludenza dei precedenti giurisprudenziali invocati dall’appellato Comune, relativi alla –all’epoca– in parte qua diversa disciplina statale.
Atteso il comprovato rispetto dei parametri della cubatura (urbanisticamente rilevante) e dell’altezza dell’edificio preesistente (v. la copiosa documentazione planimetrica in atti, compresi gli allegati alla consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado), l’intervento edilizio assentito con la concessione edilizia n. 89/2005 deve, pertanto, qualificarsi come ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 59, comma 1, lett. d), e comma 3, l. urb. prov..
Peraltro, lo stesso rilascio della menzionata concessione edilizia per i lavori in questione, per un volumetria fuori terra di 56.009 mc (a fronte di un volume preesistente di 57.741 mc; v. risultanze della c.t.u.) implica per necessità logica la sussunzione, da parte della stessa Amministrazione comunale, dell’intervento in questione sub specie di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, in quanto, diversamente, il rilascio del titolo edilizio sarebbe rimasto precluso dall’indice di fabbricabilità di 3,5 mc/mq stabilito dal p.u.c. –indice che, tenuto conto della superficie del lotto, avrebbe consentito l’edificazione entro il limite di soli 21.500 mc–, con la conseguenza che la tesi difensiva del Comune, volta a qualificare l’intervento come nuova costruzione, si risolve in un’inammissibile protestatio contra factum proprium, lesiva dell’affidamento riposto dall’originaria ricorrente nella qualificazione dell’intervento edilizio operata dalla stessa Amministrazione, immanente al rilascio della concessione edilizia negli esposti termini.
Alla qualificazione delle opere come intervento di ristrutturazione edilizia consegue che dal contributo per gli oneri di urbanizzazione deve essere scomputato l’importo imputabile al carico urbanistico generato dall’edificio preesistente.
In linea generale, giova al riguardo rimarcare che, mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere all’Amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla collettività di riferimento per la trasformazione del territorio consentita al privato istante (ossia, a compensare la c.d. compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova edificazione), la quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti.
È, pertanto, pienamente condivisibile il principio, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui, qualora il progetto riguardi la ristrutturazione di un edificio esistente, il suo impatto è destinato ad incidere su una zona già urbanizzata, per cui la sua incidenza sarà data dalla consistenza del nuovo intervento, detratto l’impatto di quanto già esistente, con conseguente sussistenza del correlativo onere contributivo in ragione del solo incremento del carico urbanistico (v. in tal senso, ex plurimis, da ultimo, Cons. St., Sez. V, 13.05.2014, n. 2437).
Nell’ordinamento urbanistico provinciale tale principio è, ormai, espressamente recepito dall’art. 66, comma 4-bis, l. urb. prov., inserito dall’art. 15, comma 2, l. prov. 02.07.2007, n. 3, che testualmente recita: «In caso di interventi su edifici esistenti, ivi compresa la loro demolizione e ricostruzione, sono dovuti gli oneri di urbanizzazione in ragione dell’incremento del carico urbanistico. I comuni con regolamento di cui all’art. 73, comma 2, stabiliscono i relativi criteri, tenendo conto dell’aumento della superficie utile e dei cambiamenti della destinazione d’uso».
Orbene, risalendo la costruzione dell’originaria costruzione (ex-Hotel Bristol) al 1952, ossia ad un’epoca in cui non vigeva ancora l’istituto del contributo concessorio, introdotto nell’ordinamento urbanistico provinciale di Bolzano con la l. prov. 03.01.1978, n. 1 (mentre la compartecipazione dei privati alle opere di urbanizzazione aveva trovato una sua prima definizione nel d.P.G.P. 23.06.1970, n. 20), il relativo onere deve ritenersi assolto virtualmente, giacché, in difetto di un’imputazione virtuale del pregresso, alla sopravvenuta disciplina impositiva verrebbe data un’inammissibile applicazione retroattiva.
Né l’edificio preesistente rientrava in una delle fattispecie esentate dal contributo –per previsione legislativa o degli strumenti urbanistici–, per le quali sarebbe escluso il diritto allo scomputo, attesa l’incidenza della nuova costruzione, a destinazione d’uso non esentata, per intero sul carico urbanistico.
Ne consegue che nella determinazione del contributo concessorio per la demo-ricostruzione del preesistente edificio deve detrarsi l’onere riferibile al carico urbanistico generato dall’edificio preesistente, sicché, alla luce delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, nulla è dovuto dall’odierna appellante per il volume fuori terra, attesa l’eccedenza del carico preesistente, virtualmente assolto, rispetto a quello di cui al progetto assentito (v., in particolare, pp. 13 e 28 della relazione depositata dal c.t.u. l’11.04.2013).
Ne deriva, altresì, l’illegittimità dell’art. 2, comma 4, del Regolamento comunale per la determinazione del contributo di urbanizzazione, approvato con deliberazione del Consiglio comunale n. 83 del 25.11.2004, vigente all’epoca del rilascio della concessione edilizia –che statuisce testualmente: «In caso di demolizione e ricostruzione di edifici realizzati prima dell’entrata in vigore del regolamento comunale di determinazione degli oneri di urbanizzazione, approvato con deliberazione del Consiglio comunale n. 148 del 30.07.1975, il contributo di urbanizzazione è interamente dovuto. Ai fini del presente regolamento per demolizione e ricostruzione si intende qualunque intervento che comporti la demolizione totale o parziale dei muri perimetrali dell’edificio esistente, fatta salva la fedele ricostruzione della struttura»–, ponendosi tale disposizione regolamentare in contrasto con la sopra ricostruita disciplina legislativa degli interventi di ricostruzione-demolizione e col principio di irretroattività sancito dall’art. 11 disp. prel. cod. civ..
In riforma dell’impugnata sentenza, s’impongono dunque le consequenziali statuizioni di annullamento della citata disposizione regolamentare e di accertamento dell’insussistenza della pretesa contributiva fatta valere dal Comune con riguardo alla volumetria fuori terra.
6.2. L’accoglimento del primo motivo d’appello, cui consegue la non debenza del contributo di urbanizzazione per il volume fuori terra, comporta l’assorbimento del secondo motivo d’appello sub § 2.b), che censura il regolamento comunale sotto altri profili, ormai irrilevanti ai fini decisori (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.07.2015 n. 3298 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contributo di costruzione costituisce un corrispettivo di diritto pubblico previsto dal Legislatore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese che l’Amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti.
---------------
E'
pacifico in giurisprudenza che il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico, dovendosi perciò ritenere illegittima la richiesta del pagamento di tali maggiori oneri se non si verifica la variazione del carico urbanistico.
---------------

Espone in fatto parte ricorrente di aver presentato SCIA al Comune di Brusciano il 10/7/2013 n. 13740 per manutenzione straordinaria e cambio d’uso del complesso produttivo in Brusciano alla Via ... n. 102 su terreno di cui al fl.3 p.lla 53 di mq. 30.900. Con nota n. 15247 del 12/08/2013 veniva comunicato l’avvio del procedimento di rigetto ma veniva chiarito che la destinazione d’uso di assemblaggio ed esposizione di macchine per agricoltura e movimentazione era compatibile con la destinazione D1 aree industriali, artigianali e commerciali. Con la nota impugnata sono state accolte le deduzioni ed è stato richiesto il pagamento di € 168.802,65 quale contributo di costruzione in ragione del cambio di destinazione d’uso per volume edificato in zona agricola.
Il Comune di Brusciano si è costituito in giudizio per dedurre circa la legittimità della richiesta di pagamento per avvenuto cambio di destinazione d’uso in quanto il lotto non avrebbe sempre avuto la destinazione D1.
Con ordinanza resa in fase cautelare il Tribunale sospendeva il provvedimento impugnato; parte ricorrente ha successivamente depositato copia della comunicazione inviata al Comune di inizio dei lavori di manutenzione straordinaria.
...
1. Con il ricorso in esame parte ricorrente richiede l’annullamento in parte qua della nota impugnata quanto alla richiesta del contributo di costruzione lamentando la violazione dell’art. 3 della Legge n. 241/1990 e degli artt. 16 e ss. del DPR n. 380/2001, nonché l’eccesso di potere.
2. Con riguardo alla vicenda in oggetto la Sezione è dell’avviso di dover preliminarmente chiarire in punto di fatto che, con riguardo al complesso produttivo per il quale sono stati richiesti € 168.082,65 quali “oneri di urbanizzazione/contributo di costruzione” a seguito della SCIA del 10/7/2013, già in data 26/07/2012 era stato rilasciato Permesso di costruire in sanatoria n. 39/2012 con pagamento di € 25.405,90 quali contributo di costruzione.
E’ poi il caso di rammentare che detto contributo costituisce un corrispettivo di diritto pubblico previsto dal Legislatore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese che l’Amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti.
3. Ora, avuto riguardo alla censura della presunta illegittimità della richiesta di pagamento degli oneri, si ritiene che il ricorso risulti fondato quanto meno con riguardo alle aree esterne che non risultano essere state interessate da opere edilizie e che, in base alla SCIA citata, sono state al più oggetto di lavori di manutenzione straordinaria di limitata consistenza rimanendo zona di parcheggio delle macchine finite.
Peraltro è pacifico in giurisprudenza (cfr. TAR Campania, Salerno, II, 10.03.2014, n. 552; TAR Piemonte, I, 13.12.2013, n. 1346; II, 16.09.2013, n. 1009; Cons. Stato, IV, 29.04.2004, n. 2611) che il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico, dovendosi perciò ritenere illegittima la richiesta del pagamento di tali maggiori oneri se non si verifica la variazione del carico urbanistico; questa non risulta essere avvenuta nel caso di specie, non risultando né la quantità né la qualità delle infrastrutture necessarie a supportare il nuovo insediamento.
3.1 Il provvedimento impugnato merita dunque di essere annullato “in parte qua” nella misura in cui la richiesta di pagamento per le aree esterne non è stata giustificata dalla sussistenza di opere di urbanizzazione primaria ex novo; la stessa relazione depositata agli atti dall’Amministrazione resistente e datata 03/02/2015 ha riguardo a fatti antecedenti al citato Permesso di costruire n. 39 del 2012 per il quale era stato corrisposto il contributo di costruzione, ma –ed è quel che più conta– non prova che vi è stato aumento di volumetria e che si è determinata una modifica della destinazione produttiva, in altri termini non si riscontra in atti che vi sia stata modifica dei parametri e del carico urbanistico.
4. Ciò premesso, il Collegio ritiene che il ricorso vada accolto con conseguente annullamento in parte qua del provvedimento oggetto di impugnazione (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 12.03.2015 n. 1531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl contributo per oneri di urbanizzazione costituisce un corrispettivo di diritto pubblico previsto dal legislatore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti.
Pertanto, è consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui, in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico.
---------------
L’intervento assentito dal Comune prevede la demolizione di un fabbricato di civile abitazione unifamiliare di quattro piani fuori terra e la successiva edificazione di un nuovo fabbricato sempre di civile abitazione unifamiliare di pari volumetria, composto da due piani fuori terra oltre seminterrato.
L’edificio risultante dalla ristrutturazione conserva la stessa volumetria e la stessa destinazione d’uso dell’edificio precedente, non determinando, quindi, alcuna modifica dei parametri e del carico urbanistico. Inconferente, ai fini del carico urbanistico, è la modifica di sagoma e prospetti.
Ne consegue che non sono dovuti gli oneri di urbanizzazione.

... per l'annullamento del provvedimento di determinazione degli oneri di urbanizzazione primaria/secondaria e di costruzione, emanato dal Comune di Meina, nella persona del responsabile del servizio tecnico, in data 11.02.2000 e in pari data notificato al ricorrente (rif. pratica edilizia n. 11/1999);
...
Il ricorso è fondato.
Il contributo per oneri di urbanizzazione costituisce un corrispettivo di diritto pubblico previsto dal legislatore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, ovvero un contributo speciale che ha la propria causa giuridica nelle maggiori spese che l’amministrazione pubblica deve accollarsi in dipendenza della costruzione dell’edificio e del connesso utilizzo, da parte dei detentori del bene, dei servizi e degli spazi circostanti.
Pertanto, è consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui, in caso di ristrutturazione edilizia, il pagamento degli oneri di urbanizzazione è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico (TAR Piemonte, sez. I, 26.11.2003 n. 1675 e, da ultimo, TAR Piemonte, sez. II, 16.09.2013 n. 1009; Cons. Stato, sez. IV, 29.04.2004, n. 2611).
Nel caso di specie, la documentazione versata in atti dal ricorrente sembra obbiettivamente escludere che l’intervento edilizio abbia comportato un aumento del carico urbanistico.
L’intervento assentito dal Comune prevede la demolizione di un fabbricato di civile abitazione unifamiliare di quattro piani fuori terra e la successiva edificazione di un nuovo fabbricato sempre di civile abitazione unifamiliare di pari volumetria, composto da due piani fuori terra oltre seminterrato (cfr. relazione tecnica sub doc. 1 di parte ricorrente).
L’edificio risultante dalla ristrutturazione conserva la stessa volumetria e la stessa destinazione d’uso dell’edificio precedente, non determinando, quindi, alcuna modifica dei parametri e del carico urbanistico.
Inconferente, ai fini del carico urbanistico, è la modifica di sagoma e prospetti.
Ne consegue che non sono dovuti gli oneri di urbanizzazione.
Il ricorso è quindi fondato e va accolto. Per l’effetto, va disposto l’annullamento dell’atto impugnato nella parte relativa all’indicazione e alla quantificazione degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, e va inoltre condannata l’amministrazione comunale a restituire al ricorrente l’importo degli oneri da questi indebitamente versato, in misura pari all’equivalente in Euro dell’importo di Lire 23.118.503, con gli interessi legali dalla data della domanda (07.04.2000) fino al saldo (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 13.12.2013 n. 1346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia attuata con demolizione e ricostruzione. Onerosità.
Si chiede parere in merito all’onerosità –ovvero all’eventuale gratuità– di un intervento di ristrutturazione edilizia da attuarsi mediante demolizione e ricostruzione di un fabbricato preesistente (...continua) (Regione Piemonte, parere n. 1/2010 - tratto da www.regione.piemonte.it).

Ed altro ancora in materia di oneri di urbanizzazione di costo di costruzione...

EDILIZIA PRIVATA: Sulla sussistenza, o meno, dei presupposti per la declaratoria di acquiescenza laddove il ricorrente abbia impugnato il permesso di costruire nella parte in cui prevede l'onerosità solo dopo avere pagato l'importo richiesto e senza manifestare alcuna preventiva riserva circa la debenza del contributo di costruzione.
Un consolidato orientamento giurisprudenziale ha avuto modo di evidenziare che non ricorrono, nei casi come quello in esame, gli estremi per configurare estinzione del diritto per acquiescenza.
   - “L'acquiescenza consiste nell'accettazione definitiva del provvedimento oppure in un comportamento incompatibile con la volontà d'impugnarlo o di ottenerne il riesame da parte della p.a. emanante e non è configurabile nel caso in cui non v'è un atto amministrativo autoritativo, ma si riscontrano posizioni di diritto soggettivo direttamente azionabile dal titolare (com'è, appunto, il diritto del concessionario a non pagare un contributo eccedente o non dovuto)”.
   - “La controversia attinente alla spettanza e liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione, riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a norma dell’art. 16 l. 29.01.1977, n. 10 [oggi, ex art. 133, lett. f), cod. proc. amm.], ha ad oggetto l’accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall’esistenza di atti della pubblica amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi ed ai rispettivi termini di decadenza, con conseguente inconfigurabilità dell’istituto dell’acquiescenza rispetto alla liquidazione del contributo e alla sua corresponsione (pro quota o per intero) in funzione del rilascio del titolo edilizio.
In tale contesto, irrilevante è il convenzionamento, o meno, dell’immobile costruendo, incidente sulla misura del contributo di concessione, ma non sui principi generali in tema di contestazione giudiziale del contributo e di eventuale azione di ripetizione, entro il termine ordinario di prescrizione.
Si aggiunga che l’obbligo della corresponsione del contributo di concessione, essendo obiettivamente collegato alla posizione di titolare della concessione edilizia rilasciata, dà vita a un’obbligazione di diritto pubblico priva di ogni connotazione negoziale, con la conseguenza che anche la sottoscrizione, al momento del rilascio della concessione, di un impegno a corrispondere al comune il contributo in una determinata misura non preclude all’interessato la tutela giurisdizionale per l’accertamento del diritto a non pagare il contributo in misura eccedente a quanto dovuto per legge, versandosi in materia sottratta alla disponibilità delle parti
”.
   - “La giurisprudenza ha chiarito che il pagamento degli oneri di urbanizzazione non determina acquiescenza al provvedimento impositivo, dovendo piuttosto essere considerato quale espressione della connaturale esigenza dell’attività imprenditoriale edilizia di dare avvio, senza indugi, alla realizzazione dell’opera progettata".
   - “La mera esecuzione, anche senza riserve, del provvedimento, non implica di per sé acquiescenza, in quanto il provvedimento amministrativo, fino al suo eventuale annullamento, produce effetti ed è immediatamente esecutivo. La sua esecuzione è, dunque, comportamento neutro, potendo trovare giustificazione, più che nell'univoca e incondizionata volontà di accettarne gli effetti, nell'esigenza di evitare le conseguenze ulteriori che potrebbero derivare dalla sua inottemperanza.
I medesimi principi sono stati affermati anche con riferimento al pagamento, al momento del ritiro della concessione edilizia, dei relativi oneri contributivi, escludendo che ricorra il requisito dell'univoca manifestazione di volontà dell'interessato ad accettare le statuizioni di un determinato provvedimento amministrativo e, quindi, a rinunciare all'esperimento della tutela giurisdizionale, quando, al momento del ritiro della concessione edilizia, lo stesso non avanzi riserva alcuna circa la debenza degli oneri concessori perché tale comportamento risponde all'esigenza di dare avvio senza indugi all'opera edilizia o di beneficiare del relativo titolo e le posizioni che si determinano in conseguenza del rilascio del titolo abilitativo alla realizzazione dell'opera sono di diritto soggettivo
”.
---------------

4. Il Collegio esamina preliminarmente l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’amministrazione resistente, che ritiene sussistenti tutti i presupposti per la declaratoria di acquiescenza, in quanto i ricorrenti hanno impugnato il permesso di costruire nella parte in cui prevede l'onerosità, solo dopo avere pagato l'importo richiesto e senza manifestare alcuna preventiva riserva circa la debenza del contributo di costruzione. Tale comportamento lascerebbe denotare, in maniera univoca, la volontà di accettazione degli effetti del provvedimento.
Il Collegio ritiene tale eccezione priva di pregio.
Un consolidato orientamento giurisprudenziale ha avuto modo di evidenziare che non ricorrono, nei casi come quello in esame, gli estremi per configurare estinzione del diritto per acquiescenza.
   - “L'acquiescenza consiste nell'accettazione definitiva del provvedimento oppure in un comportamento incompatibile con la volontà d'impugnarlo o di ottenerne il riesame da parte della p.a. emanante e non è configurabile nel caso in cui non v'è un atto amministrativo autoritativo, ma si riscontrano posizioni di diritto soggettivo direttamente azionabile dal titolare (com'è, appunto, il diritto del concessionario a non pagare un contributo eccedente o non dovuto)” (TAR Campania, 27/07/2006, sent. 8533).
   - “La controversia attinente alla spettanza e liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione, riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a norma dell’art. 16 l. 29.01.1977, n. 10 [oggi, ex art. 133, lett. f), cod. proc. amm.], ha ad oggetto l’accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall’esistenza di atti della pubblica amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi ed ai rispettivi termini di decadenza, con conseguente inconfigurabilità dell’istituto dell’acquiescenza rispetto alla liquidazione del contributo e alla sua corresponsione (pro quota o per intero) in funzione del rilascio del titolo edilizio (v., ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, 21.08.2013, n. 4208; Cons. St., Sez. IV, 10.03.2011, n. 1565); in tale contesto, irrilevante è il convenzionamento, o meno, dell’immobile costruendo, incidente sulla misura del contributo di concessione, ma non sui principi generali in tema di contestazione giudiziale del contributo e di eventuale azione di ripetizione, entro il termine ordinario di prescrizione. Si aggiunga che l’obbligo della corresponsione del contributo di concessione, essendo obiettivamente collegato alla posizione di titolare della concessione edilizia rilasciata, dà vita a un’obbligazione di diritto pubblico priva di ogni connotazione negoziale, con la conseguenza che anche la sottoscrizione, al momento del rilascio della concessione, di un impegno a corrispondere al comune il contributo in una determinata misura non preclude all’interessato la tutela giurisdizionale per l’accertamento del diritto a non pagare il contributo in misura eccedente a quanto dovuto per legge, versandosi in materia sottratta alla disponibilità delle parti (v. in tal senso, ex plurimis, Cons. St., Sez. V, 06.12.1999, n. 2056)” (Cons. Stato Sez. VI, 07/05/2015, n. 2294, conforme TAR Campania, Napoli, Sez. III, 31/10/2016, n. 5013).
   - “Infatti la giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha chiarito che il pagamento degli oneri di urbanizzazione non determina acquiescenza al provvedimento impositivo, dovendo piuttosto essere considerato quale espressione della connaturale esigenza dell’attività imprenditoriale edilizia di dare avvio, senza indugi, alla realizzazione dell’opera progettata (cfr. TAR Toscana, Sez. III, 24.09.2018, n. 1213; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 08.11.2013, n. 2066; TAR Emilia Romagna, 09.02.1999, n. 81)” (TRGA Bolzano, 26.09.2019, sent. n. 226).
   - Ed ancora “La mera esecuzione, anche senza riserve, del provvedimento, non implica di per sé acquiescenza, in quanto il provvedimento amministrativo, fino al suo eventuale annullamento, produce effetti ed è immediatamente esecutivo. La sua esecuzione è, dunque, comportamento neutro, potendo trovare giustificazione, più che nell'univoca e incondizionata volontà di accettarne gli effetti, nell'esigenza di evitare le conseguenze ulteriori che potrebbero derivare dalla sua inottemperanza. I medesimi principi sono stati affermati anche con riferimento al pagamento, al momento del ritiro della concessione edilizia, dei relativi oneri contributivi, escludendo che ricorra il requisito dell'univoca manifestazione di volontà dell'interessato ad accettare le statuizioni di un determinato provvedimento amministrativo e, quindi, a rinunciare all'esperimento della tutela giurisdizionale, quando, al momento del ritiro della concessione edilizia, lo stesso non avanzi riserva alcuna circa la debenza degli oneri concessori perché tale comportamento risponde all'esigenza di dare avvio senza indugi all'opera edilizia o di beneficiare del relativo titolo e le posizioni che si determinano in conseguenza del rilascio del titolo abilitativo alla realizzazione dell'opera sono di diritto soggettivo.” (TAR Lazio sez. II, 19/09/2017, sent. n. 9818).
Per tali ordini di considerazioni, dai quali questo Collegio non ritiene di doversi discostare, l’eccezione di inammissibilità non può essere accolta
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 04.05.2021 n. 457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio, richiamando i principi giurisprudenziali consolidatisi nella materia, intende premettere che:
   a) ai sensi dell’art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, inserito dall’art. 17, comma 1, lett. n), d.l. n. 133 del 2014, il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che influisce, di conseguenza, sul c.d. carico urbanistico poiché la semplificazione delle attività edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono non assimilabili, a conferma della scelta già operata con il d.m. n. 1444 del 1968;
   b) l’aumento del carico urbanistico non si verifica solo in caso di modifica della destinazione funzionale dell’immobile, ma anche nel caso in cui, sebbene la destinazione non venga mutata, le opere si prestino a rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti;
   c) pertanto il mutamento di destinazione d’uso, sia con che senza opere, giuridicamente rilevante, ossia quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, influisce in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto, carico da intendersi come rapporto di proporzione quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi di una determinata zona territoriale.
---------------

6. Con il primo motivo l’appellante lamenta l’erroneità dell’impugnata pronuncia nell’aver confutato la posizione dell’Amministrazione comunale che aveva subordinato il cambio di destinazione dell’immobile da “terziario direzionale” a “residenziale”, chiedendo la cessione “dell’integrale dotazione di standard” a servizio della destinazione residenziale, così non considerando le superfici a standard, che in fase di realizzazione dell’edificio come terziario, erano già state asservite con l’imposizione di un vincolo di destinazione, stante la differenza e la non assimilabilità tra le due tipologie di standard.
Ad avviso del Comune l’intervento de quo sarebbe sottoposto alla disciplina di cui alla delibera c.c. n. 31/2015, che, in attuazione della legge regionale della Puglia n. 16 del 07.04.2014, ha definito le zone di attuazione per tali mutamenti di destinazione d’uso ed ha, al contempo, definito le condizioni di applicabilità.
A tal ultimo riguardo, si fa notare che l’art. 39 delle NTA del PRG di Bari dispone che “A norma dell’art. 5, comma 1°, n. 2 del D.M. 02.04.1968 devono essere “previsti” spazi, escluse le sedi viarie, in misura non inferiore a 80 mq. per 100 mq. di superficie lorda di pavimento con destinazione terziario-direzionale; inoltre, devono essere “reperiti” i servizi di quartiere per gli abitanti insediati, nella misura di 20 mq. per abitante, se la zona è parzialmente utilizzata per destinazioni residenziali….”.
Ne consegue che gli standard “residenziali” e quelli del “terziario direzionale” non potrebbero essere assimilati essendo di fatto legati a concetti completamente differenti e pertanto non si potrebbe procedere tra di essi allo scomputo.
6.1. La censura non è fondata.
6.2. Il Collegio, al riguardo, richiamando i principi giurisprudenziali consolidatisi nella materia (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2018, n. 6388), intende premettere che:
   a) ai sensi dell’art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, inserito dall’art. 17, comma 1, lett. n), d.l. n. 133 del 2014, il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che influisce, di conseguenza, sul c.d. carico urbanistico poiché la semplificazione delle attività edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono non assimilabili, a conferma della scelta già operata con il d.m. n. 1444 del 1968;
   b) l’aumento del carico urbanistico non si verifica solo in caso di modifica della destinazione funzionale dell’immobile, ma anche nel caso in cui, sebbene la destinazione non venga mutata, le opere si prestino a rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti;
   c) pertanto il mutamento di destinazione d’uso, sia con che senza opere, giuridicamente rilevante, ossia quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, influisce in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto, carico da intendersi come rapporto di proporzione quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi di una determinata zona territoriale.
Del resto, in maniera sostanzialmente conforme è disciplinato il mutamento di destinazione d’uso dalla legge regionale Puglia n. 16/2014, recante “Modifiche e integrazioni alla legge regionale 15.11.2007, n. 33 (Recupero dei sottotetti, dei porticati, di locali seminterrati e interventi esistenti e di aree pubbliche non autorizzate)”, dalla delibera del Consiglio comunale del Comune di Bari n. 31/2015, che ha recepito detta legge regionale, e dalla legge regionale Puglia n. 48/2017 (art. 4) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2021 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sebbene le dotazioni connesse alle due diverse destinazioni in esame (“terziario direzionale” e “residenziale”) siano ontologicamente diverse, il mancato scomputo degli standard già originariamente contemplati (con vincolo su aree) comporterebbe una erronea duplicazione e un ingiustificato arricchimento dell’Amministrazione, con la conseguenza che nella quantificazione degli oneri dovrà tenersi conto degli standard già garantiti.
Invero, a tali fini, si osserva che:
   a) la diversità di disciplina riservata dal d.m. n. 1444/1968 agli “insediamenti residenziali” (art. 3) e agli “insediamenti produttivi” (art. 5), e in particolare agli “insediamenti di carattere commerciale e direzionale” (art. 5, n. 2), attiene esclusivamente ai rapporti massimi che devono intercorrere tra l’area dotata di specifica destinazione e le aree dedicate a standard, a tal ultimo riguardo facendosi riferimento in maniera indistinta per entrambe le destinazioni a “gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”;
   b) invero, le norme in materia di standard contenute in detto decreto non pongono alcuna differenza qualitativa fra gli standard delle diverse zone omogenee, stabilendo solo diverse percentuali quantitative del rapporto fra aree a destinazione residenziale (o industriale, commerciale etc.) e aree a servizi, ferma restando la differenziazione di queste ultime fra viabilità, parcheggi ed altro, né è dirimente il richiamo agli “spazi pubblici” contenuto nell’articolo 3 del d.m., atteso che esso è seguito dall’inciso “o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”, in modo da confermare che non è detto che le aree in questione debbano essere sempre e comunque rese pubbliche, ben potendo essere vincolate a standard con modalità diverse, in tal modo trovando fondamento la tesi circa l’indifferenza della modalità giuridica con cui tale aree vengono individuate, e quindi la trasponibili anche a servizio delle aree a destinazione residenziale delle aree a parcheggio illo tempore reperite mediante vincolo di destinazione al servizio di quelle a uso terziario;
   c) peraltro, al riguardo non assume rilievo determinante la differenza terminologica utilizzata nelle NTA (art. 39) dello strumento urbanistico generale del Comune tra “previsti” e “reperiti”, essa derivando esclusivamente dalla differenza tra le dotazioni connesse agli standard per la residenza e agli standard per gli insediamenti con destinazione direzionale, senza in nessun modo intaccare la sostanziale omogeneità concettuale esistente tra essi;
   d) invero, a nulla rileva la circostanza che in occasione della originaria realizzazione dell’edificio de quo come terziario veniva prevista, come necessaria dotazione di standard, la sola imposizione di un vincolo di destinazione, data la generale irrilevanza della specifica modalità dell’onere nell’ottica della previsione dell’imposizione in carico al privato;
   e) del resto, la tesi suggerita dal Comune fondata sull’interpretazione della norma urbanistica sconterebbe un contrasto con la disciplina riveniente dalle sovraordinate disposizioni regolamentari rivenienti dal citato d.m. n. 1444/1968.
In conclusione sul punto, non essendo in astratto concepibile una distinzione tra standard per area con destinazione “terziario direzionale” e standard per area con destinazione “residenziale”, all’infuori della diversità ontologica tra le relative dotazioni, risulta illegittima la richiesta comunale di reperimento integrale delle superfici destinate a standard per la residenza senza considerare le superfici a standard già concesse in relazione all’edificio con destinazione a “terziario”, che, pertanto, devono essere necessariamente computate nella determinazione dei nuovi standard.
Invero, in caso di intervento edilizio comportante il mutamento di destinazione d’uso, al fine della determinazione degli spazi e standard deve rivalutarsi la complessiva situazione esistente, e conseguentemente è ammissibile il reperimento della sola quota differenziale degli spazi a standard ove già sussista la quota richiesta per il precedente uso, mentre, solo in assenza di questa, le aree devono essere reperite per l’intero.
---------------

6.3. Ciò premesso, in ordine alla specifica questione oggetto della controversia, è corretto rilevare, come fatto dal primo giudice, che, sebbene le dotazioni connesse alle due diverse destinazioni in esame (“terziario direzionale” e “residenziale”) siano ontologicamente diverse, il mancato scomputo degli standard già originariamente contemplati (con vincolo su aree) comporterebbe una erronea duplicazione e un ingiustificato arricchimento dell’Amministrazione, con la conseguenza che nella quantificazione degli oneri dovrà tenersi conto degli standard già garantiti.
6.3.1. Invero, a tali fini, si osserva che:
   a) la diversità di disciplina riservata dal d.m. n. 1444/1968 agli “insediamenti residenziali” (art. 3) e agli “insediamenti produttivi” (art. 5), e in particolare agli “insediamenti di carattere commerciale e direzionale” (art. 5, n. 2), attiene esclusivamente ai rapporti massimi che devono intercorrere tra l’area dotata di specifica destinazione e le aree dedicate a standard, a tal ultimo riguardo facendosi riferimento in maniera indistinta per entrambe le destinazioni a “gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”;
   b) invero, le norme in materia di standard contenute in detto decreto non pongono alcuna differenza qualitativa fra gli standard delle diverse zone omogenee, stabilendo solo diverse percentuali quantitative del rapporto fra aree a destinazione residenziale (o industriale, commerciale etc.) e aree a servizi, ferma restando la differenziazione di queste ultime fra viabilità, parcheggi ed altro, né è dirimente il richiamo agli “spazi pubblici” contenuto nell’articolo 3 del d.m., atteso che esso è seguito dall’inciso “o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”, in modo da confermare che non è detto che le aree in questione debbano essere sempre e comunque rese pubbliche, ben potendo essere vincolate a standard con modalità diverse, in tal modo trovando fondamento la tesi circa l’indifferenza della modalità giuridica con cui tale aree vengono individuate, e quindi la trasponibili anche a servizio delle aree a destinazione residenziale delle aree a parcheggio illo tempore reperite mediante vincolo di destinazione al servizio di quelle a uso terziario;
   c) peraltro, al riguardo non assume rilievo determinante la differenza terminologica utilizzata nelle NTA (art. 39) dello strumento urbanistico generale del Comune di Bari tra “previsti” e “reperiti”, essa derivando esclusivamente dalla differenza tra le dotazioni connesse agli standard per la residenza e agli standard per gli insediamenti con destinazione direzionale, senza in nessun modo intaccare la sostanziale omogeneità concettuale esistente tra essi;
   d) invero, a nulla rileva la circostanza che in occasione della originaria realizzazione dell’edificio de quo come terziario veniva prevista, come necessaria dotazione di standard, la sola imposizione di un vincolo di destinazione, data la generale irrilevanza della specifica modalità dell’onere nell’ottica della previsione dell’imposizione in carico al privato;
   e) del resto, la tesi suggerita dal Comune fondata sull’interpretazione della norma urbanistica sconterebbe un contrasto con la disciplina riveniente dalle sovraordinate disposizioni regolamentari rivenienti dal citato d.m. n. 1444/1968.
6.3.2. In conclusione sul punto, non essendo in astratto concepibile una distinzione tra standard per area con destinazione “terziario direzionale” e standard per area con destinazione “residenziale”, all’infuori della diversità ontologica tra le relative dotazioni, risulta illegittima la richiesta comunale di reperimento integrale delle superfici destinate a standard per la residenza senza considerare le superfici a standard già concesse in relazione all’edificio con destinazione a “terziario”, che, pertanto, devono essere necessariamente computate nella determinazione dei nuovi standard.
Invero, in caso di intervento edilizio comportante il mutamento di destinazione d’uso, al fine della determinazione degli spazi e standard deve rivalutarsi la complessiva situazione esistente, e conseguentemente è ammissibile il reperimento della sola quota differenziale degli spazi a standard ove già sussista la quota richiesta per il precedente uso, mentre, solo in assenza di questa, le aree devono essere reperite per l’intero. E, nel caso che qui occupa, non è in contestazione che l’edificio preesistente già disponesse della quota di standard richiesta per la sua originaria destinazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2021 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo costante giurisprudenza, la finalità degli oneri concessori, con particolare riguardo alla parte correlata alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, ha la chiara funzione di contribuire alle spese da sostenere dalla collettività in riferimento alla realizzazione delle stesse, sicché l’unico criterio per determinare se essi siano dovuti o meno e in che misura consiste nella verifica del carico urbanistico derivante dall’attività edilizia, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle esistenti.
Ciò a valere, tuttavia, per quegli interventi edilizi in relazione ai quali sia revocata in dubbio suddetta incidenza sul carico urbanistico, quale tipicamente la modifica di destinazione d’uso funzionale o senza opere. Non certo laddove, come nel caso di specie, l’intervento necessitava ab origine, per indiscussa consistenza, di concessione edilizia, richiesta ex post a sanatoria.
In linea di diritto, cioè, mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere all’amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla collettività di riferimento alla trasformazione del territorio consentita al privato istante (ossia, a compensare la c.d. compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova edificazione), la quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione «assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti».
La natura di prestazione patrimoniale imposta che connota gli oneri concessori, in ciascuna delle due componenti, fa sì che l’eventuale decurtazione della parte di essi correlata al beneficio collettivo riveniente dalla presenza delle opere di urbanizzazione non consegua automaticamente neppure all’avvenuta documentata realizzazione delle stesse da parte del privato istante, laddove l’amministrazione non abbia assentito al richiesto scomputo.
Infine, la determinazione dell’entità delle somme dovute non necessita di alcuna motivazione aggiuntiva, essendo semplicemente frutto dell’applicazione di parametri determinati da norme legislative o regolamentari, conoscibili all’onerato.
---------------
Compenetrato al diritto di riscuotere l’obbligazione principale, ovvero il contributo di costruzione previsto dall’art. 3 della legge 27.01.1977, n. 10, cui fa rinvio l’art. 37 della l. n. 47/1985, è quello di imporre le sanzioni pecuniarie per il ritardo nel relativo pagamento, quale strumento di coazione all’adempimento del contributo principale previsto dal legislatore, in tanto dovute in quanto sia dovuto tale onere.
---------------

7. Invertendo per comodità espositiva la trattazione dei motivi dell’appello principale proposto dai signori Mi.Ma.Re., Fi.Ci. e Ca.Ci., il Collegio ritiene di poter anteporre lo scrutinio di quello contraddistinto come secondo, attinente al merito della pretesa del Comune di Prato, asseritamente indebita in quanto non avrebbe tenuto conto della circostanza di fatto che le opere di urbanizzazione primaria erano già state realizzate dalla parte richiedente all’atto della presentazione dell’istanza di condono.
Detto motivo è infondato.
Secondo costante giurisprudenza, dalle cui risultanze non è ragione di discostarsi, la finalità degli oneri concessori, con particolare riguardo alla parte correlata alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, ha la chiara funzione di contribuire alle spese da sostenere dalla collettività in riferimento alla realizzazione delle stesse, sicché l’unico criterio per determinare se essi siano dovuti o meno e in che misura consiste nella verifica del carico urbanistico derivante dall’attività edilizia, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle esistenti (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. VI, 07.05.2018, n. 2694).
Ciò a valere, tuttavia, per quegli interventi edilizi in relazione ai quali sia revocata in dubbio suddetta incidenza sul carico urbanistico, quale tipicamente la modifica di destinazione d’uso funzionale o senza opere. Non certo laddove, come nel caso di specie, l’intervento necessitava ab origine, per indiscussa consistenza, di concessione edilizia, richiesta ex post a sanatoria.
8. In linea di diritto, cioè, mentre la quota del contributo di costruzione commisurata al costo di costruzione risulta ontologicamente connessa alla tipologia e all’entità (superficie e volumetria) dell’intervento edilizio e assolve alla funzione di permettere all’amministrazione comunale il recupero delle spese sostenute dalla collettività di riferimento alla trasformazione del territorio consentita al privato istante (ossia, a compensare la c.d. compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, a seguito della nuova edificazione), la quota del contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione «assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti» (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 07.05.2015, n. 2294).
8.1. La natura di prestazione patrimoniale imposta che connota gli oneri concessori, in ciascuna delle due componenti, fa sì che l’eventuale decurtazione della parte di essi correlata al beneficio collettivo riveniente dalla presenza delle opere di urbanizzazione non consegua automaticamente neppure all’avvenuta documentata realizzazione delle stesse da parte del privato istante, laddove l’amministrazione non abbia assentito al richiesto scomputo. Nel caso di specie, peraltro, come correttamente affermato dal giudice di prime cure, «neppure viene allegato quali opere di urbanizzazione sarebbero state realizzate da Ma.Gr.Re., fatta eccezione per non meglio decritti “vialetti privati interni di accesso”, dei quali non è nota l’estensione, e che certo non assorbono certo il peso insediativo degli immobili in questione».
8.2 Infine, la determinazione dell’entità delle somme dovute non necessita di alcuna motivazione aggiuntiva, essendo semplicemente frutto dell’applicazione di parametri determinati da norme legislative o regolamentari, conoscibili all’onerato.
9. Una volta acclarata la sussistenza del debito riveniente dagli oneri concessori, nel caso di specie limitati al costo delle opere di urbanizzazione, possono conseguirne, in caso di ritardo nella corresponsione delle somme dovute, purché ne sia chiaro e certo l’importo, sanzioni e interessi moratori.
Il che è quanto il Comune di Prato ha inteso essere accaduto nel momento in cui ha richiesto la somma comprensiva di tutte e tre le voci alle parti, nel frattempo subentrate, sulla base del combinato disposto degli artt. 37 della l. n. 47/1985 e 3 e 15 della l. n. 10/1977, per il tramite dell’ingiunzione prevista dall'art. 2 del regio decreto 14.04.1910, n. 639.
Compenetrato, infatti, al diritto di riscuotere l’obbligazione principale, ovvero il contributo di costruzione previsto dall’art. 3 della legge 27.01.1977, n. 10, cui fa rinvio l’art. 37 della l. n. 47/1985, è quello di imporre le sanzioni pecuniarie per il ritardo nel relativo pagamento, quale strumento di coazione all’adempimento del contributo principale previsto dal legislatore, in tanto dovute in quanto sia dovuto tale onere (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 08.03.2017, n. 1099).
9.1. Se, dunque, non sussiste un’obbligazione principale giuridicamente valida, non è predicabile neppure un inadempimento di cui il preteso debitore deve sopportare le conseguenze di legge.
Da questo nesso di presupposizione logico-giuridico tra le due diverse prestazioni patrimoniali imposte al privato cui sia stato rilasciato un titolo edilizio, anche in sanatoria, si ricava dunque la conseguenza che, sebbene dovute al momento in cui sono state applicate, esse devono essere restituite dall’amministrazione quando si accerti a posteriori che il contributo concessorio per il cui mancato o ritardato pagamento sono stati applicati i relativi interessi e sanzioni non era in realtà dovuto.
10. L’azione giudiziale in cui si contesta l’an o il quantum del contributo in questione, come ancora di recente precisato da questo Consiglio di Stato, non si inquadra dunque nel paradigma civilistico dell’azione di restituzione dell’indebito eventualmente pagato, ma dà luogo ad una domanda di accertamento negativo devoluta alla giurisdizione amministrativa (Cons. Stato, Sez. IV, 07.02.2017, n. 528), dal cui accoglimento consegue la possibilità di ripetere le somme versate ed accertate come indebitamente corrisposte all’amministrazione nel giudizio di cognizione, eventualmente con ricorso per ottemperanza laddove quest’ultima non adempia correttamente al proprio debito restitutorio.
Il che, rileva la Sezione, è quanto avvenuto nel caso di specie, nel quale, cioè, le parti contestano la sussistenza del credito del Comune di Prato, ritenendone carenti i presupposti, di fatto (per la preesistenza delle opere di urbanizzazione) e di diritto (per le modalità di computo seguite), con ipotetica automatica caducazione delle somme accessorie richieste a titolo di sanzione e interessi. Solo in denegata ipotesi, ovvero una volta riconosciuta la legittimità della pretesa originaria, è questione di eventuale illegittimità propria degli importi sanzionatori e moratori, contestata egualmente dalle parti o in ragione dell’invocata non trasmissibilità agli eredi dei primi, ovvero comunque per l’irregolarità della notifica del titolo di credito originario, con riferimento ad entrambi (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 21.10.2019 n. 7119 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: La pubblica amministrazione, nel corso del rapporto che si instaura a seguito dell’avvenuto rilascio del titolo edilizio, può sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo del correlato tale contributo, pur se in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza, purché nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza.
Per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento.

---------------

10.1 Passando adesso alla disamina dall’appello incidentale del comune di Prato, il giudice di prime cure ha ritenuto non corretta, in ragione della doverosa "personalità" delle sanzioni amministrative, consacrato nell’art. 7 della l. n. 689/1981, l’imputazione delle stesse a soggetti estranei alla violazione, id est gli eredi, peraltro neppure direttamente della responsabile, bensì del suo primo avente causa, signor Gi.Re., a sua volta deceduto.
Il Comune di Prato non ha inteso contestare nel merito la ridetta affermazione, da ritenersi pertanto consolidata; ne ha bensì avversato la tempestiva proposizione, ritenendo che il Tribunale abbia indebitamente respinto l’eccezione di inammissibilità dallo stesso già sollevata in primo grado. La ridetta tardività si porrebbe, gradatamente, o in relazione all’omessa prospettazione in occasione del primo ricorso al TAR, stante che la nota del 14.09.1993 già conteneva la richiesta di pagamento delle somme dovute, agevolmente determinabili per le parti mancanti sulla base di meri calcoli aritmetici; ovvero avuto riguardo al giudizio instaurato innanzi al giudice ordinario, con ciò precludendosi l’effetto della translatio iudicii di una tematica estranea al petitum originario.
All’impugnativa delle ordinanze ingiunzione, tipica espressione di potere autoritativo della P.A., non cristallizzato in un atto paritetico, come indebitamente ritenuto dal giudice di prime cure, sarebbe dunque applicabile l’ordinario termine decadenziale, ormai spirato. Ma anche a voler aderire alla qualificazione come “paritari” degli atti de quibus, sottesa alle opzioni ermeneutiche del giudice di primo grado, il termine di prescrizione applicabile non potrebbe che essere quello quinquennale, valido in generale in materia sanzionatoria, con conseguente tardività del ricorso, presentato comunque nel 2004, ovvero ben oltre i cinque anni dalla commessa violazione, consumatasi non onorando tempestivamente l’obbligazione con il Comune.
11. Anche tale eccezione è infondata e pertanto va respinto l’appello incidentale e confermata sul punto la ricostruzione effettuata dal TAR per la Toscana.
Oggetto dell’odierno giudizio è, per quanto sopra detto e sostanzialmente già affermato dal Tribunale civile di Prato e dalla Corte d’Appello di Firenze, il riconoscimento di un diritto soggettivo a carattere patrimoniale, realizzabile peraltro indipendentemente dall’avvenuta intermediazione di un provvedimento amministrativo (in tal senso, tutta la giurisprudenza sulla distinzione tra atti paritetici ed atti autoritativi sviluppatasi a seguito della c.d. sentenza "Fagiolari", Cons. Stato, Sez. V, 01.12.1939 n. 795).
In tale ambito devono infatti essere ricondotte le controversie in tema di determinazione della misura dei contributi edilizi che traggono origine direttamente da fonti normative, per cui sono proponibili, a prescindere dall’impugnazione di provvedimenti dell’amministrazione, nel termine di prescrizione (Cons. Stato, Sez. IV, 27.09.2017, n. 4515, che richiama Cons. Stato, Sez. IV, 20.09.2012, n. 6033). Come correttamente affermato dal TAR, infatti, «l’opposizione all’ingiunzione, cumulando in sé le caratteristiche di forma ed efficacia di titolo esecutivo e di precetto, si traduce in una opposizione di merito all’esecuzione, con cui il privato può far valere tutte le eccezioni e contestazioni relative al credito azionato dalla P.A., senza preclusioni legate all’epoca della formazione del titolo, stante l’origine stragiudiziale dello stesso».
11.1. Giova al proposito ricordare come la nozione di atti paritari venga in considerazione allorché l'amministrazione, tenuta per legge a far fronte ad un obbligo in ragione di un rapporto di diritto pubblico avente natura patrimoniale, si veda attribuito -da una legge, appunto, o da altra fonte normativa- il potere di definire unilateralmente detto rapporto e, quindi, di determinare essa stessa l'entità dei propri obblighi e dei correlativi diritti (tipico è il caso della determinazione di stipendi, assegni, emolumenti, etc.), in base ad una mera attività accertativa. Tali atti non possono essere ricompresi, a rigore, tra i provvedimenti amministrativi, poiché in tale ambito l'amministrazione non esercita un potere di supremazia nei confronti del privato, bensì utilizza strumenti del diritto civile che la pongono sullo stesso piano della controparte.
12. Che questa sia la natura delle ingiunzioni di pagamento riferite a tale tipologia di credito, trova conferma di recente finanche in una pronuncia dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato ( cfr. Cons. Stato, A.P., 30.08.2018, n. 12), ancorché con riferimento alla tematica dell’esercizio dell’autotutela e della conseguente necessità di tutelare l’affidamento delle parti. Si è così riconosciuto che la rideterminazione degli oneri concessori costituisce espressione di una legittima facoltà della P.A. che si colloca nell’ambito del rapporto paritetico di natura creditizia conseguente al rilascio del titolo edilizio a carattere oneroso, ed è perciò sottoposto nelle sue forme di esercizio al termine prescrizionale ordinario. Ciò non può non valere, aggiunge il Collegio, per la loro determinazione originaria.
13. In sintesi, e senza addentrarsi in dissertazioni circa la natura del titolo edilizio (per le quali si rinvia ancora a Cons. Stato, A.P., n. 12/2018) la pubblica amministrazione, nel corso del rapporto che si instaura a seguito dell’avvenuto rilascio dello stesso, può sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo del correlato tale contributo, pur se in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza, purché nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza. Per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento. Il che è quanto accaduto nel caso di specie non appena le parti sono venute a conoscenza della pretesa (impugnativa della nota del 14.09.1993), nonché dell’avvenuta inclusione nella stessa di sanzioni ed interessi, in sede di prima comunicazione solo paventati (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 21.10.2019 n. 7119 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli oneri concessori conseguono al rilascio del titolo edilizio e trovano la loro causa nello stesso, tanto da poter essere determinati o rideterminati nel termine prescrizionale di dieci anni. La messa a conoscenza della loro entità non incide, pertanto, sulla loro nascita, bensì più propriamente sulla loro esigibilità, nonché, per quanto già detto, sulla decorrenza degli interessi e l’accertamento dell’illecito ritardo.
La notifica, cioè, del provvedimento di quantificazione, mette la controparte in condizione di onorare il debito, ma, diversamente da quanto accade in ambito esclusivamente sanzionatorio, ove la tempestiva conoscenza della condotta addebitata impatta anche sull’esercizio delle garanzie difensive, non può certo travolgere la ragione della debenza, che resta radicata nell’avvenuto rilascio del titolo edilizio.
---------------

18. Resta ora da scrutinare il motivo dell’appello principale incentrato sul presunto vizio di notifica dell’atto con il quale, prima del diretto coinvolgimento degli odierni appellanti, sarebbe stata indicata la somma capitale dovuta a titolo di contributo concessorio alla richiedente la sanatoria, signora Ma.Gr.Re..
18.1. Sostengono gli appellanti che il riferimento all’art. 139 c.p.c. sarebbe errato in quanto nel caso di specie non è in contestazione tanto e solo la qualifica di persona titolata alla ricezione degli atti di quella che se ne è concretamente fatta carico; bensì l’erroneità dell’indirizzo ove la notifica è stata effettuata.
19. Il motivo è fondato.
19.1. L’art. 139 c.p.c. considera regolarmente effettuata la notifica nel luogo di residenza, dimora o domicilio del destinatario, avuto riguardo all’avvenuta ricezione dell’atto da parte di soggetto, ivi rinvenuto, che ne accetti la consegna, gravando sul destinatario l’onere di provare l’inesistenza del rapporto in forza del quale deve ulteriormente presumersi che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto. Ciò è quanto sarebbe avvenuto nel caso di specie, essendo stato l’atto consegnato a mano di tal signora An.Co., indicata come “addetta” nella prevista relata di notifica.
Ora, anche a prescindere dall’ambiguità della richiamata dizione “addetta” e volendo riconoscere a tale infelice espressione di sintesi la corretta accezione di “persona autoqualificatasi deputata alla ricezione degli atti”, resta il tema del luogo ove è in concreto avvenuta tale affermazione propositiva. Ove, infatti, la consegna fosse avvenuta effettivamente nel luogo di residenza, domicilio o dimora della consegnataria, correttamente dovrebbero trovare applicazione le ricordate regole sull’onere probatorio di sconfessare la caratteristica di persona titolata al ritiro degli atti di chi si qualifichi tale. Solo che nel caso di specie così non è accaduto e per quanto la differenza di un solo numero civico abbia evidentemente indotto il TAR a pretermettere l’eccepita circostanza essa non consente di identificare l’indirizzo legale, diverso e ubicato al civico 44, con quello di consegna del documento, relativo alla medesima via ... , ma al civico 42.
19.2 Afferma al riguardo il Comune appellato che tale apparente errore sarebbe da ascrivere ad un’opzione della stessa richiedente il condono che avrebbe indicato il civico 42 quale proprio domicilio nella relativa istanza. Ove ciò fosse stato provato, rileva la Sezione, si sarebbe potuto ipotizzare un legittimo affidamento dell’Amministrazione procedente sulla correttezza del dato utilizzato, in un’ottica di leale collaborazione che comunque deve improntare il rapporto tra le parti.
Ma nel caso di specie l’indirizzo assunto quale residenza o domicilio della parte è semplicemente quello indicato per individuare l’ubicazione del manufatto oggetto di condono, al più correlabile all’interessata in termini di domicilio avuto riguardo alla sua veste di presunta committente dei lavori abusivi, non una volta ultimati gli stessi (il che peraltro, trattandosi di condono, era già avvenuto al momento della presentazione della relativa istanza).
19.3. A fronte, dunque, della mancata prova -il cui onere incombeva sull’amministrazione procedente- della corretta individuazione del domicilio della richiedente il condono, anagraficamente residente in un immobile a confine, ma non coincidente, non può operare la presunzione invocata dal TAR per la Toscana ai fini della ritenuta validità della consegna dell’atto ad una sedicente “addetta” alla ricezione. Né a diverse conclusioni può giungersi sul solo rilievo che al civico 42 della via ... insiste comunque un’attività imprenditoriale (la società Ma. s.r.l) riconducibile a familiari dell’interessata, non potendo tale circostanza consentire di sanare l’innegabile vizio formale della notifica, in assenza di riscontro probatorio perfino sulla tipologia di rapporti intercorrenti con i ridetti familiari, ovvero sulla frequentazione del luogo da parte dell’interessata, comunque estranea all’attività imprenditoriale in quanto di professione insegnante.
20. La ritenuta invalidità della notifica, tuttavia, rileva la Sezione, non pone un problema di rivalutazione della legittimità della richiesta creditoria nella sua globalità.
20.1. Ritiene cioè il Collegio che -così come essa non può palesarsi neutra in relazione al computo di interessi e sanzioni, la cui stessa maturazione è correlata necessariamente alla conoscenza dell’importo dovuto e al suo mancato pagamento nei termini- lo stesso non può valere con riferimento alla somma capitale.
Come chiarito ai §§ 7 e 8, gli oneri concessori conseguono al rilascio del titolo edilizio e trovano la loro causa nello stesso, tanto da poter essere determinati o rideterminati nel termine prescrizionale di dieci anni. La messa a conoscenza della loro entità non incide, pertanto, sulla loro nascita, bensì più propriamente sulla loro esigibilità, nonché, per quanto già detto, sulla decorrenza degli interessi e l’accertamento dell’illecito ritardo. La notifica, cioè, del provvedimento di quantificazione, mette la controparte in condizione di onorare il debito, ma, diversamente da quanto accade in ambito esclusivamente sanzionatorio, ove la tempestiva conoscenza della condotta addebitata impatta anche sull’esercizio delle garanzie difensive, non può certo travolgere la ragione della debenza, che resta radicata nell’avvenuto rilascio del titolo edilizio.
22. Trasponendo il paradigma teorico sopra descritto nella concretezza della fattispecie all’esame, si ha dunque che la determinazione dell’importo dovuto, in quanto correlato alla pratica di condono del 1986, è stata effettuata con nota del 1989, della quale tuttavia non è stata provata la conoscenza da parte della richiedente, peraltro deceduta di lì a pochi mesi. L’importo è stato nuovamente comunicato agli eredi con nota del 14.09.1993, ed è indubbio che a far data da tale momento gli stessi, subentrati nella proprietà dell’immobile condonato, hanno acquisito piena contezza della somma capitale dovuta. Per contro, suddetta pregressa mancata conoscenza -rectius, la mancata prova dell’avvenuta conoscenza- dell’importo delle somme dovute, travolge inesorabilmente finanche l’ipotizzata responsabilità da ritardo della signora Ma.Gr.Re., da circoscrivere peraltro tutt’al più al breve lasso di tempo intercorso tra la consegna dell’atto (01.03.1989) e il sopravvenuto decesso (13.07.1990). La non trasmissibilità agli eredi -il signor Gi.Re., a sua volta deceduto prima dell’instaurazione dell’odierno contenzioso- ha pertanto già creato un insanabile iato che non consentiva di attingere le odierne appellanti, quanto meno in relazione a sanzioni ed interessi moratori.
22.1. Ancor prima dell’ingiunzione di pagamento, che dà avvio alla fase esecutiva del credito, avuta conoscenza del debito “ereditato” una delle parti ha provveduto a saldarne, pur con riserva di ripetizione, l’importo capitale, con ciò eliminando in radice, a far data da tale momento, la possibilità di addebitare alle parti nuovi ritardi, ovvero ulteriori comportamenti sanzionabili.
22.2. A ciò consegue, rileva la Sezione, la sola residua facoltà per l’Amministrazione procedente, ove ne ravvisi gli estremi, di rieditare il proprio potere correggendo il computo degli interessi moratori sulla sola somma capitale (essendo ormai prescritto l’eventuale autonomo illecito ritardo addebitabile alle parti a far data dall’avvenuta conoscenza della somma dovuta, con atto mai sospeso dai giudici adìti) per il lasso di tempo intercorso tra la ricezione della nota del 14.09.1993 e il suo avvenuto pagamento.
23. In conclusione, il Collegio ritiene fondata la richiesta del Comune in relazione alla somma capitale per gli oneri concessori correlati all’istanza di condono del 29.03.1986, peraltro già corrisposta, pertanto non ripetibile; ma non quella concernente gli importi sanzionatori e moratori addebitati agli eredi della -presunta- responsabile del ritardo a decorrere dal 1989, fatta salva la facoltà di ricalcolo degli interessi moratori a far data dal 14.09.1993, corrispondente all’effettiva messa a conoscenza dell’entità del credito mediante notifica dell’apposita nota agli appellanti. Conseguentemente risultano annullati tutti gli atti con i quali si è dato seguito a tale parte della pretesa, con particolare riguardo all’ingiunzione emessa in relazione a sanzioni e interessi di mora non corrisposti per il lasso di tempo come sopra individuato.
24. Per tutto quanto detto, il Collegio ritiene di dover respingere l’appello incidentale, confermando in parte qua l’impugnata sentenza, con le integrazioni sopra esposte; accogliere in parte l’appello principale nei sensi e limiti di cui in motivazione, con conseguente annullamento dell’ingiunzione di pagamento prot. n. 33940 in data 08.05.1997, ferma restando la richiamata facoltà del Comune appellato di rideterminarsi sugli interessi moratori (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 21.10.2019 n. 7119 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAIn merito al calcolo del costo di costruzione il Collegio si conforma alla giurisprudenza di questa Sezione, che condivide quanto affermato dal Consiglio di Stato, in forza delle quali continua a trovare applicazione, nella Regione Lombardia, il decreto del Ministro per i lavori pubblici del 10.05.1977, adottato in attuazione dell’art. 6 della legge 10/1977, per il quale il costo si calcola sulla base della superficie complessiva (Sc), pari alla somma della superficie utile (Su) e del 60% della superficie non residenziale per servizi e accessori (Snr), con gli incrementi previsti dal decreto in relazione alle classi di edifici.
Secondo l’art. 2 del DM 10.05.1977 “Le superfici per servizi ed accessori riguardano: a) cantinole, soffitte, locali motore ascensore, cabine idriche, lavatoi comuni, centrali termiche, ed altri locali a stretto servizio delle residenze; b) autorimesse singole o collettive; c) androni di ingresso e porticati liberi; d) logge e balconi”.
Per quanto riguarda tali servizi la giurisprudenza ha chiarito che “Dalla superficie non residenziale devono invece essere escluse le scale che sono una struttura necessaria (ma non la "scala di servizio non prescritta da leggi o regolamenti o imposta da necessità di prevenzione di infortuni o di incendi" di cui al n. 2 dell'art. 7 del d.m. 1977)” ed il Comune di Milano ha, in conformità a tale interpretazione, modificato la circolare che conteggiava nella s.n.r. le “scale e pianerottoli” sostituendo a questi “le scale di servizio, cioè aggiuntive alla principale non prescritte da leggi o regolamenti o imposte dalla necessità di evitare infortuni o incendi e locali di distribuzione orizzontale esterni alle unità immobiliari”.
---------------

1. In merito al primo motivo di ricorso, relativo al supposto errore nel calcolo del costo di costruzione, e la connessa domanda di ricalcolo del medesimo, occorre rilevare che la domanda di ricalcolo è stata presentata dopo il provvedimento impugnato ed è stata ritenuta infondata in sede di memorie difensive del Comune in quanto avrebbe escluso dal conto del costo di costruzione anche i pianerottoli.
Il motivo è fondato.
In merito al calcolo del costo di costruzione il Collegio si conforma alla giurisprudenza di questa Sezione (TAR Lombardia (MI), Sez. II, n. 1248, del 13.05.2014) che condivide quanto affermato dal Consiglio di Stato nelle due pronunce n. 6160 e 6161 del 20.12.2013, in forza delle quali continua a trovare applicazione, nella Regione Lombardia, il decreto del Ministro per i lavori pubblici del 10.05.1977, adottato in attuazione dell’art. 6 della legge 10/1977, per il quale il costo si calcola sulla base della superficie complessiva (Sc), pari alla somma della superficie utile (Su) e del 60% della superficie non residenziale per servizi e accessori (Snr), con gli incrementi previsti dal decreto in relazione alle classi di edifici.
Secondo l’art. 2 del Decreto ministeriale 10.05.1977 “Le superfici per servizi ed accessori riguardano: a) cantinole, soffitte, locali motore ascensore, cabine idriche, lavatoi comuni, centrali termiche, ed altri locali a stretto servizio delle residenze; b) autorimesse singole o collettive; c) androni di ingresso e porticati liberi; d) logge e balconi” (in merito Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.11.2012 n. 6033).
Per quanto riguarda tali servizi la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. IV, 20/12/2013, n. 6161) ha chiarito che “Dalla superficie non residenziale devono invece essere escluse le scale che sono una struttura necessaria (ma non la "scala di servizio non prescritta da leggi o regolamenti o imposta da necessità di prevenzione di infortuni o di incendi" di cui al n. 2 dell'art. 7 del d.m. 1977)” ed il Comune di Milano ha, in conformità a tale interpretazione, modificato la circolare che conteggiava nella s.n.r. le “scale e pianerottoli” sostituendo a questi “le scale di servizio, cioè aggiuntive alla principale non prescritte da leggi o regolamenti o imposte dalla necessità di evitare infortuni o incendi e locali di distribuzione orizzontale esterni alle unità immobiliari”.
Risulta chiaro quindi che, con la modificazione della circolare non solo sono state espunte dal calcolo le scale che non siano di servizio, cioè quelle necessarie, secondo l’interpretazione data dalla sentenza sopra indicata, ma anche i pianerottoli, che prima erano inclusi nella s.n.r. e poi non lo sono più, probabilmente perché sono stati ritenuti parte delle scale. Poiché è lo stesso Comune ad aver equiparato, con la prima versione della circolare, le scale ed i pianerottoli, vi è ragione per ritenere che tale equiparazione valga anche dopo la modifica in quanto quest’ultima era volta solo ad individuare solo le scale soggette o meno al conteggio e non all’individuazione delle sue parti.
Ne deriva che il motivo va accolto con conseguente riconoscimento della non debenza della somma di € 12.125,50 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.10.2018 n. 2198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha chiarito che l’atto con il quale l'Amministrazione comunale quantifica i contributi di costruzione ha carattere puramente ricognitivo e contabile, in quanto l'ammontare del credito è predeterminato sulla base di rigidi criteri di calcolo definiti con atto regolamentare.
Anche dopo il rilascio della concessione edilizia, pertanto, il Comune può provvedere al corretto riconteggio del contributo dovuto, a prescindere da un'espressa riserva in tal senso, in quanto il credito esiste indipendentemente dall'atto contabile che lo quantifica: la rettifica è pertanto consentita ogni qual volta sia ravvisabile un errore, dovuto a qualsiasi ragione, nella liquidazione o nel calcolo del contributo concessorio.
Poiché la rettifica dell’ammontare del contributo è sempre consentita, perché l’applicazione di una tariffa diversa da quella corretta altro non è che un errore di calcolo, essa è sottratta alle regole dell’autotutela amministrativa.

---------------

2. Il secondo motivo di ricorso, incentrato sulla mancata comunicazione di avvio del procedimento di rettifica del contributo autoliquidato, è infondato.
Infatti la giurisprudenza a cui si conforma il Collegio ha chiarito che l’atto con il quale l'Amministrazione comunale quantifica i contributi in esame ha carattere puramente ricognitivo e contabile, in quanto l'ammontare del credito è predeterminato sulla base di rigidi criteri di calcolo definiti con atto regolamentare.
Anche dopo il rilascio della concessione edilizia, pertanto, il Comune può provvedere al corretto riconteggio del contributo dovuto, a prescindere da un'espressa riserva in tal senso, in quanto il credito esiste indipendentemente dall'atto contabile che lo quantifica: la rettifica è pertanto consentita ogni qual volta sia ravvisabile un errore, dovuto a qualsiasi ragione, nella liquidazione o nel calcolo del contributo concessorio (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 16.06.2011 n. 1042). Poiché la rettifica dell’ammontare del contributo è sempre consentita, perché l’applicazione di una tariffa diversa da quella corretta altro non è che un errore di calcolo, essa è sottratta alle regole dell’autotutela amministrativa (cfr. in particolare, Cons. Stato, sez. IV, 27.09.2017, n. 4515; Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2017, n. 2821).
Il motivo va quindi respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.10.2018 n. 2198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Occorre ben distinguere tra oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
Si afferma, infatti, in sede pretoria che per stabilire in quali casi sussiste l'obbligo di versamento del contributo di costruzione, occorre distinguere fra importi dovuti a titolo di oneri di urbanizzazione ed importi dovuti a titolo di costo di costruzione.
Per quanto riguarda specificamente i primi, si ritiene che, poiché la loro funzione è quella di far sì che il costruttore partecipi ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la costruzione ne ritrae, essi vanno corrisposti solo nel caso in cui l'intervento determini un aumento del carico urbanistico, e cioè determini la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione ovvero l'esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti.
Nel sistema vigente il contributo per oneri di urbanizzazione è infatti un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere stesse; tali oneri sono pertanto dovuti anche al di là di un nesso di stretta inerenza delle opere di urbanizzazione rispetto alle singole aree.
Il costo di costruzione, invece, essendo una percentuale rapportata non ad opere da fare per la collettività ma ai costi di costruzione per tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono suscettibili di entrare nel meccanismo dello scomputo, che è appunto disciplinato da detta norma della convenzione.
---------------

II.2. Con il terzo mezzo, parte ricorrente evidenzia che l’intervento avrebbe ad oggetto, tra l’altro, la realizzazione di interventi di edilizia residenziale sociale, con conseguente diritto all’esonero dal contributo di costruzione a norma dell’art. 17 d.P.R. n. 380/2001, il cui primo comma prevede che “Nei casi di edilizia abitativa convenzionata, relativa anche ad edifici esistenti, il contributo afferente al permesso di costruire è ridotto alla sola quota degli oneri di urbanizzazione qualora il titolare del permesso si impegni, a mezzo di una convenzione con il comune, ad applicare prezzi di vendita e canoni di locazione determinati ai sensi della convenzione-tipo prevista dall'articolo 18”.
Si afferma così in giurisprudenza che “L'unico presupposto richiesto dall'art. 17, D.P.R. n. 380 citato, invero, è la realizzazione di alloggi e l'impegno a venderli a prezzi agevolati, previa sottoscrizione di apposita convenzione con il Comune” (cfr. Cons. Giust. Amm. Sic., 21.12.2015, n. 713).
Parte ricorrente ha fornito dimostrazione del presupposto costitutivo del diritto, avendo versato in atti la convenzione Rep. n. 3562 del 24.01.2012, stipulata dalle società Or. 85 S.c.a.r.l. e dalla Società Ga. S.r.l. con il Comune di Pontecagnano, i cui artt. 2, 3 e 5 prevedono l’impegno della ricorrente a realizzare intervento di edilizia residenziale sociale per “una quota non inferiore al 30% dell’edificato residenziale assentito”, pari a n. 33 alloggi con prezzo di trasferimento che “dovrà essere determinato nel rispetto della disciplina in tema di edilizia sociale” (cfr. art. 5.5. della citata convenzione).
Occorre ben distinguere tra oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
Si afferma, infatti, in sede pretoria (TAR Milano-Lombardia, sez. II, 04.08.2016, n. 1561) che per stabilire in quali casi sussiste l'obbligo di versamento del contributo di costruzione, occorre distinguere fra importi dovuti a titolo di oneri di urbanizzazione ed importi dovuti a titolo di costo di costruzione.
Per quanto riguarda specificamente i primi, si ritiene che, poiché la loro funzione è quella di far sì che il costruttore partecipi ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la costruzione ne ritrae, essi vanno corrisposti solo nel caso in cui l'intervento determini un aumento del carico urbanistico, e cioè determini la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione ovvero l'esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti.
Nel sistema vigente il contributo per oneri di urbanizzazione è infatti un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere stesse; tali oneri sono pertanto dovuti anche al di là di un nesso di stretta inerenza delle opere di urbanizzazione rispetto alle singole aree.
Il costo di costruzione, invece, essendo una percentuale rapportata non ad opere da fare per la collettività ma ai costi di costruzione per tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono suscettibili di entrare nel meccanismo dello scomputo, che è appunto disciplinato da detta norma della convenzione.
Or dunque, va sottolineato che parte resistente, nelle sue articolazioni difensive non ha contestato la effettiva realizzazione degli alloggi secondo quanto previsto in progetto nella percentuale prevista per l’edilizia residenziale pubblica, circostanza che quindi va reputata processualmente acquisita e destinata ad integrare, unitamente al visto impegno convenzionale, il presupposto costituivo del diritto, in questa sede azionato, all’esenzione dal pagamento del costo di costruzione.
Tanto è sufficiente, risultando recessiva ogni deduzione afferente all’adeguatezza motivazionale dell’atto impugnato, per l’accoglimento del motivo in esame (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 31.01.2017 n. 179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

Dichiarazione di incostituzionalità di una norma e relativi effetti sugli atti amministrativi adottati:
ne davamo conto con l'AGGIORNAMENTO AL 31.12.2021 e, di seguito, riportiamo ulteriori contributi al riguardo.

ATTI AMMINISTRATIVI: R. Musone, Nuove tendenze nel regime di invalidità dell’atto amministrativo incostituzionale - Nota a TAR Veneto, Sez. I, 22.07.2019 n. 890 (27.02.2020 - link a www.filodiritto.com).
---------------
Abstract
Il presente contributo trae spunto da una recente sentenza del TAR veneto per analizzare il nuovo orientamento giurisprudenziale che propende per la nullità dell’atto amministrativo applicativo di una norma di legge attributiva del potere sulla quale sia sopraggiunta la dichiarazione di incostituzionalità, distaccandosi dalla posizione tradizionale favorevole all'illegittimità senza distinguere tra norma attributiva e norma regolativa del potere e risalente all'Adunanza Plenaria n. 8/1963.
La pronuncia in commento, rappresentando solo l’ultima di una serie di arresti fortemente innovativi in tema del regime di invalidità dell’atto amministrativo applicativo di una norma di legge attributiva del potere e successivamente oggetto di declaratoria di incostituzionalità, offre uno spunto interessante per valutare l’ampiezza della svolta intervenuta sul punto.
---------------
Indice: 1. L’orientamento tradizionale - 2. Il nuovo indirizzo - 3. Conclusioni.

ATTI AMMINISTRATIVI: È annullabile l’atto amministrativo adottato sulla base di una legge incostituzionale.
L’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa ritiene che l’atto amministrativo adottato sulla base di una legge incostituzionale deve ritenersi annullabile.
---------------

1.− La società Me.Ag. ha chiesto la riforma della sentenza, in epigrafe indicata, con la quale il Tribunale amministrativo del Lazio ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento del 20.09.2012 del Gestore dei servizi energetici (Gse), di decadenza dal diritto alle tariffe incentivanti previste dal decreto ministeriale 05.05.2011, il provvedimento del 22.10.2012, con cui il Gse ha dichiarato la decadenza per un periodo di dieci anni della società ricorrente e del suo legale rappresentante dagli incentivi previsti per le energie rinnovabili, e il suddetto decreto ministeriale nella parte in cui attribuisce al Gestore la competenza a verificare la fine dei lavori sotto il profilo strutturale.
2.− La Sezione, con sentenza parziale 04.07.2014, n. 3411, ha ritenuto infondato l’appello proposto dalla società Megasolare per la parte relativa alla contestazione della mancata ultimazione dei lavori e del conseguente provvedimento in data 20.09.2012, di decadenza dagli incentivi di cui al decreto ministeriale 05.05.2011.
3.− La stessa Sezione, con ordinanza n. 4352 del 2014, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 43, comma 1, del decreto legislativo 03.03.2011, n. 28 (Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE), in riferimento agli artt. 3, 25, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione (quest'ultimo) anche all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 04.11.1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 04.08.1955, n. 848.
In particolare, si è ritenuta pregiudiziale tale questione al fine di valutare la fondatezza dell’appello del GSE. In attesa della sentenza della Corte il giudizio è rimasto sospeso.
4.− La Corte costituzionale, con sentenza n. 51 del 2017, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della suddetta norma per violazione dell’art. 76 Cost., non essendosi il legislatore delegato, mediante l’introduzione di una misura interdittiva, mantenuto entro il perimetro della legge delega la quale ha previsto unicamente il potere di irrogare sanzioni penali o amministrative pecuniarie.
5.− La causa, dopo la pubblicazione della predetta sentenza, è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 14.12.2017.
6.− L’appello è fondato.
La Corte costituzionale, con la citata sentenza, ha ritenuto illegittima la norma attributiva del potere di applicazione della sanzione interdittiva.
L’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa ritiene che l’atto amministrativo adottato sulla base di una legge incostituzionale deve ritenersi annullabile (Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2014, n. 4624. Questa Sezione, con riferimento al contenzioso in esame, ha già avuto modo di affermare che «sebbene il giudizio di costituzionalità afferisca alla legge, esso spiega effetti anche sui provvedimenti amministrativi attuativi della fonte primaria dichiarata non conforme alla costituzione che siano stati impugnati nel giudizio a quo, trattandosi infatti di una particolare ipotesi di invalidità derivata dell’atto» (Cons. Stato, sez. VI, 13.02.2018, n. 935). Nel caso di specie tale vizio è stato oltretutto fatto ritualmente valere con uno specifico motivo di ricorso che, pertanto, non può che trovare accoglimento
Ne consegue che il provvedimento impugnato in primo grado deve essere annullato perché adottato sulla base di una norma ritenuta in contrasto con la Costituzione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.02.2018 n. 1064 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn base al combinato disposto dell'art. 136 della Costituzione e dell'art. 30 della legge 11.03.1953, n. 87, la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che essa possa essere applicata ai rapporti, in relazione ai quali la norma dichiarata incostituzionale risulti ancora rilevante, stante l'effetto retroattivo dell'annullamento, escluso solo per i c.d. rapporti esauriti.
In particolare, nel caso in cui, sulla base di una norma poi dichiarata incostituzionale, sia stato emanato un atto amministrativo, la declaratoria di illegittimità non determina la caducazione automatica dell’atto dell’autorità quanto, piuttosto, l’illegittimità o invalidità -sopravvenuta per violazione della legge costituzionale- dello stesso che dovrà essere rimosso, anche a seguito di rilievo ex officio, da un pronuncia del giudice titolare del potere di annullamento (e, in particolare, del giudice a quo che di tale potestà sia provvisto) o da un provvedimento adottato in via di autotutela dall’Amministrazione.
Ciò in quanto non esiste tra legge e atto amministrativo un rapporto di consequenzialità, essendo essi il risultato di differenti procedimenti -indipendentemente dall’influenza che l’uno possa esercitare sull’altro- ed espressione di differenti e autonome funzioni dello Stato.
Tuttavia, affinché il giudice possa procedere alla caducazione dell’atto divenuto illegittimo a seguito di successiva declaratoria di illegittimità costituzionale, è necessario che l’atto sia stato tempestivamente impugnato, in quanto, seppure sia fuor di dubbio che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di un norma abbia rilevanza nei processi in corso, essa, però, non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi, poiché la retroattività degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la norma, ancorché successivamente rimossa dall’ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora resi intangibili dalla preclusione nascente o dall’esaurimento dello specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta dall’ordinamento giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze ovvero, ancora, dalla formazione del giudicato.
Questo perché, nel caso di sopravvenuta illegittimità costituzionale della norma posta alla base del potere esercitato è necessario, sul piano processuale, coordinare il principio della rilevabilità d'ufficio della questione di costituzionalità con il principio della domanda che caratterizza il processo amministrativo. La questione può essere rilevata d'ufficio purché la parte abbia introdotto nel processo i fatti principali su cui il giudice deve pronunciarsi.
In particolare, è necessario che il ricorrente abbia impugnato il provvedimento amministrativo facendo valere, mediante la formulazione di censure, la sua illegittimità per contrasto con la norma, senza che sia necessario avere anche indicato, tra i motivi, l'illegittimità costituzionale della norma.
---------------

Con un secondo ricorso per motivi aggiunti, notificato via pec in data 01/04/2016 e depositato 04.04.2016, il Comune ricorrente esponeva in fatto:
   - di aver rinvenuto nuova documentazione depositata dal Commissario resistente in data 02/03/2016 e successivamente integrata;
   - che, nelle more, era intervenuta sentenza della Corte Costituzionale n. 7/2016, con la quale era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dei commi 2, 4, 10-bis e 11 dell’art. 1 del d.l. 133/2014 conv. in l. 164/2014 ovvero delle disposizioni in forza delle quali erano stati adottati gli atti impugnati, che erano, perciò, da ritenersi illegittimi.
Sulla base di queste premesse, il Comune ricorrente articolava le seguenti censure in diritto:
   VII. Illegittimità derivata per sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità in quanto a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 1, commi 2, 4, 10-bis e 11 del d.l. 133/2014 conv. in l. 164/2014 gli atti impugnati sarebbero divenuti illegittimi per un ulteriore profilo, rappresentato dalla caducazione per illegittimità della norma attributiva del potere;
   VIII. Illegittimità dell’ordinanza n. 18 del 05/11/2015 per l’avvenuta caducazione, in forza della sentenza della Corte Costituzionale n. 7/2016 della norma attributiva del potere dell’organo commissariale che l’ha adottata.
...
Il secondo ricorso per motivi aggiunti va, invece dichiarato irricevibile per tardività.
Con esso il Comune ricorrente intende far valere l’illegittimità degli atti già impugnati con il ricorso principale e con il primo ricorso per motivi aggiunti, nonché –seppure questo dato non emerga chiaramente dall’epigrafe del ricorso (cfr. originale e copie in atti)- dell’ordinanza commissariale n. 18 del 05.11.2015, con la quale è stata -tra l’altro- indetta la conferenza di servizi del 17/11/2015, svoltasi con la partecipazione del Comune ricorrente, in conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale 21.01.2016 n. 7.
Con la pronuncia testé richiamata è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 2, 4, 10-bis e 11 dell’art. 1 del d.l. 133/2014 conv. in l. 164/2014 nella parte in cui non prevede, rispettivamente:
   a) che l’approvazione dei relativi progetti avvenga d’intesa con la Regione interessata (commi 2 e 4);
   b) che l’approvazione del Piano di ammodernamento dell’infrastruttura ferroviaria avvenga d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni (comma 10-bis);
   c) che sia sentito il parere della Regione sui contratti di programma tra l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (ENAC e i gestori degli scali aeroportuali di interesse nazionale.
Il Collegio osserva, al riguardo, che, in base al combinato disposto dell'art. 136 della Costituzione e dell'art. 30 della legge 11.03.1953, n. 87, la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che essa possa essere applicata ai rapporti, in relazione ai quali la norma dichiarata incostituzionale risulti ancora rilevante, stante l'effetto retroattivo dell'annullamento, escluso solo per i c.d. rapporti esauriti (Cons. Stato, sez. V, 11.01.2013 n. 110; Cons. Stato, sez. III, 14.03.2012, n. 1429; Cass. civ., 06.05.2010, n. 10958).
In particolare, nel caso in cui, sulla base di una norma poi dichiarata incostituzionale, sia stato emanato –come nel caso di specie- un atto amministrativo la declaratoria di illegittimità non determina la caducazione automatica dell’atto dell’autorità (cfr. Cons. Stato, 03.11.2015, sez. IV, n. 5012; v., però, contra Cons. Stato, sez. V, 11.01.2013 n. 110) quanto, piuttosto, l’illegittimità o invalidità -sopravvenuta per violazione della legge costituzionale- dello stesso che dovrà essere rimosso, anche a seguito di rilievo ex officio, da un pronuncia del giudice titolare del potere di annullamento (e, in particolare, del giudice a quo che di tale potestà sia provvisto) o da un provvedimento adottato in via di autotutela dall’Amministrazione (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 08.04.1963, n. 8). Ciò in quanto non esiste tra legge e atto amministrativo un rapporto di consequenzialità, essendo essi il risultato di differenti procedimenti -indipendentemente dall’influenza che l’uno possa esercitare sull’altro- ed espressione di differenti e autonome funzioni dello Stato.
Tuttavia, affinché il giudice possa procedere alla caducazione dell’atto divenuto illegittimo a seguito di successiva declaratoria di illegittimità costituzionale, è necessario che l’atto sia stato tempestivamente impugnato, in quanto, seppure sia fuor di dubbio che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di un norma abbia rilevanza nei processi in corso, essa, però, non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi, poiché la retroattività degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la norma, ancorché successivamente rimossa dall’ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora resi intangibili dalla preclusione nascente o dall’esaurimento dello specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta dall’ordinamento giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze ovvero, ancora, dalla formazione del giudicato (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2011 n. 5012).
Questo perché, nel caso di sopravvenuta illegittimità costituzionale della norma posta alla base del potere esercitato è necessario, sul piano processuale, coordinare il principio della rilevabilità d'ufficio della questione di costituzionalità con il principio della domanda che caratterizza il processo amministrativo. La questione può essere rilevata d'ufficio purché la parte abbia introdotto nel processo i fatti principali su cui il giudice deve pronunciarsi.
In particolare, è necessario che il ricorrente abbia impugnato il provvedimento amministrativo facendo valere, mediante la formulazione di censure, la sua illegittimità per contrasto con la norma, senza che sia necessario avere anche indicato, tra i motivi, l'illegittimità costituzionale della norma (Cons. Stato, 03.11.2015, sez. IV, n. 5012) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 08.06.2016 n. 2898 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ESPROPRIAZIONELa dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma rileva anche nei processi in corso, ma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi. Ciò perché la retroattività degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la stessa, ancorché successivamente rimossa dall'ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora resi intangibili dalla preclusione nascente o dall'esaurimento dello specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta dall'ordinamento giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze ovvero, ancora, dalla formazione del giudicato0
---------------

5. Restano da esaminare: la questione della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del dPR n. 327/2001; la questione della asserita inadeguatezza/irrisorietà della somma offerta in relazione al valore intrinseco del bene, (il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 3509/2009, confermativa di quella di ottemperanza 2160/2003 fece presente che le relative questioni dovevano essere “esaminate dal Giudice di primo grado, già peraltro adito dalle ricorrenti sia con ricorso di cognizione che con ricorso in ottemperanza.”) ferma restando la esclusione dell’ammissibilità dell’ulteriore petitum su danni morali etc., che come chiarito prima è inammissibile; parimenti dovranno essere scrutinati i motivi di censura in punto di “vizi” propri della determinazione del Comune.
5.1.La censura afferente le pretese conseguenze della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del dPR n. 327/2001 (che in tesi avrebbe travolto il provvedimento comunale, in quanto sebbene antecedentemente reso era ancora sub judice) ed i motivi di censura relativi ai supposti “vizi” propri della determinazione del Comune, sono connesse, e postulano la risoluzione di una problematica comune a monte.
5.1.1. Essa può così essere sintetizzata: la determinazione comunale di accedere allo strumento ex art. 43 del TU Espropriazione, integra atto amministrativo “libero”, o costituisce ottemperanza alla regiudicata sentenza n. 2160/2003?
5.2. Come accennato nella parte in fatto, il Tar ha prescelto la seconda opzione ermeneutica (e coerentemente con tale opzione ne ha fatto discendere le statuizioni processuali prima esaminate) .
Ha poi citato (in punto di conseguenze della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma “fondante” il potere esercitato dall’amministrazione comunale) il principio per cui la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma rileva anche nei processi in corso ma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi in ragione della preclusione nascente dalla formazione del giudicato.
Ciò in quanto, “l’atto di acquisizione vede il proprio autonomo titolo giuridico nella decisione del giudice amministrativo, di cui costituisce una mera appendice pur con gli effetti costitutivi del diritto di proprietà sul bene; pertanto, la disciplina del caso concreto trova in simili situazioni la sua conclusiva e irreversibile definizione nel giudicato avente ad oggetto l’esclusione della restituzione del bene al privato, i cui effetti resistono di conseguenza alla sopraggiunta dichiarazione di incostituzionalità della norma ivi applicata.”.
5.3. Parte appellante contesta detto approdo,ma il Collegio non condivide tali critiche.
5.3.1. Ed invero, il Tar si è correttamente conformato alla giurisprudenza amministrativa costante sul punto.
In particolare, nella decisione citata dalla stesso Tar, che il Collegio condivide integralmente (Cons. giust. amm. Reg. Sic. 19.05.2011 n. 369) è stata funditus esplorata la questione (la fattispecie ivi scrutinata è, anche sotto il profilo della tempistica, sovrapponibile a quella in esame).
Ivi è stato affermato che (punti 18 e 19) “18. - Le ultime considerazioni introducono all'esame della domanda di restituzione dell'area, avanzata nuovamente sul presupposto della recente sentenza della Corte costituzionale n. 293/2010.
La domanda è infondata. Ed invero, la citata pronuncia recante la dichiarazione di incostituzionalità del predetto art. 43 del D.P.R. n. 327/2001 è intervenuta in epoca successiva alla formazione del giudicato sulle statuizioni recate dalla decisione non definitiva n. 710 del 2007. Come sopra accennato, in detta sentenza questo Consiglio ha riconosciuto soltanto in linea teorica la sussistenza del diritto della ricorrente alla restituzione del bene, ma in concreto ha poi respinto, facendo salvi unicamente i profili risarcitori, la domanda di annullamento del provvedimento comunale di acquisizione sanante.
Si attaglia, pertanto, al caso in esame il consolidato principio (tra i molti precedenti, si veda la pronuncia del Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2008, n. 2724) secondo il quale la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma rileva anche nei processi in corso, ma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi.
Ciò perché la retroattività degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la stessa, ancorché successivamente rimossa dall'ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora resi intangibili dalla preclusione nascente o dall'esaurimento dello specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta dall'ordinamento giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze ovvero, ancora, dalla formazione del giudicato.
Quest'ultima è l'ipotesi ricorrente nel caso che occupa il Collegio, giacché gli effetti giuridici, ormai irreversibilmente prodottisi, sono per l'appunto consistiti nella perdita, da parte della ricorrente, di ogni diritto alla restituzione del bene, essendosi formato il giudicato in ordine al riconoscimento in capo alla professoressa Ro. di un diritto di credito di natura risarcitoria, a nulla rilevando che il presente giudizio prosegua per la stima del quantum ad Ella spettante.
19. - Il rigetto della domanda di restituzione travolge anche la successiva istanza di nomina di un commissario ad acta: ed invero, atteso quanto testé chiarito, non dovendosi restituire alcunché alla ricorrente e non dovendosi compiere alcuna attività provvedimentale di natura sostitutiva e con finalità esecutive, residua unicamente il problema della esatta quantificazione del risarcimento dovuto alla professoressa Ro., ma a tali fini il Collegio non ha bisogno di avvalersi di un commissario ad acta, apparendo indispensabile soltanto un accertamento (già in corso) tipicamente riservato alla cognizione giurisdizionale (e, come tale, non delegabile ad un commissario ad acta)
.”.
5.3.2. Il principio di diritto al quale conformarsi –a parere del Collegio corretto e pienamente condivisibile– è quindi il seguente: "la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma rileva anche nei processi in corso, ma non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi. Ciò perché la retroattività degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la stessa, ancorché successivamente rimossa dall'ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora resi intangibili dalla preclusione nascente o dall'esaurimento dello specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta dall'ordinamento giuridico oppure dal maturare di prescrizioni e decadenze ovvero, ancora, dalla formazione del giudicato” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.11.2015 n. 5012 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’atto amministrativo adottato sulla base di una legge dichiarata incostituzionale è annullabile.
La legge in contrasto con la Costituzione è, infatti, una legge invalida ancorché efficace sino alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale che la dichiara illegittima. Tale sentenza, producendo effetti retroattivi incidenti sui rapporti pendenti, comporta che il provvedimento amministrativo viene privato, anch’esso con effetti retroattivi, della sua base legale.
La conseguenza sarà sempre l’annullabilità e non la nullità dell’atto anche nel caso in cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sia l’unica attributiva del potere
(L. n. 241/1990).
---------------

2.– Con un primo motivo si assume l’illegittimità della nota del 22.02.2011, prot. n. 1297, con la quale l’Università ha rigettato l’istanza presentata, in quanto l’art. 25 della legge 30.12.2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario) ha disposto che l’art. 16 del decreto legislativo 30.12.1992, n. 503 (Norme per il riordino del sistema previdenziale dei lavoratori pubblici e privati a norma dell’art. 3 della legge 23.10.1992 n. 421), nella parte in cui consente il trattamento in servizio per un biennio dopo il raggiungimento dell’età pensionabile, non si applica ai professori e ricercatori universitari.
Nell’atto di appello si afferma che tale illegittimità sarebbe conseguenza della asserita illegittimità costituzionale del suddetto art. 25 per violazione degli articoli 3 e 97 della Costituzione, nonché per violazione dell’art. 6 del Trattato dell’Unione europea e degli articoli 1 e seguenti della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Si afferma, inoltre, che, pur non essendo stata tale questione posta nel giudizio di primo grado, la stessa è proponibile per la prima volta in appello, venendo in rilievo, ai sensi dell’art. 104 cod. proc. amm., una eccezione rilevabile d’ufficio.
Nella memoria depositata in vista dell’udienza pubblica l’appellante ha rilevato che, nelle more di svolgimento del giudizio di appello, la Corte costituzionale, con sentenza 09.05.2013, n. 83, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 della legge n. 240 del 2010. Ne conseguirebbe che, in ragione della efficacia ex tunc della sentenza della Corte, debba essere dichiarata l’illegittimità dell’atto impugnato. Si aggiunge, infine, che, pur essendo stata l’appellante collocata a riposo dal 01.11.2013 e sia trascorso il termine del 01.11.2013 sino al quale la stessa avrebbe potuto svolgere servizio presso l’Università, manterrebbe un interesse sia morale sia risarcitorio all’accoglimento del ricorso.
Il motivo è fondato.
L’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 503 del 1992 prevede che: «È in facoltà dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio, con effetto dalla data di entrata in vigore della legge 23.10.1992, n. 421, per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo per essi previsti. In tal caso è data facoltà all’amministrazione, in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, di trattenere in servizio il dipendente in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal dipendente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell’efficiente andamento dei servizi
».
L’art. 25 della legge n. 240 del 2010 stabiliva che: «L’art. 16 del decreto legislativo 30.12.1992, n. 503 non si applica a professori e ricercatori universitari. I provvedimenti adottati dalle università ai sensi della predetta norma decadono alla data di entrata in vigore della presente legge, ad eccezione di quelli che hanno già iniziato a produrre i loro effetti».
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 83 del 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del suddetto art. 25 per violazione:
   a) dell’art. 3 Cost., in quanto «non è dato individuare ragioni idonee a giustificare, per la sola categoria dei professori e ricercatori universitari, l’esclusione dalla possibilità di avvalersi del trattenimento in servizio» disciplinato dal suddetto art. 16, comma 1;
   b) dell’art. 97 Cost., in quanto preclude un possibile impiego di «docenti in grado di dare un positivo contributo per la particolare esperienza professionale acquisita in determinati o specifici settori ed in funzione dell’efficiente andamento dei servizi».
Chiarito ciò, si tratta di stabilire se sia possibile dichiarare l’illegittimità di un atto amministrativo a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma posta a base del potere esercitato nel caso in cui la questione di costituzionalità non sia stata posta nel giudizio di primo grado ma solo nel giudizio di appello.
Sul piano sostanziale, l’atto amministrativo adottato sulla base di una legge dichiarata incostituzionale è annullabile. La legge in contrasto con la Costituzione è, infatti, una legge invalida ancorché efficace sino alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale che la dichiara illegittima. Tale sentenza, producendo effetti retroattivi incidenti sui rapporti pendenti, comporta che il provvedimento amministrativo viene privato, anch’esso con effetti retroattivi, della sua base legale. La conseguenza sarà sempre l’annullabilità e non la nullità dell’atto anche nel caso in cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sia l’unica attributiva del potere.
Sul piano processuale, deve essere coordinato il principio della rilevabilità d’ufficio della questione di costituzionalità con il principio della domanda che caratterizza il processo amministrativo. La questione può essere rilevata d’ufficio purché la parte abbia introdotto nel processo i fatti principali su cui il giudice deve pronunciarsi. In particolare, è necessario che il ricorrente abbia impugnato il provvedimento amministrativo facendo valere, mediante la formulazione di censure, la sua illegittimità per contrasto con la norma, senza che sia necessario avere anche indicato, tra i motivi, l’illegittimità costituzionale della norma (in questo senso Cons. Stato, Sez. IV, 18.06.2009, n. 4002).
Quando sussistono questi presupposti non è necessario che nel giudizio di appello venga fatto valere il vizio sopravvenuto dell’atto impugnato in primo grado mediante la proposizione di motivi aggiunti (Cons. Stato, Sez. IV, 25.06.2013, n. 3449).
Nella fattispecie in esame risulta che la ricorrente in primo grado, odierna appellante, ha impugnato la nota del 22.02.2011, prot. n. 1297, deducendo il suo contrasto con l’art. 25 della legge n. 240 del 2010. La circostanza che tra i motivi di ricorso non fosse stata prospettata anche l’illegittimità costituzionale della suddetta norma, dedotta con memoria soltanto in appello, non costituisce, alla luce di quanto esposto, ragione di irrilevanza della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionale della norma stessa.
In definitiva, il provvedimento impugnato deve essere annullato perché adottato sulla base di una legge dichiarata costituzionalmente illegittima nel corso del giudizio di appello (Consiglio di Stato, Sez. , sentenza 11.09.2014 n. 4624 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPoiché, in base al combinato disposto dell’art. 136 della Costituzione e dell’art. 30 della legge 11.03.1953, n. 87, la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che essa possa essere applicata ai rapporti, in relazione ai quali la norma dichiarata incostituzionale risulti anche rilevante, stante l’effetto retroattivo dell’annullamento escluso solo per i c.d. rapporti esauriti, la declaratoria di illegittimità costituzionale del più volte citato comma 4, dell’articolo 19 del d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni nella legge 15.07.2011, n. 111, travolge gli atti impugnati, privandoli del loro fondamento normativo.
---------------

VIII.2.2. Ciò ricordato, occorre rilevare che tutte le delibere impugnate con il ricorso introduttivo del presente giudizio costituiscono espressa attuazione della disposizione dichiarata incostituzionale.
Infatti la delibera della Giunta comunale di Castrovillari n. 181 del 25.10.2011, sia nelle premesse che nel dispositivo, richiama la predetta disposizione e proprio sul presupposto della sua immediata e diretta cogenza (che modifica sia l’assetto organizzativo che i parametri previsti dall’art. 2, commi 2 e 3, del D.P.R. 18.06.1998, n. 233) istituisce i tre istituti comprensivi, così ridefinendo l’assetto organizzativo delle istituzioni scolastiche presenti sul suo territorio per rendere operante il nuovo piano di dimensionamento scolastico a partire dall’anno scolastico 2012/2013.
Ugualmente è a dirsi per la delibera del consiglio provinciale di Cosenza n. 31 del 02.12.2011.
Anche la delibera della Giunta regionale n. 47 del 10.02.2012 (integrata dalla successiva delibera n. 64 del 16.02.2012), costituisce attuazione dell’articolo 19, comma 4, del d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni nella legge 15.07.2011, n. 111, prendendo essa espressamente atto dei piani di dimensionamento scolastico a tal fine predisposti dalle province e approvando poi il Piano di organizzazione della rete scolastica ed il Piano dell’offerta formativa, quale risultante dei singoli piani provinciali; né a fondamento di tale atto di approvazione è stata minimamente richiamata un’esigenza diversa da quella di dare puntuale attuazione alla ricordata normativa statale (al di là di ogni ragionevole dubbio indicata espressamente nelle ricordate delibere della Giunta comunale di Castrovillari e della Provincia di Cosenza.
VIII.3. Poiché, in base al combinato disposto dell’art. 136 della Costituzione e dell’art. 30 della legge 11.03.1953, n. 87, la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che essa possa essere applicata ai rapporti, in relazione ai quali la norma dichiarata incostituzionale risulti anche rilevante, stante l’effetto retroattivo dell’annullamento escluso solo per i c.d. rapporti esauriti (tra le più recenti, C.d.S., sez. III, 14.03.2012, n. 1429; Cass. Civ., 06.05.2010, n. 10958), la ricordata declaratoria di illegittimità costituzionale del più volte citato comma 4, dell’articolo 19 del d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni nella legge 15.07.2011, n. 111, travolge gli atti impugnati, privandoli del loro fondamento normativo.
IX. Alla stregua delle osservazioni svolte l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, devono essere annullati gli atti impugnati in primo grado nei limiti dell’interesse degli appellanti (Cons. Stato, Sez. V, sentenza 11.01.2013 n. 110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il TAR Milano, che in un primo momento (con ordinanza 11.05.2012 n. 664) aveva dichiarato che "non appare irrilevante né manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1°, della l.r. n. 7/2012", ci ripensa e non invia gli atti alla Consulta.
Nel caso in cui il Comune rilasci il titolo edilizio in applicazione di norme solo successivamente dichiarate incostituzionali, è da escludere che la declaratoria di incostituzionalità di una norma di legge renda di per sé nulli i provvedimenti amministrativi adottati in base ad essa.
Ai fini dell’esatta comprensione e decisione del primo mezzo di ricorso, occorre prendere le mosse dalla sentenza della Corte Costituzionale 23.11.2011, n. 309 (cfr. doc. 8 dei ricorrenti), con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di taluni articoli della legge della Regione Lombardia n. 12/2005 sul governo del territorio e segnatamente degli articoli 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo e dell’art. 103, oltre che dell’art. 22 della legge regionale 7/2010, laddove gli stessi annoveravano nel concetto di “ristrutturazione edilizia”, gli interventi di demolizione e ricostruzione degli edifici, senza rispetto del limite della sagoma.
In altri termini, le norme dichiarate incostituzionali consentivano, almeno in Lombardia, di qualificare come “ristrutturazione edilizia” anche le ipotesi di demolizione e ricostruzione di edifici, senza rispettare la sagoma dello stabile preesistente poi demolito.
La Corte ha ritenuto che le definizioni delle categorie degli interventi edilizi, contenute nella legge statale ed in particolare nell’art. 3 del DPR 380/2001 (Testo Unico sull’edilizia), costituiscono principi fondamentali della legislazione statale in materia di “governo del territorio” (materia riservata dall’art. 117, comma 3°, della Costituzione, alla potestà legislativa concorrente Stato-Regioni), che devono pertanto essere rispettati da parte delle Regioni nell’esercizio della loro funzione legislativa.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011 ha immediatamente posto il problema della sua applicazione ai rapporti giuridici pendenti al momento della sua pubblicazione (23.11.2011), posto che, per espressa disposizione dell’art. 136 della Costituzione, le norme dichiarate incostituzionali cessano <<di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione>>.
Con riguardo agli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale sui titoli edilizi o –meglio– sui rapporti giuridici nascenti dai titoli stessi (permesso di costruire, oppure DIA o SCIA, anche se questi ultimi non costituiscono provvedimenti amministrativi), è opinione diffusa, anche in dottrina, che le sentenze come quella di cui è causa possano esplicare effetti anche su titoli già rilasciati, purché l’attività edilizia sia ancora in corso e non siano ultimati i lavori assentiti, trattandosi di rapporti giuridici pendenti e non ancora esauriti o definiti (giacché solo in tale ultima ipotesi le sentenze del Giudice delle leggi non potrebbero trovare applicazione).
In Lombardia, il legislatore regionale ha ritenuto di dettare una specifica disciplina sulla sorte dei titoli edilizi, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 309/2011, attraverso l’art. 17 della legge regionale 18.04.2012, n. 7 (sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia 20.04.2012).
Ai sensi del comma 1° del citato art. 17, <<In relazione agli interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza della Corte Costituzionale del 21.11.2011, n. 309, al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati, i permessi di costruire rilasciati alla data del 30.11.2011 nonché le denunce di inizio attività esecutive alla medesima data devono considerarsi titoli validi ed efficaci fino al momento della dichiarazione di fine lavori, a condizione che la comunicazione di inizio lavori risulti protocollata entro il 30.04.2012>>.
Nella presente fattispecie, la domanda di permesso di costruire indica espressamente che l’intervento è di ristrutturazione avverrà con modifica della sagoma (cfr. doc. 4 dei ricorrenti), ed il titolo edilizio è stato rilasciato il 21.11.2011, vale a dire due giorni prima del deposito della sentenza n. 309/2011.
Ciò premesso, si rimarca come nel primo mezzo di gravame si denuncia l’illegittimità del titolo edilizio, in quanto con lo stesso viene consentita una ristrutturazione senza limite di sagoma, in contrasto con la citata sentenza della Corte Costituzionale.
La difesa del controinteressato, dal canto suo, ha invocato a proprio favore l’art. 17, comma 1°, della legge regionale 7/2012, ritenuto applicabile al caso di specie, visto che il permesso di cui è causa è stato rilasciato prima del 30.11.2011.
Gli esponenti, di conseguenza, sia nella discussione orale all’udienza in camera di consiglio sia nelle successive memorie difensive, hanno chiesto al Tribunale di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 succitato, per violazione dell’art. 136 della Costituzione, avendo la norma regionale del 2012 di fatto prorogato gli effetti di una serie di norme dichiarate invece incostituzionali.
Il Collegio, nella propria ordinanza cautelare n. 664/2012, aveva ritenuto, seppure al termine di una cognizione sommaria, che la questione di costituzionalità dell’art. 17, comma 1°, fosse sia rilevante sia non manifestamente infondata, pur riservandosi un necessario approfondimento in sede di merito.
Orbene, tale approfondimento, assolutamente indispensabile vista la complessità della questione, induce ora il Tribunale alla conclusione che la questione di costituzionalità sia però priva, nel caso di specie, del necessario requisito della rilevanza (si ricordi che, ai sensi dell’art. 23 della legge 11.03.1953, n. 87, la questione è rilevante <<qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale>>).
Infatti, il permesso di costruire di cui è causa (cfr. doc. 1 dei ricorrenti), è stato rilasciato il 21.11.2011, prima (anche se di due soli giorni, ma ciò non rileva), del deposito della sentenza della Corte Costituzionale n. 309 del 23.11.2011, quindi in vigenza della disciplina regionale poi dichiarata incostituzionale.
Il Comune di Sondrio, in altri termini, non ha dato certamente applicazione all’art. 17, comma 1°, né al momento del rilascio del titolo edilizio (non essendo allora ancora intervenuta la pronuncia della Corte), né successivamente, non risultando che l’Amministrazione, d’ufficio o su istanza di soggetti terzi, abbia mai adottato provvedimenti di esecuzione del citato art. 17 (come sarebbe avvenuto, ad esempio, se il Comune, a fronte di una diffida di soggetti interessati, si fosse rifiutato di inibire l’intervento edilizio richiamando la norma dell’art. 17).
La questione di costituzionalità, pertanto, seppure appare al Collegio non manifestamente infondata (non essendo possibile per il legislatore ordinario assicurare una sorta di ulteriore vigenza di norme dichiarate incostituzionali; cfr. fra le tante, Corte Costituzionale, sentenze n. 350/2010 e n. 223/1983), non può però reputarsi rilevante, visto che la valutazione della legittimità di un permesso di costruire rilasciato prima della sentenza della Corte, può –almeno nel caso di specie– prescindere dalla norma dell’art. 17 della LR 7/2012.
In conclusione, il primo mezzo di ricorso deve respingersi, avendo il Comune rilasciato il titolo in applicazione di norme solo successivamente dichiarate incostituzionali e dovendosi escludere che la declaratoria di incostituzionalità di una norma di legge renda di per sé nulli i provvedimenti amministrativi adottati in base ad essa (così la giurisprudenza amministrativa, a partire dalla nota decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 08.04.1963, n. 8), potendo semmai essere esercitato il potere di autotutela amministrativa da parte del Comune di Sondrio sul permesso di costruire di cui è causa (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.07.2012 n. 2147 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La dichiarazione dell’illegittimità costituzionale di una norma di legge non si estende ai rapporti esauriti.
Costituisce regola di carattere generale, affermata anche da questo Consiglio di Stato (tra le altre: Sez. VI, 05.09.2005 n. 4513; sez. III, 14.03.2012, n. 1429), quella secondo cui la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale di una norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù, tra l’altro, della definitività dei provvedimenti amministrativi da cui esse sono sorte.
Ad opinare in senso contrario, come fa la congregazione religiosa odierna appellante allorché invoca la nullità degli atti amministrativi regionali, si determinerebbe l’effetto di decentrare il sindacato di costituzionalità, attraverso lo strumento della disapplicazione, dall’unico organo titolare al giudice comune (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.04.2013, n. 2215)
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14.03.2012 n. 1429).

ATTI AMMINISTRATIVI: S. Montinaro, Gli atti amministrativi applicativi di norme dichiarate incostituzionali (12.06.2003 - link a www.altalex.com).
---------------
INDICE: Introduzione. - 1. Le soluzioni offerte dalla dottrina formatasi attorno all’emanazione dell’art. 30 della L. 11.03.1953, n. 87. - 2. Le conseguenze della pronuncia della Corte sull’atto amministrativo tratte dalla Giurisprudenza prima e dopo l’importante indirizzo tracciato dalla sentenza del Cons. Stato 08.04.1963, n. 8. - 3. Il consolidarsi dell’indirizzo introdotto dal Consiglio di Stato. - 4. Il vizio da cui consegue l’invalidità dell’atto. Violazione di legge, eccesso di potere. - 5. L’applicabilità della c.d. invalidità successiva. - 6. La rilevabilità d’ufficio dell’illegittimità dell’atto amministrativo emanato in base a legge dichiarata incostituzionale. - 7. Alcuni cenni sugli interventi della Corte di Giustizia europea. - 8. Considerazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: Corte costituzionale - Dichiarazione d'incostituzionalità di legge - Effetti sui ricorsi giurisdizionali amministrativi pendenti - Fattispecie (Costituzione della Repubblica, art. 136).
Anche se la questione di costituzionalità non è stata sollevata nei motivi del ricorso né, d'ufficio, nel corso del giudizio, il Consiglio di Stato, al quale consti, al momento della decisione, della sentenza della Corte costituzionale che, investitane dell'esame da altro giudice, aveva dichiarato l'incostituzionalità della legge, su cui il provvedimento impugnato si basava, deve accogliere il ricorso ed annullare il provvedimento, salva la dichiarazione della cessazione della materia del contendere per i provvedimenti annullati d'ufficio nelle more del giudizio (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 08.04.1963 n. 8).

 

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sull'interpretazione di una norma primaria o secondaria.
Di fronte all’evidente significato letterale della norma non è, d’altra parte, ammissibile il ricorso a ulteriori canoni ermeneutici quali quello teleologico o sistematico, atteso che questi possono essere impiegati solo nel caso in cui il dato letterale non consenta di pervenire a una interpretazione univoca del precetto normativo.
Un orientamento giurisprudenziale afferma, infatti, che nella interpretazione delle norme, primarie o secondarie, occorre, in primo luogo, riferirsi al criterio letterale, attribuendo alla disposizione il solo significato emergente dalle parole da essa impiegate secondo la connessione sintattica che si realizza tra di loro, risultando il criterio in parola di regola sufficiente a individuarne, in modo chiaro e univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva.
È, per converso, consentito ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della mens legis -con il solo limite imposto dal divieto per l'interprete di correggere il significato delle parole impiegate dalla norma- soltanto qualora la lettera di quest’ultima risulti ambigua.
---------------

L’art. 27b delle NTA del PUC di Bonassola dispone, per quanto qui rileva:
Non sono ammessi accorpamenti di manufatti in sito. E’ consentito edificare con utilizzo di indice perequato piccoli edifici in pietra di S.A. massima di 10 mq a un piano adagiati a muri di fascia con copertura a falda in lastre di ardesia a spacco inclinata verso valle, altezza massima verso monte pari a m. 2,50, una finestra di dimensioni 50x50 ed una porta di ingresso in legno naturale di dimensioni massime 80x190. In alternativa simili manufatti potranno essere interamente inseriti nella geometria delle fasce purché ricoperti con strato di terreno vegetale dello spessore minimo di cm 40 opportunamente piantumato in maniera da garantire la minima modificabilità dello stato preesistente dei luoghi. In tal caso la superficie agibile massima del manufatto potrà arrivare ad un massimo di 12 mq. Tali edifici dovranno essere vincolati a servizio delle attività agricola e agro-silvo pastorali presenti in zona ed avere una densità massima pari ad un manufatto per ciascun lotto di terreno contiguo posseduto di 2.500 mq”.
La norma, non impugnata, è, quindi, chiarissima nel vietare l’accorpamento dei manufatti di qualunque tipo essi siano (fuori terra o interrati), così da inibire anche l’unione di due volumi posizionati uno nel soprassuolo e uno nel sottosuolo.
Di fronte all’evidente significato letterale della norma non è, d’altra parte, ammissibile il ricorso a ulteriori canoni ermeneutici quali quello teleologico o sistematico, atteso che questi possono essere impiegati solo nel caso in cui il dato letterale non consenta di pervenire a una interpretazione univoca del precetto normativo (Cons. Stato, Sez. VI, 20/06/2012, n. 3585; 07/12/2007, n. 6307).
Un orientamento giurisprudenziale, che il Collegio condivide, afferma, infatti, che nella interpretazione delle norme, primarie o secondarie, occorre, in primo luogo, riferirsi al criterio letterale, attribuendo alla disposizione il solo significato emergente dalle parole da essa impiegate secondo la connessione sintattica che si realizza tra di loro, risultando il criterio in parola di regola sufficiente a individuarne, in modo chiaro e univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva. È, per converso, consentito ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della mens legis -con il solo limite imposto dal divieto per l'interprete di correggere il significato delle parole impiegate dalla norma- soltanto qualora la lettera di quest’ultima risulti ambigua (Cass. Civ., Sez. III, 04/10/2018, n. 24165; Sez. I, 18/06/2018, n. 16083)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 01.12.2021 n. 8011 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVINell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge o (come nella specie) regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens legis", specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore.
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, si che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa.
---------------

Come è noto, la giurisprudenza di questa Corte di cassazione ha più volte affermato che nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge o (come nella specie) regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens legis", specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore (vd. Cass. n. 24165 del 2018; Cass. n. 5821 del 2001; Cass. n. 2533 del 1970).
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, si che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 2533 dei 03/12/1970; id. Sez. 1, Sentenza n. 5128 dei 06/04/2001) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 03.11.2021 n. 31470).

ATTI AMMINISTRATIVI: Processo amministrativo: è necessario impugnare le circolari interpretative?
Non sussiste l’onere di immediata impugnazione delle circolari interpretative, le quali, ancorché emanate per indirizzare uniformemente l'azione degli organi amministrativi, non sono vincolanti, restano un atto privo di effetti esterni e non possono essere considerate quale atto presupposto del provvedimento applicativo ritenuto lesivo.
L’interesse, e correlativamente l’onere, di immediata impugnazione sussiste, semmai, solo nei confronti di quelle circolari che assumano la veste di vere e proprie “istruzioni” vincolanti, dalle quali l’organo amministrativo non possa discostarsi, e che in tal senso rivestano anche rilevanza esterna.
---------------

1. Con il ricorso introduttivo del presente giudizio, le ricorrenti chiedono l’annullamento dell’Orientamento concernente “La nozione di “società a controllo pubblico” di cui all’articolo 2, comma 1, lett. m), del decreto legislativo 19.08.2016, n. 175”, pubblicato sul sito istituzionale del Dipartimento del Tesoro in data 15.02.2018.
...
8. L’atto impugnato è stato adottato dal Ministero resistente ai sensi del comma 2 dell’articolo 15 del D.Lgs.. 175/2016 al fine prescritto di “fornire orientamenti e indicazioni in materia di applicazione del presente decreto e del decreto legislativo 11.11.2003, n. 333, e promuovere le migliori pratiche presso le società a partecipazione pubblica”. Il contenuto dell’atto de quo, valutato unitamente alla descritta finalità perseguita, consentono di equiparare lo stesso ad una circolare interpretativa che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, è suscettibile di impugnazione e annullamento congiuntamente all’atto applicativo lesivo, oppure in via autonoma e diretta, se connotata da una portata immediatamente lesiva nei confronti di soggetti estranei alla P.A., secondo lo schema tipico dell’impugnazione degli atti amministrativi generali e degli atti normativi.
9. La giurisprudenza ha, infatti, avuto modo di chiarire che non sussiste l’onere di immediata impugnazione delle circolari interpretative, le quali, ancorché emanate per indirizzare uniformemente l'azione degli organi amministrativi, non sono vincolanti, restano un atto privo di effetti esterni e non possono essere considerate quale atto presupposto del provvedimento applicativo ritenuto lesivo; l’interesse, e correlativamente l’onere, di immediata impugnazione sussiste, semmai, solo nei confronti di quelle circolari che assumano la veste di vere e proprie “istruzioni” vincolanti, dalle quali l’organo amministrativo non possa discostarsi, e che in tal senso rivestano anche rilevanza esterna (Ad. Plen. n. 19 del 2011), come accade, ad esempio, con riferimento alle istruzioni impartite dal Ministero dell’Interno con riferimento agli atti dell’ufficiale di stato civile (Cons. Stato, Sez. IV, 04.12.2017, n. 5664; C.d.S Sez. III, n. 4478 del 26.10.2016).
10. La giurisprudenza ha, altresì, affermato che le circolari “non assumono valore vincolante per i soggetti destinatari degli atti applicativi di esse”, per cui tali soggetti non hanno l’onere di impugnare le circolari antecedenti, neppure insieme all’atto che vi dà esecuzione, ma possono limitarsi a contestare l’illegittimità del provvedimento applicativo in quanto scaturente da una circolare illegittima che avrebbe dovuto essere disapplicata (Cons. Stato, Sez. IV, 28.01.2016, n. 310). E ciò con la conseguenza che “(...) a fortiori, (...) una circolare amministrativa contra legem può essere disapplicata anche d’ufficio dal giudice investito dell’impugnazione dell’atto che ne fa applicazione” (così ancora Cons. Stato, n. 310 del 2016, cit.; nello stesso senso anche Cons. Stato, Sez. IV, 17.04.2018, n. 2284, con ampi richiami di giurisprudenza).
11. Nella fattispecie, il contenuto dell’atto impugnato, privo di efficacia vincolante e contenuto prescrittivo, non appare allo stato idoneo a pregiudicare in modo immediato e diretto la sfera giuridica delle ricorrenti le quali potranno essere incise esclusivamente da eventuali provvedimenti applicativi del contestato orientamento che il Ministero dovesse ritenere di adottare nell’esercizio dei poteri di monitoraggio e controllo ad esso attribuiti dal D.Lgs. 175/2016. Le ricorrenti, pertanto, potranno impugnare gli eventuali provvedimenti applicativi domandando, contestualmente, l’annullamento ovvero la disapplicazione dell’atto oggetto dell’odierna impugnazione.
12. Per le ragioni esposte, il Collegio ritiene che difetti in capo alle ricorrenti un interesse attuale e concreto alla tutela giurisdizionale richiesta in quanto l’atto impugnato è privo di efficacia immediatamente lesiva di posizioni giuridiche soggettive individuali o collettive (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 23.09.2021 n. 9883 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Processo amministrativo: le circolari interpretative non sono autonomamente impugnabili.
Trattasi, nel caso di specie, di circolare c.d. interpretativa, mediante la quale il Ministero esprime esclusivamente un parere, non vincolante, per gli uffici oltre che per la stessa autorità che l'ha emanata e per il giudice.
Pertanto, l'impugnazione della stessa, in quanto diretta verso un atto che non possiede valore di provvedimento e che non ha efficacia vincolante verso soggetti diversi dagli Uffici cui impartisce istruzioni operative, è inammissibile e comunque la stessa, ove si evidenziassero profili di illegittimità delle conformi disposizioni applicative emesse dall'Organo periferico nei confronti dei soggetti destinatari di esse, potrebbe in ogni caso essere disapplicata.
Invero, secondo orientamento giurisprudenziale consolidato, le circolari amministrative sono atti diretti agli organi ed uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante per i soggetti estranei all'Amministrazione, con la conseguenza che i soggetti destinatari degli atti applicativi di esse non hanno alcun onere di impugnativa, ma possono limitarsi a contestarne la legittimità al solo scopo di sostenere che sono illegittimi perché scaturiscono da una circolare illegittima che avrebbe dovuto essere disapplicata; ne discende, “a fortiori”, che una circolare amministrativa “contra legem” può essere disapplicata anche d'ufficio dal giudice investito dell'impugnazione dell'atto che ne fa applicazione.
Ritiene pertanto il Collegio che l’atto in esame debba essere qualificato come atto a valenza generale, privo, ex se, di idoneità lesiva, e come tale impugnabile solo unitamente ad altro atto concretamente lesivo, che qui non sussiste.
-----------------
Ora, come è noto, uno dei presupposti di ammissibilità di ogni ricorso giurisdizionale amministrativo è che (anche) la lesione lamentata sia concreta e attuale, vale a dire che non può essere eventuale o potenziale e deve sussistere sia al momento della proposizione del ricorso che in quello della decisione.
Motivo per il quale si precisa che, ai fini dell’onere di diretta impugnazione del provvedimento, il requisito dell’attualità della lesione dell'interesse dedotto in giudizio va accertato in concreto, con riferimento, cioè, all'entità e alle modalità dell'incidenza effettuale, e non semplicemente ipotetica ed eventuale, dell'atto nella sfera giuridica del ricorrente.
Vale a dire che, in sintesi, può avere titolo a che un giudice amministrativo si pronunci sul merito di un ricorso soltanto chi faccia valere una lesione recata in modo diretto e attuale a un proprio interesse personale e attuale, protetto dall’ordinamento, e abbia un interesse –anch’esso personale e attuale– alla pronuncia richiesta.
---------------

... per l'annullamento, previa sospensione, della nota prot. n. I.0011882 del 19.11.2020, a firma del Capo dell'Ufficio legislativo del Ministero resistente, recante in oggetto “Circolare in tema di tutela del lavoro dei ciclo-fattorini delle piattaforme digitali ai sensi degli articoli 2 e 47-bis e seguenti, del decreto legislativo n. 81/2015” e di ogni altro atto presupposto, consequenziale o comunque connesso.
...
2. Il problema giuridico che per il Collegio viene in rilievo come aspetto pregiudiziale da risolvere, anche perché è stata sollevata espressa eccezione del Ministero sul punto, riguarda la natura dell’atto oggetto di gravame, nonché la sua stessa impugnabilità.
3. Asserisce l’Amministrazione che si tratterebbe di una circolare con la quale il Ministero avrebbe chiarito, in sede di prima applicazione, alcune urgenti questioni rilevanti per l’attività amministrativa a beneficio degli uffici interessati. In quanto atto interno alla P.A. non si configurerebbe in capo al privato un interesse concreto ed attuale alla sua impugnazione giudiziale, con conseguente inammissibilità del ricorso.
A contrario, la ricorrente assume l’autonoma impugnabilità dell’atto in esame che non potrebbe essere qualificato -nonostante il nomen iuris– come “circolare” dal momento che: non costituirebbe un atto interno; non avrebbe carattere meramente interpretativo, ma evidentemente innovativo e precettivo; sotto il simulato intento di interpretare norme legislative generali e astratte, in realtà provvederebbe concretamente a privare di effetti utili uno specifico contratto collettivo, appena stipulato da As. e UG.ri., incidendo in tal modo su un rapporto negoziale determinato e alterando l’equilibrio fra le sigle sindacali, con evidente ed immediato effetto penalizzante, e quindi lesivo, nei confronti dell’associazione ricorrente.
Ancora, il provvedimento de quo sarebbe immediatamente lesivo e, quindi, autonomamente impugnabile, in quanto la disciplina adottata non lascerebbe alcun margine interpretativo o applicativo alle amministrazioni chiamate ad adottare i provvedimenti finali: le Direzioni territoriali del lavoro, preso atto che il contratto As.-UG.Ri. è stato sottoscritto da una sola associazione sindacale per parte (e non da due o più) e che tali associazioni non sono quelle “maggiormente rappresentative” nel più ampio “ambito categoriale”, non potranno che sanzionare le imprese che applicano tale contratto, in mera e meccanica esecuzione della circolare impugnata.
4. Stante la contrapposta posizione delle parti, appare opportuno, innanzitutto, precisare le caratteristiche dell’impugnato provvedimento.
Detto atto è rubricato “Circolare in tema di tutele del lavoro dei ciclo-fattorini delle piattaforme digitali ai sensi degli articoli 2 e 47-bis e seguenti, del decreto legislativo n. 81/2015”.
Segnatamente, l’art. 2 del D.Lgs. 81/2015 (testo vigente) al comma 1 prescrive che: “A far data dal 01.01.2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.
Il successivo art. 47-bis dispone che: “Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 2, comma 1 le disposizioni del presente capo stabiliscono livelli minimi di tutela per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore di cui all'articolo 47, comma 2, lettera a), del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30.04.1992, n. 285, attraverso piattaforme anche digitali”.
Orbene, l’atto in esame persegue chiaramente la finalità di interpretare la norma che disciplina il lavoro dei ciclo-fattorini delle piattaforme digitali e di chiarire questioni rilevanti per l’attività amministrativa a beneficio degli uffici interessati.
Invero, detta Circolare premette che “L'attività lavorativa dei ciclo-fattorini delle piattaforme digitali trova la propria disciplina nel corpo del decreto legislativo 15.06.2015, n. 81, come modificato e integrato dalla legge 02.11.2019, n. 128, di conversione del decreto-legge n. 101 dello stesso anno”. Procede, poi, a “delineare succintamente i contorni di questa disciplina e, segnatamente, l'ambito applicativo delle due previsioni di riferimento, osservando in premessa che quello dell'articolo 47-bis, in forza dell'espressa clausola di salvezza di quanto disposto dall'articolo 2, comma 1, è disegnato come residuale in rapporto a tale ultima previsione, e che questa, quindi, costituisce l'ipotesi attrattiva prevalente di disciplina dell'attività dei riders”.
Trattasi evidentemente di circolare c.d. interpretativa, mediante la quale il Ministero esprime esclusivamente un parere, non vincolante, per gli uffici oltre che per la stessa autorità che l'ha emanata e per il giudice.
Pertanto, l'impugnazione della stessa, in quanto diretta verso un atto che non possiede valore di provvedimento e che non ha efficacia vincolante verso soggetti diversi dagli Uffici cui impartisce istruzioni operative, è inammissibile e comunque la stessa, ove si evidenziassero profili di illegittimità delle conformi disposizioni applicative emesse dall'Organo periferico nei confronti dei soggetti destinatari di esse, potrebbe in ogni caso essere disapplicata (ex multis: TAR Roma n. 2250/2018).
Invero, secondo orientamento giurisprudenziale consolidato, le circolari amministrative sono atti diretti agli organi ed uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante per i soggetti estranei all'Amministrazione, con la conseguenza che i soggetti destinatari degli atti applicativi di esse non hanno alcun onere di impugnativa, ma possono limitarsi a contestarne la legittimità al solo scopo di sostenere che sono illegittimi perché scaturiscono da una circolare illegittima che avrebbe dovuto essere disapplicata; ne discende, “a fortiori”, che una circolare amministrativa “contra legem” può essere disapplicata anche d'ufficio dal giudice investito dell'impugnazione dell'atto che ne fa applicazione (ex plurimis: C. di St. n. 3877/2010).
Ritiene pertanto il Collegio che l’atto in esame debba essere qualificato come atto a valenza generale, privo, ex se, di idoneità lesiva, e come tale impugnabile solo unitamente ad altro atto concretamente lesivo, che qui non sussiste (ex multis: TAR Roma n. 4658/2020).
Ora, come è noto, uno dei presupposti di ammissibilità di ogni ricorso giurisdizionale amministrativo è che (anche) la lesione lamentata sia concreta e attuale, vale a dire che non può essere eventuale o potenziale e deve sussistere sia al momento della proposizione del ricorso che in quello della decisione.
Motivo per il quale si precisa che, ai fini dell’onere di diretta impugnazione del provvedimento, il requisito dell’attualità della lesione dell'interesse dedotto in giudizio va accertato in concreto, con riferimento, cioè, all'entità e alle modalità dell'incidenza effettuale, e non semplicemente ipotetica ed eventuale, dell'atto nella sfera giuridica del ricorrente.
Vale a dire che, in sintesi, può avere titolo a che un giudice amministrativo si pronunci sul merito di un ricorso soltanto chi faccia valere una lesione recata in modo diretto e attuale a un proprio interesse personale e attuale, protetto dall’ordinamento, e abbia un interesse –anch’esso personale e attuale– alla pronuncia richiesta.
Poiché, per tutto quanto sopra precisato, nel caso in esame non sussiste il requisito della attualità della lesione, il ricorso non può che essere dichiarato inammissibile (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 03.08.2021 n. 9187 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATANell'interpretazione di una norma la prevalenza del criterio letterale, ampiamente condiviso in giurisprudenza, ha trovato recente conferma ed è stato affermato anche dal Giudice delle leggi, per il quale il significato proprio delle parole è canone ermeneutico essenziale.
Fermo quanto innanzi, di per sé dirimente, osserva ancora il Collegio come anche dal versante del criterio teleologico (di carattere sussidiario e qui, va ribadito, recessivo), la tesi di parte resistente sia sprovvista di addentellati, dovendosi individuare la c.d. “mens legis” nell’intendimento di evitare che la costruzione di nuovi impianti su siti contaminati possa pregiudicare o rendere problematico «il completamento e l'esecuzione degli interventi di messa in sicurezza d'emergenza, operativa o permanente e di bonifica», nonché determinare nuovi o ulteriori «rischi per la salute dei lavoratori e degli altri fruitori dell'area».
---------------

5. Il ricorso è fondato, alla stregua della motivazione che segue.
5.1. Coglie nel segno la dedotta censura di violazione dell’art. 33 della cennata legge regionale n. 35 del 2018.
Tale disposizione, in particolare, così recita: «1. Le autorizzazioni alla realizzazione di opere ed impianti e al loro esercizio in siti con accertato superamento delle CSC sono rilasciate da parte delle rispettive Autorità procedenti a condizione che dette opere e impianti siano realizzati secondo modalità e tecniche che non pregiudicano né interferiscono con il completamento e l'esecuzione degli interventi di messa in sicurezza d'emergenza, operativa o permanente e di bonifica, né determinano rischi per la salute dei lavoratori e degli altri fruitori dell'area.
2. La verifica delle condizioni di cui al comma 1 è di competenza della Conferenza di servizi di cui all'art. 242 del Decreto, che si esprime a seguito di istanza del richiedente, successivamente all'esito della caratterizzazione del sito ai sensi dell'art. 242 del Decreto.
3. L'assegnazione di finanziamenti pubblici da parte della Regione per iniziative produttive sui siti di cui al comma 1, è concessa solo ad esito positivo della verifica di cui al comma 2.
4. Sono escluse dal campo di applicazione del presente articolo gli interventi di cui all'articolo 34, commi 7, 8, 9 e 10 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito con la legge 11.11.2014, n. 164
».
L’avversata nota regionale prot. n. 4896 del 13.01.2020 ritiene laconicamente applicabile tale disposizione all’installazione (di termovalorizzazione di rifiuti urbani e speciali) di cui è questione, stante l’insistenza di quest’ultima su di un sito «interessato da un procedimento di messa in sicurezza e bonifica del suolo e della falda».
Nella prospettiva da cui muove parte resistente, dunque, lo spettro applicativo del richiamato articolo 33 si estenderebbe anche a impianti già esistenti, previamente autorizzati e operativi.
Ritiene, di contro, il Collegio che l’interpretazione della norma offerta dall’Ente regionale resistente, col conseguente precipitato della sua estensione al caso di specie, sia pianamente erronea.
L’esegesi condotta secondo i canoni dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile si impernia in primo luogo sul significato letterale delle proposizioni normative, che qui si presenta di immediata comprensione.
Invero, il legislatore si è testualmente riferito alle sole autorizzazioni «alla realizzazione di opere e impianti», pertinentemente utilizzando poi il verbo “rilasciare” (le autorizzazioni […] sono rilasciate), per quindi chiudere il cerchio condizionando, appunto, la medesima realizzazione (gli impianti […] sono realizzati) alla adozione di «modalità e tecniche che non pregiudicano né interferiscono con il completamento e l'esecuzione degli interventi di messa in sicurezza d'emergenza, operativa o permanente e di bonifica, né determinano rischi per la salute dei lavoratori e degli altri fruitori dell'area».
Già l’interpretazione letterale, dunque, stante il limite esterno costituito dal “significato palese delle parole” (art. 12 delle preleggi, primo periodo), non lascia residuare margine alcuno per l’approdo cui è pervenuto l’Ente resistente. E’ agevole, in tal senso, osservare come non sia previsto alcun riferimento al rinnovo o al riesame di titoli autorizzatori già in essere, e, altresì, come neppure sia stato ivi considerato il caso di installazioni già realizzate.
Ebbene, la prevalenza del criterio letterale, ampiamente condiviso in giurisprudenza, ha trovato recente conferma (Cass. civ. SS.UU. n. 2505 del 2020; id. n. 8091 del 2020), ed è stato affermato anche dal Giudice delle leggi, per il quale il significato proprio delle parole è canone ermeneutico essenziale (Corte cost. n. 260 del 2015).
5.1.1. Fermo quanto innanzi, di per sé dirimente, osserva ancora il Collegio come anche dal versante del criterio teleologico (di carattere sussidiario e qui, va ribadito, recessivo), la tesi di parte resistente sia sprovvista di addentellati, dovendosi individuare la c.d. “mens legis” nell’intendimento di evitare che la costruzione di nuovi impianti su siti contaminati possa pregiudicare o rendere problematico «il completamento e l'esecuzione degli interventi di messa in sicurezza d'emergenza, operativa o permanente e di bonifica», nonché determinare nuovi o ulteriori «rischi per la salute dei lavoratori e degli altri fruitori dell'area».
6. Dalle considerazioni che precedono discende l’accoglimento del ricorso, con assorbimento di ogni ulteriore doglianza, e, per l’effetto, l’annullamento dell’atto impugnato (TAR Basilicata, sentenza 08.04.2021 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALIQuando l'interpretazione letterale di una norma di legge (o regolamentare, come nella specie) sia sufficiente ad esprimere un significato chiaro ed univoco, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, attraverso l'esame complessivo del testo, della mens legis, il quale solo nel caso in cui, nonostante l'impiego del criterio letterale e del criterio teleologico singolarmente considerati, la lettera della norma rimanga ambigua, acquista un ruolo paritetico e comprimario rispetto al criterio letterale.
---------------

In ordine all'interpretazione della norma, va ribadito che, quando l'interpretazione letterale di una norma di legge (o regolamentare, come nella specie) sia sufficiente ad esprimere un significato chiaro ed univoco, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, attraverso l'esame complessivo del testo, della mens legis, il quale solo nel caso in cui, nonostante l'impiego del criterio letterale e del criterio teleologico singolarmente considerati, la lettera della norma rimanga ambigua, acquista un ruolo paritetico e comprimario rispetto al criterio letterale (tra tante, Sez. 3 civ., n. 24165 del 04/10/2018, Rv. 651130) (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 20.10.2020 n. 28950).

ATTI AMMINISTRATIVISecondo l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, è prevalente il criterio letterale, rispetto al quale quello teleologico riveste un ruolo sussidiario secondo cui, «Ove l'interpretazione letterale sia sufficiente ad individuare, in modo chiaro ed univoco, il significato e la portata precettiva di una norma di legge o regolamentare, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario della mens legis, il quale solo nel caso in cui, nonostante l'impiego del criterio letterale e del criterio teleologico singolarmente considerati, la lettera della norma rimanga ambigua, acquista un ruolo paritetico e comprimario rispetto al criterio letterale, mentre può assumere rilievo prevalente nell'ipotesi, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo, invece, consentito all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica della norma stessa».
---------------

Va osservato che, secondo l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, è prevalente il criterio letterale, rispetto al quale quello teleologico riveste un ruolo sussidiario (v., ex multis, Cass. 06/04/2001, n. 5128; Cass. 04/01/2018, n. 24165 secondo cui, «Ove l'interpretazione letterale sia sufficiente ad individuare, in modo chiaro ed univoco, il significato e la portata precettiva di una norma di legge o regolamentare, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario della mens legis, il quale solo nel caso in cui, nonostante l'impiego del criterio letterale e del criterio teleologico singolarmente considerati, la lettera della norma rimanga ambigua, acquista un ruolo paritetico e comprimario rispetto al criterio letterale, mentre può assumere rilievo prevalente nell'ipotesi, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo, invece, consentito all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica della norma stessa» (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 23.04.2020 n. 8091).

ATTI AMMINISTRATIVINell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, in virtù dell'esame complessivo del testo, della "mens legis", specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore.
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi, altresì, infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, onde il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa.
---------------

Innanzitutto deve convenirsi con la premessa compiuta dal TSAP sulla scelta del criterio ermeneutico da privilegiare in proposito, poiché -secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 5128/2001 e Cass. n. 24165/2018)- nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, in virtù dell'esame complessivo del testo, della "mens legis", specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore.
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi, altresì, infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, onde il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa (Corte di cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 04.02.2020 n. 2505).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIn ossequio al precetto declinato dall'art. 12 preleggi, nell'interpretazione della legge occorre primariamente riferirsi al criterio letterale, attribuendo alla disposizione interpretanda il solo significato emergente dalle parole da essa impiegate secondo la connessione sintattica che si realizza tra di loro, risultando il criterio in parola di regola sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva.
E', per converso, consentito ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens legis", con il solo limite imposto dal divieto per l'interprete di correggere il significato delle parole impiegate dalla norma, soltanto qualora la lettera di essa risulti ambigua, l'uno e l'altro criterio potendo infine acquistare un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico allorché singolarmente impiegati si rivelino inidonei allo scopo.
---------------

2.4. In ossequio al precetto declinato dall'art. 12 preleggi («Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore», porti a sposare una conclusione diversa da quella a cui si è attenuto il giudice d'appello) vale qui infatti ribadire, secondo un consolidato insegnamento di questa Corte, che nell'interpretazione della legge, occorra primariamente riferirsi al criterio letterale, attribuendo alla disposizione interpretanda il solo significato emergente dalle parole da essa impiegate secondo la connessione sintattica che si realizza tra di loro, risultando il criterio in parola di regola sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva.
E', per converso, consentito ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens legis", con il solo limite imposto dal divieto per l'interprete di correggere il significato delle parole impiegate dalla norma, soltanto qualora la lettera di essa risulti ambigua, l'uno e l'altro criterio potendo infine acquistare un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico allorché singolarmente impiegati si rivelino inidonei allo scopo (Cass., Sez. I, 06/04/2001, n. 5128) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, ordinanza 18.06.2018 n. 16083).

ANNO 2021
aggiornamento al 31.12.2021 (ore 23,59)

Dell'impugnazione governativa alla Consulta ne davamo conto con l'AGGIORNAMENTO AL 21.04.2021 ed il Giudice delle leggi s'è pronunciato:
è incostituzionale la prorogata validità "a) di tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla data di relativa scadenza" di cui all’art. 28, comma 1, lett. a), della L.R. 07.08.2020 n. 18 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali), come delimitato –nel suo ambito di applicazione– dall’art. 20, comma 2, lett. b), della L.R. 27.11.2020 n. 22 (Seconda legge di revisione normativa ordinamentale 2020).

EDILIZIA PRIVATATitoli edilizi, illegittima la proroga automatica decisa dalla Lombardia per il Covid.
La Regione Lombardia non può prorogare la validità dei titoli edilizi rilasciati durante l'emergenza Covid 2019 oltre il termine previsto dalla normativa nazionale in quanto il regime dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia concorrente "governo del territorio" rimesso alla potestà legislativa dello Stato ex articolo 117, comma terzo, della Costituzione.

Lo ha stabilito la Consulta con la
sentenza 21.12.2021 n. 245, che, su ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei Ministri, ha dichiarato incostituzionale l'articolo 28, comma 1, lettera a), della legge regionale 07.08.2020 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali) che proroga automaticamente di tre anni «la validità di tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, fino al 31.12.2021».
Norma che il Giudice delle leggi ha ritenuto in contrasto con:
   - l'articolo 103, comma 2, del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 "Misure connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19" secondo cui tutti i titoli abilitativi in scadenza tra il 31.01.2020 e la dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza (ad oggi fissata al 31.03.2022) conservano la loro efficacia sino ai novanta giorni successivi a tale dichiarazione;
   - l'articolo 10, comma 4, del decreto legge n. 76 del 2020 "Misure urgenti per la semplificazione", nuovamente intervenuto in materia, di emergenza Covid- 19, che stabilisce che, «[p]er effetto della comunicazione del soggetto interessato di volersi avvalere del presente comma, sono prorogati di tre anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15, come indicati nei permessi di costruire rilasciati o comunque formatisi fino al 31.12.2020, purché i suddetti termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati»;
   - gli articoli 12 e 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, recanti rispettivamente la disciplina in tema di presupposti per il rilascio del permesso di costruire e di efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire.
La sentenza
L'Avvocatura generale dello Stato aveva impugnato la norma regionale evidenziando che:
   1) il legislatore statale era intervenuto in materia con interventi graduali, proporzionati alla situazione emergenziale, subordinando la proroga dei termini di inizio e ultimazione dei lavori dei permessi di costruire alla comunicazione dell'interessato e alla perdurante conformità del titolo agli strumenti urbanistici approvati o adottati, mentre la Regione Lombardia aveva introdotto una proroga automatica e di maggiore ampiezza al punto di rendere «variabile lo ius aedificandi»;
   2) la norma regionale si sarebbe discostata dalla disciplina statale che subordina la proroga alla compatibilità del titolo abilitativo con gli strumenti urbanistici «anche meramente adottati», in applicazione dell'articolo 12, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 («In caso di contrasto dell'intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda»).
Argomentazioni che ha la Corte costituzionale ha condiviso («Le pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non giustificano l'introduzione di un regime regionale difforme»).
L'Alta Corte ha confermato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui le norme che disciplinano i titoli abilitativi sono riconducibili al rango di principi fondamentali della materia "governo del territorio" (ex plurimis, sentenza n. 125 del 2017, n. 49 del 2016 e n. 309 del 2011: «La Corte ritiene principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali».
Orientamento che l'Alta Corte ha più volte ribadito. Basta citare la sentenza n. 2 del 2021 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di alcune norme della legge della Regione Toscana 22.11.2019, n. 69 (Disposizioni in materia di governo del territorio) affermando che l'obbligo di non iniziare i lavori prima di trenta giorni dalla segnalazione, stabilito dall'articolo 23, comma 1, del testo unico edilizia, «concorre a caratterizzare indefettibilmente il regime del titolo abilitativo della "superScia", e costituisce anch'esso principio fondamentale della materia "governo del territorio"» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 27.12.2021).

EDILIZIA PRIVATA: Titoli edilizi ed emergenza Covid: incostituzionale la proroga della Lombardia. La Corte Costituzionale ha confermato il contrasto con quanto disposto dallo Stato a seguito dell'emergenza sanitaria.
Scadenza termini titoli abilitativi ed emergenza COVID-19: la proroga disposta dalla regione Lombardia (legge 18/2020) è incostituzionale.
Proroga termini titoli abilitativi: la sentenza della Corte Costituzionale
Così ha disposto la Corte Costituzionale, con la
sentenza 21.12.2021 n. 245, per avere agito in difformità da quanto ha previsto lo Stato con i decreti legge n. 18/2020 e n. 76/2020.
Nella fattispecie, il giudizio ha riguardato la legittimità costituzionale dell’art. 28 della legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali).
Tale norma prevedeva:
   ● la proroga di tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla data di relativa scadenza;
  
la proroga delle convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 46 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e dei termini da esse stabiliti, nonché di quelli contenuti in accordi similari, comunque denominati, previsti dalla legislazione regionale in materia urbanistica, stipulati antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, che conservano validità per tre anni dalla relativa scadenza.
Secondo il Governo, la disposizione regionale impugnata ha dettato una disciplina difforme da quella statale, contenuta nell’art. 103, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 (c.d. Decreto “Cura Italia”), convertito, con modificazioni, in legge 24.04.2020, n. 27, e nel successivo, integrativo art. 10, commi 4 e 4-bis, del decreto-legge 16.07.2020, n. 76 (c.d. “Decreto Semplificazioni”) convertito, con modificazioni, in legge 11.09.2020, n. 120.
In particolare, viene sottolineata:
  
la maggiore ampiezza della proroga disposta in ambito regionale, che ha prolungato di tre anni la validità dei permessi di costruire in scadenza fino al 31.12.2021;
  
l’automatismo che la connota, laddove il legislatore statale ha proceduto con interventi graduali, proporzionati alla situazione emergenziale, subordinando la proroga dei termini di inizio e ultimazione dei lavori dei permessi di costruire alla comunicazione dell’interessato, nonché alla perdurante conformità del titolo agli strumenti urbanistici approvati o adottati: in particolare l’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020 ne subordina l’efficacia alla richiesta dell’interessato e alla perdurante compatibilità del titolo oggetto della richiesta di proroga con gli strumenti urbanistici, generali o particolareggiati, nel frattempo adottati.
Inoltre la norma impugnata:
  
sarebbe costituzionalmente illegittima anche sotto il profilo della violazione del principio di necessaria unitarietà della proroga, tanto dei termini di validità dei titoli, quanto dei termini di inizio e ultimazione dei lavori;
  
contrasterebbe con la legislazione statale prima richiamata anche con riferimento alla causale dell’emergenza su cui esplicitamente si fonda, poiché vengono meno i principi di proporzionalità e limitatezza temporale. La proroga disposta dal legislatore regionale, riferita ai titoli abilitativi in scadenza fino al 31.12.2021, violerebbe palesemente tali principi.
Emergenza Covid-19 e proroga titoli edilizi: il quadro normativo di riferimento
Nel giudicare il caso, la Corte Costituzionale ha preliminarmente fatto un excursus delle norme di riferimento:
  
con l’art. 103, comma 1, del d.l. n. 18 del 17.03.2020 (cosiddetto Decreto cura Italia), il legislatore ha approntato il primo intervento urgente: la paralisi dell’attività amministrativa e l’esigenza di garantire la protezione della salute e gli interessi collegati all’azione della pubblica amministrazione, hanno indotto a prevedere la sospensione dei termini di tutti i procedimenti amministrativi;
  
in sede di conversione in legge, si è stabilito che gli atti e i titoli in scadenza tra il 31 gennaio e il 31.07.2020 conservano «validità» per i novanta giorni successivi alla data della dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza, con previsione espressamente estesa ai termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all’art. 15 del d.P.R., n. 380/2001, alle segnalazioni certificate di inizio attività (SCIA), alle segnalazioni di agibilità, alle autorizzazioni paesaggistiche e alle autorizzazioni ambientali, comunque denominate;
  
nel luglio 2020, nel permanere dell’emergenza, il legislatore è tornato a occuparsi di alcuni provvedimenti specifici –i permessi di costruire– per ricalibrare la proroga automatica e generalizzata inizialmente disposta con l’art. 103, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020: ecco quindi l’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020 (cosiddetto Decreto semplificazioni), come convertito nella legge n. 120 del 2020, che ha previsto che i termini di inizio e ultimazione dei lavori di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, come indicati nei permessi di costruire formatisi fino al 31.12.2020, sono prorogati, se l’interessato comunica di volersi avvalere di tale proroga. Al momento della comunicazione i termini non devono essere già decorsi e il titolo deve risultare conforme agli strumenti urbanistici approvati o adottati. Questa disciplina è stata espressamente estesa alle segnalazioni di inizio attività presentate entro lo stesso termine (31.12.2020).
  
a causa del protrarsi dell’emergenza epidemiologica, il legislatore è nuovamente intervenuto: l’art. 3, comma 1, lettera a), del d.l. n. 125 del 2020, come convertito, ha modificato l’art. 103, comma 2, sostituendo la data del «31.07.2020» con «la data della dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza», così prorogando la validità di tutti gli atti e titoli in scadenza nell’intero periodo emergenziale, a partire dal 31.01.2020;
  
l’art. 3-bis, comma 1, lettera b), dello stesso d.l. n. 125 del 2020, ha introdotto nell’art. 103 il comma 2-sexies, in cui si prevede che tutti gli atti e provvedimenti indicati al comma 2 dell’art. 103 «scaduti» tra il 01.08.2020 e la data di entrata in vigore della legge di conversione n. 159 del 2020 (27.11.2020), e non rinnovati, «si intendono validi e sono soggetti alla disciplina di cui al medesimo comma 2». In questo modo, è stata recuperata la validità degli atti in scadenza nel periodo successivo al 31.07.2020, non compresi nella prima proroga. La disciplina dettata dall’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020 è riferita solo ai permessi di costruire e alla SCIA, mentre gli altri titoli abilitativi sono assoggettati alla previsione dell’art. 103, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020, come modificato.
Infine, con il decreto-legge 23.07.2021, n. 105, convertito, con modificazioni, in legge 16.09.2021, n. 126, l’emergenza da COVID-19 è stata prorogata fino al 31.12.2021.
Proroga automatica contrasta con le norme statali
La Corte Costituzionale quindi ha evidenziato che l’art. 28, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, nel disporre la proroga dei titoli abilitativi in modo difforme da quanto previsto nella disciplina statale (artt. 103, comma 2, d.l. n. 18 del 2020, come convertito, e 10, comma 4, d.l. n. 76 del 2020, come convertito), entra in collisione con un principio fondamentale.
Il raffronto tra le norme statali interposte e la disciplina regionale rende palese la diversità della proroga automatica disposta dalla Regione Lombardia in riferimento a:
  
tipologia dei titoli abilitativi;
  
durata della proroga, che la disposizione regionale ha indicato in tre anni dalla scadenza, mentre la norma statale ha individuato il termine finale nel novantesimo giorno successivo alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza;
  
art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020, che ha previsto una disciplina specifica della proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori indicati nei permessi di costruire di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, eliminando l’automatismo e subordinando la concessione della proroga alla richiesta dell’interessato, nonché alla perdurante compatibilità del titolo oggetto di proroga con gli strumenti urbanistici approvati o adottati.
Inoltre, nel testo che risulta a seguito della legge di conversione, è previsto un termine differenziato di proroga dei suddetti termini, rispettivamente di un anno e di tre anni.
La disciplina regionale è, pertanto, completamente differente rispetto a quella statale.
Il Collegio ha quindi ricordato che la durata dei titoli abilitativi rappresenta un punto di equilibrio fra i contrapposti interessi oggetto di tutela, inerenti alla realizzazione di interventi di trasformazione del territorio compatibili con la tutela dell’ambiente e dell’ordinato sviluppo urbanistico, per ciò stesso assegnato a titolo esclusivo al legislatore statale, secondo il sistema delineato dal d.P.R. n. 380 del 2001.
La disciplina statale riguarda tutto il territorio nazionale
In una situazione inusuale di emergenza epidemiologica come quella da COVID-19, l’intervento del legislatore è consistito nel prorogare i titoli abilitativi in termini omogenei su tutto il territorio nazionale: "incidendo sulla durata, le norme statali interposte partecipano della natura di “principio fondamentale” che connota la disciplina dei titoli abilitativi, con l’effetto di vincolare le Regioni. Le pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non giustificano l’introduzione di un regime regionale difforme”.
Con le norme emanate, lo Stato ha disposto la proroga generalizzata dei titoli abilitativi, seguendo lo sviluppo dell’emergenza epidemiologica e delle sue ricadute, nel bilanciamento di interessi potenzialmente confliggenti che connotano gli interventi sul territorio: da un lato, l’interesse dei beneficiari dei titoli abilitativi a esercitare i propri diritti, e l’interesse pubblico a non vincolare l’uso del territorio per un tempo eccessivo, dall’altro. L’intervento statale ha inteso rispondere a esigenze che riguardano l’intero territorio nazionale, colpito dalla pandemia, con effetti drammatici che hanno inciso il tessuto sociale ed economico.
L’art. 28, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18, è stato quindi giudicato illegittimo, ad esclusione della parte in cui, nel testo antecedente all’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 22 del 2020, prevedeva la proroga delle autorizzazioni paesaggistiche (23.12.2021 - tratto da e link a www.lavoripubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Donegani, Pandemia e proroga dei titoli abilitativi in Lombardia: l'intervento della Corte Costituzionale  (22.12.2021 - link a www.dirittopa.it).
---------------
Fin dalle prime fasi della pandemia, il legislatore nazionale si è preoccupato di prorogare i termini di titoli edilizi e convenzioni, sia per preservarne la validità a fronte del blocco delle attività, che per favorire il rilancio dell'economia accordando più ampi tempi di attuazione degli interventi edilizi. (...continua).

EDILIZIA PRIVATALa proroga dei titoli abilitativi edilizi è riservata allo Stato.
La Corte Costituzionale, con la
sentenza 21.12.2021 n. 245, ha dichiarato illegittima la disposizione della Regione Lombardia di proroga dei termini dei titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione, impugnata dal Governo perché in contrasto con la disciplina statale che, incidendo sulla durata dei titoli abilitativi, partecipa della natura di principio fondamentale della materia del governo del territorio. “Le pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non giustificano l’introduzione di un regime regionale difforme’’.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 28 della legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali). In particolare la disposizione regionale impugnata, prevedeva che in considerazione del permanere di gravi difficoltà per il settore delle costruzioni, derivanti dall’emergenza epidemiologica da COVID-19, “fosse prorogata la validità:
   a) di tutti certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla data di relativa scadenza;
   b) delle convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 46 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e dei termini da esse stabiliti, nonché di quelli contenuti in accordi similari, comunque denominati, previsti dalla legislazione regionale in materia urbanistica, stipulati antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, che conservano validità per tre anni dalla relativa scadenza
".
Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che la disposizione regionale violi il riparto di competenze in quanto proroga la validità dei titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione. Infatti la normativa in esame è riconducibile alla materia «governo del territorio», di competenza legislativa concorrente, e che, all’interno di tale ambito materiale, la disciplina dei titoli edilizi e paesaggistici assurga al rango di principio fondamentale, anche con riferimento alla durata.
La disposizione regionale, con l’introdurre una disciplina sostitutiva di quella statale sulla proroga dei titoli, violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., per il tramite del parametro interposto costituito dalle norme statali richiamate, che esprimono principi fondamentali della materia.
Sentenza della Corte
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 245/2021 del 21.12.2021, ha dichiarato incostituzionale la proroga dei termini dei titoli abilitativi disposta durante l’emergenza COVID-19 dalla regione Lombardia (legge 18/2020) in modo difforme da quanto ha previsto lo Stato con i decreti legge 18 e 76 del 2020.
‘‘Le pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non giustificano l’introduzione di un regime regionale difforme’’. La Corte ha inoltre osservato che, nel seguire lo sviluppo dell’emergenza COVID-19 e delle sue drammatiche ricadute, il legislatore statale ha inteso bilanciare l’interesse dei beneficiari dei titoli a conservare i rispettivi diritti e l’interesse pubblico a non vincolare l’uso del territorio per un tempo eccessivo. Di qui la proroga generalizzata dei titoli abilitativi su tutto il territorio nazionale, fino al novantesimo giorno successivo alla cessazione dello stato di emergenza (21.12.2021 - tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Art. 28 l.r. Lombardia n. 18/2020 – Illegittimità costituzionale – Emergenza epidemiologica – Proroga dei titoli abilitativi difforme rispetto alla previsione statale di cui agli artt. 103, c. 2 d.l. n. 18/2020 e 10, c. 4, d.l. n. 76/2020 – Durata dei titoli abilitativi – Principio fondamentale assegnato a titolo esclusivo al legislatore statale.
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali), come delimitato –nel suo ambito di applicazione– dall’art. 20, comma 2, lettera b), della legge della Regione Lombardia 27.11.2020, n. 22 (Seconda legge di revisione normativa ordinamentale 2020).
La norma, nel disporre la proroga dei titoli abilitativi in modo difforme da quanto previsto nella disciplina statale (artt. 103, comma 2, d.l. n. 18 del 2020, come convertito, e 10, comma 4, d.l. n. 76 del 2020, come convertito), entra in collisione con un principio fondamentale, in tema di durata dei titoli abilitativi, nella cui determinazione si ravvisa un punto di equilibrio fra i contrapposti interessi oggetto di tutela, inerenti alla realizzazione di interventi di trasformazione del territorio compatibili con la tutela dell’ambiente e dell’ordinato sviluppo urbanistico, per ciò stesso assegnato a titolo esclusivo al legislatore statale.
La diversità della proroga automatica disposta dalla Regione Lombardia è resa palese dal raffronto tra le norme statali interposte e la disciplina regionale, con riferimento sia all’oggetto –individuato in «tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati» in scadenza dal 31.01.2020 fino al 31.12.2021, laddove l’art. 103, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020, prevedeva la proroga automatica degli atti e titoli abilitativi in scadenza tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020–, sia alla durata della proroga, che la disposizione regionale ha indicato in tre anni dalla scadenza, mentre la norma statale ha individuato il termine finale nel novantesimo giorno successivo alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza.
La difformità si riscontra anche con riferimento alla previsione integrativa dettata dall’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020, che ha previsto una disciplina specifica della proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori indicati nei permessi di costruire di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, eliminando l’automatismo e subordinando la concessione della proroga alla richiesta dell’interessato, nonché alla perdurante compatibilità del titolo oggetto di proroga con gli strumenti urbanistici approvati o adottati.
Al disallineamento dei termini di proroga si affianca una disciplina strutturalmente diversa, giacché il d.l. n. 76 del 2020, intervenuto nella seconda fase dell’emergenza, ha superato l’automatismo della prima generalizzata proroga, introducendo elementi condizionali
(Corte Costituzionale, sentenza 21.12.2021 n. 245 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: EMERGENZA COVID: LA PROROGA DEI TITOLI ABILITATIVI EDILIZI E PAESAGGISTICI E’ RISERVATA ALLO STATO.
È incostituzionale la proroga dei termini dei titoli abilitativi disposta durante l’emergenza COVID-19 dalla regione Lombardia (legge 18/2020) in modo difforme da quanto ha previsto lo Stato con i decreti legge 18 e 76 del 2020.

‘‘Le pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non giustificano l’introduzione di un regime regionale difforme’’.
È quanto si legge nella sentenza n. 245 depositata oggi (relatrice Silvana Sciarra). La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la disposizione regionale di proroga dei termini, impugnata dal Governo perché in contrasto con la disciplina statale che, incidendo sulla durata dei titoli abilitativi, partecipa della natura di principio fondamentale della materia del governo del territorio.
La Corte ha osservato che, nel seguire lo sviluppo dell’emergenza COVID-19 e delle sue drammatiche ricadute, il legislatore statale ha inteso bilanciare l’interesse dei beneficiari dei titoli a conservare i rispettivi diritti e l’interesse pubblico a non vincolare l’uso del territorio per un tempo eccessivo. Di qui la proroga generalizzata dei titoli abilitativi su tutto il territorio nazionale, fino al novantesimo giorno successivo alla cessazione dello stato di emergenza (Corte Costituzionale, comunicato stampa 21.12.2021).
---------------
SENTENZA
1.– Con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 95 del 2020), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 28 della legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali).
2.– L’impugnato art. 28, rubricato «Differimento di termini e sospensione dell’efficacia di atti in materia di governo del territorio in considerazione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19», ha disposto «[a]nche in considerazione del permanere di gravi difficoltà per il settore delle costruzioni, derivanti dall’emergenza epidemiologica da COVID-19», la proroga della validità di atti e titoli abilitativi.
In particolare l’art. 28, comma 1, ha previsto, alla lettera a), la proroga della validità di «tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla data di relativa scadenza», e, alla lettera b), la proroga della validità delle «convenzioni di lottizzazione di cui all’articolo 46 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e dei termini da esse stabiliti, nonché di quelli contenuti in accordi similari, comunque denominati, previsti dalla legislazione regionale in materia urbanistica, stipulati antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, che conservano validità per tre anni dalla relativa scadenza».
2.1.– Il ricorrente ritiene che la disposizione regionale violi il riparto di competenze in quanto proroga la validità dei titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione difformemente da quanto previsto dalla disciplina statale nell’art. 103, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, in legge 24.04.2020, n. 27, e nel successivo, integrativo art. 10, commi 4 e 4-bis, del decreto-legge 16.07.2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale) convertito, con modificazioni, in legge 11.09.2020, n. 120.
2.2.– Il ricorrente muove dall’assunto che la normativa in esame sia riconducibile alla materia «governo del territorio», di competenza legislativa concorrente, e che, all’interno di tale ambito materiale, la disciplina dei titoli edilizi e paesaggistici assurga al rango di principio fondamentale, anche con riferimento alla durata.
La disposizione regionale, con l’introdurre una disciplina sostitutiva di quella statale sulla proroga dei titoli, violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., per il tramite del parametro interposto costituito dalle norme statali richiamate, che esprimono principi fondamentali della materia.
2.3.– La Regione Lombardia ha contestato che la proroga dei titoli abilitativi rientri nella normativa di principio riservata allo Stato in materia di «governo del territorio», assumendo che il legislatore regionale possa modulare diversamente la proroga per soddisfare esigenze peculiari del territorio.
3.– Occorre, in via preliminare, esaminare le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla Regione resistente.
3.1.– La Regione Lombardia, anzitutto, eccepisce l’inammissibilità del ricorso promosso avverso l’intero art. 28 della legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, in quanto sia la delibera di impugnazione del ricorso del Consiglio dei ministri che il ricorso non avrebbero individuato con sufficiente determinatezza le disposizioni impugnate, limitandosi a richiamare genericamente l’intero art. 28, che contiene disposizioni fra loro non omogenee.
3.1.1. – L’eccezione è priva di fondamento.
Come riconosciuto dalla stessa Regione Lombardia, sia dalla delibera di proposizione del ricorso, sia dal ricorso stesso emerge chiaramente che le censure di illegittimità costituzionale sono riferite alle sole prescrizioni contenute nel comma 1 del citato art. 28. Pertanto, lo scrutinio di questa Corte è circoscritto a tale comma.
3.2.– Deve essere, del pari, rigettata l’eccezione di inammissibilità formulata dalla difesa regionale con riguardo alla proroga della validità delle autorizzazioni paesaggistiche.
Il ricorrente, pur senza soffermarsi sulla dedotta violazione, chiaramente si duole che la proroga disposta dall’art. 28, comma 1, lettera a), investe i titoli autorizzativi anche paesaggistici, prevedendo termini diversi da quelli fissati dalla disciplina statale.
3.3.– Ancora in linea preliminare, occorre rilevare che, con atto depositato il 19.11.2021, il Presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato di rinunciare al ricorso limitatamente alla impugnazione dell’art. 28, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, in ragione della sopravvenuta abrogazione della citata disposizione ad opera dell’art. 18, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 27.11.2020, n. 22 (Seconda legge di revisione normativa ordinamentale 2020).
La Regione resistente, con delibera di Giunta pervenuta in data 30.11.2021, ha dichiarato di accettare la rinuncia.
Ciò comporta l’estinzione del processo, limitatamente alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, promossa dal Governo in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost.
3.4.– Con la memoria illustrativa, la difesa regionale ha segnalato l’ulteriore sopravvenienza normativa costituita dal comma 1-bis dell’art. 28 della legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, inserito dall’art. 20, comma 2, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 22 del 2020, entrata in vigore il 30.11.2020, precisando che tale disposizione ha escluso le autorizzazioni paesaggistiche dalla proroga di cui al comma 1. Una tale sopravvenienza comporterebbe, secondo la difesa regionale, la cessazione della materia del contendere.
Il periodo di vigenza della disposizione regionale impugnata –11.08.2020-30.11.2020– è allineato con la disciplina statale, contenuta nell’art. 103, comma 2-sexies, del d.l. n. 18 del 2020, aggiunto dal decreto-legge 07.10.2020, n. 125, recante «Misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19, per il differimento di consultazioni elettorali per l’anno 2020 e per la continuità operativa del sistema di allerta COVID, nonché per l’attuazione della direttiva (UE) 2020/739 del 03.06.2020, e disposizioni urgenti in materia di riscossione esattoriale», convertito, con modificazioni, in legge 27.11.2020, n. 159. La norma regionale impugnata avrebbe potuto operare dopo novanta giorni dalla scadenza della dichiarazione dello stato di emergenza previsto dalla normativa statale, ovvero dopo il 31.01.2021 e dunque non ha trovato applicazione, come affermato dalla difesa regionale nella memoria illustrativa.
Sussistono pertanto i presupposti per dichiarare cessata la materia del contendere con riguardo alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, nella sola parte relativa alla proroga delle autorizzazioni paesaggistiche.
4.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionalità, circoscritta alla restante parte della lettera a) del comma 1 dell’art. 28, è fondata.
4.1.– È opportuno ricostruire diacronicamente il succedersi degli interventi statali, ispirati, sia pure nella diversa modulazione tra la prima e la seconda fase dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, dall’impellente esigenza di preservare, su tutto il territorio nazionale, la validità e l’efficacia dei titoli abilitativi altrimenti compromessa dal blocco delle attività.
4.1.1.– Con l’art. 103, comma 1, del d.l. n. 18 del 17.03.2020 (cosiddetto Decreto cura Italia), il legislatore ha approntato il primo intervento urgente. La paralisi dell’attività amministrativa e l’esigenza di garantire la protezione della salute e gli interessi collegati all’azione della pubblica amministrazione, hanno indotto il legislatore a prevedere la sospensione dei termini di tutti i procedimenti amministrativi.
In larga parte sovrapponibile è la ratio che sorregge la previsione contenuta nel successivo comma 2, rilevante in questo giudizio, che dispone la proroga della validità degli atti e provvedimenti e titoli abilitativi già perfezionati, nonché lo slittamento dei termini in essi previsti.
Al di là del riferimento agli atti amministrativi di certazione (certificati, attestati), il catalogo riguarda provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei destinatari, quali i titoli abilitativi, che conformano lo ius aedificandi, e nascono temporalmente limitati. Lo scopo che la proroga si prefigge è mantenere intatta la posizione dei destinatari fino alla fine dell’emergenza.
In sede di conversione in legge, si è stabilito che gli atti e i titoli in scadenza tra il 31 gennaio e il 31.07.2020 conservano «validità» per i novanta giorni successivi alla data della dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza, con previsione espressamente estesa ai termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all’art. 15 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», alle segnalazioni certificate di inizio attività (SCIA), alle segnalazioni di agibilità, alle autorizzazioni paesaggistiche e alle autorizzazioni ambientali, comunque denominate.
4.1.2.– Nel luglio 2020, nel permanere dell’emergenza, il legislatore è tornato a occuparsi di alcuni provvedimenti specifici –i permessi di costruire– per ricalibrare la proroga automatica e generalizzata inizialmente disposta con l’art. 103, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020.
L’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020 (cosiddetto Decreto semplificazioni), come convertito nella legge n. 120 del 2020, ha previsto che i termini di inizio e ultimazione dei lavori di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, come indicati nei permessi di costruire formatisi fino al 31.12.2020, sono prorogati, se l’interessato comunica di volersi avvalere di tale proroga. Al momento della comunicazione i termini non devono essere già decorsi e il titolo deve risultare conforme agli strumenti urbanistici approvati o adottati.
Questa disciplina è stata espressamente estesa alle segnalazioni di inizio attività presentate entro lo stesso termine (31.12.2020).
4.1.3.– A causa del protrarsi dell’emergenza epidemiologica, il legislatore è nuovamente intervenuto. L’art. 3-bis, comma 1, lettera a), del d.l. n. 125 del 2020, come convertito, ha modificato l’art. 103, comma 2, sostituendo la data del «31.07.2020» con «la data della dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza», così prorogando la validità di tutti gli atti e titoli in scadenza nell’intero periodo emergenziale, a partire dal 31.01.2020.
L’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del medesimo d.l. n. 125 del 2020, ha introdotto nell’art. 103 il comma 2-sexies, in cui si prevede che tutti gli atti e provvedimenti indicati al comma 2 dell’art. 103 «scaduti» tra il 01.08.2020 e la data di entrata in vigore della legge di conversione n. 159 del 2020 (27.11.2020), e non rinnovati, «si intendono validi e sono soggetti alla disciplina di cui al medesimo comma 2».
In questo modo, è stata recuperata la validità degli atti in scadenza nel periodo successivo al 31.07.2020, non compresi nella prima proroga.
La disciplina dettata dall’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020 è riferita ai permessi di costruire e alla SCIA, mentre gli altri titoli abilitativi sono assoggettati alla previsione dell’art. 103, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020, come modificato.
4.1.4.– Infine, con il decreto-legge 23.07.2021, n. 105 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e per l’esercizio in sicurezza di attività sociali ed economiche), convertito, con modificazioni, in legge 16.09.2021, n. 126, l’emergenza da COVID-19 è stata prorogata fino al 31.12.2021.
5.– La disposizione regionale oggetto della questione di legittimità costituzionalità deve ricondursi alla materia «governo del territorio», di competenza legislativa concorrente. Tale questione si incentra sulla pretesa violazione delle disposizioni statali relative alla proroga generalizzata dei titoli abilitativi in ragione della emergenza epidemiologica, qualificate come disposizioni contenenti principi fondamentali della materia, vincolanti per le Regioni.
5.1.– L’art. 28, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, nel disporre la proroga dei titoli abilitativi in modo difforme da quanto previsto nella disciplina statale (artt. 103, comma 2, d.l. n. 18 del 2020, come convertito, e 10, comma 4, d.l. n. 76 del 2020, come convertito), entra in collisione con un principio fondamentale.
Il raffronto tra le norme statali interposte e la disciplina regionale rende palese la diversità della proroga automatica disposta dalla Regione Lombardia, con riferimento sia all’oggetto –individuato in «tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati» in scadenza dal 31.01.2020 fino al 31.12.2021, laddove l’art. 103, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020, prevedeva la proroga automatica degli atti e titoli abilitativi in scadenza tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020–, sia alla durata della proroga, che la disposizione regionale ha indicato in tre anni dalla scadenza, mentre la norma statale ha individuato il termine finale nel novantesimo giorno successivo alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza.
La difformità si riscontra anche con riferimento alla previsione integrativa dettata dall’art. 10, comma 4, del d.l. n. 76 del 2020, che ha previsto una disciplina specifica della proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori indicati nei permessi di costruire di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, eliminando l’automatismo e subordinando la concessione della proroga alla richiesta dell’interessato, nonché alla perdurante compatibilità del titolo oggetto di proroga con gli strumenti urbanistici approvati o adottati.
Inoltre, nel testo che risulta a seguito della legge di conversione, è previsto un termine differenziato di proroga dei suddetti termini, rispettivamente di un anno e di tre anni.
La disciplina regionale è, pertanto, affatto differente rispetto a quella statale.
Al disallineamento dei termini di proroga si affianca una disciplina strutturalmente diversa, giacché il d.l. n. 76 del 2020, intervenuto nella seconda fase dell’emergenza, ha superato l’automatismo della prima generalizzata proroga, introducendo gli elementi condizionali sopra indicati.
5.2. – Come già detto, la Regione contesta che la disciplina dettata dalle norme interposte assurga al rango di normazione di principio.
Per contrastare tale prospettazione si deve innanzi tutto richiamare l’orientamento di questa Corte, secondo cui la competenza legislativa concorrente non è contraddistinta da una netta separazione di materie, ma dal limite “mobile” e “variabile” costituito dai principi fondamentali, limite che «è incessantemente modulabile dal legislatore statale sulla base di scelte discrezionali, ove espressive di esigenze unitarie sottese alle varie materie» (sentenza n. 68 del 2018, punto 12.1.1. del Considerato in diritto, che richiama le sentenze n. 16 del 2010 e n. 50 del 2005).
5.3.– La riconducibilità delle norme che disciplinano i titoli abilitativi al rango di principi fondamentali della materia «governo del territorio» è stata ripetutamente affermata da questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 2 del 2021, n. 125 del 2017, n. 49 del 2016 e n. 309 del 2011).
Di recente si è ribadito che anche «la definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia concorrente “governo del territorio” (sentenze n. 68 del 2018 e n. 231 del 2016). L’obbligo di non iniziare i lavori prima di trenta giorni dalla segnalazione, stabilito dall’art. 23, comma 1, t.u. edilizia, concorre a caratterizzare indefettibilmente il regime del titolo abilitativo della “superSCIA”, e costituisce anch’esso principio fondamentale della materia» (sentenza n. 2 del 2021, punto 2.3.2. del Considerato in diritto).
5.4.– Il principio fondamentale che viene ora in rilievo riguarda la durata dei titoli abilitativi, nella cui determinazione si ravvisa un punto di equilibrio fra i contrapposti interessi oggetto di tutela, inerenti alla realizzazione di interventi di trasformazione del territorio compatibili con la tutela dell’ambiente e dell’ordinato sviluppo urbanistico, per ciò stesso assegnato a titolo esclusivo al legislatore statale, secondo il sistema delineato dal d.P.R. n. 380 del 2001.
L’obiettivo perseguito dall’intervento statale, nello svolgersi di una inusitata emergenza epidemiologica come quella da COVID-19, è consistito nel prorogare i titoli abilitativi in termini omogenei su tutto il territorio nazionale.
Incidendo sulla durata, le norme statali interposte partecipano della natura di “principio fondamentale” che connota la disciplina dei titoli abilitativi, con l’effetto di vincolare le Regioni. Le pur gravi difficoltà che investono il settore delle costruzioni in Lombardia, peraltro riscontrabili anche in altre realtà regionali, non giustificano l’introduzione di un regime regionale difforme.
Né risulta pertinente il richiamo della difesa regionale alla proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori prevista dal legislatore statale con l’art. 30, comma 3, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, in legge 09.08.2013, n. 98. In quel caso, era la stessa normativa statale di proroga che, sorretta dalla diversa ratio di rilancio dell’intero settore delle costruzioni, consentiva alle Regioni di dettare termini diversi, in funzione delle diverse esigenze dei territori.
5.5.– Con la disciplina richiamata a parametro interposto, lo Stato ha disposto la proroga generalizzata dei titoli abilitativi, seguendo lo sviluppo dell’emergenza epidemiologica e delle sue ricadute, nel bilanciamento di interessi potenzialmente confliggenti che connotano gli interventi sul territorio: l’interesse dei beneficiari dei titoli abilitativi a esercitare i diritti ivi conformati, da un lato, e l’interesse pubblico a non vincolare l’uso del territorio per un tempo eccessivo, dall’altro.
L’intervento statale ha inteso rispondere a esigenze che riguardano l’intero territorio nazionale, colpito dalla pandemia, con effetti drammatici che hanno inciso il tessuto sociale ed economico.
Si deve, pertanto, dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18, con esclusione della parte in cui, nel testo antecedente all’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 22 del 2020, prevedeva la proroga delle autorizzazioni paesaggistiche.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
   1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali), come delimitato –nel suo ambito di applicazione– dall’art. 20, comma 2, lettera b), della legge della Regione Lombardia 27.11.2020, n. 22 (Seconda legge di revisione normativa ordinamentale 2020);
   2) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, nella parte in cui –nel testo antecedente all’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 22 del 2020– prevedeva la proroga delle autorizzazioni paesaggistiche, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;
   2) dichiara estinto il processo, limitatamente alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe (Corte Costituzionale, sentenza 21.12.2021 n. 245).

"A questo punto la domanda sorge spontanea":
cosa succede ai titoli edilizi prorogati ovvero ai lavori intrapresi in forza della proroga triennale "regionale" la cui norma è stata cassata dalla Consulta?
Detto altrimenti, quali sono le conseguenze di tale abrogazione?

La risposta capita a fagiuolo, come si suol dire, grazie al recentissimo parere 28.12.2021 n. 1984 del Consiglio di Stato, Sez. I, laddove la Giustizia Amministrativa lo commenta siccome riportato nel prosieguo:

EDILIZIA PRIVATAEffetti della sentenza che dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma regionale.  
L'efficacia retroattiva della sentenza che dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate e intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale.
---------------

   Ha ricordato la Sezione che l’art. 136 Cost. dispone che, quando la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Inoltre, l’art. 30, l. 11.03.1953, n. 87, prevede che “la sentenza che dichiara l'illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, entro due giorni dal suo deposito in Cancelleria, è trasmessa, di ufficio, al Ministro di grazia e giustizia od al Presidente della Giunta regionale affinché si proceda immediatamente e, comunque, non oltre il decimo giorno, alla pubblicazione del dispositivo della decisione nelle medesime forme stabilite per la pubblicazione dell'atto dichiarato costituzionalmente illegittimo. La sentenza, entro due giorni dalla data del deposito viene, altresì, comunicata alle Camere e ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario adottino i provvedimenti di loro competenza. Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”.
Va osservato che l’invalidità della legge impugnata per contrasto con norme gerarchicamente superiori non produce effetto ipso iure, ma va affermata con una sentenza di natura costitutiva, vincolante erga omnes, che riguarda tutti i soggetti dell’ordinamento e tutti i rapporti non ancora definiti.
   Con la sentenza di accoglimento la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale, anche solo parziale, della disposizione impugnata che, come visto, cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione (ex art. 136 Cost.). È stato correttamente osservato dalla dottrina che un’interpretazione letterale dell’art. 136 Cost. lascerebbe qualificare l’effetto delle sentenze di accoglimento come una sorta di abrogazione, dal momento che la norma perde efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, riguardando, pertanto, solo i rapporti futuri e non quelli pendenti alla data della decisione.
In tal modo, tuttavia, si creerebbe una sorta di “corto circuito” con il meccanismo dell’instaurazione del giudizio di costituzionalità in via incidentale, poiché, da un lato, il giudice rimettente può sollevare la questione di incostituzionalità, sul presupposto della sua rilevanza nel giudizio a quo, e, dall’altro, la decisione di incostituzionalità non dovrebbe poter produrre effetti proprio sul giudizio a quo in quanto la sua efficacia riguarderebbe solo i rapporti futuri. La migliore dottrina sul punto ha rilevato che in un ordinamento a Costituzione rigida sarebbe contraddittorio che leggi dichiarate costituzionalmente illegittime continuino a spiegare effetti; peraltro, se la “perdita di efficacia” valesse solo per l’avvenire, nessuna parte solleverebbe la questione di legittimità costituzionale “per il semplice motivo che non ne avrebbe interesse”.
L’incongruenza lamentata –da parte di autorevole dottrina definita “assurda”– è stata superata con l’interpretazione dell’art. 136 Cost. ad opera del citato art. 30, l. 11.03.1953, n. 87, articolo quest’ultimo che ha chiarito che le norme dichiarate incostituzionali “non possono avere applicazione” dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Pertanto, la “perdita di efficacia” dell’art. 136 Cost. diventa “perdita di ulteriore applicabilità” delle norme dichiarate incostituzionali, con riferimento a tutti i rapporti, anche quelli già pendenti. In questo senso l’effetto delle sentenze di accoglimento è qualificato in termini di “annullamento” della legge dichiarata incostituzionale che viene espunta dall’ordinamento, mentre le leggi soltanto abrogate da ulteriori disposizioni di legge (fatte salve eventuali previsioni di retroattività delle norme successive) continuano ad applicarsi ai rapporti ancora pendenti alla data dell’abrogazione. Il limite all’efficacia delle sentenze di accoglimento è invece rappresentato dai rapporti ormai esauriti per effetto di prescrizione, decadenza o passaggio in giudicato di una sentenza, prevalendo in questi casi il principio di certezza del diritto.
In altri termini, mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico, salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge –dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita– la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si è realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. Unica eccezione alla regola appena descritta si realizza in materia penale, come chiaramente disposto dall’art. 30, comma 4, l. 11.03.1953, n. 87. Si tratta in questo caso di un’applicazione del principio già stabilito dall’articolo 2, comma 2, c.p., nonché “dalla particolare tutela della libertà personale voluta dalla nostra Costituzione”.
   Nel diritto amministrativo, a differenza che nel diritto penale, l'efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale si arresta, invece, dinanzi ai rapporti esauriti. Il ruolo affidato alla Corte come custode della Costituzione nella sua integralità impone di evitare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge determini, paradossalmente, «effetti ancor più incompatibili con la Costituzione» (sentenza n. 13 del 2004) di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina legislativa.
Per evitare che ciò accada, è compito della Corte modulare le proprie decisioni, anche sotto il profilo temporale, in modo da scongiurare che l'affermazione di un principio costituzionale determini il sacrificio di un altro. Per la Corte è pacifico che l'efficacia delle sentenze di accoglimento non retroagisce fino al punto di travolgere le «situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti esauriti». Diversamente, ne risulterebbe compromessa la certezza dei rapporti giuridici (sentenze n. 49 del 1970, n. 26 del 1969, n. 58 del 1967 e n. 127 del 1966).
Pertanto, il principio della retroattività «vale [...] soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139 del 1984, ripresa da ultimo dalla sentenza n. 1 del 2014). In questi casi, l'individuazione in concreto del limite alla retroattività, dipendendo dalla specifica disciplina di settore -relativa, ad esempio, ai termini di decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti amministrativi- che precluda ogni ulteriore azione o rimedio giurisdizionale, rientra nell'ambito dell'ordinaria attività interpretativa di competenza del giudice comune (principio affermato, ex plurimis, sin dalle sentenze n. 58 del 1967 e n. 49 del 1970 e poi ribadito con ordinanza 135 del 2010, sentenza 11.02.2015 n. 10 e 191 del 2021).
Nel diritto amministrativo, dunque, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge non può travolgere i provvedimenti amministrativi ormai divenuti definitivi per mancata impugnazione o per formazione del giudicato sulla relativa controversia (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 28.12.2021 n. 1984 - commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
PARERE
6. La sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale.
Occorre ricordare innanzi tutto che l’art. 136 Cost. dispone che, quando la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
Inoltre, l’art. 30 l. 11.03.1953, n. 87, prevede che “la sentenza che dichiara l'illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, entro due giorni dal suo deposito in Cancelleria, è trasmessa, di ufficio, al Ministro di grazia e giustizia od al Presidente della Giunta regionale affinché si proceda immediatamente e, comunque, non oltre il decimo giorno, alla pubblicazione del dispositivo della decisione nelle medesime forme stabilite per la pubblicazione dell'atto dichiarato costituzionalmente illegittimo.
La sentenza, entro due giorni dalla data del deposito viene, altresì, comunicata alle Camere e ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario adottino i provvedimenti di loro competenza.
Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali
”.
Va osservato che l’invalidità della legge impugnata per contrasto con norme gerarchicamente superiori non produce effetto ipso iure, ma va affermata con una sentenza di natura costitutiva, vincolante erga omnes, che riguarda tutti i soggetti dell’ordinamento e tutti i rapporti non ancora definiti.
Con la sentenza di accoglimento la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale, anche solo parziale, della disposizione impugnata che, come visto, cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione (ex art. 136 Cost.).
È stato correttamente osservato dalla dottrina che un’interpretazione letterale dell’art. 136 Cost. lascerebbe qualificare l’effetto delle sentenze di accoglimento come una sorta di abrogazione, dal momento che la norma perde efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, riguardando, pertanto, solo i rapporti futuri e non quelli pendenti alla data della decisione.
In tal modo, tuttavia, si creerebbe una sorta di “corto circuito” con il meccanismo dell’instaurazione del giudizio di costituzionalità in via incidentale, poiché, da un lato, il giudice rimettente può sollevare la questione di incostituzionalità, sul presupposto della sua rilevanza nel giudizio a quo, e, dall’altro, la decisione di incostituzionalità non dovrebbe poter produrre effetti proprio sul giudizio a quo in quanto la sua efficacia riguarderebbe solo i rapporti futuri.
La migliore dottrina sul punto ha rilevato che in un ordinamento a Costituzione rigida sarebbe contraddittorio che leggi dichiarate costituzionalmente illegittime continuino a spiegare effetti; peraltro, se la “perdita di efficacia” valesse solo per l’avvenire, nessuna parte solleverebbe la questione di legittimità costituzionale “per il semplice motivo che non ne avrebbe interesse”.
L’incongruenza lamentata –da parte di autorevole dottrina definita “assurda”– è stata superata con l’interpretazione dell’art. 136 Cost. ad opera del citato art. 30 l. 11.03.1953, n. 87, articolo quest’ultimo che ha chiarito che le norme dichiarate incostituzionali “non possono avere applicazione” dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Pertanto, la “perdita di efficacia” dell’art. 136 Cost. diventa “perdita di ulteriore applicabilità” delle norme dichiarate incostituzionali, con riferimento a tutti i rapporti, anche quelli già pendenti. In questo senso l’effetto delle sentenze di accoglimento è qualificato in termini di “annullamento” della legge dichiarata incostituzionale che viene espunta dall’ordinamento, mentre le leggi soltanto abrogate da ulteriori disposizioni di legge (fatte salve eventuali previsioni di retroattività delle norme successive) continuano ad applicarsi ai rapporti ancora pendenti alla data dell’abrogazione.
Il limite all’efficacia delle sentenze di accoglimento è invece rappresentato dai rapporti ormai esauriti per effetto di prescrizione, decadenza o passaggio in giudicato di una sentenza, prevalendo in questi casi il principio di certezza del diritto.
In altri termini, mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico, salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge –dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita– la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si è realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto.
Unica eccezione alla regola appena descritta si realizza in materia penale, come chiaramente disposto dall’art. 30, comma 4, l. 11.03.1953, n. 87. Si tratta in questo caso di un’applicazione del principio già stabilito dall’articolo 2, comma 2, c.p., nonché “dalla particolare tutela della libertà personale voluta dalla nostra Costituzione”.
7. Gli effetti della sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale nel diritto amministrativo.
Come ora spiegato, dunque, nel nostro sistema di giustizia costituzionale è jus receptum l’affermazione secondo la quale le pronunce della Consulta producono effetti tanto per il passato quanto per il futuro. Per la giurisprudenza, la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes e la norma di diritto c.d. sostanziale (ma anche la norma processuale) -dichiarata incostituzionale- cessa di operare dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale nella gazzetta ufficiale, ai sensi dell'art. 30, l. 11.03.1953, n. 87; inoltre, avendo l'illegittimità costituzionale per presupposto l'invalidità originaria della legge, sia essa di natura sostanziale, procedimentale o processuale, per contrasto con un precetto costituzionale, le pronunce di accoglimento del giudice delle leggi -dichiarative di illegittimità costituzionale- eliminano la norma con effetto ex tunc, con la conseguenza che essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione della decisione.
Resta fermo naturalmente il principio che gli effetti dell'incostituzionalità non si estendono ai diritti quesiti e ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l'ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d'incostituzionalità (ex multis, Consiglio di Stato, sez. III, 12.07.2018, n. 4264). La Corte costituzionale –con principio poi che è stato esteso anche alle sentenze e ai pareri del Consiglio di Stato (si veda Cons. Stato, parere 30.06.2020, n. 1233)– poi può modularne gli effetti attraverso specifiche indicazioni che, come affermato dalla dottrina, hanno lo “scopo di evitare che alcune pronunce, se operative su tutti i rapporti non ancora esauriti, produc(essero)ano danni così rilevanti, da mettere in ombra i benefici della dichiarazione di incostituzionalità”.
Per una disamina esaustiva degli effetti della sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale occorre allora verificarne le conseguenze nel giudizio a quo, nei rapporti pendenti e, infine, con riferimento ai rapporti esauriti.
7.1. Nel giudizio a quo.
La sentenza della Corte costituzionale è vincolante per il giudice a quo che, nel continuare il giudizio dopo la restituzione degli atti da parte della Corte, si trova di fronte all’avvenuto accertamento di illegittimità della legge, accertamento di illegittimità che la rende inapplicabile e che non può non vincolare il giudice a quo.
Del resto, per costante giurisprudenza costituzionale (ex multis, Corte Cost. n. 303/2007), ai fini dell’ingresso della questione di costituzionalità sollevata nel corso di un giudizio dinanzi ad un’autorità giurisdizionale, è requisito necessario, unitamente al vaglio della non manifesta infondatezza, che essa sia rilevante, ovvero che investa una disposizione avente forza di legge di cui il giudice rimettente è tenuto a fare applicazione, quale passaggio obbligato ai fini della risoluzione della controversia oggetto del processo principale.
La rilevanza della questione di costituzionalità comporta, dunque, che, primo fra tutti, il giudice rimettente dovrà fare applicazione concreta della decisione della Consulta nella soluzione della controversia a lui sottoposta.
Ciò è quanto accaduto, come sopra visto, nel caso qui in esame: il Tar per la Sicilia, sez. I, 15.02.2021, n. 579 ha dichiarato infatti che “i ricorrenti hanno diritto alla retrodatazione dell’attribuzione della qualifica di Vice Sovrintendenti della Polizia di Stato”.
7.2. Nei rapporti esauriti.
7.2.1. L'efficacia retroattiva della sentenza (ossia l’annullamento ex tunc della norma censurata oggetto della declaratoria di incostituzionalità) che dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate e intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale.
Per la Corte Costituzionale, “a differenza dello ius superveniens, che attiene alla «vigenza normativa», la dichiarazione di illegittimità costituzionale rimuove la norma censurata dall'ordinamento in quanto affetta da una invalidità «genetica», legata al sistema di gerarchia delle fonti: invalidità che impone di considerarla tamquam non esset, con il solo limite -non del giudicato- ma di quegli effetti «già compiuti e del tutto consumati», per loro natura insuscettibili di neutralizzazione” (Corte cost.. 16.04.2021, n. 68).
Più nello specifico, con sentenza 08.10.2021, n. 191, la Corte Costituzionale ricorda che “per costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, la cosiddetta efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale incontra il limite dei rapporti esauriti, tra i quali rientrano quelli che non possano più dare materia a un giudizio in ragione della disciplina dei termini di inoppugnabilità degli atti amministrativi (sentenza n. 10 del 2015, ordinanza n. 135 del 2010)”.
7.2.2. Occorre ora qui, affrontare più in dettaglio, quanto già esposto al § 7 in relazione alla materia penale (atteso il chiaro tenore dell’ultimo comma dell’art. 30 l. 11.03.1953, n. 87), non perché rilevante per la risposta ai quesiti formulati ma per l’individuazione di una regola vigente nella materia penale che è certamente diversa da quella esistente nel diritto amministrativo, come più ampiamente si esporrà al § 7.2.3.
Come prima anticipato, la ragione per cui in materia penale la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme travolge il giudicato risiede nella considerazione della gravità con cui le sanzioni penali incidono sulla libertà o su altri interessi fondamentali della persona. La Corte Costituzionale ha chiaramente affermato che “il principio della retroattività degli effetti delle pronunce di illegittimità costituzionale di cui al terzo comma del medesimo articolo -che, come questa Corte ha più volte ribadito, «è (e non può non essere) principio generale valevole nei giudizi davanti a questa Corte» (da ultimo, sentenza n. 10 del 2015)- si estende oltre il limite dei rapporti esauriti nel solo ambito penale, in considerazione della gravità con cui le sanzioni penali incidono sulla libertà o su altri interessi fondamentali della persona” (Corte cost., 24.02.2017, n. 43).
In termini ancora più chiari, si è stabilito che esiste un principio “in base al quale le sentenze di accoglimento producono i loro effetti anche sui rapporti sorti precedentemente, purché, però, non definitivamente "chiusi" sul piano giuridico; dunque, con esclusione dei rapporti «esauriti» (sentenze n. 10 del 2015, n. 1 del 2014, n. 3 del 1996, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966; ordinanza n. 135 del 2010), quali, anzitutto, quelli coperti sul piano processuale dal giudicato (sentenze n. 235 del 1989, n. 139 del 1984 e n. 127 del 1966). Soluzione, questa, coerente con l'esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche (sentenze n. 10 del 2015 e n. 26 del 1969).
Il quarto comma dell'art. 30 della legge n. 87 del 1953, … pone, tuttavia, una regola specifica e distinta con riguardo alla materia penale, stabilendo che «[q]uando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali».
Come emerge anche dai relativi lavori parlamentari, si tratta di regola suggerita dalle peculiarità della materia considerata e dalla gravità con cui le sanzioni penali incidono sulla libertà personale o su altri interessi fondamentali dell'individuo
” (Corte cost. 16.04.2021, n. 68).
7.2.3 Nel diritto amministrativo, a differenza che nel diritto penale (si veda il precedente § 7.2.2), l'efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale si arresta, invece, dinanzi ai rapporti esauriti.
Il ruolo affidato alla Corte come custode della Costituzione nella sua integralità impone di evitare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge determini, paradossalmente, «effetti ancor più incompatibili con la Costituzione» (sentenza n. 13 del 2004) di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina legislativa. Per evitare che ciò accada, è compito della Corte modulare le proprie decisioni, anche sotto il profilo temporale, in modo da scongiurare che l'affermazione di un principio costituzionale determini il sacrificio di un altro.
Per la Corte è pacifico che l'efficacia delle sentenze di accoglimento non retroagisce fino al punto di travolgere le «situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti esauriti». Diversamente, ne risulterebbe compromessa la certezza dei rapporti giuridici (sentenze n. 49 del 1970, n. 26 del 1969, n. 58 del 1967 e n. 127 del 1966).
Pertanto, il principio della retroattività «vale [...] soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139 del 1984, ripresa da ultimo dalla sentenza n. 1 del 2014). In questi casi, l'individuazione in concreto del limite alla retroattività, dipendendo dalla specifica disciplina di settore -relativa, ad esempio, ai termini di decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti amministrativi- che precluda ogni ulteriore azione o rimedio giurisdizionale, rientra nell'ambito dell'ordinaria attività interpretativa di competenza del giudice comune (principio affermato, ex plurimis, sin dalle sentenze n. 58 del 1967 e n. 49 del 1970 e poi ribadito con ordinanza 135 del 2010, sentenza 10 del 2015 e 191 del 2021).
Nel diritto amministrativo, dunque, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge non può travolgere i provvedimenti amministrativi ormai divenuti definitivi per mancata impugnazione o per formazione del giudicato sulla relativa controversia.
Tra i provvedimenti amministrativi soggetti alla disciplina ora esposta vi rientra certamente anche il ruolo di anzianità del personale di una pubblica amministrazione –soprattutto se in regime di diritto pubblico– relativamente alle specifiche posizioni ricoperte da ciascun dipendente. Conseguentemente le posizioni in ruolo non tempestivamente contestate dai singoli interessati, con riferimento al posto in cui sono collocati, nell’ordinario termine di decadenza previsto per impugnare innanzi al giudice amministrativo (sessanta giorni decorrenti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 29 e 41 c.p.a., “dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge”) si consolidano, resistendo dunque anche alle pronunce di illegittimità costituzionale. Tale regola, oltre che scaturire dai principi prima esposti, ha un fondamento logico perché evita che, come nel caso sottoposto all’attenzione di questo Consiglio da parte del Ministero, si rimettano in discussione assetti amministrativi consolidati risalenti anche a venti anni or sono e riferibili pure a soggetti che non hanno mai preso parte a giudizi.
Anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha nel tempo affermato che le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall'origine la validità e la efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche "consolidate" per effetto di eventi che l'ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudicato, l'atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza (Cass., sez. III, 28.07.1997, n. 7057; nello stesso senso sez. I, 14.05.1999, n. 4766; sez. I 07.06.2000, n. 7704; sez. I 25.06.2001, n. 10115; in relazione ai rapporti di lavoro, sez. lavoro, 25.08.2003, n. 12454).
7.3. Nei giudizi ancora pendenti innanzi al giudice amministrativo.
7.3.1. L’efficacia retroattiva delle sentenze che dichiarano l’illegittimità costituzionale non è dunque illimitata ma al contrario presuppone che i rapporti su cui la decisione può produrre effetti siano ancora “non esauriti” o perché relativi al giudizio a quo o perché incardinati in altri giudizi ancora pendenti in cui non è stata sollevata questione di legittimità costituzionale.
L’indagine sulla c.d. fase discendente del giudizio di costituzionalità, ossia del seguito nei giudizi amministrativi ancora pendenti, diversi da quello a quo, della dichiarazione di incostituzionalità di una norma sulla genesi o sull’esercizio del potere amministrativo, si traduce in un’indagine sulla sorte del provvedimento amministrativo adottato sulla base della disposizione incostituzionale, se cioè questo debba essere considerato inesistente, nullo o annullabile.
Nella fase discendente, osserva la dottrina, si ripropone una tensione tra dimensione soggettiva dei vincoli imposti dai motivi di ricorso e dimensione oggettiva dell’interesse al controllo di costituzionalità che sembrerebbe attribuire al giudice un potere eccezionale, cioè al di là delle regole processuali del giudizio amministrativo di annullamento di un atto anche per un motivo diverso da quello fatto valere dal ricorrente. Tale tensione non emerge tanto nel giudizio amministrativo in cui la questione di costituzionalità è stata sollevata (giudizio a quo), quanto nei giudizi amministrativi pendenti, in cui sia stato impugnato un provvedimento adottato sulla base della norma oggetto del giudizio di costituzionalità.
In definitiva, dovrà verificarsi se in questi casi il potere di annullamento (d’ufficio) dell’atto impugnato, al di fuori dei vizi dedotti dal ricorrente, trovi o meno significativo ostacolo nel principio della domanda, costituendo una peculiare limitazione agli effetti erga omnes del sindacato di costituzionalità.
7.3.2. In una prima fase (dal 1956 al 1963), le decisioni del Consiglio di Stato sono state oscillanti e hanno considerato l’atto amministrativo emesso sulla base di norma dichiarata incostituzionale inesistente, a volte con conseguente improcedibilità del ricorso proposto contro di esso, a volte con la necessità di una dichiarazione di difetto di giurisdizione a conoscere del ricorso proposto. Altre decisioni, invece, hanno affermato la sopravvivenza dell’atto amministrativo considerandolo annullabile.
7.3.3. Sul tema decisiva è la pronuncia dell’Adunanza Plenaria 8/1963 che fa discendere dall’efficacia della pronuncia d’incostituzionalità della legge l’annullabilità dell’atto amministrativo ed afferma, inoltre, che il vizio dell’atto amministrativo fondato su norme incostituzionali non incontra i limiti derivanti dal non essere stato denunciato nel relativo giudizio, né quello del diverso apprezzamento espresso precedentemente dal giudice sullo stesso vizio.
Quando, con la dichiarazione di incostituzionalità, la legge perde l’efficacia, la conseguenza che bisogna trarre” relativamente agli atti amministrativi “è solo che vi è stata una illegittima attribuzione di potestà discrezionale”, quindi “l’esercizio di un potere viziato per riflesso del vizio di costituzionalità che inficia la norma attributiva”.
La pronuncia smentisce definitivamente la teoria, sino allora sostenuta, della inesistenza degli atti amministrativi emanati in base ad una norma dichiarata incostituzionale; ciò che rileva infatti, secondo l’Adunanza Plenaria, per l’esistenza dell’atto è che l’amministrazione abbia agito nell’esercizio di funzioni attribuite dalla legge vigente al momento in cui l’atto è stato emanato.
Così l’Adunanza Plenaria: “la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha efficacia ex tunc, salvo il limite degli effetti irrevocabilmente prodotti dalla norma incostituzionale (situazioni e rapporti divenuti incontrovertibili per il maturarsi di termini di prescrizione o di decadenza, o perché definiti con giudicato, etc.) ed opera erga omnes, cioè anche fuori dell’ambito del rapporto processuale in cui è stato sollevato l’incidente di incostituzionalità, distinguendosi dalla abrogazione della legge, perché si estende ai fatti anteriori.
La norma dichiarata incostituzionale non può dichiararsi inesistente (con conseguente inesistenza dell’organo creato in base ad essa e degli atti emessi da tale organo). Fra legge ed atto amministrativo non sussiste un rapporto di consequenzialità analogo a quello ravvisabile tra atto preparatorio e atto finale del procedimento amministrativo. L’atto amministrativo, quale manifestazione di autonomia del potere esecutivo, ha una sua vita ed una sua individualità propria e non resta direttamente travolto dalla cessazione di efficacia della legge. … L’invalidità dell’atto derivata dalla incostituzionalità della norma non ha sempre pieno effetto satisfattorio, indipendentemente dalla rimozione reale dell’atto stesso. Il giudice amministrativo, pertanto, richiesto della pronunzia di annullamento dell’atto per tale causa non può limitarsi a dichiarare la cessazione della materia del contendere, privando il ricorrente della possibilità di rendere coercibile l’esecuzione del giudicato relativo ad un dovere giuridico della P.A. solo incidentalmente affermato nella motivazione.
La dichiarazione di incostituzionalità di una norma che attribuisce alla P.A. un potere discrezionale, non trasforma ex tunc le originarie posizioni di interesse legittimo in diritti soggettivi, privando di giurisdizione l’adito Consiglio di Stato. Infatti nel momento della emanazione dell’atto il potere discrezionale non poteva dirsi mancante ma veniva esercitato in base ad una legge viziata di incostituzionalità (…) i ricorsi impostati sulla intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale vanno decisi dal giudice amministrativo tenendo presente che l’atto amministrativo continua ad avere vita autonoma finché non sia rimosso con uno degli strumenti a ciò idonei e che persiste l’interesse di chi ne ha chiesto l’annullamento ad ottenerlo. Tale annullamento va pronunziato sia se la questione incidentale è stata sollevata nel corso del giudizio risolvendosi in un motivo di impugnazione dell’atto, sia se pur essendo stata sollevata non sia stata ancora delibata dal giudice amministrativo al momento della intervenuta pronunzia della Corte Costituzionale, non avendo rilievo la circostanza che la fondatezza del dubbio di costituzionalità sia stata accertata nel corso del medesimo giudizio o nel corso di altro giudizio
”.
7.3.4. Questo orientamento che, in definitiva, vuole l’atto amministrativo emanato sulla base di una legge successivamente dichiarata incostituzionale, anche se invalido, produttivo dei suoi effetti sino alla sua formale rimozione a mezzo dell’annullamento (purché non sia già divenuto definitivo e/o non sia “sceso” il giudicato sulla relativa controversia), è stato confermato in seguito dalla giurisprudenza e dalla dottrina.
La giurisprudenza amministrativa ha infatti utilizzato la categoria dell’invalidità “sopravvenuta” (o “derivata”), alludendo ad un atto amministrativo conforme al proprio modello legale nel momento della emanazione e, quindi, nel momento di esercizio del potere sotteso, ma divenuto viziato a seguito della dichiarazione di incostituzionalità della stessa norma, attributiva o regolativa.
7.3.5. Posta l’utilizzabilità della categoria della invalidità derivata e del regime della annullabilità, si pone il problema del rilievo ex officio, degli spazi di esercizio del potere di annullamento e se tale potere sia vincolato ad un motivo del ricorso.
La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che “legittimamente il giudice adito annulla l'atto impugnato fondato su una norma dichiarata incostituzionale, anche nel caso in cui la relativa questione non abbia formato oggetto di uno specifico motivo di ricorso, considerato che detto giudice è chiamato, sia pur in modo indiretto o implicito, a far applicazione della norma nella quale trova legittimazione l'atto impugnato” (Consiglio di Stato, sez. V, 06.02.1999, n. 138).
Sempre che il relativo giudizio sia ancora pendente al momento della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, dunque, la mancata deduzione del vizio derivabile dalla pronuncia di incostituzionalità in seno al ricorso introduttivo non comporta, quindi, né la preclusione della deduzione, né la necessità di deduzione integrativa (con motivi aggiunti). In questo modo, è stato osservato dalla dottrina, la disciplina del processo amministrativo è stata sottoposta ad una interpretazione di adeguamento alle dinamiche del controllo di costituzionalità in via incidentale.
Unico limite rimane tuttavia la pendenza della controversia e la rilevanza della questione ai fini della decisione del giudice amministrativo. La giurisprudenza afferma infatti che il giudice non può applicare d’ufficio l’intervenuta pronuncia di illegittimità costituzionale della norma in ipotesi in cui, ex ante, non avrebbe potuto sollevare, di ufficio o su istanza di parte, la questione di legittimità costituzionale della norma predetta per difetto di rilevanza. È stato correttamente osservato in dottrina che l’interesse generale che norme dichiarate incostituzionali non trovino più applicazione legittima sì il potere di annullamento ex officio, ma questo elemento di novità e di tensione nel processo amministrativo deve rimanere pur sempre ancorato ai motivi del ricorso, essendo l’esame della norma utile ai fini della decisione, e all’attuale pendenza della controversia.
7.3.6. La giurisprudenza ha inoltre distinto tra le norme sul quomodo di esercizio del potere e quelle sulla genesi del potere, aggiungendo che il rilievo d’ufficio dell’incostituzionalità della norma non incontra il limite dei motivi del ricorso quando la Corte costituzionale dichiari illegittima una norma sulla “genesi” del potere. In questo caso, sempre che il relativo giudizio sia ancora pendente al momento della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, il giudice amministrativo può esercitare un potere di annullamento d’ufficio, anche quando il ricorrente abbia assunto come violate tutt’altre norme (così Consiglio di Stato, sez. VI, 20.11.1986, n. 855: “la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma nella quale trova esclusivo fondamento il potere esercitato dalla p.a. con il provvedimento impugnato, svolge i suoi effetti ex tunc nei giudizi in corso, comportando l’illegittimità del provvedimento stesso, del quale va dichiarato l’annullamento con sentenza del giudice amministrativo”).
L’orientamento giurisprudenziale appena riferito è stato confermato dal Consiglio di Stato, riaffermando la tesi dell’annullabilità dell’atto amministrativo e distinguendo tra norme incostituzionali che incidono sull’an o sul quomodo del potere amministrativo solo ai fini del potere di rilievo officioso che non può essere esercitato quando la norma sul quomodo del potere dichiarata incostituzionale non sia stata richiamata dal ricorrente nei motivi di ricorso o si sia altrimenti esaurito il potere.
8. Estensione del giudicato amministrativo e suoi limiti.
L’articolo 2909 c.c. dispone che l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa (c.d. efficacia soggettiva del giudicato).
Nel diritto amministrativo, è jus receptum che la decisione di annullamento di un provvedimento -che per i limiti soggettivi del giudicato esplica in via ordinaria effetti solo fra le parti in causa- acquista efficacia erga omnes esclusivamente nei casi di atti a contenuto inscindibile, ovvero di atti a contenuto normativo (regolamenti) o amministrativi generali, rivolti a destinatari indeterminati ed indeterminabili a priori, in relazione ai quali gli effetti dell'annullamento non sono circoscrivibili ai soli ricorrenti, essendosi in presenza di un atto a contenuto generale sostanzialmente e strutturalmente unitario, il quale non può esistere per taluni e non esistere per altri (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 04.04.2018, n. 2097).
Per insegnamento costante, e risalente nel tempo, invece, l’annullamento giurisdizionale dell'atto plurimo e scindibile (sulla nozione si veda, Cons. Stato, sez. VI, 13.02.2009, n. 765), qual è il ruolo di anzianità di una pubblica amministrazione, non può avere efficacia erga omnes ma solo effetti inter partes. Ed invero, sarebbe errato ammettere l’applicazione dello stesso principio di efficacia generalizzata ultra partes della sentenza di annullamento degli atti inscindibili perché significherebbe sottrarre i singoli destinatari dell’atto plurimo –che sono portatori di uno specifico interesse personale e differenziato in relazione ad una volontà amministrativa rivolta distintamente a più destinatari occasionalmente raggruppati in un unico provvedimento– dai principi del processo impugnatorio e dei relativi termini decadenziali (Cons. Stato, sez. V, 15.12.2005, n. 7144). In tal caso la diligenza e la solerzia di alcuni andrebbe a beneficio di coloro che non hanno fatto valere tempestivamente il loro diritto di difesa.
Con specifico riferimento al pubblico impiego occorre inoltre considerare che l’art. 1, comma 132, l. 30.12.2004, n. 311 dispone che “per il triennio 2005-2007 è fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di cui agli articoli 1, comma 2, e 70, comma 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, di adottare provvedimenti per l'estensione di decisioni giurisdizionali aventi forza di giudicato, o comunque divenute esecutive, in materia di personale delle amministrazioni pubbliche” e che il successivo art. 41, comma 6, l. 207/2008 prevede che “il divieto di cui all'articolo 1, comma 132, della legge 30.12.2004, n. 311, è prorogato anche per gli anni successivi al 2008”.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha di recente ricordato che: “in tema di divieto di estensione di decisioni giurisdizionali aventi forza di giudicato nel pubblico impiego, la posizione giuridica di coloro che abbiano presentato un tempestivo ricorso avverso un atto di macro-organizzazione si differenzia sotto il profilo soggettivo da quella degli altri dipendenti che avevano prestato acquiescenza nei confronti del suddetto atto rimanendo inattivi. Il giudicato amministrativo, in assenza di norme ad hoc nel c.p.a., è sottoposto alle disposizioni generali sul processo civile, per cui il giudicato opera solo inter partes, secondo quanto prevede per il giudicato civile l'art. 2909 c.c. e, quindi, sono eccezionali i casi di giudicato amministrativo con effetti ultra partes, i quali si giustificano solo grazie all'inscindibilità degli effetti dell'atto o dell'inscindibilità del vizio dedotto (nel caso in esame il provvedimento impugnato aveva ad oggetto una vicenda amministrativa specifica e temporalmente circoscritta, ossia la mobilità connessa alla c.d. «riforma della Buona Scuola»” (Consiglio di Stato, sez. VI, 26.01.2021, n. 799).
Anche l’Adunanza Plenaria, sempre di recente, ha ribadito che: “Il giudicato amministrativo ha di regola effetti limitati alle parti del giudizio e non produce effetti a favore dei cointeressati che non abbiamo tempestivamente impugnato; i casi di giudicato con effetti ultra partes sono eccezionali e si giustificano in ragione dell'inscindibilità degli effetti dell'atto o dell'inscindibilità del vizio dedotto: in particolare, l'indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone l'esistenza di un legame altrettanto inscindibile fra le posizione dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile, logicamente, ancor prima che giuridicamente, che l'atto annullato possa continuare ad esistere per quei destinatari che non lo hanno impugnato; per tali ragioni deve escludersi che l'indivisibilità possa operare con riferimento a effetti del giudicato diversi da quelli caducanti e, quindi, per gli effetti conformativi, ordinatori, additivi o di accertamento della fondatezza della pretesa azionata, che operano solo nei confronti delle parti del giudizio” (Consiglio di Stato, ad. plen., 27.02.2019, nn. 4 e 5).
Alla luce del quadro normativo e delle pronunce della giurisprudenza amministrativa riferiti è chiaro che nella materia oggetto di esame viga il divieto di estensione del giudicato.
9. Legalità costituzionale e autotutela amministrativa.
L'esercizio del potere di autotutela, che trova fondamento nei principi di legalità, imparzialità, buon andamento cui deve essere improntata l'attività della P.A., è facoltà ampiamente discrezionale (soprattutto nell'an) dell'Amministrazione, che non ha alcun dovere giuridico di esercitarla; detto potere si esercita discrezionalmente d'ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito dell'Amministrazione e non su istanza di parte. Ne consegue che, fatte salve ipotesi eccezionali, essa non ha alcun obbligo di provvedere su istanze che ne sollecitino l'esercizio e che alla richiesta del privato di autotutela deve essere riconosciuta una funzione meramente sollecitatoria, in quanto, in caso contrario, si verificherebbe l'elusione del termine decadenziale di impugnazione il cui rispetto è funzionale all'esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico.
Giova ricordare che l’esercizio del potere di autotutela è legato altresì al rispetto dell’art. 21-nonies l. 241/1990, ai sensi del quale: “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
Resta ferma infine la necessità poi di valutare la successiva azione amministrativa con l’articolo 1, comma 132, l. 30.12.2004, n. 311, prima illustrato al § 8 (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 28.12.2021 n. 1984 - commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

Sull'efficacia retroattiva, o meno delle sentenze della Corte Costituzionale si legga anche l'ulteriore pronunciamento a seguire:

ATTI AMMINISTRATIVI: L’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale è principio generale valevole nei giudizi davanti alla Consulta; esso, tuttavia, non è privo di limiti.
Questa Corte ha già chiarito che l’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale è (e non può non essere) principio generale valevole nei giudizi davanti a questa Corte; esso, tuttavia, non è privo di limiti.
Anzitutto è pacifico che l’efficacia delle sentenze di accoglimento non retroagisce fino al punto di travolgere le «situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti esauriti». Diversamente ne risulterebbe compromessa la certezza dei rapporti giuridici.
Pertanto, il principio della retroattività «vale […] soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida». In questi casi, l’individuazione in concreto del limite alla retroattività, dipendendo dalla specifica disciplina di settore –relativa, ad esempio, ai termini di decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti amministrativi– che precluda ogni ulteriore azione o rimedio giurisdizionale, rientra nell’ambito dell’ordinaria attività interpretativa di competenza del giudice comune.
Inoltre, come il limite dei «rapporti esauriti» ha origine nell’esigenza di tutelare il principio della certezza del diritto, così ulteriori limiti alla retroattività delle decisioni di illegittimità costituzionale possono derivare dalla necessità di salvaguardare principi o diritti di rango costituzionale che altrimenti risulterebbero irreparabilmente sacrificati. In questi casi, la loro individuazione è ascrivibile all’attività di bilanciamento tra valori di rango costituzionale ed è, quindi, la Corte costituzionale –e solo essa– ad avere la competenza in proposito.
---------------

7.– Nel pronunciare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate, questa Corte non può non tenere in debita considerazione l’impatto che una tale pronuncia determina su altri principi costituzionali, al fine di valutare l’eventuale necessità di una graduazione degli effetti temporali della propria decisione sui rapporti pendenti.
Il ruolo affidato a questa Corte come custode della Costituzione nella sua integralità impone di evitare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge determini, paradossalmente, «effetti ancor più incompatibili con la Costituzione» (sentenza n. 13 del 2004) di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina legislativa. Per evitare che ciò accada, è compito della Corte modulare le proprie decisioni, anche sotto il profilo temporale, in modo da scongiurare che l’affermazione di un principio costituzionale determini il sacrificio di un altro.
Questa Corte ha già chiarito (sentenze n. 49 del 1970, n. 58 del 1967 e n. 127 del 1966) che l’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale è (e non può non essere) principio generale valevole nei giudizi davanti a questa Corte; esso, tuttavia, non è privo di limiti.
Anzitutto è pacifico che l’efficacia delle sentenze di accoglimento non retroagisce fino al punto di travolgere le «situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti esauriti». Diversamente ne risulterebbe compromessa la certezza dei rapporti giuridici (sentenze n. 49 del 1970, n. 26 del 1969, n. 58 del 1967 e n. 127 del 1966). Pertanto, il principio della retroattività «vale […] soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139 del 1984, ripresa da ultimo dalla sentenza n. 1 del 2014). In questi casi, l’individuazione in concreto del limite alla retroattività, dipendendo dalla specifica disciplina di settore –relativa, ad esempio, ai termini di decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti amministrativi– che precluda ogni ulteriore azione o rimedio giurisdizionale, rientra nell’ambito dell’ordinaria attività interpretativa di competenza del giudice comune (principio affermato, ex plurimis, sin dalle sentenze n. 58 del 1967 e n. 49 del 1970).
Inoltre, come il limite dei «rapporti esauriti» ha origine nell’esigenza di tutelare il principio della certezza del diritto, così ulteriori limiti alla retroattività delle decisioni di illegittimità costituzionale possono derivare dalla necessità di salvaguardare principi o diritti di rango costituzionale che altrimenti risulterebbero irreparabilmente sacrificati. In questi casi, la loro individuazione è ascrivibile all’attività di bilanciamento tra valori di rango costituzionale ed è, quindi, la Corte costituzionale –e solo essa– ad avere la competenza in proposito.
Una simile graduazione degli effetti temporali delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale deve ritenersi coerente con i principi della Carta costituzionale: in tal senso questa Corte ha operato anche in passato, in alcune circostanze sia pure non del tutto sovrapponibili a quella in esame (sentenze n. 423 e n. 13 del 2004, n. 370 del 2003, n. 416 del 1992, n. 124 del 1991, n. 50 del 1989, n. 501 e n. 266 del 1988).
Il compito istituzionale affidato a questa Corte richiede che la Costituzione sia garantita come un tutto unitario, in modo da assicurare «una tutela sistemica e non frazionata» (sentenza n. 264 del 2012) di tutti i diritti e i principi coinvolti nella decisione. «Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette»: per questo la Corte opera normalmente un ragionevole bilanciamento dei valori coinvolti nella normativa sottoposta al suo esame, dal momento che «[l]a Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi» (sentenza n. 85 del 2013).
Sono proprio le esigenze dettate dal ragionevole bilanciamento tra i diritti e i principi coinvolti a determinare la scelta della tecnica decisoria usata dalla Corte: così come la decisione di illegittimità costituzionale può essere circoscritta solo ad alcuni aspetti della disposizione sottoposta a giudizio –come avviene ad esempio nelle pronunce manipolative– similmente la modulazione dell’intervento della Corte può riguardare la dimensione temporale della normativa impugnata, limitando gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale sul piano del tempo.
Del resto, la comparazione con altre Corti costituzionali europee –quali ad esempio quelle austriaca, tedesca, spagnola e portoghese– mostra che il contenimento degli effetti retroattivi delle decisioni di illegittimità costituzionale rappresenta una prassi diffusa, anche nei giudizi in via incidentale, indipendentemente dal fatto che la Costituzione o il legislatore abbiano esplicitamente conferito tali poteri al giudice delle leggi.
Una simile regolazione degli effetti temporali deve ritenersi consentita anche nel sistema italiano di giustizia costituzionale.
Essa non risulta inconciliabile con il rispetto del requisito della rilevanza, proprio del giudizio incidentale (sentenza n. 50 del 1989). Va ricordato in proposito che tale requisito opera soltanto nei confronti del giudice a quo ai fini della prospettabilità della questione, ma non anche nei confronti della Corte ad quem al fine della decisione sulla medesima. In questa chiave, si spiega come mai, di norma, la Corte costituzionale svolga un controllo di mera plausibilità sulla motivazione contenuta, in punto di rilevanza, nell’ordinanza di rimessione, comunque effettuato con esclusivo riferimento al momento e al modo in cui la questione di legittimità costituzionale è stata sollevata.
In questa prospettiva si spiega, ad esempio, quell’orientamento giurisprudenziale che ha riconosciuto la sindacabilità costituzionale delle norme penali di favore anche nelle ipotesi in cui la pronuncia di accoglimento si rifletta soltanto «sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio decidendi […], pur fermi restando i pratici effetti di essa» (sentenza n. 148 del 1983, ripresa sul punto dalla sentenza n. 28 del 2010).
Né si può dimenticare che, in virtù della declaratoria di illegittimità costituzionale, gli interessi della parte ricorrente trovano comunque una parziale soddisfazione nella rimozione, sia pure solo pro futuro, della disposizione costituzionalmente illegittima.
Naturalmente, considerato il principio generale della retroattività risultante dagli artt. 136 Cost. e 30 della legge n. 87 del 1953, gli interventi di questa Corte che regolano gli effetti temporali della decisione devono essere vagliati alla luce del principio di stretta proporzionalità. Essi debbono, pertanto, essere rigorosamente subordinati alla sussistenza di due chiari presupposti: l’impellente necessità di tutelare uno o più principi costituzionali i quali, altrimenti, risulterebbero irrimediabilmente compromessi da una decisione di mero accoglimento e la circostanza che la compressione degli effetti retroattivi sia limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il contemperamento dei valori in gioco (Corte Costituzionale, sentenza 11.02.2015 n. 10).

aggiornamento al 31.10.2021

Ne davamo notizia con l'AGGIORNAMENTO AL 21.04.2021 ed ora la Consulta s'è pronunziata dichiarando:

   1) l’illegittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n. 18, recante «Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali», nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della legge della Regione Lombardia 24.06.2021, n. 11, recante «Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità. Modifiche all’art. 40-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)»;
   2) in via conseguenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale del comma 11-quinquies dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021.

EDILIZIA PRIVATA: E' incostituzionale la normativa della Regione Lombardia sul recupero degli immobili dismessi.
L'art. 40-bis della l.r. n. 12/2005, siccome introdotto dall’art. 4, comma 1, lett. a), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n. 18, così recita:
   1. I comuni, con deliberazione consiliare, anche sulla base di segnalazioni motivate e documentate, individuano entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge regionale recante 'Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali' gli immobili di qualsiasi destinazione d'uso, dismessi da oltre cinque anni, che causano criticità per uno o più dei seguenti aspetti: salute, sicurezza idraulica, problemi strutturali che ne pregiudicano la sicurezza, inquinamento, degrado ambientale e urbanistico-edilizio. La disciplina del presente articolo si applica, anche senza la deliberazione di cui sopra, agli immobili già individuati dai comuni come degradati e abbandonati. Le disposizioni di cui al presente articolo, decorsi i termini della deliberazione di cui sopra, si applicano anche agli immobili non individuati dalla medesima, per i quali il proprietario, con perizia asseverata giurata, certifichi oltre alla cessazione dell'attività, documentata anche mediante dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà a cura della proprietà o del legale rappresentante, anche uno o più degli aspetti sopra elencati, mediante prova documentale e/o fotografica. I comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge regionale recante 'Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali', mediante deliberazione del consiglio comunale possono individuare gli ambiti del proprio territorio ai quali non si applicano le disposizioni di cui ai commi 5 e 10 del presente articolo, in relazione a motivate ragioni di tutela paesaggistica.
   2.
I comuni, prima delle deliberazioni di cui al comma 1, da aggiornare annualmente, notificano ai sensi del codice di procedura civile ai proprietari degli immobili dismessi e che causano criticità le ragioni dell'individuazione, di modo che questi, entro 30 giorni dal ricevimento di detta comunicazione, possano dimostrare, mediante prove documentali, l'assenza dei presupposti per l'inserimento.
   3. (omissis)
   5.
Gli interventi sugli immobili di cui al comma 1 usufruiscono di un incremento del 20 per cento dei diritti edificatori derivanti dall'applicazione dell'indice di edificabilità massimo previsto o, se maggiore di quest'ultimo, della superficie lorda esistente e sono inoltre esentati dall'eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, a eccezione di quelle aree da reperire all'interno dei comparti edificatori o degli immobili oggetto del presente articolo, già puntualmente individuate all'interno degli strumenti urbanistici e da quelle dovute ai sensi della pianificazione territoriale sovraordinata. A tali interventi non si applicano gli incrementi dei diritti edificatori di cui all'articolo 11, comma 5. Nei casi di demolizione l'incremento dei diritti edificatori del 20 per cento si applica per un periodo massimo di dieci anni dalla data di individuazione dell'immobile quale dismesso.
   6.
E' riconosciuto un ulteriore incremento dell'indice di edificabilità massimo previsto dal PGT o rispetto alla superficie lorda (SL) esistente del 5 per cento per interventi che assicurino una superficie deimpermeabilizzata e destinata a verde non inferiore all'incremento di SL realizzato, nonché per interventi che conseguano una diminuzione dell'impronta al suolo pari ad almeno il 10 per cento. A tal fine possono essere utilizzate anche le superfici situate al di fuori del lotto di intervento, nonché quelle destinate a giardino pensile, cosi come regolamentate dalla norma UNI 11235/2007.
   7. Se il proprietario non provvede entro il termine di cui al comma 4, non può più accedere ai benefici di cui ai commi 5 e 6 e il comune lo invita a presentare una proposta di riutilizzo, assegnando un termine da definire in ragione della complessità della situazione riscontrata, e comunque non inferiore a mesi quattro e non superiore a mesi dodici.
   8.
Decorso il termine di cui al comma 7 senza presentazione delle richieste o dei titoli di cui al comma 4, il comune ingiunge al proprietario la demolizione dell'edificio o degli edifici interessati o, in alternativa, i necessari interventi di recupero e/o messa in sicurezza degli immobili, da effettuarsi entro un anno. La demolizione effettuata dalla proprietà determina il diritto ad un quantitativo di diritti edificatori pari alla superficie lorda dell'edificio demolito fino all'indice di edificabilità previsto per l'area. I diritti edificatori generati dalla demolizione edilizia possono sempre essere perequati e confluiscono nel registro delle cessioni dei diritti edificatori di cui all'articolo 11, comma 4.
   9.
Decorso infruttuosamente il termine di cui al comma 8, il comune provvede in via sostitutiva, con obbligo di rimborso delle relative spese a carico della proprietà, cui è riconosciuta la SL esistente fino all'indice di edificabilità previsto dallo strumento urbanistico.
   10.
Tutti gli interventi di rigenerazione degli immobili di cui al presente articolo sono realizzati in deroga alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento, sulle distanze previste dagli strumenti urbanistici comunali vigenti e adottati e ai regolamenti edilizi, fatte salve le norme statali e quelle sui requisiti igienico-sanitari.

   11. (omissis)
   11-bis. (omissis)

In generale, l’imposizione ai Comuni, per di più al di fuori di qualsiasi procedura di raccordo collaborativo, di una disciplina quale quella in esame finisce per alterare i termini essenziali di esercizio della funzione pianificatoria, anche perché obbliga i medesimi Comuni a far dipendere le loro scelte fondamentali sulle forme di uso e sviluppo del territorio da una decisione legislativa destinata a incidere in modo assai significativo sull’aumento dell’edificato e sulla conseguente pressione insediativa.
Ciò contrasta con l’assunto, che questa Corte condivide, per cui «il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse all’ordinato sviluppo edilizio del territorio […], ma è rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti».
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale
  
dell’art. 40-bis della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n. 18, recante «Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali», nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della legge della Regione Lombardia 24.06.2021, n. 11, recante «Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità. Modifiche all’art. 40-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)»;
   ●
in via conseguenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale del comma 11-quinquies dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021.

---------------
SENTENZA
9.– Alla luce delle ragioni ora esposte, deve quindi procedersi all’esame delle sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, nel testo vigente prima delle modifiche ad esso apportate dall’art. 1 della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021.
Con un primo ordine di questioni, il TAR Lombardia ritiene che tale previsione normativa, introdotta dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2019, si ponga in contrasto con plurimi parametri costituzionali (artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, commi secondo, lettera p, terzo e sesto, e 118 Cost.), perché il legislatore regionale avrebbe introdotto una disciplina per il recupero degli immobili abbandonati e degradati che comprime illegittimamente, da più angolazioni, la potestà pianificatoria comunale, essenzialmente in ragione della sua portata temporalmente indefinita, dell’assolutezza delle sue prescrizioni e dell’assenza di una procedura di interlocuzione con i Comuni.
10.– Le questioni sono fondate.
10.1.– È utile premettere che la legge reg. Lombardia n. 18 del 2019, con cui è stato introdotto nella legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 il censurato art. 40-bis, individua quali obiettivi da perseguire lo «sviluppo sostenibile» e stabilisce che gli interventi finalizzati alla rigenerazione urbana e territoriale, riguardante ambiti, aree ed edifici, costituiscono «azioni prioritarie per ridurre il consumo di suolo, migliorare la qualità funzionale, ambientale e paesaggistica dei territori e degli insediamenti, nonché le condizioni socio-economiche della popolazione» (art. 1).
Il recupero e la rigenerazione degli immobili dismessi, pertanto, rappresentano uno strumento a cui il legislatore regionale ha ritenuto di ricorrere nell’ambito di una rinnovata declinazione degli strumenti di governo del territorio e, in particolare, dell’azione pianificatoria, che in Lombardia ha trovato una significativa attuazione già con la legge reg. Lombardia, n. 31 del 2014. In essa, secondo quanto si ricava dal suo art. 1, comma 1, sono infatti dettate disposizioni «affinché gli strumenti di governo del territorio, nel rispetto dei criteri di minimizzazione del consumo di suolo, orientino gli interventi edilizi prioritariamente verso le aree già urbanizzate, degradate o dismesse ai sensi dell’articolo 1 della legge regionale 11.03.2005, n. 12».
10.2.– Così ricostruita la finalità che il legislatore lombardo ha inteso perseguire con la disposizione censurata, è di tutta evidenza come essa si presti a incidere sull’esercizio della potestà pianificatoria comunale, per il fatto di dettare una disciplina sul recupero degli immobili dismessi idonea, in ragione della sua natura autoapplicativa, a ripercuotersi su scelte attinenti all’uso del territorio.
La disciplina regionale oggetto di esame, infatti, si sovrappone ad attribuzioni assegnate ai Comuni in tale ambito e, in particolare, ai contenuti necessari del piano delle regole fissati dall’art. 10 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005. Il comma 2 di tale articolo prevede, in particolare, che, anche in vista dell’obiettivo della minimizzazione del consumo di suolo, stabilito dall’art. 8, comma 1, lettera b), della medesima legge regionale, spetti al piano delle regole definire «le caratteristiche fisico-morfologiche che connotano l’esistente, da rispettare in caso di eventuali interventi integrativi o sostitutivi, nonché le modalità di intervento, anche mediante pianificazione attuativa o permesso di costruire convenzionato, nel rispetto dell’impianto urbano esistente». Il successivo comma 3 demanda poi al medesimo piano delle regole il compito di identificare una serie di parametri da rispettare «negli interventi di nuova edificazione o sostituzione», tra i quali «caratteristiche tipologiche, allineamenti, orientamenti e percorsi» (lettera a), «consistenza volumetrica o superfici lorde di pavimento esistenti o previste» (lettera b), «rapporti di copertura esistenti e previsti» (lettera c) e «altezze massime e minime» (lettera d).
10.3.– A fronte di tale sovrapposizione alle funzioni comunali, assume rilievo la previsione con cui il legislatore statale, nell’esercizio della competenza ad esso esclusivamente attribuita dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., ha individuato, «[f]erme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione», quali funzioni fondamentali dei Comuni «la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale, nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale» (art. 14, comma 27, lettera d, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n. 122).
Con tale previsione è stato legislativamente riconosciuto un orientamento costante della giurisprudenza costituzionale, secondo cui quella attinente alla pianificazione urbanistica rappresenta una funzione che non può essere oltre misura compressa dal legislatore regionale, perché «il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere» (sentenza n. 378 del 2000) e la suddetta competenza regionale «non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei comuni» (sentenza n. 83 del 1997).
Al tempo stesso, questa Corte ha sempre ribadito che l’autonomia comunale «non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali
» (sentenza n. 160 del 2016). Più specificamente, la Corte ha escluso che «il “sistema della pianificazione” assurga a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –che è fonte normativa primaria sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga a tali strumenti» (sentenza n. 245 del 2018 e, analogamente, sentenza n. 46 del 2014).
10.4.– Poste in questi termini le coordinate entro le quali sono chiamate a coesistere e a dinamicamente integrarsi, nel quadro del principio di sussidiarietà verticale, l’autonomia comunale e quella regionale, questa Corte ha di recente stabilito che, laddove si assuma lesa la potestà pianificatoria comunale, lo scrutinio di legittimità costituzionale si concentrerà «dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti», così da verificare se la sottrazione di potere ai Comuni costituisca effettivamente «il minimo mezzo utile per perseguire gli scopi del legislatore regionale» (sentenza n. 179 del 2019).
Tale giudizio di proporzionalità, mirante a verificare l’«esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali» (sentenza n. 286 del 1997), consente quindi di appurare «se, per effetto di una normativa regionale rientrante nella materia del governo del territorio, come quella sub iudice, non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”, così da salvaguardarne la portata anche rispetto al principio autonomistico ricavabile dall’art. 5 Cost.» (sentenza n. 119 del 2020).
11.– In questi termini, l’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2019, si pone in violazione del combinato disposto dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., relativamente alla competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali dei Comuni, e degli artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., in riferimento al principio di sussidiarietà verticale.
11.1.– Per quanto, come si è detto, la previsione di incentivi per il recupero degli immobili dismessi, anche in deroga agli strumenti urbanistici, possa essere ricondotta a un obiettivo legittimamente perseguibile dal legislatore regionale in quanto rientrante nella sua competenza legislativa in materia di governo del territorio, le modalità con cui questi incentivi sono stati previsti dalla disciplina in esame, e la loro stessa entità, determinano una compressione della funzione fondamentale dei Comuni in materia di pianificazione urbanistica che si spinge «oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità» (sentenza n. 119 del 2020).
L’alterazione dell’equilibrio che deve sussistere tra esercizio delle competenze regionali e salvaguardia dell’autonomia dei Comuni è innanzi tutto determinata dalla previsione, contenuta nella disposizione censurata, di ampliamenti di volumetria riconosciuti a chi intraprenda operazioni di recupero di immobili abbandonati, stabiliti in misura fissa e in percentuale significativa, oscillante tra il 20 e il 25 per cento rispetto al manufatto insediato. Se a ciò si aggiunge la generalizzata esenzione dal reperimento degli standard urbanistici e l’altrettanto indiscriminata previsione di deroghe a norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle distanze (con l’unica eccezione di quelle previste da fonte statale), si evince agevolmente come i Comuni lombardi vedano gravemente alterati i termini essenziali di esercizio del loro potere pianificatorio, per il fatto che risulta loro imposta una disciplina che genera un aumento non compensato, di portata potenzialmente anche significativa, del carico urbanistico e, più in generale, della pressione insediativa, che per certi aspetti potrebbe risultare poco coerente con le finalità perseguite dalla stessa legge regionale.
Peraltro, ai medesimi Comuni non è attribuita alcuna possibilità di influire sull’applicazione delle misure incentivanti, sia perché ad essi (ove abbiano una popolazione superiore a 20.000 abitanti) non è attribuita alcuna “riserva di tutela” rispetto ad ambiti del proprio territorio ritenuti meritevoli di una difesa rafforzata del paesaggio, sia perché –ancora prima– la scelta di intervenire con legge regionale li ha ulteriormente privati di qualsiasi compensazione procedurale (quale, in ipotesi, si sarebbe potuta avere in sede di interlocuzione nel corso della procedura di adozione del piano di governo del territorio, ovvero all’atto della pianificazione regionale), con l’effetto –costituzionalmente intollerabile– di «estromettere tali Enti dalle decisioni riguardanti il proprio territorio» (sentenza n. 478 del 2002).
Né, infine, gli esiti ravvisati possono essere attenuati dalla natura temporanea degli incentivi e delle deroghe introdotte, atteso che nessuna delle misure in discussione, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa regionale, è soggetta a un termine di efficacia: esse si prestano, quindi, a comprimere in modo stabile il potere pianificatorio comunale, con l’unica e circoscritta eccezione dell’incremento dei diritti edificatori riconosciuto dal comma 5, ultimo periodo, del citato art. 40-bis ai proprietari degli immobili in caso di demolizione, applicabile per un periodo massimo di dieci anni dalla data di individuazione dell’immobile quale dismesso.
Anche da ciò, pertanto, si ricava come la disposizione in esame non faccia residuare in capo ai Comuni alcun reale spazio di decisione, con l’effetto di farli illegittimamente scadere a meri esecutori di una scelta pianificatoria regionale, per questo lesiva dell’autonomia comunale presidiata dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., oltre che del principio di sussidiarietà verticale di cui al combinato disposto degli artt. 5 e 118, commi primo e secondo, Cost.
11.2.– Gli argomenti addotti dalla Regione Lombardia e dalla parte privata a sostegno della legittimità costituzionale del richiamato art. 40-bis non scalfiscono le conclusioni raggiunte.
11.2.1.– Non colgono nel segno, innanzi tutto, gli argomenti spesi dalla difesa di MDV_Newco 40 srl per ritenere che la funzione comunale non sarebbe compromessa in ragione del mantenimento in capo ai Comuni del potere di individuare gli immobili abbandonati e degradati. I presupposti fissati dall’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 per tale individuazione, infatti, rendono l’esercizio della funzione dei Comuni sostanzialmente vincolata sul punto, perché essa viene ristretta tanto con riguardo al periodo a partire dal quale gli immobili devono ritenersi abbandonati (da oltre cinque anni), quanto in relazione ai profili di criticità che, da soli o congiuntamente, sono idonei a rivelarne lo stato di abbandono e di degrado.
11.2.2.– La difesa regionale ha invece sostenuto che la disposizione censurata non intacca il potere dei Comuni di scegliere quali funzioni insediare sul proprio territorio, ciò che potrebbe salvaguardare la loro autonomia per il fatto di consentire un’applicazione diversificata delle misure incentivanti e delle deroghe sul territorio di riferimento.
Tale assunto è innanzi tutto smentito nel momento in cui la disposizione censurata ha visto retroattivamente estendere la sua portata anche agli immobili già individuati dai Comuni come dismessi, sottraendosi così a qualsiasi forma di raccordo con gli atti pianificatori già assunti.
Questa circostanza incide in modo significativo sulla potestà pianificatoria municipale, perché riconnette a una scelta effettuata dal Comune in un determinato momento e, quindi, nel quadro delle complessive politiche pianificatorie da questo perseguite, conseguenze che lo stesso non avrebbe potuto prevedere al momento di adozione di quelle scelte e che finiscono potenzialmente per stravolgere l’esercizio del nucleo incomprimibile delle sue funzioni.
Ciò è del resto dimostrato dalle ricadute che la norma in esame ha prodotto nel caso che ha dato origine al giudizio a quo, in cui il Comune di Milano si è dotato di una disciplina sul recupero degli immobili dismessi, quale quella contenuta nel richiamato art. 11 delle NdA, nel quadro della più generale scelta pianificatoria consistente nell’adozione del principio dell’indifferenza funzionale, vale a dire della generale libertà delle funzioni da insediare sul proprio territorio (art. 8 NdA). Che il medesimo Comune, in un secondo momento, si veda imposta la scelta di consentire il recupero degli immobili dismessi con misure incentivanti ampie e stabilite in modo fisso, senza poterne più modulare la portata sulla base delle distinte funzioni insediate sul territorio, dimostra quanto dalla scelta pianificatoria in precedenza adottata scaturiscano conseguenze che esso non poteva prevedere, di cui non può più modulare l’efficacia e la portata e che conseguentemente stravolgono l’impianto della sua pianificazione.
11.2.3.– Più in generale,
l’imposizione ai Comuni, per di più al di fuori di qualsiasi procedura di raccordo collaborativo, di una disciplina quale quella in esame finisce per alterare i termini essenziali di esercizio della funzione pianificatoria, anche perché obbliga i medesimi Comuni a far dipendere le loro scelte fondamentali sulle forme di uso e sviluppo del territorio da una decisione legislativa destinata a incidere in modo assai significativo sull’aumento dell’edificato e sulla conseguente pressione insediativa. Ciò contrasta con l’assunto, che questa Corte condivide, per cui «il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse all’ordinato sviluppo edilizio del territorio […], ma è rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti» (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 09.05.2018, n. 2780).
12.– Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 18 del 2019, nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021 (14.12.2019).
Restano assorbite le altre questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle ordinanze di rimessione.
12.1.– La declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione comporta, ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale in via conseguenziale del comma 11-quinquies dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021, che ha stabilito, al ricorrere dei presupposti ivi indicati, l’ultrattività delle disposizioni originariamente contenute nell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, pur a seguito delle modifiche ad esso apportate dall’art. 1 della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
   1)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 26.11.2019, n. 18, recante «Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali», nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della legge della Regione Lombardia 24.06.2021, n. 11, recante «Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità. Modifiche all’art. 40-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)»;
   2)
dichiara, in via conseguenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale del comma 11-quinquies dell’art. 40-bis della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge reg. Lombardia n. 11 del 2021 (Corte Costituzionale, sentenza 28.10.2021 n. 202).

Ora, quale sarà la sorte degli eventuali provvedimenti comunali emessi in applicazione della suddetta norma dichiarata incostituzionale??

     Sul punto occorre considerare che la giurisprudenza amministrativa, fin dalla sentenza 10.04.1963 n. 8 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (v. anche Consiglio di Stato n. 6619/2020, n. 4624/2014), ha ricondotto a illegittimità/annullabilità il vizio del provvedimento assunto sulla scorta di una norma dichiarata successivamente incostituzionale, escludendo trattarsi di altre figure patologiche, quali la nullità o l’inesistenza.
     Il che a dire che, giusta la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis, l’illegittimità dei provvedimenti emessi sulla base di tale norma potrà essere rilevata con gli ordinari mezzi previsti dall’ordinamento, ossia tramite
a) impugnazione del provvedimento innanzi al TAR, nel termine ordinario di 60 giorni,
b) impugnazione del provvedimento in via straordinaria innanzi al Capo dello Stato, nel termine di 120 giorni, nonché
c) annullamento d’ufficio del provvedimento illegittimo, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro il termine di 12 mesi
[cfr.
F. Donegani, Rigenerazione urbana in Lombardia: la parola alla Corte Costituzionale (15.03.2021 - link a www.dirittopa.it)].

 

Distanza minima di 10,00 mt. tra fabbricati:
il balcone
(sia aggettante che incassato nella falda di tetto) fa distanza (in quanto trattasi di manufatto che assicura la possibilità di esercitare la veduta).

EDILIZIA PRIVATACalcolo della distanza tra edifici con finestre e balconi. Distanze tra edifici: i 10 metri partono dai balconi e non anche dalle sporgenze non significative (22.09.2021 - link a www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: I balconi devono sempre essere considerati ai fini del calcolo della distanza tra edifici e tra questi ed il confine. Le sole parti delle quali può non tenersi conto, in detto calcolo, sono quelle aggettanti, aventi una funzione esclusivamente artistica ed ornamentale, quali fregi, sculture in aggetto e simili.
In tema di distanze legali, il principio della prevenzione ex art. 875 c.c. non è derogato nel caso in cui il regolamento edilizio si limiti a fissare la distanza minima tra le costruzioni, mentre lo è qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o soltanto) la distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in quest'ultimo caso l'obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come il corrispondente divieto di costruire sul confine, a meno che una specifica disposizione del regolamento edilizio non consenta espressamente di costruire in aderenza.
----------------

La realizzazione di un balcone in aggetto a distanza inferiore a quella legale da un edificio prospiciente non pone soltanto una questione di veduta, ma anche di rispetto della distanza minima tra gli edifici, posto che il balcone costituisce comunque parte dell'edificio al quale accede.
In tal caso, ai fini del calcolo della predetta distanza legale fra gli edifici, costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati. Solo le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente artistica ed ornamentale, come fregi, sculture in aggetto e simili, non sono computabili ai fini del calcolo della distanza legale tra gli edifici
".
---------------
Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, e la falsa applicazione dell'art. 11 delle N.T.A. del P.G.R. del Comune di Campi Bisenzio, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe dovuto ravvisare un contrasto tra la disciplina statale e quella prevista dal regolamento locale e disapplicare la seconda.
La censura è fondata.
La Corte di Appello richiama la motivazione del Tribunale (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata), che aveva escluso la rilevanza delle finestre esistenti nel muro della proprietà To., interessate dalla prospiciente nuova edificazione denunciata, sul presupposto che dette aperture non concorressero al raggiungimento del rapporto minimo di illuminazione tra superficie pavimentata e superficie finestrata.
In sostanza, il primo giudice aveva affermato che dal momento che la proprietà To. aveva altre aperture, dalle quali prendeva sufficiente luce, la violazione della normativa in tema di distanze minime tra le pareti finestrate prospicienti non era rilevante, poiché interessante solo aperture "secondarie".
Ad avviso della Corte fiorentina, l'appellante To. non si sarebbe adeguatamente confrontato con tale argomentazione della sentenza di prima istanza, non contestando il fatto che le due aperture interessate dall'edificazione di cui è causa fossero a servizio di vani adibiti a servizi igienici, o comunque non rilevanti ai fini dell'illuminazione della sala da pranzo della proprietà To. Di conseguenza, il giudice di secondo grado ha ritenuto di non poter entrare nel merito della decisione assunta dal Tribunale.
Con tale motivazione, in realtà, la Corte toscana ha totalmente omesso di considerare che il To. -come la stessa sentenza impugnata dà atto: cfr. pag. 10- aveva contestato la legittimità della costruzione realizzata a meno di dieci metri dalla sua parete finestrata, "... citando copiosa giurisprudenza del giudice ordinario e del giudice amministrativo ..." e quindi aveva attinto il punto della decisione con il quale la sua domanda era stata respinta.
La Corte distrettuale evidenzia che la censura formulata in appello non attingeva la ratio decidendi della sentenza di prime cure, fondata "... sulle specifiche considerazioni svolte dal C.T.U. ing. Ri.Ma. alle pagine 51, 52 e 53 della relazione di c.t.u. in base alla normativa regolamentare di riferimento".
Tale argomento, tuttavia, oltre ad essere di per sé erroneo, poiché ispirato al modello processuale del cd. "appello cassatorio", che non trova cittadinanza nel vigente sistema processuale civile, sottovaluta il fatto che, oggettivamente, il To. aveva attinto, con il primo motivo di appello, la statuizione con la quale il Tribunale aveva respinto la sua domanda di arretramento del fabbricato frontistante il suo fino al limite di dieci metri previsto tra le pareti finestrate. Il giudice di appello, di conseguenza, era tenuto ad esaminare il merito della questione che l'appellante, con la censura di cui si discute, aveva chiaramente devoluto alla sua cognizione.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 11 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Campi Bisenzio, nonché la falsa applicazione dell'art. 877 c.c., in relazione all'art. 360, primo corna, n. 3, c.p.c., perché la Corte fiorentina avrebbe dovuto ritenere non operante la norma del codice civile, che autorizza la costruzione in aderenza, in presenza di un regolamento locale che prevede il rispetto di una specifica distanza tra edifici, e tra edificio e confine, senza autorizzare espressamente la costruzione in aderenza.
La censura è fondata.
La Corte di Appello parte dal presupposto (cfr. pagg. 11 e ss. della sentenza impugnata) che nel caso specifico la normativa regolamentare locale, pur prevedendo distanze maggiori di quelle indicate nel codice civile, richiamava espressamente la normativa codicistica.
Pertanto, secondo la Corte fiorentina, tra norma locale e norma del codice civile si configurava un rapporto non già di sovrapposizione, ma di integrazione, con la conseguenza che, anche in difetto di esplicita norma regolamentare che autorizzasse l'edificazione in aderenza, quest'ultima dovesse essere ritenuta comunque consentita, proprio per effetto del rinvio operato alle norme del codice civile.
Siddetta interpretazione non è coerente con il consolidato insegnamento di questa Corte, secondo cui "In tema di distanze legali, il principio della prevenzione ex art. 875 c.c. non è derogato nel caso in cui il regolamento edilizio si limiti a fissare la distanza minima tra le costruzioni, mentre lo è qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o soltanto) la distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in quest'ultimo caso l'obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come il corrispondente divieto di costruire sul confine, a meno che una specifica disposizione del regolamento edilizio non consenta espressamente di costruire in aderenza" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8283 del 20/04/2005, Rv. 581792; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22896 del 30/10/2007, Rv. 600691; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8465 del 09/04/2010, Rv. 612355; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23693 del 06/11/2014, Rv. 633061; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 11664 del 14/05/2018, Rv. 648398).
In presenza di norme regolamentari locali che prevedano il rispetto di una distanza minima, tra edifici o tra questi ed il confine, dunque, la possibilità di realizzare una costruzione in aderenza è subordinata alla presenza, nel regolamento locale, di una norma che espressamente autorizzi detta facoltà. Ove detta disposizione non sia contenuta nella norma locale, non è consentito rinviare all'art. 873 c.c. Dal che deriva il primo errore commesso dal giudice di merito, il quale non ha tenuto conto del consolidato principio per cui l'edificazione in aderenza non è consentita, in presenza di norma regolamentare locale che, nel prescrivere specifiche distanze tra edifici e tra questi ed i confini, non contempli espressamente tale specifica facoltà.
Il criterio dell'integrazione opera, piuttosto, in assenza di piano regolatore locale, tra l'art. 17 della Legge n. 765 del 1967 e la normativa codicistica, poiché in tale ipotesi vale il principio secondo cui "In tema di distanze nelle costruzioni, il principio codicistico della prevenzione si applica anche alle situazioni nelle quali opera, in assenza di piano regolatore, la disciplina dell'art. 17 della Legge 06.08.1967, n. 765, le cui prescrizioni, regolando la distanza tra fabbricati, e non tra fabbricato e confine, sono sostanzialmente integrative dell'art. 873 c.c., con la conseguenza che ad essa devono applicarsi le regole ed i principi previsti dal codice civile per la disciplina della distanza fra costruzioni su fondi finitimi, compreso quello della prevenzione, non escluso dalla legge speciale" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 27522 del 19/12/2011, Rv. 620680).
Nel caso di specie è certo che il Comune di Campi Bisenzio, nel cui territorio ricadono i luoghi di cui è causa, si sia dotato di piano di regolatore, a corredo del quale sono state adottate specifiche norme tecniche di attuazione, la cui violazione è -tra l'altro- oggetto tanto delle domande proposte dal Tosi nel giudizio di merito, che delle censure articolate dal medesimo nella presente sede di legittimità.
La Corte territoriale, dunque, ha ulteriormente errato nella parte in cui ha ritenuto non conferenti i precedenti di questa Corte in materia di prevenzione, poiché quest'ultima presuppone l'edificazione a distanza inferiore da quella prevista dalla legge o dal regolamento locale, e quindi e intimamente connessa al problema della costruzione in aderenza.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 873 c.c. e la falsa applicazione dell'art. 11 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Campi Bisenzio, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché il giudice di seconde cure avrebbe erroneamente deciso la domanda relativa all'arretramento dei balconi realizzati nel nuovo edificio facendo applicazione della disposizione di cui all'art. 905 c.c., in materia di diritto di veduta, e non invece di quella di cui all'art. 873 c.c., in materia di distanze tra gli edifici.
La censura è fondata.
La Corte di Appello ha, da un lato, richiamato la motivazione resa dal Tribunale, secondo la quale "... le disposizioni regolamentari prevedono che ai fini del calcolo della anzidetta distanza di mt. 5 non debbano essere considerati gli aggetti della copertura e gli elementi decorativi nonché le terrazze aggettanti" (cfr. pag. 14), e dall'altro lato affermato che nel caso di specie non verrebbe in rilievo un problema di distanze tra le costruzioni o dal confine, ma piuttosto una questione di regolamentazione del diritto di veduta, con conseguente applicazione non dell'art. 873 c.c., ma dell'art. 905 c.c.
Entrambe le affermazioni sono erronee.
In particolare, è errata la seconda -che logicamente precede la prima- in quanto il balcone costituisce una parte dell'edificio, ond'esso va considerato, ai fini del calcolo delle distanze tra fabbricati, o tra essi ed il confine.
E lo è la seconda, in base al consolidati principio -al quale il collegio ritiene di dare continuità- secondo cui "In tema di distanze legali fra edifici non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati.  Ne consegue che l'art. 14 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore di Verona, là dove si riferisce alla lunghezza dei "corpi prospicienti" per rapportare le distanze all'altezza massima dei fabbricati, essendo il "corpo di fabbrica" sinonimo di "costruzione" agli effetti dell'art. 873 cod. civ., che non può essere derogato da norme secondarie, se non per stabilire distanze maggiori dal confine, deve essere interpretato nel senso che la lunghezza delle facciate degli edifici dev'essere computata così da escludere solo le sporgenze aventi funzione ornamentale e non anche quelle che prolungando il fronte eccedono detta funzione" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1.2964 del 31/05/2006, Rv. 593831; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5963 del 25/03/2004, Rv. 571526; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1556 del 26/01/2005, Rv. 578604).
In termini ancor più chiari, si è affermato che "In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del D.M. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150, come modificata dalla legge 06.08.1967 n. 765- stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (legge 06.08.1967 n. 765, che, con l'articolo 17, ha aggiunto alla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 l'articolo 41-quinquies, il cui comma non fa rinvio al D.M. 02.04.1968, che all'articolo 9, numero 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10)" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17089 del 27/07/2006, Rv. 593396).
Da quanto precede deriva che i balconi devono sempre essere considerati ai fini del calcolo della distanza tra edifici e tra questi ed il confine. Le sole parti delle quali può non tenersi conto, in detto calcolo, sono quelle aggettanti, aventi una funzione esclusivamente artistica ed ornamentale, quali fregi, sculture in aggetto e simili.
In definitiva, tutti e tre i motivi di ricorso vanno accolti, con conseguente cassazione della decisione impugnata e rinvio della causa alla Corte di Appello di Firenze, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
Il giudice del rinvio avrà cura di uniformarsi ai seguenti principi di diritto:
   "1) Il motivo di appello con il quale venga attinta la statuizione di rigetto della domanda di arretramento dell'edificio prospiciente, per violazione della distanza minima tra le pareti finestrate prevista dall'art. 9 del D. M. n. 1444 del 1968, va ritenuto sufficientemente specifico, e dunque idoneo a devolvere la questione al giudice di secondo grado, anche qualora la parte appellante, nel formulare la censura e ribadire gli argomenti difensivi già proposti in prime cure, non abbia specificamente confutato le argomentazioni contenute nella decisione di prime cure a sostegno della decisione di rigetto, ogni qual volta la doglianza consenta comunque al giudice di appello di identificare la questione devoluta.
   2)
In tema di distanze legali, il principio della prevenzione ex art. 875 c.c. non è derogato nel caso in cui il regolamento edilizio si limiti a fissare la distanza minima tra le costruzioni, mentre lo è qualora la norma regolamentare stabilisca anche (o soltanto) la distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in quest'ultimo caso l'obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come il corrispondente divieto di costruire sul confine, a meno che una specifica disposizione del regolamento edilizio non consenta espressamente di costruire in aderenza;
   3)
La realizzazione di un balcone in aggetto a distanza inferiore a quella legale da un edificio prospiciente non pone soltanto una questione di veduta, ma anche di rispetto della distanza minima tra gli edifici, posto che il balcone costituisce comunque parte dell'edificio al quale accede.
In tal caso, ai fini del calcolo della predetta distanza legale fra gli edifici, costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati. Solo le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente artistica ed ornamentale, come fregi, sculture in aggetto e simili, non sono computabili ai fini del calcolo della distanza legale tra gli edifici
" (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 17.09.2021 n. 25191).

EDILIZIA PRIVATA: Calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze minime degli edifici – Nozione di “pareti finestrate” – Art. 9, d.m. n. 1444/1968 – Fattispecie: aperture finalizzate a consentire l’ingresso in un edificio.
In tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, detti elementi architettonici possono non essere compresi nel computo delle distanze di cui all’art. 9, d.m. n. 1444/1968 qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi ed a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio.
La ratio stessa della previsione delle distanze minime fra edifici, come noto, è quella di evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche.
Pertanto, ai sensi dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per “pareti finestrate” devono intendersi non soltanto le pareti munite di “vedute” ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo.
Inoltre, l’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 detta disposizioni inderogabili da parte dei regolamenti locali in tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra i fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra costruzioni e non tra queste e le vedute.
Nella specie le aperture –erano addirittura finalizzate a consentire l’ingresso nell’edificio– pertanto, non potevano in alcun modo ritenersi quali mere “luci” le quali, secondo un orientamento della giurisprudenza civile che dà invece rilievo alla possibilità dell’affaccio, non sarebbero di per sé idonee a far ritenere la parete come “finestrata”
  (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.09.2021 n. 33419 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATACostituisce orientamento consolidato che nella verifica dell’osservanza delle distanze tra fabbricati, ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
Dunque, nel caso di specie, trattandosi di terrazze incassate nella sagoma dell’edificio, la distanza dalla parete frontistante (cioè quella dell’edificio della ricorrente) deve essere calcolata non già a partire dalla porta-finestra che consente di accedere dall’appartamento alla terrazza in commento, ma dalla linea esterna di tale terrazza coincidente con la balaustra (non è in contestazione tra le parti che, in tal modo correttamente calcolata, la distanza tra le pareti sia inferiore a quella prescritta dall’art. 9 del DM 1444/1968, essendo pari a mt. 7,90).
---------------

1. Con il ricorso in disamina la società Fi.Re.Es. ha chiesto l’annullamento del provvedimento con cui il Comune di Cerea ha annullato in via di autotutela la SCIA alternativa al permesso di costruire presentata in data 21.08.2017 dalla ricorrente (cfr. all. 12 al ricorso).
Con i due motivi di gravame si lamenta, in primo luogo, che l’esercizio del potere sarebbe stato tardivo in quanto successivo al decorso del termine di 18 mesi indicato dall’art. 21-nonies della L. 241/1990, e, in secondo luogo, che non sussisterebbe la violazione delle distanze contestata dal Comune, in quanto sull’immobile frontistante quello della ricorrente sarebbero presenti solo delle terrazze di copertura del piano inferiore dell’edificio non qualificabili come “pareti finestrate” ai sensi dell’art. 9, primo comma, n. 2), del D.M. n. 1444/1968.
Giova prendere le mosse, in via logica, dal secondo motivo di censura: ritiene il Collegio che, nel caso di specie, sussistano senz’atro i presupposti per l’applicazione del disposto della norma da ultimo citata in punto di distanze minime tra pareti finestrate.
L’esame della documentazione in atti e, segnatamente, delle fotografie prodotte dalle parti (cfr. doc. 7 del Comune di Cerea e doc. 14 di parte ricorrente) evidenzia come le terrazze esistenti sulla proprietà dei controinteressati, munite di balaustra, non hanno una funzione di mera copertura del piano sottostante dell’edificio, ma costituiscono una proiezione verso l’esterno dell’appartamento, e dunque una componente strutturale dell’edificio ove si prolunga la vita abitativa: esse si sviluppano in continuità con il perimetro esterno del fabbricato e consentono l’affaccio e la veduta in ogni direzione (cfr. Cass. civ. n. 4834/2019; Cons. Stato, sez. VI. n. 5307/2018: “Costituisce orientamento consolidato, qui condiviso, che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (cfr., Cons. Stato, sez. V, 13.03.2014, n. 1272; Id, sez. IV, 21.10.2013, n. 5108)”).
Dunque, trattandosi di terrazze incassate nella sagoma dell’edificio, la distanza dalla parete frontistante (cioè quella dell’edificio della ricorrente) deve essere calcolata non già a partire dalla porta-finestra che consente di accedere dall’appartamento alla terrazza in commento, ma dalla linea esterna di tale terrazza coincidente con la balaustra: non è in contestazione tra le parti che, in tal modo correttamente calcolata, la distanza tra le pareti sia inferiore a quella prescritta dall’art. 9 del DM 1444/1968, essendo pari a mt. 7,90 (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 11.05.2021 n. 616 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUn orientamento giurisprudenziale, interpretando l’articolo 9 del D.M. 1444/1968, ha affermato la non computabilità delle terrazze e degli elementi aggettanti, ove la strumentazione urbanistica comunale ne preveda l’esclusione dal calcolo della volumetria, purché si tratti di elementi estranei al volume utile dell’edificio.
Invero, s'è affermato che “Al riguardo, la Sezione non ignora l’esistenza di precedenti che, muovendo da una rigorosa qualificazione delle norme del d.m. nr. 1444/1968 in termini di disposizioni di ordine pubblico, traenti la propria fonte direttamente dalla legge primaria (e, segnatamente, dall’art. 41-quinquies, comma 2, della legge 17.08.1942, nr. 1150), esclude che le stesse possano essere derogate dagli strumenti urbanistici generali, le cui prescrizioni pertanto, ove contrastanti con le predette norme, devono essere disapplicate dal giudice.
Tuttavia, esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, dal quale in questa sede si ritiene di non doversi discostare, che ammette che i detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio.
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio stessa della previsione delle distanze minime fra edifici, che come noto è quella di evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche”.
---------------

5. Non è, invece, fondato il terzo motivo, con cui sono dedotti i vizi di violazione dell’art. 9 D.M. 1444/1968, di eccesso di potere per carenza di istruttoria, difetto di motivazione e si chiede di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 14/2015.
Afferma il ricorrente che le terrazze del primo e del secondo piano sarebbero poste ad una distanza inferiore a quella di 10 metri prevista dall’articolo 9 D.M. 1444/1968. Esse, infatti, superano il limite di 10 metri di m. 1,30.
Il ricorrente richiama l’orientamento giurisprudenziale alla stregua del quale sono rilevanti ai fini del rispetto della suddetta distanza le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. “aggettanti”) destinati ad estendere la consistenza del fabbricato, restando irrilevanti soltanto le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità.
La deroga a tale principio non potrebbe essere contenuta nelle disposizioni del regolamento edilizio, trattandosi di norme secondarie alle quali non è consentito, in assenza di espressa previsione, derogare alle norme di aventi rango legislativo.
Neppure la minore distanza potrebbe trovare fondamento nell’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 4/2015 (alla stregua del quale: “in attuazione dell’articolo 2-bis del D.P.R. 380/2001, ai fini del calcolo della distanza minima tra pareti finestrate di cui all’art. 9 del D.M. 1444/1968, non sono computati gli sporti e gli elementi a sbalzo, compresi terrazze e balconi non chiusi aggettanti dalla facciata dell’edificio per non più di metri 1,50. Resta fermo il rispetto delle disposizioni del codice civile relative alle distanze tra costruzioni nonché quelle relative all’apertura di vedute dirette e balconi sul fondo del vicino”) che il ricorrente ritiene incompatibile con il sistema costituzionale di riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni e, in particolare, con l’articolo 117, comma 2, lett. l, Cost.
5.1 E’ incontestato tra le parti che le terrazze del primo e del secondo piano sono poste ad una distanza dalla parete finestrata antistante inferiore a quella prevista dall’articolo 9 D.M. 1444/1968, ma inferiore a quella massima prevista dall’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 4/2015, che esclude dal calcolo della suddetta distanza minima, gli sporti e gli elementi a sbalzo, compresi terrazze e balconi non chiusi aggettanti dalla facciata dell’edificio per non più di metri 1,50.
La deroga al D.M. 1444/1968, pertanto, è giustificata dalla ricorrenza delle condizioni previste dalla suddetta legge regionale. Questa Sezione si è già espressa per l’insussistenza del presupposto della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale così come prospettata in questo giudizio, nella sentenza del 10.02.2021, n. 187, con argomenti da cui non si ravvisano ragioni per discostarsi.
Infatti, l’articolo 8, comma 4-bis, L.R. 14/2015 è stato approvato in espressa attuazione dell’articolo 2-bis D.P.R. 380/2001, che consente a Regioni e Province autonome di “prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444 possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.”.
La norma, pertanto, costituisce esercizio delle facoltà di deroga riconosciuta alle Regioni dal legislatore statale. Inoltre essa trova fondamento, come ha rilevato il Comune, nell’intesa raggiunta tra Stato e Regione sul R.E.T., le cui definizioni, consentono di sottrarre al calcolo delle distanze gli aggetti inferiori a m 1,50 (cfr. nn. 18 e 30, all. A dell’Intesa).
La previsione, peraltro, è conforme ad un orientamento giurisprudenziale che, interpretando l’articolo 9 del D.M. 1444/1968, ha affermato la non computabilità delle terrazze e degli elementi aggettanti, ove la strumentazione urbanistica comunale ne preveda l’esclusione dal calcolo della volumetria, purché si tratti di elementi estranei al volume utile dell’edificio (TAR Lazio, sez. II, 11.09.2019, n. 10843 che richiama Consiglio di Stato, sez. IV, 30.12.2016, n. 5552: “Al riguardo, la Sezione non ignora l’esistenza di precedenti che, muovendo da una rigorosa qualificazione delle norme del d.m. nr. 1444/1968 in termini di disposizioni di ordine pubblico, traenti la propria fonte direttamente dalla legge primaria (e, segnatamente, dall’art. 41-quinquies, comma 2, della legge 17.08.1942, nr. 1150), esclude che le stesse possano essere derogate dagli strumenti urbanistici generali, le cui prescrizioni pertanto, ove contrastanti con le predette norme, devono essere disapplicate dal giudice.
Tuttavia, esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, dal quale in questa sede si ritiene di non doversi discostare, che ammette che i detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 05.01.2015, nr. 11; id., sez. IV, 22.11.2013, nr. 5557; id., 07.07.2008, nr. 3381).
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio stessa della previsione delle distanze minime fra edifici, che come noto è quella di evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche
.”).
Anche alla stregua di tale orientamento, che ha interpretato la normativa statale, non si ravvisa, pertanto, la violazione del parametro costituzionale invocato dal ricorrente (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 31.03.2021 n. 414 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a differenti esigenze di tutela.
  
La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente compressione dell'altrui diritto alla riservatezza.
  
La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti.
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva.
---------------
E' irrilevante, ai fini dell’applicazione dell'art. 9 DM 1444/1968, che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra.
Inoltre, rilevato che i balconi della proprietà De Fa. insistono su una parete posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà Pa., se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo, è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione, per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, anche di recente, la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune nel provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente (perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).

---------------
Rispetto a manufatti posti l’uno di fronte all’altro, anche per obliquo:
   a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
   b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare le intercapedini dannose.
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.

---------------

11.1.2. Trasponendo tali concetti dal generale al particolare, nella fattispecie in esame, occorre accertare quale sia la situazione edilizia in cui versano gli immobili di proprietà dei signori De Fa. fronteggianti l’immobile della signora Pa. al momento del rilascio a quest’ultimo dal titolo edilizio in contestazione.
L’immobile si divide in tre unità abitative: l’appartamento posto al secondo piano (terzo piano fuori terra), di proprietà Sa. De Fa.; l’appartamento posto al primo piano (secondo fuori terra), di proprietà Ci. De Fa.; l’appartamento posto al piano terra (primo piano fuori terra), di proprietà Ca. De Fa..
Gli immobili posti al piano terra ed al primo piano di proprietà, rispettivamente, dei signori Ca. De Fa. e Ci. De Fa. sono stati assentiti con concessioni edilizie in sanatoria rilasciate in data 06.05.2004, ormai inoppugnabili.
L’immobile posto al secondo piano, di proprietà del signor Sa. De Fa., invece, è stato assentito da permesso di costruire in sanatoria rilasciato in data 18.07.2019, sicché, al momento del rilascio dei titoli contestati ed al momento della proposizione del ricorso in primo grado, lo stesso risultava abusivo.
Di contro, gli abusi afferenti la realizzazione sui balconi dei tre piani di piccole verande, in quanto non “coprenti” l’intera metratura dei balconi stessi, non assumono rilievo ai fini in discorso.
Infatti, nonostante tali abusi insistano sui balconi da cui occorrerebbe calcolare le distanze, i piccoli manufatti abusivi, per come si evince dalla documentazione fotografica versata in atti ed a prescindere dal fatto che siano stati o meno abusivamente riproposti dopo la loro demolizione, coprono in piccola parte la superficie dei balconi, i quali, quindi, non hanno perso le loro caratteristiche essenziali e la loro destinazione d’uso.
Ne consegue che sussiste la legittimazione a contestare l’intervento edilizio assentito alla signora Pa., atteso che, al momento del rilascio dei titoli edilizi e della proposizione del ricorso in primo grado, risultavano comunque assentiti i primi due piani della proprietà De Fa., sicché potrebbe eventualmente escludersi la legittimazione all’impugnazione da parte del solo signor Sa. De Fa., proprietario dell’unità immobiliare a quel momento ancora abusiva, ma tale circostanza non è idonea ad escludere la complessiva legittimazione alla proposizione del ricorso.
11.2. I signori De Fa., con l’appello proposto in via incidentale, hanno sostenuto che la signora Pa. non avrebbe potuto beneficiare del permesso a costruire richiesto, in considerazione della causa di esclusione contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. a), della più volte menzionata L.R. Campania n. 19 del 2009.
11.2.1. Il motivo di doglianza non è persuasivo.
...
11.3. La signora Pa., così come il Comune di Volla nel suo appello incidentale, hanno contestato la statuizione della sentenza impugnata, con cui è stato ritenuto fondato il motivo di impugnativa relativo alla violazione delle norme sulle distanze.
11.3.1. Il giudice di primo grado ha così motivato sul punto:
Orbene, nella fattispecie che occupa il Tribunale evidenzia come dai grafici versati in atti e dalle stesse foto corredanti la relazione di chiarimenti depositata dall’Amministrazione resistente, emerge che il progetto assentito con gli impugnati titoli edilizi preveda la realizzazione di un vano scale di nuova costruzione posto in aderenza al muro di confine con la proprietà dei ricorrenti, nella parte non edificata, il quale risulta posto ad una distanza inferiore ai dieci metri prescritti dalla parete frontistante dell’edificio di proprietà di quest'ultimi, costituita da un prolungamento ad “L” del fabbricato in cui sono inclusi i balconi.
Per quanto sin qui osservato appare evidente che il provvedimento prot. n. 23138 del 31.07.2018, con cui il Comune di Volla, all'esito del procedimento di autotutela avviato con comunicazione prot. n. 10933 del 06.04.2018, ha convalidato il permesso a costruire n. 76 del 27.12.2016 e la successiva SCIA prot. n. 5014 del 13.12.2018 presentata dalla controinteressata, e gli stessi provvedimenti sottostanti tutti ritualmente impugnati dai ricorrenti, sono illegittimi quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta, in quanto tutti fondati sull’erroneo presupposto che il rispetto della distanza di 10 metri imposta dal D.M. 1444 del 1968 è applicabile unicamente alle pareti che si fronteggiano, che il balcone non è riconducibile al concetto di parete finestrata e che la misurazione delle distanze in tale caso deve avvenire in modo lineare e non radiale.
Le suesposte considerazioni risultano decisive -quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta- ai fini dell’accoglimento del ricorso per come integrato dai primi motivi aggiunti …
”.
11.3.2. L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.
11.3.3. Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a differenti esigenze di tutela.
11.3.3.1. La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente compressione dell'altrui diritto alla riservatezza (cfr. sentenza della Corte costituzionale n. 394 del 1999).
11.3.3.2. La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti (cfr. Corte Cass. II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834).
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva (Cons. Stato, IV, 31.03.2015, n. 1670).
11.3.4. La questione maggiormente problematica che si pone nella fattispecie in esame, quindi, è quella di verificare se debba trovare applicazione l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, come ritengono i signori De Fa., o se non sussistono i presupposti per l’applicazione di tale norma, come sostenuto dal Comune di Volla e dalla signora Na.Pa..
Il Collegio ritiene che la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sussiste, in quanto la fattispecie concreta rientra nella fattispecie astratta prevista dalla norma.
In primo luogo, occorre considerare che, in ragione della ratio prima descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass. Civ., II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834 cit.).
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione, rilevato che i balconi della proprietà De Fa. insistono su una parete posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà Pa., se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo, è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (Cfr. Cass. Civ., 19.09.2016, n. 12828).
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (cfr. Cass. Civ., II, 19.09.2016, n. 12828, che richiama Cass. 17242/2010; 12964/2006; 1556/2005).
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione, per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (cfr. Cons. Stato, VI, 10.09.2018, n. 5307, che richiama Cons. Stato, V, 13.03.2014, n. 1272 e Cons. Stato, IV, 21.10.2013, n. 5108).
In proposito, anche di recente (cfr. Cass. Civ., ordinanza 19.02.2019, n. 4834), la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune di Volla nel provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente (perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
Infatti, dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla parete dei signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della parete della signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che, ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –-secondo quanto dedotto dalla parte ed indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15 dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante, con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti. Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità, determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto) di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte all’altro, anche per obliquo (Cass. civ., sez. II, 01.10.2019 n. 24471):
   a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
   b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare le intercapedini dannose (Cass. Civ., sez. II, 25.06.1993, n. 7048).
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
Ciò è sufficiente ad escludere la fondatezza dei motivi di appello proposti dalla signora Pa. e dal Comune di Volla.
11.3.5. Per altro verso, è da escludere però la contestuale violazione dell’art. 907 c.c., in quanto i signori De Fa. non hanno dato prova, neppure presuntiva, di avere acquistato il diritto di avere vedute dirette o oblique sul fondo vicino (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.03.2021 n. 1841 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe disposizioni che disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria (come quelle sul calcolo delle distanze e delle altezze, sull'osservanza di canoni estetici, sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali, regole tecniche sull'attività costruttiva, etc.) sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto applicativo e, dunque, possono essere oggetto di censura in occasione della relativa impugnazione.
---------------
Come noto, l’art. 8 DM 1444/1968 prevede che: “Le altezze massime degli edifici per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A):
   - per le operazioni di risanamento conservativo non è consentito superare le altezze degli edifici preesistenti, computate senza tener conto di soprastrutture o di sopraelevazioni aggiunte alle antiche strutture;
   - per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può superare l'altezza degli edifici circostanti di carattere storico-artistico;
2) Zone B):
   - l'altezza massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità fondiaria di cui all'art. 7 (…)”.
L’interpretazione che la giurisprudenza ha costantemente offerto sulla nozione di “edifici preesistenti e circostanti” è quella che fa riferimento a una serie ristretta di edifici, identificabili in quelli circostanti, vale a dire immediatamente limitrofi.
In particolare, è stato affermato al riguardo che “la ratio della norma richiamata, nel riferirsi all’altezza “degli edifici preesistenti e circostanti”, sia quella di porre a riferimento della nuove costruzioni, o dell’ampliamento di costruzioni esistenti, l’altezza degli immobili contigui al fine di mantenere, in un assetto edilizio circoscritto e già consolidato (la zona urbanistica è classificata come “residenziale satura”) caratteristiche di omogeneità. Pertanto, nel caso in cui la disciplina urbanistico-edilizia prescriva che l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare l'altezza di quelli “preesistenti circostanti”, il Collegio ritiene che tale parametro (gli edifici “circostanti”) non può che riferirsi agli edifici limitrofi a quello costruendo, coerentemente con la ratio della norma, preordinata ad evitare che fabbricati contigui o strettamente vicini presentino altezze marcatamente differenti e a far sì che restino omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione”.
---------------

2. Con l’atto introduttivo del giudizio si lamenta, in primo luogo, che il progetto autorizzato dal Comune consentirebbe l’elevazione dell’edificato in altezza oltre i limiti consentiti dalle disposizioni vigenti, e in particolare dall’art. 9, comma 8-bis, L.R. 14/2009, letto in combinato disposto con l’art. 8 del D.M. 1444 del 1968: si tratta del primo, del secondo e del quarto motivo di ricorso che è possibile esaminare congiuntamente.
Si anticipa che il terzo motivo di ricorso non è assistito da alcun interesse alla relativa disamina, giacché il Comune non ha allegato di aver fatto applicazione delle norme attuative del cd. secondo piano casa ai cui si riferisce il motivo di gravame.
Difatti, tanto il Comune di Jesolo quanto la controinteressata, nelle proprie difese, assumono di aver determinato l’altezza massima in progetto sulla scorta delle previsioni della delibera del Consiglio comunale di Jesolo n. 140 del 30.10.2015, che consentivano che l’edificazione raggiungesse l’altezza prevista anche a prescindere dall’esercizio della facoltà di deroga alle disposizioni vigenti in materia di altezze prevista dalla legge sul cd. piano casa.
Difatti, in base alla citata delibera, per le Z.T.O. del territorio comunale di tipo ‘B’ (ove ricade l’immobile in oggetto) l’inciso ‘edifici circostanti’ di cui al D.M. 1444/1968 deve essere interpretato nel senso di edifici ricadenti in un ‘raggio di intorno’ pari a mt. 200: si assume, in particolare, che nel raggio di 200 mt. dall’immobile autorizzato con il titolo impugnato esisterebbero edifici di altezza tale da legittimare le previsioni progettuali.
Nella relazione tecnica allegata all’istanza di rilascio di permesso di costruire si legge in proposito:
Il P.R.G. (art. 11 delle N.T.A., Zone B3) prevede che l’altezza massima degli edifici non potrà superare l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti (nel raggio di 200 ml.). Si considera come edificio “preesistente e circostante”, avente altezza certa, il fabbricato denominato Hotel Ancora, distante 137 ml. ad ovest del lotto in oggetto. Tale fabbricato, allo stato precedente la sopraelevazione autorizzata con permesso di costruire T-2018-5583 del 30.01.18, ha altezza urbanistica di ml. 22.60 e altezza massima ml. 25.00.
Edificio in progetto: il fabbricato in progetto avrà altezza urbanistica di ml. 18.45, inferiore all’altezza massima consentita dal P.R.G.
L’art. 9, comma 8-bis, della L.R. 32/2013 consente inoltre la ricostruzione del fabbricato in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal D.M. 1444/1968, sino a un massimo del 40% dell’edificio esistente. Tale norma non viene comunque applicata, poiché l’altezza del fabbricato in progetto è già nei limiti imposti dal P.R.G.
” (cfr. doc. 3 della produzione Tr. srl).
La citata delibera comunale è stata oggetto di impugnazione tramite ricorso per motivi aggiunti: dunque, per chiarezza espositiva e per consequenzialità sul piano logico nella trattazione delle varie questioni da esaminare, giova prendere le mosse dalla disamina del ricorso per motivi aggiunti, al fine di stabilire se l’altezza di progetto fosse assentibile sulla scorta della delibera citata (riservando al prosieguo la disamina dei motivi di censura proposti con il ricorso introduttivo).
La società controinteressata ha eccepito: l’irricevibilità dell’impugnazione della delibera nr. 140/2015 per tardiva proposizione del gravame, giacché il termine di impugnazione dovrebbe farsi decorrere dalla pubblicazione dell’atto nell’Albo Pretorio; l’irricevibilità perché la censura avrebbe dovuto proporsi con l’introduzione del giudizio, in quanto dagli atti progettuali era evincibile il criterio seguito per la determinazione dell’altezza massima di zona; l’inammissibilità dell’impugnazione, trattandosi di un atto di indirizzo completamente privo di efficacia prescrittiva e portata lesiva: analoga eccezione di irricevibilità/inammissibilità è stata sollevata dal Comune.
Dunque, in primo luogo, si assume che il termine per impugnare la delibera nr. 140/2015 dovrebbe farsi decorrere dalla relativa pubblicazione nell’albo comunale: in particolare la controinteressata ha dedotto che l’atto, riferendosi solo a determinate aree del territorio comunale, era dotato di immediata portata lesiva e pertanto doveva essere immediatamente contestato in giudizio.
Giova richiamarsi sul punto al consolidato orientamento giurisprudenziale a mente del quale le disposizioni che disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria (come quelle sul calcolo delle distanze e delle altezze, sull'osservanza di canoni estetici, sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali, regole tecniche sull'attività costruttiva, etc.) sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l'atto applicativo e, dunque, possono essere oggetto di censura in occasione della relativa impugnazione (cfr. TAR Veneto, Sez. II, n. 1368 del 2014).
Non convince l’argomentazione sviluppata dalla parte controinteressata a mente della quale la delibera gravata, in quanto dettata con riguardo solo a un’area determinata del territorio comunale avrebbe avuto immediata portata lesiva, e avrebbe dovuto conseguentemente essere oggetto di immediata impugnativa: osserva in proposito il Collegio che la regolamentazione sulle altezze in commento risulta adottata con esclusivo riferimento alla zona B) del territorio comunale, e più in particolare alle zone B1.2 – B2.1 – B.2.2 – e B.3 mentre l’immobile della ricorrente ricade in zona C) (cfr. all. 2 della produzione allegata ai motivi aggiunti). In tal senso, non è possibile individuare una immediata, concreta, portata pregiudizievole della delibera determinativa dei parametri relativi alle altezze assentibili, rispetto agli interessi di cui la ricorrente è titolare.
Quanto poi all’eccezione di irricevibilità della censura per essere stata tale delibera, comunque, citata negli elaborati tecnici consegnati dal Comune in seguito all’istanza di accesso presentata dalla società Ma., parte ricorrente ha dedotto, senza che vi sia stata specifica smentita sul punto, di non aver esaminato alcun atto in tal senso utile prima della costituzione in giudizio delle controparti processuali, in quanto non rientrante tra quelli resi ostensibili dall’ente resistente: tali deduzioni non sono contraddette dalla documentazione versata in atti.
Infine, è stata eccepita l’inammissibilità del gravame per mancanza di portata precettiva della delibera in commento, in quanto semplice atto di indirizzo: anche tale argomentazione non convince (se ne registra, peraltro, una certa contraddittorietà rispetto a quanto dedotto in ordine alla immediata portata lesiva della delibera per sostenere la tardività del gravame).
Con la delibera impugnata, infatti, il Comune resistente, lungi dall’offrire un semplice indirizzo interpretativo, ha stabilito puntualmente il perimetro dell’area rilevante ai fini della determinazione dell’altezza massima di zona, ex art. 8 DM 1444/1968, prevedendo di “stabilire un raggio di intorno urbano pari a m. 200 ai fini dell’individuazione della fattispecie di “edifici preesistenti e circostanti” cui fare riferimento al fine della determinazione dell’altezza massima ammissibile per i fabbricati in progetto, ai sensi degli articoli 8, 9, 10 e 11 delle norme tecniche di attuazione del p.r.g.” (cfr. doc. 2 alla produzione allegata ai motivi aggiunti).
Deve, dunque, procedersi al vaglio dei motivi di gravame articolati avverso tale delibera.
Ritiene il Collegio che sia fondata la censura con cui parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 8 DM 1444/1968.
Come noto, tale disposizione prevede che: “Le altezze massime degli edifici per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A):
   - per le operazioni di risanamento conservativo non è consentito superare le altezze degli edifici preesistenti, computate senza tener conto di soprastrutture o di sopraelevazioni aggiunte alle antiche strutture;
   - per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può superare l'altezza degli edifici circostanti di carattere storico-artistico;
2) Zone B):
   - l'altezza massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità fondiaria di cui all'art. 7 (…)
”.
L’interpretazione che la giurisprudenza ha costantemente offerto sulla nozione di “edifici preesistenti e circostanti” è quella che fa riferimento a una serie ristretta di edifici, identificabili in quelli circostanti, vale a dire immediatamente limitrofi (cfr. Tar Lombardia, Sez. II, 14.07.2020, nr. 1576; Tar Calabria, Reggio Calabria, 08.05.2019 nr. 387; Tar Veneto, Sez. II, 08.10.2020, n. 1255).
In particolare, è stato affermato al riguardo che “la ratio della norma richiamata, nel riferirsi all’altezza “degli edifici preesistenti e circostanti”, sia quella di porre a riferimento della nuove costruzioni, o dell’ampliamento di costruzioni esistenti, l’altezza degli immobili contigui al fine di mantenere, in un assetto edilizio circoscritto e già consolidato (la zona urbanistica è classificata come “residenziale satura”) caratteristiche di omogeneità. Pertanto, nel caso in cui la disciplina urbanistico-edilizia prescriva che l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare l'altezza di quelli “preesistenti circostanti”, il Collegio ritiene che tale parametro (gli edifici “circostanti”) non può che riferirsi agli edifici limitrofi a quello costruendo, coerentemente con la ratio della norma, preordinata ad evitare che fabbricati contigui o strettamente vicini presentino altezze marcatamente differenti e a far sì che restino omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (cfr. da ultimo per un analogo iter argomentativo Cons. Stato n. 4553/2014, n. 3184/2013)” (TAR Napoli, sez. VII, sentenza n. 4102 del 26.08.2016).
Operate tali premesse, il Collegio ritiene che l’atto gravato, ove ha stabilito che la nozione di “edifici preesistenti e circostanti” debba essere intesa come “edifici ricadenti in un raggio di mt. 200”, si ponga in contrasto con la ratio della disposizione dettata dall’art. 8 in commento, nell’interpretazione costante che ne è stata offerta, proponendo una lettura della norma che rischia di contraddirne il fine: si prende, infatti, in considerazione non solo una gamma ristretta di edifici, e cioè quelli effettivamente limitrofi, ma anche costruzioni che insistono fino a 200 mt. di distanza, in via generale e a prescindere dalle concrete caratteristiche del contesto, in tal modo tradendo la voluntas legis che è quella di garantire l’omogeneità tra le altezze degli edifici contigui.
Ciò posto, deve ancora osservarsi che il Comune resistente e la società controinteressata hanno dedotto che le altezze autorizzate sarebbero, comunque, legittime in virtù della possibilità di fruire della deroga di cui all’art. 9, comma 8-bis, L.R.V. 14/2009, e dunque a prescindere dall’applicazione della delibera comunale in commento.
Anche questa argomentazione non coglie nel segno, fondandosi su una interpretazione non condivisibile delle norme richiamate, come contestato dalla ricorrente con il primo motivo del ricorso introduttivo: si pretende, cioè, di applicare l’aumento del 40% dell’altezza dell’edificio oggetto di ampliamento alle altezze massime di zona ricavate in base all’art. 8 DM 1444/1968.
Ciò costituisce una applicazione errata dell’articolo 9, comma 8-bis, L.R. 14/2009, che recita: “
Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione del tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con l’obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in attuazione dell’articolo 2-bis del D.P.R. n. 380/2001 gli ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento dell’altezza dell’edificio esistente”.
Come questo TAR ha già avuto modo di osservare, la norma è chiara nell’affermare che l’altezza massima consentita in ampliamento -“anche (n.d.r. cioè, eventualmente) in deroga” alle disposizioni in materia previste dal D.M. 1444/1968- è pari al 40% dell’altezza dell’edificio esistente, ossia di quello oggetto di ampliamento.
E’, altresì, chiara nell’affermare che un ampliamento in tale misura può essere consentito “anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968”.
La norma è formulata secondo la medesima tecnica normativa utilizzata da altre disposizioni premiali della medesima Legge, in cui è stabilita la misura massima dell’aumento dei parametri edilizi degli edifici esistenti, all’evidente scopo di contemperare le finalità incentivanti con quelle di contenimento dell’edificato entro limiti predeterminati.
Si tratta di una tecnica che è propria anche della legislazione condonistica, o di altre normative con finalità incentivanti, in cui sono fissate le misure degli incrementi massimi, consentendo deroghe ai limiti ordinariamente previsti per il conseguimento di finalità di altra natura.
In tutte queste ipotesi il legislatore individua un limite massimo di aumento dei dati stereometrici, eventualmente consentendo di derogare alle norme urbanistico-edilizie ordinariamente applicabili.
Non vi sono ragioni, pertanto, per forzare il dato letterale della disposizione fino al punto di interpretarla come se il legislatore avesse inteso fissare non la misura massima dell’ampliamento in altezza dell’edificio esistente, ma la misura massima della deroga ammissibile alle disposizioni del D.M. 1444/1968.
In conclusione, l’altezza massima degli edifici in progetto avrebbe dovuto essere calcolata aumentando nella misura massima del 40% l’altezza dell’edificio esistente (cfr. Tar Veneto, II Sez, 08.10.2020 nr. 1254 2020; Tar Veneto, Sez. II, 24.11.2017, n. 944).
Devono, dunque, ritenersi fondate le censure sviluppate nel ricorso introduttivo del giudizio e nel primo ricorso per motivi aggiunti, relativamente all’illegittimità del permesso di costruire quanto alle altezze autorizzate e della delibera comunale nella parte di interesse (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 10.02.2021 n. 187 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer quanto riguarda la più complessa questione della modalità di calcolo dei balconi ai fini del rispetto delle distanze prescritte dall’art. 9 del DM n. 1444/1968, il Supremo Consesso s’è pronunciato espressamente, prendendo aperta posizione sulle opposte tesi e aderendo a quella autorevolmente esposta nella sentenza 30.12.2016, n. 5552, chiarendo che “esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici che ammette che i detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio”.
La Sezione condivide le considerazioni e conclusioni dell’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato respingendo le censure avverso le previsioni dello strumento urbanistico e l’applicazione delle prescrizioni sul calcolo delle distanze dedotte con doglianze analoghe a quelle sollevate dalla ricorrente.
Così nel precedente richiamato è stata disattesa la doglianza relativa “alla violazione del limite minimo di 5 metri lineari previsto dall’art. 4 delle NTA del PRG, reclamando a tal fine doversi includere nel computo i balconi ed alcuni pilastri” osservando che: “l’art. 4 disciplina il computo del volume fabbricabile e, nell’ambito di questo, contiene previsioni sugli aggetti, e che i balconi sono computabili nel volume solo se costituiscono corpo di fabbrica (cioè aggetti chiusi volti a separare l’ambiente interno da quello esterno) e non quando invece siano aperti su tre lati, come affermato da costante giurisprudenza, è solo a questi, contemplati dal primo comma dell'art. 4 che la previsione delle NTA richiamata fa riferimento, al comma successivo, per indicare la misura delle distanze (…) Al riguardo va ricordato che, come affermato da costante giurisprudenza, ai fini del computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene. Infatti, ciò che rende computabili i balconi ai fini della misurazione delle distanze tra fondi finitimi è la loro riconducibilità al concetto di costruzione edilizia, comportando essi un ampliamento della consistenza dell'edificio tale da doversi senz'altro considerare nel calcolo delle distanze legali (…)".
---------------
La giurisprudenza ha ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che prescrive la distanza minima di 10 mt lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò.
Invero, “i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla determinazione del volume”.
Con riferimento ad un caso, come quello in esame, in cui il regolamento comunale prevedeva che “nella verifica delle distanze non si tiene conto di (…) balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60”, è stato ritenuto che tale prescrizione “costituisce norma eccezionale e di favore, in quanto integra e deroga (con il favore della giurisprudenza, come si è avuto modo di dimostrare, seppur entro determinati limiti) alla norma di ordine pubblico di cui all’art. 9 del DM più volte richiamato”, precisando che tali “deroghe/integrazioni” debbano essere interpretate in senso restrittivo.
Anche negli anni successivi tale orientamento è stato confermato ribadendo che “balconi e pensiline” non sono compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. n. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio”; per cui si tratta di mere strutture architettoniche non computabili nella volumetria della costruzione ed irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali, a differenza dei “corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza”.
In conclusione, assume rilevanza decisiva il profilo della dimensione della sporgenza, come ribadito da Consiglio di Stato sez. IV, n. 5895/2017 e n. 706/2018 (per cui nel caso di balconi aggettanti lo sporto nei limiti di metri 1,50 è irrilevante rispetto alla distanza secondo Consiglio di Stato sez. IV, n. 1801/2016; nello stesso senso, ugualmente per dimensioni contenute, come nel caso in esame in metri 1,60, Consiglio di Stato sez. VI, n. 5557/2013; mentre, nel caso contrario, in cui le dimensioni dello sporto siano “importanti”, superando i due metri, va necessariamente calcolato, come ribadito da ultimo, da TAR Puglia, n. 485/2019).
---------------

Con il primo motivo di ricorso si lamenta che il permesso a costruire in variante impugnato si ponga in contrasto con i limiti di distanza prescritti dall’art. 9 del d.m. 1444/1968 (che prevede che tra le pareti dei fabbricati tra i nuovi edifici e le strade destinate al traffico veicolare sia rispettata una distanza minima rispettivamente di ml 10 e ml 5), riprodotti anche dall’art. 1 del Piano Particolareggiato (secondo la ricorrente detto Piano, seppur decaduto perché sono trascorsi più di dieci anni dalla sua approvazione, sarebbe tutt’ora applicabile relativamente alla disciplina degli allineamenti ed il rispetto dei comparti), oltre che dall’art. 17 delle NTA del PTP (per quanto concerne la distanza minima dal ciglio stradale) nonché dall’art. 23 del regolamento edilizio (che prevede che per calcolare il distacco dai confini la distanza va misurata nei punti di massima sporgenza).
Ad avviso della ricorrente, il Comune non si sarebbe avveduto che il progetto in variante riporta misure errate per quanto riguarda le distanze, dato che non tiene conto dell’ingombro di 1,60 metri prodotto dai balconi e dai bow windows, per cui, mentre la distanza del fabbricato dal filo stradale di via Garigliano riportata sul progetto misura metri 5 (prendendo come riferimento il muro del prospetto), essa risulta in realtà, ove venga calcolata anche la sporgenza dei balconi, di soli metri 3,40.
Tale errore nel metodo del calcolo del distacco dell’edificio in contestazione si riverbera anche sul calcolo della distanza dalla parete dell'immobile prospiciente (cioè quello della ricorrente): anche in questo caso, se si tiene conto dei balconi, il distacco non misura 10 metri, come indicato nel progetto, bensì appena 8,40 metri. Inoltre, ad avviso della ricorrente, le distanze sopraindicate risulterebbero ancora più ridotte (di circa dieci centimetri), se si scomputasse dal relativo calcolo anche il rivestimento perimetrale esterno (cd. cappotto termico).
In conclusione, secondo la ricorrente, l’errore di calcolo insito nel progetto rende illegittimo il permesso a costruire, in quanto, fondandosi su dati numerici non corrispondenti alla realtà, che non tengono conto dell’ingombro dei balconi, contrasta con quanto prescritto dall’art. 23 del Regolamento Edilizio Comunale che prevede che il distacco dai confini debba essere misurato “nei punti di massima sporgenza, del piano terra e la linea di confine”, mentre nel caso in esame, le distanze sono state calcolate dalle pareti dell’edificio, anziché dal parapetto dei balconi.
Inoltre, secondo la ricorrente, non vale ad escludere l’illegittimità del titolo abilitativo impugnato il fatto che l’art. 26 del Regolamento Edilizio, nel disciplinare “Aggetti e Sporgenze”, “sembra escludere dal computo della distanza legale tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, le pensiline ed i balconi o altri sporti abitabili o comunque utilizzabili”: se così fosse, la previsione del REC andrebbe annullata in quanto contrasta con i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati inderogabilmente sanciti dal D.M. n. 1444 del 02.04.1968 o comunque disapplicata (con automatica sostituzione dei limiti prescritti dal predetto DM, che costituisce la disciplina dettata, mediante rinvio, dalla legge n. 765/1967).
Le doglianze vengono riprese nel terzo motivo di ricorso, ove si denuncia la violazione dell’art. 6 della legge n. 241/1990, lamentando il difetto di istruttoria in cui sarebbe incorso il responsabile del procedimento per non aver rilevato l’errore di misurazione e di conseguenza la violazione dei limiti inderogabili di distanza prescritti dall’art. 9 del d.m. 1444/1968.
I mezzi di censura sopra richiamati vanno disattesi.
Innanzitutto, in punto di fatto, ove la ricorrente lamenta la violazione dei limiti sopraindicati affermando che la distanza -“stimata visivamente”- sarebbe di soli 4,65 metri, va osservato che, ai fini di verificare il rispetto delle prescrizioni sul distacco dal confine, conta esclusivamente la distanza fisica “effettiva” della costruzione -che risulta pari a cinque metri- e non quella stimata sulla base dell’impressione visiva dei soggetti interessati.
Inoltre, va precisato, ancora sulla qualificazione dei fatti, che i setti murari impropriamente descritti dalla ricorrente come “bow-windows” (come d’altronde ammesso nella stessa memoria conclusionale a pag. 11) costituiscono in realtà delle strutture aggettanti che non rilevano ai fini del calcolo delle distanze in quanto sono “aperti solo lateralmente e non anche frontalmente, risultano destinati ad ospitare le centraline termiche e, comunque, non sono destinati all’uso abitativo”: come chiarito dal Consiglio di Stato con l’ordinanza n. 4461/2018 pronunciata in sede di appello cautelare -pienamente condivisa dal Collegio- devono essere esclusi dal calcolo delle distanze e dei volumi i cd. locali tecnici.
Anche per quanto riguarda la più complessa questione della modalità di calcolo dei balconi ai fini del rispetto delle distanze prescritte dall’art. 9 del DM n. 1444/1968, il Supremo Consesso, nel confermare il rigetto dell’istanza cautelare, s’è pronunciato espressamente, prendendo aperta posizione sulle opposte tesi e aderendo a quella autorevolmente esposta nella sentenza 30.12.2016, n. 5552, chiarendo che “esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, dal quale in questa sede si ritiene di non doversi discostare, che ammette che i detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio”.
La Sezione condivide le considerazioni e conclusioni dell’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, al quale aveva già in passato aderito con sentenza TAR Lazio II-quater 31.3.2010 n. 5319, respingendo le censure avverso le previsioni dello strumento urbanistico e l’applicazione delle prescrizioni sul calcolo delle distanze dedotte con doglianze analoghe a quelle sollevate dalla ricorrente.
Così nel precedente richiamato è stata disattesa la doglianza relativa “alla violazione del limite minimo di 5 metri lineari previsto dall’art. 4 delle NTA del PRG, reclamando a tal fine doversi includere nel computo i balconi ed alcuni pilastri” osservando che: “l’art. 4 disciplina il computo del volume fabbricabile e, nell’ambito di questo, contiene previsioni sugli aggetti, e che i balconi sono computabili nel volume solo se costituiscono corpo di fabbrica (cioè aggetti chiusi volti a separare l’ambiente interno da quello esterno) e non quando invece siano aperti su tre lati, come affermato da costante giurisprudenza (cfr., di recente, Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2008, n. 3381), è solo a questi, contemplati dal primo comma dell'art. 4 che la previsione delle NTA richiamata fa riferimento, al comma successivo, per indicare la misura delle distanze (…) Al riguardo va ricordato che, come affermato da costante giurisprudenza, ai fini del computo delle distanze, assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene. Infatti, ciò che rende computabili i balconi ai fini della misurazione delle distanze tra fondi finitimi è la loro riconducibilità al concetto di costruzione edilizia, comportando essi un ampliamento della consistenza dell'edificio tale da doversi senz'altro considerare nel calcolo delle distanze legali (…)".
Infine, per quanto attiene al rispetto delle prescrizioni urbanistiche sulle distanze minime dei fabbricati, i ricorrenti sostengono che il limite minimo di 10 metri lineari sarebbe applicabile indipendentemente dalle presenza di pareti finestrate, denunciando che il fabbricato da realizzare risulterebbe superare tale limite (…) in quanto la planimetria allegata al progetto non prende in considerazione i terrazzi, che come, corpi aggettanti vanno computati ai fini delle distanze. Anche tale censura va disattesa in quanto la giurisprudenza ha ormai chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che prescrive la distanza minima di 10 mt lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, precisando tuttavia che il balcone aggettante può essere ricompreso nel computo della predetta distanza solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò (TAR Liguria, sez. I, n. 1736/2009).
In tal modo la Sezione si era adeguata all’orientamento sancito dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381, la quale aveva precisato che “i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata dall’edificio, costituendo solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono, non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura, come viceversa è riscontrabile per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell’edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo dell’edificio, e contribuiscono quindi alla determinazione del volume” (Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381).
Con riferimento ad un caso, come quello in esame, in cui il regolamento comunale prevedeva che “nella verifica delle distanze non si tiene conto di (…) balconi e di gronde di aggetto inferiori a m 1,60”, è stato ritenuto che tale prescrizione “costituisce norma eccezionale e di favore, in quanto integra e deroga (con il favore della giurisprudenza, come si è avuto modo di dimostrare, seppur entro determinati limiti) alla norma di ordine pubblico di cui all’art. 9 del DM più volte richiamato”, precisando che tali “deroghe/integrazioni” debbano essere interpretate in senso restrittivo (Consiglio di Stato sez. VI, n. 5557/2013 con espresso richiamo a Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381).
Anche negli anni successivi tale orientamento è stato confermato ribadendo che “balconi e pensiline” non sono compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. n. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio” (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 5552/2016); per cui si tratta di mere strutture architettoniche non computabili nella volumetria della costruzione ed irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali, a differenza dei “corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza” (Consiglio di Stato sez. VI, 10/09/2018, n. 5307 e Consiglio di Stato sez. V, 13/03/2014, n. 1272).
In conclusione, assume rilevanza decisiva il profilo della dimensione della sporgenza, come ribadito da Consiglio di Stato sez. IV, n. 5895/2017 e n. 706/2018 (per cui nel caso di balconi aggettanti lo sporto nei limiti di metri 1,50 è irrilevante rispetto alla distanza secondo Consiglio di Stato sez. IV, n. 1801/2016; nello stesso senso, ugualmente per dimensioni contenute, come nel caso in esame in metri 1,60, Consiglio di Stato sez. VI, n. 5557/2013; mentre, nel caso contrario, in cui le dimensioni dello sporto siano “importanti”, superando i due metri, va necessariamente calcolato, come ribadito da ultimo, da TAR Puglia, n. 485/2019).
Nel caso in esame, pertanto, trovano applicazione i principi sopra richiamati per cui i balconi in contestazione non sono computabili, al fine della determinazione del rispetto delle distanze in questione, date le caratteristiche costruttive (struttura aggettante: i balconi aperti in questione) e le limitate dimensioni (metri 1,60, al netto del parapetto, per un totale di circa 1,75 come indicato nel progetto e come effettivamente costruito, stante l’esito della verifica effettuata in contraddittorio con le parti nel corso del nuovo sopralluogo in data 03.07.2018, effettuato per approfondire le prime sommarie rilevazioni dell’08.06.2008); le circostanze rilevate dalla PA nel corso del sopralluogo in contradditorio sono confermate dalla relazione del 09.11.2018 del CTU –all’esito del sopralluogo in data 02.08.2018– incaricato nell’ambito del giudizio civile davanti al Tribunale di Velletri, che ha confermato la misurazione della larghezza dei balconi sopraindicati ed ha altresì attestato la conformità al progetto di quanto costruito, nonché il rispetto della disciplina in tema di distanze.
Pertanto non è in discussione il dato oggettivo della dimensione dei balconi (sporgenti per metri 1,60 al netto dei parapetti oppure 1,75 inclusi i parapetti, con conseguente riduzione della distanza dalla facciata rispetto al limite minimo di 10 metri prescritto dal DM 1444/1968), bensì se tale misura “intermedia” tra quella che per pacifica giurisprudenza consente di ritenere il balcone un mero elemento architettonico (cioè 150-160 centimetri) oppure di configurare un vero e proprio autonomo corpo di fabbrica (2 metri).
Nella mancanza di parametri di riferimento occorre tener conto della disciplina edilizia locale e della costante prassi applicativa del Comune: questa era nel senso di escludere i balconi di tali dimensioni dal calcolo delle distanze degli edifici, come attestato dal Responsabile del Servizio Urbanistica in data 09.08.2018 (detti balconi sono posti ad una distanza superiore a ml. 3.00, nel rispetto dell'art. 26 del Regolamento Edilizio Comunale; il fabbricato è conforme al progetto approvato; rispetta il punto 14.15 dell'art. 23 del predetto regolamento; anche con riferimento alla distanza tra pareti finestrate l’opera eseguita risulta “non inferiore a metri 10.00, nel rispetto dei limiti di distanza stabiliti dall’art. 9, comma 2, del D.M. n. 1444/1968”; soprattutto lo stesso responsabile dell’Ufficio predetto precisa che “per tutte le pratiche edilizie presentate nel corso degli anni, per fabbricati simili e nella stessa zona F1 di P.R.G. nella determinazione della distanza di ml. 10.00 tra pareti finestrate, non sono mai stati considerati i balconi”); come confermato anche dal CTU che ha escluso che il permesso di costruire in contestazione sia stato rilasciato con violazione delle prescrizioni in materia di distanze legali.
In conclusione, l’orientamento giurisprudenziale, la prassi applicativa del Comune, la legislazione sopra richiamate, inducono il Collegio ad escludere l’illegittimità del permesso di costruire in esame, relativo ad un edificio che, peraltro, è stato già da tempo realizzato secondo il progetto contestato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 11.09.2019 n. 10843 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Tribunale ritiene che nel calcolo delle distanze tra fabbricati non possano non prendersi in considerazione le sporgenze. Queste ultime nel caso di specie, tenuto conto della loro apprezzabile consistenza (balconi della larghezza di 2 mt), possono considerarsi come ampliamento dell'edificio in superficie e volume.
Ai fini del computo delle distanze assumono, invero, rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
Per cui, l’art. 9 delle NTA, laddove disciplina la distanza minima dal confine deve essere letta nel senso più conforme alla nozione di costruzione stabilita dalla legge statale (ex art. 873 cc e dm 1444/1968), che impone di tenere conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, qualora queste presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia.
---------------
Il Collegio ritiene che, anche in sede di computo minimo delle distanze tra fabbricati, l’esclusione degli aggetti e dei balconi aperti vada riferito esclusivamente a quelli di modeste dimensioni o con funzione decorativa, pena la violazione della disciplina statale di riferimento come costantemente interpretata dal giudice amministrativo ed ordinario.
Difatti, le disposizioni del D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma 2, sulla distanza tra i fabbricati sono inderogabili e prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali, evidentemente, si sostituiscono per inserzione automatica, con immediata operatività nei rapporti tra privati in virtù della natura integrativa del regolamento comunale rispetto all’art. 873 cc.
Del resto, la stessa giurisprudenza limita, in presenza di una norma autorizzativa di piano, il mancato computo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze, alla condizione che si tratti di strutture architettoniche (sporti e balconi) estranee al volume utile dell’edificio, situazione, evidentemente, del tutto diversa dal caso in esame.
Al riguardo, il Collegio ritiene “che rientrino nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza”.
E ciò anche nella considerazione che i balconi, laddove privi di carattere ornamentale, non possono in ogni caso integrare “volume tecnico”, che, in quanto non computabile nella volumetria della costruzione sarebbe irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali.
---------------
Sotto altro aspetto, non trova integrale applicazione il principio della c.d. prevenzione temporale (art. 873 cc), secondo cui il proprietario che costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle altre costruzioni sui fondi vicini.
Il principio della prevenzione, infatti, non è applicabile quando l'obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato, come nel caso in esame, da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, con lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari confinanti l’obbligo di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di interessi generali.
Del resto, l’asserita operatività del principio della prevenzione renderebbe del tutto pleonastica la previsione della deroga concordata della distanza minima dal confine, che invece l’atto regolamentare ha previsto come unica alternativa alla distanza “legale” (art. 9 NTA), e con finalità del tutto diverse dalla prevenzione essendo diretto l’accordo ad assicurare tra i confinanti “il rispetto della distanza totale prescritta tra i fabbricati”.
---------------

10.- Nel merito, il ricorso è fondato.
11.- L’art. 9 delle NTA del Piano Particolareggiato del Comune di Gravina di Puglia, invero, prescrive che “l’edificazione, quando non avvenga in aderenza, deve rispettare una distanza minima dal confine di 5 metri. E’ consentita la costruzione di un fabbricato a meno di 5 metri dal confine solo nel caso in cui tra i confinanti si stabilisca un accordo che assicuri il rispetto della distanza totale prescritta tra i fabbricati”.
12.- La norma in questione, quindi, nel caso in cui non si ritenga di costruire in aderenza, consente la deroga convenzionale della distanza minima di 5 metri dal confine.
13.- Ciò posto, e in mancanza dell’accordo tra confinanti previsto dall’art. 9 delle NTA di Piano, il Collegio ritiene sussistere la contestata violazione delle distanze prescritte dalle citate NTA.
14.- La controinteressata, infatti, si è limitata a rappresentare al Comune di aver “notiziato” i proprietari limitrofi della richiesta di permesso di costruire con lettera raccomandata, dal cui contenuto, tuttavia, non emerge affatto –come sarebbe stato necessario- una specifica richiesta ai confinanti di consenso alla deroga circa il regime delle distanze.
E ciò nonostante l’accordo richiesto dall’art. 9 citato abbia un oggetto ben preciso dovendo le parti stabilire consensualmente le modalità che consentano di rispettare la distanza totale (di dieci metri) prescritta tra i fabbricati.
15.- Che sia mancato il consenso “tacito” dei ricorrenti è assunto, peraltro, che trova conferma nella circostanza di fatto che i ricorrenti, solo a seguito dell’esame del progetto da parte del tecnico di fiducia, sono stati posti nelle condizioni di prestare un consenso o un dissenso informato in ordine alla nuova costruzione in deroga alle distanze fissate nel Piano.
Tale dissenso, pertanto, è stato correttamente esercitato prima con le note del 06.11.2018, indirizzate al Comune di Gravina di Puglia e, poi, con la proposizione dell’odierno ricorso.
16.- Tanto premesso, il Collegio rileva che il progetto assentito effettivamente prevede la costruzione del fabbricato a distanza di m. 3,00 dal confine con la porzione di terreno di proprietà degli odierni ricorrenti, inferiore, quindi, alla distanza di 5 metri prescritta, dall’art. 9 delle NTA, per gli edifici dal confine qualora l’edificazione non sia in aderenza.
La perizia depositata dagli istanti in giudizio, sul punto non smentita dalla controinteressata, dà infatti atto che sul confine nord con la proprietà degli odierni ricorrenti “dal corpo di fabbrica della Ir.Im. srl sono stati previsti degli aggetti sporgenti aventi una larghezza di mt. 2,00, tal da ridurre la distanza dal confine a metri 3”.
17.- Tale circostanza, peraltro, è stata confermata dalla stessa amministrazione civica che, all’atto del sopralluogo del 11.01.2018, ha accertato la demolizione del balcone (peraltro oggetto di apposita Scia), comunicato dalla controinteressata con nota del 13.12.2018.
18.- Al riguardo, il Tribunale ritiene che nel calcolo delle distanze non possano non prendersi in considerazione le sporgenze. Queste ultime, tenuto conto della loro apprezzabile consistenza (larghezza di 2 mt) possono considerarsi come ampliamento dell'edificio in superficie e volume.
19.- Ai fini del computo delle distanze assumono, invero, rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
20.- Per cui, l’art. 9 delle NTA, laddove disciplina la distanza minima dal confine deve essere letta nel senso più conforme alla nozione di costruzione stabilita dalla legge statale (ex art. 873 cc e dm 1444/1968), che impone di tenere conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, qualora queste presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia (Cfr., Cassazione civile sez. II, 29/01/2018, n. 2093).
21.- In realtà, l'art. 9 delle NTA del Piano particolareggiato del Comune di Gravina non introduce un criterio di calcolo delle distanze diverso da quello prescritto dalla legislazione statale, posto che quando impone i limiti di distacco dal confine, si riferisce -non escludendoli espressamente- anche ai balconi che fanno parte di tali costruzioni.
22.- Né ad una diversa conclusione può pervenirsi applicando –come suggerisce la difesa della controinteressata- le modalità di computo delle distanze minime tra i fabbricati, indicate dall’art. 9 delle NTA come “la lunghezza del segmento intercorrente tra le fronti di edifici antistanti, effettuata perpendicolarmente alle pareti e sul piano orizzontale, escludendo gli aggetti ed i balconi totalmente aperti”.
23.- Il Collegio, infatti, ritiene che, anche in sede di computo minimo delle distanze tra fabbricati, l’esclusione degli aggetti e dei balconi aperti vada riferito esclusivamente a quelli di modeste dimensioni o con funzione decorativa, pena la violazione della disciplina statale di riferimento come costantemente interpretata dal giudice amministrativo ed ordinario.
24.- Difatti, le disposizioni del D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma 2, sulla distanza tra i fabbricati sono inderogabili e prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali, evidentemente, si sostituiscono per inserzione automatica, con immediata operatività nei rapporti tra privati in virtù della natura integrativa del regolamento comunale rispetto all’art. 873 cc (cfr. Cass. sez. un. 07.07.2011, n. 14953; Cass. 26.07.2016, n. 15458).
25.- Del resto, la stessa giurisprudenza citata dalla controinteressata, limita, in presenza di una norma autorizzativa di piano, il mancato computo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze, alla condizione che si tratti di strutture architettoniche (sporti e balconi) estranee al volume utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2016, 5552), situazione, evidentemente, del tutto diversa dal caso in esame.
26.- Al riguardo, il Collegio ritiene “che rientrino nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza” (TAR Genova, sez. I, 21/11/2013, n. 1406).
27.- E ciò anche nella considerazione che i balconi, laddove privi di carattere ornamentale, non possono in ogni caso integrare “volume tecnico”, che, in quanto non computabile nella volumetria della costruzione sarebbe irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali (Consiglio di Stato sez. VI, 10/09/2018, n. 5307 Consiglio di Stato sez. V, 13/03/2014, n. 1272).
28- Sotto altro aspetto, contrariamente a quanto ritenuto dalla società controinteressata, non trova integrale applicazione il principio della c.d. prevenzione temporale (art. 873 cc), secondo cui il proprietario che costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle altre costruzioni sui fondi vicini.
29.- Il principio della prevenzione, infatti, non è applicabile quando l'obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato, come nel caso in esame, da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, con lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari confinanti l’obbligo di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di interessi generali. (Cassazione civile sez. II, 21/02/2019, n. 5146).
30.- Del resto, l’asserita operatività del principio della prevenzione renderebbe del tutto pleonastica la previsione della deroga concordata della distanza minima dal confine, che invece l’atto regolamentare ha previsto come unica alternativa alla distanza “legale” (art. 9 NTA), e con finalità del tutto diverse dalla prevenzione essendo diretto l’accordo ad assicurare tra i confinanti “il rispetto della distanza totale prescritta tra i fabbricati”.
31.- Pertanto, e, in assenza di una costruzione in aderenza, la controinteressata era tenuta al rispetto della distanza minima di 5 mt dal confine prevista dalle disposizioni delle NTA del Piano particolareggiato, al riguardo imprescindibilmente vincolanti, in mancanza di diverso accordo tra le parti.
32.- Alla luce delle considerazioni che precedono, ed assorbite le restanti censure, il ricorso deve essere accolto (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 02.04.2019 n. 485 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sono da ritenersi illegittime le disposizioni di natura regolamentare adottate da un comune volte a esonerare i balconi, anche se di apprezzabile profondità, dal calcolo della distanza tra edifici.
Secondo la prevalente giurisprudenza “rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza”.
È superfluo rilevare che il D.M. n. 1444/1968, emanato su delega della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, e, attenendo alla materia dell’ordinamento civile, riservata alla competenza del legislatore nazionale, le sue disposizioni sui limiti inderogabili di distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali, poiché afferiscono a interessi pubblici di natura igienico-sanitaria, sottratti a qualsiasi valutazione o apprezzamento discrezionale e alla disponibilità dei privati interessati.
Le disposizioni dei regolamenti locali in contrasto con la suddetta disciplina statale non possono essere applicate e, per giurisprudenza costante, sono da essa sostituite per inserzione automatica.
Sulla scorta di quanto appena osservato sono dunque da ritenersi illegittime le disposizioni di natura regolamentare adottate da un comune volte a esonerare i balconi, anche se di apprezzabile profondità, dal calcolo della distanza tra edifici.
È perciò da concludersi per l’illegittimità, e dunque per la disapplicazione, della regola data dal combinato disposto delle lettere b) e g) dell’art. 1 delle norme d’attuazione al p.u.c. di Bolzano, laddove, escludendoli dalla superficie coperta, esonera i balconi fino alla considerevole larghezza di 1,80 m dal computo della distanza tra edifici.
Detta regola è da intendersi sostituita dalla disposizione distanziale dettata dal D.M. n. 1444/1968, nell’applicazione che ne ha fatto la richiamata giurisprudenza, in particolare per quanto di rilievo, con riguardo alla nozione di costruzione, la quale, secondo l’orientamento prevalente, ricomprende anche i balconi, che dunque devono essere considerati ai fini del computo della distanza.
---------------
Le disposizioni dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 sono inderogabili e cogenti unicamente in ordine al limite minimo di distanza tra edifici e sostituiscono le previsioni degli strumenti urbanistici locali solo se queste siano meno restrittive.
Ove, però, il piano urbanistico comunale prescriva una distanza fra edifici maggiore di quella minima di metri 10 prevista dal D.M. citato, trova senz’altro applicazione la disposizione comunale. Se, infatti, la finalità dell'art. 9 del D.M. è da ravvisarsi nell'intento di evitare la formazione tra edifici frontistanti di intercapedini nocive, con la prescrizione di una distanza "minima" inderogabile, non è impedito ai Comuni di adottare, nella formazione dei piani urbanistici e dei regolamenti edilizi locali, in forza dell'autonomia loro riconosciuta dall'art. 128 Cost., regole che, con la medesima efficacia delle fonti primarie del diritto, siano più rigorose, sulla base di valutazioni discrezionali degli interessi pubblici da tutelare.
Non v’è dubbio, infatti, che le disposizioni sulle distanze, oltre che rispondere all’esigenza di tutelare aspetti igienico-sanitari connessi all’edilizia, perseguono contemporaneamente chiare finalità urbanistiche, la cui individuazione compete all’ente locale nell’ambito dei poteri attribuitigli in materia di governo del territorio.
Sono pertanto da ritenersi legittime le disposizioni attuative del piano urbanistico comunale che, nello stabilire i distacchi tra fabbricati, prevedano distanze maggiori di quanto indicato dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, o prescindano dal carattere finestrato delle pareti, oppure ancora optino per un metodo di calcolo radiale, che disegni gli intervalli tra pieni e vuoti in modo più rigoroso rispetto a quanto stabilito dal D.M. 1444/1968, perseguendo, oltre alle finalità igienico–sanitarie proprie di quest’ultimo, anche un disegno urbanistico ritenuto maggiormente rispondente all’armonico sviluppo edilizio del territorio governato.

---------------
In giurisprudenza si è chiarito che la nozione di costruzione, non può che essere unitaria in rapporto al parametro distanziale; essa non è quindi suscettibile di essere differentemente modulata a seconda del metodo di computo impiegato, con la conseguenza che se i balconi, in quanto elementi costruttivi che estendono in superficie il corpo di fabbrica, debbono necessariamente essere computati nel sistema lineare sotteso alla disposizione statale, lo devono essere anche in quello radiale prescritto dalla regola locale.
Sul punto valga richiamare un significativo precedente della Cassazione civile che ha affermato il seguente principio di diritto: “La nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, da parte delle norme secondarie, in quanto il rinvio contenuto nella seconda parte del suddetto articolo ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore.”.

---------------

12. Il provvedimento di diniego della concessione edilizia oggetto di gravame è sostenuto, come s’è visto in precedenza, su due cardini motivazionali, seppure sinteticamente indicati, ossia sull’affermata violazione del D.M. n. 1444/1968, per quanto attiene alla distanza tra l’ampliamento dei balconi e il fabbricato prospiciente, e sull’affermata realizzazione del prolungamento dei predetti aggetti in violazione della distanza rispetto al confine.
13. Afferma la ricorrente, riguardo al primo dei profili di criticità rilevati dal Comune, che sussisterebbero tutti i presupposti per l’approvazione del progetto presentato per la sanatoria del prolungamento degli aggetti, poiché rispetto all’edificio sul lotto finitimo sarebbe osservata sia la distanza prescritta dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, sia quella prevista dalle norme d’attuazione al p.u.c..
La prima, infatti, sarebbe da misurare con il metodo lineare, la seconda, da misurare, invece, secondo il più rigoroso metodo radiale, escluderebbe tuttavia dal calcolo, per espressa previsione regolamentare, gli aggetti fino a 1,80 m di larghezza.
Applicando le predette disposizioni sulle distanze secondo il rispondente metodo di calcolo appena descritto, il distacco tra l’ampliamento dei balconi e l’edificio prospiciente sarebbe rispettato.
Avrebbe perciò errato il Comune nell’applicare il metodo radiale previsto dalla norma d’attuazione al p.u.c., senza tenere conto dell’esclusione dei balconi fino a 1,80 m di larghezza pure espressamente contemplata dalla norma regolamentare.
14. La tesi non convince il Collegio.
In tema di distanze tra costruzioni viene in rilievo innanzi tutto l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
La disposizione, nello stabilire in 10 m il distacco tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, allude, come puntualmente rileva la ricorrente, al metodo di calcolo lineare.
Va ricordato, per quanto di rilievo ai fini della decisione, che secondo la prevalente giurisprudenza “rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (Cass. 31/05/2006, n. 12964; Cass. 22/07/2010, n. 17242; Cass. 19/09/2016, n. 18282)” (così ancora di recente Cassazione civile, sez. I, 10.08.2017, n. 19932.
È superfluo rilevare che il D.M. n. 1444/1968, emanato su delega della L. 17.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, e, attenendo alla materia dell’ordinamento civile, riservata alla competenza del legislatore nazionale, le sue disposizioni sui limiti inderogabili di distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali, poiché afferiscono a interessi pubblici di natura igienico-sanitaria, sottratti a qualsiasi valutazione o apprezzamento discrezionale e alla disponibilità dei privati interessati (cfr., tra le tante, C.d.S. n. 2650/2014; C.d.S., n. 4451/2013 e n. 844/2013).
Le disposizioni dei regolamenti locali in contrasto con la suddetta disciplina statale non possono essere applicate e, per giurisprudenza costante, sono da essa sostituite per inserzione automatica (Cass. S.U., n. 14953/2011; Cass. S.U. n. 5889/1997).
Sulla scorta di quanto appena osservato sono dunque da ritenersi illegittime le disposizioni di natura regolamentare adottate da un comune volte a esonerare i balconi, anche se di apprezzabile profondità, dal calcolo della distanza tra edifici.
È perciò da concludersi per l’illegittimità, e dunque per la disapplicazione, della regola data dal combinato disposto delle lettere b) e g) dell’art. 1 delle norme d’attuazione al p.u.c. di Bolzano, laddove, escludendoli dalla superficie coperta, esonera i balconi fino alla considerevole larghezza di 1,80 m dal computo della distanza tra edifici (cfr. TRGA Bolzano n. 280/2016).
Detta regola è da intendersi sostituita dalla disposizione distanziale dettata dal D.M. n. 1444/1968, nell’applicazione che ne ha fatto la richiamata giurisprudenza, in particolare per quanto di rilievo, con riguardo alla nozione di costruzione, la quale, secondo l’orientamento prevalente, ricomprende anche i balconi, che dunque devono essere considerati ai fini del computo della distanza (cfr. Cass. Civ., n. 5594/2016 e n. 2094/2014).
14. Le disposizioni del citato art. 9 del D.M. n. 1444/1968, tuttavia, sono inderogabili e cogenti unicamente in ordine al limite minimo di distanza tra edifici e sostituiscono le previsioni degli strumenti urbanistici locali solo se queste siano meno restrittive.
Ove, però, il piano urbanistico comunale prescriva una distanza fra edifici maggiore di quella minima di metri 10 prevista dal D.M. citato, trova senz’altro applicazione la disposizione comunale. Se, infatti, la finalità dell'art. 9 del D.M. è da ravvisarsi nell'intento di evitare la formazione tra edifici frontistanti di intercapedini nocive, con la prescrizione di una distanza "minima" inderogabile, non è impedito ai Comuni di adottare, nella formazione dei piani urbanistici e dei regolamenti edilizi locali, in forza dell'autonomia loro riconosciuta dall'art. 128 Cost., regole che, con la medesima efficacia delle fonti primarie del diritto, siano più rigorose, sulla base di valutazioni discrezionali degli interessi pubblici da tutelare (cfr. in tal senso Cass. Civ., n. 4076/2012).
Non v’è dubbio, infatti, che le disposizioni sulle distanze, oltre che rispondere all’esigenza di tutelare aspetti igienico-sanitari connessi all’edilizia, perseguono contemporaneamente chiare finalità urbanistiche, la cui individuazione compete all’ente locale nell’ambito dei poteri attribuitigli in materia di governo del territorio.
Sono pertanto da ritenersi legittime le disposizioni attuative del piano urbanistico comunale che, nello stabilire i distacchi tra fabbricati, prevedano distanze maggiori di quanto indicato dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, o prescindano dal carattere finestrato delle pareti, oppure ancora optino per un metodo di calcolo radiale, che disegni gli intervalli tra pieni e vuoti in modo più rigoroso rispetto a quanto stabilito dal D.M. 1444/1968, perseguendo, oltre alle finalità igienico–sanitarie proprie di quest’ultimo, anche un disegno urbanistico ritenuto maggiormente rispondente all’armonico sviluppo edilizio del territorio governato.
Non può perciò trarsi in dubbio la legittimità dell’art. 1, lett. g), delle norme d‘attuazione al p.u.c. di Bolzano che ha introdotto il più rigoroso metodo radiale per la misurazione della distanza tra fabbricati, in sostituzione, come correttamente rileva la difesa comunale, al metodo lineare sotteso all’art. 9 del richiamato decreto ministeriale.
15. Il Comune di Bolzano, in definitiva, nel negare alla ricorrente la concessione edilizia in sanatoria per l’ampliamento abusivo degli aggetti sul lato sud dell’edificio, ha fatto corretta applicazione delle disposizioni statali e locali in materia di distacchi tra fabbricati, applicandole secondo i principi affermati dalla prevalente giurisprudenza, innanzi ricordati. Ha, in particolare, legittimamente adottato il metodo radiale di misura della distanza, contemplato dalla disposizione regolamentare locale più rigorosa di quella statale, e ha correttamente fissato il punto di misurazione del distacco tenuto conto anche delle sporgenze di non trascurabili dimensioni, quali i balconi in discussione, dovendoli considerare, alla luce della prevalente giurisprudenza parte della costruzione (per un precedente di questo Tribunale si veda la sentenza n. 73/2018).
Né può condividersi la tesi della ricorrente che differenzia la nozione di costruzione a seconda che venga in rilievo la distanza lineare oppure quella radiale, considerando nel primo caso il balcone come parte della costruzione di cui tenere conto nel computo del distacco, nel secondo caso, invece, come elemento escluso.
In giurisprudenza si è, infatti, chiarito che la nozione di costruzione, non può che essere unitaria in rapporto al parametro distanziale; essa non è quindi suscettibile di essere differentemente modulata a seconda del metodo di computo impiegato, con la conseguenza che se i balconi, in quanto elementi costruttivi che estendono in superficie il corpo di fabbrica, debbono necessariamente essere computati nel sistema lineare sotteso alla disposizione statale, lo devono essere anche in quello radiale prescritto dalla regola locale. Sul punto valga richiamare un significativo precedente della Cassazione civile, Sez. II, che nella pronuncia n. 5163/2015 ha affermato il seguente principio di diritto: “La nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, da parte delle norme secondarie, in quanto il rinvio contenuto nella seconda parte del suddetto articolo ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore.” Si veda anche TRGA Bolzano, n. 280/2016 (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 02.05.2018 n. 145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di "costruzione" le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (cosiddetti "aggettanti"), che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
Sicché, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di "costruzione", che è stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica.
Invero, questa Corte ha qualificato come costruzione la realizzazione, in aggiunta al preesistente edificio, di un corpo di fabbrica sporgente costituito da una soletta in cemento armato della larghezza di mt. 1,60, contornata da parapetto alto mt. 1,50 edificato con colonnine prefabbricate in cemento armato.
Ed ancora, l'art. 9, 3° co., del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (cosiddetta "legge urbanistica"), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (... in tema di distanze tra fabbricati, nel regolamento locale che non preveda distanza alcuna o che preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte per zone territoriali omogenee dall'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, questa inderogabile disciplina si inserisce automaticamente, con immediata operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 cod. civ.).
D'altronde, a tal ultimi riguardi la giurisprudenza amministrativa ha puntualizzato che in linea generale non è legittima l'adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del d.m. n. 1444/1968 (in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati), nel senso che lo stesso, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942, ha efficacia di legge.

---------------

I medesimi motivi sono fondati e meritevoli di accoglimento.
Evidentemente questa Corte non può che reiterare i propri insegnamenti.
Ovvero in primo luogo l'insegnamento per cui, in tema di distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di "costruzione" le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (cosiddetti "aggettanti"), che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
E per cui, ulteriormente, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di "costruzione", che è stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica (cfr. Cass. 26.01.2005, n. 1556; nella specie, questa Corte, nel confermare la sentenza impugnata, ha qualificato come costruzione la realizzazione, in aggiunta al preesistente edificio, di un corpo di fabbrica sporgente costituito da una soletta in cemento armato della larghezza di mt. 1,60, contornata da parapetto alto mt. 1,50 edificato con colonnine prefabbricate in cemento armato; Cass. 19.09.2016, n. 18282; Cass. 22.07.2010, n. 17242).
Ovvero in secondo luogo l'insegnamento secondo cui l'art. 9, 3° co., del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (cosiddetta "legge urbanistica"), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (cfr. Cass. sez. un. 07.07.2011, n. 14953; Cass. 26.07.2016, n. 15458, secondo cui, in tema di distanze tra fabbricati, nel regolamento locale che non preveda distanza alcuna o che preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte per zone territoriali omogenee dall'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, questa inderogabile disciplina si inserisce automaticamente, con immediata operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 cod. civ.).
D'altronde, a tal ultimi riguardi la giurisprudenza amministrativa ha puntualizzato che in linea generale non è legittima l'adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del d.m. n. 1444/1968 (in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati), nel senso che lo stesso, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942, ha efficacia di legge (cfr. Consiglio di Stato 21.10.2013, n. 5108).
Negli esposti termini, giacché è da escludere che i balconi dell'edificio "Romano" abbiano funzione meramente ornamentale in dipendenza delle dimensioni che li caratterizzano -"è risultato dall'istruttoria svolta che detti elementi costruttivi nel caso di specie non hanno solo una funzione ornamentale ma sono funzionali all'edificio" (così sentenza non definitiva n. 204/2010, pag. 16; in proposito cfr. altresì ricorso incidentale Perrella nel procedimento iscritto al n. 18329 - 2014 R.G., pag. 68)- non possono essere condivise e vanno conseguentemente censurate, siccome contrastanti con la nozione "unitaria" e "statuale" di "costruzione" e con il principio dell'inderogabilità in peius della disciplina di cui all'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, l'affermazione della corte di merito, di cui alla sentenza non definitiva n. 204/2010 e sulla cui scorta è stata reputata infondata l'eccezione del Perrella, a tenor della quale il regolamento locale può dettare tout court una diversa disciplina ("l'interpretazione data dal Perrella alla norma suddetta (...) è corretta (...), ma solo se il piano regolatore locale non detti una diversa disciplina"; così sentenza non definitiva n. 204/2010, pag. 19) nonché le affermazioni, del pari della corte di merito, di cui alla sentenza definitiva n. 134/2013, a tenor delle quali "va applicata invece la nuova normativa che (...) esclude i balconi" (così sentenza d'appello definitiva, pag. 35) ed "i balconi saranno intangibili solo fino a mt. lineari 1,40, da misurarsi, ovviamente, partendo dalla linea di attacco balcone-facciata" (così sentenza d'appello definitiva, pag. 35) (cfr. specificamente Cass. 27.06.2007, n. 17089, secondo cui, in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, stabilisce distanze inderogabili, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "con tra legem", in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore al distacco voluto dalla cosiddetta "legge ponte") (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 29.01.2018 n. 2093).
---------------
Al riguardo si legga anche:
  
● M. Grisanti, Sono assolutamente vietate le intercapedini tra fabbricati minori dell’altezza dell’edificio più alto - Nota a Cassazione, Sez. II civile, n. 2093 depositata il 29.01.2018 (link a https://lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si è già affermato che i balconi non appaiono riconducibili per dimensioni e caratteristiche costruttive a meri elementi ornamentali privi di rilevanza ai fini del calcolo delle distanze, sicché la mera differenza di tecnica costruttiva ravvisabile tra la parete in muratura ed un balcone aperto, non consente di aderire ad una diversa ricostruzione della portata applicativa della norma, dovendo quindi reputarsi che anche la presenza di un balcone imponga di ravvisare una situazione di parete finestrata.
Inoltre se la finalità delle norme in tema di distanze tra costruzioni è quella di evitare la creazione di intercapedini dannose, e di riflesso di assicurare un ordinato e razionale sviluppo dell'attività edilizia al fine della salvaguardia della salubrità e dell'armonico sviluppo dell'attività edificatoria, l'escludere la rilevanza di un balcone ai fini del computo delle distanze vanificherebbe in maniera evidente lo scopo cui mira il legislatore.
Infine, conforta tale conclusione anche la costante giurisprudenza di questa Corte, che anche di recente ha avuto modo di affermare che in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla legge n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte.
In conclusione, sulla possibilità di degradare il balcone al rango di mero sporto, in tema di distanze legali fra edifici
- rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria -come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili- mentre
   - costituiscono corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
---------------

5. Il quarto motivo denunzia la violazione e falsa applicazione dell'art. 873 c.c. nella parte in cui i giudici di appello hanno ritenuto che nel calcolare le distanze tra i fabbricati fronteggiantisi si dovesse tenere conto anche della terrazza in aggetto.
La ricorrente, pur mostrando di avere ben presente l'orientamento al quale ha fatto cenno anche la sentenza impugnata, circa la necessità di dover tenere conto ai fini del calcolo delle distanze anche degli elementi sporgenti, quale nel caso di specie la terrazza degli attori, ritiene però che si tratti di un orientamento non condivisibile.
Il motivo è infondato.
Ed, invero, in disparte il richiamo alla legittimità urbanistica dell'opera, già oggetto del primo motivo di ricorso, la censura si scontra in maniera evidente con la pacifica giurisprudenza di questa Corte, alla quale il Collegio ritiene di dover dare continuità, attesa anche l'assenza di seri elementi di critica idonei ad indurre a far rimeditare le conclusioni già raggiunte.
Ed, invero si è già affermato che i balconi non appaiono riconducibili per dimensioni e caratteristiche costruttive a meri elementi ornamentali privi di rilevanza ai fini del calcolo delle distanze, sicché la mera differenza di tecnica costruttiva ravvisabile tra la parete in muratura ed un balcone aperto, non consente di aderire ad una diversa ricostruzione della portata applicativa della norma, dovendo quindi reputarsi che anche la presenza di un balcone imponga di ravvisare una situazione di parete finestrata.
Inoltre se la finalità delle norme in tema di distanze tra costruzioni è quella di evitare la creazione di intercapedini dannose, e di riflesso di assicurare un ordinato e razionale sviluppo dell'attività edilizia al fine della salvaguardia della salubrità e dell'armonico sviluppo dell'attività edificatoria, l'escludere la rilevanza di un balcone ai fini del computo delle distanze vanificherebbe in maniera evidente lo scopo cui mira il legislatore.
Infine, conforta tale conclusione anche la costante giurisprudenza di questa Corte, che anche di recente ha avuto modo di affermare che (cfr. Cass. n. 5594/2016) in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla legge n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (in senso sostanzialmente conforme si veda anche Cass. n. 23553/2013; Cass. n. 17089/2006).
In conclusione, una volta esclusa, per espresso accertamento da parte degli stessi giudici di appello, la possibilità di degradare il balcone in oggetto al rango di mero sporto (cfr. a tal fine da ultimo Cass. n. 18282/2016, secondo cui, in tema di distanze legali fra edifici, rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria -come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili- mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza; Cass. n. 17242/2010), deve ribadirsi la correttezza della soluzione raggiunta dalla sentenza impugnata (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 05.01.2018 n. 166).

EDILIZIA PRIVATAMisurazione della distanza tra edifici ed estensione del balcone.
In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell’articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l’articolo 9 del d.m. 02.04.1968 –applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla legge n. 765 del 1967– stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell’estensione del balcone, è “contra legem” in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l’estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 22.03.2016 n. 5594 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
5. - I primi due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono infondati perché presuppongono che la parete sud del fabbricato dei ricorrenti non sia finestrata, a norma delle N.T.A., in quanto il balcone ivi esistente non sarebbe da considerarsi quale finestra a tal fine.
In senso opposto va osservato, invece, che in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del d.m. 02.04.1968 -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150, come modificata dalla legge 06.08.1967 n. 765- stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è contra legem in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla c.d. legge ponte (legge 06.08.1967 n. 765, che, con l'articolo 17, ha aggiunto alla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150 l'articolo 41-quinquies, il cui comma non fa rinvio al d.m. 02.04.1968, che all'articolo 9, numero 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10) (Cass. n. 17089/2006).
[Del resto, se anche le pareti finestrate fossero solo quelle munite di finestre e non anche quelle dotate di balconi, questi ultimi sarebbero pur sempre da considerare come parte della costruzione ai fini della distanza. E poiché, nella specie, gli stessi ricorrenti sostengono (v. pag. 24 del ricorso) che la parete del loro fabbricato è posta a mt. 3,10 dal confine, la presenza del balcone, che per definizione non può essere profondo soli 10 cm., già porterebbe la parete ad essere ad una distanza inferiore a quella legale, anche a voler applicare l'art. 6, lett. c). N.T.A. del Piano particolareggiato].

Ed altri pronunciamenti, ancora, sempre in materia di distanza tra edifici...

EDILIZIA PRIVATARichiamando i consolidati principi giurisprudenziali, laddove vi sia una modifica anche solo dell’altezza dell’edificio sono ravvisabili gli estremi della nuova costruzione, da considerare tale anche ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui.
Peraltro, secondo consolidata giurisprudenza la regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell'art. 9 cit. è applicabile anche alle sopraelevazioni.
Infine la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate deve essere rispettata anche in caso di interventi di recupero dei sottotetti a fini abitativi.
Non è, dunque, pertinente la tesi difensiva del Comune appellante secondo cui la asserita modesta modifica di altezza non impatterebbe sulla veduta del vicino, mantenendosi la sopraelevazione ad una quota più bassa, atteso che ciò che rileva, alla stregua dell’art. 9 D.M. 1444/1968, non è la distanza della sopraelevazione dalla specifica veduta bensì la distanza della stessa dalla parete finestrata.
Né è necessario accertare, come opinato dall’appellante, se l’edificio, come sopraelevato, raggiunga la quota della finestra del vicino, in quanto ciò che rileva è che, incontestata essendo la sopraelevazione, si è in presenza di una nuova costruzione, cui consegue l’effetto obbligatorio del rispetto delle distanze di dieci metri tra pareti finestrate e edifici antistanti: non è fondata, dunque, la censura di omessa pronuncia sul punto.
In materia di distanze tra fabbricati, l'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, è applicabile anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantesi sia finestrata e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima altezza o ad altezza diversa rispetto all'altro.
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti.

---------------
Questo Consesso ha già avuto modo di osservare che le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
Invero è stato affermato dalla costante giurisprudenza che la disposizione contenuta nell'art. 9 D.M. 1444/1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, trattandosi di norma imperativa che predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Ne discende che, in presenza di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di cui all'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444, il giudice avrebbe comunque l'obbligo di applicare la norma di rango superiore.

---------------

L’appello è infondato.
1. Oggetto del titolo edilizio in contestazione è un intervento che prevede il recupero abitativo del sottotetto, con realizzazione di un volume in sopraelevazione.
Tale circostanza di fatto, come correttamente rilevato dal TAR, non è contestata.
Non possono quindi che applicarsi le conseguenze che derivano dal richiamo di consolidati principi giurisprudenziali secondo cui laddove vi sia una modifica anche solo dell’altezza dell’edificio (come nel caso di specie) sono ravvisabili gli estremi della nuova costruzione, da considerare tale anche ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui (Cons. Stato, Sez. IV, 12.02.2013, n. 844).
Peraltro, secondo consolidata giurisprudenza (si veda, tra tante, in tal senso, Cass., Sez. II, 27.03.2001, n. 4413) la regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell'art. 9 cit. è applicabile anche alle sopraelevazioni (Cons. Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5759).
Infine la distanza minima di dieci metri fra pareti finestrate deve essere rispettata anche in caso di interventi di recupero dei sottotetti a fini abitativi (Cons. Stato, Sez. IV, 16.09.2020, n. 5466).
Non è, dunque, pertinente la tesi difensiva del Comune appellante secondo cui la asserita modesta modifica di altezza non impatterebbe sulla veduta del vicino, mantenendosi la sopraelevazione ad una quota più bassa, atteso che ciò che rileva, alla stregua dell’art. 9 D.M. 1444/1968, non è la distanza della sopraelevazione dalla specifica veduta bensì la distanza della stessa dalla parete finestrata.
Né è necessario accertare, come opinato dall’appellante, se l’edificio, come sopraelevato, raggiunga la quota della finestra del vicino, in quanto ciò che rileva è che, incontestata essendo la sopraelevazione, si è in presenza di una nuova costruzione, cui consegue l’effetto obbligatorio del rispetto delle distanze di dieci metri tra pareti finestrate e edifici antistanti: non è fondata, dunque, la censura di omessa pronuncia sul punto.
In materia di distanze tra fabbricati, l'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, è applicabile anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantesi sia finestrata e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima altezza o ad altezza diversa rispetto all'altro (Cass., Sez. II, 01.10.2019, n. 24471).
La disposizione di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti (Cons. Stato, Sez. IV, 30.10.2017, n. 4992).
Le assorbenti considerazioni che precedono comportano la conferma dell’impugnata sentenza.
2. Quanto all’impugnazione del capo della sentenza che ha regolamentato le spese del giudizio di primo grado il Collegio ricorda che questo Consesso ha già avuto modo di osservare che le prescrizioni di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l'inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.
Invero è stato affermato dalla costante giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV, 23.06.2017 n. 3093; id. 08.05.2017, n. 2086; id. 29.02.2016 n. 856; Cass., Sez. II, 14.11.2016, n. 23136) che la disposizione contenuta nell'art. 9 D.M. 1444/1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, trattandosi di norma imperativa che predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Ne discende che, in presenza di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di cui all'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444, il giudice avrebbe comunque l'obbligo di applicare la norma di rango superiore (così Cass., Sez. II, 27.03.2001, n. 4413; Cons. Stato, Sez. IV, 12.06.2007, n. 3094).
Ne discende che la presenza di una previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo non è idonea ad elidere o limitare la responsabilità dell’ente, neanche ai fini della valutazione della soccombenza.
Conclusivamente l’appello va respinto, con integrale conferma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 19.10.2021 n. 7029 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, la locuzione “nuovi edifici” per i quali trovano applicazione le distanze previste dall’art. 9, primo comma, n. 2, del D.M. 1444 del 1968, deve intendersi riferita non solo agli edifici costruiti per intero per la prima volta, ma anche alle parti o sopraelevazioni degli stessi.
Tale può definirsi anche un parapetto fisso, poiché è idoneo a determinare l’innalzamento del prospetto e della sagoma del fabbricato, e possiede i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione.

---------------
Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 9, comma primo, n. 2), D.M. 1444/1968.
Il permesso di costruire autorizza la ricostruzione dell’edificio alla distanza preesistente che era, tuttavia, di soli 6 metri. Poiché l’intervento di ricostruzione in progetto stravolge completamente l’aspetto originario dell’edificio demolito, determinandone un notevole ampliamento, esso sarebbe da qualificare come intervento di nuova costruzione (e non di ristrutturazione), soggetto, come tale, al rispetto delle distanze previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968.
L’orientamento richiamato dal ricorrente è stato superato e meglio precisato dalla successiva giurisprudenza, la quale ha affermato l’irrilevanza -ai fini della verifica del rispetto delle distanze minime previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968- della formale qualificazione dell’intervento come ristrutturazione o nuova costruzione e la necessità, invece, di verificare se l’edificio ricostruito possa ritenersi, in tutto o in parte, un “edificio nuovo”.
“Secondo questa giurisprudenza si ha ricostruzione, che segue le sorti dell'immobile originario, quando ci si contenga nei limiti preesistenti di altezza, volumetria, sagoma dell'edificio. Si ha un novum, una nuova costruzione, soggetta alle distanze vigenti, per ciò che eccede.
La disposizione dell'art. 9, n. 2, del D.M. n. 1444/1968 riguarda infatti "nuovi edifici", intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi) "costruiti per la prima volta" e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse; invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell'area di sedime, come pure consentito dall'art. 30, comma 1, lett. a), del D.L. n. 69/2013, convertito nella legge n. 98/2013, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio perché esso, quanto alla sua collocazione fisica, rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare, indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o nuova costruzione, le norme sulle distanze”.
Tanto premesso, occorre chiarire, ai fini che rilevano, che, riguardo all’applicazione delle distanze legali nell’ipotesi di interventi di demolizione e ricostruzione, la giurisprudenza sia del Consiglio di Stato che della Corte di cassazione ritiene applicabile la disciplina sulle distanze “per ciò che eccede” la mera ricostruzione.
Pertanto in caso di demolizione e ricostruzione di un precedente edificio, in cui siano distinguibili le parti eccedenti quelle originarie, solo queste sono soggette alla disciplina delle distanze, configurandosi come “nuove costruzioni”.

---------------

2 E’, altresì, fondato, in parte, il quarto motivo con cui sono dedotti i vizi di violazione dell’art. 9 DM 02.04.1968 n. 1444 e di eccesso di potere per difetto d’istruttoria.
Afferma il ricorrente che il permesso di costruire impugnato ha autorizzato la sopraelevazione di 85 cm della parete perimetrale fronteggiante la sua proprietà, mediante l’inserimento di un parapetto di 85 cm posto a distanza inferiore di dieci metri. Ad avviso del ricorrente, sarebbe violato anche l’art. 9 ultimo comma del citato D.M. nella parte in cui stabilisce che “Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa”.
2.1 Il motivo è fondato limitatamente alla violazione dell’art. 9 primo comma, n. 2), del D.M. 1444 del 1968.
Per giurisprudenza costante, la locuzione “nuovi edifici” per i quali trovano applicazione le distanze previste dall’art. 9, primo comma, n. 2, del D.M. 1444 del 1968, deve intendersi riferita non solo agli edifici costruiti per intero per la prima volta, ma anche alle parti o sopraelevazioni degli stessi (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 16/09/2020, n. 5466).
Tale può definirsi anche un parapetto fisso, poiché è idoneo a determinare l’innalzamento del prospetto e della sagoma del fabbricato (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 20.08.2019, n. 5763), e possiede i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione (Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2013, n. 354, Consiglio di Stato sez. II, 18/05/2021, n. 3883).
Non rileva, infine, ai fini di cui in disamina, la definizione di altezza dettata dall’art. 9, comma 1, punto 3, delle NTA del PI, atteso che la medesima disposizione si applica solo per le finalità espressamente stabilite dallo strumento urbanistico, come emerge dalla clausola di salvezza delle altezze massime e delle distanze minime inderogabili tra fabbricati previste dal D.M. 1444/1968 contenuta nell’ultimo periodo della medesima disposizione (“Salvi i casi puntualmente disciplinati dal PI e dai PUA, resta fermo il rispetto delle altezze massime e delle distanze minime inderogabili tra fabbricati previste dal D.M. 1444/1968.”).
...
7. E’ infondato anche il quinto motivo del ricorso introduttivo con cui il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 9, comma primo, n. 2), D.M. 1444/1968.
Il permesso di costruire autorizza la ricostruzione dell’edificio alla distanza preesistente che era, tuttavia, di soli 6 metri. Poiché l’intervento di ricostruzione in progetto stravolge completamente l’aspetto originario dell’edificio demolito, determinandone un notevole ampliamento, esso sarebbe da qualificare come intervento di nuova costruzione (e non di ristrutturazione), soggetto, come tale, al rispetto delle distanze previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968.
7.1 L’orientamento richiamato dal ricorrente è stato superato e meglio precisato dalla successiva giurisprudenza, la quale ha affermato l’irrilevanza -ai fini della verifica del rispetto delle distanze minime previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968- della formale qualificazione dell’intervento come ristrutturazione o nuova costruzione e la necessità, invece, di verificare se l’edificio ricostruito possa ritenersi, in tutto o in parte, un “edificio nuovo”.
Secondo questa giurisprudenza si ha ricostruzione, che segue le sorti dell'immobile originario, quando ci si contenga nei limiti preesistenti di altezza, volumetria, sagoma dell'edificio. Si ha un novum, una nuova costruzione, soggetta alle distanze vigenti, per ciò che eccede (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 4728/2017).
La disposizione dell'art. 9, n. 2, del D.M. n. 1444/1968 riguarda infatti "nuovi edifici", intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi) "costruiti per la prima volta" e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse; invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell'area di sedime, come pure consentito dall'art. 30, comma 1, lett. a), del D.L. n. 69/2013, convertito nella legge n. 98/2013, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio perché esso, quanto alla sua collocazione fisica, rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare, indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o nuova costruzione, le norme sulle distanze (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, n. 5466 del 2020)
.” (Consiglio di Stato, sentenza n. 6282, del 16.10.2020).
Tanto premesso, occorre chiarire, ai fini che rilevano, che, riguardo all’applicazione delle distanze legali nell’ipotesi di interventi di demolizione e ricostruzione, la giurisprudenza sia del Consiglio di Stato che della Corte di cassazione ritiene applicabile la disciplina sulle distanze “per ciò che eccede” la mera ricostruzione (Cass. n. 9637 del 2006; Cass. n. 19287 del 2009).
Pertanto in caso di demolizione e ricostruzione di un precedente edificio, in cui siano distinguibili le parti eccedenti quelle originarie, solo queste sono soggette alla disciplina delle distanze, configurandosi come “nuove costruzioni”.
Nel caso di specie, emerge dagli elaborati eseguiti dal verificatore, che l’edificio ricostruito è posto su un’area di sedime coincidente in parte con quella originaria, essendone distinguibile l’ampliamento in lunghezza sul lato opposto a quello dove insiste l’edificio del ricorrente. La proiezione “verticale” dell’edificio sul lato prospettante sulla proprietà del ricorrente si pone alla distanza originaria (di sei metri) fino all’altezza dell’edificio in demolizione, mentre la parte sopraelevata (piani quarto e quinto) è posta alla distanza di m 10 dall’edificio del ricorrente. Emerge, inoltre, dalla sovrapposizione grafica dei due edifici che l’incremento di volumetria è stato in parte realizzato attraverso la sopraelevazione di due piani (come si è detto posta a distanza di dieci metri rispetto all’edificio del ricorrente) e, in parte, attraverso l’ampliamento dell’edificio sul lato opposto a quello di proprietà del ricorrente.
Può, pertanto, ritenersi che la parte ricostruita sia avvenuta nel rispetto dei preesistenti distacchi, mentre l’ampliamento è stato realizzato nel rispetto delle distanze previste per le nuove costruzioni
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 18.10.2021 n. 1239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADistanze tra edifici, ai centri storici non si applica il limite di 10 metri.
Consiglio di Stato: il limite di 10 metri previsto all’articolo 9 del DM 1444/1968 per le “nuove costruzioni” non è riferito ai centri storici ma alle “altre zone”.

Il Consiglio di Stato, Sez. II, con sentenza 09.08.2021 n. 5830, ribaltando la decisione assunta in primo grado dal TAR, ha affermato che il limite di 10 metri previsto all’articolo 9 del DM 1444/1968 per le “nuove costruzioni” non è riferito ai centri storici ma alle “altre zone”.
Tra le motivazioni poste alla base della decisione il Consiglio di Stato ha ritenuto che:
   - il DM 1444/1968 nel disciplinare le zone A (centri storici) ha prescritto in questi casi che la distanza “non sia inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti”;
   - il limite dei 10 metri si applica solo alle “nuove costruzioni” ed è riferito alle “altre zone” ossia diverse da quelle delle zone A–centro storico e non può essere data una interpretazione più ampia di quella che può esserne tratta in via letterale.
Si ricorda, infatti, che l’art. 9 dm 1444/1968 prevede:
   - zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
   - nei nuovi edifici ricadenti in altre zone è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
   - zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a mt 12.
Il caso sottoposto all’esame del collegio riguardava un intervento di demolizione e ricostruzione con incremento volumetrico in applicazione del cd. Piano casa regionale su un immobile ubicato in centro storico.
Per il TAR l’intervento doveva essere considerato come “nuova costruzione” e per questo essere tenuto al rispetto della distanza minima di 10 metri prevista dall’articolo 9 del DM 1444/1968.
Diversa la decisione del Consiglio di Stato che, oltre a non qualificare l’intervento come nuova costruzione, ha sottolineato altresì come, l’assenza di una disciplina specifica per le distanze da osservare nei centri storici all’interno del DM 1444/1968, si giustifica per il fatto che, in tali ambiti, non sono consentiti interventi se non sul preesistente.
Applicando il limite dei 10 metri anche nei centri storici, inoltre, verrebbe preclusa in ampie zone dei territori comunali l’applicazione del Piano Casa regionale, nella parte in cui prevede la possibilità di realizzare ampliamenti fino al 35% (commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
SENTENZA
11. L’appello è fondato.
11.1 Come sopra esposto, il Comune appellante articola le proprie deduzioni, nell’ambito di un unico motivo di gravame, per avversare la statuizione accoglitiva recata dall’impugnata sentenza e che si fonda sulla valorizzazione della disciplina sulle distanze prevista dal d.m. n. 1444/1968. Ha ritenuto, infatti, il Tar che il permesso di costruire sarebbe stato rilasciato in violazione dell’art. 9 di tale compendio normativo, in quanto, trattandosi di un intervento edilizio qualificabile come “nuova costruzione”, sarebbe suscettibile di applicazione analogica la previsione sulle distanze nelle zone diverse dalla “A”, nella persistenza della “ratio giustificatrice della disciplina che consiste nell’esigenza di evitare intercapedini dannose per la salute”.
Deve rilevarsi, preliminarmente, che con il primo motivo del ricorso originario, accolto dal giudice di prime cure, si ipotizzava la violazione (anche) dell’art. 6 della legge sul Piano Casa (n. 49/2009), il quale articolo impone “il rispetto della distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici frontistanti” così implicitamente richiamando la previsione di cui al citato d.m. tanto che nella stessa domanda di permesso di costruire si attesta il rispetto di tale distanza di 10 metri tra pareti finestrate.
Orbene, ritiene il Collegio che tale disciplina non sia suscettibile di applicazione analogica.
Osserva, sul punto, l’appellante che la previsione del d.m. n. 1444/1968, secondo cui la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve essere inferiore a dieci metri, vale per i “Nuovi fabbricati” in “altre zone”, cioè diverse dalla zona A (centro storico), nella quale si trova il fabbricato oggetto della domanda edificatoria, posto che in quest’ultima, dove vige il generale divieto di costruzioni “ex novo”, la norma si limita a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra volumi edificati preesistenti.
La deduzione sollevata dall’appellante è meritevole di accoglimento, in quanto effettivamente il d.m., dopo aver disciplinato le “Zone A”, introduce la “distanza minima assoluta di m. 10” con esclusivo riferimento alle “altre zone”, di guisa che non è suscettibile di estensione analogica una norma che introduce una limitazione o un divieto quale quella in commento. Né può dirsi che la disciplina ordinamentale contempla l’esclusione dell’edificabilità di nuove costruzioni in quanto la legge regionale sul Piano Casa non esclude la sua applicazione nelle zone A e, ad opinare in senso conforme all’orientamento del Tar, tale modulo abilitativo non sarebbe suscettibile di applicazione nel centro storico stante l’alta densità edilizia che solitamente connota tali aree. La mancata previsione della distanza minima in zona A in seno al citato d.m. non costituisce, quindi, frutto di una dimenticanza del redattore della norma, così da costituire un vuoto normativo colmabile in sede interpretativa, quanto espressione di una sua precisa opzione connessa al fatto che in zona centro storico tendenzialmente non sono consentiti se non interventi sul preesistente. L’avvento del Piano Casa regionale, con la prevista possibilità di realizzare ampliamenti entro il limite del 35 %, non giustifica il ricorso ad una interpretazione analogica che avrebbe l’effetto di precludere, di fatto, l’applicazione di tale disciplina di favore in ampie zone dei territori comunali.
E’ peraltro meritevole di favorevole apprezzamento quanto argomentato dall’appellante a sostegno delle proprie deduzioni facendo leva sulla formulazione della stessa norma di cui all’art. 6 della l.r. n. 49/2009, nella versione ratione temporis vigente fino alla riforma introdotta dalla l.r. 01.03.2011, n. 4, alla cui stregua il titolo edilizio era stato rilasciato, laddove prevedeva che “la ricostruzione deve avvenire in sito, anche su diverso sedime, e può essere assentita in deroga alle previsioni urbanistico-edilizie dello strumento urbanistico comunale, fatto salvo il rispetto delle distanze dai fabbricati ivi previste” (cfr. comma 2).
Il rinvio operato dalla norma alla disciplina urbanistica locale impone il riferimento alle NTA, il cui art. AS8) si limita a prevedere, per la Sottozona AS (“Disciplina degli interventi di costruzione di nuovi edifici e relativi parcheggi pertinenziali”), “il corretto inserimento architettonico dell’edificio nell’intorno” così alludendo alla necessità di rispettare le (sole) distanze preesistenti invece che quelle previste per le edificazioni ex novo.
Peraltro la classificazione dell’intervento quale costruzione ex novo non può derivare dalla semplice circostanza che il progetto di demolizione e ricostruzione del fabbricato preveda la realizzazione di ampliamenti della volumetria preesistente. Se è vero che possono essere iscritti nell’ampia nozione di nuova costruzione anche gli interventi di ristrutturazione è pur vero che ciò è possibile, come ha rammentato la Sezione, soltanto “ove in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione, possa parlarsi di una modifica radicale dell'immobile, rendendo l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente” (cfr. sentenza, 06.04.2020, n. 2304).
La ristrutturazione edilizia, più precisamente, sussiste “solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre laddove esso sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell’intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della struttura originaria (allungamento delle falde del tetto, perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.), l’intervento rientra nella nozione di nuova costruzione” (Cons. Stato, sez. II, 13.01.2021, n. 423).
Ad ogni modo, dalla documentazione progettuale dell’intervento (che prevede la demolizione e ricostruzione di un edificio destinato a civile abitazione e la costruzione di una nuova autorimessa) ed in particolare dalla relazione tecnica allegata alla domanda di permesso di costruire, avanzata ai sensi dell’art. 6 della l.r. n. 49/2009, è dato rilevare che la ricostruzione dell’immobile da demolire, interessato da una situazione di dissesto statico come descritto in dettaglio nella perizia tecnica in atti, con un ampliamento volumetrico (di poco) inferiore al 35%,“avverrà prevalentemente in altezza e su sedime lievemente modificato […] nel rispetto delle distanze dai fabbricati” (cfr. pagina 3 della relazione tecnica citata) precisandosi, nella parte rubricata “Confini e distanze”, che “l’area di progetto, appartenente alla zona AS del PUC vigente, confina a nord con la Salita Cavallo, ad est con edifici non finestrati e situati in zona AS, a sud ed a ovest con zone BB con le quali si sono rispettate le distanze minime di 10 metri dalle superfici finestrate degli edifici prospicienti” (cfr. pagina 6 della medesima relazione). L’affermazione di controparte, secondo cui il nuovo edificio “non conserva l’originario allineamento”, non trova preciso riscontro e pertanto non è dato inferire dalla documentazione di causa alcuna violazione della distanza minima di mt. 10 dalle pareti finestrate.
Ad ogni modo, in disparte la non immediatamente evidenziabile natura dell’intervento di nuova costruzione, che invece viene apoditticamente affermata dal Tar, è da rilevare, come sopra rilevato, la mancanza di una previsione normativa che stabilisca, per le zone A, la distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate, la cui violazione non può quindi essere fondatamente contestata nel caso in esame.
Conclusivamente sul punto, in disparte la non condivisione da parte del Collegio delle considerazioni rese dal Tar che finiscono per ridimensionare la rilevanza provvedimentale del silenzio-assenso, va quindi accolto l’appello proposto dal Comune di Genova ove si deduce l’insussistente violazione del d.m. n. 1444/1968 non contemplando la previsione sulla distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate, peraltro non evincibile dagli atti di causa, che pertanto il Tar ha ritenuto erroneamente violata (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 09.08.2021 n. 5830 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADistanze legali, pareti finestrate e balconi.
Devono intendersi ‘pareti finestrate’ tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, che assicurano la possibilità di esercitare la veduta. Di conseguenza anche i balconi contribuiscono a definire ‘finestrata’ una parete, poiché assicurano la possibilità di esercitare la veduta ed è necessario, pertanto, tenerne conto nel calcolo delle distanze tra edifici confinanti (Corte d'Appello di Firenze, Sez. III, sentenza 06.07.2021 n. 1381 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Calcolo della distanza.
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Inoltre, è stato osservato in giurisprudenza che, per “pareti finestrate”, ai sensi dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, devono intendersi, non soltanto le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 06.04.2021 n. 319
- massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
Con il provvedimento oggetto di censura il Comune ha accertato, in autotutela, l’assenza dei presupposti per la formazione del titolo edilizio in relazione alla DIA del 2015 e alle successive varianti e ordinato il ripristino dello stato dei luoghi antecedente all’intervento per la sola porzione di veranda in ampliamento, mediante rimozione della stessa. Ciò sulla scorta del verbale con cui è stato rilevato che, sebbene la violazione delle distanze dai confini sia minimale e non sia, dunque, configurabile una variazione essenziale in relazione a tale profilo, altrettanto non può sostenersi con riferimento alla porzione di veranda in ampliamento, posta a una distanza inferiore ai dieci metri imposti dall’art. V.1 del Piano delle Regole del Comune di Treviglio e dall’art. 9 del D.M. 1444/1968.
Deve essere preliminarmente rigettata l’eccezione in rito correlata alla mancata notificazione del controinteressato da individuarsi nel proprietario dell’immobile rispetto a cui risulta essere stato violato il limite della distanza. La giurisprudenza, infatti, ravvisa il contraddittorio necessario solo nel caso in cui oggetto del controvertere sia la legittimità del titolo rilasciato al controinteressato, non anche nel caso contrario, come quello in esame, in cui il vicino è parte avvantaggiata dal provvedimento censurato, che trova la sua motivazione nella violazione di una norma edilizia solo incidentalmente e indirettamente posta a tutela del confinante, che, dunque, potrebbe intervenire nel giudizio, ma non può essere considerato contraddittore necessario.
Come chiarito dal Consiglio di Stato, nella sentenza n. 5472/2020, che richiama la pronuncia 06.06.2011 n. 3380 “nell’impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall’esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all’amministrazione l’illecito edilizio da altri commesso”. Tale orientamento si fonda sulla considerazione che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.
Ne deriva l’ammissibilità del ricorso in esame.
Passando all’esame del merito della controversia, ragioni di ordine logico impongono di esaminare in via preordinata i motivi di ricorso numeri 2 e 3, i quali revocano in dubbio la legittimità dell’esercizio del potere di autotutela. L’accertamento della sussistenza delle condizioni di legge per poter procedere all’esercizio del potere in questione risulta, infatti, essere logicamente preordinato rispetto all’accertamento della conformità alla legge del risultato cui esso ha condotto.
Fatta tale premessa, il Comune risulta aver disposto la revoca degli effetti delle DIA e della SCIA inoltrate da parte ricorrente sulla scorta di un’asserita violazione di una norma, quella che disciplina la distanza minima tra pareti finestrate, il cui rispetto si impone, prima ancora che nell’interesse della proprietà confinante, per garantire la salubrità delle costruzioni. Tenuto conto di ciò, non può essere ravvisata la lamentata carenza del presupposto che legittima l’esercizio del potere ex art. 21-nonies della legge n. 241/1990 da parte del Comune e nemmeno la dedotta carenza di motivazione, essendo a tal fine sufficiente l’indicazione della norma violata, posta a tutela dell’interesse pubblico.
Anche la terza doglianza non può trovare accoglimento, in quanto il provvedimento censurato è, nella sostanza, rivolto alla rimozione di un abuso edilizio derivante dall’asserita violazione dei limiti di distanza tra pareti finestrate, il che comporta, per inciso, anche la declaratoria dell’illegittimità degli effetti della DIA presentata da parte ricorrente per la realizzazione del manufatto senza garantire il rispetto degli stessi.
Pertanto, considerato che la giurisprudenza è costante nell’affermare che la repressione degli abusi edilizi, previo eventuale annullamento del titolo che ha previsto la realizzazione della costruzione in violazione della legge, può intervenire in qualsiasi momento, non può ritenersi applicabile alla fattispecie il termine di diciotto mesi riconosciuto dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 all’amministrazione per poter procedere all’annullamento in autotutela.
In ogni caso, considerato che la documentazione tecnica prodotta da parte ricorrente non rappresentava la presenza di una parete finestrata prima che fosse depositata la DIA del 09.12.2016, il termine dei diciotto mesi decorrerebbe comunque solo da tale data, coincidente con il momento in cui l’Amministrazione è stata resa edotta della reale situazione dei luoghi e eliminata la non corretta descrizione degli stessi che ha impedito di rilevare un possibile problema di violazione delle distanze. Il termine risulterebbe, pertanto, rispettato.
Esclusa la fondatezza dei vizi correlati alla sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere avversato, si può passare ad esaminare la censura n. 1, avente a oggetto la pretesa violazione della norma regolante la distanza tra pareti finestrate.
A tale proposito il Collegio ritiene di poter preliminarmente convenire con il Comune che, nella fattispecie in questione, la parete posta a confine con il mappale 3866 deve essere qualificata come “finestrata” in relazione alla presenza di vedute nella parte più bassa della stessa. Le aperture, infatti, sono dotate di inferiate e non di grate, per cui l’affaccio risulta agevole e, in ogni caso, per la loro dimensione e l’altezza a cui sono collocate consentono sia l’inspectio, che la prospectio.
Ciò chiarito, secondo parte ricorrente le distanze in questione non sarebbero applicabili al caso di fabbricati disposti ad angolo senza avere pareti contrapposte.
Ciò sembrerebbe supportato dalla formulazione dell’art. V.1 del PdR, il quale sembrerebbe assumere come presupposto il fatto che la distanza minima prescritta riguardi pareti che si fronteggiano.
In realtà, il Consiglio di Stato, considerando la ratio dell’art. 9 del DM 1444/1968, volto ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e, pertanto non eludibile, ha chiarito che “la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (così, Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909)” (cfr. Cons. Stato 7731/2010).
Inoltre, come ricordato nella sentenza del TAR Napoli, n. 2519/2019: <<la medesima giurisprudenza ha altresì osservato che, per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444, “devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV 22.10.2013 n. 5557 citato), e tale principio è stato di recente ribadito anche dalla Suprema Corte di Cassazione che nella sentenza n. 166/2018>>.
Ne discende che legittimamente il Comune ha assoggettato a verifica la distanza tra la nuova veranda e la parete dell’edificio collocato sulla proprietà prospiciente (mappale 3866), da qualificarsi come finestrata.
Conseguentemente, misurate le distanze applicando il criterio della distanza lineare e non radiale, è incontestato che esse siano inferiori al limite di dieci metri imposto dalla legge e dal PdR comunale.
Rimane, dunque, da verificare se la distanza ridotta preesistesse, così come sostenuto da parte ricorrente, rispetto alla ricostruzione dell’edificio.
Secondo il sig. Bo., infatti, lo spigolo del corpo di fabbrica preesistente, demolito e ricostruito, era già posto a distanza di 5,28 metri (o comunque inferiore a 10 metri) dalla parete in questione. Più precisamente, erano presenti delle superfetazioni, poste a distanza inferiore a quella attuale, che sono state demolite e sostituite da una veranda priva di vedute, più bassa rispetto alle precedenti superfetazioni e costruita in modalità diagonale, obliqua e trasversale -non parallelamente, né frontalmente- rispetto all’edificio dei sigg.ri Mo. e Co..
La norma di riferimento, anche in questo caso, è sempre l’art. V.1 del PdR, il quale prevede che, nel caso di sostituzione edilizia, la distanza minima di metri 10 rispetto a pareti finestrate dei fabbricati antistanti (intendendosi come tali le pareti con una o più vedute) debba essere rispettata solo in relazione alle porzioni non comprese nella sagoma dell’edificio preesistente.
La prescrizione, dunque, impone la distanza minima solo in relazione a “porzioni non comprese nella sagoma”, facendo salve le ricostruzioni alle stesse distanze che caratterizzavano la costruzione originaria. Dalla documentazione in atti, però, non è possibile dedurre con certezza se lo spigolo della veranda, da cui è stata misura la distanza dalla parete finestrata dell’immobile collocato sulla proprietà confinante, ricada, ad oggi, all’interno di quello che era il perimetro della sagoma dell’edificio preesistente.
Pertanto, al di là del fatto che la nuova veranda abbia comportato una contenuta variazione in aumento della volumetria e sia stata collocata in una posizione diversa da quella originaria, risulta essenziale, al fine della decisione definitiva, verificare tecnicamente la sussistenza di tale condizione, di cui parte ricorrente non ha fornito adeguata prova.
Conseguentemente, il Comune resistente dovrà provvedere a verificare tale condizioni, producendo, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione o notificazione della presente pronuncia, una relazione circa gli esiti di tale accertamento, corredata di una planimetria che, sovrapponendo lo stato preesistente e quello derivato dalla demolizione e ricostruzione, evidenzi la sagoma dell’edificio prima e dopo l’intervento, con indicazione della distanza minima tra la parete finestrata dell’edificio di proprietà dei sig.ri Mo. e Co. e la parete dell’edificio di proprietà del ricorrente prima e dopo l’intervento di ristrutturazione.
Spese al definitivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda), non definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:
   - lo dichiara ammissibile;
   - lo respinge nella parte in cui tende ad escludere la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela dei titoli edilizi formatisi a seguito della DIA del 2015 e delle successive varianti;
   - quanto alla domanda di annullamento dell’atto impugnato ordina gli incombenti istruttori indicati in motivazione;
   - rinvia al definitivo ogni decisione sulle spese del giudizio;
   - fissa, per l’ulteriore esame della controversia, l’udienza pubblica del 06.10.2021.

EDILIZIA PRIVATA  - l'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile.
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle loro pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento.
Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi. La prescrizione di distanza in questione è assoluta e inderogabile;
   - l'art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l'art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in forza dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, e il giudice è tenuto ad applicare tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima.
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria, costituisce un principio assoluto e inderogabile, che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze, sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, in quanto derivante da una fonte normativa statale sovraordinata, sia infine sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle parti;
   - la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano. Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra;
   - è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra;
   - ai sensi dell'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per "pareti finestrate" devono intendersi non soltanto le pareti munite di "vedute" ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce).
---------------
P
roprio perché la normativa sulle distanze è tesa a prevenire intercapedini, è da ritenere che, nel caso in cui le pareti che si fronteggino abbiano diversa altezza, la distanza è da calcolare “non in relazione allo spazio vuoto esistente al di sopra del lastrico solare dell’edificio”, “ma in relazione alla parete del detto edificio frontistante, se pure più basso, la detta parete in sopraelevazione”.
---------------
La giurisprudenza ha già chiarito che “non sono computabili nel calcolo della distanza fra edifici gli sporti, le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali), le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità; non possono invece essere esclusi dal computo le pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze che, per le particolari dimensioni, sono destinate anche ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso abitativo dell'edificio”.
Tale principio ha trovato recente applicazione proprio con riguardo a “pilastri” che “creano un ingombro coerente a tutto il manufatto”.

---------------

3. È anzitutto fondato il primo motivo di ricorso.
Con quest’ultimo, la ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 9, comma 2, del DM n. 1144 del 1968 e dell’art. 9, comma 4, del PRG vigente, nonché eccesso di potere per travisamento, difetto di istruttoria e illogicità, poiché il permesso di costruire avrebbe assentito l’opera, benché essa non assicurasse il rispetto delle distanze minime prescritte sia dalla normativa statale, sia da quella locale.
In particolare, l’art. 9, comma 2, del DM n. 11444/1968 prescrive, per gli edifici collocati in zona B, come nel caso di specie, una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
Il Tribunale, in linea con la giurisprudenza amministrativa (Tar Veneto, n. 1137 del 2014, proprio in tema di cd piano caso e distanze), osserva che tale distanza minima non può subire deroghe, neppure in forza della disciplina relativa al cd piano casa: la stessa legge regionale n. 21 del 2009 lo afferma all’art. 4, comma 2.
3.1 Va altresì premesso che, nell’individuare i termini di raffronto per calcolare la distanza effettiva, dovranno essere considerati anche i balconi, che, nel caso di specie, hanno una significativa profondità dal lato della nuova palazzina, pari a circa tre metri, come confermato dal CTU. Essi, pertanto, costituiscono ad ogni effetto una componente strutturale dell’edificio, ove si prolunga la vita abitativa, con ciò che ne consegue in ordine alla necessità che sia questo il punto dal quale misurare la distanza (Cass. civ. n. 4834/2019; Cons. Stato, sez. VI. n. 5307/2018).
Tale conclusione varrà anche per ogni elemento strutturale dell’edificio, con particolare riguardo ai pilastri su cui si reggono parti di esso.
E va aggiunto, a tale proposito, che tale principio, in quanto codificato da una norma espressiva della competenza esclusiva statale in tema di ordinamento civile e di quella concorrente a dettare i principi fondamentali del governo del territorio, non può trovare correzioni o integrazioni nella normativa regionale o locale sulle distanze. Quest’ultima, infatti, può, nella sussistenza di rigide condizioni attinenti alla pianificazione, derogare alle distanze del DM n. 1144 del 1968 (ex plurimis, Corte costituzionale, sentenza n. 50 del 2017), ma non certo prescrivere criteri di interpretazione della normativa statale.
Ne consegue che eventuali previsioni del PRG e del regolamento edilizio che dovessero prevedere criteri differenti per il calcolo delle distanze, rispetto alla già affermata rilevanza dei balconi aggettanti e dei pilastri, si applicherebbero solo con riguardo a quelle introdotte dagli strumenti locali, e non a quelle di origine statale.
Nel caso di specie, in particolare, al fine di valutare l’osservanza dell’art. 9 del DM n. 1144 del 1968, non potranno avere spazio gli artt. 9.4 delle NTA e l’art. 165 del regolamento edilizio, quanto al rilievo da assegnare ai balconi, perché dovrà rilevare esclusivamente la norma statale, come ovviamente interpretata dalla giurisdizione.
In particolare, l’art. 9.4 prevede, in conformità alla normativa statale, che la distanza sia calcolata anche tenuto conto di “balconi, scale esterne, pensiline e gronde”, ma aggiunge che “non si considerano ai fini del distacco gli elementi sporgenti quali balconi, scale esterne e pensiline con aggetti inferiori a mt 1,20”.
Per tale ultima parte, la previsione non può essere tenuta in considerazione nel calcolo della distanza di 10 mt indicata dall’art. 9 del DM 1444 del 1968, quando la norma locale, come nel caso di specie, raggiunge balconi che, per natura e profondità, debbano invece essere presi in considerazione, sulla base delle massime di giurisprudenza sopra ricordate.
Gli allegati fotografici, a tale proposito, confermano che, nel caso odierno, i balconi sono rilevanti: non rileva, in senso contrario, che una porzione di essi sia interna alla facciata, sicché a sporgere è l’ultimo tratto, di misura non superiore a mt 1,20: il balcone, apprezzato nella sua integrità costruttiva e funzionale, è con ogni evidenza prolungamento della vita abitativa.
4. Tali principi sono stati reiteratamente affermati dalla giurisprudenza amministrativa, secondo la quale (ex plurimis, Cons. Stato, sez. V, n. 6136 del 2019):
   - l'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, ricadenti, come nella fattispecie, in zona diversa dalla zona A, va rispettato in modo assoluto, trattandosi di norma finalizzata non alla tutela della riservatezza, bensì a impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile (Cass. civ., II, 26.01.2001, n. 1108; Cons. Stato, V, 19.10.1999, n. 1565; Cass. civ., II, ordinanza 03.10.2018, n. 24076).
Conseguentemente, la disposizione va applicata indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle loro pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento (Cass., n. 24076/2017, cit.).
Indi, le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale e astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi (Cass. civ., II, 16.08.1993, n. 8725). La prescrizione di distanza in questione è assoluta e inderogabile (Cass. civ., II, 07.06.1993, n. 6360; 09.05.1987, n. 4285;
   - l'art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha mantenuto in vigore l'art. 41-quinquies, commi 6, 8, 9, della l. n. 1150 del 1942, per cui in forza dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 la distanza minima inderogabile di 10 metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti è quella che tutti i Comuni sono tenuti ad osservare, e il giudice è tenuto ad applicare tale disposizione anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti urbanistici locali, dovendosi essa ritenere automaticamente inserita nel P.R.G. al posto della norma illegittima (Cass. civ., II, 29.05.2006, n. 12741).
La norma, per la sua genesi e per la sua funzione igienico-sanitaria, costituisce un principio assoluto e inderogabile (Cass. civ., II, 26.07.2002, n. 11013), che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (Corte Cost., sentenza n. 232 del 2005), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, in quanto derivante da una fonte normativa statale sovraordinata (Cass. civ., II, 31.10.2006, n. 23495), sia infine sull'autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che non sono nella disponibilità delle parti (Cons. Stato, IV, 12.06.2007, n. 3094);
   - la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento a ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (Cons. Stato, V, 16.02.1979, n. 89). Tale calcolo si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Cass., II, 30.03.2001, n. 4715), indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra (Cass., II, 03.08.1999, n. 8383; Cons. Stato, IV, 05.12.2005, n. 6909; 02.11.2010, n. 7731);
   - è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta: il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestra, indipendentemente dalla circostanza che la parete finestrata si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra (Cons. Stato, IV, 05.12.2005, n. 6909; Cass. Civ., II, 20.06.2011, n. 13547; 28.09.2007, n. 20574);
   - ai sensi dell'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per "pareti finestrate" devono intendersi non soltanto le pareti munite di "vedute" ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce).
5. Il Tribunale, sulla base di queste premesse in diritto, ha perciò disposto CTU, allo scopo di verificare, in particolare, distanza e altezza.
Con riguardo alle distanze, nel supplemento di istruttoria, il CTU ha erroneamente escluso i balconi, in applicazione dell’art. 9.4 delle NTA e dell’art. 165 del regolamento edilizio, stimando che essi non avessero aggetto superiore a mt 1,20.
Si sono già specificate sopra le ragioni per le quali, invece, la distanza andasse calcolata dal punto di massima sporgenza dei balconi.
Adottando tale criterio, torna utile il calcolo delle distanze formulato con la prima CTU, e che, del resto, la seconda CTU ha confermato sul piano fattuale, pur impiegando poi erronei criteri giuridici al fine di concludere per la sussistenza di una distanza maggiore di quella effettiva.
Se ne può concludere per una determinazione della distanza di soli metri 7,85, anziché almeno 10, dai balconi (da intendersi quale parete finestrata ai fini dell’applicazione dell’art. 9 del DM 1444 del 1968: Cass. civ. n. 4834/2019) alla parete dell’edificio antistante della ricorrente.
5.1 Tuttavia, ciò rende verosimile, ma non provato, che il regime delle distanze sia stato violato per tale aspetto.
Infatti, il CTU, dato atto che gli edifici si fronteggiano solo per l’unico piano di quello della ricorrente e per il piano adibito a garage di quello della controinteressata (in questo punto, la distanza è conforme alla legge, in quanto pari a mt. 10,35), ha correttamente reputato di dover valutare la distanza, anche a partire dai piani sopraelevati del nuovo edificio, ma ha errato nell’assumere a punto di raffronto la proiezione verticale (e, dunque, un punto meramente astratto) dell’immobile della ricorrente.
Viceversa, proprio perché la normativa sulle distanze è tesa a prevenire intercapedini, è da ritenere che, nel caso in cui le pareti che si fronteggino abbiano diversa altezza, la distanza è da calcolare “non in relazione allo spazio vuoto esistente al di sopra del lastrico solare dell’edificio”, “ma in relazione alla parete del detto edificio frontistante, se pure più basso, la detta parete in sopraelevazione” (Cass. civ. n. 8383 del 1999).
6. A questo punto, sarebbe possibile un terzo accertamento peritale, per determinare la distanza dai balconi, sulla base di tale criterio.
Tuttavia, in considerazione del fatto che la causa pende dal 2014 e per ragioni di economia processuale, il Tribunale ritiene di potersi pronunciare fin d’ora, posto che l’illegittimità dell’atto impugnato, quanto alle distanze, emerge anche nel raffronto tra le pareti finestrate della ricorrente e quelle della controinteressata, se calcolata a partire dal vano scala A.
Anche a tale proposito, è necessario tenere fermo il calcolo offerto con la prima CTU, che ha determinato la distanza in mt. 8,54, se calcolata dai pilastri strutturali in cemento armato del vano scala A (e, poi, in 8,80 mt con riferimento al cd. tracantone di cui al supplemento di perizia), e in mt. 9.93, se calcolata dalla parete finestrata di tale vano scala.
Va subito precisato che a rilevare, tra le due, è la distanza minima di mt 8,54 (o 8,80/8,90: cfr supplemento di CTU), posto che essa è computata a partire da “pilastri di cemento armato realizzati a chiusura del vano scala A posto a nord-ovest della nuova palazzina” con “altezza di oltre 10 metri ed una larghezza di oltre 60 cm ciascuno”, rappresentando “in modo incontrovertibile degli elementi rilevanti ai fini del computo della distanza” (prima CTU, pag. 8-9).
La giurisprudenza ha già chiarito che “non sono computabili nel calcolo della distanza fra edifici gli sporti, le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali), le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità; non possono invece essere esclusi dal computo le pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze che, per le particolari dimensioni, sono destinate anche ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso abitativo dell'edificio” (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 21/10/2013, n. 5108). Tale principio ha trovato recente applicazione proprio con riguardo a “pilastri” che “creano un ingombro coerente a tutto il manufatto” (Cons. Stato, sez. VI, n. 521 del 2021).
Nel caso di specie, la prima CTU ha perciò correttamente tenuto conto dei “pilastri verticali portanti del nuovo edificio, in cui, in parte, alloggiano anche le scale di accesso ai vari piani”.
6.1 Erronea, viceversa, è stata la decisione del CTU, in occasione del supplemento istruttorio, di mutare del tutto la propria posizione, offrendo, senza peraltro alcuna adeguata motivazione a supporto della nuova conclusione, una indicazione delle distanze compatibili con l’art. 9 del DM 1444 del 1968.
Già l’assertività di tale mutamento di rotta, a fronte della esaustiva motivazione svolta con la prima CTU, rende manifestamente incongruo, e quindi da disattendere in questa sede, il rinnovato giudizio del consulente.
Se, poi, il nuovo calcolo dovesse essere il frutto dell’applicazione dell’art. 9.4 delle NTA e dell’art. 165 del regolamento edilizio, come pare intuibile dal supplemento istruttorio (pag. 7), esso sarebbe comunque da respingere.
Il CTU osserva che la normativa edilizia applicabile nel territorio di Fiumicino esclude dal calcolo delle distanze anche le scale “esterne” sporgenti, che aggettano per meno di mt 1,20.
Tuttavia, tale osservazione, come posto in rilievo dal consulente di parte della ricorrente, appare priva di pertinenza con riguardo al vano scala A, giacché la prima CTU ha già acclarato che si è in presenza di un vano chiuso generatore di cubatura (pag. 18), sicché nessuna “scala esterna” acquisisce rilievo.
Inoltre, vale per ogni elemento sporgente quanto precisato in diritto in ordine alla applicabilità, in tema di distanze minime ex DM 1444 del 1968, della sola normativa statale, come interpretata dalla giurisprudenza, con la conseguenza che né il cd. tracantone (definito come un “ringrosso del muro contenente le tubazioni dei servizi”), né tanto meno i pilastri del vano scala A, come sopra descritti, possono essere esclusi dal calcolo della distanza.
Ed è rimarchevole, ancora una volta, che a tale corretta conclusione il CTU fosse già giunto con la prima consulenza, ove si era escluso di poter attribuire rilievo all’art. 9.4 delle NTA (pag. 16), cosicché non si comprende in base a quali fattori egli abbia poi radicalmente cambiato parere, ciò che costituisce un ulteriore vizio logico del supplemento istruttorio, tale da imporre che esso venga disatteso dal Tribunale per tale parte.
7. Da ultimo, rispondendo ad un quesito del consulente di parte a proposito del vano scala A, il CTU si è poi soffermato sulla presunta abusività dell’immobile della ricorrente, che, a suo tempo, non avrebbe a sua volta rispettato le distanze di legge.
Ove tale precisazione fosse da intendersi nel senso che tale fattore possa incidere sull’osservanza delle distanze da parte del nuovo edificio, essa sarebbe da rigettare, posto che “le disposizioni dettate dal DM n. 1444 del 1968 art. 9 trovano applicazione in relazione alla situazione concreta, a prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti (e) dalla loro eventuale abusività” (Cass. civ. n. 2367 del 2021).
Non ha infatti pregio l’argomento di parte resistente, secondo cui l’inosservanza delle distanze minime sarebbe da attribuire alla ricorrente, che avrebbe edificato senza osservare lo stacco minimo dal confine prescritto dalla normativa locale (metri 3,95, anziché 5.00, come rilevato dal CTU).
La presente controversia verte esclusivamente sulla conformità a legge del permesso di costruire rilasciato alla controinteressata (cfr Cons. Stato, sez. IV, n. 2086 del 2017). In quest’ottica, il Comune (ferma l’attivazione, che non vi è stata, di eventuali poteri di riduzione in pristino, ove ammissibili) non poteva che prendere atto della situazione esistente in loco, in base alla quale l’edificio della ricorrente sorgeva ad una certa distanza dal confine; si trattava, cioè, di valutare sulla base di essa se il nuovo immobile rispettasse o no la distanza minima, ed è tale valutazione che si è dimostrata erronea nella presente causa.
Ed è appena il caso di osservare che l’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, invocato da parte resistente per negare il carattere essenziale della variazione sulla distanza, è del tutto privo di pertinenza, perché regola la fattispecie del tutto diversa degli interventi eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, e non certo la violazione della distanza minima di cui all’art. 9 del DM 1444 del 1968.
7,1 In definitiva, il Tribunale reputa che la prima CTU apporti elementi sufficienti per decidere la causa, quanto ai fatti che essa era tenuta ad accertare, e che questi ultimi non siano inficiati dagli esiti del supplemento dell’istruttoria, da rigettare sia perché manifestamente incongrua, sia perché fondata su un’erronea applicazione della legge.
Non vi è dubbio, perciò, che il permesso di costruire impugnato sia illegittimo, poiché in contrasto con il regime delle distanze minime prescritto dall’art. 9, comma 2, del DM n. 1144 del 1968
(TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 05.03.2021 n. 2763 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: vanno rispettate anche nelle ristrutturazioni?
Se è evidente la violazione delle distanze tra edifici diventa irrilevante la qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia. Ergo l’art. 9 d.m. n. 1444/1968, che riguarda esclusivamente le nuove costruzioni, è inapplicabile (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2021 n. 1867 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
1.1. - La censura, nei suoi diversi profili, va respinta.
In merito all’applicabilità dell’evocato art. 9 D.M. 1444 del 1968 e all’individuazione della nozione di ‘nuova costruzione’, occorre sottolineare come il mero rinvio all’art. 3, lett. e), del d.P.R. 380 del 2001 non appaia dirimente.
La giurisprudenza, sia amministrativa (da ultimo, Cons. Stato, IV, 08.01.2018, n. 72; id., IV, 02.03.2018, n. 1309) che civile (Cass. civ., II, 15.12.2020, n. 28612; id., II, 28.10.2019, n. 27476; id., II, 10.02.2020, n. 3043) ha evidenziato una tendenziale autonomia del concetto in ambito civilistico, rimarcando che, ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici di origine codicistica, la nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera (Cons. Stato, IV, 22.01.2013, n. 354).
Nel caso in esame, anche a volersi unicamente fondare sulla relazione tecnica di parte (che ritiene che nel progetto “vengano riprese, con modifiche sia interne che esterne, le voci già oggetto della concessione ormai scaduta. La maggior parte delle opere previste interessano la copertura con una variazione minima di volume in diminuzione, determinata dalla compensazione tra volumi in aumento e volumi in detrazione. Le opere prevedono modifiche statiche solo nell’orditura del tetto, mentre tutte le strutture portanti dell’edificio non vengono modificate dagli interventi in progetto”), vengono comunque in evidenza interventi sulla volumetria dell’immobile. In particolare, come notato dal TRGA, rileva il sollevamento della falda sul lato nord, dove è prevista la realizzazione di una terrazza, e quello della falda sul lato sud, dove ci sarà l’innalzamento della copertura su una parte del prospetto in sostituzione del precedente abbaino, che era decisamente più ridotto.
In relazione ai singoli elementi progettuali, la violazione delle distanze appare quindi evidente, essendo così conseguentemente irrilevante la vantata qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia.
Va inoltre qui vagliata la circostanza che, nel computo complessivo della volumetria, l’intervento, compensando aumenti e diminuzioni, determina una complessiva riduzione dell’impatto; il che, a giudizio della parte appellante, renderebbe l’intervento non significativo anche dal punto di vista civilistico.
Tuttavia, tale esito appare recessivo di fronte all’esigenza di tutelare le distanze che, come recita il citato art. 9, sono quelle minime e che quindi possono essere violate anche solo puntualmente, atteso che il carattere di nuova costruzione va riscontrato in rapporto ai “caratteri del suo sviluppo volumetrico esterno” (Cass. civile, II, 15.12.2020, n. 28612).
Conclusivamente sul punto, la censura, che si attaglia sulla dimostrazione della natura di ristrutturazione edilizia dell’opera, appare superata dall’esigenza dell’autonoma sussunzione nel concetto di nuova costruzione ai fini dell’applicazione della disciplina delle distanze legali.
In merito alla censura sull’erronea applicazione della stessa disposizione, non essendovi pareti finestrate contrapposte, va condiviso l’approccio del Tribunale, che ha evidenziato come la disposizione regolamentare sia integrata, a livello locale, dall’art. 1, lett. h), delle Norme di attuazione al piano urbanistico comunale di Bolzano rielaborate, come vigenti al momento del provvedimento, che recita:
   “h) Distanza tra edifici: è la distanza minima radiale misurata in proiezione orizzontale tra le pareti più sporgenti degli edifici siti sullo stesso lotto o su lotti finitimi e/o dalla superficie coperta. Tale distanza nei fabbricati ad eccezione di fabbricati accessori preesistenti non può essere inferiore a 10 metri, salvo nel caso di fabbricati con pareti prive di vedute, come da codice civile.”
È palese che la disposizione comunale introduca strumenti più restrittivi di calcolo dell’osservanza delle distanze, utilizzando il criterio della distanza radiale, ossia non solo per gli interventi fronteggianti, ma valevole in ogni caso in cui la nuova costruzione vada ad intaccare lo spazio circostante gli edifici preesistenti, come considerato dalla disposizione comunale. Il che impone di considerare corretta la valutazione svolta dal primo giudice.
Infine, per quanto riguarda l’applicazione del calcolo radiale, questo è espressamente citato dalla normativa comunale applicabile; mentre in relazione alla possibilità che quest’ultima introduca limiti più rigorosi, va ricordato l’insegnamento di Corte cost., 16.06.2005, n. 232 per cui “in materia di distanze tra fabbricati, primo principio, fissato in epoca risalente ma ancora di recente ribadito, è che la distanza minima sia determinata con legge statale, mentre in sede locale, sempre ovviamente nei limiti della ragionevolezza, possono essere fissati limiti maggiori.”
Conclusivamente, il motivo di ricorso deve essere integralmente respinto in tutte le sue sfaccettature.

EDILIZIA PRIVATAQuando va osservata la distanza di dieci metri? La distanza di dieci metri dalle pareti finestrate di preesistenti edifici, prevista dall’art. 9 d.m. n. 1444/1968, va osservata anche quando la nuova costruzione sia fronteggiata da un balcone che aggetta da una parete in sé non frontistante.
L’abuso edilizio di per sé non può incidere negativamente sulla posizione giuridica di chi intende esercitare il diritto di edificare.
La giurisprudenza, infatti, ha avuto modo di chiarire che il diritto di edificare attribuito dalla legge al proprietario dell’area (ovvero a chi ne abbia titolo), qualora non sia legittimamente escluso od impedito dalla norma urbanistica, deve trovare attuazione immediata e piena, tenuto conto che la stessa legge fa salvi soltanto “i diritti” dei terzi, ma non certo le “illiceità edilizie” dei terzi.
Questa conclusione, del resto, è coerente con il diritto vivente secondo cui nel processo amministrativo non è data possibilità di tutela del c.d. interesse illegittimo o emulativo.
La verifica della “distanza minima legale tra costruzioni” va operata nel momento in cui il cittadino legittimamente chiede di poter esercitare il proprio jus aedificandi, mentre l’eventuale successiva sanatoria dell’illecito edilizio non assume rilievo impeditivo, tenuto conto che non appare razionalmente giustificabile come una valutazione posteriore (quella relativa alla sanabilità dell’abuso), inesistente all’atto dello svolgimento del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire ed al momento dell’adozione del relativo provvedimento, possa pregiudicare, con un sostanziale effetto retroattivo, il diritto anteriormente sorto e realizzatosi.
In conclusione, l’abuso edilizio in sé considerato, e cioè quello per cui l’interessato non abbia attestato l’intervenuta sanatoria o l’intervenuto condono al momento in cui occorre valutare la domanda del confinante di edificare sul proprio suolo, non può essere ex se rilevante e idoneo a paralizzare la posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite.
Tale itinerario argomentativo porta ad escludere in tutti i casi, anche con riferimento alla sopraelevazione di un immobile, che il proprietario di un immobile abusivo limitrofo possa dolersene in giudizio.
In altri termini, non potendo la costruzione illecita interferire sul diritto del confinante ad edificare, il proprietario di un’opera abusiva non può ritenersi legittimato ad agire in giudizio avverso il titolo edilizio rilasciato al proprietario del fondo finitimo.
---------------
L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore. L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.
Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a differenti esigenze di tutela.
La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente compressione dell'altrui diritto alla riservatezza.
La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti.
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva.
---------------
In ragione della ratio prima descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra.
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione, rilevato che i balconi della proprietà De Falco insistono su una parete posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà Palma, se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo, è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza.
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione, per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
In proposito, anche di recente, la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune nel provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente (perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
---------------
Dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla parete dei signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della parete della signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che, ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –secondo quanto dedotto dalla parte ed indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15 dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante, con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità, determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto) di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte all’altro, anche per obliquo:
   a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
   b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare le intercapedini dannose.
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
---------------

11. Le questioni oggetto del presente, articolato, giudizio sono sostanzialmente tre:
   a) la legittimazione dei signori De Fa. ad agire in giudizio per contestare il titolo edilizio rilasciato alla signora Na.Pa.;
   b) la realizzazione della costruzione della signora Pa.in assenza o in difformità ai titoli abilitativi in precedenza rilasciati, il che, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), della L.R. Campania n. 19 del 2009, escluderebbe la possibilità della realizzazione, con i benefici del c.d. piano casa, dell’intervento edilizio oggetto del presente giudizio;
   c) il rispetto delle distanze minime legali tra i fabbricati.
11.1. L’appellante principale ha dedotto l’insussistenza della legittimazione all’impugnazione da parte dei signori De Fa., in ragione dell’abusività dei loto titoli edilizi.
L’insussistenza delle condizioni soggettive dell’azione, peraltro, potrebbe e dovrebbe anche essere rilevata d’ufficio dal giudice.
11.1.1. La questione assume evidente rilievo in quanto l’abuso edilizio di per sé non può incidere negativamente sulla posizione giuridica di chi intende esercitare il diritto di edificare.
La giurisprudenza, infatti, ha avuto modo di chiarire che il diritto di edificare attribuito dalla legge al proprietario dell’area (ovvero a chi ne abbia titolo), qualora non sia legittimamente escluso od impedito dalla norma urbanistica, deve trovare attuazione immediata e piena, tenuto conto che la stessa legge fa salvi soltanto “i diritti” dei terzi, ma non certo le “illiceità edilizie” dei terzi (cfr. Cons. Stato, IV, n. 1874 del 2009, richiamata da Cons. Stato, IV, n. 3968 del 2015).
Questa conclusione, del resto, è coerente con il diritto vivente secondo cui nel processo amministrativo non è data possibilità di tutela del c.d. interesse illegittimo o emulativo (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. n. 5 del 2015; n. 9 del 2014).
La verifica della “distanza minima legale tra costruzioni” va operata nel momento in cui il cittadino legittimamente chiede di poter esercitare il proprio jus aedificandi, mentre l’eventuale successiva sanatoria dell’illecito edilizio non assume rilievo impeditivo, tenuto conto che non appare razionalmente giustificabile come una valutazione posteriore (quella relativa alla sanabilità dell’abuso), inesistente all’atto dello svolgimento del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire ed al momento dell’adozione del relativo provvedimento, possa pregiudicare, con un sostanziale effetto retroattivo, il diritto anteriormente sorto e realizzatosi.
In conclusione, l’abuso edilizio in sé considerato, e cioè quello per cui l’interessato non abbia attestato l’intervenuta sanatoria o l’intervenuto condono al momento in cui occorre valutare la domanda del confinante di edificare sul proprio suolo, non può essere ex se rilevante e idoneo a paralizzare la posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite.
Tale itinerario argomentativo porta ad escludere in tutti i casi, anche con riferimento alla sopraelevazione di un immobile, che il proprietario di un immobile abusivo limitrofo possa dolersene in giudizio.
In altri termini, non potendo la costruzione illecita interferire sul diritto del confinante ad edificare, il proprietario di un’opera abusiva non può ritenersi legittimato ad agire in giudizio avverso il titolo edilizio rilasciato al proprietario del fondo finitimo.
11.1.2. Trasponendo tali concetti dal generale al particolare, nella fattispecie in esame, occorre accertare quale sia la situazione edilizia in cui versano gli immobili di proprietà dei signori De Fa. fronteggianti l’immobile della signora Pa. al momento del rilascio a quest’ultimo dal titolo edilizio in contestazione.
L’immobile si divide in tre unità abitative: l’appartamento posto al secondo piano (terzo piano fuori terra), di proprietà Salvatore De Fa.; l’appartamento posto al primo piano (secondo fuori terra), di proprietà Ci. De Fa.; l’appartamento posto al piano terra (primo piano fuori terra), di proprietà Ca. De Fa..
Gli immobili posti al piano terra ed al primo piano di proprietà, rispettivamente, dei signori Ca. De Fa. e Ci. De Fa. sono stati assentiti con concessioni edilizie in sanatoria rilasciate in data 06.05.2004, ormai inoppugnabili.
L’immobile posto al secondo piano, di proprietà del signor Sa. De Fa., invece, è stato assentito da permesso di costruire in sanatoria rilasciato in data 18.07.2019, sicché, al momento del rilascio dei titoli contestati ed al momento della proposizione del ricorso in primo grado, lo stesso risultava abusivo.
Di contro, gli abusi afferenti la realizzazione sui balconi dei tre piani di piccole verande, in quanto non “coprenti” l’intera metratura dei balconi stessi, non assumono rilievo ai fini in discorso.
Infatti, nonostante tali abusi insistano sui balconi da cui occorrerebbe calcolare le distanze, i piccoli manufatti abusivi, per come si evince dalla documentazione fotografica versata in atti ed a prescindere dal fatto che siano stati o meno abusivamente riproposti dopo la loro demolizione, coprono in piccola parte la superficie dei balconi, i quali, quindi, non hanno perso le loro caratteristiche essenziali e la loro destinazione d’uso.
Ne consegue che sussiste la legittimazione a contestare l’intervento edilizio assentito alla signora Pa. atteso che, al momento del rilascio dei titoli edilizi e della proposizione del ricorso in primo grado, risultavano comunque assentiti i primi due piani della proprietà De Fa., sicché potrebbe eventualmente escludersi la legittimazione all’impugnazione da parte del solo signor Sa. De Fa., proprietario dell’unità immobiliare a quel momento ancora abusiva, ma tale circostanza non è idonea ad escludere la complessiva legittimazione alla proposizione del ricorso.
11.2. I signori De Fa., con l’appello proposto in via incidentale, hanno sostenuto che la signora Palma non avrebbe potuto beneficiare del permesso a costruire richiesto, in considerazione della causa di esclusione contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. a), della più volte menzionata L.R. Campania n. 19 del 2009.
11.2.1. Il motivo di doglianza non è persuasivo.
11.2.2. L’art. 3, comma 1, lett. a), della L.R. Campania n. 9 del 2009 prevede che gli interventi edilizi di cui agli articoli 4, 5, 6-bis e 7, non possono essere realizzati su edifici che, al momento della presentazione della denuncia di inizio di attività edilizia o della richiesta di permesso di costruire, risultano realizzati in assenza o in difformità al titolo abilitativo per i quali non sia stata rilasciata concessione in sanatoria.
In proposito, occorre preliminarmente rilevare che l’art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, al primo comma, determina le variazioni essenziali, disponendo che l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni:
   a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
   b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
   c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
   d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito;
   e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
Il secondo comma dello stesso articolo, inoltre, indica che non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Il provvedimento di convalida, come prima indicato, è stato adottato in quanto l’Amministrazione ha qualificato non essenziali, ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, le difformità tra lo stato di progetto dell’originario PdC n. 55 del 2008 e successiva variante e lo stato di fatto di cui al PdC n. 76 del 2016 e, a tal fine, la convalida ha fatto riferimento alle relazioni del 23.03.2018 e del 03.04.2018, riguardanti i sopralluoghi effettuati dal responsabile del procedimento.
In particolare, dal sopralluogo del 30.03.2018, di cui alla relazione del 03.04.2018, è emerso che:
Per quanto riguarda la verifica del piano seminterrato, riportato nei grafici progettuali come ‘area non rilevata’, è stato verificato lo stato dei luoghi rispetto a quanto assentito con il permesso di Costruire n. 55 del 23.10.2008.
In data 30.3.2018 lo stato di fatto presenta una diminuzione della superficie calpestabile e delle difformità di distribuzione interna e aperture esterne rispetto al permesso di costruire n. 55/2008, in particolare è stata ampliata la zona garage ed è stata realizzata a 9,57 m circa dall’ingresso del garage la parete divisoria con il locale deposito con annesso wc.
Il primo piano ed il piano secondo sono realizzati in conformità ai grafici stato di fatto allegati al permesso di costruire n. 76 del 27.12.2016.
Dalla verifica della documentazione agli atti d’ufficio si fa rilevare che lo stato di fatto del piano primo e del piano secondo riportato nei grafici allegato al permesso di costruire n. 76/2016 presentano delle difformità in termini di distribuzione interna e apertura dei vani esterni rispetto a quanto assentito con il permesso di costruire n. 55/2008
”.
Pertanto, il Comune di Volla, ritenuto che il piano seminterrato non ha cambiato destinazione d’uso e che sono state rilevate difformità in termini di distribuzione interna e apertura dei vani esterni, ha qualificato come non essenziali le variazioni.
Tale qualificazione, sulla base della indicata relazione, non appare irragionevole.
Né, i signori De Fa. hanno specificamente contestato l’esito dei sopralluoghi svolti dall’Amministrazione comunale, deducendone il travisamento dei fatti, nemmeno attraverso l’eventuale proposizione di una querela di falso o con gli altri strumenti di tutela previsti, per cui deve ritenersi che non abbiano fornito un adeguato supporto probatorio alla loro prospettazione relativa all’avvenuto cambio di destinazione d’uso del piano seminterrato in abitazione ed alla presenza di altre modifiche in ipotesi essenziali, in misura tale da sovvertire l’istruttoria e la valutazione operata dall’Amministrazione.
11.3. La signora Pa., così come il Comune di Volla nel suo appello incidentale, hanno contestato la statuizione della sentenza impugnata, con cui è stato ritenuto fondato il motivo di impugnativa relativo alla violazione delle norme sulle distanze.
11.3.1. Il giudice di primo grado ha così motivato sul punto:
Orbene, nella fattispecie che occupa il Tribunale evidenzia come dai grafici versati in atti e dalle stesse foto corredanti la relazione di chiarimenti depositata dall’Amministrazione resistente, emerge che il progetto assentito con gli impugnati titoli edilizi preveda la realizzazione di un vano scale di nuova costruzione posto in aderenza al muro di confine con la proprietà dei ricorrenti, nella parte non edificata, il quale risulta posto ad una distanza inferiore ai dieci metri prescritti dalla parete frontistante dell’edificio di proprietà di quest'ultimi, costituita da un prolungamento ad “L” del fabbricato in cui sono inclusi i balconi.
Per quanto sin qui osservato appare evidente che il provvedimento prot. n. 23138 del 31.07.2018, con cui il Comune di Volla, all'esito del procedimento di autotutela avviato con comunicazione prot. n. 10933 del 06.04.2018, ha convalidato il permesso a costruire n. 76 del 27.12.2016 e la successiva SCIA prot. n. 5014 del 13.12.2018 presentata dalla controinteressata, e gli stessi provvedimenti sottostanti tutti ritualmente impugnati dai ricorrenti, sono illegittimi quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta, in quanto tutti fondati sull’erroneo presupposto che il rispetto della distanza di 10 metri imposta dal D.M. 1444 del 1968 è applicabile unicamente alle pareti che si fronteggiano, che il balcone non è riconducibile al concetto di parete finestrata e che la misurazione delle distanze in tale caso deve avvenire in modo lineare e non radiale.
Le suesposte considerazioni risultano decisive -quanto alla realizzazione del vano di prolungamento della precedente scala esterna scoperta- ai fini dell’accoglimento del ricorso per come integrato dai primi motivi aggiunti …
”.
11.3.2. L’art. 9, comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968, n. 1444 prescrive, per i nuovi edifici, in tutti i casi, la distanza minima assoluta di dieci metri tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
L’art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri e che nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore. L’art. 907 c.c. stabilisce che, quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, mentre, se la veduta è obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.
11.3.3. Le distanze legali previste dal regolamento edilizio, a fini pubblicistici, e dal codice civile, a fini privatistici, rispondono a differenti esigenze di tutela.
11.3.3.1. La ratio sottesa alla vigente normativa codicistica sull'apertura e la tutela delle vedute è mutuata dal codice civile del 1865, che aveva predeterminato un contemperamento legale tra gli interessi confliggenti dei proprietari di fondi contigui, nel quadro di un armonico assetto dei rapporti di vicinato.
Il legislatore ha tenuto presente che il conflitto si pone essenzialmente tra l'interesse del proprietario del muro di ricevere luce, aria e amenità all'interno della sua costruzione, anche mediante la possibilità di spaziare con lo sguardo al di fuori di questa, e l'interesse del vicino di impedire che l'esercizio delle facoltà altrui incida sull’esclusività del suo dominio cagionando la lesione o la messa in pericolo della sua sfera di sicurezza e riservatezza.
La normativa compone appunto il contrasto immanente alle reciproche interferenze che derivano dall'uso normale di beni immobili contigui appartenenti a soggetti diversi, conformando il diritto di proprietà in modo da tutelare gli interessi contrapposti.
Infatti, da un lato, si impone a ciascun proprietario di rispettare una determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il fondo confinante (artt. 905 e 906), così garantendo il vicino da sguardi indiscreti; dall'altro lato, si stabilisce che, una volta acquisito il diritto alla veduta, la fruizione di esso non può essere neutralizzata unilateralmente dal confinante, al quale viene inibito di costruire a una distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa (art. 907).
La priorità dell'acquisto del diritto di veduta giustifica la corrispondente compressione dell'altrui diritto alla riservatezza (cfr. sentenza della Corte costituzionale n. 394 del 1999).
11.3.3.2. La ratio della norma sulle distanze contenute nel regolamento edilizio, invece, non è la tutela della privacy, ma la tutela del decoro e della sicurezza di chi occupa gli edifici antistanti, in quanto la norma mira ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per l’igiene e la salute di chi occupa gli edifici antistanti (cfr. Corte Cass. II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834).
Di talché, le distanze fissate dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
La giurisprudenza, infatti, ha chiarito da tempo che la funzione della norma è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un adeguato afflusso di aria e di luce, vale a dire che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione luminosità ed altro, e trattasi di una norma che in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico ad essa sottese ha carattere cogente e tassativo, prevalendo sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva (Cons. Stato, IV, 31.03.2015, n. 1670).
11.3.4. La questione maggiormente problematica che si pone nella fattispecie in esame, quindi, è quella di verificare se debba trovare applicazione l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, come ritengono i signori De Fa., o se non sussistono i presupposti per l’applicazione di tale norma, come sostenuto dal Comune di Volla e dalla signora Na.Pa..
Il Collegio ritiene che la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sussiste, in quanto la fattispecie concreta rientra nella fattispecie astratta prevista dalla norma.
In primo luogo, occorre considerare che, in ragione della ratio prima descritta, è irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma, che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla stessa altezza o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass. Civ., II, ordinanza 19.02.2019, n. 4834 cit.).
Inoltre, ed è ciò che maggiormente rileva ai fini della presente decisione, rilevato che i balconi della proprietà De Falco insistono su una parete posta quasi per intero ad angolo retto rispetto alla parete della proprietà Palma, se è vero che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del regolamento edilizio non si debbono considerare gli sporti di ridotte dimensioni, che abbiano scopo meramente ornamentale o decorativo, è altrettanto vero che devono essere considerati i balconi nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (Cfr. Cass. Civ., 19.09.2016, n. 12828).
In proposito, la giurisprudenza civile ha evidenziato che rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili); costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza (cfr. Cass. Civ., II, 19.09.2016, n. 12828, che richiama Cass. 17242/2010; 12964/2006; 1556/2005).
In altri termini, i balconi devono essere considerati ai fini del rispetto delle distanze legali in considerazione della loro effettiva consistenza e profondità.
D’altra parte, secondo la nozione civilistica di costruzione, i balconi costituiti da solette aggettanti, anche se scoperti ed anche se non corrispondenti a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione, per il quale occorre il rispetto delle distanze tra gli edifici.
Insomma, costituisce orientamento consolidato che, nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (cfr. Cons. Stato, VI, 10.09.2018, n. 5307, che richiama Cons. Stato, V, 13.03.2014, n. 1272 e Cons. Stato, IV, 21.10.2013, n. 5108).
In proposito, anche di recente (cfr. Cass. Civ., ordinanza 19.02.2019, n. 4834), la giurisprudenza ha sottolineato come l’interpretazione della norma non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione regolamentare.
In definitiva, per “pareti finestrate” devono intendersi non solo le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi (sia aggettanti che incassati), finestre di ogni tipo, bastando che sia finestrata anche la sola parete che subisce l’illegittimo avvicinamento.
Pertanto, non può condividersi quanto sostenuto dal Comune di Volla nel provvedimento impugnato, secondo cui un’apertura su di un balcone non costituisce ambiente che possa definirsi finestrato, né quanto prospettato dalla ricorrente, secondo cui, nella fattispecie, non vi sarebbero edifici che si fronteggiano ed i balconi in discorso costituirebbero aggetti addossati unicamente alla parete non frontistante il fondo della resistente (perché le pareti si presentano ad angolo retto l’una rispetto all’altra).
Infatti, dai grafici e dalla documentazione fotografica, risulta che sulla parete dei signori De Fa. posta ad angolo retto rispetto a parte della parete della signora Pa. insiste un primo balcone “addossato” alla parete che, quindi, non rileva ai fini in discorso ed un secondo balcone che, in quanto “aggettante”, determina che la parete dell’immobile De Fa., quantunque ad angolo retto, sia per la profondità della sporgenza del balcone stesso frontistante rispetto all’immobile Pa., vale a dire che, ponendosi dal lato minore della sporgenza in direzione della proprietà confinante, che intercetta i balconi perché prosegue oltre gli stessi, si trova in posizione effettivamente ad essa parallela.
Tale balcone “aggettante” –secondo quanto dedotto dalla parte ed indicato nel grafico e non contestato dalle controparti- dista metri 6,15 dal corpo scala realizzato (o da realizzarsi) dalla signora Pa. ed ha una sua consistenza e profondità, per cui la relativa sporgenza, destinata ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, nel senso che è servente rispetto a tali vani, integra il concetto di parete frontistante, con conseguente applicabilità della norma.
Nel caso di specie, quindi, le pareti devono essere considerate fronteggianti per la sporgenza dei balconi e con riferimento alla profondità degli stessi.
Vale a dire che se i balconi fossero semplicemente “incassati” in una parete non parallela, e cioè se gli stessi non sporgessero rispetto ai muri perimetrali, restando per l’appunto incassati nel corpo dell’edificio, le pareti degli immobili delle parti (in quanto collocate ad angolo retto l’una rispetto all’altra), non potrebbero essere definite frontistanti.
Diversamente, per i balconi cc.dd. aggettanti, che sporgono rispetto ai muri perimetrali, i quali, quando abbiano una apprezzabile profondità ed utilità, determinano, in relazione alla loro sporgenza, la necessità del rispetto della distanza minima legale tra pareti finestrate (anche ad angolo retto) di edifici fronteggiantisi o prospicienti, in quanto essi stessi determinano l’esistenza di una parete finestrata.
In definitiva, in presenza di balconi cc.dd. incassati non si avrebbe la presenza di pareti finestrate, ove le pareti fossero collocate ad angolo retto le une rispetto alle altre; evenienza questa che, nella fattispecie in esame, ricorre per i primi balconi, ma non anche per i secondi.
Rimane fermo, ovviamente, che rispetto a manufatti posti l’uno di fronte all’altro, anche per obliquo (Cass. civ., sez. II, 01.10.2019, n. 24471):
   a) il balcone incassato deve comunque rispettare la distanza minima rispetto ad un’altra parete finestrata posta di fronte ad esso;
   b) nel caso di balconi cc.dd. aggettanti, la parete deve parimenti considerarsi finestrata con la necessità del rispetto della distanza della misura legale computata dalla estremità del balcone.
Le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare le intercapedini dannose (Cass. Civ., sez. II, 25.06.1993, n. 7048).
La distanza con metodo lineare è rappresentata dal minimo distacco delle facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricato che lo fronteggiano; la misurazione deve essere fatta in maniera lineare come se le facciate avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
Nel caso di specie, come detto, tra la parete dell’immobile dei signori De Fa. in cui è inclusa la sporgenza del balcone e la parete del torrino scale vi è una distanza di metri 6,15, per cui la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sussiste.
Ciò è sufficiente ad escludere la fondatezza dei motivi di appello proposti dalla signora Palma e dal Comune di Volla.
11.3.5. Per altro verso, è da escludere però la contestuale violazione dell’art. 907 c.c., in quanto i signori De Fa. non hanno dato prova, neppure presuntiva, di avere acquistato il diritto di avere vedute dirette o oblique sul fondo vicino
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.03.2021 n. 1841 - link a www-giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa distanza di 10 metri nelle nuove costruzioni.
La distanza, nelle nuove costruzioni, di dieci metri dalle pareti finestrate di edifici frontistanti, prevista dall’art. 9 d.m. n. 1444/1968, va osservata quantunque l’edificio prospiciente sia abusivo (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 04.02.2021 n. 2637 -  massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, degli artt. 872 e 873 c.c. e dei principi in tema di distanze tra pareti finestrate, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d'appello ha ritenuto legittimo l'edificio dell'appellante principale sul rilievo che, ai fini del calcolo delle distanze, non bisogna tener conto dei manufatti abusivi.
1.2. Così facendo, infatti, ha osservato il ricorrente, la corte d'appello ha violato sia il principio per cui la distanza di dieci metri tra pareti frontestanti deve essere rispettata anche nel caso in cui nella prima costruzione vi siano abusi edilizi, sia il principio per cui, ai fini dell'applicazione delle distanze tra pareti finestrate, è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta senza che sia necessario che insistano nelle parti in cui le pareti effettivamente si fronteggiano.
1.3. L'applicazione dei predetti principi comporta, ha concluso il ricorrente, che la concessione edilizia che ha autorizzato l'appellante a costruire l'edificio sul confine tra i fondi e a distanza di cinque metri dalla parete finestrata del Lo., è illegittima e deve essere, quindi, disapplicata, come aveva correttamente ritenuto il tribunale.
...
9.1. Il primo motivo, nei limiti che seguono, è fondato, con assorbimento di tutti gli altri.
9.2. Questa Corte, infatti, ha avuto più volte modo di affermare che la natura abusiva della costruzione (preventivamente realizzata) rileva unicamente nei rapporti con l'amministrazione pubblica e non anche ai fini del rispetto delle distanze legali (cfr., sul punto, Cass. n. 21354 del 2017, in motiv.).
In effetti, le norme di cui all'art. 872, comma 2°, c.c. in tema di distanze tra costruzioni nonché quelle che in tale materia sono integrative del codice civile sono le uniche che consentano, in caso di loro violazione nell'ambito dei rapporti interprivatistici, la richiesta, oltre che del risarcimento del danno, anche della riduzione in pristino, a nulla rilevando, per converso, il preteso carattere abusivo della costruzione finitima, il suo insediamento in zona non consentita, la disomogeneità della sua destinazione rispetto a quella (legittimamente) conferita al fabbricato del privato istante in conformità con le disposizioni amministrative in materia e la sua insuscettibilità di sanatoria amministrativa, trattandosi di circostanze che, pur legittimando provvedimenti demolitori o ablativi da parte della pubblica amministrazione e pur essendo astrattamente idonee a fondare una pretesa risarcitoria in capo al presunto danneggiato, non integrano, in alcun modo, gli (indispensabili) estremi della violazione delle norme di cui agli artt. 873 e SS. c.c. (Cass. SU n. 5143 del 1998).
Nello stesso modo, le disposizioni dettate dall'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 trovano applicazione in relazione alla situazione concreta, a prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti, dalla loro eventuale abusività o da altre disposizioni in senso contrario contenute negli strumenti urbanistici (C.d.S. n. 2086 del 2017, in motiv.).
In effetti, in tema di distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi ai rapporti tra privati, deve essere inteso nel senso che il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell'opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perché queste riguardano solo l'aspetto formale dell'attività costruttiva, con la conseguenza che, così come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione edilizia allorquando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l'aver eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sé la violazione di dette prescrizioni e quindi il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni (Cass. n. 7563 del 2006, la quale ha confermato la sentenza di merito che aveva accertato la violazione delle distanze da parte del fabbricato del ricorrente: questi aveva censurato la decisione sostenendo che i resistenti avevano costruito in assenza di concessione ma la S.C. ha affermato, conclusivamente, che una volta che il fabbricato sia stato costruito, anche in assenza di concessione, il secondo frontista, in osservanza del principio della prevenzione, è tenuto a rispettare la distanza legale tra gli edifici, a meno che non abbia acquistato in base ad un titolo valido il corrispondente diritto di servitù; conf., per l'affermazione dello stesso principio, Cass. n. 10173 del 1998; Cass. n. 10875 del 1997; Cass. n. 4372 del 2002; in seguito, Cass. n. 17286 del 2011; Cass. n. 4833 del 2019).
9.3. La sentenza impugnata, lì dove ha ritenuto che "gli edifici abusivi non possono essere tenuti in considerazione nel calcolo delle distanze", potendosi imporre alla erigenda costruzione il rispetto dei dieci metri solo se i corpi in questione sono stati legittimamente realizzati, e che, di conseguenza, nel caso esaminato, a fronte delrabusività delle aperture praticate dal Lo. nella parete antistante il fabbricato della Pe. ", quest'ultima non era tenuta all'osservanza della distanza legale di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti prevista dall'art. 9 del Decreto Ministeriale 1448/1968", non si è, evidentemente, attenuta ai principi esposti.

EDILIZIA PRIVATA: Le norme di edilizia locale.
In tema di distanze tra edifici, laddove le norme di edilizia locale prescrivono per le costruzioni distanze maggiori di quelle previste dal codice civile, fissandole in relazione al confine, le stesse hanno carattere integrativo della disciplina contenuta nel codice civile.
Ne deriva che la violazione di tali distanze dà diritto ad ottenere non solo la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, ma anche quella risarcitoria
(TRIBUNALE di Asti, Sez. I, sentenza 20.10.2020 n. 558 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza di dieci metri tra edifici antistanti.
La disposizione contenuta nell’art. 9 del d.min. n. 1444 del 1968 sulla distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza.
Tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.06.2020 n. 3710 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
8.1.‒ In punto di diritto, le disposizioni sulle distanze legali a cui il Comune avrebbe dovuto far riferimento per accertare la legittimità delle opere erano quelle vigenti al momento della costruzione dell’edificio preesistente, nel 1962.
Va premesso che, secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sentenze 14.09.2017, n. 4337; 23.06.2017, n. 3093; 08.05.2017, n. 2086; 29.02.2016, n. 856), la disposizione contenuta nell’art. 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 sulla distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Tuttavia, la disposizione dell’art. 9, n. 2, D.M. n. 1444 riguarda «nuovi edifici», intendendosi per tali gli edifici «costruiti per la prima volta» e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse
Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che, ai sensi dell’art. 41-quinquies, della legge 17.08.1942 n. 1150, «i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi» (quelli di cui al successivo D.M. n. 1444/1968), sono imposti «ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti». Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la «nuova» pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica). Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso art. 9, per le zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che le distanze «non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti».
Difatti, il discrimen in tema di distanze, nella ratio dell'art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe che da un lato, l'immobile de quo non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non arretrando rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del decreto ministeriale n. 1444 del 1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all'ultimo comma dello stesso art. 9, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio plano volumetrico. Anzi, la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato, e cioè che le norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici sull'esistente.
A ciò aggiungasi che il singolo arretramento imposto (per effetto di una non coerente applicazione dell'art. 9), produrrebbe esso stesso non solo un disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus estetico), ma anche la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che invece l’art. 9 intende perseguire.
In definitiva, la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopra elevazione) “per la prima volta” (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione.

EDILIZIA PRIVATA: Violazione delle distanze tra gli edifici.
Accertata la violazione delle distanze tra edifici, in luogo della demolizione totale di un manufatto è da preferire, laddove possibile, la soluzione della modificazione dello stesso tale da eliminarne i vizi, nell’ottica del rispetto prioritario della legge ma anche del contemperamento delle esigenze di entrambe le parti (TRIBUNALE di Livorno, sentenza 10.06.2020 n. 413 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Azione per violazione delle distanze tra edifici e onere probatorio.
In tema di violazione delle distanze tra edifici l’attore deve dimostrare oltre alla violazione della distanza secondo i regolamenti locali anche che il titolare dell’azione aveva acquistato anteriormente l’immobile e con esso il diritto alla veduta (nel caso di specie, il ricorrente aveva fatto un vago cenno alla presunta violazione dei diritti di affaccio e di veduta ma nel corso dell’istruttoria l’attenzione era stata focalizzata solo sulla presunta violazione delle distanze legali tra costruzioni che non era stata provata) (TRIBUNALE di Grosseto, sentenza 28.03.2020 n. 291 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Violazione distanze tra edifici: il risarcimento del danno.
Il risarcimento del danno conseguente alla violazione delle distanze tra edifici è in re ipsa e non è necessario provarlo. (Nel caso di specie si trattava di una veranda che ampliava ed estendeva la consistenza del fabbricato) (TRIBUNALE di Grosseto, sentenza 21.03.2020 n. 272 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: discipline applicabili e limiti di derogabilità.
In tema di distanze tra edifici le norme attinenti al piano regolatore generale e dalle norme tecniche di attuazione possono essere invocate seppure abbiano natura integrativa a quanto disposto dal codice civile mentre le disposizioni previste dall’art. 9 D.M. 1444/1968 possono essere derogate solo dalla legge (nel caso di specie, si trattava di un intervento di recupero di un sottotetto ove non erano stati rispettati i limiti previsti per le distanze tra le costruzioni ex art. 9 D.M. 1444/1968) (TRIBUNALE di Pavia, Sez. III, sentenza 12.03.2020 n. 365 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici ed elementi accessori.
Nelle distanze tra edifici, non possono considerarsi i montanti di una tettoia/pergolato in quanto rientrano nella categoria degli sporti e non computabili ai fini delle distanze. Trattasi di elementi con funzione accessoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.01.2020 n. 117 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
3. Anche il secondo motivo è infondato.
In merito, assorbite le questioni relative alla qualificazione della tettoia/pergolato come costruzione, deve ritenersi che i ricorrenti non abbiano dato sufficiente prova delle violazione delle distanze.
Come chiarito dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2013 n. 5557) la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati rispetto ai quali si denuncia la violazione delle distanze e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela. E’ chiaro quindi che occorre considerare come punto di riferimento, secondo quanto correttamente affermato dal Comune, la linea esterna della parete ideale della tettoia/pergolato (interna al terrazzo) e non il limite esterno del terrazzo stesso, trattandosi di verificare le distanze dalla tettoia/pergolato e non dal terrazzo.
Né a tal fine possono valere i montanti della tettoia/pergolato in quanto essi rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, trattandosi di elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili) (in tal senso Corte di Cassazione, Sez. II civile, 19.01.2018 n. 1365).
Va poi considerato che, se è pur vero che il processo amministrativo secondo il tradizionale modello impugnatorio è retto, dal punto di vista istruttorio, dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, ciò non può essere inteso nel senso che la parte ricorrente, la quale si dolga di un atto dell’Autorità, possa limitarsi alla mera contestazione dei presupposti di fatto e di diritto sui quali si è radicata l’azione amministrativa e attendere che sia il giudice ad acquisire il materiale probatorio necessario al giudizio, dovendo essa, invece, offrire –a sostegno della pretesa azionata in giudizio– adeguati riscontri probatori quantomeno rispetto agli elementi dei quali ha una disponibilità pressoché piena (v., tra le altre, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 02/07/2018 n. 4375).
Spettava dunque ai ricorrenti fornire elementi di prova univoci circa l’effettiva violazione della distanza di dieci metri, per essere in realtà la doglianza non assistita da dati obiettivi idonei a superare la contestazione delle controparti, proprio sotto il profilo della misurazione puntuale del distacco tra i manufatti in esame.
E analoga carenza probatoria si riscontra anche con riferimento alla questione della volumetria residua che il lotto può esprimere. Infatti si adduce genericamente un difetto di istruttoria, quando invece sarebbe stato necessario allegare quanto meno un principio di prova circa l’ipotizzata violazione dei relativi parametri di zona.

EDILIZIA PRIVATA: Fabbricati antistanti.
Ai fini dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, due fabbricati, per essere antistanti, non devono necessariamente essere paralleli, ma possono anche fronteggiarsi con andamento obliquo, purché tra le facciate dei due edifici sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento.
Ne consegue che non danno luogo a pareti antistanti gli edifici posti ad angolo retto, né quelli in cui sono gli spigoli opposti a potersi toccare se prolungati idealmente uno verso l’altro
(
Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza 01.10.2019 n. 24471 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Prescrizione regolamentare di una distanza tra fabbricati maggiore.
Il principio della prevenzione si applica anche nell’ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella ex art. 873 c.c. e tuttavia non imponga una distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare si estende all’intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c. (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 09.09.2019 n. 22447 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
ritenuto che con il primo motivo la ricorrente denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 35 e 36 del regolamento edilizio del Comune di Cassano Jonío e delle norme tecniche di attuazione del P.R.G., in relazione agli artt. 872 e 873, cod. civ. e all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., assumendo che:
   - la sopraelevazione distava dal confine 3,35 m. e l'art. 46 del regolamento locale fissava «la distanza delle costruzioni dal confini in base alla distanza minima di metri 10 che deve intercorrere fra le pareti finestrate di fabbricati antistanti», con la conseguenza che «la distanza minima delle costruzioni dai confini di proprietà non può essere inferiore a 5 metri», non potendo operare il principio della prevenzione, pur ove «i regolamenti edilizi prevedano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prescritta dal codice civile senza un riferimento esplicito al confine»;
ritenuto che con il secondo motivo la Ip. prospetta violazione dell'art. 112, cod. proc. civ., con conseguente nullità «della sentenza o del procedimento», in relazione all'art. 360, n. 4, cod. proc. civ., assumendo che:
   - la Ip. aveva chiesto la rimessione in pristino, anche tenendo conto del fatto che la controparte aveva violato il divieto di costruire a distanza inferiore ai 5 metri dal confine nascente da privata pattuizione (atti pubblici del 12/11/1980 e del 28/10/1976) e la Corte locale aveva omesso di pronunciarsi sul punto;
considerato che il primo motivo è manifestamente destituito di giuridico fondamento per le ragioni di cui appresso:
   - non è dubbio che il regolamento locale, come riporta la sentenza, stabiliva distanza minima tra fabbricati, nulla prevedendo con riferimento alla distanza dal confine;
   - poiché i due fabbricati frontistanti risultavano posti alla distanza di m. 15,60 la norma regolamentare risultava essere stata rispettata;
   - devesi, infatti, ribadire che il principio della prevenzione si applica anche nell'ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella ex art. 873 c.c. e tuttavia non imponga (come nel caso al vaglio) una distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare si estende all'intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c. (S.U., n. 10318, 19/05/2016, Rv. 639677);

EDILIZIA PRIVATADistanza minima di 10 metri dalle pareti finestrate.
In tema di distanze, la distanza minima fissata dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 di 10 mt. dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione, luminosità ed altro.
E trattasi certamente di una norma che, in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico, innanzi indicate, ha carattere cogente e tassativo, prevalendo anche sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva
(Corte d'Appello di Catania, Sez. II, sentenza 08.06.2019 n. 1326 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATALa distanza di dieci metri sussistente tra edifici antistanti: a cosa si riferisce?
La distanza di dieci metri, sussistente tra edifici antistanti, si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione; inoltre, la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate, non soltanto a quella principale (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 10.05.2019 n. 2519 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
Ciò posto, osserva il Collegio che lo spiegato ricorso è infondato nel merito e va pertanto respinto.
Ed invero, va evidenziato come l’impugnato diniego si fondi sulla circostanza che la prevista sopraelevazione del locale garage "violerebbe la prescrizione relativa alla distanza dai fabbricati imposta dall'art. 28 delle vigenti norme di attuazione del P.R.G. che peraltro richiama il disposto dell'art. 9 del D.M 02.04.1968 n. 1444"; ciò in quanto con la prevista sopraelevazione del solaio di copertura a quota + 1,5 mt., e cioè in corrispondenza del piano rialzato dell'abitazione retrostante di proprietà del ricorrente, quest’ultimo si troverebbe di fatto agganciato in prosecuzione di un preesistente balcone del locale cucina del ricorrente, trasformandolo in un ampio terrazzo, a confine con la proprietà aliena, come del resto inequivocabilmente dimostrato dalla prevista costruzione anche di un torrino scale per raggiungere la sommità del garage stesso, il tutto in violazione delle distanze minime previste dall’art 28 delle N.T.A -che prevede, per le nuove costruzioni, una distanza non inferiore a m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti-, risultando invece, nel caso di specie, il nuovo ampio balcone così di fatto realizzato ad una distanza di mt. 4,70 dal retrostante preesistente immobile finestrato in ditta Ma..
Orbene, la condivisibile giurisprudenza amministrativa ha da tempo osservato che “la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti si riferisce a tutte le pareti finestrate, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra. Si rammenta in particolare, a tale proposito che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, D.M. 02.04.1968, n. 1444, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela.
Gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche a estendere e ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo
” ( cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909, Consiglio di Stato, sez. IV 22.10.2013 n. 5557).
La medesima giurisprudenza ha altresì osservato che, per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 D.M. 02.04.1968, n. 1444, “devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (Corte d'Appello, Catania, 22.11.2003; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, Torino, 10.10.2008 n. 2565; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 07.06.2011, n. 1419)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV 22.10.2013 n. 5557 citato), e tale principio è stato di recente ribadito anche dalla Suprema Corte di Cassazione che nella sentenza n. 166/2018 ha espressamente affermato che "in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'art. 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poichè il D.M. 02.04.1968, art. 9, -applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla Legge urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla L. n. 765 del 1967- stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (in senso sostanzialmente conforme si veda anche Cass. n. 23553/2013; Cass. n. 17089/2006).

EDILIZIA PRIVATA: Disciplina delle distanze tra edifici.
Qualora vi siano edifici che si fronteggiano, il rispetto degli allineamenti è condizionato della disciplina delle distanze tra edifici, prevista dal D.M. n. 1444/1968, e ciò a prescindere dallo stato di urbanizzazione dell’area, dovendo peraltro essere osservate anche le norme sugli allineamenti verticali (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.05.2019 n. 3003 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
10.1. La Sezione ritiene decisive, nel senso del rigetto dell’appello, le seguenti considerazioni:
   a) in data 28.11.2016, il Comune di Campobasso ha emanato la comunicazione prot. n. 40133, concernente “provvedimento per l’annullamento d’ufficio in autotutela del silenzio-assenso formatosi sull’istanza edilizia prot. n. 4915 del 17.02.2015, dichiarato con sentenza del Tar Molise n. 340/2016, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990”;
   b) l’amministrazione comunale ha motivato la decisione di ritiro in autotutela, sulla base delle seguenti considerazioni: assenza dell’asseverazione del progettista abilitato, di cui all’art. 20, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 e s.m.i.; assenza dei pareri dei Beni ambientali della Regione Molise e della Soprintendenza, richiesti dalla delibera di consiglio comunale n. 2 del 12.02.2010, avente ad oggetto legge regionale n. 30 dell’11.12.2009 – cd. legge sul Piano casa; violazione e falsa applicazione della predetta legge regionale in relazione alla disciplina sulle distanze legali; difformità del progetto alle vigenti norme urbanistico-edilizie, con particolare riguardo ai profili dell’inosservanza degli allineamenti verticali; all’inosservanza delle disposizioni di cui alla delibera c.c. n. 33/2010 e dell’art. 22 della l.r. n. 33/1999; all’inosservanza dell’art. 9 del DM 1444/1968 quanto alle distanze tra i fabbricati; all’assenza della titolarità sull’unità immobiliare censita in catasto al foglio 119, part. 126, sub. 2; all’assenza degli elaborati di cui all’art. 3, comma 1 della legge regionale n. 36/2002.
   c) L’intervento edilizio programmato non si limita alla demolizione e alla ricostruzione dell’esistente, bensì alla realizzazione di un corpo di fabbrica diverso per forma e per sagoma, mediante sopraelevazione (dagli originari due piani si passa a nove piani, per un’altezza di circa 26 metri), aumento di volume e di superficie (da circa mq 1.000 si passa a circa mq 9.000) e mutamento della destinazione d’uso (da cinema teatro a residenza e locali commerciali).
   d) Tali caratteristiche determinano l’assoggettamento dell’intervento al regime delle distanze minime tra i fabbricati, situati all’interno delle zone territoriali omogenee, stabilite dall’art. 9, comma 2, del D.M. 1444/1968, per il quale “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
   f) L’indirizzo ermeneutico del Consiglio di Stato, è costante nell’affermare che:
      f.1) la disposizione contenuta nell'articolo 9 cit. ha carattere inderogabile, poiché si tratta di una norma imperativa, emanata in applicazione dell'art. 41-quinquies della l. 07.08.1942 n. 1150, la quale predetermina in via generale e astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece disposta dalla disciplina, anche in tema di distanze, del codice civile (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4337 del 14.09.2017);
      f.2) il dovere di rispettare siffatte distanze sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture tra le due pareti fronti stanti e, ai fini dell'operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate; inoltre, la disposizione è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti, in ragione della sua finalità di tutela della salubrità, ed al tale riguardo è esclusa ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l'esistenza in concreto di intercapedini e di condizioni di pregiudizio alla salubrità dei luoghi, stante la sua portata generale, astratta e inderogabile (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 3522 del 04.08.2016);
      f.3) l’art. 9, comma 2, cit. riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali, gli edifici (o parti o sopraelevazioni di essi) “costruiti per la prima volta”, e non già gli edifici preesistenti (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4337 del 14.09.2017);
      f.4) dall’ambito applicativo della norma, va esclusa la fattispecie (non sussistente nel caso all’esame, attesa l’imponente sopraelevazione) della mera ricostruzione dell’immobile demolito, atteso che –altrimenti- si otterrebbe:
a) la perdita di volume dell’immobile, non potendo –il medesimo immobile- che essere ricostruito, se non arretrato, rispetto all'allineamento preesistente;
b) il disallineamento del fabbricato ricostruito rispetto agli altri immobili preesistenti, con un evidente vulnus estetico e realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed intercapedini nocivi per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che invece l'articolo 9 intende perseguire (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 4337 del 14.09.2017);
   g) i principi di diritto enucleati dall’Adunanza Plenaria n. 8 del 2017 (bilanciamento tra l’interesse pubblico e privato e tutela del legittimo affidamento) riguardano il caso specifico in cui le opere siano state realizzate e occorra, pertanto, dare luogo ad un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra l’interesse pubblico sostanziale al ristabilimento della legalità violata e l’interesse privato alla conservazione del bene. Nel caso de quo, attesa la mancata realizzazione delle opere, la natura imperativa ed inderogabile della disciplina edilizia in materia di distanze (il DM 1444 del 1968 è stato emanato in attuazione della legge n. 1150 del 1942) e la pronuncia di incostituzionalità della Legge regionale che consentiva di derogare a tale disciplina, non può darsi luogo ad automatica applicazione di siffatti principi esegetici;
   h) in ogni caso, anche laddove vi si volesse fare richiamo, il rispetto dei parametri edilizi normativi evidenzia, di per sé, la natura degli interessi pubblici che in concreto si assumono pregiudicati dall’intervento in contestazione, nonché la loro prevalenza rispetto agli interessi privati antagonisti, in ragione della loro rilevanza costituzionale e delle inderogabili finalità di interesse generale che sono chiamate a presidiare;
   i) non può dirsi radicato, inoltre, alcun ragionevole affidamento del privato in ordine alla conservazione del titolo, atteso che:
1) l’Amministrazione comunale si è sempre attivata, richiedendo alla parte privata le dovute integrazioni documentali volte a chiarire la reale portata dell’intervento programmato;
2) l’Amministrazione ha emanato un espresso provvedimento di diniego, perché in contrasto con la disciplina edilizia della zona;
3) è intercorso un brevissimo lasso di tempo –poco più di due mesi– tra il deposito (in data 17.08.2016) della sentenza del Tar Molise, dichiarativa dell’intervenuta formazione del silenzio assenso, e l’avvio (in data 31.10.2016), del procedimento di autotutela per la rimozione del titolo medesimo;
4) in ogni caso, è ragionevole, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, anche il lasso di tempo intercorso tra la prospettata formazione del silenzio assenso (04.07.2015) e la comunicazione di avvio del procedimento di autotutela (31.10.2016);
   l) la Corte costituzionale, con la sentenza n. 185 del 20.07.2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della L.R. 30/2009 che, nella originaria formulazione, prevedeva la possibilità di derogare ai limiti di distanza tra fabbricati di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968. L’esercizio del potere di annullamento officioso, da parte del Comune di Campobasso, non rinviene preclusioni di sorta, in considerazione del fatto che non si è prodotto alcun effetto intangibile o irreversibile (è mancato un giudicato sulla legittimità del titolo edilizio);
   m) il progetto edilizio in questione non può beneficiare della deroga contenuta nell'ultimo comma dell'articolo 9 cit. (“Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”), perché, per un verso, manca il piano attuativo di iniziativa pubblica o privata e, per un altro verso, l’intervento riguardo un solo fabbricato e non “gruppi di edifici”;
   n) la deliberazione n. 2/2010, in attuazione del piano casa di cui alla legge regionale n. 30/2009, non equivale all’adozione e all’approvazione del piano particolareggiato di esecuzione, secondo quanto previsto dall’art. 13, della legge n. 1150 del 1942;
   o) il rispetto degli allineamenti, in presenza di edifici che si fronteggiano, resta comunque condizionato al rispetto della disciplina delle distanze tra edifici di cui al DM 1444/1968, a prescindere dallo stato di urbanizzazione dell’area. Devono, inoltre, essere osservate le norme sugli allineamenti verticali;
   p) non è ravvisabile lo sviamento di potere rispetto alla funzione tipica: il provvedimento di autotutela è stato emanato sul presupposto della violazione di una norma inderogabile di natura imperativa (il DM 1444 del 1968, in attuazione della legge delega n. 1150 del 1942), non in ragione del vincolo culturale (vincolo, peraltro, annullato in via giurisdizionale dalla sentenza non definitiva della Sezione n. 6166 del 2017).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: il principio della prevenzione.
In tema di distanze tra edifici, il principio della prevenzione è escluso solo in presenza di una norma del regolamento edilizio comunale che prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine. Ne consegue che, in assenza di una siffatta previsione, deve trovare applicazione il principio della prevenzione in base al principio della prevenzione il proprietario che costruisce per primo condiziona la scelta del vicino che voglia a sua volta costruire (Corte d'Appello di Catania, Sez. II, sentenza 11.04.2019 n. 842 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il calcolo delle distanze tra edifici.
Ai fini del calcolo delle distanze tra edifici assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi carattere della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che si tratti di sporgenze e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all’interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell’igiene (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 02.04.2019 n. 485 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
18.- Al riguardo, il Tribunale ritiene che nel calcolo delle distanze non possano non prendersi in considerazione le sporgenze. Queste ultime, tenuto conto della loro apprezzabile consistenza (larghezza di 2 mt) possono considerarsi come ampliamento dell'edificio in superficie e volume.
19.- Ai fini del computo delle distanze assumono, invero, rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene.
20.- Per cui, l’art. 9 delle NTA, laddove disciplina la distanza minima dal confine deve essere letta nel senso più conforme alla nozione di costruzione stabilita dalla legge statale (ex art. 873 cc e dm 1444/1968), che impone di tenere conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato, qualora queste presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia (Cfr., Cassazione civile sez. II, 29/01/2018, n. 2093).
21.- In realtà, l'art. 9 delle NTA del Piano particolareggiato del Comune di Gravina non introduce un criterio di calcolo delle distanze diverso da quello prescritto dalla legislazione statale, posto che quando impone i limiti di distacco dal confine, si riferisce -non escludendoli espressamente- anche ai balconi che fanno parte di tali costruzioni.
22.- Né ad una diversa conclusione può pervenirsi applicando –come suggerisce la difesa della controinteressata- le modalità di computo delle distanze minime tra i fabbricati, indicate dall’art. 9 delle NTA come “la lunghezza del segmento intercorrente tra le fronti di edifici antistanti, effettuata perpendicolarmente alle pareti e sul piano orizzontale, escludendo gli aggetti ed i balconi totalmente aperti”.
23.- Il Collegio, infatti, ritiene che, anche in sede di computo minimo delle distanze tra fabbricati, l’esclusione degli aggetti e dei balconi aperti vada riferito esclusivamente a quelli di modeste dimensioni o con funzione decorativa, pena la violazione della disciplina statale di riferimento come costantemente interpretata dal giudice amministrativo ed ordinario.
24.- Difatti, le disposizioni del D.M. 02.04.1968, n. 1444, art. 9, comma 2, sulla distanza tra i fabbricati sono inderogabili e prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali, evidentemente, si sostituiscono per inserzione automatica, con immediata operatività nei rapporti tra privati in virtù della natura integrativa del regolamento comunale rispetto all’art. 873 cc (cfr. Cass. sez. un. 07.07.2011, n. 14953; Cass. 26.07.2016, n. 15458).
25.- Del resto, la stessa giurisprudenza citata dalla controinteressata, limita, in presenza di una norma autorizzativa di piano, il mancato computo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze, alla condizione che si tratti di strutture architettoniche (sporti e balconi) estranee al volume utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2016, 5552), situazione, evidentemente, del tutto diversa dal caso in esame.
26.- Al riguardo, il Collegio ritiene “che rientrino nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili, mentre costituiscono corpi di fabbrica, computabili nelle distanze fra costruzioni, le sporgenze di particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza” (TAR Genova, sez. I, 21/11/2013, n. 1406).
27.- E ciò anche nella considerazione che i balconi, laddove privi di carattere ornamentale, non possono in ogni caso integrare “volume tecnico”, che, in quanto non computabile nella volumetria della costruzione sarebbe irrilevante ai fini del calcolo delle distanze legali (Consiglio di Stato sez. VI, 10/09/2018, n. 5307 Consiglio di Stato sez. V, 13/03/2014, n. 1272).
28- Sotto altro aspetto, contrariamente a quanto ritenuto dalla società controinteressata, non trova integrale applicazione il principio della c.d. prevenzione temporale (art. 873 cc), secondo cui il proprietario che costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle altre costruzioni sui fondi vicini.
29.- Il principio della prevenzione, infatti, non è applicabile quando l'obbligo di osservare un determinato distacco dal confine sia dettato, come nel caso in esame, da regolamenti comunali in tema di edilizia e di urbanistica, con lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari confinanti l’obbligo di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, avuto riguardo al carattere indiscutibilmente cogente di tali fonti normative, da intendersi preordinate alla tutela, oltre che di privati diritti soggettivi, di interessi generali. (Cassazione civile sez. II, 21/02/2019, n. 5146).
30.- Del resto, l’asserita operatività del principio della prevenzione renderebbe del tutto pleonastica la previsione della deroga concordata della distanza minima dal confine, che invece l’atto regolamentare ha previsto come unica alternativa alla distanza “legale” (art. 9 NTA), e con finalità del tutto diverse dalla prevenzione essendo diretto l’accordo ad assicurare tra i confinanti “il rispetto della distanza totale prescritta tra i fabbricati”.
31.- Pertanto, e, in assenza di una costruzione in aderenza, la controinteressata era tenuta al rispetto della distanza minima di 5 mt dal confine prevista dalle disposizioni delle NTA del Piano particolareggiato, al riguardo imprescindibilmente vincolanti, in mancanza di diverso accordo tra le parti.
32.- Alla luce delle considerazioni che precedono, ed assorbite le restanti censure, il ricorso deve essere accolto.

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici: regolamento edilizio comunale.
In tema di distanze tra edifici, il principio della prevenzione è escluso solo in presenza di una norma del regolamento edilizio comunale che prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine, con lo scopo di ripartire equamente tra i proprietari confinanti l’obbligo di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni.
Ne consegue che, in assenza di una siffatta previsione, deve trovare applicazione il principio della prevenzione, potendo il prevenuto costruire in aderenza alla fabbrica realizzata per prima, se questa sia stata posta sul confine o a distanza inferiore alla metà del prescritto distacco tra fabbricati (nella specie, in applicazione del richiamato principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte di appello che aveva ritenuto che l’indicazione di un distacco minimo tra fabbricati da parte di un regolamento edilizio comunale escludesse la facoltà, in capo ai proprietari dei fondi confinanti, di costruire in prevenzione, essendo implicito in quella disciplina il richiamo alla distanza da mantenere rispetto ai confini)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 21.02.2019 n. 5146 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
1. Il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 873, 875 c.c. e 57 del regolamento edilizio comunale, nonché l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c., lamentando che la Corte abbia ritenuto che qualora lo strumento locale preveda una distacco assoluto tra fabbricati, non possa operare la facoltà di costruire in prevenzione, essendo implicito il richiamo ai confini, non rilevando che detto regolamento disciplinava la distanza dal confine, consentendo all'amministrazione di concedere deroghe ai sede di rilascio delle concessioni, così come era accaduto nel caso di specie; che in ogni caso, la pronuncia aveva erroneamente escluso l'operatività del principio della prevenzione.
Il motivo è fondato nei termini che seguono.
I ricorrenti hanno realizzato parte del loro fabbricato sulla part. 230, a confine con le partt. 220 e 396, inedificate, e della part. 229 su cui insisteva un preesistente manufatto.
Per tale parte la nuova costruzione è stato ritenuta illegittima poiché posto a distanza inferiore a mt. 5 dal confine (inedificato), avendo la Corte distrettuale escluso il criterio della prevenzione in virtù della previsione dello strumento urbanistico locale che imponeva un distacco minimo tra fabbricati.
Tale assunto non può essere condiviso.
Questa Corte, con la sentenza a sezioni unite n. 11489/2002 ha precisato che il principio della prevenzione è escluso "solo in presenza di una norma regolamentare che prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine", sussistendo in tal caso l'esigenza di "un'equa ripartizione tra proprietari confinanti dell'onere di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in assenza di una siffatta prescrizione, deve trovare applicazione il principio della prevenzione, potendo il prevenuto costruire in aderenza alla fabbrica costruita per prima, se questa sia stata posta sul confine od a distanza inferiore alla metà del prescritto distacco tra fabbricati".
Più di recente, componendo un contrasto tra le sezioni semplici, le Sezioni unite di questa Corte hanno ribadito che il principio della prevenzione si applica anche nell'ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella del codice senza imporre una distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare si estende all'intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c. (Cass. s.u. 10318/2016; Cass. 24714/2017; Cass. 15298/2016).
La sentenza impugnata, avendo -per contro- ritenuto che la costruzione dei ricorrenti dovesse arretrare fino al rispetto di mt. 5 dal confine con le partt. 396 e 220 (all'epoca inedificate) nonché rispetto alla part. 229 (su cui preesisteva una costruzione del resistente), è dunque incorsa nella violazione denunciata, poiché, rispetto al confine inedificato, i ricorrenti potevano edificare sul confine avvalendosi del criterio della prevenzione, mentre, rispetto alla part. 229, la distanza andava calcolata tra i fabbricati, conformemente alle previsioni delle norme locali, senza valutare la legittimità della nuova opera rispetto al confine stesso.

EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza.
In tema di distanze legali, sono da ritenere integrative del codice civile le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza e che regolino, con qualsiasi criterio o modalità, la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela d’interessi generali urbanistici, disciplinano solo l’altezza in sé degli edifici, senza nessuna relazione con le distanze intercorrenti tra gli stessi, proteggono, nell’ambito degli interessi privati, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini. Ne consegue che, nel primo caso, sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, nel secondo, invece, è ammessa unicamente la tutela risarcitoria (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 21.02.2019 n. 5142 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
Con il secondo motivo di ricorso si censura la violazione dell'art. 112 c.p.c. nonché la violazione e falsa applicazione dell'art. 872 c.c. per non avere il Tribunale accolto la domanda risarcitoria, in luogo di quella ripristinatoria, non potendo ad avviso della ricorrente darsi luogo alla demolizione in ipotesi di violazione delle norme integrative di quelle del codice civile.
Il motivo è infondato.
Secondo il consolidato indirizzo di Questa Corte, infatti, le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o come spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a regolare l'assetto del territorio, conservano il carattere integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto la loro violazione consente al privato di ottenere la riduzione in pristino (Cass. 7384/2001).
In particolare, le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni sono da ritenere integrative delle norme del codice civile, mentre non lo sono le norme che, avendo come scopo principale la tutela d'interessi generali urbanistici, disciplinano solo l'altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi. Ne consegue che nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, mentre nel secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria (Cass. 1073/2009).
Nel caso di specie, il regolamento urbanistico locale, disciplinando in modo esplicito la distanza dei fabbricati dal confine, ha carattere integrativo delle norme del codice civile e come tale è suscettibile di tutela ripristinatoria.

EDILIZIA PRIVATAPareti finestrate di edifici fronteggiantesi.
Ai fini dell’applicazione della norma di cui all’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968, assume carattere preminente, nel calcolo delle distanze, la parete munita di finestre, nel suo sviluppo ideale verticale od orizzontale rispetto alla frontestante facciata per cui è del tutto irrilevante che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra, atteso che il regolamento edilizio che impone una distanza minima tra pareti finestrate di edifici fronteggiantesi, deve essere osservato anche se dalle finestre dell’uno non è possibile la veduta sull’altro perché la ratio di tale normativa non è la tutela della privacy, bensì il decoro e la sicurezza, ed evitare intercapedini dannose tra pareti (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 19.02.2019 n. 4834 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra costruzioni e tra costruzione e confine.
In tema di distanze tra costruzioni e distanze tra costruzione e confine, non v’è alcuna differenza tra fabbricati principali e costruzioni accessorie ai primi; in questo contesto, a nulla valgono le eventuali distinzioni tra gli stessi enucleate nelle norme edilizie locali, le quali possono essere prese in considerazione al solo fine della maggiore distanza imponibile in ragione di quanto disposto dall’art. 873 c.c..
E' quindi da considerarsi illegittima la costruzione di un edificio a distanza inferiore di quella regolamentare, anche con riferimento ad edificio accessorio a quello principale posto su fondo finitimo
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2019 n. 836 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
1. L’appello è infondato e va respinto, il che consente di prescindere dalla disamina dell’eccezione di inammissibilità per acquiescenza dell’originario ricorso di primo grado, articolata dal comune appellato con la memoria depositata il 24.12.2018.
2. E’ incontestato in punto di fatto che l’immobile edificando disterebbe mt. 1,575 dal confine di proprietà.
2.1. Tenuto conto delle N.t.a. comunali, nel senso che verrà di seguito esplicitato, ed anche a dare per incontestato che si trattasse di un ‘corpo accessorio’, l’appello non può essere accolto.
3. Invero, stabilisce l’art. 873 del codice civile che “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.”.
4. Per la consolidata giurisprudenza (tra le tante, Cassazione civile, sez. II, 11.09.2018, n. 22054), “le norme dei regolamenti edilizi che impongono distanze tra le costruzioni maggiori rispetto a quelle previste dal codice civile o stabiliscono un determinato distacco tra le costruzioni e il confine sono volte non solo a regolare i rapporti di vicinato evitando la formazione di intercapedini dannose, ma anche a soddisfare esigenze di carattere generale, come quella della tutela dell'assetto urbanistico, così che, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a prescindere dal fatto che gli edifici si fronteggino”.
Va sottolineato che la giurisprudenza, sul punto, non fa distinzioni tra corpo principale ed accessorio (Cassazione civile, sez. II, 16.03.2017, n. 6855: “in tema di distanze tra costruzioni e distanze tra costruzione e confine, non v'è alcuna differenza tra fabbricati principali e costruzioni accessorie ai primi. In questo contesto, a nulla valgono le eventuali distinzioni tra gli stessi enucleate nelle norme edilizie locali, le quali possono essere prese in considerazione al solo fine della maggiore distanza imponibile in ragione di quanto disposto dall'art. 873 c.c.. È da considerarsi illegittima la costruzione di un edificio a distanza inferiore di quella regolamentare, anche con riferimento ad edificio accessorio a quello principale posto su fondo finitimo”).
4.1. Muovendo da tali punti di partenza, ed incontestato che -sia con riguardo alle costruzioni, che con riferimento alla distanza dai confini- le N.t.a. comunali possono prevedere una distanza maggiore, rispetto a quella prevista nel codice civile, si osserva che:
   a) l’art. 21, comma 2, delle NTA comunali stabilisce che la distanza dai confini debba essere pari o superiore a metri 5 e la distanza tra costruzioni debba essere pari o superiore a metri 10;
   b) l’art. 7 delle norme di attuazione contiene effettivamente una deroga con riferimento ai corpi accessori, ma detta deroga è riferita soltanto alla distanza tra costruzioni, e non anche alla distanza dai confini;
   c) sebbene si possa riconoscere che il coordinamento tra le due fattispecie sia poco perspicuo, il dato letterale è decisivo, sul punto;
   d) neppure può dirsi –come sostiene la difesa dell’appellante- che intesa nel senso su indicato la deroga di cui all’art. 7 sia inutile, e svuotata di contenuto, in quanto la stessa vale a chiarire la non computabilità dei corpi accessori nell’ipotesi di costruzioni che insistono sul confine.
5. Alla stregua delle superiori, assorbenti, considerazioni, l’appello è infondato e deve essere respinto e la sentenza di primo grado va confermata, con le precisazioni sopra esposte.

EDILIZIA PRIVATA: Distanza tra edifici.
In tema di distanze tra costruzioni, la deroga alla disciplina stabilita dalla normativa statale realizzata dagli strumenti urbanistici regionali deve ritenersi legittima quando faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) che siano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planivolumetriche che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni, considerate come fossero un edificio unitario, e siano finalizzate a conformare un assetto complessivo di determinate zone, poiché la legittimità di tale deroga è strettamente connessa al governo del territorio e non, invece, ai rapporti fra edifici confinanti isolatamente intesi (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.10.2018 n. 27638 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
1.1. - Il motivo non è fondato.
1.2. - In reiterate occasioni (cfr. da ultimo Corte Cost. n. 41/2017), la giurisprudenza costituzionale ha ribadito che la disciplina delle distanze fra costruzioni, che ha la sua collocazione nel codice civile, ed in particolare negli artt. 873 e 875, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi. Essa, pertanto, rientra nella materia dell'ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, con la conseguenza che è illegittima l'eventuale previsione contenuta in una legge regionale che deroghi alla disciplina statale delle distanze tra fabbricati al di fuori dell'ambito della competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio.
In tale ottica quindi, l'intervento derogatorio del legislatore regionale è consentito solo allorquando i fabbricati insistono su di un territorio che può avere specifiche caratteristiche rispetto ad altri, per ragioni naturali e storiche; con la conseguenza che la disciplina che li riguarda, e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso, esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici, la cui cura è affidata anche alle Regioni perché attratta all'ambito di competenza concorrente del governo del territorio.
Tuttavia nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza —statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»— il punto di equilibrio deve essere individuato nell'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, dotato di particolare efficacia precettiva e inderogabile, in quanto richiamato dall'art. 41-quinquies I. 17.08.1942, n. 1150, così che, secondo le indicazioni interpretative della giurisprudenza costituzionale, e come poi disposto dall'art. 2-bis del TUE, è legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
L'assenza di precise indicazioni, infatti, non consente di attribuire agli interventi in questione un perimetro di azione necessariamente coerente con l'esigenza di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del territorio ed implicherebbe quindi l'invasione da parte della Regione della sfera di competenza riservata alla legislazione esclusiva dello stato in materia di ordinamento civile (conf. Corte Cost. n. 232 del 2005; n. 6 del 2013, n. 231 del 2016, n. 189 del 2016, n. 185 del 2016, n. 178 del 2016).
In definitiva è da reputarsi legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche», e quindi «se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (Corte Cost. n. 134 del 2014; n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati» (Corte Cost. n. 114 del 2012; nello stesso senso, n. 232 del 2005).
A tal fine si è ritenuto che tali conclusioni debbano essere mantenute ferme anche dopo l'introduzione dell'art. 2-bis del TUE, da parte dell'art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 98 del 2013, in quanto tale disposizione ha sostanzialmente recepito l'orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull'edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal DM n. 1444/1968 e dell'ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (Corte Cost. n. 185 del 2016; nello stesso senso, ex plurimis, Corte Cost. n. 189 del 2016).
Richiamando quanto affermato, da ultimo, da Corte Cost. n. 41 del 2017, va quindi ribadito che «la deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati ("gruppi di edifici") e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968)»; situazione questa non riscontrabile nella concreta fattispecie.
1.3. - Ciò premesso, nella specie, la Corte di merito -premesso che il primo Giudice aveva erroneamente fondato la decisione su di una risalente giurisprudenza (Cass. n. 13011/2000, n. 6812/2000), secondo la quale le prescrizioni dettate dall'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 (distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti), essendo dirette ai Comuni, ai fini della formazione degli strumenti urbanistici, non sono immediatamente applicabili nei rapporti tra privati- ha correttamente richiamato la giurisprudenza più recente (Cass. n. 21899 del 2004; Cass. n. 7563 del 2006; Cass. n. 3199 del 2008), la quale ha precisato che il suddetto principio di non immediata operatività del citato art. 9 del D.M. n. 1444/1968 nei rapporti tra privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo per il Giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare la disposizione dell'art. 9 divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico.
La Corte di merito, inoltre, ha ricordato che, più di recente, la Cassazione (sez. un. n. 14953 del 2011) ha stabilito che il suddetto art. 9, essendo stato emanato su delega dell'art. 17-quinquies L. n. 1150/1942, aggiunto dall'art. 17 della L. n. 765/1967, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (si vedano anche, Cass. n. 15458 del 2016; Cass. n. 3199 del 2008). Da ciò, la Corte d'appello ha affermato che la norma regolamentare del Comune di Avezzano, che consente di costruire manufatti a distanza inferiore a 10 metri, vada disapplicata (v. Cass. n. 27558 del 2014; Cass n. 7563 del 2006).
Conclusione questa che non può essere contestata sull'assunto (dei ricorrenti) secondo cui la previsione della N.T.A. sarebbe comunque assimilabile alle ipotesi, aventi valida portata derogatoria, contemplate nel comma 3 dell'art. 9 del D.M. 1444/1968, diverse essendo le norme tecniche di attuazione dei piani regolatori, le quali hanno natura regolamentare e danno luogo ad uno strumento meramente secondario e subalterno, rispetto ai piani particolareggiati ed alle lottizzazioni convenzionate, i quali danno luogo ad uno strumento urbanistico esecutivo (Cass. n. 23136 del 2016).

EDILIZIA PRIVATA: Disciplina in tema di distanze e di fabbricati.
Il rinvio, contenuto nell’art. 879, comma 2, c.c., alle leggi e ai regolamenti che riguardano le costruzioni “che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche” non va interpretato come deroga all’inapplicabilità, prevista dal medesimo art. 879, comma 2, c.c., delle norme sulle distanze alle pubbliche strade e piazze, concernendo, invece, la disciplina in tema non già di “distanze”, bensì di “fabbricati” (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 29.10.2018 n. 27364 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
2.2. - L'art. 879, secondo comma, c.c. prevede che «Alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano
».
La sentenza impugnata ha affermato, con valutazione non censurabile (né specificamente censurata) in questa sede, che l'area sulla quale si affranza il fabbricato dei ricorrenti (Vicolo Potenza nel comune di sant'Agata di Militello) vada classificata come "via pubblica", alla stregua della presunzione di demanialità ex art. 22, all. F, legge n. 2248/1865, rimasta insuperata in giudizio.
Tuttavia, nonostante tale qualificazione -che condurrebbe ad escludere l'applicazione della disciplina relativa alle distanze, in base a quanto disposto dalla prima parte del secondo comma dell'art. 879 c.c. (per il quale, come detto, "alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze")-, la Corte di merito giunge a ritenere applicabile la disciplina del D.M. n. 1444/1968 e, con essa, la previsione delle distanze, attraverso il tramite del Regolamento edilizio locale del 1983, pervenendo a tale conclusione attraverso il richiamo generale che il menzionato secondo comma dell'art. 879 c.c. fa alla regola dell'osservanza, comunque, "delle leggi e dei regolamenti che le riguardano", tra cui appunto quelle del D.M. n. 1444/1968.
Con ciò -data siffatta interpretazione del secondo comma dell'art. 879 c.c.- la regolazione delle distanze relativamente all'area pubblica non sarebbe a sua volta impedita nella fattispecie dal testo dell'art. 9 del citato D.M. n. 1444/1968 che stabilisce le distanze minime tra fabbricati, anche per quelli "tra i quali siano interposte Strade destinate al traffico di veicoli", ma "con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti".
Sicché, secondo la pronuncia impugnata, l'eccezione relativa alla viabilità a fondo cieco, nella specie al "vicolo", non significherebbe che le distanze tra fabbricati indicate nel citato D.M. non trovino applicazione in dette aree chiuse, bensì soltanto che non avrebbero applicazione le maggiorazioni delle distanze, poste dall'art. 9 in rapporto proporzionale con la larghezza della strada destinata al traffico veicolare, ma resterebbe pur sempre applicabile la regolazione generale della distanza minima di metri 10.
2.3. - Questo Collegio ritiene che le argomentazioni, poste dalla Corte di merito a sostegno della sentenza impugnata, non siano condivisibili.
Ciò, in primo luogo, in ragione del recupero della regolazione delle distanze tramite la enfatizzazione della formula generale dell'ultima parte del secondo comma dell'art. 879 c.c. con la conseguenza che, alla stregua di questa interpretazione (contrastante con gli ordinari canoni di logica ermeneutica e, dunque, con l'art. 12 delle preleggi), si verifica un effetto palesemente distorto, per cui la medesima disposizione finisce contemporaneamente per negare (comma secondo, prima parte) e per affermare (comma secondo parte seconda) l'applicabilità delle norme sulle distanze. Laddove, si deve affermare che la parte prescrittiva che rinvia alle "leggi e regolamenti" intenda piuttosto riferirsi alla disciplina (riguardante non già le "distanze" bensì i "fabbricati") che non interferisce con la tutela del codice civile, inoperante, quanto alle distanze, rispetto alle pubbliche strade e piazze.
In merito, va richiamato il principio secondo cui l'esonero dal rispetto delle distanze legali previsto dall'art. 879 c.c., comma 2, per le costruzioni a confine con le piazze e vie pubbliche (che va riferito anche alle costruzioni a confine delle strade di proprietà privata gravate da servitù pubbliche di passaggio, come nella specie, giacché il carattere pubblico della strada, rilevante ai fini dell'applicazione della norma citata) attiene più che alla proprietà del bene, all'uso concreto di esso da parte della collettività (Cass. n. 6006 del 2008; cfr. anche Cass. n. 5172 del 1997; Cass. n. 2463 del 1990; Cass. n. 307 del 1982).
Sicché -tale essendo la medesima esigenza di provvedere all'interesse pubblico all'assetto viario ed alla circolazione urbana che se ne serve- non si ravvisa la ratio sottesa alla diversa disciplina nella stessa materia concernente le distanze, nell'un caso derogandone la imposizione, nel secondo caso estendendone l'imposizione. Il quale effetto si verifica altresì in quanto la esclusione della viabilità a fondo cieco, presente nell'art. 9 D.M. 1444/1968, viene confinata alle sole maggiorazioni delle distanze tra fabbricati che sono poste nello stesso articolo, giacché tale interpretazione riduttiva (al di là della sua collocazione contestuale riferita alle "maggiorazioni") finisce per determinare, nuovamente, causa di frizione logica, nel predicare allo stesso tempo un esonero ed una applicazione di una regola di distanza, che possono elidersi reciprocamente.
2.4. - In secondo luogo, la Corte di merito (pur avendo dichiarato la "natura pubblica del sito e la sua estensione che interferisce per intero con estensione con la antistanza delle pareti" delle costruzioni in oggetto: sentenza, pag. 10), non ne ha tratto la inammissibilità della tutela ripristinatoria. Le disposizioni di legge e regolamentari tra le quali, fra l'altro, il codice della strada ed il relativo regolamento di esecuzione, cui rinvia l'art. 879, comma secondo, cod. civ. per il caso delle costruzioni "in confine con le piazze e le vie pubbliche", non sono dirette alla regolamentazione dei rapporti di vicinato ed alla tutela della proprietà, ma alla protezione di interessi pubblici, con particolare riferimento alla sicurezza della circolazione stradale; [per cui] è da ritenersi insussistente un diritto soggettivo suscettibile di dar luogo a tutela ripristinatoria (Cass. n. 5204 del 2008).
Per l'accoglimento della domanda di riduzione in pristino proposta dal proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze fra costruzioni contenute in leggi speciali e regolamenti edilizi locali è necessario che le norme violate abbiano carattere integrativo delle disposizioni del codice civile sui rapporti di vicinato, siccome disciplinanti la stessa materia e da esse (artt. 872 e 873 cod. civ.) richiamate, e che si tratti di costruzioni soggette all'obbligo delle distanze e quindi non confinanti con vie o piazze pubbliche (art. 879, secondo comma, cod. civ.); resta pertanto esclusa la riduzione in pristino se tra i fabbricati siano interposte strade pubbliche, ancorché la norma edilizia locale applicabile (integrativa di quelle del codice civile) prescriva che la distanza minima prevista debba essere osservata anche nel caso che tra i fabbricati siano interposte aree pubbliche (Cass. n. 3567 del 1988; conf. Cass. n. 2436 del 1988; Cass. n. 5378 del 1996).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra fabbricati: la distanza minima di 10 metri.
In materia di distanze tra fabbricati, la distanza minima di 10 metri è richiesta anche nel caso in cui una sola delle pareti fronteggianti tra loro sia finestrata (Corte d'Appello di Bari, Sez. III, sentenza 25.10.2018 n. 1814 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: I Comuni possono prescrivere distanze inferiori per gli edifici?
L’ultimo comma dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444 consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa nazionale soltanto laddove le costruzioni siano incluse nel piano particolareggiato o nella lottizzazione convenzionata, riguardando dunque solo le distanze tra edifici inclusi in quella determinata zona (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 16.10.2018 n. 25833 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
I motivi sono fondati. La Corte d'appello ha rigettato l'impugnazione sulla base dei seguenti argomenti:
   - il fabbricato degli appellati, che si trova nella zona B1 del Comune di Conversano, è posto a una distanza da quello dell'appellante che rispetta quanto imposto (almeno 6 metri) dai c.d. studi particolareggiati del Comune;
   - dato che l'ultimo capoverso del terzo comma dell'art. 9 del d.m. 1444/1968 prescrive che se un Comune si dota di un piano particolareggiato può prevedere, per le zone territoriali omogenee di tale piano, distanze inferiori a quelle previste dal medesimo d.m., se ne deduce che valgono per la zona B1 le norme tecniche di attuazione degli studi particolareggiati, ossia la distanza minima di 6 metri tra edifici;
   - concludere diversamente significherebbe giungere alla conclusione "catastrofistica" di disapplicare in parte qua non solo le concessioni edilizie ottenute dalla controparte, ma "addirittura" lo strumento urbanistico.
Il ragionamento seguito dal giudice di merito non può essere accolto.
Secondo "l'ormai consolidato orientamento di questa Corte, in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, comma 2, del d.m. 02.04.1968, n. 1444 ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica", con la conseguenza che "l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma fa insorgere l'obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma proprio di applicare immediatamente la disposizione del menzionato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata" (così Cass. 23136/2016).
Quanto all'ipotesi derogatoria contemplata dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, essa riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata (cfr. Cass., sez. un., n. 1486/1997).
Pertanto, il fatto che gli strumenti urbanistici del Comune di Conversano -che possono essere disapplicati ove contrastino con la disciplina di cui al citato art. 9, disciplina che diviene in tal caso direttamente applicabile- consentissero distanze inferiori rispetto a quelle fissate dalla norma, non è sufficiente per ritenere legittima la deroga, ma è necessario accertare, come prescrive l'ultimo comma dell'art. 9, che le costruzioni fossero in zone incluse in un piano particolareggiato, verifica che non emerge da quanto affermato nella sentenza impugnata.

EDILIZIA PRIVATA: Violazione di distanza minima tra fabbricati.
Ai sensi dell’art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 1444/1968, in tema di distanze legali tra fabbricati è prevista la distanza minima inderogabile di dieci metri per cui un manufatto realizzato a distanza di 6,65 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è senz’altro ubicato a distanza inferiore rispetto a quella legale ne consegue che, pur se nel corso del giudizio viene rimossa l’opera realizzata, il giudice dopo aver dichiarato la cessazione della materia del contendere deve pronunciarsi in merito alle spese di lite (TRIBUNALE di Napoli, Sez. X, sentenza 18.06.2018 n. 6036 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze inferiori tra fabbricati: quando sono ammesse?
Ai sensi dell’art. 879, co. 2 c.c., in tema di distanze tra edifici occorre far riferimento al disposto del D.M. 1444/1968, secondo il quale le distanze tra fabbricati, in quanto recepite dalle N.T.A. del piano regolatore comunale, diventano cogenti e integrano le disposizioni in materia del codice civile; in tale ambito la presenza di una strada pubblica può sovvertire gli interessi generali tutelati dalla legislazione urbanistica ed edilizia, mentre distanze inferiori sono ammesse, in deroga, solo in caso di edifici oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.06.2018 n. 3329 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
3. Con un terzo motivo di censura il sig. Ma. lamenta l'erroneità della sentenza nella parte in cui i giudici di prima istanza hanno ritenuto inderogabili i limiti di distanza tra i fabbricati previsti dal D.M. n. 1444/1968.
3.2 La censura non è fondata
Al riguardo si osserva che nell'atto di appello non è contestata la distanza, confermata anche dal verificatore, esistente tra le pareti finestrate dell’edificio della sig.ra Ma.In. e quello prospiciente del sig. Mi.Ma., di mt. 3,80 rispetto al fabbricato preesistente e di metri 3,50 rispetto alla porzione in estensione, distanza ben inferiore, in entrambi i casi, ai metri 10,00 minimi prescritti per la zona B dal primo comma, punto 2, dell’art. 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444; parimenti non contestato è il non legittimo aumento volumetrico consentito con il permesso di costruire n. 27/2013.
L'appellante, invece, sostiene che, trattandosi di costruzioni a confine con strada pubblica a fondo cieco a servizio dei fabbricati, non vi sarebbe l'obbligo del rispetto della distanza minima di 10 metri tra fabbricati prospicienti di cui all’art. 9, comma 1, n. 2 e comma 2 del D.M. 1444/1968.
Diversamente da quanto asserito, però, l’art. 879, comma 2 c.c. in tema di distanze tra edifici obbliga al rispetto delle leggi e dei regolamenti vigenti, per cui, nel caso di specie occorre far riferimento al disposto del D.M. 02.04.1968, richiamato anche dall’art. 3 delle N.T.A. del programma di fabbricazione del Comune di Agnone, nonché alle prescrizioni delle N.T.A. medesime che, come evidenziato dal TAR, nella zona B3 prevedono in via generale un distacco dai confini di metri 5,00 (art. 9). Quando, poi, si interpone una via pubblica, anche a fondo cieco, non uti singuli e si sia in presenza di pareti finestrate (art. 9, comma 2) sussiste senza eccezioni l'obbligo di rispettare la distanza minima di 10 metri (Cons. Stato, sez. IV, 22.05.2014, n. 2650) incrementabili fino a mt. 13 nella sussistenza di una sede stradale larga mt. 3,00.
3.3 Le distanze tra fabbricati ex D.M. n. 1444/1968, in quanto recepite dalle N.T.A. del piano regolatore comunale, diventano cogenti e integrano le disposizioni in materia del codice civile e la presenza di una strada pubblica può sovvertire gli interessi generali che la legislazione urbanistica ed edilizia tutela, mentre, come il TAR ha evidenziato, distanze inferiori sono ammesse, in deroga solo, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche (art. 9, u.c., D.M. 1444/1968).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze legali tra edifici.
La realizzazione di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione non di natura pertinenziale e, anche ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, la nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell’opera (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.03.2018 n. 1309 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
4.3. Per ricorrente giurisprudenza, invero, la realizzazione di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione e non di natura pertinenziale, essendo assente il requisito della individualità fisica e strutturale propria della pertinenza. Il manufatto costituisce, infatti, parte integrante dell'edificio e la nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell'opera.
Per la tettoia come realizzata, necessita, quindi, la sua conformità alle disposizioni del testo unico dell'edilizia (D.P.R. n. 380/2001) e alle norme dallo stesso richiamate in tema di disciplina urbanistica ed edilizia (cfr. art. 12), tra cui quella sulle distanze previste dal codice civile.
4.4. Non può trovare condivisione la tesi degli appellanti che l'art. 3, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380/2001 prevederebbe che gli interventi come quello di interesse possono essere considerati nuova costruzione solo se le N.T.A. del P.R.G. del Comune lo evidenzino espressamente o nel caso in cui si realizzino opere che abbiano un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale, atteso che nulla si evince al riguardo dalla disciplina di settore del Comune e, comunque, a rilevare è, come si è accennato, la disciplina statale sulle distanze tra edifici, che essendo volta alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, è tassativa ed inderogabile nell'imporre al proprietario dell'area confinante di costruire il proprio edificio ad almeno 10 metri, senza alcuna deroga.

EDILIZIA PRIVATAI limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati previsti dall'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, (emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 - c.d. legge urbanistica, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765) che prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, trovano applicazione anche con riferimento alle nuove costruzioni, quali devono considerarsi le sopraelevazioni effettuate in zona A (centro storico) dove, vigendo il generale divieto di realizzazione di costruzioni ex novo, è previsto solo che le distanze tra gli edifici interessati da interventi di ristrutturazione e di risanamento conservativo (i soli consentiti), non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i preesistenti volumi edificati.
---------------

2.3 La seconda censura proposta con il secondo motivo è così rubricata: violazione e falsa applicazione degli articoli 8 e 9 del D.M. n. 1444 del 1968 in relazione all'articolo 360, primo comma, n. 3, c.p.c. per non aver ritenuto violate dalla sopraelevazione e dalle vedute del fabbricato dell'Or. le distanze dei fabbricati sui mapp. 217, 221, foglio 42.
Rileva la ricorrente che le norme citate, di cui la sentenza non ha tenuto conto, hanno natura di norme primarie prevalenti ed inderogabili per tutti i regolamenti edilizi approvati dopo l'emanazione del suddetto decreto ministeriale.
La censura si fonda sul fatto che il fabbricato della Fr. è in zona A nella quale le distanze tra edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti e la sopraelevazione, considerata alla stregua di nuova costruzione, deve essere inderogabilmente posta a distanza di 10 mt. dagli altri fabbricati. Nella specie considerate le misurazioni del consulente tecnico d'ufficio le distanze erano inferiori. Anche in relazione alle altezze massime degli edifici sarebbe violato il disposto dell'articolo 8 del medesimo decreto.
2.4 La censura è fondata.
Impregiudicata la questione relativa alla prova circa la comproprietà della ricorrente in ordine al mapp. 217, sub. 1, che spetterà al giudice del rinvio valutare, deve osservarsi che la motivazione della Corte d'Appello in ordine alla sopraelevazione non è conforme alla giurisprudenza di questa Corte in materia.
Devono richiamarsi i seguenti principi del tutto consolidati:
   - In tema di distanze tra costruzioni, l'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica), aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica Sez. U, Sentenza n. 14953 del 07/07/2011 (Rv. 617949).
   - Inoltre l'art. 9, primo comma, n. 2), del d.m. 02.04.1968, n. 1444 -emanato in forza dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765- in base al quale la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve essere inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole nuove edificazioni consentite in zone diverse dal centro storico (zona A), posto che in questo ultimo, dove vige il generale divieto di costruzioni ex novo, la norma si limita a prescrivere che la distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti (Sez. 2, Sentenza n. 12767 del 20/05/2008).
La sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione (Sez. 3, Sentenza n. 21509 del 01/10/2009.
Orbene la Corte d'Appello di Milano non ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi e, al contrario, ha ritenuto che il D.M. 02.04.1968, n. 1444 non fosse immediatamente operante nei rapporti fra i privati, nonostante l'adozione nel Comune di Civo del piano regolatore sin dal 1984 e, in secondo luogo, ha ritenuto, sulla base del rilievo del C.T.U., che la normativa applicabile fosse quella codicistica perché il manufatto di cui ai mappali 231 e 232 era ricompreso nella zona Al-R del piano regolatore comunale e nelle zone A del d.m. n. 1444 del 02.04.1968, nonostante si trattasse di una sopraelevazione, da intendersi sempre come nuova costruzione.
Deve dunque affermarsi il seguente principio di diritto: "I limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati previsti dall'art. 9, secondo comma, del d.m. 02.04.1968, n. 1444, (emanato su delega dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 - c.d. legge urbanistica, aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765) che prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, trovano applicazione anche con riferimento alle nuove costruzioni, quali devono considerarsi le sopraelevazioni effettuate in zona A (centro storico) dove, vigendo il generale divieto di realizzazione di costruzioni ex novo, è previsto solo che le distanze tra gli edifici interessati da interventi di ristrutturazione e di risanamento conservativo (i soli consentiti), non possano essere inferiori a quelle intercorrenti tra i preesistenti volumi edificati" (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 15.02.2018 n. 3739).

EDILIZIA PRIVATASecondo pacifica giurisprudenza di legittimità, in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 873 cod. civ. (e quindi anche le eventuali e più rigorose previsioni degli strumenti urbanistici locali) trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell'area meno elevata non raggiunga il livello di quella superiore, in quanto la necessità del rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d'intercapedini dannose.
Invero, la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti va rispettata anche nel caso in cui la nuova costruzione realizzata nel mancato rispetto di essa sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma terzo, cod. civ. e così pure dal confine.

---------------

4. Il terzo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione dell'art. 9, punto 1, co. 4, della NTA del PRG del Comune di Roma, laddove la sentenza ha reputato applicabile la distanza di metri 10 tra pareti finestrate.
Si sostiene che tale norma che richiama quanto previsto dall'art. 9 del DM n. 1444/1968, come peraltro riferito anche dal CTU, non può essere applicata nel caso di specie in quanto si tratterebbe di costruzioni non realizzate su fondi confinanti.
Inoltre l'appartamento degli attori ha una quota di calpestio del terrazzo molto più elevata di quella della copertura del corpo di fabbrica adibito a negozi della ricorrente, sicché non si ravvisa una possibilità di interferire con la visuale che si esercita dalla terrazza degli attori.
Il motivo va disatteso.
Ed, invero, oltre a riprendere in larga misura la tesi oggetto del secondo motivo di ricorso, già disatteso, circa la sussistenza di un unico complesso edilizio, in parte si risolve in una non consentita contestazione dell'accertamento in fatto operato dai giudici di merito, i quali hanno ritenuto applicabile la suddetta previsione regolamentare locale, sulla scorta della verifica dell'esistenza di aperture nella costruzione degli attori (nella specie, terrazza in aggetto) tali da far acquisire ad almeno una delle pareti fronteggiantisi, la qualifica di finestrata.
Inoltre, nella parte in cui la censura insiste sulla differenza di quota tra la proprietà degli attori e la copertura dell'immobile fronteggiante, non si confronta con l'altrettanto pacifica giurisprudenza di legittimità per la quale (cfr. Cass. n. 19486/2008; Cass. n. 20850/2013) in tema di distanze tra costruzioni, l'art. 873 cod. civ. (e quindi anche le eventuali e più rigorose previsioni degli strumenti urbanistici locali) trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell'area meno elevata non raggiunga il livello di quella superiore, in quanto la necessità del rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d'intercapedini dannose (cfr. altresì Cass. n. 145/2006, a mente della quale la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti va rispettata anche nel caso in cui la nuova costruzione realizzata nel mancato rispetto di essa sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma terzo, cod. civ. e così pure dal confine; conf. Cass. n. 5741/2008) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 05.01.2018 n. 166).

EDILIZIA PRIVATAIl computo delle distanze tra pareti finestrate di edifici antistanti.
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall’art. 9, d.m. 02.04.1968 n. 1444, deve computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 06.10.2017 n. 4690 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
Con censura di carattere assorbente il sig. Ma. si duole che sia stato rilasciato provvedimento di condono nonostante che il manufatto in oggetto sia stato costruito in violazione delle norme sulle distanze legali.
Il motivo è fondato.
Le opere realizzate e condonate con le concessioni n. 6/c e 7/c, in epigrafe indicate, consistono in ampliamenti della sagoma dell’edificio (chiusura di una scala, trasformazione di una tettoia aperta) che hanno alterato le preesistenti distanze dal confine e dal fabbricato del ricorrente.
In particolare da quanto risulta dagli atti causa e dalla relazione del verificatore -redatta a seguito di sopralluogo e sulla base della documentazione di causa- l’ampliamento del nucleo originario dell’immobile della sig.ra Am., tramite estensione fino al muro di confine con la proprietà Ma., ha annullato la distanza dell’edificio dal predetto confine;
Come emerge quindi dalle risultanze del sopralluogo (e dalla perizia di parte ricorrente in quanto il verificatore conferma la correttezza dei grafici depositati dalla stessa parte) l’edificio dell’Am., come trasformato dalle opere oggetto dei provvedimenti di condono, non rispetta la distanza di 10 metri dal nucleo originario del fabbricato della ricorrente (ex art. 9 DM 1444/1968 che per i nuovi edifici prescrive “la distanza minima assoluta di m 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”).
La violazione della norma sulle distanze rende dunque illegittima la sanatoria comunale.
Non ha pregio l’assunto della controinteressata secondo cui le distanze legali non sarebbero direttamente vincolanti ai fini del rilascio del provvedimento di condono, trattandosi di disposizioni non direttamente cogenti e opponibili solo dopo l’approvazione del piano regolatore comunale (avvenuta per il Comune di Massa Lubrense nel 2002).
Al riguardo, è sufficiente richiamare la pacifica giurisprudenza che dichiara direttamente precettive le norme in materia di distanze contenute nel d.m. n. 1444/1968 sia nei rapporti fra privati che ai fini della regolarità degli atti di assenso edilizio non potendo le stesse essere intese come prescrizioni rivolte al solo organo pianificatore (cfr. Cons. Stato 3522/2016, n. 1951/2015; n. 844/2013 e da ultimo Tar Napoli n. 3036/2017 dove si evidenzia che tale precetto costituisce, sia in ragione della relativa fonte di legittimazione -art. 41-quinquies della L. n. 1150/1942- sia per la funzione igienico-sanitaria assolta tesa ad evitare la formazione di intercapedini malsane, un principio inderogabile della materia).
La condonabilità delle opere lesive delle distanze dai confini e dagli edifici limitrofi, va, dunque esclusa, anche, e soprattutto, perché la disciplina urbanistica in materia di distanze non è derogabile, essendo diretta non già alla sola tutela di interessi privati, bensì alla tutela di interessi generali e pubblici in materia urbanistica.
Non ha poi pregio il rilievo difensivo della controinteressata in base al quale la violazione delle distanze sarebbe imputabile in prima battuta a lavori di ampliamento eseguiti dal sig. Ma. e relativi all’edificazione di un porticato.
I lavori eseguiti dal ricorrente -che peraltro a quanto consta dagli atti risultano assistiti da permesso di costruire (n. 11/2013)- come chiarito dal verificatore non hanno comportato variazioni della sagoma originaria dell’immobile stesso e comunque non risultano, dall’esame degli atti di causa e delle planimetrie depositate, influenti al fine del mancato rispetto della distanza legale dall’immobile confinante del sig. Ma. come identificato nella sua configurazione risalente.
Non ha neanche pregio l’assunto secondo cui (in relazione alla concessione n. 7c/2016) le pareti del fabbricato della controinteressata non abbiano pareti fronteggianti in via lineare.
Il Collegio ritiene infatti, in linea con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa d’appello che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9, d.m. 02.04.1968, n. 1444, debba computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (cfr. in termini, di recente Cons. Stato n. 2861/2015).
Per le stesse ragioni, per la parte in cui legittima le irregolarità riscontrate, risulta viziata l’autorizzazione in sanatoria n. 68 del 17.06.1998, concernente “la sanatoria e il completamento delle opere relative al fabbricato” della controinteressata.
4. In conclusione, per le ragioni esposte il ricorso viene accolto e per l’effetto sono annullati gli atti impugnati. Assorbite le ulteriori censure.

EDILIZIA PRIVATA: Possibilità di ridurre le distanze tra edifici.
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 61, comma 6, l.reg. Liguria 02.04.2015, n. 11, censurato per violazione dell’art. 117, comma 3, Cost., in quanto la possibilità di ridurre le distanze tra edifici anche nei confronti di edifici ubicati all’esterno del perimetro del PUO contrasterebbe con l’art. 2-bis TUE e invaderebbe la sfera di competenza legislativa esclusiva statale in materia di «ordinamento civile».
La norma impugnata rientra nell’ambito applicativo dell’art. 2-bis TUE, giacché, nel disciplinare i «limiti di conformità» del piano operativo rispetto a quello strategico, consente al PUO di derogare alle distanze previste nel PUC, il quale a sua voltain forza dell’art. 29-quinquies, comma 1, lett. b), l.reg. Liguria 04.09.1997, n. 36, anch’esso inserito dall’art. 34, comma 1, l.reg. n. 11 del 2015, ma non impugnato«potrebbe averle fissate in misura anche inferiore a quanto previsto nel d.m. n. 1444 del 1968.
Inoltre, la possibilità di derogare alle distanze minime è accordata con la necessaria garanzia dell’intermediazione dello strumento urbanistico e al fine di conformare in modo omogeneo l’assetto di una specifica zona del territorio (circoscritta, per l’appunto, agli edifici ricompresi nel PUO), e non con riferimento a tipi di interventi edilizi singolarmente considerati (ristrutturazioni, sopraelevazioni, recupero di sottotetti, ed altro).
La previsione regionale non risulta priva di riferimento a specifiche esigenze del territorio neppure nella parte in cui dispone che la riduzione delle distanze è «applicabile anche nei confronti di edifici ubicati all’esterno del perimetro del PUO», trovando tale inciso giustificazione nel fatto che il territorio comunale viene ripartito in plurimi ambiti (di conservazione, di riqualificazione, di completamento) e distretti (di trasformazione), con la conseguente necessità che sia disciplinata anche la distanza tra un edificio ricompreso nel perimetro di uno strumento operativo e un edificio “frontista” rispetto al primo, ma esterno a quel perimetro e ricadente in altro ambito o distretto.
Anche in questa parte, pertanto, la disposizione regionale è conforme alla disciplina statale, in quanto, da un lato, condiziona l’operatività del suo precetto alla presenza di uno strumento urbanistico, dall’altro lato autorizza la riduzione delle distanze solo se essa è idonea ad assicurare un «equilibrato assetto urbanistico e paesaggistico in relazione alle tipologie degli interventi consentiti e tenuto conto degli specifici caratteri dei luoghi e dell’allineamento degli immobili già esistenti» (sentt. nn. 232 del 2005, 114 del 2012, 6 del 2013, 134 del 2014, 178, 185, 231 del 2016; ord. n. 173 del 2011)
(Corte Costituzionale, sentenza 10.03.2017 n. 50 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATADeroga alle distanze minime tra pareti finestrate.
La deroga alle distanze minime tra pareti finestrate, ai sensi del decreto assessorile regionale sardo del 20.12.1983 n. 2266/U (c.d. decreto “Floris”) è ammissibile a determinate condizioni: non può, in ogni caso, incidere sulle distanze legali minime stabilite dalle norme del codice civile, può essere concessa (nelle zone B) anche per le aree «risultanti libere in seguito a demolizione», si giustifica esclusivamente ove si dimostri che il rispetto delle distanze tra pareti finestrate comporti l’inutilizzazione dell’area o una soluzione tecnica inaccettabile (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 23.02.2017 n. 125 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
9. - I motivi esposti si prestano a una trattazione congiunta, considerato che tutti si incentrano sulla questione della legittimità della deroga alle distanze minime tra edifici fissate dalle norme tecniche di attuazione.
9.1. - In tale prospettiva, occorre in primo luogo ricostruire la motivazione che sorregge la concessione edilizia impugnata.
Come emerge dalla lettura dell’atto, l’istruttoria procedimentale si è fondamentalmente concentrata sulla verifica delle «soluzioni progettuali possibili [in vista del rispetto] delle normali distanze previste dallo strumento urbanistico», giungendo alla conclusione «che, effettivamente, l’applicazione delle distanze normalmente previste dallo strumento urbanistico avrebbe comportato delle soluzioni progettuali tecnicamente inaccettabili, irrazionali e [la] inutilizzazione dell’area», rendendo conseguentemente ammissibile la deroga alle distanze prevista dall’art. 48 (quattordicesimo alinea) del regolamento edilizio comunale (applicabile alla fattispecie ratione temporis), che a tali fini rinvia al decreto dell’Assessore degli Enti Locali, Finanze e Urbanistica, 20.12.1983, n. 2266/U, disponendo che tale «deroga …può essere consentita purché si rispetti la distanza minima di mt. 3 dai confini».
Il rinvio implica il richiamo al testo del decreto assessorile, che contempla la deroga (per le zone B) in questi termini: «Nelle zone inedificate esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto o risultanti libere in seguito a demolizione, contenute in un tessuto urbano già definito o consolidato, che si estendono sul fronte stradale o in profondità per una lunghezza inferiore a mt. 24 per i Comuni della I e II Classe, e a mt. 20 per quelli della III e IV classe, nel caso di impossibilità di costruire in aderenza, qualora il rispetto delle distanze tra pareti finestrate comporti l'inutilizzazione dell'area o una soluzione tecnica inaccettabile, il Comune può consentire la riduzione delle distanze, nel rispetto delle disposizioni del codice civile».
9.2. - Dal quadro normativo delineato emergono una serie di elementi rilevanti per la soluzione della controversia in esame:
   - la deroga ai distacchi minimi previsti dal decreto assessorile non può, in ogni caso, incidere sulle distanze legali minime stabilite dalle norme del codice civile;
   - la deroga può essere concessa (nelle zone B) anche per le aree «risultanti libere in seguito a demolizione»;
   - la deroga si giustifica esclusivamente ove si dimostri che il rispetto delle distanze tra pareti finestrate comporti l'inutilizzazione dell'area o una soluzione tecnica inaccettabile.
Nel caso di specie, rammentato che la concessione impugnata giustifica la deroga al rispetto delle distanze minime in ragione della inaccettabilità tecnica delle soluzioni alternative prospettate, i ricorrenti contestano la sussistenza di quanto asserito dall’amministrazione con argomentazioni che, tuttavia, non appaiono convincenti.
Occorre precisare, tuttavia, sul piano dell’interpretazione della citata disposizione del decreto assessorile, che il riferimento alla «soluzione tecnica inaccettabile» non può tradursi in una condizione equiparabile alla inutilizzabilità dell’area. Le due formule (inutilizzabilità e «soluzione tecnica inaccettabile») indicano due circostanze distinte, per cui all’interno della seconda rientrano soluzioni progettuali che (pur non comportando la inutilizzabilità dell’area) sono comunque irrazionali o pregiudicano gli interessi dei proprietari in misura eccessiva (e, quindi, non rispettosa del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa). La soluzione deve, quindi, essere inaccettabile (non solo e non tanto sotto il profilo tecnico-costruttivo ma) alla stregua di una valutazione degli interessi pubblici e privati coinvolti.

EDILIZIA PRIVATALimiti di distanza tra i fabbricati.
L’art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è eludibile.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.
Ai fini del computo delle distanze assumono rilievo:
   - tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all’interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell’igiene;
   - il terrapieno e il muro di contenimento, che producano un dislivello o aumentano quello già esistente per la natura dei luogh
i (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 13.12.2016 n. 1231 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
In relazione al secondo ordine di motivi, in tema di violazione delle norme di principio sulle distanze, vanno richiamati i principi più volte richiamati dalla giurisprudenza anche della sezione (cfr. sent. n. 1406 cit., confermata in appello e quindi rilevante anche a fronte delle ultime produzioni della difesa comunale, aventi ad oggetto la riforma di un ben diverso precedente di questo Tar, in diversa composizione). Pertanto, in linea di diritto, quale che sia la qualificazione regionale come ristrutturazione, è pacifico nella giurisprudenza anche del Collegio come la sopraelevazione ed il conseguente nuovo volume assumano rilevanza a fini delle distanze. In sostanza, qualora si realizzino nuovi volumi sopraelevando l'edificio originario sì da vita ad un nuovo edificio, che deve conseguentemente osservare la norma sulla distanza minima di cui all'art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 (cfr. ad es. sentenza 1621/2009).
In generale, va ribadito che per principio consolidato, le distanze legali previste dagli standards urbanistici sono immediatamente applicabili ai rapporti privati, ove gli strumenti urbanistici prevedono distanze minori. L'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (cfr. ad es. Tar Liguria n 476/2013 e giurisprudenza ivi richiamata).
Questa sezione ha più volte ribadito che la disciplina sulle distanze minime legali non può considerarsi derogata dalla legislazione regionale derogatoria sul recupero dei sottotetti a fini abitativi; al riguardo s'è affermato che l'art. 9 d.m. 1444/1968, al di là della fonte che la disposizione prevede, è norma di principio tale da costituire limite alla potestà legislativa regionale concorrente in materia di governo del territorio. Analoghe considerazioni di principio vanno ribadite ai connessi fini in esame.
Ancora (sentenza n. 6 del 2013) la Consulta ha avuto modo di intervenire sul punto nei seguenti termini: premesso che, in linea di principio, la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell'ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale, mentre alle regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall'esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio, la legge regionale, laddove consente espressamente ai comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall'art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell'interesse pubblico relativo al governo del territorio, autorizzando, al contrario, i comuni ad "individuare gli edifici" dispensati dal rispetto delle distanze minime, viola la competenza legislativa statale in materia "ordinamento civile" (sent. n. 232 del 2005, 173 del 2011, 114 del 2012).
Peraltro, parte resistente contesta l'applicazione delle invocate distanze sia in termini di difetto di legittimazione dei ricorrenti, sia di difetto di giurisdizione.
Sotto il primo versante è sufficiente richiamare quanto sopra evidenziato in termini di ammissibilità del ricorso (oltre alla pacifica giurisprudenza secondo cui il criterio della vicinitas e il danno risentito per la realizzazione dell'opera in ritenuta violazione delle distanze e del carico urbanistico della zona, integrano, rispettivamente, la legittimazione al ricorso e l'interesse concreto ed attuale, ai sensi dell'art. 100 c.p.c., all'impugnativa, da parte della ricorrente, proprietaria di immobile confinante o limitrofo, configurando ex se una posizione qualificata e differenziata al corretto assetto del territorio, a prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione che, in concreto, possa essere riconducibile alle opere compiute - cfr. ad es. Tar Calabria n. 433/2012 e Cons. Stato, Sez. VI, 20.10.2010, n. 7591, Tar Campania n. 23762/2010 e Tar Liguria 476/2013, Consiglio di Stato n. 3929/2002 e 5759/2011).
Inoltre, in tema di proprietà, l'obbligo di rispettare le distanze legali previste dagli strumenti urbanistici per le costruzioni legittime non soltanto a tutela dei proprietari frontisti ovvero della relativa riservatezza, ma anche per finalità di pubblico interesse, dovendo così essere osservato sia in sede di valutazione di abusi soggetti ad istanza di sanatoria sia rispetto a nuove edificazioni, in ordine alle quali i soggetti caratterizzati dalla vicinitas hanno il diretto concreto ed attuale interesse affinché la relativa realizzazione avvenga nel rispetto delle norme dettate a tutela (anche) di interessi fondamentali e collettivi.
Sotto il secondo versante, costituisce jus receptum il principio per cui la controversia, derivante dall'impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino, che lamenti la violazione delle distanze legali, costituisce una disputa non già tra privati, ma tra privato e Pubblica amministrazione, nella quale la posizione del primo si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo (cfr. ex multis CdS 3511/2016).
Se in linea di fatto nel caso di specie dalla documentazione prodotta emerge il mancato rispetto della distanza invocata, in linea di diritto, contrariamente a quanto prospettato dai resistenti, ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile rispetto all'interesse tutelato dalla norma riguardata nel suo triplice aspetto della sicurezza, della salubrità e dell'igiene (cfr. ad es. Consiglio di Stato, Sez. V, 19.03.1996, n. 268, Tar Liguria 1406 cit.).
In dettaglio, va quindi ribadito che nel calcolo delle distanze tra costruzioni, devono prendersi in considerazione le sporgenze costituenti per il loro carattere strutturale e funzionale veri e propri aggetti implicanti perciò un ampliamento dell'edificio in superficie e volume, come appunto i balconi formati da solette aggettanti anche se scoperti di apprezzabile profondità, ampiezza e consistenza (Tar Puglia n. 1235/2012).
Analogamente, gli sporti, cioè le sporgenze da non computare ai fini delle distanze perché non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare, sono i manufatti come le mensole, le lesene, i risalti verticali delle parti con funzione decorativa, gli elementi in oggetto di ridotte dimensioni, le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni, non invece le sporgenze, anche dei generi ora indicati, ma di particolari dimensioni, che siano quindi destinate anche ad estendere ed ampliare per l'intero fronte dell'edificio la parte utilizzabile per l'uso abitativo (Consiglio Stato, Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909).
Pertanto, sulla scorta di tali indicazioni non può certo escludersi dai manufatti rilevanti a fini di distanze, in quanto palesemente in grado di dar vita a intercapedini contrarie alla finalità della norma, i muri di contenimento (cfr. ex multis Cass. civ. 15391/2012 e 15972/2011 e Consiglio di Stato 7731/2010, oltre a Tar Liguria 1406 cit.). Va quindi ribadito che ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze dal confine, il terrapieno e il muro di contenimento, che producano un dislivello o aumentano quello già esistente per la natura dei luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee ad incidere sull'osservanza delle norme in tema di distanza dal confine.

EDILIZIA PRIVATADistanze tra edifici.
La maggiorazione della distanza fino a raggiungere la misura corrispondente all’altezza del fabbricato più alto prevista dal terzo comma dell’art. 9, d.m. n. 1444/1968, si applica negli stessi casi in cui sono prescritti i limiti di distanza indicati dal primo comma del medesimo articolo.
Da ciò si deduce che i limiti posti alle distanze degli edifici dal comma in questione si applicano anche alla zona A e nelle stesse ipotesi previste dal n. 1 del primo comma dell’art. 9.
Ciò comporta che le distanze in questione si applicano indipendentemente dalla presenza o meno di pareti finestrate, in quanto il punto n. 1 del primo comma dell’art. 9 si riferisce alle distanze tra edifici senza altre specificazioni
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 23.08.2016 n. 4092 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
6) Nel quinto e ultimo motivo di ricorso parte ricorrente ha indicato che gli interventi della legge sul piano casa sono consentiti su edifici residenziali ubicati in aree urbanizzate, nel rispetto delle distanze minime e delle altezze massime dei fabbricati di cui al Decreto Ministeriale n. 1444/1968.
Nel caso di specie sarebbe stato violato l'art. 9, ultimo comma, dell’indicato decreto, che prevede come, qualora le distanze tra fabbricati risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le stesse siano maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa.
Il fabbricato delle ricorrenti risulterebbe alto 14,88 metri e presenterebbe pareti finestrate, munite anche di balconi, sul fronte contrapposto all'edificio in corso di realizzazione che risulta posizionato a “soli” 12,07 metri di distanza.
Inoltre, l'edificio assentito con il Permesso di Costruire impugnato risulterebbe posizionato a 3,15 metri dal confine della proprietà delle ricorrenti, in violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, che prevede la distanza minima di 10 metri fra gli edifici, comportando, per dato logico, l'obbligo di rispettare anche la distanza minima di 5 metri dal confine.
Risulterebbe, infine, violato anche l'art. 7 del richiamato D.M. n. 1444/1968, che prevede in zona A una densità fondiaria per le eventuali nuove costruzioni ammesse che, in base alla tipologia dell’intervento assentito, non può superare in ogni caso i 5 metri cubi a metro quadrato, che di fatto sarebbe stato superato.
L'indice fondario risultante dal permesso di costruire assentito sarebbe, infatti, pari a 7,30 metri cubi a metro quadrato, ben superiore ai 5 consentiti.
Inoltre, il Piano Regolatore Generale del Comune di Maddaloni, prevede, per la zona A1, che il rapporto tra altezza del fabbricato e larghezza dello spazio pubblico o privato antistante debba essere pari a 1.
Il Permesso di Costruire rilasciato prevede la sopraelevazione del corpo del fabbricato prospiciente Via Marconi, che raggiunge un'altezza di oltre 11 metri.
La Via Marconi è larga circa 7 metri e, pertanto, l'altezza assentita supera la larghezza della strada, violando così il rapporto specificamente dettato dal Piano Regolatore Generale.
Il motivo di ricorso si rileva fondato.
E’ pacifico che l’edificio in questione ricada in zona A, in riferimento alla quale l’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, prevede che per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale.
Il comma 3 del medesimo art. 9 prevede che “qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Al riguardo la maggiorazione della distanza fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza del fabbricato più alto prevista dal terzo comma dell'indicato art. 9 si applica negli stessi casi in cui sono prescritti i limiti di distanza indicati dal primo comma del medesimo articolo (Consiglio di Stato, sez. IV, 05.10.2015, n. 4628).
Da ciò si deduce che i limiti posti alle distanze degli edifici dal comma in questione si applicano anche alla zona A e nelle stesse ipotesi previste dal n. 1 del primo comma dell’art. 9.
Ciò comporta che le distanze in questione si applicano indipendentemente dalla presenza o meno di pareti finestrate, in quanto il punto n. 1 del primo comma dell’art. 9 si riferisce alle distanze tra edifici senza altre specificazioni.
Nel caso di specie la distanza intercorrente con l’edificio vicino è minore dei 14,88 metri corrispondenti all’altezza del fabbricato delle ricorrenti che risulta posizionato a 12,07 metri di distanza e non ha rilevanza, a tal fine, la circostanza che la parete da cui è stata misurata la distanza sia stata solo di recente dotata di aperture e che, quindi, non potesse essere considerata come parete finestrata.
La su indicata censura si rivela, pertanto, fondata.

EDILIZIA PRIVATACriterio della prevenzione.
Inesistenza di alcun margine di discrezionalità in sede giurisdizionale nell’applicazione della disciplina. L’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, dovendosi dunque interpretare le distanze tra le costruzioni come predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, sentenza 09.05.2016 n. 152 -  massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
I motivi di gravame seguono due diverse linee direttrici. Da un lato, viene invocata la disciplina edilizia locale e pianificatoria, che consentirebbe il rispetto di distanze inferiori a quelle disposte dalla normativa statale applicata col provvedimento impugnato. Dall’altro lato, si contesta l’assenza dei presupposti per l’esercizio del potere di autotutela.
Sul primo versante, la posizione prospettata appare contrastante con la costante opinione giurisprudenziale, compiutamente posta a fondamento dell’atto impugnato. In materia, va pertanto ribadito che l'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e quindi non è eludibile. Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi (cfr. ad es. Tar Liguria n 476/2013 e CdS 2861/2015).
Sul secondo versante, in linea di diritto per giurisprudenza consolidata e tradizionale l'annullamento in autotutela di una concessione edilizia rilasciata in violazione delle distanze minime tra fabbricati non necessita di specifica motivazione né dell'espressa comparazione tra l'interesse pubblico all'annullamento e quello del privato alla conservazione dell'atto illegittimo, essendo le norme sulla distanza tra fabbricati inderogabili ed esse stesse tese al rispetto di principi fondamentali in termini di salubrità, con la conseguenza che l'attività posta in essere dal comune è vincolata (cfr. ad es. CdS n. 3201/2006).
Nel caso di specie, il provvedimento impugnato ha preso in esame tutti gli elementi della fattispecie, evidenziando il vizio di legittimità che minava i titoli annullati; vizi di tale rilevanza da escludere la necessità, secondo il principio appena richiamato, dell’indicazione di ulteriori considerazioni e profili di interesse pubblico. Inoltre, nell’ambito dello stesso provvedimento risulta essere stata svolta una adeguata valutazione degli ulteriori elementi invocati, integranti l’esercizio di autotutela; in specie, relativamente all’affidamento del privato, assume rilievo dirimente l’immediata attivazione da parte della p.a. del rimedio della sospensione dei lavori, nelle more della necessaria valutazione degli elementi poi posti a fondamento dell’annullamento, avente altresì l’effetto di limitare il consolidarsi dell’invocato affidamento.
Né appare invocabile il termine finale o perentorio di diciotto mesi, introdotto ex novo dal d.l. 133/2014 e dalla legge 124/2015; in proposito, se per principio generale (tempus regit actum) tale nuova disposizione non è certo invocabile rispetto ad una fattispecie consumatasi oltre quattro anni prima la relativa entrata in vigore, nel caso di specie tale violazione neppure risulta tempestivamente dedotta né deducibile (risalendo lo stesso ricorso al 2010). In proposito, è erroneo il richiamo al precedente giurisprudenziale (C.S. n. 5625/2015), in quanto la sentenza invocata ha accolto il ricorso censurando l’irragionevolezza del termine di tredici anni trascorso fra il rilascio del titolo e l’annullamento nonché la mancata valutazione motivata della conseguente posizione assunta dai destinatari dell’atto; inoltre, proprio con riferimento alla nuova normativa la stessa decisione, all’opposto rispetto a quanto invocato dalla odierna difesa ricorrente, ne ha escluso l’applicazione alla fattispecie in esame ratione temporis, sottolineandone unicamente (in termini invero del tutto condivisibili) rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti.
Nel caso de quo, all’opposto, del tutto lineare appare il comportamento della p.a. procedente, la quale ha accertato e valutato tutti gli elementi della fattispecie, sia conformemente alla normativa preminente sia in termini di adeguatezza e completezza tali da escludere, negli ambiti di sindacabilità propri del presente giudizio di legittimità, il travisamento di quale elemento di fatto ovvero la manifesta irragionevolezza delle valutazioni svolte.

 

In tema di "mobbing" nel pubblico impiego:

PUBBLICO IMPIEGO: Onere probatorio incombente sul lavoratore vessato.
L’elemento qualificante del mobbing non va ravvisato nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica. La relativa prova è a carico di chi assume di avere subito la condotta vessatoria.
Di conseguenza il lavoratore che agisce chiedendo il risarcimento dei danni subiti a causa del mobbing deve provare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, quindi in primis la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti ove considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio
(TRIBUNALE di Torino, Sez. V, sentenza 10.05.2021 n. 724 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: presupposti.
L’elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi legati tra loro dall’intento persecutorio nei confronti della vittima (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 19.01.2021 n. 591 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
11.1 Lamenta il ricorrente di aver subìto nel tempo atti e comportamenti vessatori, alcuni dei quali concretizzatisi nella dequalificazione delle mansioni, ad opera dei vari Dirigenti o comunque dei superiori gerarchici succedutisi ai vertici del Reparto di appartenenza. In altri termini, nei suoi confronti sarebbe stata portata avanti una strategia complessiva da una pluralità di soggetti, finalizzata a danneggiarlo ed isolarlo dal contesto, integrante gli estremi del cosiddetto mobbing.
12. L'individuazione della cornice definitoria del fenomeno, in assenza di indicazioni normative, è ormai agevolata dai numerosi arresti giurisprudenziali, penali, civili, amministrativi e contabili, sostanzialmente convergenti verso l’enucleazione di principi comuni.
La Sezione ritiene sufficiente qualche cenno al riguardo, onde attualizzare il paradigma giuridico rispetto alla già chiara ricostruzione del Tar, allo scopo di valutare la correttezza della valutazione effettuata di insussistente sovrapponibilità degli accadimenti in esame rispetto allo stesso. Il Giudice amministrativo ha dunque confermato, con considerazioni cui ci si riporta, che “l’elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi legati tra loro dall'intento persecutorio nei confronti della “vittima”” (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 07.02.2019, n. 910).
La tradizionale distinzione tra c.d. mobbing verticale o bossing, e c.d. mobbing orizzontale, in ragione del soggetto attuatore delle condotte vessatorie (il superiore gerarchico o un collega), nel caso di specie parrebbe non rilevare, venendo in evidenza entrambe le componenti. Il ricorrente, infatti, non si diffonde nella ricerca delle responsabilità soggettive, con ciò accomunando nella narrazione condotte e atti posti in essere da autori diversi per i quali la riconducibilità ad un unitario disegno persecutorio appare tutt’altro che provata.
13. Il Collegio rileva, infatti, come sotto il profilo dell’elemento psicologico si renda necessario che gli accadimenti siano tutti sussumibili sotto l’egida unificante del dolo generico o specifico di danneggiare psicologicamente la personalità del lavoratore, emarginandolo, sulla base di un’unica strategia. Singoli atti riconducibili all’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro, perfino se conflittuale a cagione di antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, ove non caratterizzati da tale volontà, non assumono rilievo nella necessaria visione d’insieme del fenomeno. La ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante deve essere pertanto esclusa allorquando la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il richiamato carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.10.2018, n. 5905).
Nelle premesse, l’appellante ripercorre i profili della vicenda esaminati dal verificatore nel corso del giudizio di prime cure al fine di coglierne pretesi errori, ma l’intento che ispira la parte non può dirsi raggiunto avendo l’istruttoria disposta dal Tar consentito di appurare l’inconsistenza degli episodi enumerati nel ricorso originario al fine di integrare la prospettata condotta mobbizzante. A nulla rileva la circostanza, evidenziata in appello, del mancato compiuto godimento del periodo di congedo straordinario, comunque consentito dall’Ufficio così come non si evince l’effettivo pregiudizio patito dal ricorrente per effetto della mancata iniziativa assunta dall’Ufficio ai fini dell’invio della pratica alla Commissione Medica Ospedaliera (mancanza alla quale ha sopperito lo stesso ricorrente) o al difetto di informazione in ordine alla indizione degli interpelli nel periodo in cui il dipendente era in malattia.
14. Chiarito quanto sopra, il Collegio può passare a vagliare la complessa vicenda sottesa alle deduzioni del ricorrente, avuto riguardo peraltro alla dualità delle richieste avanzate: in primo luogo, il danno da quello da mobbing; indi da mancata adozione delle misure a tutela della salute del lavoratore.
Ora, è noto che l’analisi del mobbing, per la particolare sensibilità della relativa tematica, impone al giudice di evitare di assumere acriticamente l’angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima: da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro (cui siano imputabili in ipotesi le condotte illecite di altri dipendenti) non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica; dall’altro, che gli atti relativi siano di per sé ragionevoli e giustificati, in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali.
In altre parole, non si deve sottovalutare l’ipotesi che l’insorgere di un clima di cattivi rapporti umani e l’insorgere di comportamenti oggettivamente sgraditi derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell’interessato; tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale, pur non essendo tale. Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l’ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate, quali i Corpi di Polizia, caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate.
L’appellante, conseguita la qualifica di Assistente Capo in data 28.08.2003, valorizza una serie di episodi asseritamente idonei ad integrare una vera e propria condotta persecutoria ai suoi danni a decorrere dal mese di luglio 2006 per circa un biennio, che tuttavia appaiono slegati fra di loro invece che essere avvinti da quel filo conduttore che consenta di riconfigurarli quali tasselli di una fattispecie complessa. Come rammentato, di recente, dalla Sezione (sentenza 11.03.2020, n. 1746), per costante e condivisa giurisprudenza (ex aliis Cassazione civile, sez. lav., 11.12.2019, n. 32381) “il mobbing lavorativo è configurabile ove ricorrano due elementi: quello oggettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo, integrato dall'intendimento persecutorio del datore medesimo; quest'ultimo richiede che siano posti in essere atti, contro la vittima, in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente dal datore o di un suo preposto o di altri dipendenti, comunque sottoposti al potere gerarchico dei primi due”. E’ proprio tale indefettibile elemento soggettivo che non trova in alcun modo riscontro negli atti di causa.
Per quanto riguarda poi l’asserito demansionamento, questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare (v. da ultimo, Cons. Stato, sez. III, 27.02.2019, n. 1371) che “il prestatore di lavoro, che chiede la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita (lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso), deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa (ex multis,Cass. Civ. sez. lav., 05.12.2008, n. 28849)”.
A fronte di ciò parte appellante si limita ad affermare che il mancato rispetto dell’assetto mansionistico di riferimento si sarebbe verificato “in svariate occasioni” senza tuttavia esporre un quadro fattuale più dettagliato, anche di tipo probatorio, anzi invocando l’applicazione del “principio di cui all’art. 116 c.p.c.” (cfr. pagina 14 dell’appello). Ora, a prescindere dalla effettiva ricaduta applicativa di tale principio nel processo amministrativo (in tema, Cons. Stato, sez. VI, 27.02. 2018, n. 1160, secondo cui “il principio di “non contestazione” di cui agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. trova nel processo amministrativo di legittimità un’applicazione temperata dalla particolare struttura di quest’ultimo, che di regola fa seguito ad un procedimento amministrativo, le cui risultanze, tradotte nei relativi atti, vanno tenute per ferme, quanto meno sino a prova contraria”) è fuor di dubbio che, in caso di proposizione di domanda risarcitoria, l’onere della prova incombe sull’istante secondo il principio generale previsto dall’art. 2697 c.c. (Cons. Stato, sez. III, 24.12.2019, n. 8813).
Nel caso di specie, alla luce di quanto innanzi esposto, non risulta integrata la prova della sussistenza del danno, né degli specifici aspetti riconducibili a responsabilità del datore di lavoro pubblico, che avrebbero privato il lavoratore dello svolgimento di uno o più dei profili mansionistici afferenti alla propria qualifica, tali da potersi ricollegare causalmente ad un danno subìto e che, come si è detto, è rimasto non provato. Parte appellante insiste nel ritenere di essere stato indebitamente adibito al servizio di sentinella ancorché esso, all’esito dell’istruttoria, non sia risultato estraneo alle proprie mansioni e comunque non può escludersi che si sia palesata l’esigenza di provvedere, peraltro per un ristretto arco temporale, all’adibizione del ricorrente al suo espletamento.
15. Parte appellante insiste, altresì, per la domanda di risarcimento del danno per la mancata adozione delle misure necessarie alla tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore ai sensi dell’art. 2087 c.c. evidenziando l’alterità di tale istanza rispetto a quella di risarcimento del danno per mobbing.
Per vero, l’art. 2087 c.c. –secondo cui il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro– può trovare applicazione anche al di fuori delle ipotesi di mobbing. Ove il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati —esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale— pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili (Cons. Stato, sez. VI, 12.03.2015, n. 1282).
Orbene, la domanda risarcitoria postula però la lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore di cui non vi è traccia negli atti di causa. Anche tale domanda va quindi respinta.
16. Va infine disattesa l’istanza di indagine medico legale sull’effettivo stato di salute del dipendente sia perché non viene in considerazione alcun evento potenzialmente traumatico in grado di autonomamente inficiare l’integrità psico-fisica dell’appellante sia perché il giudice non può sopperire al mancato espletamento dell’onere probatorio, come detto, incombente alla parte ricorrente in caso di proposizione di domanda risarcitoria.
11. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto.

PUBBLICO IMPIEGO: Tutela delle condizioni di lavoro.
In tema di comportamenti datoriali discriminatori, l’art. 40 del d.lgs. 11.04.2006, n. 198 –nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità– non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54, l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso (TRIBUNALE di Roma, Sez. I, sentenza 06.11.2020 n. 7274 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: contenzioso e onere della prova.
In tema di mobbing, spetta al lavoratore, ex art. 2697 c.c., fornire la prova della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, della molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, dell’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente, del nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore, nonché la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (TRIBUNALE di Mantova, Sez. lavoro, sentenza 28.10.2020 n. 103 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Intento persecutorio: risarcibilità dei danni.
Ai fini dell’accertamento di una condotta datoriale mobbizzante, è onere del lavoratore fornire una sicura prova circa:
   (a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato con intento vessatorio;
   (b) l’evento lesivo della propria salute o della propria personalità;
   (c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro (o del superiore gerarchico) ed il pregiudizio alla propria integrità psico-fisica; e
   (d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi
(TRIBUNALE di Roma, Sez. lavoro, sentenza 21.01.2020 n. 542 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Riparto dell’onere probatorio.
Posto che il mobbing ha fonte sia contrattuale ex art. 2087 c.c. sia extracontrattuale ex art. 2043 c.c., si deve ritenere che spetti al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente, e che invece spetti al lavoratore dimostrare l’esistenza del nesso causale tra l’evento lesivo e il comportamento del datore di lavoro.
Ciò che è certo, è che non può configurarsi un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento qualora non venga offerta rigorosa prova del danno e della relazione causale fra il medesimo ed i pretesi comportamenti persecutori
(TRIBUNALE di Roma, Sez. lavoro, sentenza 15.01.2020 n. 10057 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: elementi essenziali e onere probatorio.
Il fenomeno del mobbing, per assumere giuridica rilevanza, implica l’esistenza di plurimi elementi, la cui prova compete al prestatore di lavoro, di natura sia oggettiva che soggettiva e, fra questi, l’emergere di un intento di persecuzione, che non solo deve assistere le singole condotte poste in essere in pregiudizio del dipendente, ma anche comprenderle in un disegno comune e unitario, quale tratto che qualifica la peculiarità del fenomeno sociale e giustifica la tutela della vittima.
(Nella specie si trattava di scelte di politica e organizzazione aziendale che hanno riguardato tutti i lavoratori addetti al servizio di guardiania e custodia come eliminare dalla guardiola il frigorifero, il televisore e la macchina del caffè, vietare ai custodi l’uso dell’alloggio nel villaggio, adottare un orario di lavoro spezzato o in singole condotte che hanno riguardato altri lavoratori o che hanno avuto comunque valenza generale come l’omessa riparazione della pavimentazione all’esterno della guardiola, ma tali condotte non avevano un intento persecutorio in danno del ricorrente)
(TRIBUNALE di Lecce, Sez. lavoro, sentenza 25.11.2019 n. 3468 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Responsabilità oggettiva e onere della prova del lavoratore.
L’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ciò in quanto la responsabilità del datore di lavoro deve essere collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Da tale principio deriva che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 01.08.2019 n. 1808 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
II) In via preliminare va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alla controversia di cui è causa.
A margine del rilievo della non pertinenza delle pronunce giurisprudenziali citate dalla ricorrente a sostegno della propria deduzione in ordine al difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, e non volendo il Collegio soffermarsi sulla violazione del canone di buona fede processuale, concretatasi nel caso di specie con il venire contra factum proprium, avendo la ricorrente adito sua sponte il giudice amministrativo, va rilevato che nessun dubbio sussiste in ordine alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, trattandosi di controversia attinente al pubblico impiego di personale non contrattualizzato, ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 133, comma 1, lett. i), c.p.a. e all’art. 3 del D.lgs. 165/2001.
In tale ipotesi la giurisdizione si estende anche alla cognizione delle azioni inerenti il risarcimento del danno derivante dal cosiddetto mobbing a condizione che l'azione proposta possa qualificarsi in termini di responsabilità contrattuale per violazione dell'obbligo di garanzia imposto dall'art. 2087 c.c. (Cons. Stato Sez. VI, 20.06.2012, n. 3584) nel caso di comportamenti vessatori adottati nell'esercizio del potere di supremazia gerarchica posto a regolazione dello svolgimento del rapporto di lavoro (Consiglio di Stato, sez. IV, 26/11/2015, n. 5371) e da ricondurre specificamente al rapporto di servizio.
Ora, secondo la prospettazione della ricorrente le condotte dell'Amministrazione che avrebbero determinato il danno asseritamente subito sarebbero proprio riconducibili al rapporto di servizio.
Va comunque in proposito precisato che nessuna rilevanza può avere ai fini del riparto di giurisdizione la vicenda (distinta) riguardante l’accertamento della dipendenza da causa di servizio della patologia riscontrata, che, come si dirà meglio in seguito, neppure rileva sotto il profilo di merito della presente controversia.
Le questioni riguardanti la pensione privilegiata, di cui la ricorrente ha interessato la competente sezione regionale della Corte dei Conti, hanno natura nettamente differente dalla domanda avanzata con il ricorso introduttivo.
Deve dunque affermarsi la giurisdizione di questo Tribunale.
III) Venendo al merito della controversia, come appena rilevato, va innanzi tutto osservato che non può trarsi alcun elemento di fondatezza della domanda risarcitoria avanzata nella presente sede dall’avvenuto accertamento della dipendenza da causa di servizio della patologia riscontrata alla ricorrente.
Come condivisibilmente argomentato dalla difesa dell’Amministrazione non può esserci un’automatica trasposizione sul piano della responsabilità datoriale dell’accertata inidoneità al servizio attivo.
Ed invero al fine di ritenere sussistente la fattispecie del mobbing occorrono elementi che, nel procedimento volto ad accertare la dipendenza da causa di servizio di una certa patologia, non vengono minimamente considerati, quale, in particolare, l’intento persecutorio.
Sotto tale profilo risultano del tutto irrilevanti e non pertinenti le argomentazioni sviluppate dalla difesa della ricorrente nelle 39 pagine della memoria depositata per l’udienza pubblica (e dei 209 documenti), prevalentemente incentrate sul procedimento per il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio con digressioni varie sulla natura del Comitato di verifica per le cause di servizio, che, evidentemente non sono conducenti in relazione alla vicenda di cui è causa.
La giurisprudenza ha avuto modo di osservare che la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio" non implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (Consiglio di Stato sez. VI, 12.03.2015, n. 1282; Cassazione civile sez. lav., 29.01.2013, n. 2038).
Ciò chiarito, ad avviso del Collegio il ricorso non è meritevole di accoglimento.
Va premesso, in via teorica e generale, che in relazione al mobbing, fattispecie priva di definizione normativa, sono stati elaborati dalla giurisprudenza alcuni principi, con specifica attinenza al rapporto di pubblico impiego, per delinearne gli elementi costitutivi.
Il mobbing c.d. verticale, nel rapporto di impiego pubblico, si sostanzia in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica (TAR Milano sez. III, 02.02.2018, n. 310; Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.03.2015, n. 1282).
Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva da mobbing, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, di seguito indicati (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16.04.2015, n. 1945; Cass. civ., sez. lav., 19.02.2016, n. 3291; id., 16.03.2016, n. 5230):
   a) la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico o prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;
   b) l'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
   c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore;
   d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio.
La sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall'accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l'elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito, che è imprescindibile ai fini della concretizzazione del mobbing (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14.05.2015, n. 2412).
Conseguentemente un singolo atto illegittimo o anche più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore, non sono, di per sé soli, sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.04.2015, n. 1945).
Sul piano processuale, la condotta che dà luogo a mobbing deve essere allegata nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito, ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi, ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice, eventualmente, anche attraverso l'esercizio dei suoi poteri ufficiosi, possa verificare la sussistenza, nei suoi confronti, di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione.
La ricorrenza del mobbing deve essere, dunque, esclusa tutte le volte che la valutazione complessiva dell'insieme delle circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singulatim, elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante del complesso di condotte poste in essere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.09.2015, n. 4394).
Applicando al caso di specie le suddette coordinate ermeneutiche, ad avviso del Collegio non risultano provati gli elementi che integrano la fattispecie risarcitoria da mobbing, dovendosi rammentare che nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l'onere della prova grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il ricorrente che chiede il risarcimento del danno deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda (Consiglio di Stato, sez. VI, 28.01.2016, n. 284).
In particolare nel caso di specie non risulta assolto l'onere probatorio da parte della ricorrente in relazione né al profilo oggettivo della condotta illecita né a quello soggettivo.
Quanto alla condotta illecita sotto un profilo oggettivo la ricorrente si è limitata ad elencare una serie di episodi che appaiono pacificamente riconducibili alle ordinarie dinamiche, talvolta anche conflittuali, nell’ambito del rapporto di impiego. Ed invero il non gradimento da parte del dipendente delle scelte organizzative dell’Amministrazione, che incidono sulla sua posizione lavorativa, non può essere ascritto ad una ipotesi di mobbing.
In termini generali va osservato che molti degli episodi riferiti sono riconducibili a fisiologiche conflittualità tra subordinati e superiori gerarchici, particolarmente esasperati in un ambiente, quale quello militare, in cui il principio della superiorità gerarchica permea profondamente la disciplina del rapporto di servizio.
Altri episodi sono invece riconducibili ad atti organizzativi assunti tenendo conto delle fisiologiche carenze di personale che affliggono tale settore del pubblico impiego.
A prescindere dal fatto che l’Amministrazione nella propria memoria fornisce una ricostruzione differente degli stessi episodi, i quali dunque risultano contestati nella loro dimensione fenomenologica, va osservato che nell’atto introduttivo del giudizio in relazione a tali episodi non è stata neppure individuata la violazione da parte dell'Amministrazione degli specifici obblighi inerenti al rapporto di impiego, essendosi limitata la ricorrente a generiche e non contestualizzate affermazioni sul mobbing, nonché a lati riferimenti giurisprudenziali sulla fattispecie.
Va in proposito ricordato che "l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi" (Cassazione sez. lav. 29.01.2013, n. 2038).
Quanto al profilo soggettivo della condotta illecita, l’individuazione dell’intento persecutorio, che deve costituire il filo conduttore dei diversi episodi ritenuti mobbizzanti, è dalla ricorrente meramente affermata ma lungi dall’essere dimostrata. Ciò anche alla luce di quanto rilevato in relazione agli episodi riferiti, che non sembrano di per sé rivelare alcun intento persecutorio o di un disegno unitario dell’Amministrazione volto alla emarginazione o alla persecuzione della dipendente.
L’intento persecutorio imputato all’Amministrazione risulta quindi frutto di personale convincimento della ricorrente, che tuttavia non risulta supportato da alcuna concreta ed idonea dimostrazione.
Il lavoratore "non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione" (Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2013, n. 4135; idem 12.03.2012, n. 1388).
In conclusione, per le ragioni che precedono, il ricorso non è meritevole di accoglimento e deve essere rigettato.

PUBBLICO IMPIEGO: Pluralità di condotte lesive e intento persecutorio.
È configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo è onere del lavoratore che lo denunci e che chieda di essere risarcito provare l’esistenza di tale danno, ed il nesso causale con il contesto di lavoro (respinta, nella specie, la richiesta di risarcimento avanzata da un dipendente, di un Caf; mancava, infatti, la prova che le singole condotte tenute dalla struttura avessero avuto come obiettivo quello di emarginare e ledere il lavoratore) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 05.04.2019 n. 9664 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
6.3. La sentenza della Corte territoriale non è incorsa infatti nella violazione delle disposizioni in tema di distribuzione dell'onere della prova (2697 cod. civ.).
Premesso che è configurabile il "mobbing" lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio del datore medesimo è onere del lavoratore che lo denunci e che chieda di essere risarcito provare l'esistenza di tale danno, ed il nesso causale con il contesto di lavoro (cfr. Cass. 06/08/2014 n. 17698, 21/05/2018 n. 12437).
La Corte territoriale esattamente applicando tale regola e sulla base delle allegazioni e delle prove acquisite in giudizio ha escluso che fosse stata offerta la prova che le singole condotte denunciate fossero connotate da un'emarginazione o di un intento persecutorio del datore di lavoro, nella sostanza escludendo che il comportamento datoriale sia stato caratterizzato da iniziative che potessero ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene".

PUBBLICO IMPIEGO: Danno alla salute a causa dell’attività lavorativa.
Incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 27.02.2019 n. 5749 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
4. Il primo motivo è connotato da assoluta genericità delle critiche mosse alla decisione impugnata.
Peraltro, la decisione si pone in linea con i principi reiteratamente affermati da questa Corte in tema di responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. e di riparto dell'onere della prova, principi secondo i quali tale norma "non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro -di natura contrattuale- va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno" (cfr. Cass. 19.10.2018 n. 26495, Cass. 08.10.2018 n. 24742 e, da ultimo, Cass. 122808/2018).
5. In tema di malattie ed eziologia plurifattoriali, la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità (cfr. Cass. 08.05.2013 n. 10818).
Né la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio" implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 cod. civ., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (cfr. Cass. 29.01.2013 n. 2038).
6. Infine, le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell'art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un'origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. (cfr. Cass. 27.06.2017 n. 15972). 
Ciò che nella specie è stato escluso dal giudice del gravame con motivazioni che, come sopra precisato, non sono state idoneamente contrastate dai rilievi mossi in questa sede.

PUBBLICO IMPIEGO: Domanda di risarcimento del danno da mobbing.
Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa del mobbing deve indicare in maniera specifica il tipo di danno che assume di avere subito e poi fornire la prova dei pregiudizi da tale tipo di danno in concreto scaturiti, prova che può essere fornita anche ex art. 2729 c.c., attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, restando in ogni caso affidato al giudice di merito il compito di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussista, dopo l’individuazione, appunto, della specie, e determinandone l’ammontare, eventualmente con liquidazione equitativa (TRIBUNALE di Trani, Sez. lavoro, sentenza 19.11.2018 n. 1770 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing: intento persecutorio del datore di lavoro.
Diversamente dalla figura del demansionamento, il mobbing è caratterizzato dall’esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro, intento che deve formare oggetto di dimostrazione da parte di chi rivendica il danno subìto, fermo restando che il demansionamento, qualora provochi danni morali e professionali, dà diritto al risarcimento indipendentemente dalla ulteriore sussistenza del mobbing.
In ogni caso, i fatti portati a fondamento sia del danno da demansionamento, quanto del danno da mobbing, devono ricevere idonea dimostrazione in giudizio secondo il principio dell’onere della prova, sancito dall’art. 2697 c.c. e valido anche per le controversie portate dinnanzi alla giurisdizione amministrativa, secondo il quale chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento
(TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 01.02.2017 n. 84 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
3. Il ricorso non è fondato.
Nella sostanza il ricorrente fa valere, con il presente giudizio, i danni che gli sarebbero derivati sia dall’illegittimo “demansionamento” (vale a dire, dall’attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle della sua qualifica di appartenenza) sia dal complessivo comportamento di mobbing posto in essere nei suoi confronti.
3.1. E’ nota in proposito la differenza tra le due situazioni: il mobbing, diversamente dall’altra figura, è caratterizzato dall’esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro, intento che deve formare oggetto di dimostrazione da parte di chi rivendica il danno subìto, fermo restando che il demansionamento, qualora provochi danni morali e professionali, dà diritto al risarcimento indipendentemente dalla ulteriore sussistenza del mobbing (cfr., Consiglio di Stato, Sez. III, 12.01.2015 n. 28 del 2015; TRGA Trentino Alto Adige, Bolzano, 23.09.2015, n. 279 del 2015; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 02.03.2015, n. 342).
In ogni caso, i fatti portati a fondamento sia del danno da demansionamento, quanto del danno da mobbing, devono ricevere idonea dimostrazione in giudizio secondo il principio dell’onere della prova, sancito dall’art. 2697 c.c. e valido anche per le controversie portate dinnanzi alla giurisdizione amministrativa, secondo il quale chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
3.2. La giurisprudenza, in proposito, ha precisato che, ai fini di ritenere provato un danno da dequalificazione professionale attraverso il meccanismo delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., non è sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali, come la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altri simili indici, dovendo invece procedere il giudice di merito, pur nell'ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza (di recente, in tal senso, Cass., Sez. lav., 18.08.2016, n. 17163).
Analogamente è a dirsi per la prova degli elementi costitutivi del mobbing, tenendo presente che, nel rapporto d’impiego pubblico, esso si sostanzia in una condotta del datore di lavoro (o del superiore gerarchico) “complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica; pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva da mobbing, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati in particolare:
   a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;
   b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
   c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore;
   d) dalla prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio unificante i singoli fatti lesivi, che rappresenta elemento costitutivo della fattispecie
” (in tal senso, di recente, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2016, n. 4509).
3.3. E così, per un verso, quanto al danno da demansionamento, la giurisprudenza ha evidenziato che, sul piano probatorio, sebbene l’obbligo del datore di lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni rispondenti alla categoria attribuita o a mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte abbia natura contrattuale, tuttavia il contenuto del preteso demansionamento va comunque esposto nei suoi elementi essenziali dal lavoratore che non può, quindi, limitarsi genericamente a dolersi di essere vittima di un illecito, ma deve almeno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice amministrativo, anche con i suoi poteri officiosi, possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di una condotta illecita; ciò, peraltro, sul presupposto che l'illecito di demansionamento non è ravvisabile in qualsiasi inadempimento alle obbligazioni datoriali bensì soltanto nell'effettiva perdita delle mansioni svolte (in tal senso, da ultimo, TAR Lazio, Roma, Sez. I, 07.02.2015, n. 2280).
Per altro verso, ed analogamente, quanto al danno da mobbing è stato ribadito che il lavoratore non può limitarsi, davanti al giudice, a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione (Cons. Stato, Sez. VI, 12.03.2015, n. 1282).
3.4. Con riguardo, poi, al danno-conseguenza, ossia allo specifico pregiudizio professionale, biologico ed esistenziale sofferto dal lavoratore, esso deve essere parimenti allegato e provato dal danneggiato, in quanto non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nelle su indicate categorie: non è sufficiente, in altre parole, dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, ma incombe sul lavoratore l’onere non solo di allegare gli elementi costitutivi del demansionamento o del mobbing, ma anche di fornire la prova, ex art. 2697 c.c., del danno non patrimoniale che ne è derivato e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (da ultimo, in tal senso, TAR Lazio, Roma, Sez. I-ter, 26.06.2015, n. 8705 del 2015; TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 12.03.2015, n. 725).
...
4.2.2. Come è noto, la condotta illecita di mobbingnon è ravvisabile quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo (o imprenditoriale nel caso del lavoro privato), o, infine, quando vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (Cons. Stato, Sez. VI, 06.05.2008 n. 2015; TAR Piemonte, Sez. I, 08.10.2008, n. 2438)” (TAR Piemonte, Sez. I, 10.07.2015, n. 1168).
...
7. Alla luce delle su indicate circostanze, il Collegio ritiene che il ricorrente non abbia adempiuto (né si sia offerto di adempiere articolando prova testimoniale su circostanze in tal senso rilevanti) agli oneri probatori su di esso gravanti in materia.
Come è noto, “in relazione all’imputazione soggettiva dell’onere della prova, la giurisprudenza afferma la natura contrattuale della relativa azione risarcitoria, dal momento che quest’ultima rinviene il proprio presupposto nell'espletamento dell'attività lavorativa da parte del soggetto asseritamente leso e nella ritenuta violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo su di esso incombente ai sensi dell'art. 2087 c.c..
Pertanto, alla luce dei principi affermati dall’art. 1218 c.c., grava sul lavoratore l'onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro il solo onere di provare l'assenza di una colpa a sé riferibile.
In ordine all'onere della prova da offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobbizzante, quest'ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo (TAR Lombardia, Milano, sez. I, 11.08.2009 n. 4581; TAR Lazio, Roma, III, 14.12.2006 n. 14604);
   - in altri termini, il mobbing, proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo, non può essere correlato in via esclusiva, ma neanche prevalente, al vissuto interiore del soggetto, ovvero all'amplificazione da parte di quest'ultimo delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 07.04.2008 n. 2877);
- in particolare, nell'esaminare i casi di preteso mobbing, il giudice deve evitare di assumere acriticamente l'angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima: da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro, pur se oggettivamente sgraditi, non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica; dall'altro, è possibile che gli atti del datore di lavoro (pur sgraditi) siano di per sé ragionevoli e giustificati in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali, etc. (TAR Umbria, Sez. I, 24.09.2010 n. 469);
- in altre parole, non si deve sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere di un clima di cattivi rapporti umani derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell'interessato; tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale;
- tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l'ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate (come i Corpi di Polizia), caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate: infatti, in questa situazione un approccio condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non strumentale) fornita dall'interessato può essere quanto mai fuorviante
” (TAR Piemonte, Sez. I, 10.07.2015, n. 1168).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing e onere della prova.
Nel giudizio per il risarcimento del danno da mobbing non può darsi ingresso al c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio, con la conseguenza che il ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo (o omesso) esercizio della funzione pubblica, deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda.
Inoltre, la prova dell’esistenza del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza, la quale a sua volta presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione, che è configurabile (oltre che nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della P.A.; nondimeno, i doveri di solidarietà sociale, che traggono fondamento dall’art. 2 Cost., impongono di valutare complessivamente la condotta tenuta anche dalle parti private nei confronti della P.A. in funzione dell’obbligo di prevenire o attenuare quanto più possibile le conseguenze negative scaturenti dall’esercizio della funzione pubblica o da condotte ad essa ricollegabili in via immediata e diretta; l’esame di tale profilo si riconnette direttamente all’individuazione, in concreto, dei presupposti per l’esercizio dell’azione risarcitoria, onde evitare che situazioni pregiudizievoli prevenibili o evitabili con l’esercizio della normale diligenza si scarichino in modo improprio sulla collettività in generale e sulla finanza pubblica in particolare
(TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 28.06.2016, n. 7494 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
Osserva il Collegio, al riguardo, che con il ricorso in esame è introdotta azione per il risarcimento del danno, anche biologico, derivante da inadempienze agli obblighi del datore di lavoro nei confronti del ricorrente che, in proposito, lamenta la lesione dei propri diritti, riconducibili allo status di agente di Polizia Penitenziaria, compromesso e infine cessato a causa della attività di mobbing posta in essere da organi dell’Amministrazione di appartenenza.
L’azione introdotta, dunque, va inquadrata nell’ambito della responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ., ed è, dunque, riconducibile alla Amministrazione penitenziaria che, in virtù del principio di immedesimazione organica, risponde direttamente anche per i fatti lesivi posti in essere da parte dei suoi organi.
In coerenza con tale impostazione, la domanda di condanna al risarcimento del danno è stata in effetti rivolta nei soli confronti dell’Amministrazione penitenziaria.
Peraltro, trattandosi di azione risarcitoria per mobbing che si concretizza attraverso le condotte del superiore gerarchico nei confronti del dipendente esorbitante dall’ordinaria gestione del rapporto di lavoro, la funzionaria intimata, che anche nella prospettazione di parte ricorrente avrebbe un ruolo centrale in tale ambito, assume la qualità di controinteressata, siccome chiamata in causa quale autrice materiale della condotta contestata (astrattamente fonte di responsabilità per l’amministrazione di appartenenza) e, pertanto, non può ritenersi estranea al giudizio, come dimostrano anche le ampie e circostanziate difese prodotte dalla medesima, e, pertanto, non deve esserne estromessa.
III. Come emerge dalla ampia esposizione in fatto, il ricorrente ripercorre gli avvenimenti occorsi tra il 2007 ed il 2012 che, a suo dire, costituiscono gli elementi dimostrativi della situazione di mobbing dal medesimo patita, incidenti sul suo stato di salute compromesso fino al punto di essere dichiarato, nel 2013, permanentemente NON IDONEO al servizio di istituto nella Polizia Penitenziaria in modo assoluto e da collocare in congedo assoluto a soli quaranta anni.
I tratti salienti delle vicende lavorative possono essere ricondotti essenzialmente ai seguenti punti:
   a) demansionamento che avrebbe subito nel 2007 quale ritorsione per essere stato promotore di una serie di ricorsi patrocinati dal proprio genitore, avvocato, in favore di numerosi dipendenti che hanno così ottenuto i buoni pasto precedentemente non percepiti;
   b) abbassamento delle note di qualifica negli anni 2011 e 2012 conseguente all’intensificarsi dell’attività sindacale che lo ha visto fondatore di una nuova sigla;
   c) attività di ricerca dei presupposti per avviare procedimento disciplinare nei suoi confronti;
   d) inserimento nel relativo fascicolo personale di documentazione idonea a metterlo in cattiva luce, ignorando qualsiasi pur sussistente elemento di segno contrario;
   e) documentata attività, in particolare, della dirigente dott.ssa -OMISSIS-, per creare un clima ostile e diffamatorio nell’ambiente di lavoro, attorno all’agente sgradito;
   f) avvio di un procedimento disciplinare finalizzato addirittura alla dispensa dal servizio, nell’assoluta assenza dei relativi presupposti di fatto;
   g) derubricazione dei fatti, posti a indebito fondamento dell’incolpazione, dopo un lasso di tempo (circa dieci mesi) tale da comportare –per la sommatoria di tutte le circostanze sopra sintetizzate al prolungato stress, provocato dalla prospettiva di perdere il lavoro– gravi e cronicizzate conseguenze sulla sua salute, che, come sopra precisato, successivamente lasciava il servizio, per sopravvenuta inabilità psico-fisica.
IV. Così individuati i tratti salienti delle vessazioni e mortificazioni subite nell’ambito lavorativo che costituirebbero la prova dell’esistenza di un preciso disegno di emarginazione del ricorrente, e che hanno comunque determinato uno stato di stress psichico ormai cronicizzato, tanto da costringerlo a lasciare il posto di lavoro senza più alcuna certezza sul proprio futuro, umano e lavorativo, il Collegio ritiene doveroso richiamare i principi elaborati dalla giurisprudenza come recentemente ribaditi dal Consiglio di Stato (cfr. Cons. di Stato, Sez. VI, 28.01.2016, n. 284), al fine di valutare la fondatezza delle istanze avanzate nel presente giudizio risarcitorio.
Innanzitutto, deve accertarsi il rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l'onere della prova grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità), non potendosi, di contro, dare ingresso al c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio; da tanto consegue che il ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo (o omesso) esercizio della funzione pubblica, deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda.
Ancora, la prova dell'esistenza del danno deve intervenire all'esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale a sua volta presuppone: l'esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l'esistenza di una lesione, che è configurabile (oltre che nell'ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall'agire (o dall'inerzia) illegittima della p.a.; nondimeno, i doveri di solidarietà sociale, che traggono fondamento dall'art. 2 Cost., impongono di valutare complessivamente la condotta tenuta anche dalle parti private nei confronti della p.a. in funzione dell'obbligo di prevenire o attenuare quanto più possibile le conseguenze negative scaturenti dall'esercizio della funzione pubblica o da condotte ad essa ricollegabili in via immediata e diretta; l’esame di tale profilo si riconnette direttamente all'individuazione, in concreto, dei presupposti per l'esercizio dell'azione risarcitoria, onde evitare che situazioni pregiudizievoli prevenibili o evitabili con l'esercizio della normale diligenza si scarichino in modo improprio sulla collettività in generale e sulla finanza pubblica in particolare.
Esaminando, più da vicino, il fenomeno del mobbing nel rapporto di impiego pubblico questo deve sostanziarsi in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica (Cons. Stato, Sez. VI, 12/03/2015 n. 1282).
Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva da mobbing, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati in particolare:
   a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;
   b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
   c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore;
   d) dalla prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
E’ stato quindi, ritenuto che la sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall'accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l'elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito che è imprescindibile ai fini dell'enucleazione del mobbing (Cons. Stato, Sez. III, 14/05/2015 n. 2412). Conseguentemente un singolo atto illegittimo o anche più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore, non sono, di per sé soli, sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante (Cons. Stato Sez. VI, 16/04/2015 n. 1945).

PUBBLICO IMPIEGO: Condotta vessatoria a carico del lavoratore.
Si ravvisa il mobbing a fronte di una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se singolarmente considerati, che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi.
Altresì, è necessario che vi sia un evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente, nonché l’intento persecutorio, quale elemento unificante di tutti i comportamenti lesivi. La prova della condotta vessatoria, presupposto indefettibile per la configurazione dell’eventus damni e degli effetti risarcitori connessi, spetta al lavoratore (prova che, invero, nella fattispecie non era stata fornita né in primo grado né in secondo grado dal lavoratore, con conseguente rigetto della domanda volta al risarcimento dei danni asseritamente patiti a causa di una condotta vessatoria subita dal medesimo sul luogo di lavoro)
(Corte d'Appello di Potenza, Sez. lavoro, sentenza 26.05.2016 n. 118 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Elementi costitutivi del mobbing.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva di mobbing da parte del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato:
   a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
   b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
   c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio, spettando al lavoratore l’onere di provare ciascuno di detti elementi
(TRIBUNALE di Napoli, Sez. lavoro, sentenza 11.06.2015 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing e mansioni svolte dal dirigente medico.
In termini di ripartizione dell’onere della prova in materia di mobbing, stante la natura contrattuale dell’illecito, grava sul lavoratore l’onere di provare tutta la serie di circostanze e accadimenti storici, poiché occorre che sia necessariamente che sia dimostrato dal datore di lavoro l’intento persecutorio che avrebbe permeato le condotte datoriali (nella specie si è nel merito negato l’asserito demansionamento del lavoratore, in quanto le mansioni svolte dal dirigente medico –pur quantitativamente ridotte– non assumevano un contenuto professionale qualitativamente inferiore rispetto a quelle espletate in precedenza) (Corte d'Appello di L’Aquila, Sez. lavoro, sentenza 04.06.2015 n. 685 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Emarginazione del dipendente ed espulsione dal contesto lavorativo.
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi da parte del datore di lavoro comportamenti, anche protratti nel tempo, rivelatori, in modo inequivoco, di un’esplicita volontà di quest’ultimo di emarginazione del dipendente, occorrendo, pertanto dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte dirette (oggettivamente) all’espulsione dal contesto lavorativo, o comunque connotate da un alto tasso di vessatorietà e prevaricazione, nonché sorrette (soggettivamente) da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall’unico fine intenzionale di isolare il dipendente (respinta la richiesta risarcitoria avanzata da una dipendente in quanto infondata; a detta della Corte, la ricorrente aveva confuso l’accertamento del fatto materiale con quello della sua illegittimità di cui la componente psicologica era elemento essenziale e la cui prova era onere dell’attrice) (Corte di Cassazione, Sez. civile, sentenza 23.01.2015 n. 1258 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Comportamento vessatorio dei colleghi o dei superiori.
Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario qualora il dipendente faccia valere il comportamento vessatorio di colleghi o superiori quale titolo giustificativo della pretesa, mentre va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso in cui la lesione sia derivante da una violazione del rapporto contrattuale, fondando l’azione proposta su uno specifico inadempimento da parte dell’Amministrazione.
Nel caso di avvenuto accertamento di fatti di mobbing, che si assumono aver cagionato al dipendente rilevanti conseguenze sul piano morale e psicofisico, la responsabilità dell’Amministrazione datrice di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha natura contrattuale se la domanda risarcitoria risulti espressamente fondata sull’inosservanza degli obblighi derivanti dal rapporto di impiego, con conseguente distribuzione dell’onere della prova sul dipendente (che deve provare la condotta illecita dell’Amministrazione e il danno patito) e quest’ultima (che deve dimostrare l’assenza di una colpa a sé riferibile)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 26.11.2014 n. 11882 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
Con riguardo alla domanda di risarcimento danni proposta per c.d. mobbing, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario qualora il dipendente faccia valere il comportamento vessatorio di colleghi o superiori quale titolo giustificativo della pretesa, mentre va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso in cui la lesione sia derivante da una violazione del rapporto contrattuale, fondando l'azione proposta su uno specifico inadempimento da parte dell'Amministrazione (Cfr. TAR Friuli Venezia Giulia 26.05.2011 n. 260).
Nel caso di avvenuto accertamento di fatti di mobbing, che si assumono aver cagionato al dipendente rilevanti conseguenze sul piano morale e psicofisico, la responsabilità dell'Amministrazione datrice di lavoro ai sensi dell'art. 2087 Cod. civ. ha natura contrattuale se la domanda risarcitoria risulti espressamente fondata sulla inosservanza degli obblighi derivanti dal rapporto d'impiego, con conseguente distribuzione dell'onere della prova sul dipendente (che deve provare la condotta illecita dell'Amministrazione e il danno patito) e quest'ultima (che deve dimostrare l'assenza di una colpa a sé riferibile) (Cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 13.04.2010 n. 2045).
In virtù di tali premesse, risulta evidente che ogni doglianza, così come prospettata, tendente a rimarcare il comportamento vessatorio e persecutorio del diretto superiore Tenente Colonnello -OMISSIS-, è del tutto inammissibile poiché le medesime condotte possono essere esaminate in un ambito di una possibile responsabilità extracontrattuale, il cui esame, come ribadito in precedenza, è precluso al giudice amministrativo.
Infatti, appare più conforme alle linee-guida, che emergono dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004, la posizione della giurisprudenza che qualifica l’azione proposta come riferita alla responsabilità extra-contrattuale per mobbing, laddove la stessa è riconducibile, sostanzialmente, a comportamenti vessatori dei superiori gerarchici o dei colleghi di lavoro del dipendente interessato, al di là dei limiti, che la Suprema Corte ha indicato quali parametri di rango costituzionale per la giurisdizione del Giudice Amministrativo, escludendo da tali parametri la categoria generalizzata dei “comportamenti” (al di fuori, deve ritenersi, della valutazione in via incidentale dei medesimi, ove riconducibili ad una lesione di interessi legittimi, o di diritti soggettivi sussistenti in una materia, che sia oggetto di giurisdizione esclusiva). La predetta giurisdizione sul risarcimento del danno, anche biologico, derivante da mobbing sussiste, dunque, nella misura strettamente riconducibile ad un contesto di specifiche inadempienze agli obblighi del datore di lavoro; dette inadempienze possono ravvisarsi anche in comportamenti omissivi, contraddittori o dilatori dell’Amministrazione, ovvero in atti posti in essere in violazione di norme, sulle quali non sussistano incertezze interpretative, o ancora nella reiterazione di atti, anche affetti da mere irregolarità formali, ma dal cui insieme emerga una grave alterazione del rapporto sinallagmatico, tale da determinare un danno all’immagine professionale e alla salute del dipendente (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 15.04.2008 n. 1739).
Né consegue che l’esame dell’intera vicenda rimessa al giudice evocato con la proposizione del presente mezzo di gravame può essere ammessa soltanto nella misura in cui si prospettano delle violazioni di precisi obblighi di tutela delle condizioni di lavoro del ricorrente poste a carico dell’Amministrazione intimata quale datore di lavoro pubblico. In pratica occorre esaminare se si sostenga contestualmente la violazione di doveri legali che regolano il rapporto, deducendo l'inadempimento da parte dell'Amministrazione dei principi di buona fede e correttezza, nonché la violazione dei doveri di imparzialità e buona amministrazione, posta in essere con un comportamento omissivo o commissivo, e facendosi valere la violazione dell'obbligo specifico, di cui all'art. 2087 c.c., del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica e morale del lavoratore.
Giova, altresì, segnalare che l’eccepita prescrizione non è ipotizzabile nel caso di specie, dovendosi computare il diverso termine ordinario decennale.
Si prescinde dall’esame di ogni altra eccezione in rito stante l’infondatezza nel merito del gravame.
Al fine di configurare una condotta causale di danno da mobbing, la giurisprudenza ha specificato che occorre fornire, inter alios, la prova dell’esistenza di un disegno persecutorio da ravvisarsi in ipotesi di comportamenti materiali o di provvedimenti contraddistinti da finalità di volontaria ed organica vessazione nonché discriminazione, con connotazione emulativa e pretestuosa identificabile quale elemento soggettivo della fattispecie illecita (per tutte,Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 06.05.2008, n. 2015 e Cass. Civ., Sez. Lav., 06.03.2006, n. 4774).
Nel caso di specie tale disegno organico persecutorio non risulta sussistente né tanto meno provato.
Come più volte ricordato dalla giurisprudenza, il termine mobbing deriva dal verbo in lingua inglese to mob (che significa assalire, prendere d’assalto, malmenare) e viene spesso utilizzato per indicare genericamente molestie morali sul luogo di lavoro.
La medesima giurisprudenza ha chiarito che costituisce mobbing l'insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente con comportamenti, materiali o provvedimentali, sicché, la sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi e considerando l'idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa (Cass. Civ. Sez. Lav., 06.03.2006, n. 4774).
Tuttavia, determinati comportamenti non possono essere qualificati come mobbing, ai fini della pronuncia risarcitoria richiesta (di natura contrattuale), se è dimostrato che vi è una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale.

PUBBLICO IMPIEGO: Estromissione del lavoratore dalla struttura organizzativa.
Il tratto strutturante del mobbing —tale da attrarre nell’area della fattispecie comportamenti che altrimenti sarebbero confinati nell’ordinaria dinamica, ancorché conflittuale, dei rapporti di lavoro— è rappresentato dalla sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte del datore di lavoro volta ad emarginare o estromettere il lavoratore dalla struttura organizzativa.
Consegue, in ordine all’onere della prova da offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobizzante, che quest’ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l’asserito intento persecutorio diretto ad emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento del rapporto lavorativo.
Ciò che, quindi, qualifica il mobbing è il nesso che lega i diversi atti e comportamenti del datore di lavoro, i quali in tanto raggiungono tale soglia in quanto si dimostrino legati da un disegno unitario finalizzato a vessare il lavoratore e a distruggerne la personalità e la figura professionale
(TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 20.05.2014 n. 218 -  massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
6. Osserva, invero, il Collegio che, come ha avuto modo di chiarire la migliore giurisprudenza civilistica (ex multis Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 09.09.2008, n. 22858), il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore, che assume le caratteristiche di una persecuzione.
6.1 Ai fini della sua configurabilità sono, pertanto, rilevanti i seguenti elementi:
   - la protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti, giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente legittimi (Corte cost. 19.12.2003 n. 359; Cass. Sez. Un. 04.05.2004 n. 8438; Cass. 29.09.2005 n. 19053; dalla protrazione, il suo carattere di illecito permanente: Cass. Sez. Un. 12.06.2006 n. 13537), posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente, in modo da svelare un intento vessatorio;
   - la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione od all'emarginazione del dipendente);
   - la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico;
   - il nesso eziologico tra la condotta del mobber e il pregiudizio all’integrità psico-fisica.
6.2 Il tratto strutturante del mobbing -tale da attrarre nell'area della fattispecie comportamenti che altrimenti sarebbero confinati nell'ordinaria dinamica, ancorché conflittuale, dei rapporti di lavoro– è rappresentato dalla sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte del datore di lavoro volta a emarginare o estromettere il lavoratore dalla struttura organizzativa. Consegue, in ordine all'onere della prova da offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobizzante, che quest'ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo (TAR Lombardia–Milano, I, 11.08.2009 n. 4581; TAR Sicilia-Catania, III, 27.02.2009, n. 421 e 05.05.2008, n. 777; TAR Lazio, sez. III, 14.12.2006, n. 14604).
6.3 Ciò che, quindi, qualifica il mobbing é il nesso che lega i diversi atti e comportamenti del datore di lavoro, i quali in tanto raggiungono tale soglia in quanto si dimostrino legati da un disegno unitario finalizzato a vessare il lavoratore e a distruggerne la personalità e la figura professionale.
7. Nel caso di specie, si osserva, tuttavia, che il ricorrente non ha fornito idonea prova della sussistenza del su indicato intento finalisticamente indirizzato ad arrecargli pregiudizio.
7.1 Si rammenta, infatti, che, dovendo ricondursi la fattispecie di responsabilità portata all’attenzione di questo giudice alla violazione da parte del datore di lavoro di specifici obblighi contrattuali, derivanti dal principio di protezione delle condizioni di lavoro sancito dall’art. 2087 C.C., incombe sul lavoratore l’onere della prova in ordine alla sussistenza del rapporto di lavoro (pacifico nel caso di specie), del fatto, del danno di cui chiede il risarcimento e del nesso causale tra sottoposizione alle vessazioni e danno. Spetta, invece, al datore di lavoro che voglia ottenere il rigetto della domanda l’onere di provare l’avvenuto adempimento dell’obbligazione ovvero la non imputabilità dell’inadempimento, cioè l’avvenuta adozione di tutte le misure idonee ad evitare il danno ai sensi dell’art. 2087 C.C..
7.2 Dagli elementi agli atti si può, anzi, escludere la sussistenza di detta fattispecie.
7.3 Dalla copiosa documentazione prodotta e dall’estremamente lungo ricorso introduttivo, nonché dalle argomentazioni e produzioni difensive del Ministero intimato, che si danno per noti e ai quali tutti -per logiche esigenze di sinteticità- si fa rinvio, emerge, invero, unicamente che, nel periodo di riferimento il ricorrente ha sofferto di varie patologie che lo hanno costretto a ricorrere a cure mediche e ad assentarsi dal posto di lavoro, che, avendo posto in essere condotte ritenute penalmente e/o disciplinarmente rilevanti, è stato sovente sottoposto ai relativi procedimenti e che è stato più volte trasferito su sua istanza o per riscontrate situazioni di incompatibilità ambientale, senza pur tuttavia che sia ravvisabile una qualche diretta correlazione tra le patologie sofferte, da un lato, e i procedimenti penali/disciplinari e/o i trasferimenti, dall’altro.
7.3.1 Tale correlazione risulta, invero, solo affermata e riferita dal ricorrente (che sovente, nel ricorso, specifica di essersi rivolto alle cure sanitarie dopo un colloquio con l’uno o l’altro superiore gerarchico, senza, pur tuttavia, offrire serie e concrete prove in merito), ma non idoneamente comprovata.
7.3.2 Emerge, anzi, dai vari referti medici prodotti dal medesimo che gli specialisti cui si è rivolto abbiano dapprima solo sospettato e poi via via affermato con sempre maggior convinzione che egli è afflitto da un disturbo paranoide di personalità (all. n. 844, 845, 847, 852, 854 e 865– fascicolo doc. ricorrente).
7.3.3 Tale circostanza, pur non consentendo di escludere a priori la possibilità che egli sia stato anche vittima di mobbing, induce, pertanto, questo Collegio a non ritenere probanti nel senso auspicato dall’interessato le allegazioni e produzioni documentali dal medesimo offerte. La dottrina afferma, infatti, che le difficoltà relazionali, tipiche di tale disturbo (che è considerato un disturbo mentale), potrebbero elicere comportamenti aggressivi in ambito lavorativo che validano le convinzioni persecutorie del soggetto, che a sua volta risponde con comportamenti disadattivi, quali l’isolamento e le reiterate lamentele o l’aperta ostilità. Quando in un contesto lavorativo si crea una tale dinamica è molto difficile discriminare fra il persecutore e la vittima e identificare un inizio del problema in processo non lineare, ma circolare (da “Un modello di valutazione psicologica del mobbing” di I. Giorgi, P. Argentero, W. Zanaletti, S.M. Candura - G Ital Med Lav Erg 2004; 26:2, 127-132).
7.4 Ad avviso del Collegio, i vari procedimenti avviati nei confronti del -OMISSIS-, lungi dal costituire indice di un disegno persecutorio attuato nei suoi confronti, devono, in ogni caso, essere ricondotti molto più ragionevolmente allo specifico contesto in cui i fatti si sono svolti e letti alla luce degli elevati valori umani ed etici e delle regole comportamentali particolarmente rigide cui deve essere quotidianamente informata la vita lavorativa e privata degli appartenenti ai corpi militari dello Stato. Regole che il ricorrente ha manifestato, però, di mal tollerare, essendosi messo in luce sin da subito per un comportamento poco consono ai valori dell’-OMISSIS- (vedi all. da 1 a 18 – fascicolo doc. Avvocatura) e che, nel tempo, ha più volte messo in discussione, con condotte inappropriate o espressioni inopportune, sì da legittimare da parte dei suoi superiori la “reazione” normativamente prescritta.
7.5 Analogamente è a dirsi per quanto concerne i trasferimenti, che -ove non occasionati da richieste avanzate dallo stesso ricorrente– sono stati necessitati da ragioni di incompatibilità ambientale e disposti in seguito a valutazioni ampiamente discrezionali dei fatti che hanno sconsigliato la sua permanenza in una determinata sede, senza per ciò assumere carattere sanzionatorio.
7.5.1 In ogni caso, il ricorrente non offre alcun utile indizio che possa portare a ritenere che, nel caso specifico, tale potere sia stato esercitato in maniera macroscopicamente illogica e/o irragionevole, sì da celare intenti vessatori e/o persecutori.
7.6 Generici e non sorretti da adeguati elementi di riscontro s’appalesano, poi, i denunciati demansionamento e denigrazione professionale che il ricorrente afferma d’aver subito.
7.6.1 Non è, in ogni caso, provato che le azioni, in cui –a detta del ricorrente- gli stessi si sarebbero concretati, siano state finalisticamente indirizzate ad arrecargli pregiudizio e pare, anzi, più plausibile ritenere che tali azioni –ammesso che siano state effettivamente poste in essere– siano state necessitate dal comportamento non propriamente esemplare (e/o comunque non all’altezza del ruolo ricoperto) tenuto dal medesimo.
7.6.2 Dalla documentazione versata in atti, trapela, in ogni caso, che il ricorrente, nel quotidiano relazionarsi con colleghi e superiori, fosse alquanto polemico e, in genere, privo di quell’autocontrollo e senso della gerarchia e disciplina, che è auspicabile possieda chi appartiene al -OMISSIS-.
7.6.3 Non risulta, però, ritraibile alcun intento vessatorio nell’attività posta in essere dai suoi superiori gerarchici o colleghi nel periodo di riferimento.
7.7 L’esame obiettivo delle circostanze riportate dal ricorrente non consente, dunque, di affermare che esse contengano, anche soltanto per via indiretta, la prova del dato fattuale strutturante la fattispecie illecita.
7.7.1 Non dubita il Collegio che i rapporti tra il ricorrente e i suoi superiori gerarchici e/o colleghi possano essere stati connotati da una certa conflittualità, che il -OMISSIS- possa aver soggettivamente percepito come immotivati ed ingiusti alcuni atti adottati nei suoi confronti o che abbia effettivamente sofferto il disagio psico-fisico lamentato, ma, nel caso di specie, l’indimostrata sussistenza del fatto nella sua articolata complessità e nella sua strutturale unitarietà non consente di ritenere integrata la fattispecie del mobbing.
7.7.2 Ad avviso di questo giudice, il ricorrente non ha offerto, infatti, la prova rigorosa della sussistenza dell’intento finalisticamente indirizzato ad arrecargli pregiudizio, ma, unicamente, riferito una serie di fatti accaduti, come ha personalmente avvertito e percepito il quotidiano svolgersi della dinamica relazionale con i superiori di riferimento e, in genere, l’evolversi del rapporto di lavoro.
Situazione sicuramente di disagio, ma non per questo necessariamente persecutoria o volutamente preordinata ad emarginarlo o estrometterlo dalla struttura organizzativa.
Il fatto di aver subito dei procedimenti penali e disciplinari, di essere stato trasferito ad altre sedi o di aver emotivamente sofferto quanto accaduto sul luogo di lavoro tra la fine del 1997 e il 2004 non paiono, in definitiva, costituire circostanze di per sé idonee a fondare una condotta mobbizzante e a legittimare pretese risarcitorie.
Non appare, infatti, ultroneo ribadire che “ciò che configura il mobbing non è l’individualità degli episodi, ma la loro configurazione individualistica che vale a strutturare come peculiare e non riducibile ad altre fattispecie similari l’istituto del mobbing” (Tar Sicilia, Catania, III, 13.03.2008, n. 777).
8. L’insussistenza dell’illecito, sotto il profilo oggettivo, esonera, quindi, il Collegio dalla necessità di accertare la produzione in concreto dei danni lamentati, nonché il nesso causale tra la condotta e l’evento dannoso.
9. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

PUBBLICO IMPIEGO: Condotta del datore di lavoro finalizzata a vessare e perseguitare il dipendente.
Per dedurre un’ipotesi di mobbing, non è sufficiente che l’interessato sia stato oggetto di un trasferimento di sede e di sanzioni disciplinari, come nel caso di specie, o comunque di un altro fatto soggettivamente avvertito come ingiusto e dannoso, ma occorre che tali vicende, oltre che essersi ripetute per un apprezzabile lasso di tempo, siano anche legate da un preciso intento del datore di lavoro diretto a vessare e perseguitare il dipendente con lo scopo di demolirne la personalità e la professionalità, il che deve essere poi dimostrato in giudizio, secondo l’ordinaria regola dell’onere della prova.
Ai fini della deduzione del mobbing, insomma, non è sufficiente la prospettazione di un mero distacco per incompatibilità ambientale, con trasferimento ad altra sede, ancorché illegittimo, occorrendo, invece, anche l’allegazione di una preordinazione finalizzata all’emarginazione del dipendente
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 15.05.2013 n. 578).

aggiornamento all'11.09.2021

Conflitto di interessi tra responsabile UTC e progettista:
attenzione a rilasciare il richiesto permesso di costruire!!

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: La relazione di parentela entro il quarto grado tra il responsabile dell’U.T.C. che ha rilasciato il titolo a costruire e il progettista dei lavori –che sono cugini- vale a determinare una situazione generativa di un potenziale conflitto di interessi.
Giova premettere che, come noto, in materia di conflitto di interessi il legislatore è intervenuto a più riprese:
   - con l’art. 1, comma 41, della legge 06.11.2012 n. 190, ha novellato la legge 07.08.1990 n. 241 introducendo nella stessa l’articolo 6-bis (conflitto di interessi);
   - al comma 54 dello stesso articolo 1 ha previsto, altresì, che “il Governo stabilisce un codice di comportamento dei dipendenti delle P.A. al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo della cura dell’interesse pubblico”;
   - al comma 8 dello stesso articolo 1 ha previsto che l’organo di indirizzo politico adotta entro il 31 gennaio di ogni anno il piano triennale di prevenzione della corruzione;
   - con il DPR 62/2013 ha introdotto il “regolamento recante il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’art. 54 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165”, che all’articolo 7 disciplina l’obbligo di astensione, nei termini in precedenza illustrati.
E’ appena il caso di evidenziare che il dovere di astensione dei pubblici dipendenti e degli amministratori vale a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia dell’Amministrazione, scattando, perciò, a fronte di situazioni di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi in cui sussistano condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano anche potenzialmente idonee a porre in pericolo l’assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell’ente stesso, a prescindere dai profili o dalle conseguenze penali che possono implicare. La prevenzione del conflitto di interessi è, infatti, ad oggi volta non solo a garantire l’imparzialità della singola decisione pubblica, ma più in generale a tutelare il profilo dell’immagine di imparzialità dell’Amministrazione.
Nel caso di specie, la relazione di parentela entro il quarto grado tra il responsabile dell’U.T.C. che ha rilasciato il titolo a costruire e il progettista dei lavori –che, come si è evidenziato, sono cugini- vale, a parere del Collegio a determinare una situazione generativa di un potenziale conflitto di interessi che avrebbe imposto al funzionario pubblico di astenersi dall’adozione dell’atto in parola.
Non è, infatti, condivisibile l’argomentazione del Comune a mente della quale dal disposto dell’art. 7 del DPR 61/2013 dovrebbe trarsi il rilievo, ai fini dell’attivazione del dovere di astensione, dei soli rapporti di parentela entro il secondo grado.
Una lettura attenta della norma rivela, infatti, che il limite del “
secondo grado” è riferito esclusivamente al rapporto di affinità e non anche al rapporto di parentela, come evidenziato dalla virgola che separa le due espressioni: “Il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi…”.
Le conclusioni cui è possibile pervenire secondo un’interpretazione letterale del testo convergono con quelle raggiunte indagando sulla ratio della disposizione: è logico e coerente con il fine perseguito (e cioè escludere ogni lesione, anche potenziale, dell’imparzialità dell’agere amministrativo) introdurre un vincolo più stringente in presenza di un legame più intenso tra i soggetti coinvolti, quale quello di parentela, e limitare invece (fino al secondo grado) il rilievo di un legame che si instaura tra soggetti non consanguinei, quale quello di affinità.
---------------

Con il ricorso in disamina la Sig.ra Bo. ha impugnato il permesso di costruire rilasciato dal Comune di Peschiera del Garda in relazione a un intervento di demolizione e ricostruzione da effettuarsi sull’immobile confinante con quello nella titolarità della ricorrente.
Avverso tale titolo a costruire sono stati articolati i seguenti motivi di gravame:
   1) con il primo motivo si lamenta che sarebbe stata autorizzata l’edificazione (mediante demolizione e ricostruzione ex novo del preesistente edificio) in violazione delle norme poste a tutela della fascia di rispetto stradale e in particolare degli artt. 39, comma 3, lett. F, 84 e 86 delle n.t.a. del P.I.), laddove, si afferma, la costruzione preesistente osservava nei confronti della strada una distanza addirittura superiore a quella di legge;
   2) si contesta, inoltre, la violazione dell’art. 6, n. 50, delle n.t.a. del P.I. comunale, il quale prevede che il “verde profondo” non possa avere una percentuale di superficie inferiore al 35% da calcolarsi su quella fondiaria complessiva del lotto, al netto delle aree riservate a passaggi veicolari e ai parcheggi pertinenziali, laddove dal progetto presentato si ricaverebbe una superficie vincolata a verde di estensione inferiore;
   3) con il terzo motivo si lamenta l’illegittima concessione all’istante di un bonus volumetrico supplementare pari al 5%, in applicazione dell’art. 12 del D.lgs. 28/2011, oltre al bonus del 70% assicurato dall’art. 3 L.R. 14/2009: tale supplemento, tuttavia, non sarebbe previsto per gli interventi di demolizione e ricostruzione; si osserva, inoltre, che la formulazione dell'art. 3 della L.R. 14/2009, come novellato dalla L.R. 32/2013, terrebbe già conto, ai fini della concessione del bonus, delle finalità legate al risparmio energetico;
   4) con il quarto motivo si osserva che non si rinverrebbero, nel progetto e/o delle relative tavole, gli elementi minimi indispensabili per poter beneficiare dello scomputo di parte dello spessore dei solai ai fini della determinazione dell’altezza dell’edificio;
   5) con il quinto motivo si lamenta che la misurazione “a mano” con scalimetro del sedime destinato a parcheggio risulterebbe inferiore rispetto alla superficie indicata nell’elaborato “dimostrazione parcheggi”;
   6) con il sesto motivo si evidenzia che il permesso di costruire risulterebbe firmato dal Responsabile dell’Area tecnica Edilizia Privata e Urbanistica del Comune di Peschiera del Garda, Geom. Ma.Cr., mentre il progetto in generale, gli elaborati e l’istanza di rilascio del titolo sarebbero firmati dall’Arch. Pa.Cr.: tanto in violazione del disposto dell’art. 6-bis L. 241/1990;
   7) con il settimo motivo (indicato in ricorso come I motivo della Parte II dell’atto) si lamenta la carenza di motivazione e il difetto di istruttoria degli atti gravati in punto di valutazione della compatibilità paesaggistico/ambientale dell’intervento;
   8) si contesta, infine, la mancata sottoposizione del progetto all’esame istruttorio preliminare della apposita “Commissione locale per il paesaggio”, secondo quanto previsto dall’art. 16-bis del Regolamento Edilizio adottato in occasione della variante urbanistica approvata con D.G.R. n. 181 del 29.01.2008.
...
1. Con il ricorso in disamina la Sig.ra Bo. ha chiesto l’annullamento del permesso di costruire rilasciato dal Comune di Peschiera del Garda in relazione ad un intervento di demolizione e ricostruzione con ampliamento da effettuarsi ai sensi del cd. Piano Casa su terreno prossimo a quello di proprietà della ricorrente; la Sig.ra Bo. ha chiesto, altresì, l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata in riferimento al medesimo intervento.
...
2. Ciò posto, nel merito il ricorso è fondato sotto il profilo assorbente della violazione dell’art. 6-bis della L. 241/1990 lamentata con il sesto motivo di impugnazione (indicato come settimo nell’atto introduttivo del giudizio).
E’ pacifico tra le parti in causa che il geom. Ma.Cr., Responsabile dell’Area Tecnica Edilizia Privata e Urbanistica del Comune di Peschiera del Garda, che ha firmato il permesso di costruire impugnato è cugino, e dunque parente di quarto grado, del progettista dell’intervento di cui si discute, Arch. Pa.Cr..
Il Comune ha dedotto sul punto che l’art. 6-bis della L. 241/1990 (norma che prevede: “Il responsabile del procedimento ed i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”) andrebbe letto in combinato disposto con quanto previsto dall’art. 7 del DPR 16.04.2013, n. 62 (Codice di comportamento dei dipendenti pubblici), che stabilisce: “Il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza. Sull'astensione decide il responsabile dell'ufficio di appartenenza”.
Sostiene il Comune che la norma, come formulata, darebbe rilievo ai fini del dovere di astensione ai soli rapporti di parentela entro il secondo grado: in tal senso, si aggiunge, si era del resto espresso il Responsabile Trasparenza e Anticorruzione del Comune in un parere reso in data 21.02.2019 (cfr. doc. 21 della produzione di parte resistente).
Dall’esame di tale parere emerge infatti che il Responsabile, nella premessa dell’avvenuto recepimento dell’art. 7 del DPR 62/2013 nel Piano triennale di prevenzione della corruzione adottato dal Comune con delibera di G.M. n. 19/2019, osservava che la norma in commento “cita il secondo grado”: il Responsabile concludeva, dunque, nel senso di escludere l’esistenza di una situazione generativa del divieto di astensione con riguardo al rapporto di parentela tra il geom. Ma.Cr. e l’Arch. Pa.Cr..
Il Collegio ritiene che l’interpretazione che il Comune propone della norma in commento non sia condivisibile.
Giova premettere che, come noto, in materia di conflitto di interessi il legislatore è intervenuto a più riprese:
   - con l’art. 1, comma 41, della legge 06.11.2012 n. 190, ha novellato la legge 07.08.1990 n. 241 introducendo nella stessa l’articolo 6-bis (conflitto di interessi), il cui testo è stato già riportato;
   - al comma 54 dello stesso articolo 1 ha previsto, altresì, che “il Governo stabilisce un codice di comportamento dei dipendenti delle P.A. al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo della cura dell’interesse pubblico”;
   - al comma 8 dello stesso articolo 1 ha previsto che l’organo di indirizzo politico adotta entro il 31 gennaio di ogni anno il piano triennale di prevenzione della corruzione;
   - con il DPR 62/2013 ha introdotto il “regolamento recante il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’art. 54 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165”, che all’articolo 7 disciplina l’obbligo di astensione, nei termini in precedenza illustrati.
E’ appena il caso di evidenziare che il dovere di astensione dei pubblici dipendenti e degli amministratori vale a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia dell’Amministrazione, scattando, perciò, a fronte di situazioni di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi in cui sussistano condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano anche potenzialmente idonee a porre in pericolo l’assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell’ente stesso, a prescindere dai profili o dalle conseguenze penali che possono implicare. La prevenzione del conflitto di interessi è, infatti, ad oggi volta non solo a garantire l’imparzialità della singola decisione pubblica, ma più in generale a tutelare il profilo dell’immagine di imparzialità dell’Amministrazione.
Nel caso di specie, la relazione di parentela entro il quarto grado tra il responsabile dell’U.T.C. che ha rilasciato il titolo a costruire e il progettista dei lavori –che, come si è evidenziato, sono cugini- vale, a parere del Collegio a determinare una situazione generativa di un potenziale conflitto di interessi che avrebbe imposto al funzionario pubblico di astenersi dall’adozione dell’atto in parola.
Non è, infatti, condivisibile l’argomentazione del Comune a mente della quale dal disposto dell’art. 7 del DPR 61/2013 dovrebbe trarsi il rilievo, ai fini dell’attivazione del dovere di astensione, dei soli rapporti di parentela entro il secondo grado.
Una lettura attenta della norma rivela, infatti, che il limite del “secondo grado” è riferito esclusivamente al rapporto di affinità e non anche al rapporto di parentela, come evidenziato dalla virgola che separa le due espressioni: “Il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi…”.
Le conclusioni cui è possibile pervenire secondo un’interpretazione letterale del testo convergono con quelle raggiunte indagando sulla ratio della disposizione: è logico e coerente con il fine perseguito (e cioè escludere ogni lesione, anche potenziale, dell’imparzialità dell’agere amministrativo) introdurre un vincolo più stringente in presenza di un legame più intenso tra i soggetti coinvolti, quale quello di parentela, e limitare invece (fino al secondo grado) il rilievo di un legame che si instaura tra soggetti non consanguinei, quale quello di affinità.
La fondatezza del motivo in disamina comporta l’accoglimento del ricorso, e risulta assorbente rispetto alle ulteriori censure proposte avverso il titolo edilizio; quanto ai motivi di gravame svolti in riferimento all’autorizzazione paesaggistica rilasciata in relazione al medesimo intervento edilizio, il Collegio ritiene che l’annullamento del permesso di costruire, in conseguenza di quanto in precedenza osservato, implichi il venir meno dell’interesse alla relativa disamina.
3. Conclusivamente, il ricorso deve trovare accoglimento nei termini indicati: deve, dunque, disporsi l’annullamento del permesso di costruire annullato; il ricorso deve invece essere dichiarato improcedibile nella parte in cui con esso si impugna l’autorizzazione ambientale (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 09.07.2021 n. 908 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

Pubblici dipendenti e pausa caffè al bar in orario di servizio: le correlate conseguenze...

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B. Amuro, Pausa caffè: è reato? (06.09.2021 - link a www.filodiritto.com).
---------------
Pausa caffè e sosta in tabaccheria senza timbrare il tesserino per la pausa. Azione fraudolenta o semplice consuetudine tutta italiana?
La
sentenza 29.07.2021 n. 29674 della Sez. III penale della Corte di Cassazione propende la prima e rinvia alla Corte d’appello solo per la valutazione circa l’eventuale non punibilità per particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis Codice Penale). (...continua).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORischi penali per le pause caffè senza timbrare. Solo episodi singoli possono evitare la maxi-sanzione grazie alla «lieve tenuità».
La «lieve tenuità» può evitare le sanzioni penali, ma le indicazioni offerte dalla sentenza 29.07.2021 n. 29674 della Cassazione (Sole 24 Ore del 26 agosto) dettano principi piuttosto rigidi sull’applicazione delle norme anti-assenteismo. L’allontanamento dall’ufficio per la pausa caffè senza la timbratura dell’uscita integra per i giudici il reato della falsa attestazione della presenza, anche se è stato commesso una volta sola, tranne che si dimostri la particolare tenuità del fatto.
Non è necessaria la presenza di un dolo specifico, quindi è sufficiente che i dipendenti siano a conoscenza dell’esistenza di un vincolo della timbratura; maturano le condizioni per contestare l’aggravante dell’essere pubblico ufficiale, anche se si tratta di una circostanza non strettamente collegata all’esercizio delle attività; la condotta determina la maturazione del danno all’immagine.
La Corte dà inoltre conto del fatto che vi sono letture contrastanti sulla scelta di subordinare la sospensione della condanna al risarcimento del danno, posto che in caso di risposta positiva va dimostrato che il dipendente è nelle condizioni economiche di poter dare corso al risarcimento. La sentenza evidenzia quanto la scelta legislativa sia rigida e figlia della volontà di punire duramente comportamenti che creano disservizi e danneggiano la credibilità delle Pa, ma che il tutto va ricondotto ai principi generali dell’ordinamento penale.
La prima indicazione netta è che non è necessario, per irrogare la sanzione penale della reclusione e della multa prevista dall’articolo 55-quinquies del Dlgs 165/2001 (reclusione da uno a cinque anni e sanzione da 400 a 1.600 euro), dimostrare che la condotta è stata caratterizzata da continuità, abitualità o reiterazione. Anche un singolo episodio integra gli estremi del reato. Che matura per la semplice mancata timbratura dell’uscita e non sono necessari l’alterazione o la manomissione del sistema di rilevazione delle presenze. La mancanza prevista dal legislatore si determina per il fatto che il dipendente non è in ufficio e che la sua assenza non è registrata.
Un’altra indicazione rigida deriva dalla scelta legislativa: è sufficiente a integrare il reato il dolo generico e non serve la dimostrazione di una volontà specifica. I dipendenti vanno sanzionati se conoscono l’esistenza di un vincolo all’uso del badge e non ci sono giustificazioni convincenti.
Dalla rigidità della disposizione scaturisce l’aggravante dell’essere un pubblico ufficiale: la norma non richiede «un nesso funzionale tra tali poteri o doveri e il compimento del reato». Il fatto di essere un dipendente di Pa determina un «maggior disvalore penale del reato».
La sentenza ricorda che la norma prevede il risarcimento da parte del dipendente del danno provocato all’ente, sia di natura patrimoniale per la retribuzione che ha percepito indebitamente, sia all’immagine, con quantificazione della misura minima. In applicazione dei principi di carattere generale e segnatamente dell’articolo 131-bis del Codice penale, matura la non punibilità nel caso di «particolare tenuità del fatto». Il che richiede che la mancanza sia una sola, che abbia determinato effetti di lieve entità e che le modalità della condotta consentano questo giudizio (articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2021).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORischi penali per le pause caffè senza timbrare.
L'allontanamento dall'ufficio per la cosiddetta pausa caffè senza la timbratura dell'uscita integra il reato della falsa attestazione della presenza, anche se è stato commesso una volta sola, tranne che si dimostri la particolare tenuità del fatto.
Non è necessaria la presenza di un dolo specifico, quindi è sufficiente che i dipendenti siano a conoscenza della esistenza di un vincolo della timbratura; maturano le condizioni per contestare l'aggravante dell'essere pubblico ufficiale, anche se si tratta di una circostanza che non è strettamente collegata all'esercizio delle attività; tale condotta determina la maturazione del danno all'immagine.
Sono queste le principali indicazioni contenute nella sentenza 29.07.2021 n. 29674 della III Sez. penale della Corte di Cassazione.
La stessa dà inoltre conto del fatto che ci sono letture contrastanti sulla scelta di subordinare la sospensione della condanna al risarcimento del danno, posto che in caso di risposta positiva sull'utilizzazione di questa possibilità occorre dimostrare che il dipendente è nelle condizioni economiche di potere dare corso al risarcimento. La sentenza evidenzia quanto la scelta legislativa sia rigida e sia figlia della volontà di punire duramente comportamenti che creano disservizi e determinano danni rilevanti alla credibilità delle Pa, ma che il dettato legislativo deve essere comunque ricondotto nel rispetto dei principi di carattere generale dettati dall'ordinamento penale.
La prima indicazione molto netta è che non è necessario, per potere irrogare la sanzione penale della reclusione e della multa prevista dall'articolo 55-quinquies del Dlgs 165/2001 dimostrare che la condotta del dipendente è stata caratterizzata dalla continuità o dalla abitualità o dalla reiterazione. Di conseguenza, anche un singolo episodio integra gli estremi per la maturazione del reato. Intimamente connessa a tale principio è la considerazione che il reato matura per la semplice mancata timbratura della uscita e non sono necessari l'alterazione o la manomissione del sistema di rilevazione delle presenze. La mancanza prevista dal legislatore si determina per il semplice fatto che il dipendente non è in ufficio e che la sua assenza non risulta registrata dal sistema di rilevazione delle presenze.
Un'altra indicazione che possiamo definire come rigida e che deriva direttamente dalla scelta legislativa è la seguente: è sufficiente a integrare il reato il dolo generico e non è necessaria la dimostrazione di una volontà specifica. Quindi, i dipendenti vanno sanzionati se sono a conoscenza della esistenza di un vincolo alla utilizzazione del badge e se non vi sono elementi di giustificazione convincenti.
Dalla rigidità della disposizione scaturisce l'elemento per cui si deve contestare la circostanza aggravante dell'essere il dipendente un pubblico ufficiale: il dettato legislativo non richiede che vi sia «un nesso funzionale tra tali poteri o doveri ed il compimento del reato». In altri termini, il semplice fatto di essere un dipendente di Pa determina un «maggior disvalore penale del reato».
La sentenza ricorda che la disposizione prevede che il dipendente debba risarcire il danno che ha provocato all'ente, sia di natura patrimoniale per la retribuzione che ha percepito indebitamente, sia alla immagine della Pa, con la quantificazione della misura minima.
In applicazione dei principi di carattere generale e segnatamente dell'articolo 131-bis del codice penale, matura la non punibilità nel caso di «particolare tenuità del fatto». Il che richiede che la mancanza sia una sola, che essa abbia determinato degli effetti di lieve entità e che le modalità della condotta consentano la maturazione di tale giudizio (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.09.2021).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La Cassazione chiude un occhio sulla fuga per la pausa caffè. Resta reato ma punibile solo se sono provati abitualità e danno rilevante per la Pa. I dipendenti non timbravano il badge e confidavano su prassi e tolleranza.
I futili motivi che inducono i furbetti del cartellino a uscire per la pausa caffè e le sigarette non bastano a escludere la non punibilità, per la particolare tenuità del fatto. Per negare il beneficio, previsto dall’articolo 131-bis del Codice penale serve, infatti, la prova dell’abitualità del comportamento e del danno rilevante per la pubblica amministrazione. Due elementi che la Corte d’appello, disattesa dalla Cassazione (sentenza 29.07.2021 n. 29674), aveva rilevato.
Per la Corte territoriale erano punibili due impiegati del Comune, finiti nelle maglie della giustizia, perché assenti ingiustificati durante un controllo dei Carabinieri. Un’uscita, senza timbrare il badge, per comprare le sigarette e andare al bar. In realtà a metterli davvero nei guai erano state le loro giustificazioni. Il bevitore di caffè aveva parlato di necessità, non essendoci in ufficio un distributore e di prassi seguita in tutti i luoghi di lavoro. Il dipendente che era andato dal tabaccaio, aveva maledetto la cattiva sorte, perché in 36 anni di servizio non gli era mai capitata una cosa del genere.
Frasi che, per la Corte territoriale, provavano l’abitualità dei comportamenti. Dello stesso parere il Pubblico ministero, secondo il quale il beneficio era stato giustamente negato, anche ai fini delle attenuanti generiche, perché era stato violato il principale dovere di un lavoratore: la presenza sul posto di lavoro. Gli imputati avevano agito con noncuranza verso l’utenza tendendo a sminuire l’azione commessa.
Sulla stessa linea sia il Tribunale sia la corte d’Appello, che avevano messo l’accento sulla futilità dei motivi delle uscite, e sulla gravità dell’allontanamento non registrato. Una condotta idonea «ad incrementare un diffuso malumore verso la categoria dei pubblici dipendenti e cagionare un danno all’immagine della casa Comunale». E questo per assecondare «bisogni della vita del tutto accessori».
In più, dalle dichiarazioni degli imputati, risultava che l’allontanamento non era occasionale, anzi , una prassi «una consuetudine mattutina, radicata e addirittura abituale».
Diversa la lettura della Suprema corte, secondo la quale le affermazioni, «incriminate» dai giudici di merito, non provavano affatto l’abitualità. E i giudici di legittimità richiamano alla necessità di stare ai fatti.
I due ricorrenti non avevano timbrato il badge in uscita e dunque, in base all’orario di entrata, potevano essere stati via dai cinque minuti a un’ora. Né è corretta l’affermazione sull’ostacolo al beneficio dato dalla futilità dei motivi.
Una causa ostativa che la Corte di merito ha tratto dal comma 2 dell’articolo 131-bis, in base al quale l’offesa non può essere considerata di particolare tenuità se l’autore ha agito per motivi abietti o futili. Nel caso specifico, però, ad avviso della Cassazione, l’errore non nasce da un istinto criminale, ma da una sorta di affidamento nella prassi o nella tolleranza dei superiori. Detto questo, i giudici di legittimità confermano il reato, previsto dalla cosiddetta legge Brunetta (Dlgs 150/2009, articolo 55-quinquies). Una norma, rivista dal Dlgs 116/2016, secondo la quale la falsa attestazione scatta qualunque modalità venga usata per far risultare in servizio chi è assente.
Viene dunque confermata anche la condanna a risarcire il danno alla Pa. Ma la Corte d’Appello è invitata a rivedere il no alla non punibilità (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2021).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIAGOIl badge anche per la pausa caffè. Non sufficiente l’autorizzazione orale del capo ufficio. La Corte di cassazione ha confermato il reato di attestazione fraudolenta della presenza.
L'allontanamento dal posto di lavoro, per fruire della pausa caffè, deve essere accertato dal sistema di rilevazione delle presenze, anche in presenza dell'autorizzazione orale del capo ufficio. In questo caso, infatti, il dipendente incorre nel reato falsa attestazione della presenza, essendo sufficiente che, ai fini dell'integrazione del reato, la situazione di fatto (presenza in ufficio) sia diversa da quella reale (allontanamento al bar).
Con queste indicazioni la Corte di Cassazione, Sez. III penale (sentenza 29.07.2021 n. 29674) ha, da un lato, confermato la fattispecie del reato ma, dall'altro lato, ha accolto il ricorso dei ricorrenti sulla possibile applicazione della particolare tenuità del reato, anche in caso di reiterazione, rinviando al giudice di merito la relativa decisione.
La vicenda. Il Tribunale di primo grado e la Corte di appello hanno confermato il reato, di attestazione fraudolenta della presenza, di due dipendenti che, a seguito del riscontro effettuato dalle forze dell'ordine, si erano allontananti dall'ufficio, il primo per una pausa caffè ed il secondo per recarsi al tabaccaio.
Trattandosi di pochi minuti di allontanamento, tra la fase di uscita, in assenza della timbratura al cartellino marcatempo, e quella in entrata, i convenuti hanno, tra l'altro evidenziato la particolare tenuità del fatto. Uno dei ricorrenti ha, inoltre, precisato che l'allontanamento dall'ufficio, per pochi minuti, era stato in ogni caso preventivamente autorizzato dal capo ufficio, in assenza del distributore automatico di bevande.
Le indicazioni della Cassazione. Il delitto di "false attestazioni o certificazioni" si consuma, a dire dei giudici di legittimità, con la realizzazione di qualsiasi comportamento fraudolento che, consista nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze e che, il reato in questione concorre con la truffa aggravata, in tutti i casi nei quali la condotta del dipendente pubblico provoca un danno all'amministrazione (decreto legislativo n. 165/200).
Ricorda la Cassazione che, il nuovo testo dell'art. 55-quater riguardante il licenziamento disciplinare, ha precisato al comma 1-bis, che costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione circa il rispetto dell'orario di lavoro.
Nel caso di specie, il delitto si consuma con la realizzazione, da parte dei pubblici dipendenti, di un comportamento fraudolento consistente nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, poiché in ragione della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino elettronico assume, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di quella attestazione, è di per sé idonea a trarre in inganno l'amministrazione presso la quale presta servizio.
Pertanto, nessun rilievo può assumere la circostanza sollevata, in ordine alla "pausa caffè", considerato che la stessa non integra uno stato di necessità neanche in assenza di distributori automatici e qualsiasi pausa o permesso implicano necessariamente che, l'allontanamento non solo deve essere autorizzato, ma deve trovare traccia nell'utilizzo del badge che segna l'uscita del dipendente. È stata, invece, accolta l'eccezione della difesa sulla particolare tenuità del fatto.
Infatti, anche in presenza di ipotesi di reiterazioni, l'applicabilità dell'art. 131 c.p. è stata fondata sulla lieve entità delle singole condotte, isolatamente considerate. Tale soluzione poggia sulla mancata ripetizione, nell'articolo citato, dell'inciso "anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di lieve entità".
In altri termini, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la possibilità, in caso di "reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate", di applicare l'art. 131-bis c.p., all'esito di una valutazione di particolare tenuità delle singole condotte o dei singoli fatti. Spetterà al giudice di appello, cui la causa è rinviata, verificare se gli illeciti non siano espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine, dovendo essere soppesata l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali, durata temporale della violazione, numero delle leggi violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni, anche indirette, sottese alla condotta
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2021).
---------------
SENTENZA
4. Entrambi i motivi sono infondati.
4.1. In primo luogo, per la soluzione del ricorso in esame, occorre individuare il perimetro in cui è applicabile la fattispecie risultante dall'art. 55-quinquies, D.Lgs. n. 165/2001. La giurisprudenza di legittimità ha delineato, in particolare, l'ambito di applicabilità della norma, tenendo conto, da un lato, dei profili di concorrenza con il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato e, dall'altro, delle conseguenze della condotta nei casi di particolare tenuità, ovvero quando le violazioni non siano state reiterate e ripetute ma limitate. Al riguardo, la norma evidenzia in modo preciso una condotta che sembra essere di per sé punibile e non richiede continuità o abitualità.
In generale, il delitto di "false attestazioni o certificazioni" si consuma con la realizzazione di qualsiasi comportamento fraudolento che consista nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze e che il reato in questione concorre con la truffa aggravata, disciplinata dall'art. 640, co. 2, n. 1, c.p. in tutti i casi nei quali la condotta del dipendente pubblico provoca un danno all'Amministrazione poiché al primo comma del citato art. 55-quinquies è espressamente previsto "fermo quanto previsto dal Codice penale" (Sez. III, n. 45698 del 27/10/ 2015).
Contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, la Corte di appello ha rigettato le tesi difensive, secondo cui le condotte contestate agli imputati, di essersi allontanati dal luogo di lavoro senza timbrare il badge all'uscita, non sarebbero riconducibili all'art. 55- quinquies citato, non essendovi stata un'alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze e non essendo riconnprese nelle altre modalità fraudolente, che in quanto non sufficientemente tipizzate devono essere interpretate restrittivamente nel senso di altre modalità di alterazione del sistema di registrazione.
Ed infatti, la condotta contemplata dal D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies non viola il principio di tassatività, poiché sanziona chi attesta falsamente la presenza in servizio, utilizzando svariate modalità fraudolente non a priori predeterminate dal legislatore.  Non sussiste alcun contrasto con il principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali, previsto all'art. 25 Cost., in quanto l'enunciazione della condotta del reato, pur descritta genericamente, consente al giudice, avuto riguardo anche alla finalità di incriminazione ed al contesto ordinamentale in cui si colloca, di stabilire con precisione il significato delle parole, che isolatamente considerate potrebbero anche apparire non specifiche, ed al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del valore precettivo di essa.
Né è legittimo fare ricorso all'interpretazione analogica con le modalità indicate da ciascun ricorrente, poiché è sufficiente utilizzare il criterio di interpretazione letterale per attribuire alla norma un significato univoco.
4.2. Occorre ricordare inoltre che il nuovo testo dell'art. 55-quater che tratta del licenziamento disciplinare, precisa al comma 1-bis, con una integrazione effettuata con D.lgs. n. 116 del 2016, che costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione circa il rispetto dell'orario di lavoro.
La fattispecie disciplinare di fonte legale si realizza, dunque, non solo nel caso di alterazione/manomissione del sistema, ma in tutti i casi in cui la timbratura, o altro sistema di registrazione della presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il lavoratore è rimasto in ufficio durante l'intervallo temporale compreso tra le timbrature/registrazioni in entrata ed in uscita.
Sul punto, si è espressa la giurisprudenza di legittimità in sede civile (Sez. lav., n. 24574 del 01/12/2016) precisando che a prescindere dall'intervento riformatore dell'art. 55-quater cit., la ricostruzione innanzi effettuata era, comunque, evincibile dal tenore letterale della disposizione, dal quale non si ricava alcun elemento che consenta di affermare che, invece, nel passato la condotta tipizzata fosse individuabile nei soli casi di alterazione intesa come manomissione del sistema di rilevazione delle presenze (Cass. Civ. n. 17637/2016, 17259/2016; Cass. Civ. Sez. lav., n. 257508 del 14/12/2016).
Pertanto, la formulazione del Dlgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, comma 1, lett. a), ed anche la sua "ratto" (potenziamento del livello di efficienza degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività e di assenteismo), inducono ad affermare che la registrazione effettuata attraverso l'utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell'intervallo compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita.
Ed infatti, secondo consolidata giurisprudenza, il delitto previsto dall'art. 55-quinquies si consuma con la realizzazione da parte dei pubblici dipendenti di un comportamento fraudolento consistente nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze (Sez. III, n. 47043 del 27/10/2015), poiché in ragione della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino elettronico assume, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di quella attestazione, è di per sé idonea a trarre in inganno l'amministrazione presso la quale presta servizio in merito alle circostanze di fatto che quella attestazione è intesa a dimostrare, ossia la presenza del dipendente sul luogo di lavoro.
4.3. Peraltro, come già correttamente chiarito dal Tribunale, anche se nel caso in esame non è stato contestato dalla Procura della Repubblica il reato di cui all'art. 640 c.p., è configurabile il concorso materiale tra il reato di truffa aggravata e quello di false attestazioni o certificazioni previsto dall'art. 55-quinquies (sul rapporto tra l'art. 640 cpv. c.p. e il D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55- quinquies: Sez. III, n. 47043 del 27/10/2015; Id. n. 45696 del 27/10/2015; Id. n. 45698 del 27/10/2015; Id., n. 45947 del 10/10/2019).
In sintesi, è stato sottolineato che l'illecito descritto al D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies, diversamente dalla truffa, si consuma con la mera falsa attestazione da parte del dipendente pubblico della presenza in servizio attraverso un'alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze. Il fine perseguito dalla norma in esame è evidentemente quello di prevenire o contrastare, nell'interesse della funzionalità dell'ufficio pubblico, le condotte assenteistiche.
Il comma 2 del medesimo articolo disciplina invece la responsabilità amministrativa e civile del pubblico dipendente: egli sarà obbligato a tenere indenne la P.A. dal danno derivante dalla corresponsione della retribuzione per i periodi per i quali sia stata accertata la mancata prestazione, nonché a risarcire anche il danno non patrimoniale (ad es. quello all'immagine subito dall'amministrazione stessa).
Appare evidente come il comportamento fraudolento del dipendente, il quale si sia concretizzato nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, possa costituire prova della mancata erogazione della prestazione lavorativa. Il legislatore quindi pone l'attenzione sulle modalità esplicative del comportamento illecito, non invece sulle conseguenze da esso in concreto scaturenti, ossia l'induzione in errore della P.A. e/o il profitto ingiusto conseguito dall'agente i quali, pertanto, non possono essere ritenuti elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 55-quinquies prefato.
...
10. Vanno trattati congiuntamente anche il secondo motivo del Ca. e il secondo motivo del Se., in quanto entrambi afferiscono al tema del mancato riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p., motivi, come anticipato, da ritenersi invece fondati.
10.1. Una recente pronuncia di questa Corte ha affrontato la questione della sussistenza del reato nei casi di lieve entità della violazione.
È stato affermato che la clausola generale di "non punibilità per particolare tenuità del fatto" prevista dall'art. 131-bis c.p. è applicabile solamente nei casi nei quali la condotta di allontanamento fraudolento dal posto di lavoro sia stata del tutto episodica e, comunque, l'offesa sia di particolare tenuità (Sez. II, n. 38997 del 27/08/2018).
In tutti gli altri casi nei quali vi sia abitualità o reiterazione del comportamento, anche se di lieve entità, non è applicabile la clausola di non punibilità.
In sostanza, in presenza di un unico episodio e di effetti limitati è possibile applicare l'esimente mentre nel caso di episodi ripetuti, anche di lieve entità, è configurabile e sanzionabile la condotta con l'applicazione della pena prevista per il delitto di "false attestazioni o certificazioni".
Si rammenta poi che l'art. 131-bis c.p. stabilisce che la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'art. 133 c.p., comma 1, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. Sul punto, deve richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte in base alla quale la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto non può essere applicata ai reati necessariamente abituali ed a quelli eventualmente abituali che siano stati posti in essere mediante reiterazione della condotta tipica (Sez. III, n. 30134 del 05/04/2017), in quanto viene a configurarsi una ipotesi di "comportamento abituale" ostativa al riconoscimento del beneficio (Sez. VI, n. 18192 del 20/03/2019).
Tuttavia, in ipotesi di reiterazione non sono mancate decisioni nelle quali l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p. è stata fondata sulla lieve entità delle singole condotte, isolatamente considerate.
Tale soluzione poggia sulla mancata ripetizione nell'articolo summenzionato dell'inciso "anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di lieve entità".
In sostanza, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la possibilità, in caso di "reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate", di applicare l'art. 131-bis c.p., all'esito di una valutazione di particolare tenuità delle singole condotte o dei singoli fatti (Sez. III, n. 38849 del 5/04/2017).
Per il reato continuato, similmente, è stato richiesto che gli illeciti non siano espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine, dovendo essere soppesata l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni, anche indirette, sottese alla condotta (Sez. II, n. 41011 del 6/06/2018).
Si è chiarito, peraltro, che per escludere la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell'assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall'art. 131-bis c.p. ritenuto, evidentemente, decisivo (Sez. III, n. 34151 del 18/06/2018; Sez. VI, n. 55107 del 08/11/2018) secondo cui il giudizio sulla tenuità dell'offesa dev'essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., comma 1, ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez. II, n. 25234 del 14/05/2019).
...
12. Può quindi esaminarsi il residuo motivo di ricorso proposto nell'interesse del Ca..
12.1. Si tratta del terzo motivo, che si appalesa inammissibile.
Quanto alla ritenuta ricorrenza della circostanza aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 9, giova precisare che la condotta del Ca., ovvero l'allontanarsi dal luogo di lavoro omettendo di timbrare il badge all'uscita, integra la violazione dei doveri inerenti al pubblico servizio (Sez. V n. 44689 del 03/06/2005; Sez. II, n. 22972 del 16/02/2018).
Peraltro, in adesione ai principi sanciti dalla citata pronuncia n. 44689/2005, nel momento in cui detto dipendente timbra il cartellino di presenza lavorativa, pur rimanendo parte di un rapporto pubblico di servizio, agisce come privato-lavoratore e fa divenire irrilevante la mansione concretamente esercitata. Tuttavia, si legge in motivazione, la qualità di privato di ciascun dipendente, non ha fatto venir meno l'aggravante dell'art. 61 c.p., n. 9 in quanto, la condotta tenuta (nella specie smarcamento del badge proprio ed altrui con finalità fraudolente per far risultare una presenza del soggetto sul luogo di lavoro in realtà inesistente), ai fini della configurazione del reato in contestazione, risulta essere stata originata e favorita dal contesto lavorativo di appartenenza e in "palese violazione di precise direttive superiori".
La medesima condotta ha comunque integrato la violazione, da parte del lavoratore, di un dovere inerente il pubblico servizio, la cui qualità pubblica rimane immanente alla figura del soggetto-lavoratore indipendentemente dalle funzioni concretamente esercitate dallo stesso.
Del resto, si è affermato che l'aggravante di aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio è configurabile anche quando il pubblico ufficiale abbia agito al di fuori dell'ambito delle sue funzioni, essendo sufficiente che la sua qualità abbia comunque facilitato la commissione del reato (Sez. V, n. 50586 del 07/11/2013) e non essendo necessaria l'esistenza di un nesso funzionale tra tali poteri o doveri ed il compimento del reato (ex plurimis, Sez. II, n. 20870 del 30/04/2009; Sez. V, n. 50586 del 07/11/2013; Id. n. 13057 del 28/10/2015; Sez. III, n. 24979 del 22/12/2017; Sez. V, n. 9102 del 16/10/2019; Sez. III, n. 17386 del 28/01/2021).
Inoltre, tra le circostanze concernenti le "qualità personali" del colpevole rientra certamente quella dell'aver commesso il fatto con abuso dei poteri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, di cui all'art. 61 c.p., n. 9, che é di natura oggettiva, in quanto non si applica a taluno perché pubblico ufficiale, ma perché ha abusato dei propri poteri, e, quindi, riguarda una modalità dell'azione, con la conseguenza che la stessa si comunica ad eventuali concorrenti, ai sensi dell'art. 118 c.p. (Sez. VI, n. 53687 del 25/11/2014).
12.2. Ciò precisato, il maggior disvalore penale del reato in tal modo commesso attiene al vulnus arrecato alla funzione della quale il pubblico ufficiale ha abusato, ovvero i cui doveri ha violato, con lesione del sottostante rapporto pubblicistico: si tutela, cioè, il corretto svolgimento della pubblica funzione.
In ogni caso, il motivo di impugnazione sollevato dal Caterino non risulta essere stato proposto con i motivi di appello, con la conseguenza che la doglianza, non essendo consentita, non può essere sollevata per la prima volta nel giudizio di legittimità.
...
13.2. La condotta illecita del dipendente, come è noto, presenta anche significativi riflessi patrimoniali.
Tuttavia, oltre al danno patrimoniale riferito alle retribuzioni indebitamente erogate, le assenze ingiustificate, oltretutto poste in essere con condotte fraudolente di alterazione dei mezzi di rilevazione delle presenze, creano all'Amministrazione un ulteriore danno, dato dal discredito conseguente al fatto illecito che investe l'autorevolezza e la credibilità dell'Amministrazione Pubblica, in generale, e dell'Ente interessato. Pertanto, il Legislatore del 2009 ha riconosciuto che l'attestazione falsa di presenza in servizio lede l'immagine dell'Amministrazione ed ha determinato la misura minima del risarcimento che è indipendente dalla gravità o dalla reiterazione della condotta.
La giurisprudenza contabile ha rilevato che l'art. 55-quinquies, D.lgs. n. 165/2001 ha introdotto una peculiare tipologia di danno all'immagine e, parimenti, una specifica tipizzazione del danno patrimoniale diretta a determinare l'importo della lesione erariale, consistente nella condotta del dipendente pubblico che abbia attestato falsamente la propria presenza nel luogo di lavoro o, altrimenti, che abbia occultato l'interruzione della prestazione attraverso il mancato o illecito utilizzo dei sistemi di attestazione della presenza in servizio (Corte dei conti, Sez. giurisd. Basilicata, n. 8 del 06/03/2019; Corte dei conti, Sez. giurisd. Abruzzo, n. 110 del 06/09/2018).
Si è precisato che il legislatore ha inteso prevedere un diverso e più rigoroso trattamento contro il fenomeno dell'assenteismo pubblico, fissando espressamente il principio per cui le condotte cosiddette assenteistiche sono causa di lesione all'immagine" (Corte dei conti, n. 163 del 17/05/2018).
In proposito, la nozione di danno all'immagine deve essere considerata unitaria e, in ogni caso, espressiva di un'effettiva compromissione della reputazione dell'Ente danneggiato, ipotizzabile solo in presenza di una propagazione di notizie da cui sia potuto derivare uno scadimento dell'opinione dei consociati in merito alla correttezza dell'operato delle Pubbliche Amministrazioni.
Ne consegue che la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla P.A. in conseguenza della condotta illecita accertata trova proprio fondamento nell'art. 55-quinquies, comma 2 sopra citato, in forza del quale "Nei casi di cui al comma 1, il lavoratore, ferme la responsabilità penale e disciplinare e le relative sanzioni, è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché il danno d'immagine di cui all'art. 55-quater, comma 3-quater".
Avendo il ricorrente commesso l'illecito di cui all'art. 55-quinquies, il medesimo è stato legittimamente condannato al risarcimento dei danni cagionati alla P.A., essendo stato accertato che si era allontanato dal luogo del lavoro omettendo di timbrare il badge all'uscita (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.07.2021 n. 29674).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTroppe pause caffè? È truffa continuata ma il reato è impunito se il danno alla Pa è lieve.
Particolare tenuità del fatto applicabile anche al reato continuato, se il pregiudizio, da calcolare in base allo stipendio, non è rilevante e manca una propensione al crimine da parte degli amanti del break al bar.

Lo stipendio basso evita agli impiegati della pubblica amministrazione, habitué della pausa caffè al bar, di essere puniti per truffa continuata. A far scattare, malgrado la continuità, la possibilità di applicare la norma sulla particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis del Codice penale) il danno lieve provocato e la scarsa propensione al crimine.
Nel caso esaminato il reato era prescritto, ma la Cassazione (
Sez. II penale, sentenza 31.12.2020 n. 37913) analizza comunque la condotta prendendo le distanze dalla decisione della Corte d’appello che aveva condannato per truffa continuata alcuni impiegati di una prefettura.
Le violazioni ripetute
Ai patiti del coffee break in un bar di fronte al luogo di lavoro, era stata contestata un’assenza di circa 16 ore per un totale di circa 140 euro, calcolati in base alla retribuzione degli impiegati che uscivano senza passare il badge. Per la Suprema corte la sentenza della Corte d’Appello era contraddittoria per più ragioni: gli episodi erano stati contestati come singoli fatti di reato però era stata affermata la continuazione. In più era stata negata la particolare tenuità del fatto perché le condotte, in quanto reiterate, potevano essere definite abituali. Circostanza questa che, ad avviso dei giudici territoriali, avrebbe impedito di riconoscere la non punibilità.
L’apprezzabilità del danno
Per quanto riguarda l’apprezzabilità del danno, da tarare sullo stipendio, la Suprema corte ricorda che la truffa si doveva ritenere consumata al momento della percezione della retribuzione, quindi gli episodi andavano spalmati su più mensilità. Sbagliato anche il presupposto in base al quale era stato negato il beneficio previsto dall’articolo 131-bis. Secondo la giurisprudenza della Suprema corte più recente, infatti, la continuità tra i reati non rappresenta più, in astratto, un ostacolo insormontabile.
Il giudice deve valutare se la condotta sia la manifestazione di una situazione episodica, se la lesione dell’interesse tutelato è minimale, oltre alla gravità del reato e alla capacità delinquenziale di chi lo commette. Considerazioni che giocano a favore dei ricorrenti, la cui ammissibilità del ricorso consente di affermare anche la prescrizione del reato.
Anche nella sua complessità il danno era tenue, malgrado il Pm avesse fissato la soglia massima di “tolleranza” in 50 euro, e certo la caratura criminale dei patiti della moka non era un elemento che li qualificava.
Visto il metro utilizzato per calcolare il danno magari con le pause caffè reiterate qualche rischio in più lo possono correre i dirigenti che hanno un stipendio più pesante (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.01.2021).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: È truffa ai danni dello Stato l’allontanamento arbitrario dal posto di lavoro per la pausa caffè.
Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello, confermando il giudizio di responsabilità penale nei confronti di quattro impiegati di una Prefettura per il reato di truffa ai danni dello Stato, la Corte di Cassazione –nel ritenere non manifestamente infondati i motivi di ricorso proposti dagli imputati- ha dichiarato estinto per prescrizione il reato ascritto a ciascuno degli impiegati, ribadendo che nell'ipotesi di truffa, consistente nella fraudolenta percezione di emolumenti mensili, il reato si consuma all'atto della riscossione e non quando, per effetto della frode, viene illegittimamente a maturazione il diritto alla riscossione.
---------------
2.1.1 Partendo dal ricorso proposto nell'interesse del Fl., va rilevato, in primo luogo, come non possa ritenersi manifestamente infondato il primo motivo con cui il ricorrente ha lamentato violazione di legge e vizio di motivazione sul profilo della "apprezzabilità" del pregiudizio patrimoniale cagionato dalla propria condotta al datore di lavoro; a tal proposito, non diversamente da quanto aveva segnalato con l'atto di appello, la difesa rileva come la contestazione avesse avuto ad oggetto una serie di episodi di allontanamento dal posto di lavoro della durata di pochi minuti ciascuno connessi alla "pausa caffè" da consumare presso il bar antistante la Prefettura e per un tempo stimato complessivamente in 16 ore corrispondenti a 140 Euro di retribuzione; aggiunge che i singoli episodi erano stati contestati come singoli fatti di reato mentre la truffa avrebbe dovuto semmai ritenersi consumata al momento della percezione della retribuzione mensile (comprensiva della quota in ipotesi non dovuta) e, nel caso di specie, corrispondenti alla percezione delle cinque mensilità interessate nell'ambito delle quali i singoli allontanamenti avrebbero dovuto essere sommati; di qui, secondo il ricorrente, la contraddittorietà della motivazione che, da un lato, ha considerato i singoli allontanamenti come singole ipotesi di reato per poi parametrare il danno patrimoniale subito dalla PA in quello complessivamente considerato non tenendo conto, invece, che esso avrebbe dovuto essere stimato in una media mensile di Euro 28,00 mentre ogni singolo allontanamento, sulla scorta della retribuzione oraria percepita, sarebbe stato corrispondente ad un importo di Euro 3,00.
Ebbene, i fatti sono stati considerati effettivamente in termini di truffa "continuata" e, come tali, sanzionati dal Tribunale che aveva operato un doppio aumento avendo ritenuto la continuazione con il diverso reato di cui all'art. 55-quinquies del D.Lg.vo 165 del 2001 ma, anche, la continuazione "interna" tra i singoli episodi.
A fronte dei rilievi difensivi, la Corte di Appello (cfr., pag. 113 della sentenza impugnata) ha sostenuto che la S.C., quando ha parlato della necessaria esistenza di un danno "apprezzabile", non ha in realtà individuato una "soglia" di punibilità né, a suo avviso, tale poteva essere ritenuta la "soglia" utilizzata dal PM per selezionare le posizioni da archiviare e che era stata fissata in 10 Euro; fatta questa premessa, ha chiarito che "... un danno non apprezzabile può essere ritenuto nei casi di assenza francamente limitate al massimo nel complesso ad alcun ore, indicativamente pari ad una retribuzione inferiore ai 50 Euro" (cfr., ivi).
In tal modo, perciò, da un lato ha valutato le assenze contestate come singole ipotesi di reato salvo, poi, quantificare il pregiudizio patrimoniale arrecato alla P.A. "accorpando" e "cumulando" tutte le assenza per ciascuno degli imputati nell'intero arco di tempo vagliato nel corso delle indagini e considerato nella imputazione e, perciò, superiore al limite indicato.
Il motivo di ricorso, pertanto, non può certamente essere considerato "manifestamente infondato" meritando considerazione anche alla luce del richiamato orientamento di questa stessa Corte secondo cui nell'ipotesi di truffa, consistente nella fraudolenta percezione di emolumenti mensili, il reato si consuma all'atto della riscossione e non quando, per effetto della frode, viene illegittimamente a maturazione il diritto alla riscossione (cfr., Cass. Pen., 5, 30.05.1985 n. 8.296, Burolo).
2.1.2 Né, del pari, manifestamente infondato può ritenersi il secondo motivo del ricorso del Fl. con cui la difesa del ricorrente denunzia violazione di legge con riguardo al disposto di cui all'art. 131-bis cod. pen..
Rileva, infatti, come la Corte di Appello abbia respinto la richiesta difensiva ritenendo che si fosse in presenza di condotte reiterate e pertanto abituali e, in particolare, sulla scorta di un precedente non conferente al caso di specie segnalando inoltre, l'esistenza, sul punto, di un contrasto in giurisprudenza sulla possibilità di applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen.
Ebbene, la Corte di Appello, replicando a tutti gli imputati che avevano avanzato richiesta di applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., ha replicato (cfr., pagg. 138-139 della sentenza impugnata) sostenendo di dover condividere la decisione del Tribunale "poiché in tutti i casi trattati ci si trova di fronte a condotte reiterate che possono ben essere definite abituali (...)".
La motivazione della sentenza si lega, in realtà, alla questione esaminata in precedenza e, in particolare, alla qualificazione dei singoli episodi come singole e specifiche ipotesi di reato tra le quali è stato ravvisato il vincolo della continuazione che, secondo alcune decisioni di questa Corte, non consentirebbe di ritenere la causa di non punibilità in esame per essersi in presenza di una condotta "abituale" (cfr., Cass. Pen., 5, 14.11.2016 n. 4.852, De Marco; Cass. Pen., 2, 15.11.2016 n. 1, Cattaneo; Cass. Pen., 2, 05.04.2017 n. 28341, Modon; Cass. Pen., 5, 15.05.2017 n. 48352, PG in proc. Mogoreanu; Cass. Pen., 1, 24.10.2017 n. 55450, Greco; Cass. Pen., 6, 13.12.2017 n. 3353, Lesmo ed altro).
Quest'ultima affermazione, nella sua assolutezza, è certamente discutibile alla luce del più recente e condivisibile orientamento della Corte secondo cui la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. può ben essere ritenuta anche in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, purché non espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine (cfr., Cass. Pen., 2, 06.06.2018 n. 41011, Ba Elhadji, in cui la Corte ha precisato che occorre soppesare l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni -anche indirette- sottese alla condotta; conf., Cass. Pen., 2, 07.02.2018 n. 9495, PG in proc. Grasso; Cass. Pen., 5. 26.03.2018 n. 32626, P.; Cass. Pen., 4, 11.12.2018 n. 4649, PG in proc. Xhafa; Cass. Pen., 2, 10.09.2019 n. 42579, D'Ambrosio; Cass. Pen., 4, 13.11.2019 n. 10111, PG in proc. De Angelis; Cass. Pen., 2, 27.01.2020 n. 11591, T.)
In altri termini, si è affermato il principio per cui, di per sé solo, il fatto che il reato per il quale si chieda il riconoscimento della causa di non punibilità sia stato posto in continuazione con altri non osta, in astratto, alla operatività dell'istituto dovendosi tuttavia valutare, anche alla luce del suo inserimento in un contesto più articolato, se la condotta in esame sia espressione di una situazione episodica, se la lesione all'interesse tutelato sia comunque minimale e, in definitiva, se il "fatto" nella sua complessità, sia meritevole di un apprezzamento in termini di speciale tenuità.
Va ricordato che il giudizio sulla tenuità del fatto, quale presupposto per la applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo comma, (quindi sotto il profilo della oggettività della condotta) cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo (cfr., Cass. SS.UU., 25.02.2016 n. 13681, Tushaj); per altro verso, si è chiarito che, pur dovendosi far riferimento agli indici di cui all'art. 133 cod. pen., non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione ivi previsti, essendo sufficiente l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti (cfr., Cass. Pen., 6, 08.11.2018 n. 55107, Milone) e che è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell'assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall'art. 131-bis ritenuto, in quanto giudicato, evidentemente, decisivo (cfr., Cass. Pen., 3, 18.06.2018 n. 34.151, Foglietta).
Da ultimo, si è pure chiarito che la motivazione con la quale si neghi la applicazione della causa di non punibilità può risultare anche implicitamente dall'argomentazione con la quale il giudice d'appello abbia considerato gli indici di gravità oggettiva del reato e il grado di colpevolezza dell'imputato, alla stregua dell'art. 133 cod. pen., per stabilire la congruità del trattamento sanzionatorio irrogato dal giudice di primo grado (cfr., Cass. Pen., 5, 14.12.2018 n. 15658, D.; Cass. Pen., 5, 08.03.2017 n. 24780, Tempera, in cui la Corte ha ritenuto infondato il motivo di ricorso relativo all'assenza di motivazione in ordine alla causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., ravvisando nel passaggio della motivazione della sentenza della corte di appello relativo alla sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 1, cod. pen., che l'appellante chiedeva di escludere, un'implicita esclusione della particolare tenuità del fatto; conf., ancora, Cass. Pen., 3, 11.10.2016 n. 48317, Scopazzo).
Ecco, allora, che la motivazione della Corte di Appello può effettivamente prestarsi a rilievi di inadeguatezza che non possono di certo ritenersi manifestamente infondati (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 31.12.2020 n. 37913).

 

Sulla possibilità, o meno, di monetizzare le ferie nel Pubblico Impiego.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Godimento delle ferie dipendente da causa non imputabile al lavoratore.
L’istituto della c.d. monetizzazione delle ferie è stato sostanzialmente abolito o quanto meno fortemente ridimensionato per effetto dell’art. 5, co. 8, del d.l. n. 95/2012, convertito con legge n. 135/2012, in forza del quale le ferie, i riposi ed i permessi nel settore del lavoro pubblico sono obbligatoriamente goduti secondo quanto stabilito dai rispettivi ordinamenti, con divieto di corresponsione di «trattamenti economici sostitutivi».
Il carattere tutto sommato eccezionale e residuale della monetizzazione è stato ribadito sia dalla prassi amministrativa sia dalla giurisprudenza ordinaria e da quella costituzionale
.

---------------
Il gravame non appare fondato, per le ragioni che seguono.
2.1 Il sig. Ve. cessava dal servizio presso la Squadra Mobile di Sondrio a far tempo dal 15.01.2018 (cfr. il doc. 1 del resistente) e già in precedenza depositava una domanda di congedo ordinario per 123 giorni consecutivi, che non era accolta dall’Amministrazione, vista la lunga durata del periodo (cfr. sul punto il doc. 3 del resistente).
In seguito presentava un’istanza di monetizzazione per un numero più ridotto di giorni di congedo ordinario, che era respinta con la già citata nota della Prefettura di Sondrio del 18.04.2019 (si veda il doc. 3 del resistente) che in maniera compiuta esponeva gli argomenti ostativi alla monetizzazione richiesta, vale a dire l’accumulo dei giorni non fruiti in oltre vent’anni di servizio in luogo del graduale smaltimento dei medesimi, la presentazione di una domanda di dimissioni volontarie prima di avere goduto dell’intero congedo ordinario, oltre all’assenza di documentate esigenze di servizio o di altre situazioni straordinarie tali da rendere impossibile la fruizione delle ferie.
2.2 Sulla c.d. monetizzazione delle ferie preme evidenziare che l’istituto è stato sostanzialmente abolito o quanto meno fortemente ridimensionato per effetto dell’art. 5, comma 8, del DL n. 95/2012, convertito con legge n. 135/2012, in forza del quale le ferie, i riposi ed i permessi nel settore del lavoro pubblico sono obbligatoriamente goduti secondo quanto stabilito dai rispettivi ordinamenti, con divieto di corresponsione di «trattamenti economici sostitutivi».
Il carattere tutto sommato eccezionale e residuale della monetizzazione è stato ribadito sia dalla prassi amministrativa (si veda la Circolare del Ministero dell’Intero prot. 333-G/I/Sett. 2°/mco/N°12/10) sia dalla giurisprudenza ordinaria (cfr. Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza n. 15652/2018) e da quella costituzionale (si veda Corte Costituzionale, sentenza n. 95/2016, che ha ritenuto costituzionalmente legittima la previsione del succitato art. 5, comma 8, del DL n. 95/2012, riconoscendo al lavoratore il diritto a un’indennità soltanto in caso di mancato godimento delle ferie per causa a lui non imputabile).
Sul punto sia consentito altresì il richiamo alla recentissima sentenza del TAR Lazio, Roma, Sezione I-quater n. 3426/2021, nella quale si afferma che l’obbligo di legge (ex art. 5, comma 8, del DL n. 95/2012) di godere delle ferie senza alcun trattamento economico sostitutivo «…mira a “reprimere il ricorso incontrollato alla “monetizzazione” delle ferie non godute. Affiancata ad altre misure di contenimento della spesa, la disciplina in questione mira a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro. In questo contesto si inquadra il divieto rigoroso di corrispondere trattamenti economici sostitutivi, volto a contrastare gli abusi, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole” (Corte cost., n. 95 del 2016)».
2.3 Nel caso di specie il sig. Ve. presentava domanda di dimissioni (cfr. il doc. 1 del resistente), per cui cessava dal servizio volontariamente e non per fatti sopravvenuti ed imprevedibili, tali da impedire la programmazione e l’utilizzo delle ferie residue prima del pensionamento.
Quanto alla richiesta di congedo del 05.06.2017 (cfr. il doc. 3 del ricorrente e il doc. 2 del resistente) la stessa aveva ad oggetto un periodo di ben 123 giorni consecutivi –come già sopra ricordato (cfr. il doc. 6 del ricorrente e il doc. 3 del resistente)– e non poteva certo essere accolta, a fronte di un così lungo e continuativo periodo di assenza.
Inoltre, dall’esame del prospetto delle ferie redatto dalla Questura di Sondrio nel mese di aprile 2020 (cfr. il doc. 4 del resistente), risulta che l’esponente ha potuto godere fra il 2015 ed il 2018 di diversi periodi di ferie, talora di una sola giornata ma anche per tempi più lunghi, per cui non appare dimostrato un presunto atteggiamento ostativo dell’Ufficio, che avrebbe impedito la fruizione del congedo ordinario.
Si badi che le ferie furono concesse anche dopo che, nel mese di giugno 2017, era stata respinta la più volte citata richiesta di un periodo di congedo di 123 giorni, a conferma della volontà dell’Amministrazione di consentire una ordinata fruizione del residuo tempo feriale, nel rispetto degli accordi sindacali di settore (si vedano, ad esempio, l’art. 14 del DPR n. 395/1995 e gli articoli 18 e 55 del DPR n. 254/1999).
Non vi è quindi alcuna prova concreta dell’impossibilità di mancato godimento delle ferie per fatto non imputabile al sig. Verga.
Il ricorso in epigrafe deve quindi interamente rigettarsi (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 13.05.2021 n. 1186 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Divieto di monetizzazione delle ferie e cessazione del rapporto di lavoro.
Nel rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il mero fatto del mancato godimento delle ferie non dà titolo ad un corrispondente ristoro economico: vige, cioè, il divieto di monetizzazione delle ferie maturate e non godute, anche nei casi di cessazione del rapporto di lavoro, con conseguente disapplicazione delle clausole contrattuali più favorevoli per il dipendente (CORTE di Appello di Roma, Sez. I, sentenza 06.04.2021 n. 1383 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ferie, riposi e permessi non fruiti nei termini.
In base all’art. 5, comma 8, della legge 07.08.2012 n. 135 le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi, anche nel caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età.
Il divieto di corresponsione dell’indennità sostitutiva non risulta, infatti, applicabile nell’ipotesi in cui il lavoratore non abbia potuto godere delle ferie per malattia o per altra causa non imputabile
.

---------------
Il ricorrente, militare transitato nei ruoli civili per ragioni di salute, si duole del fatto che l’Amministrazione intimata abbia negato il suo diritto a percepire l’indennità sostitutiva della licenza ordinaria di cui egli non ha potuto fruire in corso di malattia per gli anni 2013, 2014 e 2015.
A seguito del decesso del Sig. -OMISSIS- il ricorso è stato riassunto dalla Sig.ra -OMISSIS- in proprio e anche in qualità di genitore del figlio minorenne -OMISSIS-, nonché per la Sig.ra -OMISSIS- in qualità di eredi.
Il Ministero fonda la sua decisione sull’art. 5, comma 8, della legge 07.08.2012 n. 135 in base al quale le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi anche nel caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età.
La predetta disposizione, sulla scorta dei pronunciamenti delle corti superiori nazionali e sovranazionali, deve, tuttavia interpretarsi nel senso che il divieto di corresponsione dell’indennità sostitutiva non risulta applicabile tutte le volte che, come accaduto nella specie, il lavoratore non abbia potuto fruire quando il lavoratore non abbia potuto godere delle ferie per malattia o per altra causa non imputabile.
Ciò, in particolare, è quanto, dopo ampia disamina, ha di recente stabilito in sede di ricorso straordinario la I Sezione del Consiglio di Stato con il parere n. 154 del 20/01/2020 che il Collegio condivide soprattutto in merito alla necessità di non porre l’ordinamento nazionale in contrasto con quanto stabilito dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza in causa 341/15 del 20/07/2016 che ha fatto applicazione dell'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 in base al quale l’inderogabile diritto alle ferie retribuite è surrogato da una indennità finanziaria tutte le volte che il lavoratore per causa a lui non imputabile non riesca a beneficarne.
Il ricorso deve essere, quindi, accolto con conseguente obbligo del Ministero di erogare l’indennità sostitutiva richiesta (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 06.04.2021 n. 477 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Diritto alla monetizzazione delle ferie non godute.
Il diritto alla monetizzazione del congedo ordinario (non fruito) matura ogni qualvolta il dipendente non ne abbia fruito (ovvero non abbia potuto disporre e godere delle sue ferie) a cagione di obiettive esigenze di servizio e comunque per cause da lui non dipendenti o a lui non imputabili. Quindi, il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95 va interpretato nel senso che tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole.
---------------
Il ricorso è fondato.
La monetizzazione delle ferie non godute è stata, di recente, oggetto di intervento legislativo relativamente recente atto a vietare l’applicazione dell’istituto in avvenire per esigenze di carattere finanziario.
L’art. 5, comma 8, del d.l. 95 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge 07.08.2012, n. 135, prevede che “Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile. Il presente comma non si applica al personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario supplente breve e saltuario o docente con contratto fino al termine delle lezioni o delle attività didattiche, limitatamente alla differenza tra i giorni di ferie spettanti e quelli in cui è consentito al personale in questione di fruire delle ferie.“
La giurisprudenza amministrativa ha, tuttavia, inteso la norma sopra citata nel senso che “Il diritto alla monetizzazione del congedo ordinario (non fruito) matura ogni qualvolta il dipendente non ne abbia fruito (ovvero non abbia potuto disporre e di godere delle sue ferie) a cagione di obiettive esigenze di servizio e comunque per cause da lui non dipendenti o a lui non imputabili. Quindi, il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all'art. 5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95 va interpretato nel senso che tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole” (TAR Roma, (Lazio) sez. I, 10/02/2020, n. 1712).
Nel caso di specie, il ricorrente, pur avendo manifestato in maniera inequivocabile la volontà di usufruire del residuo periodo di ferie per l’anno 2013, non è stato materialmente posto nella condizione di beneficiarne. Tanto è accaduto perché, in maniera inaspettata, il ricorrente è stato portato a conoscenza, solo in data 10.12.2013, dell’abbassamento delle note caratteristiche, circostanza che ha determinato il suo collocamento obbligatorio in congedo.
La mancata fruizione dei 36 giorni di ferie è pertanto dipesa da un evento non imputabile a colpa del dipendente. In presenza di queste circostanze, il diniego opposto dall’amministrazione alla monetizzazione del congedo ordinario non fruito è connotato da illegittimità non essendosi tenuto conto della non imputabilità della mancata fruizione del congedo ordinario da parte del ricorrente.
Alla stregua delle argomentazioni che precedono, il ricorso è accolto; ne consegue l’annullamento del provvedimento impugnato e l’accertamento del diritto del ricorrente (dei suo eredi) a conseguire la monetizzazione di 36 giorni di ferie non godute relativamente all’anno 2013 (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 24.02.2021 n. 326 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Bilanciamento tra esigenze di pari rango.
Nel rapporto di lavoro pubblico, la limitazione dell’irrinunciabile diritto costituzionale alle ferie con il divieto di pagamento della retribuzione corrispondente alle ferie non godute, può operare solo nei limiti del bilanciamento tra esigenze di pari rango, ossia se la parte datoriale abbia messo il lavoratore in condizione di fruirne; solo in tal caso il legislatore può legittimamente stabilire, per fictio iuris, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione perché l’obbligato ha offerto la prestazione ed il creditore è in mora nel riceverla (TRIBUNALE di Piacenza, Sez. lav., sentenza 20.08.2020 n. 6 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute.
Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute non può trovare applicazione ove il godimento di dette ferie sia stato impedito da uno stato di malattia o da altra causa oggettivamente non imputabile al lavoratore.
In tal modo, è stato riconosciuto al lavoratore il diritto di beneficiare di un’indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche quando la normativa settoriale formuli esplicitamente un divieto in tal senso, in questo modo garantendo il diritto alle ferie, come riconosciuto dalla Costituzione e dalle più importanti fonti internazionali ed europee
.

---------------
Nel merito il ricorso è fondato e va accolto.
Ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, recepito dall’art. 2109 c.c., il lavoratore ha diritto a godere di un periodo annuale di ferie retribuite, per reintegrare le energie psicofisiche spese nell’espletamento della prestazione lavorativa.
Si tratta di un diritto irrinunciabile e dunque, in linea generale, non monetizzabile.
In attuazione di tale principio, infatti, l’art. 47, co. 7, del D.P.R. 31.07.1995 n. 395 dispone che “la licenza ordinaria è un diritto irrinunciabile e non è monetizzabile”. L’art. 55 del D.P.R. 16.03.1999 n. 254 prevede altresì, al comma 1, che: “La disciplina dell'articolo 14, comma 14, del decreto del Presidente della Repubblica p. 395 del 1995 è estesa al personale dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza.” e, al successivo comma 2, che: “al pagamento sostitutivo, oltre che nei casi previsti dal comma 1, si procede anche quando la licenza ordinaria non sia stata fruita per decesso o per cessazione dal servizio per infermità”.
Da ultimo è intervenuto l’art. 5, co. 8, del d.l. 06.07.2020 -OMISSIS- n. 95, convertito in legge 07.08.2020 -OMISSIS- n. 135, il quale ha ribadito il divieto assoluto di monetizzazione delle ferie, dei riposi e dei permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale delle P.A., da applicarsi anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite d’età.
Il descritto quadro normativo, con riferimento alla spettanza del compenso sostitutivo della licenza in ipotesi di cessazione dal servizio, è stato effettivamente interpretato da una parte della giurisprudenza più risalente, come richiama l’amministrazione resistente, nel senso che “il diritto al compenso sostitutivo … implica comunque una situazione oggettiva di impossibilità di fruire in altro periodo delle ferie” nel mentre “dirimente in senso ostativo all'accoglimento della domanda del compenso sostitutivo si rivela … il fatto che il richiedente sia stato collocato in quiescenza a domanda, costituendo … la sua libera scelta la causa prima dell'interruzione del rapporto di impiego, scelta che ha impedito all'Amministrazione di consentirgli di fruire in altro periodo delle ferie residue” (TAR Sicilia Catania, Sez. III, 25.05.2016 n. 1399; nello stesso senso TAR Puglia Lecce, Sez. II, 21.05.2018 n. 847).
In tempi più recenti, tuttavia, si è registrata un’evoluzione giurisprudenziale, alla quale il Collegio ritiene di aderire, anche alla luce degli interventi della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
In particolare, la Corte costituzionale, con sentenza n. 95/2016, ha rilevato che:
   - la prassi amministrativa e la magistratura contabile convergono nell’escludere dall’àmbito applicativo del divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro; questa interpretazione si colloca, peraltro, nel solco tracciato dalle pronunce della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, che riconoscono al lavoratore il diritto di beneficiare di un’indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche quando difetti una previsione negoziale esplicita che consacri tale diritto, ovvero quando la normativa settoriale formuli il divieto di “monetizzare” le ferie; così correttamente interpretata, la disciplina impugnata non pregiudica il diritto alle ferie, come garantito dalla Carta fondamentale, dalle fonti internazionali e da quelle europee;
   - il diritto alle ferie, riconosciuto a ogni lavoratore, senza distinzioni di sorta, mira a reintegrare le energie psico-fisiche del lavoratore e a consentirgli lo svolgimento di attività ricreative e culturali, nell’ottica di un equilibrato «contemperamento delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore»; la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha rafforzato i connotati di questo diritto fondamentale del lavoratore e ne ha ribadito la natura inderogabile, in quanto finalizzato a «una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute»;
   - la garanzia di un effettivo godimento delle ferie traspare, secondo prospettive convergenti, dalla giurisprudenza costituzionale e da quella europea; tale diritto inderogabile sarebbe violato se la cessazione dal servizio vanificasse, senza alcuna compensazione economica, il godimento delle ferie compromesso dalla malattia o da altra causa non imputabile al lavoratore;
   - non si può ritenere, pertanto, che una normativa settoriale, introdotta al precipuo scopo di arginare un possibile uso distorto della “monetizzazione”, si ponga in antitesi con principi ormai radicati nell’esperienza giuridica italiana ed europea.
In sostanza, la Corte –con una sentenza interpretativa di rigetto– ha ritenuto che il divieto di monetizzazione non può trovare applicazione ove il godimento delle ferie sia stato impedito da uno stato di malattia o da altra causa oggettivamente non imputabile al lavoratore.
In tal modo è stato riconosciuto al lavoratore il diritto di beneficiare di un'indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche quando la normativa settoriale formuli esplicitamente un divieto in tal senso, in questo modo garantendo il diritto alle ferie, come riconosciuto dalla Costituzione e dalle più importanti fonti internazionali ed europee.
A livello comunitario, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, in ordine all'interpretazione della Direttiva n. 2003/88/CE e al suo recepimento da parte degli Ordinamenti interni, ha rilevato come il legislatore comunitario, nel prevedere comunque l'erogazione dell'indennità dovuta per ferie non godute alla cessazione del rapporto lavorativo, abbia considerato del tutto irrilevante il motivo per cui il rapporto di lavoro si sia risolto (sentenza C-341-15 del 20/07/2016).
In conformità ai riportati principi di diritto, la più recente giurisprudenza di merito ha ritenuto che nel caso in cui il “rapporto di lavoro è cessato a causa della domanda di pensionamento, al lavoratore spetta la relativa indennità per ferie annuali non godute. Ciò perché le ferie sono state maturate ma il lavoratore, per via del collocamento in pensione, non è stato in grado di usufruirne in misura piena prima della fine del rapporto”, con la precisazione che non “può riversarsi sull'interessato l'onere di chiedere la postergazione del già decretato stato di quiescenza. Semmai … avrebbe dovuto essere la stessa Amministrazione a prorogare d'ufficio la decorrenza del collocamento in quiescenza, per consentire al ricorrente di godere del congedo ordinario quale diritto inviolabile del lavoratore” (Tar Calabria Catanzaro, 03.03.2020, n. 511, Tar Bologna, Sez. I, 13.06.2019 n. 535, Tar Sicilia, Palermo, Sez. I, 28.08.2018 n. 1850).
Più di recente, il Consiglio di Stato (Sez. I, parere n. 154 del 20.01.2020) ha anzitutto rilevato che “la circostanza che un lavoratore ponga fine, di sua iniziativa, al proprio rapporto di lavoro, non ha nessuna incidenza sul suo diritto a percepire, se del caso, un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite di cui non ha potuto usufruire prima della cessazione del rapporto di lavoro”.
Sempre nel medesimo parere è stato osservato che “alla luce dell’evoluzione del quadro interpretativo sopra delineato e, in particolare, dell’orientamento del giudice eurounitario, questa Sezione, con il recente parere n. 86/2018, ha ritenuto che il diritto al congedo ordinario maturato nel periodo di aspettativa per infermità include automaticamente il diritto al compenso sostitutivo, ancorché il dipendente sia cessato dal servizio “a domanda”. Questa interpretazione è stata ribadita con il parere di questa Sezione n. 2424/2018. Tale è anche l’orientamento dei Tribunali amministrativi regionali (TAR Sicilia-Palermo n. 1850/2018; TAR Puglia-Lecce n. 431/2018; TAR Calabria-Reggio Calabria n. 264/2018; TAR Emilia Romagna, Bologna n. 535/2019; TAR Molise n. 3/2020).
Da quanto sopra scaturiscono i presupposti per l’accoglimento del ricorso, con riferimento all’an della spettanza.
In ordine al quantum, in assenza di specifica contestazione sul punto da parte dell’amministrazione resistente ci si riporta al prospetto agli atti, redatto dal comandante del nucleo di polizia tributaria di Vibo Valentia in data 09.10.2020 -OMISSIS- (prot. n. 324082/12), da cui risulta la spettanza di n. 76 giorni di licenza non fruita (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 11.05.2020 n. 4898 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La cessazione del rapporto di lavoro.
Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute, alla luce della sentenza della Corte Cost. 06.05.2016 n. 95, è correlato a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro sia riconducibile ad una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o a eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore.
Esulano, invece, dall’ambito di applicazione di tale divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro non imputabili alla volontà delle parti
.
---------------
2. Devono essere brevemente tratteggiati il quadro normativo di riferimento e i principi giurisprudenziali elaborati in subjecta materia.
2.1. Le modalità di godimento delle ferie annuali continuano ad essere disciplinate, per il personale di magistratura ordinaria, dalle disposizioni previste dall'art. 36 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, nonché da quelle dell'art. 15 della legge 11.07.1980, n. 312 (la cui applicabilità ai magistrati ordinari discende dalla norma di rinvio contenuta nell'art. 276 dell'Ordinamento Giudiziario) laddove recitano, rispettivamente: "il godimento del congedo entro l'anno può essere rinviato o interrotto per eccezionali esigenze di servizio; in tal caso l'impiegato ha diritto al cumulo dei congedi entro il primo semestre dell'anno successivo" e: "il congedo ordinario è stabilito in trenta giorni lavorativi da fruirsi irrinunciabilmente nel corso dello stesso anno solare in non più di due soluzioni, salvo eventuali motivate esigenze di servizio, nel qual caso l’impiegato ha diritto al cumulo dei congedi entro il primo semestre dell'anno successivo”.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, in data 20.12.2001, nel rispondere ad un quesito e con riferimento a precedenti circolari adottate in materia, ha ribadito l'applicabilità ai magistrati dell'art. 15 della L. n. 312/1980 ed ha precisato che "normalmente il congedo ordinario deve essere goduto continuativamente in coincidenza con il periodo feriale" ma che "per ragioni di servizio è tuttavia possibile una diversa distribuzione, da parte dei capi degli uffici, del periodo di congedo durante l'anno come già stabilito da risoluzioni del C.S.M con la possibilità di recupero nel semestre dell'anno successivo".
Inoltre ha affermato che "il termine posto dall'art. 15 della legge n. 312/1980 e dall'art. 36 del D.P.R. n. 3/1957 ‘entro il primo semestre dell'anno successivo’ è da intendersi come perentorio e non superabile e che il magistrato, essendo irrinunciabile il diritto alle ferie, ha il dovere di goderlo entro il detto limite", ammettendo soltanto che, per ragioni di oggettiva impossibilità, il magistrato possa fruire delle ferie immediatamente dopo la cessazione della causa ostativa, eventualmente superando, in via di eccezione, il termine del primo semestre dell'anno successivo.
Riguardo, poi, ai criteri che devono presiedere alla certificazione delle esigenze di servizio, comprovanti la necessità di rinvio della fruizione del congedo ordinario, l'Amministrazione continua a fare sempre riferimento alle disposizioni contenute nelle circolari AG/EC/4014 del 06.08.1998 e AG/EC/3730 del 16.06.2000 a firma del Direttore Generale dell'Organizzazione Giudiziaria e degli Affari Generali, diramate a tutti i Capi degli Uffici, ove, a precisazione delle su citate statuizioni normative, si sottolinea che, per quanto concerne l'attestazione della sussistenza delle esigenze di servizio che comportino il rinvio al congedo ordinario, è necessario che le stesse siano adeguatamente certificate, sia sotto il profilo formale sia sotto quello sostanziale, aggiungendo, altresì, che non sono ritenute adeguate le certificazioni generiche e di stile, richiedendosi invece la documentata indicazione, volta per volta, di puntuali riferimenti a situazioni e circostanze che possano essere idonee allo scopo.
Inoltre, con la seconda circolare citata, l'Amministrazione richiede che i magistrati debbano predisporre, tempestivamente, le singole richieste di ferie, anche in presenza di probabili esigenze di ufficio che ne potrebbero giustificare il diniego e che è compito dei Capi degli Uffici, eventualmente, rigettare la richiesta mediante la redazione di un provvedimento che deve indicare specificatamente e dettagliatamente le ragioni di detto diniego.
Successivamente, nella delibera adottata nella seduta del 14.07.2010 e nelle circolari datate 30.07.2010 e 21.04.2011, quest'ultima modificata mediante risoluzione del 20.04.2016 e relazione introduttiva del 26.03.2015, il Consiglio Superiore della Magistratura è ritornato nuovamente sul tema, e nel ribadire e sintetizzare quanto già in precedenza affermato in tema di godimento delle ferie da parte dei magistrati, afferma nuovamente che, del tutto eccezionalmente, le ferie non godute possono essere recuperate oltre il primo semestre dell'anno successivo rispetto a quello di riferimento, purché sia dimostrata la ricorrenza in concreto di condizioni ostative al rispetto del termine de quo; inoltre, detta una disciplina secondaria in tema di programmazione delle ferie e di piani di recupero delle ferie residue, ma sempre nel rispetto delle disposizioni su citate.
2.2. Nelle more è stato emanato il D.L. 06.07.2012 n. 95 (entrato in vigore il 07.07.2012) convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012 n. 135, il cui art. 5, comma 8, ha disposto che “le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche … sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto…”.
2.3. Detta norma è stata oggetto di interpretazione da parte della giurisprudenza nazionale ed europea, nei termini di seguito tratteggiati.
2.3.1. Con sentenza della Sezione X del 20.07.2016 (causa C. 341/15) la Corte di Giustizia ha affermato che l'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che:
   - esso osta a una normativa nazionale che priva del diritto all'indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute il lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato a seguito della sua domanda di pensionamento e che non sia stato in grado di usufruire di tutte le ferie prima della fine di tale rapporto di lavoro;
   - un lavoratore ha diritto, al momento del pensionamento, all'indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute per il fatto di non aver esercitato le sue funzioni per malattia;
   - un lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato e che, in forza di un accordo concluso con il suo datore di lavoro, pur continuando a percepire il proprio stipendio, fosse tenuto a non presentarsi sul posto di lavoro per un periodo determinato antecedente il suo pensionamento, non ha diritto all'indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute durante tale periodo, salvo che egli non abbia potuto usufruire di tali ferie a causa di una malattia;
   - spetta, da un lato, agli Stati membri decidere se concedere ai lavoratori ferie retribuite supplementari che si sommano alle ferie annuali retribuite minime di quattro settimane previste dall'articolo 7 della direttiva 2003/88.
In tale ipotesi, gli Stati membri possono prevedere di concedere al lavoratore che, a causa di una malattia, non abbia potuto usufruire di tutte le ferie annuali retribuite supplementari prima della fine del suo rapporto di lavoro, un diritto all'indennità finanziaria corrispondente a tale periodo supplementare. Spetta, dall'altro lato, agli Stati membri stabilire le condizioni di tale concessione.
2.3.2. La Corte Costituzionale con la pronuncia interpretativa di rigetto n. 95 del 06.05.2016, ha escluso l'illegittimità costituzionale della norma in parola, affermando che la stessa va interpretata nel senso che debba esser sempre riconosciuta la "compensazione economica" allorquando il godimento delle ferie sia “compromesso dalla malattia o da altra causa non imputabile al lavoratore".
2.3.3. Sul tema della monetizzazione delle ferie il Consiglio di Stato ha affermato che "il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute dal pubblico dipendente, anche in mancanza di una norma espressa che preveda la relativa indennità, discende direttamente dallo stesso mancato godimento delle ferie, in armonia con l'art. 36 Cost., quando sia certo che tale vicenda non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a lui comunque imputabile, e dunque anche in caso di cessazione dal servizio per infermità; ciò in quanto il carattere indisponibile del diritto alle ferie non esclude l'obbligo della stessa Amministrazione di corrispondere il predetto compenso per le prestazioni effettivamente rese, non essendo logico far discendere da una violazione imputabile all'Amministrazione il venir meno del diritto all'equivalente pecuniario della prestazione effettuata; analoga conclusione deve trarsi ove le ferie non siano state fruite per cessazione dal servizio per infermità" (Cons. Stato, Sez. IV, 13.03.2018, n. 1580).
Da tale carattere di indisponibilità e irrinunciabilità discende il diritto al compenso sostitutivo, ogni qual volta la fruibilità del congedo stesso sia oggettivamente esclusa per causa indipendente dalla volontà del lavoratore o per fatto specifico della P.A. datrice di lavoro (in materia, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 25.06.2015, TAR Sardegna, 13.02.2013 n. 116; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 03.05.2011 n. 598; Cons. Stato, Sez. IV, 24.02.2009 n. 1084).
Il diritto alla monetizzazione del congedo ordinario (non fruito) matura ogniqualvolta il dipendente non ne abbia potuto usufruire (ovvero non abbia potuto disporre e godere delle sue ferie) a cagione di obiettive esigenze di servizio o comunque per cause da lui non dipendenti o a lui non imputabili (Cons. Stato, Sez. III, 21.03.2016 n. 1138).
Quindi il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8, D.L. 06.07.2012 n. 95 va interpretato nel senso che tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole (TAR Emilia Romagna, Parma, 17.01.2017, n. 14; v. anche TAR Friuli Venezia Giulia, 11.07.2018, n. 247).
2.3.4. E, per il pubblico impiego contrattualizzato, la giurisprudenza del giudice del lavoro è costante nell'affermare che in tema di pubblico impiego e monetizzazione delle ferie non fruite, sussiste il diritto del ricorrente al pagamento delle ferie e dei riposi non goduti, quando lo stesso abbia provato di essere lavoratore in malattia. Difatti, l'art. 5, comma 8, D.L. 95/2012 deve essere interpretato nel senso che il divieto di monetizzazione delle ferie residue non si applica nel caso in cui il dipendente non sia stato nella possibilità di fruire delle stesse a causa di malattia (ex multis: Trib. Taranto sez. lav., 17.10.2019, n. 3418; Trib. La Spezia, sez. lav., 03.11.2018, n. 282; Trib. Torino, sez. lav., 22.12.2016, n. 1861).
3. Alla luce di quanto precede il ricorso non può essere accolto (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 10.02.2020 n. 1712 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Monetizzazione delle ferie nel pubblico impiego: ammissibilità.
La monetizzazione delle ferie, nel pubblico impiego, è consentita solo in quei casi in cui il diritto alle stesse sia compromesso da cause non imputabili al lavoratore quali la malattia, essendo legittimo il divieto di monetizzazione delle stesse in tutti gli altri casi (nella specie il lavoratore ha rassegnato le proprie dimissioni con l’intento di godere della pensione, anche se poi ciò non si è verificato, pertanto ben avrebbe potuto, preventivando la data di cessazione del rapporto, godere delle ferie residue) (TRIBUNALE di Taranto, Sez. lav., sentenza 17.10.2019 n. 3418 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Divieto di monetizzazione delle ferie non godute: può considerarsi assoluto?
Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute non può considerarsi assoluto, nel senso di proibire radicalmente il pagamento del compenso sostitutivo, pertanto, a fronte di evidenti impossibilità al godimento delle ferie non attribuibili in alcun modo alla volontà del lavoratore (nella specie il lavoratore ha tempestivamente comunicato al datore di lavoro il proprio recesso dal rapporto di lavoro per collocamento in quiescenza e il datore di lavoro ha comunicato al dipendente la necessità della fruizione delle ferie residue in costanza del rapporto di lavoro, stante l’impossibilità della loro monetizzazione, il dipendente non ha potuto usufruire dei n. 15 giorni di ferie residue nel mese di dicembre e di gennaio 2015, come inizialmente convenuto tra le parti, a causa di contestuale richiesta di fruizione di ferie da parte di molti altri dipendenti, per cui il contemperamento delle esigenze di assicurare la continuità del servizio e di garantire il recupero delle energie del dipendente possa risolversi in un aprioristico riconoscimento della prevalenza delle prima e rendere intempestiva qualsiasi istanza, anche presentata con ampio anticipo, da parte del lavoratore, ai fini della conservazione del di lui diritto), il divieto di corrispondere un compenso sostitutivo configura un comportamento censurabile, non essendo logico far derivare da una violazione dell’ art. 36 della Costituzione imputabile alla pubblica amministrazione. il venir meno del diritto all’equivalente pecuniario di una prestazione comunque effettuata (TRIBUNALE di Teramo, Sez. lav., sentenza 16.10.2019 n. 514 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il diritto alle ferie.
Il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, l. 07.08.2012 n. 135, va interpretato nel senso che tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo.
Ciò al fine specifico di reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro
.

---------------
Come risulta dalla esposizione in fatto, la questione giuridica sottoposta all’attenzione del Collegio verte su un unico punto. Si tratta di comprendere se sia dovuta la monetizzazione del periodo di ferie non goduto nel caso in cui il mancato godimento sia dipeso da assenza continuativa del dipendente dovuta a malattia.
L’amministrazione intimata, in sintesi, difende la correttezza del diniego opposto affermando di avere liquidato il compenso sostitutivo in favore del ricorrente, facendo corretta applicazione della disciplina di riferimento e, segnatamente, dell’art. 14 d.P.R. 31.07.1995, n. 395, dell’art. 18 d.P.R. 16.03.1999 n. 254 e dell’art. 11 d.P.R. 11.09.2007, n. 170.
Il ricorrente contesta, argomentando con ampi svolgimenti, l’interpretazione e l’applicazione che l’amministrazione ha fornito delle sopra citate disposizioni.
In particolare, nella memoria depositata il giorno 11.01.2019, in vista dell’udienza pubblica, la difesa del ricorrente afferma, in sintesi, che ciascuna delle disposizioni richiamate dall’amministrazione, in assenza di una lettura costituzionalmente orientata, collide con il principio della indisponibilità del diritto alle ferie sancito nell'art. 36, ultimo comma, della Costituzione.
Il precetto costituzionale, secondo il ricorrente, deve essere inteso nel senso che ove il lavoratore abbia prestato ininterrottamente la propria opera nel periodo di riferimento delle ferie, il compenso sostitutivo delle stesse spetta in ogni caso, a nulla rilevando l’esistenza di disposizioni che concedano, limitino o escludano il diritto all’equivalente pecuniario.
La pretesa del ricorrente è fondata.
Alcune premesse di carattere generale.
Il diritto costituzionale indisponibile ad un periodo annuale di ferie retribuito, connotato, al pari del diritto al riposo settimanale, dal requisito dell'irrinunciabilità, rinviene il proprio fondamento giuridico tanto nell'interesse, meramente privatistico, comune ad entrambe le parti del rapporto, di conservare le energie fisiche del lavoratore al fine di una più razionale utilizzazione delle stesse, quanto nell'interesse, eminentemente pubblico, alla tutela della persona del lavoratore.
La dottrina, in modo unanime, ha da tempo affermato che nel caso delle ferie annuali risultano prevalenti proprio gli interessi etico-sociali rispetto a quelli fisiologici, cui sono, invece, essenzialmente preordinate le altre pause, di minore durata e di maggiore frequenza.
In materia di ferie, l'intervento della Corte costituzionale è stato ripetuto e sempre molto incisivo nel riservare una tutela particolarmente intensa al diritto al riposo feriale, attraverso un consolidato filone giurisprudenziale che parte dal 1963 (con la celebre sentenza n. 66) per arrivare alla storica sentenza n. 158 del 2001 che ha affermato che la garanzia costituzionale del riposo annuale, espressamente sancita nel 3° comma dell'art. 36 della Costituzione, non consente deroghe e va per ciò assicurata ad ogni lavoratore senza distinzione di sorta.
Anche la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea ha sancito, al paragrafo 2 dell'art. 31, il diritto del lavoratore a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite, utilizzando una formula che riprende quasi letteralmente quella contenuta nelle Costituzioni italiana e portoghese.
Venendo alla questione della monetizzazione delle ferie occorre rilevare che ha avuto modo di pronunciarsi recentemente il Consiglio di Stato affermando che “il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute dal pubblico dipendente, anche in mancanza di una norma espressa che preveda la relativa indennità, discende direttamente dallo stesso mancato godimento delle ferie, in armonia con l'art. 36 Cost., quando sia certo che tale vicenda non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a lui comunque imputabile, e dunque anche in caso di cessazione dal servizio per infermità; ciò in quanto il carattere indisponibile del diritto alle ferie non esclude l'obbligo della stessa Amministrazione di corrispondere il predetto compenso per le prestazioni effettivamente rese, non essendo logico far discendere da una violazione imputabile all'Amministrazione il venir meno del diritto all'equivalente pecuniario della prestazione effettuata; analoga conclusione deve trarsi ove le ferie non siano state fruite per cessazione dal servizio per infermità” (Consiglio di Stato sez. IV, 13.03.2018, n. 1580).
In definitiva, il mancato godimento delle ferie, non imputabile all'interessato, non preclude di suo l'insorgenza del diritto alla percezione del compenso sostitutivo. Si tratta, infatti, di un diritto che per sua natura prescinde dal sinallagma prestazione lavorativa-retribuzione che governa il rapporto di lavoro subordinato e non riceve, quindi, compressione in presenza di altra causa esonerativa dall'effettività del servizio.
Da tale carattere di indisponibilità e irrinunciabilità discende il diritto al compenso sostitutivo, ogni qual volta la fruibilità del congedo stesso sia oggettivamente esclusa per causa indipendente dalla volontà del lavoratore o per fatto specifico della P.A. datrice di lavoro (in materia, Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 25.06.2015, Tar Sardegna 13.02.2013 n. 116; Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 03.05.2011 n. 598; Consiglio di Stato, sez. IV, 24.02.2009 n. 1084).
La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di pronunciarsi anche sulla portata del divieto di monetizzazione delle ferie di cui all'art. 5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, l. 07.08.2012 n. 135.
Esso va interpretato nel senso che tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole (Tar Emilia Romagna, Parma sez. I, 17.01.2017, n. 14).
E, per il pubblico impiego contrattualizzato, la giurisprudenza del giudice del lavoro è costante nell’affermare che in tema di pubblico impiego e monetizzazione delle ferie non fruite, sussiste il diritto del ricorrente al pagamento delle ferie e dei riposi non goduti quando lo stesso abbia provato di essere lavoratore in malattia. Difatti, l'art. 5, comma 8, d.l. 95/2012 deve essere interpretato nel senso che il divieto di monetizzazione delle ferie residue non si applica nel caso in cui il dipendente non sia stato nella possibilità di fruire delle stesse a causa di malattia (ex multis, Tribunale Torino sezione lavoro, 22.12.2016, n. 1861).
In conclusione, il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento dell'atto impugnato, nella parte in cui è stato negato il compenso sostitutivo per i giorni di congedo ordinario non fruito negli anni 2013 e precedenti e 2014, e conseguente condanna dell'Amministrazione al pagamento del compenso sostitutivo (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 08.03.2019 n. 211 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mancato godimento delle ferie imputabile alla volontà del lavoratore.
Vige il divieto di monetizzazione delle ferie nel Pubblico Impiego nei soli casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, licenziamento disciplinare, mancato superamento del periodo di prova) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età) che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie residue e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie (TRIBUNALE di Foggia, Sez. lav., sentenza 12.02.2019 n. 5193 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Controversie di lavoro e divieto di monetizzazione delle ferie.
In tema di controversie di lavoro, il divieto di monetizzazione delle ferie maturate e non godute non trova applicazione con riferimento alle ferie non godute relative al periodo ancora pendente al momento della risoluzione del rapporto (CORTE di Appello di Roma. Sez. lav., sentenza 20.09.2018, n. 3231 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ambito di operatività del divieto di monetizzazione delle ferie non godute.
L’art. 5, comma 8, d.l. n. 95 del 2012, convertito con modificazioni nella l. n. 135 del 2012, introduce il divieto di monetizzazione delle ferie non godute in tutti i casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento di limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo.
---------------
Rilevato che:
   - il ricorso è infondato, anche a prescindere dalle eccezioni di irricevibilità e, in particolare, di inammissibilità, esposte dalla difesa erariale in relazione alla mancata impugnazione dei provvedimenti di rigetto di cui alle note del 04.04.2012 e del 12.04.2013 (all. 6 ed 8 – ricorrente), in ragione della affermata violazione dell’art. 34, comma 2, c.p.a., in quanto non sarebbe possibile proporre la sola azione di accertamento allorché essa presupponga la rimozione del formale diniego opposto -OMISSIS-;
   - ai sensi dell’art. 5, comma 8, D.L. n. 95 del 2012, conv. con mod. nella L. n. 135 del 2012, “le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età”;
   - in linea con l’indirizzo già espresso da questo Tribunale (cfr. n. 228 del 2018), la disposizione introduce il divieto di monetizzazione delle ferie non godute in tutti i casi “in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo” (così TAR Emilia Romagna, Parma, n. 14 del 2017; cfr. inoltre C. Cost., sentenza n. 214 del 2016);
   - nel caso di specie, il collocamento in posizione di esonero è avvenuto sulla base della volontaria richiesta del ricorrente, inoltrata in data 17.01.2011, quando lo stesso, come deve desumersi dal foglio matricolare, risultava ancora in servizio attivo, condizione quest’ultima venuta a cessare soltanto a decorrere dal 25.03.2011, a seguito del collocamento in aspettativa -OMISSIS- non dipendente da causa di servizio;
   - la mancata fruizione delle ferie deve essere ricondotta alla scelta -OMISSIS- di essere collocato in posizione di esonero e alla implicita accettazione degli effetti, senz’altro prevedibili e, a ben vedere, evitabili, che tale scelta avrebbe potuto determinare sulla futura gestione del rapporto lavorativo;
   - trova quindi piena applicazione il divieto di erogazione di trattamenti economici intesi a sostituire le ferie (non altrimenti godute), ai sensi del citato art. 5, comma 8, D.L. n. 95 del 2012, atteso che la domanda di collocamento in posizione di esonero risulta riconducibile alla formale richiesta del ricorrente, peraltro formulata in epoca precedente al periodo di aspettativa per infermità;
   - la domanda deve essere pertanto rigettata, con piena conferma dell’operato dell’Amministrazione (TAR Friuli-Venezia Giulia, sentenza 11.07.2018 n. 247 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Divieto di monetizzazione delle ferie: interpretazione.
Il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95, conv., con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, l. 07.08.2012 n. 135, va interpretato nel senso che tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole.
(Nella fattispecie, ad avviso del Collegio, le ferie residue del 2013 di cui il ricorrente chiedeva la monetizzazione non rientravano nell’ipotesi di deroga di cui alla Circolare richiamata dal ricorrente, in quanto esse si riferivano ai soli casi in cui la fruizione fosse stata impedita dalla anomala e non prevedibile conclusione del rapporto e tale circostanza non ricorreva nel caso di specie, nel quale il ricorrente era stato collocato prima in aspettativa ex art. 12, comma 3, d.P.R. n. 170 del 2007, poi riammesso in servizio ed, infine collocato in quiescenza, senza che risultasse una denegata richiesta di ferie nel 2013 o nel 2014)
.
---------------
Il ricorso è infondato.
Il ricorrente impugna il diniego di monetizzazione delle ferie residue del 2013 e del 2014, motivato sulla scorta del divieto di cui all’art. 5, comma 8, del decreto legge 95/2012 per le ferie residue 2013 e dalla previsione di cui all’art. 12, comma 3, del d.p.r. 170/2007 in forza della quale durante il periodo di aspettativa ivi prevista non si maturano ferie.
Per quanto riguarda le ferie del 2013 il ricorrente sostiene che esse non sono state fruite per inderogabili esigenze di servizio.
La circostanza, tuttavia, non è provata, soprattutto tenuto conto della richiesta di congedo 2013 autorizzata nel 2014 per tutti e 15 i giorni richiesti. Non vi è pertanto prova che il ricorrente non abbia fruito del residuo ferie 2013 nel 2014 per motivi a lui non imputabili.
Dalla documentazione fornita, infatti, non si evince una richiesta di fruizione di ferie residue del 2013 rigettata per improcrastinabili esigenze di servizio.
Di contro l’Amministrazione ha prodotto la richiesta di fruizione di 15 giorni di congedo straordinario 2013, autorizzato dal 15 al 31.01.2014, la fruizione di 5 giorni di recupero e di 4 giorni ex legge 937/1977 nel 2013, oltre ai 15 giorni di congedo straordinario per cure termali a decorrere dal 17/10/2013.
A ciò si aggiunga il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95 convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 07.08.2012 n. 135, in relazione al quale la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 95 del 06.05.2016, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 36, commi 1 e 3, e 117, comma 1, Cost., ed all’art. 7 della direttiva C.E. 04.11.2003 n. 88.
Il giudice delle leggi ha ritenuto che tale disciplina non pregiudichi il diritto alle ferie, ove prevede che non si possano corrispondere «in nessun caso» trattamenti economici sostitutivi, statuendo che “il legislatore correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo”.
Afferma la Corte che “la norma si prefigge di reprimere il ricorso incontrollato alla “monetizzazione” delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e di riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole. Del resto, la prassi amministrativa e la magistratura contabile convergono nell'escludere dall'ambito applicativo del divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro; e la giurisprudenza di legittimità, ordinaria e amministrativa, riconosce al lavoratore il diritto ad un'indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche quando difetti un'esplicita previsione negoziale in tal senso, ovvero quando la normativa settoriale formuli il divieto di “monetizzazione”. Così correttamente interpretata, la disciplina de qua non pregiudica l'inderogabile diritto alle ferie, garantito da radicati principi espressi dalla Carta fondamentale nonché da fonti internazionali ed europee”.
Né le ferie residue del 2013 rientrano nell’ipotesi di deroga di cui alla Circolare richiamata dal ricorrente, in quanto esse si riferiscono ai soli casi in cui la fruizione sia impedita dalla anomala e non prevedibile conclusione del rapporto.
Tale circostanza non ricorre nel caso di specie, nel quale il ricorrente è stato collocato prima in aspettativa ex art. 12, comma 3, del d.p.r. 170/2007, poi riammesso in servizio ed, infine collocato in quiescenza, senza che risulti una denegata richiesta di ferie nel 2013 o nel 2014 (nei mesi esclusi dal collocamento in aspettativa, in attesa di pronuncia sulla richiesta di dipendenza da causa di servizio della propria infermità - gennaio e febbraio 2014).
Diverso è infatti il caso di impossibilità di fruizione per causa non imputabile al lavoratore, per il quale l'art. 7 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 04.11.2003 n. 88, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, deve essere interpretato nel senso che osta a legislazioni o prassi nazionali le quali prevedono che, in caso di decesso del lavoratore, il diritto alle ferie annuali retribuite si estingue senza dare diritto ad un'indennità finanziaria a titolo delle ferie non godute (la quale quindi si trasmette per via successoria) (così Corte C.E. 118 - 12.06.2014).
Per quanto riguarda la maturazione delle ferie durante il collocamento in aspettativa in attesa di pronuncia sulla istanza di riconoscimento della infermità denunciata da causa di servizio, l’art. 12, comma 3, del dpr 170/2007, disciplina questa particolare aspettativa prevedendo che:
Il personale giudicato permanentemente non idoneo al servizio in modo parziale permane ovvero è collocato in aspettativa fino alla pronuncia sul riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della lesione o infermità che ha causato la predetta non idoneità anche oltre i limiti massimi previsti dalla normativa in vigore. Fatte salve le disposizioni che prevedono un trattamento più favorevole, durante l'aspettativa per infermità, sino alla pronuncia sul riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della lesione subita o della infermità contratta, competono gli emolumenti di carattere fisso e continuativo in misura intera. Nel caso in cui non venga riconosciuta la dipendenza da causa di servizio e non vengano attivate le procedure di transito in altri ruoli della stessa amministrazione o in altre amministrazioni, previste dal decreto del Presidente della Repubblica 24.04.1982, n. 339 e dal decreto legislativo 30.10.1992, n. 443, sono ripetibili la metà delle somme corrisposte dal tredicesimo al diciottesimo mese continuativo di aspettativa e tutte le somme corrisposte oltre il diciottesimo mese continuativo di aspettativa. Non si dà luogo alla ripetizione qualora la pronuncia sul riconoscimento della causa di servizio intervenga oltre il ventiquattresimo mese dalla data del collocamento in aspettativa. Tale periodo di aspettativa non si cumula con gli altri periodi di aspettativa fruiti ad altro titolo ai fini del raggiungimento del predetto limite massimo”.
L’aspettativa in discorso, per quanto contenuto nella disposizione sopra riportata, ha un particolare regime che non è assimilabile a quella per infermità, come ritiene la difesa del ricorrente, e ciò è confermato, tra l’altro, anche dalla non cumulatività di detta aspettativa con altri periodi di aspettativa fruiti ad altro titolo, oltre che dal regime di ripetibilità delle somme corrisposte.
Essa, inoltre, non rientra nelle tassative ipotesi contemplate dall’art. 18, comma 1 e dall’art. 14, comma 14, del d.p.r. 254/99 per le quali, in base al rinvio contenuto nell’art. 11, comma 4, del d.P.R. n. 170/2007, si può procedere “al pagamento sostitutivo del congedo ordinario”.
Per quanto detto non attiene alla vicenda in discorso la pronuncia della Corte di Giustizia UE del 20.07.2016 C-341/15, prodotta in udienza dalla difesa di parte ricorrente, ove si riferisce ad impossibilità di fruire delle ferie per malattia.
Il ricorrente, peraltro, a differenza del collega menzionato nella nota del 18/11/2014, non è stato dispensato dal servizio per inabilità fisica, bensì riammesso in servizio per essere utilizzato in servizi interni con le prescrizioni previste dalla C.M.O. in quanto riconosciuto solo parzialmente non idoneo al servizio.
Per quanto sopra osservato il ricorso va respinto, poiché infondato (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 17.01.2017 n. 14 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Monetizzazione delle ferie nel pubblico impiego: divieto.
In tema di pubblico impiego e monetizzazione delle ferie non fruite, sussiste il diritto del ricorrente al pagamento delle ferie e dei riposi non goduti quando lo stesso abbia provato di essere lavoratore in malattia.
Difatti, l’art. 5, comma 8, d.l. 95/2012 deve essere interpretato nel senso che il divieto di monetizzazione delle ferie residue non si applica nel caso in cui il dipendente non sia stato nella possibilità di fruire delle stesse a causa di malattia
(TRIBUNALE di Torino, Sez. lav., sentenza 22.12.2016 n. 1861 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

 

Sulla responsabilità da mancata o cattiva manutenzione delle strade comunali...

PATRIMONIO: Danni causati all’auto da una buca.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo e suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso.
(Nella specie, la Corte ha ritenuto non operante la presunzione di responsabilità a carico dell’ente ex art. 2051 c.c., in un caso di sinistro stradale causato da una buca presente su una strada di solito usata da mezzi agricoli, atteso che le condizioni della strada avrebbero richiesto una maggiore prudenza alla guida)
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 03.02.2021 n. 2525 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
---------------
ORDINANZA
I due motivi all'esame non censurano adeguatamente la motivazione della sentenza d'appello impugnata, che è, peraltro, coerente con l'orientamento in materia di questa Corte (oramai risalente e del quale non constano significative evoluzioni, sì veda Cass. n. 23919 del 22/10/2013 Rv. 629108 - 01): «L'ente proprietario d'una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell'art. 2031 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l'utente danneggiato di percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza la situazione di pericolo. Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l'adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all'ente e l'evento dannoso. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che non operasse la presunzione di responsabilità a carico dell'ente ex art. 2031 cod. civ., in un caso di sinistro stradale causato da una buca presente sul manto stradale, atteso che il conducente danneggiato era a conoscenza dell'esistenza delle buche, per cui avrebbe dovuto tenere un comportamento idoneo ad evitarle).».

PATRIMONIO: Responsabilità da cattiva manutenzione delle pubbliche strade.
La responsabilità da cose in custodia presuppone che il soggetto al quale sia imputata sia in grado di esplicare riguardo alla cosa stessa un potere di sorveglianza, di modifica dello stato dei luoghi ed esclusione che altri vi apportino modifiche.
Quindi, per le strade aperte al traffico è configurabile la responsabilità dell’ente pubblico, a meno che questi non dimostri di non aver potuto fare nulla per evitare il danno e l’ente proprietario non può fare nulla solo quando la situazione che provoca il danno si determina non come conseguenza di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza della strada, ma in maniera improvvisa, atteso che solo quest’ultima, al pari dell’eventuale colpa esclusiva del danneggiato in ordine al verificarsi del fatto, integra il fortuito, quale scriminante della responsabilità del custode.
In sintesi, agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito è sempre applicabile l’art. 2051 c.c. in riferimento alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, indipendentemente dalla sua estensione e la responsabilità può essere esclusa dal fortuito, individuabile questo in relazione a quelle situazioni di pericolo provocate dagli stessi utenti, ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa che, nel caso di specie, non è dato individuare
(TRIBUNALE di Benevento, sentenza 07.01.2021 n. 10 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: La percepibilità del pericolo occulto.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso.
Ne deriva che la possibilità per il danneggiato di percepire agevolmente l’esistenza di una situazione di pericolo incide sulla concreta configurabilità del nesso eziologico fra la cosa ed il danno e pone in risalto il comportamento colposo del danneggiato
(TRIBUNALE di L’Aquila, sentenza 29.10.2020 n. 481 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Condotta incauta del danneggiato e prova liberatoria per il custode.
La concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza un’anomalia stradale, vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità ex art. 2051 c.c. della p.a. per difetto di manutenzione della strada pubblica (nel caso specifico la Corte ha confermato la sentenza di primo grado che, in un caso di caduta di pedone dovuta a buca, aveva escluso l’imprevedibilità e l’invisibilità dell’alterazione del fondo stradale, sia soggettiva che oggettiva, sia in ragione delle dimensioni della buca –cm. 20 di profondità e cm. 30 di diametro-, sia della sua localizzazione, in quanto la buca pur essendo prossima al marciapiede si trovava ad una distanza tale da essere ben visibile, nonostante il dislivello della banchina, sia delle condizioni meteorologiche – primo pomeriggio di una giornata di agosto con buone condizioni di visibilità, non piovosa) (Corte di Appello Roma, Sez. I, sentenza 24.08.2020 n. 4003 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Danni per difetto di manutenzione del demanio stradale.
Le violazioni del codice della strada ad opera del danneggiato non sono tali da interrompere il nesso eziologico fra il difetto di manutenzione del demanio stradale da parte dell’ente locale e l’evento stesso, ma assumono rilevanza ai fini del riconoscimento di un concorso di colpa del danneggiato idoneo a diminuire, in proporzione dell’incidenza causale, la responsabilità del danneggiante.
(Nella specie: il danneggiato è caduto dalla bicicletta a causa di una buca situata sul manto stradale ed ha inciso il fatto che il sinistro è avvenuto in pieno giorno, su un tratto di strada rettilineo e con asfalto asciutto in quanto si tratta di circostanze che inducono a ritenere che, usando la dovuta diligenza il danneggiato si sarebbe verosimilmente accorto della presenza della buca sulla strada e avrebbe potuto limitare la velocità alla quale procedeva sulla sua bicicletta, riducendo così l’entità delle lesioni riportate a seguito della caduta, per tali motivi la responsabilità del danneggiato ha inciso nella misura del 30%)
(TRIBUNALE di Firenze, Sez. II, sentenza 04.07.2020 n. 1570 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Responsabilità della PA: quando è esclusa?
In tema di danno da insidia stradale, la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità della Pubblica Amministrazione per difetto di manutenzione della strada pubblica, dato che quanto più la situazione di pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, sino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso (TRIBUNALE di Brindisi, sentenza 19.05.2020 n. 629 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Sinistri su strada aperta al pubblico transito.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso
(TRIBUNALE di Cosenza, Sez. I, sentenza 20.01.2020 n. 127 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: L’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito.
In tema di responsabilità civile, l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito risponde, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo e, nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso (TRIBUNALE di Nocera Inferiore, Sez. II, sentenza 02.10.2019 n. 1116 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia.
La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia non si applica agli enti pubblici per danni subiti dagli utenti di beni demaniali ogni volta che sul bene demaniale, per le sue caratteristiche, non sia possibile esercitare la custodia, intesa quale potere di fatto sul bene stesso. L’estensione del bene demaniale e l’utilizzazione generale e diretta dello stesso da parte di terzi sono solo figure sintomatiche dell’impossibilità della custodia da parte della Pubblica Amministrazione, mentre elemento sintomatico della possibilità di custodia del demanio stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è stato causato un danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso Comune, pur dovendo dette circostanze, proprio perché solo sintomatiche, essere sottoposte al vaglio in concreto da parte del giudice di merito (TRIBUNALE di Torre Annunziata, sentenza 02.07.2019 n. 1701  - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Responsabilità dell’ente pubblico.
L’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito risponde, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Infatti, nella materia de qua sussiste una presunzione di responsabilità dell’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito, ai sensi dell’art. 2051 c.c., relativamente ai sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, indipendentemente dalla sua estensione, essendo tale responsabilità esclusa solo dal caso fortuito, che può consistere sia in una alterazione dello stato dei luoghi imprevista, imprevedibile e non tempestivamente eliminabile o segnalabile ai conducenti nemmeno con l’uso dell’ordinaria diligenza, sia nella condotta della stessa vittima, ricollegabile all’omissione delle normali cautele esigibili in situazioni analoghe
(TRIBUNALE di Nocera Inferiore, Sez. II, sentenza 04.04.2019 n. 462 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Danni da insidia stradale.
In tema di responsabilità da insidia stradale, la collocazione del bene demaniale all’interno del perimetro urbano delimitato dallo stesso comune è elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene, dal cui difetto di manutenzione è derivato il danno, sicché non può revocarsi in dubbio che l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura ed alla conformazione della strada e delle sue pertinenze, indipendentemente dalla loro riconducibilità a scelte discrezionali della P.A. (Corte di Appello Bari, Sez. III, sentenza 14.03.2019 n. 653 - massima da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Risarcibilità danno ingiusto.
Premesso che la norma primaria sulla responsabilità aquiliana definisce l’area della risarcibilità con una clausola generale espressa dalla formula “danno ingiusto”, in forza della quale è risarcibile il danno che ha le caratteristiche dell’ingiustizia, cioè il danno arrecato non iure, che è ravvisabile nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione, quindi derivante da un comportamento non giustificato da altra norma, che si risolva nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, consegue che il mancato guadagno dell’imprenditore per le difficoltà (o l’impossibilità) di accesso della clientela al proprio esercizio commerciale in conseguenza del protrarsi dei lavori di manutenzione di una strada pubblica, la cui causa venga indicata dal privato nella inadeguata valutazione da parte dell’ente proprietario della complessità delle opere, per l’omesso espletamento delle opportune indagini e verifiche tecniche, non può collegarsi eziologicamente ad un’attività illecita della pubblica amministrazione, non essendo ipotizzabile in via generale una regola che imponga a questa di fissare preventivamente i tempi di esecuzione dei lavori su beni pubblici ad essa appartenenti, la programmazione e la progettazione dei quali rientra nella insindacabile discrezionalità dell’amministrazione stessa (TRIBUNALE di Lecce, Sez. I, sentenza 04.03.2019 n. 782 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Insidia stradale: la prevedibilità del pericolo occulto.
La concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità della P.A. per difetto di manutenzione della strada pubblica (Corte di Appello Firenze, Sez. II, sentenza 03.10.2018 n. 2308 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Sinistri stradali in centri urbani.
L’appartenenza del bene al demanio o al patrimonio della pubblica amministrazione e il suo uso diretto da parte di un numero rilevantissimo di utenti sono solo indici sintomatici dell’impossibilità di evitare l’insorgenza di situazioni di pericolo in un bene, ma non la attestano in modo automatico, sicché l’art. 2051 c.c., trova applicazione ogni qualvolta nel caso concreto non sia ravvisabile soggettiva impossibilità di un esercizio del potere di controllo dell’ente sul bene in custodia, determinata appunto dal suo uso generale da parte dei terzi e della sua notevole estensione.
In quest’ottica, relativamente ai sinistri avvenuti sulle strade dei centri urbani, l’elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene del demanio stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è causato il danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso Comune
(TRIBUNALE di Torre Annunziata, sentenza 17.05.2018 n. 1202 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Responsabilità della PA per difetto di manutenzione della strada pubblica.
In tema di responsabilità da cose in custodia con riferimento alle strade, il grado di diligenza che è preteso dall’utente della strada è direttamente proporzionale all’evidenza ed all’entità delle sconnessioni o dei dissesti percepibili.
In tema di danno da insidia stradale, la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo occulto vale ad escludere la configurabilità dell’insidia e della conseguente responsabilità della Pubblica Amministrazione per difetto di manutenzione della strada pubblica, dato che quanto più la situazione di pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, sino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso
(TRIBUNALE di Lecce, sentenza 19.02.2018 n. 597 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: La conoscenza da parte dell’utente dello stato di pericolo.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 c.c., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso (nella specie, relativa ad un sinistro provocato da una buca, l’utente era a conoscenza della presenza del pericolo e avrebbe potuto evitarlo)
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 26.09.2017 n. 22419 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).
--------------
ORDINANZA
Il ricorso -con il quale si censura, in sostanza, la violazione dell'art. 2051 cod. civ. e l'omesso esame di un fatto decisivo- è inammissibile.
La decisione è conforme all' orientamento di questa corte secondo cui l'ente proprietario d'una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell'art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l'utente danneggiato di percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l'adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all'ente e l'evento dannoso (Sez. 3, Sentenza n. 23919 del 22/10/2013, Rv. 629108; nella specie, la Corte ha ritenuto non operante la presunzione di responsabilità a carico dell'ente ex art. 2051 cod. civ., in un caso di sinistro stradale causato da una buca presente sul manto stradale, atteso che il conducente danneggiato era a conoscenza dell'esistenza delle buche, per cui avrebbe dovuto tenere un comportamento idoneo ad evitarle).
Nella specie i giudici di merito hanno accertato che la Re. conosceva l'esistenza della buca e, in generale, lo stato di cattiva manutenzione della strada in cui si è verificato il sinistro. Pertanto, l'ordinaria diligenza avrebbe dovuto sconsigliare alla ricorrente di uscire di notte, in condizioni di scarsa visibilità, per far passeggiare il cane proprio in quel punto. Tale condotta è idonea a interrompere il nesso eziologico fra la condotta attribuibile al Comune di Scandicci e il danno patito dalla Renna. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell'art. 385, comma primo, cod. proc. civ., nella misura indicata nel dispositivo.

PATRIMONIO: La possibilità di prevedere la situazione di pericolo.
L’ente proprietario d’una strada aperta al pubblico transito risponde ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., per difetto di manutenzione, dei sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo che si accerti la concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.
Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’ente e l’evento dannoso
(TRIBUNALE di Parma, Sez. I, sentenza 04.09.2017 n. 1217 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

PATRIMONIO: Responsabilità della PA per circolazione di pedoni e veicoli.
La P.A. è tenuta a garantire la circolazione dei veicoli e dei pedoni in condizioni di sicurezza: a tale obbligo l’ente proprietario della strada viene meno non solo quando non provvede alla manutenzione di quest’ultima, ma anche quando il danno sia derivato dal difetto di manutenzione di aree private destinate al pubblico transito atteso che è comunque obbligo dell’ente verificare che lo stato dei luoghi consenta la circolazione dei veicoli e dei pedoni in totale sicurezza.
(Nel caso in esame veniva riconosciuta la sussistenza della responsabilità per colpa presunta del Comune che non aveva predisposto le dovute attività di manutenzione in un tratto stradale privato adibito alla circolazione pubblica in cui era rovinosamente caduto un soggetto)
.
---------------
E' in colpa la pubblica amministrazione la quale:
   - né provveda alla manutenzione o messa in sicurezza delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le vie pubbliche, quando da esse possa derivare pericolo per gli utenti della strada,
   - né provveda ad inibirne l'uso generalizzato.
Ne consegue che, nel caso di danni causati da difettosa manutenzione d'una strada, la natura privata di questa non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell'amministrazione comunale, se per la destinazione dell'area o perle sue condizioni oggettive, l'amministrazione era tenuta alla sua manutenzione
.
.
---------------
6. Col terzo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che, anche ad ammettere che il luogo del sinistro fosse di proprietà privata, esso era nondimeno di uso pubblico, sicché l'amministrane comunale aveva comunque l'obbligo di provvedere Lilla sua manutenzione. Pertanto, non tenendo conto della colpa scaturente dalla violazione di quest'obbligo, la sentenza impugnata avrebbe violato gli artt. 2 d.lgs. 285/1992 e 22, comma 3, l. 2248/1865.
Il motivo è fondato.
Questa Corte ha già più volte stabilito che l'amministrazione comunale è tenuta a garantire la circolazione dei veicoli e dei pedoni in condizioni di sicurezza: ed a tale obbligo l'ente proprietario della strada viene meno non solo quando non provvede alla manutenzione di quest'ultima, ma anche quando il danno sia derivato dal difetto di di manutenzione di aree limitrofi alla strada, atteso che è comunque obbligo dell'ente verificare che lo stato dei luoghi consenta la circolazione dei veicoli e dei pedoni in totale sicurezza (Sez. 3, Sentenza n. 23362 del 11/11/2011, Rv. 620314).
Infatti il Comune il quale consenta alla collettività l'utilizzazione, per pubblico transito, di un'area di proprietà privata, si assume l'obbligo di accertarsi che la manutenzione dell'area e dei relativi manufatti non sia trascurata.
Ne consegue che l'inosservanza di tale dovere di sorveglianza, che costituisce un obbligo primario della P.A., per il principio del  neminem laedere, integra gli estremi della colpa e determina la responsabilità per il danno cagionato all'utente dell'area, non rilevando che l'obbligo della manutenzione incomba sul proprietario dell'area medesima (Sez. 3, sentenza n. 7 del 04/01/2010, Rv. 610958).
...
4.3. La memoria depositata dal Comune di San Giovanni Rotondo deduce altresì, quanto al merito dell'impugnazione, che:
   - il giudice di merito non ha mai accertato se la strada ove avvenne il fatto fosse di uso pubblico o meno;
   - il relativo accertamento costituisce oggetto di un apprezzamento di fatto;
   - conseguentemente, esso non è censurabile in sede di legittimità.
Tali deduzioni sono in tesi corrette, ma non pertinenti rispetto al presente giudizio: esse, pertanto, non consentono di rigettare il ricorso.
1,a Corte d'appello di Bari, infatti, ha rigettato la domanda sul presupposto che la vittima patì lesioni cadendo su una strada di proprietà privata.
I ricorrenti hanno impugnato tale statuizione, deducendo che il Comune ha il dovere di vigilare e manutenere anche le are private aperte al pubblico transito di veicoli e pedoni.
Tale deduzione è sostanzialmente corretta, per le ragioni già indicate dalla relazione preliminare, e sopra trascritte.
Ne consegue che oggetto del terzo motivo di ricorso non è una quaestio facti (la proprietà privata o pubblica di un'area), ma una quaestio juris (stabilire se l'obbligo di custodia gravante sull'amministrazione locale si estenda alle aree aperte al pubblico transito ma di proprietà privata).
4.4. Il ricorso deve quindi essere accolto limitatamente al terzo motivo.
Il giudice di rinvio, nel riesaminare la domanda, si atterrà al seguente principio di diritto: 'E' in colpa la pubblica amministrazione la quale né provveda alla manutenzione o messa in sicurezza delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le vie pubbliche, quando da esse possa derivare pericolo per gli utenti della strada, né provveda ad inibirne l'uso generalizzato. Ne consegue che, nel caso di danni causati da difettosa manutenzione d'una strada, la natura privata di questa non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell'amministrazione comunale, se per la destinazione dell'area o perle sue condizioni oggettive, l'amministrazione era tenuta alla sua manutenzione" (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, sentenza 07.02.2017 n. 3216).

 

In materia di "gazebo"...

EDILIZIA PRIVATAIn materia di realizzazione di gazebo la giurisprudenza ormai prevalente ritiene che:
   - per ‘gazebo’ si intende, nella sua configurazione tipica, una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimuovibili. Spesso il gazebo è utilizzato per l'allestimento di eventi all’aperto, anche sul suolo pubblico, e in questi casi è considerata una struttura temporanea. In altri casi il gazebo è realizzato in modo permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti come giardini o ampi terrazzi;
   - indubbiamente, in relazione ad alcune opere edilizie, normalmente di limitata consistenza e di esiguo impatto sul territorio, come pergolati, gazebo, tettoie, pensiline e pergotende, non è sempre agevole individuare il limite entro il quale esse possono farsi rientrare nel regime dell'edilizia libera o, invece, devono farsi ricadere nei casi di edilizia non libera per i quali è richiesta una comunicazione all'amministrazione preposta alla tutela del territorio o, addirittura, il rilascio di un permesso di costruire;
   - infatti, ad esempio, i gazebo che poggiano su piattaforme di calcestruzzo non sono strutture precarie, ma sono funzionali a soddisfare esigenze permanenti e vanno pertanto considerati come manufatti che alterano lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico;
   - nello specifico, la natura di opera precaria non si evince dalla tipologia dei materiali utilizzati per la sua edificazione e, più in generale, dalle caratteristiche costruttive e di ancoraggio al suolo della stessa, quanto piuttosto da un elemento di tipo funzionale, dovendosi verificare se la stessa sia o meno destinata al soddisfacimento di esigenze durevoli, stabili e permanenti nel tempo;
   - in sostanza, occorre avere riguardo all’uso cui il manufatto è destinato, nel senso che, se le opere sono dirette al soddisfacimento di esigenze stabili e permanenti, deve escludersi la natura precaria, a prescindere dai materiali utilizzati e dalla tecnica costruttiva applicata;
   - anche ritenendo, dunque, il carattere smontabile o facilmente amovibile della struttura in ogni caso ai fini della qualificazione della natura dell'opera come precaria deve farsi riferimento alla sua destinazione e quindi, per mantenere il carattere di precarietà deve costituire un’opera che non sia funzionale al soddisfacimento di esigenze stabili e durature nel tempo;
   - non conduce a conclusioni diverse la considerazione che la struttura abbia carattere stagionale, in quanto "l'opera stagionale, diversamente da quella precaria, non è destinata a soddisfare esigenze contingenti ma ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi dell'anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di costruire. Invero, il carattere stagionale dell'uso non implica la provvisorietà dell'attività, né di per sé la precarietà del manufatto ove la stessa si svolga, atteso che il rinnovarsi dell'attività con frequenza stagionale è indicativo della stabilità dell'attività e dell'opera a ciò destinata. Invero, la stagionalità dell'uso non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo, pur quando lo stesso venga rimosso in determinati mesi dell'anno e successivamente, con cadenza periodica predeterminata, nuovamente installato’”.
I medesimi principi sono stati recentemente ribaditi dalla giurisprudenza della Sezione, laddove si è “precisato che ‘è fermo in giurisprudenza l’avviso per cui il gazebo è una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimovibili, che può essere realizzato perlopiù come struttura temporanea’, con la conseguenza che quel che distingue la natura precaria d’un gazebo, che lo esonera dall'obbligo del possesso del p.d.c. non è solo la peculiare leggerezza della struttura di esso, ma l’esser funzionale ad esigenze ed a correlati usi specifici e temporalmente limitati, quindi giammai permanenti nel tempo”.
Va da sé che quanto rilevato dalla giurisprudenza in ordine ai gazebo si applichi –potrebbe dirsi a maggior ragione– con riferimento ai dehor, che rispetto ai primi presentano di norma caratteristiche strutturali più stabili e complesse.
Non è possibile, dunque, stabilire a priori ed univocamente se ai fini della realizzazione di un dehor sia o meno necessario ottenere preventivamente uno specifico permesso di costruire, dovendosi caso per caso operare una specifica valutazione non soltanto sulla base della tipologia della struttura, dei materiali in concreto utilizzati e del tipo di ancoraggio al suolo, ma anche (e soprattutto) in ordine alla idoneità o meno del manufatto al soddisfacimento di esigenze stabili e durature nel tempo, e questo al di là del suo carattere stagionale o meno.
---------------

Quanto poi alla necessità o meno del preventivo permesso di costruire per la realizzazione di un dehor (o gazebo) si osserva che, “in punto di diritto (…):
   - l’art. 10 d.P.R. 380/2001 (nel testo in vigore all’epoca dei fatti) stabilisce che: ‘1. Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni. (…)’;
   - l’art. 22, comma 1, del Testo unico edilizia dispone inoltre che: ‘Sono realizzabili mediante la segnalazione certificata di inizio di attività di cui all'articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241, nonché in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente: a) gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), qualora riguardino le parti strutturali dell'edificio; b) gli interventi di restauro e di risanamento conservativo di cui all'articolo 3, comma 1, lettera c), qualora riguardino le parti strutturali dell'edificio; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), diversi da quelli indicati nell'articolo 10, comma 1, lettera c. (…)’;
   - l’art. 31 d.P.R. 380/2001, commi 1 e 2 (per quel che rileva nel presente giudizio), dispone quindi che: ‘1. Sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile. 2. Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3. (…)’;
   - l’art. 3, punto e5), d.P.R. 380/2001 include tra le opere di ‘nuova costruzione’ ‘l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore
’.
In materia di realizzazione di gazebo la giurisprudenza ormai prevalente ritiene che:
   - per ‘gazebo’ si intende, nella sua configurazione tipica, una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimuovibili. Spesso il gazebo è utilizzato per l'allestimento di eventi all’aperto, anche sul suolo pubblico, e in questi casi è considerata una struttura temporanea. In altri casi il gazebo è realizzato in modo permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti come giardini o ampi terrazzi (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 25.01.2017 n. 306);
   - indubbiamente, in relazione ad alcune opere edilizie, normalmente di limitata consistenza e di esiguo impatto sul territorio, come pergolati, gazebo, tettoie, pensiline e pergotende, non è sempre agevole individuare il limite entro il quale esse possono farsi rientrare nel regime dell'edilizia libera o, invece, devono farsi ricadere nei casi di edilizia non libera per i quali è richiesta una comunicazione all'amministrazione preposta alla tutela del territorio o, addirittura, il rilascio di un permesso di costruire (in tal senso Cons. Stato, Sez. VI, 24.12.2018 n. 7221);
   - infatti, ad esempio, i gazebo che poggiano su piattaforme di calcestruzzo non sono strutture precarie, ma sono funzionali a soddisfare esigenze permanenti e vanno pertanto considerati come manufatti che alterano lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico (cfr. sul punto, tra le molte, Cons. Stato, Sez. VI, 12.12.2012 n. 6382 e Sez. V, 01.12.2003 n. 7822);
   - nello specifico, la natura di opera precaria non si evince dalla tipologia dei materiali utilizzati per la sua edificazione e, più in generale, dalle caratteristiche costruttive e di ancoraggio al suolo della stessa, quanto piuttosto da un elemento di tipo funzionale, dovendosi verificare se la stessa sia o meno destinata al soddisfacimento di esigenze durevoli, stabili e permanenti nel tempo (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 30.10.2020 n. 6653);
   - in sostanza, occorre avere riguardo all’uso cui il manufatto è destinato, nel senso che, se le opere sono dirette al soddisfacimento di esigenze stabili e permanenti, deve escludersi la natura precaria, a prescindere dai materiali utilizzati e dalla tecnica costruttiva applicata (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 24.07.2020 n. 4726 e 19.03.2020 n. 1951 nonché Sez. VI, 11.01.2018 n. 150);
   - anche ritenendo, dunque, il carattere smontabile o facilmente amovibile della struttura in ogni caso ai fini della qualificazione della natura dell'opera come precaria deve farsi riferimento alla sua destinazione e quindi, per mantenere il carattere di precarietà deve costituire un’opera che non sia funzionale al soddisfacimento di esigenze stabili e durature nel tempo (cfr., ancora, Cons. Stato, Sez. VI, 03.06.2014 n. 2842);
   - non conduce a conclusioni diverse la considerazione che la struttura abbia carattere stagionale, in quanto "l'opera stagionale, diversamente da quella precaria, non è destinata a soddisfare esigenze contingenti ma ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi dell'anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di costruire. Invero, il carattere stagionale dell'uso non implica la provvisorietà dell'attività, né di per sé la precarietà del manufatto ove la stessa si svolga, atteso che il rinnovarsi dell'attività con frequenza stagionale è indicativo della stabilità dell'attività e dell'opera a ciò destinata. Invero, la stagionalità dell'uso non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo, pur quando lo stesso venga rimosso in determinati mesi dell'anno e successivamente, con cadenza periodica predeterminata, nuovamente installato’ (cfr., in termini, Cons. Stato, Sez. VI, 13.01.2020 n. 309)” (così Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1203/2021).
I medesimi principi sono stati recentemente ribaditi dalla giurisprudenza della Sezione, laddove si è “precisato che ‘è fermo in giurisprudenza (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 04.09.2013 n. 4438; id., VI, 25.01.2017 n. 306; id., II, 03.09.2019 n. 6068) l’avviso per cui il gazebo è una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimovibili, che può essere realizzato perlopiù come struttura temporanea’ (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2365/2021), con la conseguenza che quel che distingue la natura precaria d’un gazebo, che lo esonera dall'obbligo del possesso del p.d.c. non è solo la peculiare leggerezza della struttura di esso, ma l’esser funzionale ad esigenze ed a correlati usi specifici e temporalmente limitati, quindi giammai permanenti nel tempo” (Consiglio di Stato, Sez. I, n. 791/2021).
Va da sé che quanto rilevato dalla giurisprudenza in ordine ai gazebo si applichi –potrebbe dirsi a maggior ragione– con riferimento ai dehor, che rispetto ai primi presentano di norma caratteristiche strutturali più stabili e complesse.
Non è possibile, dunque, stabilire a priori ed univocamente se ai fini della realizzazione di un dehor sia o meno necessario ottenere preventivamente uno specifico permesso di costruire, dovendosi caso per caso operare una specifica valutazione non soltanto sulla base della tipologia della struttura, dei materiali in concreto utilizzati e del tipo di ancoraggio al suolo, ma anche (e soprattutto) in ordine alla idoneità o meno del manufatto al soddisfacimento di esigenze stabili e durature nel tempo, e questo al di là del suo carattere stagionale o meno (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 10.06.2021 n. 1022 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio osserva che il gazebo in questione non riveste le caratteristiche fissate dalla giurisprudenza per consentire al proprietario l’esonero dall’obbligo di ottenere il permesso di costruire, che viene ammesso solo nell’ipotesi in cui sia verificabile la peculiare leggerezza della struttura e la sua fruibilità per esigenze temporanee e limitate nel tempo.
Questo Consiglio di Stato ha precisato che “è fermo in giurisprudenza l’avviso per cui il gazebo è una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimovibili, che può essere realizzato perlopiù come struttura temporanea”, con la conseguenza che quel che distingue la natura precaria d’un gazebo, che lo esonera dall'obbligo del possesso del p.d.c. non è solo la peculiare leggerezza della struttura di esso, ma l’esser funzionale ad esigenze ed a correlati usi specifici e temporalmente limitati, quindi giammai permanenti nel tempo, che, nel caso di specie, non ricorrono.
---------------

Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione, che avrebbe ad oggetto un manufatto non rientrante nelle ipotesi sanzionate dall’art. 31, T.U. edilizia, dal momento che il gazebo sarebbe realizzabile previa presentazione di una mera d.i.a., la cui carenza è sanzionabile ai sensi dell’art. 37, avendo la struttura natura pertinenziale dell’appartamento sito al piano terra.
Anche tale doglianza è infondata.
L’ordinanza di rimozione è immune dai vizi denunciati anche con riferimento a quanto stabilito dall’art. 2, lett. i), del p.r.g. del Comune di Mercogliano, non impugnato, ai sensi del quale deve essere richiesto idoneo titolo edilizio anche per attività di “costruzione, restauro, modifica, demolizione e ricostruzione di: muri di cinta, cancellate, recinzioni prospicienti spazi di uso pubblico, chioschi permanenti o provvisori”, tra i quali si può certamente annoverare il gazebo in contestazione.
Dalla documentazione fotografica versata in atti, peraltro, è possibile osservare che il manufatto in contestazione consiste in una struttura ancorata al terreno tramite gettata di cemento e formata da quattro colonne in marmo, sovrastate da una copertura in muratura.
Al riguardo, il Collegio osserva che l’opera in questione non riveste le caratteristiche fissate dalla giurisprudenza per consentire al proprietario l’esonero dall’obbligo di ottenere il permesso di costruire, che viene ammesso solo nell’ipotesi in cui sia verificabile la peculiare leggerezza della struttura e la sua fruibilità per esigenze temporanee e limitate nel tempo.
Questo Consiglio di Stato ha precisato che “è fermo in giurisprudenza (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 04.09.2013 n. 4438; id., VI, 25.01.2017 n. 306; id., II, 03.09.2019 n. 6068) l’avviso per cui il gazebo è una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimovibili, che può essere realizzato perlopiù come struttura temporanea” (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2365/2021), con la conseguenza che quel che distingue la natura precaria d’un gazebo, che lo esonera dall'obbligo del possesso del p.d.c. non è solo la peculiare leggerezza della struttura di esso, ma l’esser funzionale ad esigenze ed a correlati usi specifici e temporalmente limitati, quindi giammai permanenti nel tempo, che, nel caso di specie, non ricorrono (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 28.04.2021 n. 791 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' fermo in giurisprudenza l’avviso per cui il gazebo è una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimovibili, che può essere realizzato perlopiù come struttura temporanea.
Come si vede, quel che distingue la natura precaria d’un gazebo, che lo esonera dall'obbligo del possesso del PDC, non è solo la peculiare leggerezza della struttura di esso, ma l’esser funzionale ad esigenze ed a correlati usi specifici e temporalmente limitati, quindi giammai permanenti nel tempo.

---------------

7. – Non a diversa conclusione ritiene il Collegio di pervenire con riferimento alla natura del gazebo sito di fronte all’ingresso dell’esercizio commerciale dell’appellante.
Già con la memoria del 21.10.2019 in primo grado, ella aveva precisato che il gazebo esisteva in situ prima del 1967, con pari dimensione e nella stessa posizione in cui si trova attualmente. Tale opera fu poi adeguata con la SCIA n. 1766/2011, per esser poi rifatta nella sua attuale consistenza, a seguito dei danni, compreso il disancoraggio, derivanti da un evento atmosferico straordinario.
Ora, dall’unica fotografia rinvenibile nel PAT, a prima vista risalente alla metà degli anni ’60 del secolo scorso, s’evince uno scorcio di gabbiotto metallico alquanto più basso dell’attuale porta d’ingresso all’esercizio commerciale attoreo, sita a SX del portoncino del fabbricato principale. Ma agli occhi del Collegio, in disparte l’obbligo dell’appellante di dimostrare con serietà e rigore il tempo della costruzione e le specifiche caratteristiche di essa (e non il contrario, come dice, sbagliando, anzi contraddicendosi, l’appellante a pag. 11 del ricorso in epigrafe), è comunque irrilevante che l’opera fosse lì da prima del 1967, rilevandone piuttosto la sua sostituzione con quella oggetto della SCIA del 2011 e, in particolare, le sue attuali consistenza e funzione.
Ebbene, è fermo in giurisprudenza (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 04.09.2013 n. 4438; id., VI, 25.01.2017 n. 306; id., II, 03.09.2019 n. 6068) l’avviso per cui il gazebo è una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimovibili, che può essere realizzato perlopiù come struttura temporanea. Come si vede, quel che distingue la natura precaria d’un gazebo, che lo esonera dall'obbligo del possesso del PDC, non è solo la peculiare leggerezza della struttura di esso, ma l’esser funzionale ad esigenze ed a correlati usi specifici e temporalmente limitati, quindi giammai permanenti nel tempo.
Ebbene, l’impugnata sentenza ha dato specifica contezza dell’impossibilità d’assimilare l’opera realizzata dall’odierna appellante ad un gazebo propriamente detto, per la definizione evincibile dai citati arresti invece ad ospitare in maniera permanente gli avventori della struttura, in ampliamento della superficie fruibile dell’esercizio commerciale gestito dall’appellante. Né ella smentisce in fatto tali considerazioni, poiché ha affermato nel ricorso al TAR che «… il gazebo veniva costruito con struttura in legno prefabbricata, semovibile ed ancorata al suolo con bulloni facilmente svitabili …», ossia elementi che ne escludono le caratteristiche dell’effettiva precarietà ed un uso limitato nel tempo.
Tal ultimo argomento s’appalesa dirimente: a parte che la superficie occupata dal gazebo non è inferiore a mq 20, in ogni caso l’area d’intervento ricade in zona E–agricola di PRG. Ma il relativo R.E.C. non ammette opere comunque infisse al suolo a distanza inferiore a m 20 dal ciglio stradale e, poiché detto gazebo è funzionalmente infisso al suolo sine die —soddisfacendo un’utilità di tipo economico non limitato ad un dato periodo ed anch’essa, quindi, di fatto non precaria—, esso non può restare in quel luogo ed in quelle dimensioni. Infatti, l’area non consente alcuna edificazione ex novo, se non le ordinarie manutenzioni conservative dello stabile già esistente
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.03.2021 n. 2365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cos’è il gazebo?
Il gazebo (struttura a copertura di un’area, sorretta da pali o pilastri (aperta sui lati) costituisce opera soggetta a permesso a costruire tutte le volte che è destinata ad esigenze non temporanee, senza che rilevi la sua facile amovibilità o il materiale dal quale è composto (ligneo invece che in muratura).
---------------
Sebbene, al tempo di realizzazione dell’abuso, la giurisprudenza non fosse univoca circa la necessità di un permesso di costruire per la realizzazione di strutture simili a quella di cui si discute (si vedano, a favore di questa soluzione ex plurimis TAR Bolzano, 06/05/2005, n. 172; TAR Napoli, sez. IV, 15/09/2008, n. 10138; TAR Napoli, sez. IV, 12/01/2009, n. 68; Consiglio di Stato, sez. VI, 12/12/2012, n. 6382; contra TAR Napoli, sez. IV, 19/01/2012, n. 238; TAR Brescia, sez. II, 07/04/2011, n. 526; TAR Roma, sez. II, 13/10/2010, n. 32802), l’orientamento si è consolidato nel senso di ritenere che il gazebo (struttura a copertura di un’area, sorretta da pali o pilastri (aperta sui lati) costituisce opera soggetta a permesso a costruire tutte le volte che è destinata ad esigenze non temporanee (TAR Lecce, sez. I, 27/02/2020, n. 257; TAR Napoli, sez. VIII, 06/12/2019, n. 5733), senza che rilevi la sua facile amovibilità o il materiale dal quale è composto (ligneo invece che in muratura).
Nel caso di specie, come risulta con assoluta evidenza, il gazebo della ricorrente è stato realizzato in area cortilizia, addossandolo all’angolo della recinzione in muratura (che rende di fatto chiusi i due lati corrispondenti) con una struttura che, sebbene in legno, è evidentemente stabile, ovvero preordinata ad una esigenza permanente di copertura di una porzione di tale area, con la conseguenza che non può predicarsene una natura meramente temporanea (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 05.01.2021 n. 178 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gazebo: quando occorre il permesso di costruire?
Con riferimento ai gazebo, si osserva che, secondo la giurisprudenza prevalente, l'intervento edilizio che ha comportato la sistemazione degli spazi esterni (viali pedonali e muretti di perimetrazione, gazebo, pensiline), è annoverabile nel concetto di “nuova costruzione” di cui all'art. 3, lett. e), d.P.R. n. 380/2001, che riguarda ogni trasformazione urbanistica del territorio non rientrante nelle categorie della manutenzione ordinaria e straordinaria, del restauro e risanamento conservativo e della ristrutturazione edilizia, e che comprende qualunque manufatto autonomo o modificativo di altro preesistente, necessitante in base al successivo art. 10 del permesso a costruire e sanzionabile, in sua mancanza, con la sanzione della demolizione ex art. 31.
Ancora, si rileva che i manufatti funzionali a soddisfare esigenze permanenti, devono essere considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, non rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie; ciò in quanto il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è utilizzato per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo reiterato nel tempo, in quanto opere realizzate per attività stagionali. Deve pertanto rilevarsi come, ai fini dell'esonero dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, l'opera precaria deve essere destinata ad un uso temporalmente limitato del bene, mentre la stagionalità dell'uso non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo.
Infine, gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture analoghe, quali i gazebo, che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, non possono ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite.
Orbene, nel caso in esame, i gazebo presentano delle dimensioni importanti (circa 20 mq complessivi) e, quindi, non tali da consentire che l’opera possa essere ritenuta, in senso urbanistico, qualificata come meramente accessoria al manufatto principale, di cui modifica la sagoma e i prospetti. Né possono essere ritenuti “precari”, in quanto sono destinati a garantire un’utilità stabile nel tempo.
---------------

4.3. Con riferimento, infine, ai due gazebo, si osserva che, secondo la giurisprudenza prevalente dalla quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, l'intervento edilizio che ha comportato la sistemazione degli spazi esterni (viali pedonali e muretti di perimetrazione, gazebo, pensiline), è annoverabile nel concetto di “nuova costruzione” di cui all'art. 3, lett. e), d.P.R. n. 380/2001, che riguarda ogni trasformazione urbanistica del territorio non rientrante nelle categorie della manutenzione ordinaria e straordinaria, del restauro e risanamento conservativo e della ristrutturazione edilizia, e che comprende qualunque manufatto autonomo o modificativo di altro preesistente, necessitante in base al successivo art. 10 del permesso a costruire e sanzionabile, in sua mancanza, con la sanzione della demolizione ex art. 31 (TAR Napoli n. 5313/2018).
Ancora, si rileva che i manufatti funzionali a soddisfare esigenze permanenti, devono essere considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, non rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie; ciò in quanto il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è utilizzato per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo reiterato nel tempo, in quanto opere realizzate per attività stagionali. Deve pertanto rilevarsi come, ai fini dell'esonero dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, l'opera precaria deve essere destinata ad un uso temporalmente limitato del bene, mentre la stagionalità dell'uso non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo (TAR Lecce n. 666/2019).
Infine, gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture analoghe, quali i gazebo, che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, non possono ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite.
Orbene, nel caso in esame, i gazebo presentano delle dimensioni importanti (circa 20 mq complessivi) e, quindi, non tali da consentire che l’opera possa essere ritenuta, in senso urbanistico, qualificata come meramente accessoria al manufatto principale, di cui modifica la sagoma e i prospetti. Né possono essere ritenuti “precari”, in quanto sono destinati a garantire un’utilità stabile nel tempo.
Conseguentemente anche questa censura deve trovare accoglimento (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 27.02.2020 n. 257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gazebo: caratteristiche strutturali e funzionali.
Il gazebo, nella sua configurazione tipica, è una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimuovibili.
Spesso il gazebo è utilizzato per l’allestimento di eventi all’aperto, anche sul suolo pubblico, e in questi casi è considerata una struttura temporanea. In altri casi, è realizzato in modo permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti come giardini o ampi terrazzi.
(Nel caso di specie, l’opera realizzata dal ricorrente non è stata considerata un gazebo sia per la sua forma, che non è quella tipica del gazebo, sia per i materiali utilizzati, che non sono tutti leggeri, e perché la struttura realizzata in aderenza ad un preesistente immobile in muratura risulta destinata ad ospitare in maniera permanente gli avventori della struttura, con ampliamento della superficie fruibile dell’esercizio commerciale gestito dalla ricorrente).
---------------

5.- E’ controversa nel presente giudizio la legittimità del provvedimento, in epigrafe meglio specificato, recante ordine di rimessione in pristino delle seguenti opere ritenute abusive dalla resistente amministrazione comunale:
   - “un gazebo ad est del fabbricato, in legno lamellare costituito da travi e pilastri alti circa metri 3 e avente dimensioni in pianta pari a 5 x 5 mt. circa”;
   - “un porticato ad est del fabbricato, costituito da pilastri e travi in legno lamellare di larghezza 2,40 mt. circa ed altezza variabile tra i 2,65 mt. e i 3,45 mt.”;
   - “un porticato a sud del fabbricato costituito da pilastri e travi in legno lamellare di larghezza che varia tra 1,40 mt. e 2,70 mt ed altezza variabile pari a 3,45 mt.”;
   - “piccola tettoia in legno costituito da pilastri e travi, posta a nord del fabbricato con dimensioni 2,40 mt. di lunghezza, 1,60 mt. di larghezza ed altezza variabile tra i 2,15 mt. e 2,70 mt., realizzata a copertura dei distributori automatici”.
8.- La tesi attorea risulta radicata alla circostanze che le opere in questione, in particolare il gazebo, non necessitino di alcun titolo, o al limite di un titolo diverso dal permesso di costruire, rientrando nella c. d. edilizia libera (la stessa perizia tecnica, versata in atti, sostanzialmente ripete, quanto esposto in ricorso, risultando quest’ultimo sovrapponibile alla prima).
8.1.- La delibazione della doglianza attorea postula la disamina delle caratteristiche specifiche della struttura (gazebo) in esame, con particolare riferimento ai materiali utilizzati, alla rimovibilità degli stessi, all’aderenza o meno al fabbricato principale (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 25.01.2017, n. 306).
8.2.- Orbene, la giurisprudenza amministrativa (ex multis Cons. St. citata) è attestata nel ritenere che il gazebo, nella sua configurazione tipica, è una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimuovibili. Spesso il gazebo è utilizzato per l'allestimento di eventi all’aperto, anche sul suolo pubblico, e in questi casi è considerata una struttura temporanea. In altri casi il gazebo è realizzato in modo permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti come giardini o ampi terrazzi.
8.2.1.- Nella fattispecie l’opera realizzata dalla ricorrente non può ritenersi assimilabile ad un gazebo per la sua forma, che non è quella tipica di un gazebo, per i materiali utilizzati, che non sono tutti leggeri, e perché la struttura è stata realizzata in aderenza ad un preesistente immobile in muratura e risulta destinata ad ospitare in maniera permanente gli avventori della struttura, con un ampliamento della superficie fruibile dell’esercizio commerciale gestito dalla ricorrente (Bar/Tabacchi). E’ la stessa parte ricorrente ad affermare in ricorso che “il gazebo veniva costruito con struttura in legno prefabbricata, semovibile ed ancorata al suolo con bulloni facilmente svitabili”, e cioè con elementi che escludono le caratteristiche del gazebo (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 06.12.2019 n. 5733 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il realizzato gazebo in legno occupa una superficie di mq. 25, è alto m. 3,00, ed è stato realizzato su di una platea in calcestruzzo con annessi muri ornamentali, panchine in muratura, impianto elettrico e idrico, elettrodomestici e banco-bar.
Sicché, il gazebo in questione non può per certo essere ricondotto ad un’operazione di “sistemazione di spazi esterni”, a’ sensi dell’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ovvero di “ristrutturazione edilizia”, posto che quest’ultima, coerentemente alla definizione che ne è data all’art. 3, comma 1, lett. d), del medesimo d.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa, consisteva -per quanto qui segnatamente interessa- negli “interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”.
In linea di principio, infatti, i gazebo che poggiano su piattaforme di calcestruzzo non sono strutture precarie (nella specie, come si è visto poc’anzi, quanto realizzato sostanzia addirittura un vero e proprio bar all’aperto), ma sono funzionali a soddisfare esigenze permanenti e vanno pertanto considerati come manufatti che alterano lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico.
Oltre a tutto, la loro realizzazione determina, ove siano annessi –come nel caso di specie- ad un’attività di vendita, di somministrazione e ricettiva, l’incremento della superficie commerciale.
In dipendenza di ciò, pertanto, tale tipologia di intervento deve essere realizzata mediante permesso di costruire (olim concessione edilizia) se –sempre come nel caso di specie– non solo incrementa la superficie commerciale ma trasforma comunque in modo rilevante una superficie per l’innanzi adibita a giardino o ad attività agricola in uno spazio destinato a soddisfare la non precaria esigenza di sistemare nel migliore dei modi la propria clientela.
---------------

Tertium non datur.
Per inciso, la presenza nel fascicolo di causa relativo al primo grado di giudizio di una relazione illustrativa depositata in data 19.11.2008 a cura del patrocinio della stessa parte ivi ricorrente fa ragionevolmente presumere che il Di Mo. abbia da ultimo optato proprio per tale possibilità, progettando –tra l’altro– la realizzazione non più di una piscina prefabbricata da contingentemente "trasformare” –al bisogno, per così dire, “burocratico”– in una vasca per la raccolta delle acque meteoriche, ma di “una piscina ludico-relax costituita da due vasche poste a quote differenti in modo da creare un salto d’acqua” (cfr. ivi a pag. 8: e ciò senza sottacere che la complessiva lettura del piano medesimo offre la netta impressione che l’attuale appellante si sia con esso discostato dall’originaria connotazione agricola dell’azienda privilegiando un’attività marcatamente ricettiva se non addirittura ludico-ricreativa, tanto da suscitare anche un dubbio non evanescente circa l’effettiva permanenza, nella specie, di un suo effettivo interesse alla coltivazione della presente causa).
Ad ogni buon conto, quindi, anche per il caso di specie va ribadito che dalla realizzazione di opere edilizia in assenza del permesso di costruire, discende –sempre e comunque– la sanzione della demolizione delle opere medesime, a’ sensi dell’art. 31 del t.u. 06.06.2001, n. 380.,
Ma –soprattutto– va considerato che la realizzazione della piscina ora in questione era ed è materialmente inibita sia dall’art. 21, comma 3, del Regolamento edilizio del Comune di Napoli, che, con disposizione oltremodo commendevole, fa divieto di completare le opere abusive realizzate nello stesso suolo, sia dall’art. 24 della variante anzidetta, che al comma 2 dispone a sua volta nel senso che “nelle zone riportate nella tavola 12 con instabilità media e alta” –tra le quali rientra anche il sedime su cui è stata eretta la piscina in questione- “è vietata la realizzazione di qualsiasi tipo di costruzione”: disposizioni, anche queste, che naturalmente implicano la necessità della demolizione del manufatto in questione.
4.2.3. Non diversamente deve concludersi per il gazebo.
Giova evidenziare che tale manufatto in legno occupa una superficie di mq. 25, è alto m. 3,00, ed è stato realizzato su di una platea in calcestruzzo con annessi muri ornamentali, panchine in muratura, impianto elettrico e idrico, elettrodomestici e banco-bar.
L’appellante riconduce la realizzazione di tale gazebo ad un mero intervento di “ristrutturazione edilizia” ai fini delle esigenze delle “abitazioni agricole”, ovvero “della realizzazione di attività agricole e di produzione e commercio dei prodotti agricoli all’origine e relative funzioni di servizio”, o –ancora- delle “attività ricettive di tipo agrituristico e relative funzioni di servizio”, tutte invero astrattamente assentibili a’ sensi del combinato disposto degli artt. 39, comma 6, e 21, comma 1, lett. b), delle norme tecniche di attuazione della variante al Piano regolatore generale del Comune di Napoli.
Tuttavia la realizzazione del gazebo in questione non può per certo essere ricondotta ad un’operazione di “sistemazione di spazi esterni”, a’ sensi dell’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ovvero di “ristrutturazione edilizia”, posto che quest’ultima, coerentemente alla definizione che ne è data all’art. 3, comma 1, lett. d), del medesimo d.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa, consisteva -per quanto qui segnatamente interessa- negli “interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”.
In linea di principio, infatti, i gazebo che poggiano su piattaforme di calcestruzzo non sono strutture precarie (nella specie, come si è visto poc’anzi, quanto realizzato sostanzia addirittura un vero e proprio bar all’aperto), ma sono funzionali a soddisfare esigenze permanenti e vanno pertanto considerati come manufatti che alterano lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 12.12.2012, n. 6382 e Sez. V, 01.12.2003, n. 7822).
Oltre a tutto, la loro realizzazione determina, ove siano annessi –come nel caso di specie- ad un’attività di vendita, di somministrazione e ricettiva, l’incremento della superficie commerciale (così, ad es., la sentenza di Cons. Stato, Sez. V, n. 7822 del 2003).
In dipendenza di ciò, pertanto, tale tipologia di intervento deve essere realizzata mediante permesso di costruire (olim concessione edilizia) se –sempre come nel caso di specie– non solo incrementa la superficie commerciale ma trasforma comunque in modo rilevante una superficie per l’innanzi adibita a giardino o ad attività agricola in uno spazio destinato a soddisfare la non precaria esigenza di sistemare nel migliore dei modi la propria clientela (così, ad es., non solo la già citata sentenza di Cons. Stato, Sez. V, n. 7822 del 2003, e –ancora– Cons. Stato, Sez. V, 27.01.2003, n. 419 e 11.02.2003, n. 696, rese per omologhe fattispecie) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 03.09.2019 n. 6068 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gazebo funzionale a soddisfare esigenze permanenti.
Nelle ipotesi in cui il gazebo costituisca una struttura funzionale a soddisfare esigenze permanenti, va considerato come manufatto in grado di alterare lo stato dei luoghi, con riflessi non solo per il profilo urbanistico ma anche per quello paesaggistico-ambientale.
Ad avviso di costante e condivisa giurisprudenza, un’opera può essere qualificata come precaria ove sia destinata ad essere rimossa non appena siano venuti meno i bisogni, meramente occasionali, che ne hanno determinato l’installazione, viceversa, ove la costruzione sia precostituita al soddisfacimento di interessi stabili e permanenti, come accade nell’ipotesi in esame, viene meno il requisito della precarietà

---------------

2.- Le censure non convincono il Collegio ed il ricorso è infondato.
2.1.- Diversamente dagli assunti del ricorrente, sia il gazebo sia il capannone, per le caratteristiche costruttive, unite alla zona in cui sono state erette (E1 agricola normale), peraltro in area vincolata ai sensi del d.lgs. 42/2004, sono opere che avrebbero richiesto il permesso di costruire unitamente all’autorizzazione paesaggistica.
Il gazebo descritto nel provvedimento impugnato rientra tra le opere “prive dei connotati della precarietà e dell’amovibilità”.
Ed invero, nelle ipotesi in cui il gazebo costituisca una struttura funzionale a soddisfare esigenze permanenti, va considerato come manufatto in grado di alterare lo stato dei luoghi, con riflessi non solo per il profilo urbanistico ma anche per quello paesaggistico-ambientale.
Ad avviso di costante e condivisa giurisprudenza, un’opera può essere qualificata come precaria ove sia destinata ad essere rimossa non appena siano venuti meno i bisogni, meramente occasionali, che ne hanno determinato l’installazione, viceversa, ove la costruzione sia precostituita al soddisfacimento di interessi stabili e permanenti, come accade nell’ipotesi in esame, viene meno il requisito della precarietà (cfr. ex multis, TAR Firenze. Sez. III, 17.04.2018, n. 556).
Le riproduzioni fotografiche allegate alla memoria di costituzione del comune lasciano pochi dubbi sulle caratteristiche del gazebo, il quale si palesa per essere una struttura solida, con tetto a spiovente, copertura in coppi, grondaia per il convogliamento dell’acqua pluviale e sottostanti travi in legno, tutti elementi che la rendono una struttura solida ed affatto provvisoria (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 01.04.2019 n. 1783 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decadenza della concessione del gazebo aperto: è legittima?
È legittima (anzi, rappresenta un atto vincolato) la decadenza della concessione se invece di un gazebo aperto è stata realizzata una struttura chiusa di dimensioni peraltro più ampie di quelle assentite.
Ai fini della verifica del comportamento del concessionario nell’uso del titolo abilitativo, infatti, rilevano non solo gli aspetti relativi all’ampiezza della superficie occupata ma anche quelli relativi alla natura e consistenza dell’opera edilizia sulla stessa realizzata.
Il concessionario, pertanto, viola gli obblighi nascenti dal titolo abilitativo relativo all’utilizzo del suolo pubblico e, dunque, non ne rispetta i limiti, non solo se occupa un’estensione maggiore di quella autorizzata, ma anche quando realizza sulla stessa un’opera diversa rispetto a quella assentita, risultando l’autorizzazione all’occupazione del suolo pubblico essere stata concessa espressamente per la collocazione su di esso di tale manufatto
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.03.2019 n. 2028 - massima tratta da www.laleggepertutti.it  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gazebo con coperture di vetri.
La costruzione di un gazebo in legno con coperture di vetri senza permesso di costruire integra il reato edilizio (nel caso di specie, era stato costruito su un balcone in aderenza con il confine del vicino) (TRIBUNALE di Chieti, sentenza 15.11.2018 n. 1204 - massima tratta da www.laleggepertutti.it  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACon riferimento al caso di specie, pur nella consapevolezza della mancanza di un orientamento giurisdizionale univoco, la Sezione ritiene che, come si evince anche dal materiale fotografico in atti, il gazebo configuri una struttura leggera, non ancorata al suolo con bulloni o cemento, agevolmente rimuovibile al termine della stagione estiva, aperta su tutti i lati e di modestissime dimensioni senza alcuna incidenza sulla capacità insediativa. Funge, pertanto, da mero arredo per spazi esterni senza creare incremento volumetrico dell’esistente o nuove superfici utili.
In merito, il Consiglio di Stato ha avuto modo più volte di precisare, ad esempio, che il manufatto aperto su tre lati, che non sviluppa cubatura e non rientra tra gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, costituisce opera pertinenziale e non necessita di permesso di costruire.
In particolare, è stata esclusa la preventiva acquisizione del titolo abilitativo per l’istallazione di una tettoia costituita da struttura leggera e amovibile, se questa:
   - resta nei limiti di una "struttura di arredo” installata su pareti esterne dell’unità immobiliare di cui è ad esclusivo servizio;
   - è caratterizzata da elementi in metallo o in legno, ed è aperta su più lati con una copertura anche retrattile di tela, di plastica, di pellicola trasparente, di stuoie in canna o bambù;
   - è priva di opere murarie e di pareti chiuse di qualsiasi genere o tetti di tegole;
   - è costituita da elementi leggeri, assemblati tra loro, tali da rendere possibile la loro rimozione previo smontaggio e non demolizione.
In tali ipotesi l’installazione sul lastrico degli edifici in città di gazebi, tende o pergolati a pareti variabili è, infatti, inidonea a modificare la destinazione d’uso degli spazi esterni interessati, e non comporta aumenti di volume.
Tali strutture accessorie non necessitano di nulla-osta in quanto, per la facile e completa rimovibilità e per l’assenza di tamponature verticali, non configurano un aumento del volume e della superficie coperta, non danno luogo alla creazione o modificazione di un organismo edilizio, non producono alterazione architettonica del prospetto o della sagoma dell’edificio cui sono connesse e comunque sono inidonee a modificare la destinazione d’uso degli spazi esterni interessati.
---------------

1. La ricorrente ritiene che le opere realizzate non siano ascrivibili alla categoria delle “costruzioni” per caratteristiche dei materiali, tipologia e funzione. Evidenzia, al riguardo, che il provvedimento finale è supportato da argomenti nuovi, non anticipati dalla comunicazione del procedimento amministrativo dell’11.12.2008; in particolare, lamenta che, con quest’ultima comunicazione, l’amministrazione richiama per la prima volta il difetto della creazione di una superficie coperta e la necessità di verifica in ordine alla superficie permeabile, rispetto alla pavimentazione in piastrelle forate di polipropilene in contrasto, rispettivamente, con l’articolo pr7 del piano delle regole e con l’articolo 3 del regolamento locale di igiene.
Sostiene, infine, che il gazebo e le piastrelle forate in polipropilene non possono rientrare nella categoria delle nuove costruzioni in quanto il gazebo funge da mero arredo per spazi esterni, presenta modeste dimensioni ed è aperto su tutti i lati, oltre a risultare facilmente smontabile e rimovibile.
2. Il ricorso è fondato.
In materia edilizia, come principio generale, è necessario il previo rilascio di un adeguato titolo edilizio per realizzare ogni alterazione dello stato dei luoghi ed ogni struttura volta a soddisfare esigenze di carattere durevole, a prescindere dalla tecnica e dai materiali impiegati per la realizzazione della struttura; pertanto, nella nozione di “nuova costruzione” deve essere ricondotto qualsiasi manufatto non completamente interrato avente i requisiti della solidità e della immobilizzazione al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad una preesistente fabbrica (ad esempio, casa prefabbricata, baracca in lamiera ondulata, capanna in legno ad uso ricovero animali o deposito attrezzi agricoli).
Ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.5), del D.P.R. n. 380 del 06.06.2001, sono da considerarsi nuove costruzioni, comportanti la trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, "l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore".
Tale principio subisce eccezioni per le attività libere indicate nell'art. 6 T.U. 06.06.2001 n. 380, recante il T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia.
Detta disposizione prevede che, fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia, in particolare delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie ecc. alcuni interventi specificamente individuati possono essere effettuati senza nessun titolo abilitativo. Al secondo comma prevede che, nel rispetto dei medesimi presupposti di cui al comma 1, previa comunicazione all’amministrazione comunale, anche per via telematica, dell’inizio dei lavori, possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo alcuni interventi tra cui “le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”.
A prescindere dalla natura esemplificativa o tassativa che si voglia riconoscere alle indicazioni legislative, va osservato che il testo normativo comprende voci di per sé abbastanza generiche, tali da poter riguardare anche opere non espressamente nominate. Proprio per l’incertezza circa l’esatta perimetrazione delle opere “libere” è stato operato un doppio intervento. Il primo, di carattere integrativo, con il d.lgs. 25.11.2016 n. 222; il secondo, di natura esemplificativa, attuato con il D.M. 02.03.2018 (approvazione del glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 25.11.2016, n. 222).
In ogni caso, in via generale, non possono essere considerate “nuove costruzioni” le strutture dirette a soddisfare esigenze meramente temporanee, non determinandosi una trasformazione irreversibile o permanente del territorio su cui insistono, a prescindere dai materiali usati.
Con riferimento al caso specifico, pur nella consapevolezza della mancanza di un orientamento giurisdizionale univoco, la Sezione ritiene che, come si evince anche dal materiale fotografico in atti, il gazebo configuri una struttura leggera, non ancorata al suolo con bulloni o cemento, agevolmente rimuovibile al termine della stagione estiva, aperta su tutti i lati e di modestissime dimensioni senza alcuna incidenza sulla capacità insediativa. Funge, pertanto, da mero arredo per spazi esterni senza creare incremento volumetrico dell’esistente o nuove superfici utili.
In merito, il Consiglio di Stato ha avuto modo più volte di precisare, ad esempio, che il manufatto aperto su tre lati, che non sviluppa cubatura e non rientra tra gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, costituisce opera pertinenziale e non necessita di permesso di costruire (Consiglio di Stato, sez. VI, sent. n. 320 del 2015).
In particolare, è stata esclusa la preventiva acquisizione del titolo abilitativo per l’istallazione di una tettoia costituita da struttura leggera e amovibile, se questa:
   - resta nei limiti di una "struttura di arredo” installata su pareti esterne dell’unità immobiliare di cui è ad esclusivo servizio;
   - è caratterizzata da elementi in metallo o in legno, ed è aperta su più lati con una copertura anche retrattile di tela, di plastica, di pellicola trasparente, di stuoie in canna o bambù;
   - è priva di opere murarie e di pareti chiuse di qualsiasi genere o tetti di tegole;
   - è costituita da elementi leggeri, assemblati tra loro, tali da rendere possibile la loro rimozione previo smontaggio e non demolizione.
In tali ipotesi l’installazione sul lastrico degli edifici in città di gazebi, tende o pergolati a pareti variabili è, infatti, inidonea a modificare la destinazione d’uso degli spazi esterni interessati, e non comporta aumenti di volume (Consiglio di Stato, VI sezione, sent. 11.04.2014 n. 1777).
Tali strutture accessorie non necessitano di nulla-osta in quanto, per la facile e completa rimovibilità e per l’assenza di tamponature verticali, non configurano un aumento del volume e della superficie coperta, non danno luogo alla creazione o modificazione di un organismo edilizio, non producono alterazione architettonica del prospetto o della sagoma dell’edificio cui sono connesse e comunque sono inidonee a modificare la destinazione d’uso degli spazi esterni interessati (Consiglio di Stato, sezione, VI sentenza, sent. 21.01.2015 n. 171).
Il gazebo, nelle dimensioni risultanti dagli atti e dall’esame del materiale fotografico disponibile non si pone, infine, neanche in contrasto con le norme che violano il tessuto storico urbano (in particolare con l’art. 27, lett. e), della legge regionale Lombardia 11.03.2005, n. 12) atteso che risulta posizionato sul retro dell’edificio immediatamente adiacente, cioè in zona non visibile e circondato da un muro di notevole altezza da cui fuoriesce soltanto una modesta punta di copertura telata bianca, escludendo qualsiasi impatto visivo.
In conclusione, il gazebo secondo gli elementi risultanti in atti, tenuto conto delle caratteristiche e della sua funzione, non configura l’ipotesi della costruzione sia sotto il profilo strutturale (in considerazione dei materiali usati, dell’agevole smontaggio, delle modeste dimensioni e dell’apertura su quattro lati) né sotto il profilo funzionale in quanto non attua una trasformazione urbanistica edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi.
Rileva, al riguardo la voce di cui all’art. 6 comma 1, lett. e)-quinquies, del d.P.R. n. 380/2001 che considera opere di edilizia libera gli “elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”, concetto nel quale può sicuramente rientrare un gazebo dalle caratteristiche innanzi richiamate. Sebbene tale norma sia stata introdotta dall’art. 3 del d.lgs. 25.11.2016 n. 222, deve considerarsi applicabile anche alle costruzioni precedenti, come quella per cui è causa.
Per completezza la Sezione evidenzia che il richiamato D.M. 02.03.2018, al n. 44 dell’allegato 1, prevede espressamente che rientrano tra le opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera il “gazebo di limitate dimensioni e non stabilmente infisso al suolo”.
Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento dell’atto impugnato (Consiglio d Stato, Sez. I, parere 08.10.2018 n. 2292 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzione di un gazebo in zona sismica.
Risponde dei reati di cui all’art. 44, lett. b), e artt. 88, 93, 95, DPR 380/2001, e di cui all’art. 2, L.Reg. 07.01.1983, n. 9, colui che, in zona sismica, omettendo di depositare prima dell’inizio dei lavori gli atti progettuali presso l’Ufficio del Genio Civile competente, realizzi, in assenza del permesso di costruire, ma depositando soltanto una DIA, un gazebo in legno delle dimensioni di 36 mq. (TRIBUNALE di Napoli, Sez. I, sentenza 03.10.2018 n. 10908 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di gazebo non precari
I gazebo non precari, in quanto funzionali a soddisfare esigenze permanenti, sono a tutti gli effetti manufatti in grado di alterare lo stato dei luoghi, con incremento del carico urbanistico.
Non rileva la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che la struttura è deputata non ad un utilizzo transitorio ma per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere continuativo e non stagionale dell’attività svolta
.

---------------
2.1.- Infondato è il primo motivo.
Contrariamente alle affermazioni della società ricorrente, gli interventi compiuti senza titolo non si sono limitati a semplici opere interne.
Dagli atti di causa, emerge che il gazebo, posto all’esterno sulla parte frontale dell'immobile, è stato realizzato con struttura mista -legno lamellare, copertura con teli in plastica- e pavimentato in gres, materiale diverso rispetto alle indicazioni contenute nell'autorizzazione paesaggistica, richiesta dalla società ricorrente. Ed infatti, la Soprintendenza, con provvedimento prot. n. 18465 del 22.07.2014, aveva rilasciato parere favorevole per la costruzione di un gazebo, a condizione che la pavimentazione delle aree impegnate dalle strutture di ombreggiamento fosse realizzata in legno, allo scopo di garantire la necessaria omogenea ed intera reversibilità dell'impianto.
Il diverso materiale impiegato trasforma il gazebo in una struttura sostanzialmente stabile e non rimovibile.
Sul punto, condivisa giurisprudenza ha anche chiarito che i gazebo non precari in quanto funzionali a soddisfare esigenze permanenti, sono a tutti gli effetti manufatti in grado di alterare lo stato dei luoghi, con incremento del carico urbanistico. Non rileva la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che la struttura è deputata non ad un utilizzo transitorio ma per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere continuativo e non stagionale dell'attività svolta (ex multis, Tar Perugia, sez. I, 16.02.2015, n. 81) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 05.06.2018 n. 3693 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Temporaneità della destinazione del gazebo.
Il gazebo è un’opera che, in base alle caratteristiche costruttive, può sottostare a diversi regimi edilizi ed essere inquadrato tra le attività libere, ove del tutto temporaneo e rimovibile, nonché rimosso in tempi brevi; ovvero soggetto a permesso a costruire o alla Dia quando non presenti dette caratteristiche.
La temporaneità della destinazione, nello specifico, non può essere desunta dalla soggettiva destinazione dell’opera data dal costruttore o dall’installatore, ma va ricollegata a un uso realmente precario o temporaneo, per fini specifici e cronologicamente delimitabili.
Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto integrato il reato ex art. 44, lett. b), del Dpr 380/2001 in quanto si trattava di una struttura a capanna in legno di 4 x 2,70 metri, disposta per uso stabile e indeterminato, per far fronte a duraturi interessi della famiglia anche se caratterizzati da frequenze d’uso diverse in relazione ai vari periodi dell’anno
(TRIBUNALE di Firenze, Sez. III, sentenza 22.05.2018 n. 2091 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gazebo realizzato su platea in cemento: costituisce opera precaria?
Il gazebo non è un’opera precaria priva di rilevanza urbanistica, qualora si tratti di struttura in tubi di ferro infissi in una platea di cemento cementati al suolo e copertura in plastica.
Tali caratteristiche, le quali valgono ad escludere l’ascrivibilità all’opera precaria, inducono a qualificare il manufatto come urbanisticamente rilevante e soggetto a permesso di costruire, con la conseguenza che la sua realizzazione abusiva è sanzionabile con l’ordine di demolizione.
In proposito è pacifico l’orientamento della giurisprudenza secondo cui i gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non è deputato ad un uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale dell'attività svolta.
---------------

5. Con il quinto e sesto motivo si lamenta che il provvedimento di diniego ponga a fondamento anche l’assenza di autorizzazione all’utilizzo del passo carrabile, dovendo atteso che il rilascio della sanatoria presuppone il solo rispetto delle norme urbanistiche e non di quelle in materia di occupazione di aree e spazi pubblici.
L’affermazione, finalizzata a far assumere rilevanza a tale aspetto del tutto secondario del provvedimento, non può essere condivisa.
5.1. Invero il diniego avversato è fondato sulla mancanza del requisito della doppia conformità urbanistica e il provvedimento impugnato menziona per mera completezza d’argomentazione anche l’assenza dell’autorizzazione ai passi carrabili “fermo restando i contrasti sopra indicati” e dunque assumendo che la sanatoria veniva respinta per ragioni urbanistiche e non per altre motivazioni.
5.2. Ci si duole, altresì, dell’ultimo capoverso della parte motiva dell’atto avversato, ovvero quello inerente alla non sanabilità dei piccoli manufatti presenti sull’area, e in particolare del gazebo; e ciò sia perché la sanatoria non comprendeva il gazebo sia perché lo stesso sarebbe opera precaria, non soggetta né a titolo edilizio, né alle norme in materia di distanza dagli edifici né al preventivo deposito della pratica al Genio civile.
Come rilevato dalla difesa del Comune la censura, sul punto, si palesa inammissibile per difetto di interesse.
Infatti, se il gazebo non rientra fra le opere che la ricorrente aveva interesse a sanare (prevedendosene nella relazione tecnica allegata alla domanda di sanatoria lo smantellamento) pare evidente che non vi sia interesse a contestare tale profilo del provvedimento.
Peraltro, non può ritenersi che il gazebo sia un’opera precaria e perciò priva di rilevanza urbanistica, risultando dal verbale della Polizia municipale che in realtà si tratta di un manufatto con struttura in tubi di ferro ed infissi in una platea di cemento cementati al suolo e copertura in plastica trattandosi perciò di un manufatto urbanisticamente rilevante e soggetto a permesso di costruire.
5.3. In proposito è pacifico l’orientamento della giurisprudenza secondo cui i gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non è deputato ad un uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale dell'attività svolta (tra le tante, TAR Molise, 21.09.2016 n. 353; TAR Lazio, sez. I, 21.09.2016 n. 9881, TAR Umbria, 16.02.2015 n. 81).
...

11. Con il sesto motivo la ricorrente lamenta che l’ordinanza di demolizione abbia riguardato anche il “gazebo” adibito a “rimessa di attrezzature”, trattandosi di manufatto di piccole dimensioni (mq. 24) in struttura metallica leggera, senza parti in muratura, con copertura in plastica e, quindi, in materiale non rigido né durevole, come tale privo di rilevanza edilizia.
La censura è infondata.
Si è già rilevato, analizzando il quinto motivo del ricorso principale, che non può ritenersi che il gazebo costituisca un’opera precaria priva di rilevanza urbanistica, trattandosi in realtà di un manufatto con struttura in tubi di ferro ed infissi in una platea di cemento cementati al suolo e copertura in plastica e quindi di un manufatto urbanisticamente rilevante e soggetto a permesso di costruire.
In ogni caso è pacifico che i gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto (peraltro non rilevabile nella fattispecie), la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale dell'attività svolta (Cons. St., sez. IV, 04.04.2013, n. 4438; id., sez. VI, 03.06.2014, n. 2842)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.04.2018 n. 556 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Manufatti non precari idonei ad alterare lo stato dei luoghi.
In tema di diniego della domanda di autorizzazione edilizia e di ingiunzione di demolizione di manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, va osservato che essi devono essere considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale.
Infatti, la precarietà dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo
.

---------------
1. Con istanza del 05.05.2013 la signora An.Ma.Ma. ha chiesto al Sindaco di Mangone di essere autorizzata all’installazione stagionale di un gazebo rimovibile con telo plastificato.
Con nota del 12.06.2003 il Responsabile del Servizio presso l’Ufficio Tecnico del Comune di Mangone ha comunicato alla ricorrente il “diniego della domanda di autorizzazione edilizia”, ritenuta in contrasto con l’art. 8, lett. d), del Piano di fabbricazione del Comune di Magone, in quanto non rispettosa delle distanze dai confini e dalle strade.
Nonostante tale diniego, l’odierna ricorrente ha ugualmente effettuato il montaggio del gazebo nella proprietà privata del suocero Cr.Ma..
2. In data 03.07.2003 è stata notificata al Cr. ordinanza di ingiunzione-demolizione della tendostruttura, in quanto realizzata abusivamente, in assenza della prescritta autorizzazione edilizia.
Con il ricorso in epigrafe i ricorrenti hanno l’annullamento del provvedimenti, per i vizi di violazione di legge, con riferimento all’art. 8, lett. d), del Piano di fabbricazione del Comune di Mangone e all’art. 10 della L. 47/1985, nonché per eccesso di potere per presupposto erroneo, travisamento del fatto e illogicità.
Il gazebo in questione non sarebbe una costruzione, trattandosi di struttura precaria e facilmente smontabile. Non sarebbe stato, pertanto, necessario un provvedimento autorizzativo, che, tuttavia, è stato negato.
...
7. Il ricorso principale è infondato e deve essere rigettato.
Riguardo ai caratteri del gazebo in questione, esteso circa 110 mq, il Collegio ritiene di richiamare l’orientamento –da quale non si rinvengono elementi per discostarsi– secondo cui i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale.
Si è condivisibilmente osservato al riguardo che la precarietà dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo (in tal senso: Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; Cons. Stato, IV, 22.12.2007, n. 6615).
Sotto tale aspetto, il Collegio ritiene che per le sue caratteristiche tipologiche e funzionali, nonché in considerazione del regime temporale della relativa utilizzazione il manufatto per cui è causa sia riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del comma 1 dell’articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001, a tenore del quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
Al riguardo, giova qui richiamare il condiviso orientamento secondo cui non possono comunque essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; id, VI, 12.02.2011, n. 986; id., V, 12.12.2009, n. 7789;. id., V, 24.02.2003, n. 986; id., V, 24.02.1996, n. 226).
Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità dell’installazione del manufatto per cui è causa (destinato ad occupare circa 110 mq.) conferisca al manufatto nel suo complesso il carattere di “temporaneità”, atteso il carattere ontologicamente “non temporaneo” di una struttura destinata all’esercizio di un’attività commerciale e di somministrazione (in tal senso: Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; Cons. Stato, IV, 23.07.2009, n. 4673).
Tanto premesso, deve ritenersi legittimo l’operato dell’Amministrazione intimata che ha correttamente configurato come costruzione il manufatto in oggetto e ha, pertanto, negato il titolo abilitativo in quanto l’opera non era conforme al Programma di fabbricazione del Comune per il mancato rispetto delle distanze dei confini e delle strade.
Alla legittimità del diniego dell’autorizzazione consegue la legittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata in quanto l’opera è stata eseguita in assenza della prescritta concessione edilizia (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 13.03.2017 n. 409 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gazebo permanenti: è necessario il permesso di costruire?
I gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non è deputato ad un uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale dell’attività svolta.
In effetti la «precarietà» dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene, e non la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali per cui lo stesso è riconducibile nell’ipotesi prevista alla lett. e.5) del comma 1 dell’art. 3 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, che include tra le nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.
---------------
Non implica precarietà dell'opera, ai fini autorizzativi e dell'esenzione dal permesso di costruire, il carattere stagionale di essa, quando la stessa è destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (non sono infatti manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad un'utilizzazione perdurante nel tempo, sicché l'alterazione non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante), anche se con la reiterazione della presenza del manufatto di anno in anno nella sola buona stagione.
---------------

Il ricorso è infondato.
Si verte al cospetto di un gazebo che richiedeva il permesso di costruire avendo dimensioni significative di ml. 5,00 x 3,00, per un totale di 15 mq., con altezza di ml. 2,50 circa, e posto sul confine di proprietà, a distanza non regolamentare e come tale idoneo a ridurre la visuale e la luminosità delle abitazioni limitrofe con affaccio sulla corte dove è stato posto, come peraltro contestato da proprietario confinante che ha segnalato l’abuso edilizio.
Diversamente da quanto allegato dalla ricorrente, è stata realizzata una vera e propria casetta chiusa, sui diversi lati, con pannelli di legno (o comunque in profili di PLET-plastica riciclata eterogenea) pieni nella parte inferiore e grigliati in quella superiore e munita di telo di copertura, come tale idonea a creare un volume edilizio di indubbio impatto anche per le caratteristiche della corte edilizia dove è stato collocato, secondo quanto chiaramente evincibile dalla documentazione fotografica allegata al verbale del Comando della Polizia Municipale del 04.03.2009 in atti.
Si tratta, in particolare, di un manufatto leggero per il quale è richiesto il permesso di costruire, di cui all’art. 10 del DPR n. 380/2001, in forza del disposto di cui all’art. 3, comma 1, lettera e.5) -secondo quanto espressamente contestato con il verbale della polizia municipale del 04.03.2009 richiamato nella ordinanza impugnata- essendo privo del carattere della temporaneità in quanto stabilmente destinato ad attività al servizio della abitazione principale (quale locale di servizio, deposito, adibito allo svago o di vero e proprio “salotto all’aperto”, secondo quanto riferito dalla stessa ricorrente con la relazione tecnica di parte in atti).
L’assenza del requisito della temporaneità si desume, in particolare, dalla sua non facile amovibilità di cui la solida struttura in legno ne è indice certamente grave e preciso, tant’è che la stessa relazione tecnica di parte, nel descrivere le caratteristiche costruttive del manufatto, parla di elementi autoportanti bullonati tra loro costituiti da pannelli verticali e da “travi perimetrali, orizzontali e centrali di copertura”.
In presenza di simili caratteristiche costruttive, oggettivamente incompatibili con il parametro legale della temporaneità, a nulla vale opporre che la struttura non sarebbe ancorata ma solo poggiata a terra.
La giurisprudenza prevalente ritiene che i gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale dell'attività svolta (in termini Cons. Stato, Sez. IV, 04.04.2013, n. 4438; Sez. VI, 03.06.2014, n. 2842; TAR Perugia, 16.02.2015, n. 81).
In tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali per cui lo stesso è riconducibile nell'ipotesi prevista alla lett. e.5) del comma 1 dell'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001, che include tra le nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee” (Cons. Stato, Sez. VI, 03.06.2014, n. 2842).
E’ stato ancora precisato che “Non implica precarietà dell'opera, ai fini autorizzativi e dell'esenzione dal permesso di costruire, il carattere stagionale di essa, quando la stessa è destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (non sono infatti manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad un'utilizzazione perdurante nel tempo, sicché l'alterazione non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante), anche se con la reiterazione della presenza del manufatto di anno in anno nella sola buona stagione” (Cfr. Cons. Stato, VI, 01.12.2014, n. 5934).
Nel caso di specie il requisito della temporaneità manca sia dal punto di vista strutturale, stante la non facile amovibilità del manufatto, sia da quello funzionale stante la sua idoneità ad assolvere in modo duraturo nel tempo una molteplicità di funzioni a servizio dell’abitazione principale.
Alla luce delle motivazioni che precedono il ricorso deve pertanto essere respinto, non potendo giovare alla ricorrente neppure il richiamo alla sentenza di questo TAR n. 66/2014 con la quale la necessità del preventivo rilascio del permesso di costruire è stata esclusa in presenza di una struttura in legno “aperta sui lati”, per di più “rientrante nella previsione del progetto di cui alla concessione edilizia n. 278/1983” e quindi munita di titolo edilizio autorizzatorio (TAR Molise, sentenza 21.09.2016 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGazebo in legno.
Integra il reato di cui all’art. 44, lett. b), t.u. n. 380/2001 la costruzione nell’area cortilizia di gazebo in legno, fissi in terra ed inamovibili, trattandosi di ampliamento soggetto a permesso di costruire (TRIBUNALE di Roma, Sez. VI, sentenza 01.03.2016 n. 3216 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

aggiornamento al 24.08.2021

Commissione Comunale per il Paesaggio:
la nomina dei relativi componenti (per essere legittima) necessita di una preventiva valutazione comparativa dei curricula dei vari candidati concludendo il procedimento amministrativo con un provvedimento espresso (id est, deliberazione di G.C.) adeguatamente motivato in ordine alle ragioni della preferenza accordata ai candidati prescelti rispetto a quelli pretermessi.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima la deliberazione di Giunta Comunale che nomina i componenti della Commissione comunale per il paesaggio senza aver preliminarmente operato (e dato conto nel dispositivo) l'obbligatoria “comparazione dei curricula delle candidature presentate” prescritta dai criteri regionali e, più in generale, imposta da principi generali del procedimento amministrativo (art. 3 L. 241/1990).
La delibera comunale impugnata ha affidato la scelta dei tre componenti della Commissione alla seguente, testuale motivazione: “Ritenuto pertanto di procedere alla scelta di n. 3 esperti in materia ambientale paesaggistica, sulla base dei curriculum e della documentazione presentata, dai quali è desumibile, oltre che il possesso del titolo di studio richiesto, anche qualificata esperienza pregressa nella tutela del paesaggio (…)”.
In sostanza, la giunta comunale si è limitata a dare atto che i tre componenti nominati erano risultati in possesso dei requisiti richiesti dal bando, ma ha omesso del tutto di effettuare la “comparazione dei curricula delle candidature presentate” prescritta dai criteri regionali e, più in generale, imposta da principi generali del procedimento amministrativo (art. 3 L. 241/1990).
La necessità di una valutazione comparativa dei profili dei vari candidati e di una adeguata motivazione in ordine alla scelta effettuata è stata affermata dalla giurisprudenza amministrativa persino in relazione alla designazione degli organi di vertice dell’Amministrazione, notoriamente effettuata con criteri eminentemente fiduciari basati sull’intuitus personae e attraverso atti di alta amministrazione connotati da amplissima discrezionalità; è stato affermato, al riguardo, che:
   - “Se pure, in linea generale, le designazioni degli organi di vertice delle Amministrazioni si configurano come provvedimenti da adottare in base a criteri eminentemente fiduciari, riconducibili nell'ambito degli atti di alta amministrazione, in quanto sono espressione della potestà di indirizzo e di governo delle autorità preposte alle Amministrazioni stesse, si deve osservare nondimeno che il singolo provvedimento di nomina deve esporre le ragioni che hanno condotto alla nomina di uno di essi, comportando una scelta nell'ambito di una categoria di determinati soggetti in possesso di titoli specifici. In altre parole, la motivazione della scelta -sia pure effettuata latamente "intuitu personae"- deve comunque ancorarsi all'esito di un apprezzamento complessivo del candidato, in modo che possa dimostrarsi la ragionevolezza della scelta effettuata che non può logicamente esaurirsi nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti dalla legge ma che importa articolate, delicate e talvolta addirittura sfumate valutazioni sulla stessa personalità dei candidati, sulle loro capacità organizzative, sul loro prestigio personale e sul prestigio che eventualmente hanno già conferito agli uffici precedentemente ricoperti e che astrattamente sono in grado di assicurare a quello da ricoprire".
Se la necessità di una penetrante motivazione è stata affermata, in giurisprudenza, per la scelta degli organi di vertice dell'Amministrazione, a fortiori la stessa deve ritenersi imprescindibile allorquando si tratti di nominare gli esperti di una commissione tecnica che s'inserisce, sia pur con criteri d'elevata professionalità e competenza, nell'ambito dell'esercizio delle ordinarie funzioni amministrative attribuite all'ente locale nello specifico settore della tutela del paesaggio.
In buona sostanza, se persino gli atti di alta amministrazione a valenza fiduciaria non possono essere ritenuti avulsi dal rispetto dell'obbligo di una motivazione, congruente con la natura degli atti medesimi, e se non residua, quindi, più alcuno spazio per i provvedimenti amministrativi cd. a motivo libero (id est, espressione di discrezionalità assoluta), ne consegue che ogni qual volta, come nella specie, si tratti d'effettuare una scelta tra più candidati, ognuno dei quali dotato di specifiche competenze ed attitudini a ricoprire l'incarico (come emergenti dai rispettivi curricula) -incarico, si ripete, compreso nell'ambito delle ordinarie attribuzioni dell'ente locale, sia pur di natura settoriale- non può prescindersi, a maggior ragione, da una motivazione, di tipo analitico-comparativo, tendente all'emersione delle ragioni della scelta di uno o più candidati in questione, e dalla quale, in particolare, s'evincano le ragioni per le quali i medesimi siano stati considerati i più adatti a rivestire la medesima carica
---------------
Nel caso di specie, la valutazione comparativa dei curricula dei cinque candidati è mancata del tutto o, quantomeno, la stessa -ove mai effettuata- non è stata evidenziata in motivazione, tant’è che la stessa difesa del Comune ha ammesso trattarsi di una motivazione “criptica”.
Una motivazione criptica è di per sé una motivazione illegittima perché contraddice la funzione essenziale attribuitale dall’ordinamento, che è quella di indicare (in modo comprensibile) “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria” (art. 3 L. 241/1990).
Trattandosi di un principio generale applicabile nei più disparati settori in cui si esplica l’azione amministrativa, appare del tutto irrilevante la circostanza, dedotta dalla difesa del Comune, che nel caso di specie non si sia trattato di una gara d’appalto o di un concorso preordinato all’assunzione di un dipendente del Comune; tanto più che, nel caso della nomina della commissione locale per il paesaggio, la necessità di una “comparazione dei curricula delle candidature presentate” è stata esplicitata dalla giunta regionale all’atto di dettare, con citata la D.G.R. 06.08.2008 n. 8/7977, i “criteri per la verifica, nei soggetti delegati all’esercizio della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio, della sussistenza dei requisiti di organizzazione e di competenza tecnico scientifica”.
---------------
Circa la
dedotta violazione del principio di rotazione, sul rilievo che due dei tre componenti nominati siedono nella medesima commissione rispettivamente da oltre 20 anni e da oltre 10 anni richiamando i principi affermati nel Piano Nazionale Anticorruzione 2016 approvato dall’ANAC con delibera n. 831 del 03.08.2016, va detto che il Piano Nazionale Anticorruzione è “atto generale di indirizzo” rivolto a tutte le amministrazioni che adottano i PTPC (Piani Triennali per la Prevenzione della Corruzione), soggetti a vigilanza dell’ANAC, che all’occorrenza può adottare raccomandazioni o ordini nei confronti di singole amministrazioni.
La rotazione del personale è uno dei criteri organizzativi previsti per prevenire la corruzione, ma è riferita alle modalità di impiego dei “dipendenti” e del “personale”; si tratta, in ogni caso, di un criterio organizzativo “di indirizzo”, e cioè tendenziale e non vincolante, che di massima non è applicabile a quei ruoli tecnici che, come nel caso della Commissione locale per il Paesaggio, vengano affidati a soggetti esterni all’amministrazione, selezionati sulla base di criteri di capacità tecnica e all’esito di valutazione comparativa di merito; in tal caso, infatti, la selezione comparativa effettuata dall’amministrazione sulla base di criteri predeterminati dovrebbe essere sufficiente garanzia di imparzialità della nomina.
Peraltro, nel caso in cui, all’esito della selezione comparativa dei vari candidati, l’amministrazione si trovi ad aver valutato più candidati in modo sostanzialmente equipollente e paritetico, e debba operare una scelta tra i medesimi, principi generali di buona amministrazione e di imparzialità possono rendere opportuno che la scelta tra i candidati sia effettuata attribuendo motivata e favorevole rilevanza anche alla circostanza che uno di questi non abbia mai svolto quella specifica funzione presso il Comune procedente, rispetto ai componenti uscenti della commissione oggetto di selezione, soprattutto se questi ultimi ne abbiano fatto parte per un lungo periodo.
---------------

... per l'annullamento:
   - della delibera della giunta comunale di Paratico n. 107 del 17.09.2019 avente ad oggetto “nomina della commissione per il paesaggio e per la qualità urbana ai sensi dell’articolo 148 del d.lvo 42/2004 e dell’articolo 81 della L.R. 12 del 2005”, affissa all’albo pretorio per 15 giorni consecutivi a partire dal 30.09.2019;
   - ove e per quanto occorra, dell’avviso pubblico del 12.08.2019, per la presentazione delle candidature;
   - occorrendo, del regolamento della Commissione del Paesaggio del Comune di Paratico approvato con delibera di consiglio comunale n. 30 del 29.09.2009;
...
FATTO
1. Con Avviso del 12.08.2019, il Comune di Paratico (BS) indiceva una selezione pubblica finalizzata alla formazione di un elenco di candidati in possesso dei prescritti requisiti, da cui attingere per la nomina della Commissione comunale del Paesaggio e per la Tutela della qualità urbana.
1.1. In particolare, in conformità ai criteri disciplinati dall’Allegato 1 alla D.G.R. 06.08.2008 n. 8/7977 e dall’art. 2 del Regolamento comunale della Commissione per il Paesaggio (approvato con delibera consiliare n. 30 del 29.09.2009), l’Avviso prevedeva che la Commissione sarebbe stata composta da tre membri, in possesso dei seguenti requisiti:
   “- un presidente: soggetto in possesso di laurea e abilitazione all’esercizio della professione oltre ad aver maturato una qualificata esperienza, come libero professionista o in qualità di pubblico dipendente nell’ambito della tutela e valorizzazione dei beni paesistici;
   - due componenti: soggetti in possesso di diploma universitario o laurea o diploma di scuola media superiore in una materia attinente l’uso, la pianificazione e la gestione del territorio e del paesaggio, la progettazione edilizia e urbanistica, la tutela dei beni architettonici e culturali, le scienze geologiche, naturali, geografiche e ambientali; i soggetti dovranno altresì aver maturato una qualificata esperienza, almeno triennale se laureati, e almeno quinquennale se diplomati nell’ambito della libera professione o in qualità di pubblico dipendente, in una delle materie sopra indicate
”.
1.2. Inoltre, l’Avviso prevedeva, tra l’altro:
   - che gli interessati avrebbero dovuto allegare alla domanda di partecipazione il proprio curriculum professionale;
   - che la nomina della commissione sarebbe stata effettuata dalla giunta comunale dopo aver valutato le candidature complete di tutta la documentazione;
   - che l’incarico sarebbe stato “gratuito”, non essendo previsti “compensi, gettoni di presenza né rimborsi spese”.
2. Entro il termine del 16.09.2019 previsto dall’Avviso, erano presentate cinque domande di partecipazione, ciascuna corredata dal relativo curriculum professionale, da parte dei seguenti candidati:
   - arch. Fe.Gu.Lu.; - arch. Mi.Gi.; - arch. Fa.Di.; - ing. Za.Lo.; - ing. Za.El..
3. All’esito della valutazione delle domande e dei curricula dei candidati, la giunta comunale, con delibera n. 107 del 17.09.2019, stabiliva di nominare quali membri della Commissione per il Paesaggio i candidati:
   - arch. Fa.Di., in qualità di “esperto con funzione di Presidente”;
   - arch. Mi.Gi., in qualità di “esperto”;
   - arch. Fe.Gu.Lu., in qualità “esperto”.
4. La delibera, dopo aver richiamato la normativa applicabile e gli atti di gara, così motivava la scelta dei tre componenti: “Ritenuto pertanto di procedere alla scelta di n. 3 esperti in materia ambientale paesaggistica, sulla base dei curriculum e della documentazione presentata, dai quali è desumibile, oltre che il possesso del titolo di studio richiesto, anche qualificata esperienza pregressa nella tutela del paesaggio (…)”.
5. Con ricorso notificato il 12.12.2019 e ritualmente depositato, l’ing. El.Za. impugnava la predetta delibera di giunta e, occorrendo, gli ulteriori atti della selezione pubblica, e ne chiedeva l’annullamento sulla base di tre motivi, con i quali lamentava, in sintesi:
   5.1) il difetto di motivazione della delibera di nomina;
   5.2) la sussistenza di una stabile, potenziale, situazione di conflitto di interessi, o comunque l’assenza di una situazione di imparzialità in capo al Presidente arch. Fa., nonché l’assenza dei requisiti soggettivi in capo all’arch. Mi.;
   5.3) la violazione del principio di rotazione.
6. Il Comune di Paratico si costituiva in giudizio depositando documentazione e resistendo al ricorso con memoria difensiva, eccependo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per la mancata impugnazione del decreto regionale 10.10.2019, approvativo della Commissione per il Paesaggio; in subordine, nel merito, contestando la fondatezza del ricorso e chiedendone il rigetto.
7. Non si costituivano, invece, i controinteressati arch. Fa.Di., arch. Mi.Gi. e arch. Fe.Gu.Lu., ritualmente intimati con atti portati alla notifica il 12.12.2019 e ricevuti il 17.12.2019.
8. All’udienza pubblica del 14.04.2021, in prossimità della quale la difesa di parte ricorrente depositava una memoria di replica nel termine di rito, la causa era trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. E’ opportuno preliminarmente ricostruire il quadro normativo in cui si inquadra la vicenda in esame.
1.1. L’istituzione delle commissioni per il paesaggio, quali organismi consultivi di supporto agli enti esercenti le funzioni delegate in materia di autorizzazione paesaggistica, è stata prevista dall’art. 148, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004, in forza del quale “Le regioni promuovono l'istituzione e disciplinano il funzionamento delle commissioni per il paesaggio di supporto ai soggetti ai quali sono delegate le competenze in materia di autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell'articolo 146, comma 6”. Il comma 2 della stessa norma precisa che “Le commissioni sono composte da soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio”.
1.2. I predetti principi sono stati dettagliati, in ambito locale, dalla normativa regionale lombarda, e in particolare dalla L.R. 11.03.2005 n. 12, la quale:
   - all’art. 81, comma 1, ha previsto che “ogni ente locale titolare, ai sensi dell’art. 80, di funzioni amministrative riguardanti l’autorizzazione paesaggistica e l’irrogazione delle relative sanzioni, istituisce e disciplina una commissione per il paesaggio, avente i requisiti di organizzazione e di competenza tecnico-scientifica dettati dalla Giunta regionale”;
   - all’art. 80, comma 9, ha previsto che “L’esercizio delle funzioni [in materia di autorizzazione paesaggistica] possono essere esercitate solamente dai comuni […] per i quali la Regione abbia verificato la sussistenza dei requisiti di organizzazione e di competenza tecnico-scientifica ai sensi del D.Lgs. 42/2004”.
1.3. I “requisiti di organizzazione e di competenza tecnico-scientifica” di cui al predetto art. 81, comma 1, della L.R. n. 12/2005 sono stati definiti dalla giunta regionale lombarda con D.G.R. 06.08.2008 n. 8/7977; in particolare, nell’Allegato 1 a tale D.G.R. si prevede (per quel che rileva):
   - che nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, la commissione è composta da un numero minimo di 3 componenti;
   - che “Il Presidente della Commissione dovrà essere in possesso di laurea e di abilitazione all’esercizio della professione ed aver maturato una qualificata esperienza, come libero professionista o in qualità di pubblico dipendente, nell’ambito della tutela e valorizzazione dei beni paesaggistici”;
   - che “I componenti devono essere scelti tra i candidati che siano in possesso di diploma universitario o laurea o diploma di scuola media superiore in una materia attinente l’uso, la pianificazione e la gestione del territorio e del paesaggio, la progettazione edilizia e urbanistica, la tutela dei beni architettonici e culturali, le scienze geologiche, naturali, geografiche ed ambientali”;
   - che i medesimi, inoltre, “devono altresì aver maturato una qualificata esperienza, almeno triennale se laureati ed almeno quinquennale se diplomati, nell’ambito della libera professione o in qualità di pubblico dipendente, in una delle materie sopra indicate e con riferimento alla tipologia delle funzioni paesaggistiche attribuite all’Ente locale al quale si presenta la candidatura”;
   - che i componenti della commissione sono nominati “a seguito di comparazione dei curricula delle candidature presentate” e che “il provvedimento di nomina dovrà dare atto della congruenza dei titoli posseduti dai candidati prescelti rispetto a quanto previsto dai presenti criteri”;
   - che, infine, la Regione –a cui gli enti locali trasmettono la documentazione relativa alla istituzione, disciplina e nomina della commissione per il paesaggio– “provvede alla valutazione della documentazione trasmessa al fine di verificarne la rispondenza ai presenti criteri”;
   - che tale verifica “potrà comportare anche controlli a campione relativamente all’attività svolta ed alle modalità utilizzate dall’ente locale per la istituzione e nomina della Commissione per il paesaggio, nonché relativamente alla conformità dei criteri utilizzati per la costituzione/individuazione della struttura tecnica o della specifica professionalità per lo svolgimento delle attività di istruttoria tecnico-amministrativa”;
   - che, all’esito di tale verifica, “sarà predisposto l’elenco degli Enti riconosciuti idonei all’esercizio della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio”, elenco “approvato con specifico provvedimento del direttore generale della D.G. Territorio e Urbanistica” e quindi pubblicato sul BURL e sul sito ufficiale della regione.
1.4. In ossequio ai criteri dettati dalla giunta regionale, il Comune di Paratico si è dotato di un proprio “Regolamento Commissione per il Paesaggio”, approvato con delibera consiliare n. 30 del 29.09.2009, il quale, all’art. 2, disciplina la composizione della commissione e i requisiti soggettivi dei suoi componenti, riproducendo pedissequamente (e letteralmente) i criteri regionali, precisando che il possesso dei requisiti deve risultare dal curriculum individuale di ciascun candidato.
1.5. Analogamente, i medesimi requisiti sono stati riprodotti e richiesti nell’Avviso relativo alla selezione oggetto del presente giudizio.
2. Venendo quindi all’esame del caso di specie, va affrontata in primo luogo l’eccezione preliminare formulata dalla difesa del Comune, secondo cui il ricorso sarebbe inammissibile per la mancata impugnazione del decreto regionale n. 14557 del 10.10.2019, con cui la Regione Lombardia ha approvato l’istituzione della Commissione per il Paesaggio del Comune di Paratico.
2.1. L’eccezione, osserva il Collegio, non può essere condivisa dal momento che la Regione si è limitata a verificare, ai sensi dell’art. 80, comma 9, L.R. n. 12/2005, che la Commissione fosse stata nominata nel rispetto dei “requisiti di organizzazione e di competenza tecnico-scientifica” prescritti dal d.lgs. 42/2004, ma non è entrata nel merito delle valutazioni svolte dall’amministrazione comunale in ordine alla scelta dei singoli componenti.
2.2. Di conseguenza, un eventuale annullamento del provvedimento comunale di nomina della commissione avrebbe effetti automaticamente caducanti, in parte qua, anche sul Decreto del Direttore Generale Territorio e Protezione civile della Regione Lombardia n. 14557 del 10.10.2019, concernente il “Settimo aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche”.
3. Passando all’esame del merito, con il primo motivo la parte ricorrente ha lamentato il difetto di motivazione del provvedimento impugnato, in ragione del fatto che la giunta comunale si sarebbe limitata a dare atto del possesso, da parte dei tre soggetti nominati, dei requisiti soggettivi previsti dal bando, senza svolgere alcuna valutazione comparativa dei curricula allegati da tutti e cinque i candidati, come peraltro prescritto dai predetti criteri regionali di cui alla D.G.R. 06.08.2008 n. 8/7977, nella parte in cui prevedono che i componenti della commissione sono nominati “a seguito di comparazione dei curricula delle candidature presentate” e come prescritto da principi generali del procedimento amministrativo.
La difesa comunale ha contestato la fondatezza della censura, rilevando che motivazione del provvedimento, per quanto “criptica”, sarebbe nondimeno adeguata, atteso il riferimento testuale in essa contenuto alla valutazione dei curricula e della documentazione presentata dai candidati, in conformità ai criteri predeterminati, tenuto anche conto che nella specie non si tratta di un gara finalizzata alla stipula di un contratto di appalto né di una procedura concorsuale finalizzata all’assunzione di un dipendente pubblico.
La difesa comunale è poi passata ad analizzare, in concreto, i curricula dei cinque candidati e a compararne i profili professionali ed esperienziali, evidenziando in particolare l’assenza in capo alla ricorrente di una specifica esperienza in materia di progettazione, direzione lavori, componente di commissioni edilizie e/o del paesaggio, a differenza dei tre soggetti selezionati.
4. Il Collegio ritiene che gli argomenti addotti dalla difesa comunale non siano convincenti e che la censura di parte ricorrente sia fondata.
4.1. La delibera comunale impugnata, infatti, ha affidato la scelta dei tre componenti della Commissione alla seguente, testuale motivazione: “Ritenuto pertanto di procedere alla scelta di n. 3 esperti in materia ambientale paesaggistica, sulla base dei curriculum e della documentazione presentata, dai quali è desumibile, oltre che il possesso del titolo di studio richiesto, anche qualificata esperienza pregressa nella tutela del paesaggio (…)”.
4.2. In sostanza, la giunta comunale si è limitata a dare atto che i tre componenti nominati erano risultati in possesso dei requisiti richiesti dal bando, ma ha omesso del tutto di effettuare la “comparazione dei curricula delle candidature presentate” prescritta dai criteri regionali di cui alla citata D.G.R. e, più in generale, imposta da principi generali del procedimento amministrativo (art. 3 L. 241/1990).
4.3. La necessità di una valutazione comparativa dei profili dei vari candidati e di una adeguata motivazione in ordine alla scelta effettuata è stata affermata dalla giurisprudenza amministrativa persino in relazione alla designazione degli organi di vertice dell’Amministrazione, notoriamente effettuata con criteri eminentemente fiduciari basati sull’intuitus personae e attraverso atti di alta amministrazione connotati da amplissima discrezionalità; è stato affermato, al riguardo, che:
   - “Se pure, in linea generale, le designazioni degli organi di vertice delle Amministrazioni si configurano come provvedimenti da adottare in base a criteri eminentemente fiduciari, riconducibili nell'ambito degli atti di alta amministrazione, in quanto sono espressione della potestà di indirizzo e di governo delle autorità preposte alle Amministrazioni stesse, si deve osservare nondimeno che il singolo provvedimento di nomina deve esporre le ragioni che hanno condotto alla nomina di uno di essi, comportando una scelta nell'ambito di una categoria di determinati soggetti in possesso di titoli specifici. In altre parole, la motivazione della scelta -sia pure effettuata latamente "intuitu personae"- deve comunque ancorarsi all'esito di un apprezzamento complessivo del candidato, in modo che possa dimostrarsi la ragionevolezza della scelta effettuata che non può logicamente esaurirsi nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti dalla legge ma che importa articolate, delicate e talvolta addirittura sfumate valutazioni sulla stessa personalità dei candidati, sulle loro capacità organizzative, sul loro prestigio personale e sul prestigio che eventualmente hanno già conferito agli uffici precedentemente ricoperti e che astrattamente sono in grado di assicurare a quello da ricoprire" (TAR Salerno, sez. II, 18.03.2019 n. 406; TAR Lazio-Roma, Sez. I, 05/03/2012, n. 2223; conf. Cons. Stato, sez. V, 15.11.2016, n. 4718).
4.4. Se la necessità di una penetrante motivazione è stata affermata, in giurisprudenza, per la scelta degli organi di vertice dell'Amministrazione, a fortiori la stessa deve ritenersi imprescindibile allorquando si tratti di nominare gli esperti di una commissione tecnica che s'inserisce, sia pur con criteri d'elevata professionalità e competenza, nell'ambito dell'esercizio delle ordinarie funzioni amministrative attribuite all'ente locale nello specifico settore della tutela del paesaggio; in sostanza, se persino gli atti di alta amministrazione a valenza fiduciaria non possono essere ritenuti avulsi dal rispetto dell'obbligo di una motivazione, congruente con la natura degli atti medesimi, e se non residua, quindi, più alcuno spazio per i provvedimenti amministrativi cd. a motivo libero (id est, espressione di discrezionalità assoluta), ne consegue che ogni qual volta, come nella specie, si tratti d'effettuare una scelta tra più candidati, ognuno dei quali dotato di specifiche competenze ed attitudini a ricoprire l'incarico (come emergenti dai rispettivi curricula) -incarico, si ripete, compreso nell'ambito delle ordinarie attribuzioni dell'ente locale, sia pur di natura settoriale- non può prescindersi, a maggior ragione, da una motivazione, di tipo analitico-comparativo, tendente all'emersione delle ragioni della scelta di uno o più candidati in questione, e dalla quale, in particolare, s'evincano le ragioni per le quali i medesimi siano stati considerati i più adatti a rivestire la medesima carica (in tal senso, cfr. TAR Salerno, sez. II, 18.03.2019 n. 406).
4.5. Nel caso di specie, la valutazione comparativa dei curricula dei cinque candidati è mancata del tutto, o quantomeno la stessa, ove mai effettuata, non è stata evidenziata in motivazione, tant’è che la stessa difesa del Comune ha ammesso trattarsi di una motivazione “criptica”.
4.6. Una motivazione criptica è di per sé una motivazione illegittima perché contraddice la funzione essenziale attribuitale dall’ordinamento, che è quella di indicare (in modo comprensibile) “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria” (art. 3 L. 241/1990).
4.7. Trattandosi di un principio generale applicabile nei più disparati settori in cui si esplica l’azione amministrativa, appare del tutto irrilevante la circostanza, dedotta dalla difesa del Comune, che nel caso di specie non si sia trattato di una gara d’appalto o di un concorso preordinato all’assunzione di un dipendente del Comune; tanto più che, nel caso della nomina della commissione locale per il paesaggio, la necessità di una “comparazione dei curricula delle candidature presentate” è stata esplicitata dalla giunta regionale all’atto di dettare, con citata la D.G.R. 06.08.2008 n. 8/7977, i “criteri per la verifica, nei soggetti delegati all’esercizio della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio, della sussistenza dei requisiti di organizzazione e di competenza tecnico scientifica”.
4.8. Gli ulteriori argomenti addotti dalla difesa comunale (in particolare in relazione all’asserita assenza in capo alla ricorrente di specifica esperienza in materia di progettazione, direzione lavori, componente di commissioni edilizie e/o del paesaggio, a differenza dei tre soggetti selezionati) costituiscono motivazione postuma del provvedimento, che va dichiarata inammissibile sulla scorta di noti principi giurisprudenziali (TAR Milano, sez. II, 11/02/2021, n. 388; Consiglio di Stato, sez. III, 29/09/2020, n. 5719).
5. Con il secondo motivo, la parte ricorrente ha dedotto l’illegittimità del provvedimento impugnato in ragione della sussistenza di una stabile, potenziale, situazione di conflitto di interessi, o comunque l’assenza di una situazione di imparzialità del presidente arch. Fa., in ragione dei rapporti personali e professionali intercorrenti tra il medesimo e l’arch. Ca., Responsabile del settore Edilizia e Urbanistica del Comune di Paratico e titolare delle competenze in materia di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica; inoltre, ha dedotto l’assenza dei requisiti in capo all’arch. Mi., in quanto titolare di uno studio professionale ma cancellato dall’Ordine degli Architetti di Brescia e in quanto tale privo di “abilitazione all’esercizio della professione”, prescritta quale requisito di partecipazione sia dall’Avviso di selezione che dai criteri regionali.
Il Collegio osserva che la censura non può essere condivisa.
5.1. La situazione di conflitto di interessi, anche solo potenziale, in capo al presidente della commissione arch. Fa. viene desunta da parte ricorrente dalla circostanza che, in un altro comune (Erbusco), egli ricoprirebbe, quale Responsabile dell’Area Tecnica, una posizione subordinata rispetto al sindaco arch. Ca., ossia rispetto alla stessa persona che, nel Comune di Paratico, ricopre il ruolo di Responsabile del Settore Edilizia e Urbanistica e che, in quanto tale, è deputata all’adozione degli atti di autorizzazione paesaggistica.
5.2. L’argomento, osserva il Collegio, non può essere condiviso, dal momento che nel Comune di Erbusco l’arch. Fa. non ricopre alcun ruolo subordinato rispetto al sindaco all’arch. Ca., svolgendo invece funzioni di responsabilità gestionale in situazione di piena autonomia rispetto all’organo politico, secondo principi generali evincibili dall’art. 107 del d.lgs. 267/2000.
5.3. Non appare quindi ipotizzabile, se non sulla base di mere congetture giuridicamente irrilevanti, alcun rapporto di soggezione del primo nei confronti del secondo, che possa far dubitare dell’imparzialità dell’arch. Fa. nell’esercizio delle funzioni di presidente della Commissione locale per il Paesaggio di Paratico; tanto più che, secondo la giurisprudenza, l’esistenza di una situazione di conflitto di interessi degli amministratori pubblici deve essere provata in concreto con riferimento a situazioni specifiche, dimostrando la sussistenza di un nesso teleologico tra il contenuto del singolo provvedimento e l’interesse personale dell’amministratore, mentre invece nel caso di specie essa viene predicata in astratto e sulla base di presupposti del tutto ipotetici e indimostrati.
5.4. Quanto all’arch. Mi., è sufficiente osservare che l’abilitazione all’esercizio della professione è stata richiesta dall’Avviso di selezione, conformemente ai criteri regionali, quale requisito per la nomina come “presidente” della commissione e non per la nomina quale semplice “componente esperto” (qual è il Mi.).
6. Infine, con il terzo motivo la parte ricorrente ha dedotto la violazione del principio di rotazione, sul rilievo che due dei tre componenti nominati (l’arch. Fa. e l’arch. Mi.) siedono nella medesima commissione rispettivamente da oltre 20 anni e da oltre 10 anni; ha richiamato i principi affermati nel Piano Nazionale Anticorruzione 2016 approvato dall’ANAC con delibera n. 831 del 03.08.2016.
6.1. La difesa comunale ha replicato che tale principio troverebbe applicazione soltanto in tema di affidamenti di contratti e non in tema di esercizio di funzioni (non retribuite) come quelle per cui è causa.
6.2. Il Collegio osserva che la censura è fondata negli stretti limiti qui di seguito precisati.
Il Piano Nazionale Anticorruzione è “atto generale di indirizzo” rivolto a tutte le amministrazioni che adottano i PTPC (Piani Triennali per la Prevenzione della Corruzione), soggetti a vigilanza dell’ANAC, che all’occorrenza può adottare raccomandazioni o ordini nei confronti di singole amministrazioni.
La rotazione del personale è uno dei criteri organizzativi previsti per prevenire la corruzione, ma è riferita alle modalità di impiego dei “dipendenti” e del “personale”; si tratta, in ogni caso, di un criterio organizzativo “di indirizzo”, e cioè tendenziale e non vincolante, che di massima non è applicabile a quei ruoli tecnici che, come nel caso della Commissione locale per il Paesaggio, vengano affidati a soggetti esterni all’amministrazione, selezionati sulla base di criteri di capacità tecnica e all’esito di valutazione comparativa di merito; in tal caso, infatti, la selezione comparativa effettuata dall’amministrazione sulla base di criteri predeterminati dovrebbe essere sufficiente garanzia di imparzialità della nomina.
Peraltro, nel caso in cui, all’esito della selezione comparativa dei vari candidati, l’amministrazione si trovi ad aver valutato più candidati in modo sostanzialmente equipollente e paritetico, e debba operare una scelta tra i medesimi, principi generali di buona amministrazione e di imparzialità possono rendere opportuno che la scelta tra i candidati sia effettuata attribuendo motivata e favorevole rilevanza anche alla circostanza che uno di questi non abbia mai svolto quella specifica funzione presso il Comune procedente, rispetto ai componenti uscenti della commissione oggetto di selezione, soprattutto se questi ultimi ne abbiano fatto parte per un lungo periodo.
7. In definitiva, alla luce delle considerazioni di cui sopra, il ricorso è fondato e va accolto nei sensi e nei limiti sopra specificati, con il conseguente annullamento della delibera della giunta comunale di Paratico n. 107 del 17.09.2019.
7.1. Per l’effetto, in esecuzione della presente sentenza, la giunta comunale di Paratico procederà, nel termine di giorni 30 (trenta) dalla comunicazione del presente provvedimento, a rinnovare la nomina dei componenti della Commissione locale per il Paesaggio attraverso una valutazione comparativa dei curricula dei cinque candidati, concludendo tale procedimento con un provvedimento espresso adeguatamente motivato in ordine alle ragioni della preferenza accordata ai candidati prescelti rispetto a quelli pretermessi, conformandosi alle precedenti statuizioni (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 06.05.2021 n. 410 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Sull'annullamento della designazione a componente esperto della Commissione locale per il paesaggio nella materia della “legislazione dei beni culturali” per difetto di motivazione.
I motivi di appello non possono essere accolti alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza che il Collegio condivide e a cui intende dare continuità.
È stato, infatti, affermato al riguardo (cfr. Cons. di Stato, 15.11.2016, n. 4718, relativo alla nomina del difensore civico regionale) che la fiduciarietà connotante il provvedimento di nomina “è caratteristica che non dispensa l’amministrazione procedente dall’obbligo di esplicitare le ragioni che l’hanno indotta a privilegiare, tra più candidati, un aspirante rispetto agli altri”. È stato altresì statuito che, seppur non occorra “una rigorosa comparazione tra i requisiti dei singoli candidati, con conseguente motivazione puntuale e specifica, come se si trattasse di un procedimento concorsuale”, il provvedimento di nomina deve comunque “dar conto del fatto che i differenti requisiti di competenza, esperienza e professionalità siano stati valutati in relazione al fine da perseguire”.
In quella fattispecie, analoga a quella del presente giudizio, fu ritenuto perciò fondato il motivo con cui si allegava l’inadeguatezza motivazionale del decreto impugnato “nella prospettiva della mancata “comparazione” (in senso atecnico) tra i requisiti di competenza, esperienza e professionalità posseduti” dai candidati, limitandosi il provvedimento alla mera enunciazione del curriculum del nominato, recante peraltro titoli almeno in parte contestati, poiché il provvedimento di nomina nemmeno consentiva “una sommaria raffrontabilità dei requisiti di competenza giuridico-amministrativa dei candidati alla carica”.
---------------
Come bene ritenuto dal primo giudice, la delibera gravata difetta di qualsivoglia motivazione, a sostegno della designazione del controinteressato, quale esperto in “legislazione dei beni culturali”.
Al riguardo osserva il Collegio che il profilo della valutazione tra i candidati discende dalle previsioni legislative applicabili, per le quali le Commissioni Locali per il Paesaggio -che trovano il proprio fondamento normativo nell’art. 9 della Costituzione (a mente del quale “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”)– “sono composte da soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio” (art. 148, comma 2, D.Lgs. n. 42 del 2004 Codice dei beni culturali e del paesaggio).
Ed infatti, in primo luogo, l’art. 146, comma 6, D.Lgs. n. 42 del 2004 dello stesso Codice, nel prevedere la delega ai Comuni dell’esercizio del potere e della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio, precisa che ciò può avvenire “purché gli Enti destinatari della delega dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche, nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia.”.
Dal canto suo, la legge regionale Campania 23.02.1982, n. 10 (recante direttive per l’esercizio delle funzioni amministrative sub delegate dalla Regione ai Comuni), richiamata dall’appellante, all’Allegato I, prevede che l'Ente sub-delegato in materia provvede alla costituzione di un organismo tecnico-amministrativo “tra esperti in materia urbanistica, beni ambientali, storia dell'arte, geografia, discipline agricolo-forestali, naturalistiche, storiche, pittoriche ed arti figurative e legislazione beni culturali”.
Non pare poi superfluo rammentare che l’art. 3, comma 2, del Regolamento della Commissione locale per il paesaggio richiama per la nomina dei componenti la Commissione la “procedura ad evidenza pubblica” (avviata a mezzo di specifico avviso di selezione, da pubblicizzarsi con le modalità e le forme ivi indicate), ribadendo altresì al precedente comma 1 che i membri che la compongono devono essere scelti e nominati tra soggetti esperti “con particolare, pluriennale e qualificate esperienza nelle suddette specifiche materie, maturate nell’ambito della libera professione o in qualità di pubblico dipendente” ed “in modo da coprire tutte le competenze e professionalità, come richiesto dalle norme di legge”. Inoltre, il bando ha stabilito pure che: “Compete alla Commissione Straordinaria … la nomina dei cinque componenti esperti scelti sulla base del proprio curriculum da allegare al provvedimento deliberativo”, precisando che ai fini della nomina, valgono titoli preferenziali, tra cui l’essere esperti in “legislazione dei beni culturali”.
---------------
Nessuno degli assunti del Comune appellante, ritiene il Collegio, può essere condiviso.
Rileva infatti la violazione delle disposizioni sia di legge (nazionale e regionale), intese ad assicurare le giuste professionalità (“soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio” ex art. 148 D.Lgs. n. 42/2004), sia di quelle dettate dal Regolamento interno e dall’Avviso pubblico, protese a garantire che, in sede di “vaglio delle candidature”, si faccia in modo che le competenze e professionalità nella Commissione Locale Paesaggio “siano armonicamente equilibrate per garantire una interdisciplinarietà come previsto dalla LR 10/1982 e dalla circolare regionale” (cfr.: Regolamento e Avviso pubblico).
Alla luce della su indicata normativa applicabile, sono dunque corrette e meritano conferma le statuizioni di prime cure che, sulla base di una puntuale analisi del testo della delibera impugnata, hanno rilevato come “la designazione dell’esperto nella materia di interesse è stata compiuta senza l’esplicitazione della benché minima giustificazione, circa la sua idoneità a ricoprire l’incarico in questione, nonché senza alcuna valutazione delle sue specifiche competenze, ovvero delle professionalità acquisite, quali ricavabili dal curriculum presentato, e, ancora, senza l’espressione d’alcun giudizio, di tipo analitico–comparativo, rispetto ai curricula ed alle specifiche competenze e professionalità degli altri professionisti che, come il ricorrente, avevano manifestato il loro interesse, a rivestire la carica di componente della Commissione Locale per il Paesaggio, in qualità di esperti in “legislazione dei beni culturali”.
Ritiene il Collegio che un tale modo di operare si ponga in contrasto con l’obbligo generale di motivazione degli atti amministrativi, sancito dall’art. 3 della l. 07.08.1990, n. 241, che, al comma 2, introduce un’espressa eccezione alla necessità della motivazione per i soli atti normativi e per quelli a contenuto generale; per il resto la motivazione è requisito indispensabile di ogni atto amministrativo, quale fattore di esternazione dell’iter logico delle determinazioni assunte dall’Amministrazione in esercizio di poteri discrezionali, ai fini della tutela in giustizia.
Su queste premesse, correttamente il primo giudice ha concluso che il singolo provvedimento di nomina, anche se adottato in base a criteri eminentemente fiduciari, deve esporre le ragioni che hanno condotto alla nomina di uno di essi, comportando una scelta nell'ambito di una categoria di determinati soggetti in possesso di titoli specifici. La motivazione della scelta -sia pure effettuata latamente "intuitu personae"- deve comunque ancorarsi all'esito di un apprezzamento complessivo del candidato, in modo che possa dimostrarsene la ragionevolezza: tale scelta non può, per il vero, esaurirsi nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti dalla legge; essa importa articolate e talvolta complesse valutazioni sulla stessa personalità dei candidati, sulle loro capacità organizzative, sul loro prestigio personale (che hanno già conferito agli uffici precedentemente ricoperti e che sono in grado di assicurare a quello da ricoprire). Pertanto, come chiarito dalla giurisprudenza in tema di nomina di funzionari onorari, il provvedimento di nomina deve dar conto del fatto che i differenti requisiti di competenza, esperienza e professionalità siano stati valutati in relazione al fine da perseguire.
In definitiva, sono corrette e condivisibili le statuizioni della sentenza laddove evidenzia che –se anche per gli atti di alta amministrazione a valenza fiduciaria non è affatto escluso l'obbligo di motivazione appropriato e coerente alla natura degli atti medesimi- tanto più non può prescindersi da una motivazione, di tipo analitico–comparativo, dalla quale s’evincano le ragioni della maggiore idoneità del designato a rivestire la carica ogni qual volta, come nella specie, si tratti d’effettuare una scelta tra più candidati, ognuno dei quali dotato di specifiche competenze e attitudini a ricoprire l’incarico cui aspira, compreso nell’ambito delle ordinarie attribuzioni dell’ente locale. Come precisato in giurisprudenza, infatti, anche nel caso in esame trova spazio una tipica fase procedimentale amministrativa, volta alla “verifica dell’esperienza e della capacità professionale” di coloro che hanno ritenuto di dover rispondere all’avviso pubblico, destinata a sfociare in una scelta motivata della persona da designare.
L’eccepita infondatezza della censura di difetto di motivazione non può allora nemmeno farsi discendere, come sostiene il Comune, dalla precisazione, contenuta nell’avviso pubblico, “che non veniva indetta alcuna procedura concorsuale, para-concorsuale, gara di appalto o trattativa privata” e che, di conseguenza, “non sarebbe stata stilata alcuna graduatoria, né attribuiti punteggi o classificazioni di merito”, né ancora dalla considerazione che il richiesto “curriculum vitae” aveva “il solo scopo di manifestare la disponibilità all’assunzione della nomina”: le suddette precisazioni, ritiene il Collegio, non possono incidere, in alcun modo, sulla necessità, sopra evidenziata, di rispettare, comunque, il generale canone della motivazione degli atti amministrativi.
Del resto, la precisazione contenuta nell’avviso pubblico è anche intrinsecamente contraddittoria: vi era specificato che il curriculum vitae aveva il fine di verificare, nei candidati, “il possesso delle condizioni richieste”, espressione che di suo implica l’effettuazione di un’analisi dei curricula medesimi, tendente a verificare l’idoneità dei candidati a svolgere le funzioni connesse all’espletamento dell’incarico.
È altresì destituita di fondamento, oltre che irrilevante per le ragioni anzidette, l’argomento concernente l’asserita acquiescenza che il candidato odierno avrebbe prestato alle disposizioni in parte qua del bando nella manifestazione d’interesse all’assunzione dell’incarico: a prescindere dall’impossibilità di opinare alcuna interferenza della precisazione suddetta sull’obbligo generale di motivazione di cui all’art. 3 della l. 241/1990, l’originario ricorrente ha comunque specificamente impugnato le disposizioni del bando in parola sia per violazione dell’obbligo generale di motivazione sia con riferimento all’art. 3 del citato Regolamento che per la nomina della Commissione locale per il paesaggio prevede la “procedura ad evidenza pubblica”.
In definitiva, per le ragioni esposte anche l’effettuazione di un’adeguata istruttoria da parte della Commissione straordinaria rimane confinata a mera affermazione di principio, come pure infondata è la tesi del Comune appellante secondo cui il giudizio formulato dalla Commissione Straordinaria “avrebbe comportato una valutazione essenzialmente qualitativa della preparazione dei candidati”.
Ne segue che non è decisiva la modalità del voto (richiamata col primo motivo di gravame) che non può di suo elidere i criteri di trasparenza e di adeguatezza della scelta rispetto ai parametri stabiliti ex lege e ripetuti, a monte della procedura, dal Comune di Scafati nei propri atti e parimenti è infondato anche il secondo motivo di appello sulla insidacabilità da parte del giudice amministrativo della nomina dei componenti della Commissione locale per il paesaggio. Al riguardo si osserva che, se, per un verso, non può prescindersi dalla comparazione tra le professionalità degli interessati, previo accertamento dei requisiti richiesti, e dalla conseguente motivazione della designazione effettuata tra le plurime candidature, per altro verso, per la giurisprudenza, il giudice amministrativo può legittimamente sindacare le valutazioni tecnico-discrezionali della Pubblica Amministrazione se viziate da eccesso di potere per difetto di motivazione
---------------

... per la riforma della
sentenza 18.03.2019 n. 406 del Tribunale amministrativo regionale per la Campania - Sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda), resa tra le parti;
...
5. - L’appello è infondato e va respinto.
6. - L’appello dell’Amministrazione comunale contesta la sentenza che ha annullato la designazione a componente esperto della Commissione locale per il paesaggio nella materia della “legislazione dei beni culturali” per difetto di motivazione.
7. - L’ente, con l’avviso pubblico del 09.10.2018, aveva indicato le modalità di svolgimento della procedura di nomina degli esperti, nel rispetto delle norme di legge (il d.lgs. n. 42 del 2004; le leggi regionali della Campania 22.12.2004, n. 16 “Norme sul governo del territorio” e 23.02.1982, n. 10 “Indirizzi programmatici e direttive fondamentali per l’esercizio delle deleghe ai sensi dell’art. 1 della L.R. 65/1981”), nonché dei principi costituzionali di trasparenza e legalità.
7.1. Nell’avviso pubblico il Comune aveva chiesto una manifestazione d’interesse, ai fini della nomina a componente della Commissione; e precisava che non veniva indetta alcuna procedura concorsuale, para-concorsuale, gara di appalto o trattativa privata; di conseguenza non sarebbe stata stilata una graduatoria, né attribuiti punteggi o classificazioni di merito, avendo il curriculum vitae il solo scopo di “manifestare la disponibilità all’assunzione della nomina, il possesso delle condizioni richieste e la conoscibilità dei soggetti disponibili ad assumere l’incarico”.
7.2. A tali regole l’appellato avrebbe prestato acquiescenza, dichiarando nella manifestazione d’interesse di aver preso visione integrale e acquisito piena conoscenza dell’avviso pubblico.
7.3. Il Comune, con il primo motivo di appello, evidenzia che la delibera è stata adottata ai sensi dell’art. 43 del Regolamento delle Adunanze consiliari del Comune di Scafati, approvato con deliberazione di Consiglio Comunale n. 60 del 29.10.2012 (e richiamato altresì dallo Statuto Comunale), a mente del quale “Le votazioni relative a nomine di rappresentanti del Comune, di competenza del Consiglio Comunale, in commissioni, enti, Società od Istituzioni, avverranno a scrutinio segreto”. Per il Comune ne deriva che non poteva essere svolta una comparazione tra le candidature, dovendo la scelta degli esperti avvenire, con voto limitato della Commissione straordinaria (con i poteri del Consiglio Comunale), ovvero in seguito alla votazione di un solo membro tra tutti i profili pervenuti.
7.4. La sentenza poi non avrebbe considerato che la delibera manifesta un’attività amministrativa di natura discrezionale: l’atto di nomina a componente della Commissione locale per il paesaggio è di sola competenza dell’organo deliberativo dell’ente locale (la Commissione straordinaria nominata ai sensi dell'art. 144 del d.lgs. n. 267 del 2000, con i poteri del Consiglio comunale), che può assolvere all'obbligo di motivazione sulla base di ampie valutazioni di opportunità.
7.5. Per il Comune, difettano poi i sintomi dell’eccesso di potere circa le valutazioni tecnico-discrezionali (valutazioni qualitative della preparazione dei candidati) e la sentenza fuoriesce dai limiti della giurisdizione, contro il principio di separazione dei poteri.
7.6. La sentenza poi, per il Comune, riporta orientamenti (in materia di atti di alta amministrazione a valenza fiduciaria) relativi a fattispecie estranee.
7.7. Il Comune aggiunge, infine, che sussisterebbe comunque una motivazione sostanziale dell’atto impugnato: al riguardo, rammenta l’appellante, la giurisprudenza ha chiarito che l’obbligo di motivazione -da intendersi in senso non meramente formale, ma funzionale- è rispettato se l'atto reca l'esternazione del percorso logico-giuridico seguito dall'amministrazione per giungere alla decisione adottata e il destinatario è in grado di comprenderne le ragioni e, conseguentemente, di utilmente accedere alla tutela giurisdizionale, in conformità ai principi di cui agli artt. 24 e 113 Cost.
8. I motivi di appello così sintetizzati non possono essere accolti alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza che il Collegio condivide e a cui intende dare continuità.
8.1. È stato, infatti, affermato al riguardo (cfr. Cons. di Stato, 15.11.2016, n. 4718, relativo alla nomina del difensore civico regionale) che la fiduciarietà connotante il provvedimento di nomina “è caratteristica che non dispensa l’amministrazione procedente dall’obbligo di esplicitare le ragioni che l’hanno indotta a privilegiare, tra più candidati, un aspirante rispetto agli altri”. È stato altresì statuito che, seppur non occorra “una rigorosa comparazione tra i requisiti dei singoli candidati, con conseguente motivazione puntuale e specifica, come se si trattasse di un procedimento concorsuale”, il provvedimento di nomina deve comunque “dar conto del fatto che i differenti requisiti di competenza, esperienza e professionalità siano stati valutati in relazione al fine da perseguire”.
In quella fattispecie, analoga a quella del presente giudizio, fu ritenuto perciò fondato il motivo con cui si allegava l’inadeguatezza motivazionale del decreto impugnato “nella prospettiva della mancata “comparazione” (in senso atecnico) tra i requisiti di competenza, esperienza e professionalità posseduti” dai candidati, limitandosi il provvedimento alla mera enunciazione del curriculum del nominato, recante peraltro titoli almeno in parte contestati, poiché il provvedimento di nomina nemmeno consentiva “una sommaria raffrontabilità dei requisiti di competenza giuridico-amministrativa dei candidati alla carica”.
8.2. E questo è il caso di specie.
Come bene ritenuto dal primo giudice la delibera gravata difetta di qualsivoglia motivazione, a sostegno della designazione del controinteressato, quale esperto in “legislazione dei beni culturali”.
8.3. Al riguardo osserva il Collegio che il profilo della valutazione tra i candidati discende dalle previsioni legislative applicabili, per le quali le Commissioni Locali per il Paesaggio -che trovano il proprio fondamento normativo nell’art. 9 della Costituzione (a mente del quale “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”)– “sono composte da soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio” (art. 148, comma 2, D.Lgs. n. 42 del 2004 Codice dei beni culturali e del paesaggio).
Ed infatti, in primo luogo, l’art. 146, comma 6, D.Lgs. n. 42 del 2004 dello stesso Codice, nel prevedere la delega ai Comuni dell’esercizio del potere e della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio, precisa che ciò può avvenire “purché gli Enti destinatari della delega dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche, nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia.”.
Dal canto suo, la legge regionale Campania 23.02.1982, n. 10 (recante direttive per l’esercizio delle funzioni amministrative sub delegate dalla Regione ai Comuni), richiamata dall’appellante, all’ Allegato I, prevede che l'Ente sub-delegato in materia provvede alla costituzione di un organismo tecnico-amministrativo “tra esperti in materia urbanistica, beni ambientali, storia dell'arte, geografia, discipline agricolo-forestali, naturalistiche, storiche, pittoriche ed arti figurative e legislazione beni culturali”.
Non pare poi superfluo rammentare che l’art. 3, comma 2, del Regolamento della Commissione locale per il paesaggio richiama per la nomina dei componenti la Commissione la “procedura ad evidenza pubblica” (avviata a mezzo di specifico avviso di selezione, da pubblicizzarsi con le modalità e le forme ivi indicate), ribadendo altresì al precedente comma 1 che i membri che la compongono devono essere scelti e nominati tra soggetti esperti “con particolare, pluriennale e qualificate esperienza nelle suddette specifiche materie, maturate nell’ambito della libera professione o in qualità di pubblico dipendente” ed “in modo da coprire tutte le competenze e professionalità, come richiesto dalle norme di legge”. Inoltre, il bando ha stabilito pure che: “Compete alla Commissione Straordinaria … la nomina dei cinque componenti esperti scelti sulla base del proprio curriculum da allegare al provvedimento deliberativo”, precisando che ai fini della nomina, valgono titoli preferenziali, tra cui l’essere esperti in “legislazione dei beni culturali”.
8.4. Tanto premesso, nessuno degli assunti del Comune appellante, ritiene il Collegio, può essere condiviso.
Rileva infatti la violazione delle disposizioni sia di legge (nazionale e regionale), intese ad assicurare le giuste professionalità (“soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio” ex art. 148 D.Lgs. n. 42/2004), sia di quelle dettate dal Regolamento interno e dall’Avviso pubblico, protese a garantire che, in sede di “vaglio delle candidature”, si faccia in modo che le competenze e professionalità nella Commissione Locale Paesaggio “siano armonicamente equilibrate per garantire una interdisciplinarietà come previsto dalla LR 10/1982 e dalla circolare regionale” (cfr.: Regolamento e Avviso pubblico).
Alla luce della su indicata normativa applicabile, sono dunque corrette e meritano conferma le statuizioni di prime cure che, sulla base di una puntuale analisi del testo della delibera impugnata, hanno rilevato come “la designazione dell’esperto nella materia di interesse è stata compiuta, dalla Commissione Straordinaria, senza l’esplicitazione della benché minima giustificazione, circa la sua idoneità a ricoprire l’incarico in questione, nonché senza alcuna valutazione delle sue specifiche competenze, ovvero delle professionalità acquisite, quali ricavabili dal curriculum presentato, e, ancora, senza l’espressione d’alcun giudizio, di tipo analitico–comparativo, rispetto ai curricula ed alle specifiche competenze e professionalità degli altri professionisti che, come il ricorrente, avevano manifestato il loro interesse, a rivestire la carica di componente della Commissione Locale per il Paesaggio, in qualità di esperti in “legislazione dei beni culturali” (in totale, come si ricava dall’elenco, contenuto nella proposta di deliberazione de qua, sette professionisti, compresi il ricorrente e il controinteressato)”.
8.5. Ritiene il Collegio che un tale modo di operare si ponga in contrasto con l’obbligo generale di motivazione degli atti amministrativi, sancito dall’art. 3 della l. 07.08.1990, n. 241, che, al comma 2, introduce un’espressa eccezione alla necessità della motivazione per i soli atti normativi e per quelli a contenuto generale; per il resto la motivazione è requisito indispensabile di ogni atto amministrativo, quale fattore di esternazione dell’iter logico delle determinazioni assunte dall’Amministrazione in esercizio di poteri discrezionali, ai fini della tutela in giustizia.
8.5.1. Su queste premesse, correttamente il primo giudice ha concluso che il singolo provvedimento di nomina, anche se adottato in base a criteri eminentemente fiduciari, deve esporre le ragioni che hanno condotto alla nomina di uno di essi, comportando una scelta nell'ambito di una categoria di determinati soggetti in possesso di titoli specifici. La motivazione della scelta -sia pure effettuata latamente "intuitu personae"- deve comunque ancorarsi all'esito di un apprezzamento complessivo del candidato, in modo che possa dimostrarsene la ragionevolezza: tale scelta non può, per il vero, esaurirsi nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti dalla legge; essa importa articolate e talvolta complesse valutazioni sulla stessa personalità dei candidati, sulle loro capacità organizzative, sul loro prestigio personale (che hanno già conferito agli uffici precedentemente ricoperti e che sono in grado di assicurare a quello da ricoprire). Pertanto, come chiarito dalla giurisprudenza in tema di nomina di funzionari onorari, il provvedimento di nomina deve dar conto del fatto che i differenti requisiti di competenza, esperienza e professionalità siano stati valutati in relazione al fine da perseguire.
8.6. In definitiva, sono corrette e condivisibili le statuizioni della sentenza laddove evidenzia che –se anche per gli atti di alta amministrazione a valenza fiduciaria non è affatto escluso l'obbligo di motivazione appropriato e coerente alla natura degli atti medesimi (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.10.2009, n. 6388)- tanto più non può prescindersi da una motivazione, di tipo analitico–comparativo, dalla quale s’evincano le ragioni della maggiore idoneità del designato a rivestire la carica ogni qual volta, come nella specie, si tratti d’effettuare una scelta tra più candidati, ognuno dei quali dotato di specifiche competenze e attitudini a ricoprire l’incarico cui aspira, compreso nell’ambito delle ordinarie attribuzioni dell’ente locale. Come precisato in giurisprudenza, infatti, anche nel caso in esame trova spazio una tipica fase procedimentale amministrativa, volta alla “verifica dell’esperienza e della capacità professionale” di coloro che hanno ritenuto di dover rispondere all’avviso pubblico, destinata a sfociare in una scelta motivata della persona da designare.
8.7. L’eccepita infondatezza della censura di difetto di motivazione non può allora nemmeno farsi discendere, come sostiene il Comune, dalla precisazione, contenuta nell’avviso pubblico, “che non veniva indetta alcuna procedura concorsuale, para concorsuale, gara di appalto o trattativa privata” e che, di conseguenza, “non sarebbe stata stilata alcuna graduatoria, né attribuiti punteggi o classificazioni di merito”, né ancora dalla considerazione che il richiesto “curriculum vitae” aveva “il solo scopo di manifestare la disponibilità all’assunzione della nomina”: le suddette precisazioni, ritiene il Collegio, non possono incidere, in alcun modo, sulla necessità, sopra evidenziata, di rispettare, comunque, il generale canone della motivazione degli atti amministrativi.
Del resto, la precisazione contenuta nell’avviso pubblico è anche intrinsecamente contraddittoria: vi era specificato che il curriculum vitae aveva il fine di verificare, nei candidati, “il possesso delle condizioni richieste”, espressione che di suo implica l’effettuazione di un’analisi dei curricula medesimi, tendente a verificare l’idoneità dei candidati a svolgere le funzioni connesse all’espletamento dell’incarico.
8.7.1. È altresì destituita di fondamento, oltre che irrilevante per le ragioni anzidette, l’argomento concernente l’asserita acquiescenza che il candidato odierno avrebbe prestato alle disposizioni in parte qua del bando nella manifestazione d’interesse all’assunzione dell’incarico: a prescindere dall’impossibilità di opinare alcuna interferenza della precisazione suddetta sull’obbligo generale di motivazione di cui all’art. 3 della l. 241/1990, l’originario ricorrente ha comunque specificamente impugnato le disposizioni del bando in parola sia per violazione dell’obbligo generale di motivazione sia con riferimento all’art. 3 del citato Regolamento che per la nomina della Commissione locale per il paesaggio prevede la “procedura ad evidenza pubblica”.
8.8. In definitiva, per le ragioni esposte anche l’effettuazione di un’adeguata istruttoria da parte della Commissione straordinaria rimane confinata a mera affermazione di principio, come pure infondata è la tesi del Comune appellante secondo cui il giudizio formulato dalla Commissione Straordinaria “avrebbe comportato una valutazione essenzialmente qualitativa della preparazione dei candidati”.
8.9. Ne segue che non è decisiva la modalità del voto (richiamata col primo motivo di gravame) che non può di suo elidere i criteri di trasparenza e di adeguatezza della scelta rispetto ai parametri stabiliti ex lege e ripetuti, a monte della procedura, dal Comune di Scafati nei propri atti e parimenti è infondato anche il secondo motivo di appello sulla insidacabilità da parte del giudice amministrativo della nomina dei componenti della Commissione locale per il paesaggio. Al riguardo si osserva che, se, per un verso, non può prescindersi dalla comparazione tra le professionalità degli interessati, previo accertamento dei requisiti richiesti, e dalla conseguente motivazione della designazione effettuata tra le plurime candidature, per altro verso, per la giurisprudenza, il giudice amministrativo può legittimamente sindacare le valutazioni tecnico-discrezionali della Pubblica Amministrazione se viziate da eccesso di potere per difetto di motivazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.04.2021 n. 3119 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Sulla nomina dell’esperto in “legislazione dei beni culturali” in seno alla "Commissione Locale per il Paesaggio" avvenuta senza la benché minima comparazione tra le varie candidature pervenute.
La designazione del controinteressato, quale esperto in "legislazione dei beni culturali", è stata compiuta senza l’esplicitazione della benché minima giustificazione, circa la sua idoneità a ricoprire l’incarico in questione, nonché senza alcuna valutazione delle sue specifiche competenze, ovvero delle professionalità acquisite, quali ricavabili dal curriculum presentato, e, ancora, senza l’espressione d’alcun giudizio, di tipo analitico–comparativo, rispetto ai curricula ed alle specifiche competenze e professionalità degli altri professionisti che, come il ricorrente, avevano manifestato il loro interesse, a rivestire la carica di componente della Commissione Locale per il Paesaggio, in qualità di esperti in “legislazione dei beni culturali”.
Un tale modo di operare, tuttavia, si pone, ad avviso del Collegio, in netto contrasto con l’obbligo generale di motivazione degli atti amministrativi, sancito dall’art. 3 della l. 241/1990, obbligo cui l’atto in questione, espressione di una scelta, esercitata dalla predetta Commissione nel contesto di poteri amministrativi ordinari, per quanto settoriali, non poteva evidentemente sottrarsi.
Viene in rilievo, a conforto di quanto sopra argomentato, la giurisprudenza seguente: “Se pure, in linea generale, le designazioni degli organi di vertice delle Amministrazioni si configurano come provvedimenti da adottare in base a criteri eminentemente fiduciari, riconducibili nell'ambito degli atti di alta amministrazione, in quanto sono espressione della potestà di indirizzo e di governo delle autorità preposte alle Amministrazioni stesse, si deve osservare nondimeno che il singolo provvedimento di nomina deve esporre le ragioni che hanno condotto alla nomina di uno di essi, comportando una scelta nell'ambito di una categoria di determinati soggetti in possesso di titoli specifici. In altre parole, la motivazione della scelta -sia pure effettuata latamente "intuitu personae"- deve comunque ancorarsi all'esito di un apprezzamento complessivo del candidato, in modo che possa dimostrarsi la ragionevolezza della scelta effettuata che non può logicamente esaurirsi nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti dalla legge ma che importa articolate, delicate e talvolta addirittura sfumate valutazioni sulla stessa personalità dei candidati, sulle loro capacità organizzative, sul loro prestigio personale e sul prestigio che eventualmente hanno già conferito agli uffici precedentemente ricoperti e che astrattamente sono in grado di assicurare a quello da ricoprire”.
E se la necessità di una penetrante motivazione è stata affermata, in giurisprudenza, per la scelta degli organi di vertice dell’Amministrazione, a fortiori la stessa è imprescindibile, allorquando si tratti di nominare gli esperti di una commissione che s’inserisce, sia pur con criteri d’elevata professionalità e competenza, nell’ambito dell’esercizio delle ordinarie funzioni amministrative, attribuite all’ente locale, nello specifico settore della tutela del paesaggio.
Si tenga presente, altresì, l’ulteriore massima che segue: “Alla luce dell'art. 3, comma 2, l. 07.08.1990, n. 241 (che introduce una espressa eccezione alla necessità della motivazione per i soli atti normativi e per quelli a contenuto generale), la motivazione è requisito indispensabile di ogni atto amministrativo, ivi compresi quelli consistenti in manifestazioni di giudizio interni a procedimenti concorsuali o para-concorsuali, nell’ambito dei quali, anzi, la motivazione svolge un precipuo ruolo pregnante, quale fattore di esternazione dell’iter logico delle determinazioni assunte dalle commissioni esaminatrici in esercizio dell’amplissima discrezionalità loro riconosciuta, ai fini dell’esercizio del diritto di difesa in giudizio. Di conseguenza anche per gli atti di alta amministrazione a valenza fiduciaria non è affatto escluso l'obbligo di motivazione, essendo chiuso nel sistema, dopo l'entrata in vigore della l. n. 241 del 1990, ogni spazio per la categoria dei provvedimenti amministrativi c.d. a motivo libero. Anche allorché, quindi, si debbano adottare atti di nomina di tipo fiduciario, l'Amministrazione deve indicare le qualità professionali sulla base delle quali ha ritenuto il soggetto più adatto rispetto agli obiettivi programmati, dimostrando di aver compiuto un'attenta e seria valutazione del possesso dei requisiti prescritti in capo al soggetto prescelto, sì che risulti la ragionevolezza della scelta”.
In sostanza, se persino “gli atti di alta amministrazione a valenza fiduciaria” non possono essere ritenuti avulsi dal rispetto dell’obbligo di una motivazione, congruente con la natura degli atti medesimi, e se non residua, quindi, più alcuno spazio per i provvedimenti amministrativi, cd. a motivo libero (id est, espressione di discrezionalità assoluta), ne consegue che ogni qual volta, come nella specie, si tratti d’effettuare una scelta tra più candidati, ognuno dei quali dotato di specifiche competenze ed attitudini a ricoprire l’incarico, cui aspira (come emergenti dai rispettivi curricula) –incarico, si ripete, compreso nell’ambito delle ordinarie attribuzioni dell’ente locale, sia pur di natura settoriale– non può prescindersi, a maggior ragione, da una motivazione, di tipo analitico–comparativo, tendente all’emersione delle ragioni della scelta di uno soltanto dei candidati in questione, e dalla quale, in particolare, s’evincano le ragioni per le quali lo stesso sia considerato il più adatto a rivestire la medesima carica.
---------------
Il Comune, costituitosi in giudizio, eccepisce l’inammissibilità e, comunque, sostiene l’infondatezza delle censure attoree, posto che:
   - nell’avviso pubblico, con il quale l’ente aveva chiesto una manifestazione d’interesse, ai fini della nomina a componente della Commissione Locale per il Paesaggio, nel rispetto del D.Lgs. 42/2004 e delle leggi regionali n. 16/2004 e 10/1982, era precisato che non veniva indetta alcuna procedura concorsuale, para-concorsuale, gara di appalto o trattativa privata e di conseguenza non sarebbe stata stilata alcuna graduatoria, né attribuiti punteggi o classificazioni di merito e che il richiesto curriculum vitae aveva “il solo scopo di manifestare la disponibilità all’assunzione della nomina, il possesso delle condizioni richieste e la conoscibilità dei soggetti disponibili ad assumere l’incarico”; inoltre,
   - nella domanda di manifestazione d’interesse, presentata e sottoscritta dal ricorrente, si leggeva testualmente: “(...) di aver preso visione integrale e acquisito piena conoscenza dell’avviso pubblico esplorativo per la presentazione delle candidature per selezione dei componenti della Commissione Locale per il paesaggio ed in particolare per quanto concerne la disciplina della composizione, durata, attribuzioni e funzionamento della Commissione e della determinazione stessa per quanto concerne le modalità e i criteri di selezione delle candidature, con accettazione delle condizioni ed impegni conseguenti (…)”.
Invero, la censura de qua non può affatto reputarsi inammissibile.
In particolare, l’eccepita inammissibilità non può farsi discendere dalla precisazione, contenuta nell’avviso pubblico, “che non veniva indetta alcuna procedura concorsuale, para concorsuale, gara di appalto o trattativa privata” e che, di conseguenza, “non sarebbe stata stilata alcuna graduatoria, né attribuiti punteggi o classificazioni di merito”, laddove il richiesto “curriculum vitae” aveva “il solo scopo di manifestare la disponibilità all’assunzione della nomina, il possesso delle condizioni richieste e la conoscibilità dei soggetti disponibili ad assumere l’incarico”.
Ciò, in quanto la suddetta precisazione non può incidere, in alcun modo, sulla necessità, sopra evidenziata, di rispettare, comunque, il generale canone della motivazione degli atti amministrativi, ogni qual volta si tratti di effettuare una selezione tra più aspiranti al medesimo incarico, per quanto fiduciario; del resto, la stessa precisazione è anche intimamente contraddittoria, nella misura in cui viene ivi specificato che il curriculum vitae tendeva al fine di verificare –nei candidati– “il possesso delle condizioni richieste”, espressione circa la quale non possono sorgere equivoci e che, di per se stessa, implica l’effettuazione di un’analisi dei curricula medesimi, tendente a controllare l’idoneità dei candidati a svolgere le funzioni, connesse all’espletamento dell’incarico.
Come precisato in giurisprudenza, infatti, anche nel caso in esame trova spazio una tipica fase procedimentale amministrativa, volta alla “verifica dell’esperienza e della capacità professionale” di coloro che hanno ritenuto di dover rispondere all’avviso pubblico, destinata a sfociare in una scelta motivata della persona da designare.
Ne deriva l’irrilevanza della circostanza per cui, nella manifestazione d’interesse, presentata dal ricorrente, si leggeva: “(...) di aver preso visione integrale e acquisito piena conoscenza dell’avviso pubblico esplorativo per la presentazione delle candidature per selezione dei componenti della Commissione Locale per il paesaggio”, e ciò proprio per le ragioni, dianzi esposte, dell’assoluta non interferenza della precisazione suddetta, con la disciplina generale, dettata dall’art. 3 della l. 241/1990.
Pertanto la convinzione, espressa dalla sua difesa del ricorrente, che il Comune avesse adottato l’atto gravato “solo a seguito di un’adeguata istruttoria, mediante l’esame e la verifica dei curricula inviati, dai quali certamente ha potuto verificare l’idoneità dei partecipanti”, assume piuttosto la valenza di un atto fideistico, posto che l’effettuazione di tale adeguata istruttoria non si ricava affatto, dagli atti a disposizione del Collegio.
---------------

... per l’annullamento, previa sospensione:
   A) della deliberazione della Commissione Straordinaria del Comune di Scafati n. 123 del 13.12.2018, successivamente conosciuta, nella parte in cui reca la nomina del componente esperto in “Legislazione Beni Culturali”;
   B) ove e per quanto occorra, dell’avviso pubblico prot. n. 53968 del 09.10.2018, per la presentazione delle candidature;
   C) di tutti gli atti demandati, in base alla delibera di cui sopra sub A), al Responsabile del Settore V, ove intervenuti e comunque mai comunicati né altrimenti conosciuti;
...
Il ricorrente, premesso che:
   - il Comune di Scafati, con atto prot. n. 53968 del 09.10.2018, pubblicava l’avviso “Candidature per la nomina dei membri della Commissione Locale per il Paesaggio” per 5 esperti nelle seguenti materie “a. beni ambientali; b. storia dell’arte, discipline pittoriche ed arti figurative; c. discipline agricole, forestali e naturalistiche; d. discipline storiche; e. legislazione dei beni culturali.”;
   - l’avviso disponeva che la nomina dei componenti sarebbe avvenuta, da parte della Commissione Straordinaria, con i poteri del Consiglio comunale, sulla base del curriculum presentato, prevedendo, tra l’altro, dei titoli preferenziali riferiti a: - professionisti iscritti agli Albi professionali; - professori, ricercatori e/o esperti in determinate materie tra cui “beni ambientali”, “beni culturali” e “legislazione dei beni culturali ambientali e paesaggistici”; - dipendenti pubblici responsabili di una struttura organizzativa per non meno di 3 anni in materia paesaggistica e ambientale;
   - essendo in possesso dei requisiti prescritti, presentava la propria candidatura il 15.10.2018 (prot. n. 55350), per esperto in “legislazione dei beni culturali”, allegando la documentazione richiesta, tra cui il curriculum vitae, ed indicando, come prescritto dall’avviso di partecipazione, quali titoli preferenziali: a) l’iscrizione all’Ordine degli Avvocati, b) la nomina di esperto di “legislazione dei beni culturali” nella CLP presso il Comune di Battipaglia, c) gli studi in diritto e legislazione ambientale per il diploma post-laurea presso la Scuola di specializzazione in “Diritto amministrativo e Scienza dell’Amministrazione” dell’Università Federico II di Napoli;
   - a seguito della delibera della Commissione Straordinaria n. 123 del 13.12.2018, di nomina dei 5 componenti della CLP, con istanza ex l. n. 241/1990 del 18.12.2018, chiedeva di avere copia: 1) dell’istanza di ammissione alla procedura, in una a tutti i documenti in essa allegati, del componente della CLP nominato quale esperto in “legislazione dei beni culturali”; 2) di tutti gli atti afferenti la valutazione comparativa all’uopo effettuata, ivi compresi quelli istruttori;
tanto premesso, e a seguito dell’accesso agli atti, in data 22.01.2019, riteneva che la delibera impugnata fosse palesemente illegittima, per i seguenti motivi:
I) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 146 E 148 D.LGS. 22.01.2004, N. 42; 3 DEL REGOLAMENTO PER LA COMMISSIONE LOCALE PER IL PAESAGGIO DEL COMUNE DI SCAFATI; 3, L. 07.08.1990 N. 241, 9 E 97 COST., 1 E SS. ALLEGATO 1 L.R.C. 23.02.1982, n. 10. ECCESSO DI POTERE PER CARENZA ASSOLUTA DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE, VIOLAZIONE DEL GIUSTO PROCEDIMENTO, ILLOGICITÀ E TRAVISAMENTO. SVIAMENTO:
   ● dalla documentazione acquisita in sede di accesso, che esibiva, risultava che la nomina dell’esperto in “legislazione dei beni culturali” era avvenuta, senza la benché minima comparazione tra le varie candidature pervenute; infatti, agli atti della pratica, mostrata in visione, risulta la sola delibera impugnata, che non reca alcuna ragione della scelta compiuta, sebbene nella materia prescelta dal ricorrente fossero state presentate 5 candidature; che, essendo noto l’avviso del G.A. secondo cui, anche in caso di nomina di componenti onorari, la procedura non si sottrae ad un’indefettibile comparazione tra i vari candidati, sulla scorta del rispettivo bagaglio professionale e di esternazione della motivazione circa la scelta, in concreto, effettuata (citava giurisprudenza a sostegno);
   ● si presentava, quindi, del tutto recessivo il “dato atto”, contenuto nella delibera impugnata, secondo cui l’avviso pubblico –che comunque impugnava– era finalizzato al solo scopo di “manifestare la disponibilità all’assunzione della nomina, il possesso dei requisiti, non essendo stata posta in essere alcuna procedura concorsuale, para-concorsuale, gara d’appalto o di graduatoria, attribuzione di punteggi o altre classificazioni di merito”, atteso che tale assunto non poteva assorbire –qualora inteso in termini di discrezionalità assoluta– l’onere, gravante sulla P.A., di dare contezza della scelta, in concreto effettuata;
   ● appariva, del resto, evidente anche il contrasto con il Regolamento che, all’art. 3, richiama per la nomina della C.L.P. la “procedura ad evidenza pubblica” (era citata ulteriore giurisprudenza, a conforto);
   ● per quanto riguardava poi, in particolare, il professionista prescelto, “questi oltre a non aver indicato alcun titolo preferenziale, dal suo curriculum si evince che è sostanzialmente versato nel settore edilizio e delle opere pubbliche, non offrendo alcun apprezzabile elemento di esperienza e/o valutazione nell’ambito della disciplina, per la quale ha proposto la candidatura, e più in generale, nella materia paesaggistica”; parimenti dicasi con riferimento agli incarichi assolti dal medesimo presso le PP.AA., quale componente di Commissioni edilizie ordinarie o di quelle ex l. n. 219/1981;
   ● pure, la delega della funzione autorizzatoria nella materia paesaggistica, ex art. 146, c. VI, D.Lgs. n. 42/2004, è espressamente condizionata alla circostanza che “(…) gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia”; e il ricorrente aveva, appunto, indicato e documentato sia i titoli preferenziali, sia il suo bagaglio professionale, versato nell’ambito sia della disciplina per la quale ha chiesto la nomina per la C.L.P., sia del più ampio settore giuridico-amministrativo in cui è naturalmente attratta la disciplina in parola; del resto, la disciplina, prescelta per la candidatura era la “Legislazione Beni Culturali”, la quale “appare propria del settore giuridico piuttosto che di quello tecnico-ingegneristico”, sicché, a fortiori, la scelta operata non poteva essere condivisa;
   ● veniva pertanto in rilievo “la violazione delle disposizioni sia di legge (nazionale e regionale), intese ad assicurare le giuste professionalità (“soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio”, ex art. 148 D.Lgs. n. 42/2004), sia di quelle dettate dal Regolamento interno e dall’Avviso pubblico, che ripetono pedissequamente dalle prime, intese “a garantire che, in sede di “vaglio delle candidature”, le competenze e professionalità nella C.L.P. “sono armonicamente equilibrate per garantire una interdisciplinarietà come previsto dalla LR 10/1982 e dalla circolare regionale” (cfr. Regolamento e Avviso pubblico)”.
Si costituiva in giudizio il Comune di Scafati, con memoria in cui eccepiva l’inammissibilità e, comunque, sosteneva l’infondatezza delle censure attoree, posto che nell’avviso pubblico del 09.10.2018, con il quale l’ente aveva chiesto una manifestazione d’interesse, ai fini della nomina a componente della Commissione Locale per il Paesaggio, nel rispetto del D.Lgs. 42/2004 e delle leggi regionali n. 16/2004 e 10/1982, era precisato che non veniva indetta alcuna procedura concorsuale, para-concorsuale, gara di appalto o trattativa privata e di conseguenza non sarebbe stata stilata alcuna graduatoria, né attribuiti punteggi o classificazioni di merito e che il richiesto curriculum vitae aveva “il solo scopo di manifestare la disponibilità all’assunzione della nomina, il possesso delle condizioni richieste e la conoscibilità dei soggetti disponibili ad assumere l’incarico”; inoltre, nella domanda di manifestazione d’interesse, presentata e sottoscritta dal ricorrente, si leggeva testualmente: “(...) di aver preso visione integrale e acquisito piena conoscenza dell’avviso pubblico esplorativo per la presentazione delle candidature per selezione dei componenti della Commissione Locale per il paesaggio ed in particolare per quanto concerne la disciplina della composizione, durata, attribuzioni e funzionamento della Commissione e della determinazione stessa per quanto concerne le modalità e i criteri di selezione delle candidature, con accettazione delle condizioni ed impegni conseguenti (…)”; era, quindi, “evidente che il Comune di Scafati, solo a seguito di un’adeguata istruttoria, mediante l’esame e la verifica dei curricula inviati, dai quali certamente ha potuto verificare l’idoneità dei partecipanti, e nel pieno dei propri poteri discrezionali ha adottato l’atto gravato”.
...
Fondata e dirimente, con assorbimento delle ulteriori doglianze, si presenta, in particolare, la censura, impingente nel difetto di qualsivoglia motivazione, a sostegno della designazione del controinteressato, quale esperto in “legislazione dei beni culturali”.
Se si scorre, infatti, il testo della deliberazione della Commissione Straordinaria del Comune di Scafati, oggetto di gravame, s’apprende che la stessa Commissione, agente con i poteri del Consiglio Comunale, “Dato atto (…) che alla scadenza dell’avviso pubblico, sulla scorta delle candidature pervenute, l’ufficio tecnico ha compiuto l’istruttoria delle domande ad ha predisposto l’elenco sulla base dei titoli dichiarati da ciascun partecipante distinti per categorie, come segue (omissis)”; “Ritenuto dover nominare i componenti della Commissione Locale per il Paesaggio con le modalità di cui alla citata Legge Regionale n. 10/1982 e come chiarito dalla Circolare esplicativa della Regione Campania prot. 2011.0602279 del 02.08.2011”, proponeva di deliberare “per le motivazioni di cui in premessa, parte integrante e sostanziale della seguente proposta di delibera;
   a) la costituzione della nuova Commissione Locale del Paesaggio, in sostituzione della precedente decaduta, secondo la composizione e i Criteri dettati dall’allegato I della L.R. 10/1982, la quale stabilisce, tra l’altro, la nomina di cinque membri esperti esterni in materia urbanistica, beni ambientali, storia dell’arte, geografia, discipline agricolo–forestali, naturalistiche, storiche, pittoriche ed arti figurative e legislazione beni culturali, e, per l’effetto,
   b) la nomina dei componenti della Commissione Locale per il Paesaggio, con le modalità di cui alla citata Legge Regionale n. 10/1982 e come chiarito dalla Circolare esplicativa della Regione Campania prot. 2011,0602279 del 02.08.2011, tra i soggetti ammessi alla procedura indicati in premessa
”;
quindi, sulla scorta di tale proposta, la Commissione medesima, sempre agente con i poteri del C.C., approvava la detta proposta di deliberazione (…) e per l’effetto nominava componenti della Commissione Locale per il Paesaggio, prevista dall’art. 148 del d.lgs. 42/2004 e ss. mm. ii., i seguenti professionisti esterni, ciascuno esperto nella materia, a fianco, riportata: (…) ing. Fr.Co.Ci. – esperto in materia “Legislazione Beni Culturali” (…).
Come può agevolmente notarsi, la designazione del controinteressato, quale esperto nella prefata materia, è stata compiuta, dalla Commissione Straordinaria, senza l’esplicitazione della benché minima giustificazione, circa la sua idoneità a ricoprire l’incarico in questione, nonché senza alcuna valutazione delle sue specifiche competenze, ovvero delle professionalità acquisite, quali ricavabili dal curriculum presentato, e, ancora, senza l’espressione d’alcun giudizio, di tipo analitico–comparativo, rispetto ai curricula ed alle specifiche competenze e professionalità degli altri professionisti che, come il ricorrente, avevano manifestato il loro interesse, a rivestire la carica di componente della Commissione Locale per il Paesaggio, in qualità di esperti in “legislazione dei beni culturali” (in totale, come si ricava dall’elenco, contenuto nella proposta di deliberazione de qua, sette professionisti, compresi il ricorrente e il controinteressato).
Un tale modo di operare, tuttavia, si pone, ad avviso del Collegio, in netto contrasto con l’obbligo generale di motivazione degli atti amministrativi, sancito dall’art. 3 della l. 241/1990, obbligo cui l’atto in questione, espressione di una scelta, esercitata dalla predetta Commissione nel contesto di poteri amministrativi ordinari, per quanto settoriali, non poteva evidentemente sottrarsi.
Viene in rilievo, a conforto di quanto sopra argomentato, la giurisprudenza seguente: “Se pure, in linea generale, le designazioni degli organi di vertice delle Amministrazioni si configurano come provvedimenti da adottare in base a criteri eminentemente fiduciari, riconducibili nell'ambito degli atti di alta amministrazione, in quanto sono espressione della potestà di indirizzo e di governo delle autorità preposte alle Amministrazioni stesse, si deve osservare nondimeno che il singolo provvedimento di nomina deve esporre le ragioni che hanno condotto alla nomina di uno di essi, comportando una scelta nell'ambito di una categoria di determinati soggetti in possesso di titoli specifici. In altre parole, la motivazione della scelta -sia pure effettuata latamente "intuitu personae"- deve comunque ancorarsi all'esito di un apprezzamento complessivo del candidato, in modo che possa dimostrarsi la ragionevolezza della scelta effettuata che non può logicamente esaurirsi nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti dalla legge ma che importa articolate, delicate e talvolta addirittura sfumate valutazioni sulla stessa personalità dei candidati, sulle loro capacità organizzative, sul loro prestigio personale e sul prestigio che eventualmente hanno già conferito agli uffici precedentemente ricoperti e che astrattamente sono in grado di assicurare a quello da ricoprire” (TAR Lazio–Roma, Sez. I, 05/03/2012, n. 2223).
E se la necessità di una penetrante motivazione è stata affermata, in giurisprudenza, per la scelta degli organi di vertice dell’Amministrazione, a fortiori la stessa è imprescindibile, allorquando si tratti di nominare gli esperti di una commissione che s’inserisce, sia pur con criteri d’elevata professionalità e competenza, nell’ambito dell’esercizio delle ordinarie funzioni amministrative, attribuite all’ente locale, nello specifico settore della tutela del paesaggio.
Si tenga presente, altresì, l’ulteriore massima che segue: “Alla luce dell'art. 3, comma 2, l. 07.08.1990, n. 241 (che introduce una espressa eccezione alla necessità della motivazione per i soli atti normativi e per quelli a contenuto generale), la motivazione è requisito indispensabile di ogni atto amministrativo, ivi compresi quelli consistenti in manifestazioni di giudizio interni a procedimenti concorsuali o para-concorsuali, nell’ambito dei quali, anzi, la motivazione svolge un precipuo ruolo pregnante, quale fattore di esternazione dell’iter logico delle determinazioni assunte dalle commissioni esaminatrici in esercizio dell’amplissima discrezionalità loro riconosciuta, ai fini dell’esercizio del diritto di difesa in giudizio. Di conseguenza anche per gli atti di alta amministrazione a valenza fiduciaria non è affatto escluso l'obbligo di motivazione, essendo chiuso nel sistema, dopo l'entrata in vigore della l. n. 241 del 1990, ogni spazio per la categoria dei provvedimenti amministrativi c.d. a motivo libero. Anche allorché, quindi, si debbano adottare atti di nomina di tipo fiduciario, l'Amministrazione deve indicare le qualità professionali sulla base delle quali ha ritenuto il soggetto più adatto rispetto agli obiettivi programmati, dimostrando di aver compiuto un'attenta e seria valutazione del possesso dei requisiti prescritti in capo al soggetto prescelto, sì che risulti la ragionevolezza della scelta” (TAR Lazio–Roma, Sez. I, 08/09/2014, n. 9505; conformi: TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 18.01.2016, n. 15; Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.10.2009, n. 6388).
In sostanza, se persino “gli atti di alta amministrazione a valenza fiduciaria” non possono essere ritenuti avulsi dal rispetto dell’obbligo di una motivazione, congruente con la natura degli atti medesimi, e se non residua, quindi, più alcuno spazio per i provvedimenti amministrativi, cd. a motivo libero (id est, espressione di discrezionalità assoluta), ne consegue che ogni qual volta, come nella specie, si tratti d’effettuare una scelta tra più candidati, ognuno dei quali dotato di specifiche competenze ed attitudini a ricoprire l’incarico, cui aspira (come emergenti dai rispettivi curricula) –incarico, si ripete, compreso nell’ambito delle ordinarie attribuzioni dell’ente locale, sia pur di natura settoriale– non può prescindersi, a maggior ragione, da una motivazione, di tipo analitico–comparativo, tendente all’emersione delle ragioni della scelta di uno soltanto dei candidati in questione, e dalla quale, in particolare, s’evincano le ragioni per le quali lo stesso sia considerato il più adatto a rivestire la medesima carica.
Ne deriva che la censura, esposta in ricorso, non può affatto reputarsi inammissibile, come eccepito dalla difesa del Comune di Scafati, nella memoria in atti.
In particolare, l’eccepita inammissibilità non può farsi discendere dalla precisazione, contenuta nell’avviso pubblico, prot. 53968 del 09.10.2018, “che non veniva indetta alcuna procedura concorsuale, para concorsuale, gara di appalto o trattativa privata” e che, di conseguenza, “non sarebbe stata stilata alcuna graduatoria, né attribuiti punteggi o classificazioni di merito”, laddove il richiesto “curriculum vitae” aveva “il solo scopo di manifestare la disponibilità all’assunzione della nomina, il possesso delle condizioni richieste e la conoscibilità dei soggetti disponibili ad assumere l’incarico”.
Ciò, in quanto la suddetta precisazione non può incidere, in alcun modo, sulla necessità, sopra evidenziata, di rispettare, comunque, il generale canone della motivazione degli atti amministrativi, ogni qual volta si tratti di effettuare una selezione tra più aspiranti al medesimo incarico, per quanto fiduciario; del resto, la stessa precisazione è anche intimamente contraddittoria, nella misura in cui viene ivi specificato che il curriculum vitae tendeva al fine di verificare –nei candidati– “il possesso delle condizioni richieste”, espressione circa la quale non possono sorgere equivoci e che, di per se stessa, implica l’effettuazione di un’analisi dei curricula medesimi, tendente a controllare l’idoneità dei candidati a svolgere le funzioni, connesse all’espletamento dell’incarico.
Come precisato in giurisprudenza, infatti, anche nel caso in esame trova spazio una tipica fase procedimentale amministrativa, volta alla “verifica dell’esperienza e della capacità professionale” di coloro che hanno ritenuto di dover rispondere all’avviso pubblico, destinata a sfociare in una scelta motivata della persona da designare.
Ne deriva l’irrilevanza –ai fini del giudizio circa l’ammissibilità del gravame– della circostanza per cui, nella manifestazione d’interesse, presentata dal ricorrente, si leggeva: “(...) di aver preso visione integrale e acquisito piena conoscenza dell’avviso pubblico esplorativo per la presentazione delle candidature per selezione dei componenti della Commissione Locale per il paesaggio”, e ciò proprio per le ragioni, dianzi esposte, dell’assoluta non interferenza della precisazione suddetta, con la disciplina generale, dettata dall’art. 3 della l. 241/1990.
Pertanto la convinzione, espressa dalla sua difesa, che il Comune di Scafati avesse adottato l’atto gravato “solo a seguito di un’adeguata istruttoria, mediante l’esame e la verifica dei curricula inviati, dai quali certamente ha potuto verificare l’idoneità dei partecipanti”, assume piuttosto la valenza di un atto fideistico, posto che l’effettuazione di tale adeguata istruttoria non si ricava affatto, dagli atti a disposizione del Collegio (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 18.03.2019 n. 406 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Al riguardo si legga anche:
   ● Nomina dell’esperto nella Commissione locale per il Paesaggio: motivazione e comparazione dei candidati  (01.05.2019 - link a www.mauriziolucca.com).
...
La II sez. Salerno del TAR Campania, con la sentenza n. 406 del 18.03.2019, interviene nel definire la procedura per individuare l’esperto in “Legislazione Beni Culturali”, a seguito di avviso pubblico su presentazione di appositi titoli professionali ed anche preferenziali, quali quelli riferiti alle materie dei beni culturali, ambientali e paesaggistici o con esperienza (per non meno di tre anni e nelle stesse materie) in ambito della Pubblica Amministrazione. (…continua).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Il provvedimento di nomina del difensore civico si fonda su di un rapporto di carattere fiduciario ma ciò non dispensa l’amministrazione procedente dall’obbligo di esplicitare le ragioni che l’hanno indotta a privilegiare, tra più candidati, un aspirante rispetto agli altri.
Fondato è il motivo con cui si allega l’inadeguatezza motivazionale del decreto impugnato nella prospettiva della mancata “comparazione” (in senso atecnico) tra i requisiti di competenza, esperienza e professionalità posseduti dal dott. Bi. e dal dott. Fo., limitandosi il provvedimento alla mera enunciazione del curriculum del nominato, recante peraltro titoli almeno in parte contestati ex adverso.
Osserva il Collegio che il profilo della valutazione tra i candidati discende dalle previsioni legislative applicabili, per le quali le nomine a pubblici incarichi di competenza della Regione Campania sono effettuate con riferimento ai “requisiti di competenza, esperienza e professionalità dei candidati prescelti in relazione ai fini ed agli indirizzi da perseguire negli Enti” (art. 1, comma 1, l.r. n. 17 del 1996), e che il difensore civico «deve essere scelto fra persone munite di peculiare competenza giuridico-amministrativa» (art. 8 l.r. n. 23 del 1978).
Il decreto impugnato nemmeno consente una sommaria raffrontabilità dei requisiti di competenza giuridico-amministrativa dei candidati alla carica di difensore civico regionale.
E’ pur vero che il provvedimento di nomina del difensore civico si fonda su di un rapporto di carattere fiduciario, ma è caratteristica che non dispensa, come afferma la giurisprudenza, l’amministrazione procedente dall’obbligo di esplicitare le ragioni che l’hanno indotta a privilegiare, tra più candidati, un aspirante rispetto agli altri.
In altri termini, non occorre una rigorosa comparazione tra i requisiti dei singoli candidati, con conseguente motivazione puntuale e specifica, come se si trattasse di un procedimento concorsuale: il provvedimento di nomina piuttosto deve dar conto del fatto che i differenti requisiti di competenza, esperienza e professionalità siano stati valutati in relazione al fine da perseguire.
---------------

1.- Il dott. Fo.Gi. chiede l’ottemperanza della sentenza di questa V Sezione 17.02.2015, n. 807 (con declaratoria della nullità del d.P.C.R. della Campania n. 25 del 09.03.2015, asseritamente adottato in violazione del giudicato) di accoglimento dell’appello esperito dalle controparti avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sez. I, n. 985 del 2014, cui è conseguito l’esame dei motivi dichiarati assorbiti in primo grado, e l’accoglimento del ricorso di primo grado, proposto dall’esponente, con conseguente annullamento (sotto altro profilo) del decreto (n. 81 del 26.03.2013) di nomina del dott. Bi. a difensore civico regionale.
2. – Egli allega che, nonostante la portata della sentenza, la Regione Campania, con il d.P.C.R. n. 25 del 09.03.2015, ha inteso nominare nuovamente il dott. Bi. quale difensore civico.
A sostegno del ricorso egli deduce tre motivi di diritto, incentrati sul difetto di motivazione del decreto di nomina (i requisiti del candidato avrebbero dovuto essere motivati in relazione alla peculiarità della competenza richiesta dalla l.r. n. 23 del 1978, e sarebbe stata necessaria una comparazione tra i requisiti posseduti dal dott. Bi. e quelli del dott. Fo.), sul difetto di istruttoria (non avendo l’Amministrazione verificato l’assenza, in capo al dott. Bi., dei requisiti curriculari dichiarati nella domanda di partecipazione), nonché sulla irragionevolezza della scelta (stante la non comparabilità tra i requisiti del nominato e quelli specifici del dott. Fo.).
Il dott. Fo. ha chiesto altresì il risarcimento del danno da ritardo nella nomina a difensore civico regionale.
3. - Con successivo atto, depositato in data 07.04.2016, il dott. Fo. ha riassunto il giudizio di ottemperanza a seguito dell’ordinanza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sez. I, 07.03.2016, n. 1205 che ha dichiarato la propria incompetenza sul ricorso dal medesimo proposto avverso il d.P.C.R. n. 25 del 09.03.2015, di nomina, come già esposto, a difensore civico della Regione Campania del dott. Bi.Fr., in favore del Consiglio di Stato in sede di ottemperanza. Con tale ricorso, mediante il quale si chiede anche l’annullamento del provvedimento impugnato, vengono svolte censure sovrapponibili a quelle contenute nell’atto introduttivo, con articolazione di ulteriori doglianze, mediante le quali viene dedotto il vizio di incompetenza, nell’assunto che questa appartenga (ai sensi dell’art. 6 della l.r. Campania n. 23 del 1978) al Consiglio regionale e non già al Presidente del medesimo, nonché la violazione dell’art. 6 del d.l. 24.06.2014, n. 90, nella considerazione che il dott. Bi. è stato collocato in quiescenza (con il grado di tenente colonnello dell’Aereonautica), ragione per cui è precluso dalla norma da ultimo indicata conferirgli l’incarico di difensore civico.
4. - Si è costituito in resistenza il dott. Bi. eccependo l’inammissibilità e comunque l’infondatezza del ricorso.
...
1.- Rileva anzitutto il Collegio che il provvedimento del Presidente del Consiglio regionale della Campania n. 25 in data 09.03.2015 non può ritenersi nullo per violazione del giudicato di cui alla sentenza n. 807 del 2015 di questa Sezione.
I limiti oggettivi del giudicato vanno infatti rinvenuti nell’accertamento della «radicale assenza di motivazione capace di giustificare la scelta del Bi. quale difensore civico. Premesso, infatti, che i canoni di buon andamento, di trasparenza e di imparzialità dell’azione amministrativa, attuati dalla legge 07.08.1990, n. 241, impongono un’adeguata motivazione anche ad atti di alta amministrazione di carattere fiduciario, si deve rimarcare che, nel caso di specie, l’atto finale e gli atti procedimentali a monte non recano alcuna indicazione delle ragioni della scelta del candidato nominato alla stregua della complessiva valutazione dei requisiti posseduti in relazione alle mansioni da svolgere, così rendendo impossibile la decifrazione dell’iter logico seguito al fine di pervenire alla soluzione contestata».
Come noto, la conformazione al giudicato da parte dell’Amministrazione, al cospetto di un annullamento giurisdizionale per difetto di motivazione, conserva uno spazio assai ampio per il riesercizio dell’attività amministrativa e valutativa; ciò significa che se l’Amministrazione elimina il vizio motivazionale ma adotta un provvedimento ugualmente non satisfattivo della pretesa, si ha violazione od elusione del giudicato solamente allorché l’attività asseritamente esecutiva dell’Amministrazione risulti contrassegnata da uno sviamento manifesto, diretto ad aggirare le prescrizioni stabilite con il giudicato; diversamente, viene in rilievo non già una violazione/elusione del giudicato, ma un’eventuale nuova illegittimità (in termini, ex multis, Cons. Stato, VI, 08.04.2016, n. 1402; IV, 18.03.2011, n. 1692).
L’impugnato decreto n. 25 in data 09.03.2015 espone il ragionamento logico-giuridico sottostante alla decisione di nomina, riconsiderando la posizione del dott. Bi., del quale viene, all’esito, confermata la nomina a difensore civico regionale.
Deve dunque respingersi l’azione di ottemperanza al giudicato.
2. - Procedendo alla disamina dell’azione di annullamento, occorre anzitutto precisare che non occorre disporre la conversione dell’azione ai sensi dell’art. 32 Cod. proc. amm. e secondo le coordinate ermeneutiche di Cons. Stato, Ad. plen., 15.01.2013, n. 2, avendo l’appellante già provveduto alla riassunzione del ricorso a seguito del provvedimento declinatorio della competenza da parte del Tribunale amministrativo regionale della Campania n. 1206 del 2016.
Ciò premesso, con il primo motivo viene dedotta l’incompetenza del presidente del Consiglio regionale a provvedere alla nomina del difensore civico, tale potere spettando al Consiglio regionale ai sensi dell’art. 3 (Competenze), comma 3, lett. b), l.r. 07.08.1996 n. 17 (Nuove norme per la disciplina delle nomine e delle designazioni di competenza della Regione Campania), come novellata dall’art. 2 della l.r. 13.02.2014, n. 7.
Il motivo è fondato, quanto meno sotto il profilo del difetto di motivazione.
Il provvedimento impugnato individua solamente “motivi di urgenza conseguenti alla perdurante vacanza dell’ufficio del difensore civico regionale” che imporrebbero l’esercizio dei poteri sostitutivi di cui all’art. 10, comma 2, l.r. n. 17 del 1996, tenendo conto della rilevanza sociale della funzione del difensore civico e del fatto che tali poteri sarebbero già stati esercitati nel corso del procedimento.
Sennonché l’invocata disposizione dell’art. 10, comma 2, ha un ambito di operatività determinato, parametrato alla scadenza della legislatura (consiliatura) e alle nomine o designazioni che rivestono carattere di indifferibilità ed urgenza od al parziale rinnovo di organi, rispetto ai quali la mancanza di uno o più componenti impedisca il funzionamento.
Nel caso di specie non vi è alcun riferimento alla cornice temporale di fine consiliatura; inoltre il carattere di indifferibilità ed urgenza della nomina viene fatto discendere dalla mera rilevanza sociale della funzione.
3. - Analogamente fondato è il motivo con cui si allega l’inadeguatezza motivazionale del decreto impugnato nella prospettiva della mancata “comparazione” (in senso atecnico) tra i requisiti di competenza, esperienza e professionalità posseduti dal dott. Bi. e dal dott. Fo., limitandosi il provvedimento alla mera enunciazione del curriculum del nominato, recante peraltro titoli almeno in parte contestati ex adverso.
Osserva il Collegio che il profilo della valutazione tra i candidati discende dalle previsioni legislative applicabili, per le quali le nomine a pubblici incarichi di competenza della Regione Campania sono effettuate con riferimento ai “requisiti di competenza, esperienza e professionalità dei candidati prescelti in relazione ai fini ed agli indirizzi da perseguire negli Enti” (art. 1, comma 1, l.r. n. 17 del 1996), e che il difensore civico «deve essere scelto fra persone munite di peculiare competenza giuridico-amministrativa» (art. 8 l.r. n. 23 del 1978).
Il decreto impugnato nemmeno consente una sommaria raffrontabilità dei requisiti di competenza giuridico-amministrativa dei candidati alla carica di difensore civico regionale.
E’ pur vero che il provvedimento di nomina del difensore civico si fonda su di un rapporto di carattere fiduciario, ma è caratteristica che non dispensa, come afferma la giurisprudenza, l’amministrazione procedente dall’obbligo di esplicitare le ragioni che l’hanno indotta a privilegiare, tra più candidati, un aspirante rispetto agli altri.
In altri termini, non occorre una rigorosa comparazione tra i requisiti dei singoli candidati, con conseguente motivazione puntuale e specifica, come se si trattasse di un procedimento concorsuale: il provvedimento di nomina piuttosto deve dar conto del fatto che i differenti requisiti di competenza, esperienza e professionalità siano stati valutati in relazione al fine da perseguire.
Tale esigenza appare tanto più evidente nel caso in esame, dove la nomina è stata fatta con provvedimento presidenziale, nell’esercizio di un potere sostitutivo, non già dall’organo assembleare attraverso un meccanismo di tipo elettorale (anche in tale evenienza è comunque necessaria una prima fase di verifica idoneativa o, se si vuole, di prequalifica dei candidati).
4. - L’accoglimento dei motivi esaminati conduce di per sé all’annullamento del provvedimento gravato.
Peraltro, per completezza, vale esaminare anche la quarta censura con cui il ricorrente deduce la violazione dell’art. 6 (Divieto di incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza) d.l. 24.06.2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari), convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114, posto che, essendo il dott. Bi. stato collocato in quiescenza (con il grado di tenente colonnello), non può attualmente conseguire l’incarico di difensore civico regionale.
Anche tale motivo merita condivisione.
Detta norma fa divieto alle amministrazioni pubbliche di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza; analogamente vieta loro di conferire ai medesimi incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni. Tali incarichi sono consentiti solamente a titolo gratuito, e per un periodo non superiore ad un anno.
Non si vedono ragioni per cui la norma, la cui ratio è evidentemente di favorire l’occupazione giovanile, non sia riferibile anche alla nomina a difensore civico regionale. Non ha rilievo la circostanza che i tratti di un incarico onorario, perché si tratta di distinzione non contemplata dalla legge. Del resto una tale figura è comunque caratterizzata da un rapporto di ufficio con attribuzione di funzioni pubbliche, seppure in assenza di un rapporto di lavoro: ma questo non risulta necessario presupposto degli incarichi e collaborazioni cui si riferisce l’art. 6 del d.l. n. 90 del 2014.
Anche il funzionario onorario fruisce di indennità e la sua attività non è ascrivibile nell’ambito di un rapporto a titolo gratuito, di durata peraltro superiore all’anno.
5. - In conclusione, alla stregua di quanto esposto, il ricorso va accolto nei termini di cui in motivazione con conseguente annullamento dell’impugnato provvedimento di nomina.
Va invece disattesa la domanda di risarcimento del danno da ritardo perché la pronuncia di annullamento non contiene un accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento impugnato (Cons. Stato, V, 10.02.2015, n. 675). Un siffatto accertamento è necessario anche per il riconoscimento del danno da ritardo, il quale non può restare avulso da una valutazione di merito sulla spettanza del bene sostanziale della vita, e va quindi subordinato anche alla dimostrazione che l’aspirazione del provvedimento è comunque destinata a un esito favorevole (in termini, da ultimo, Cons. Stato, V, 22.09.2016, n. 3920) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.11.2016 n. 4718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Sulla nomina della commissione per il paesaggio.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di precisare, più volte, come gli ordini professionali siano legittimati a difendere in sede giurisdizionale gli interessi della categoria dei soggetti di cui abbiano la rappresentanza istituzionale, sia quando si assumano violate le norme poste a tutela della professione, sia quando si tratti di conseguire determinati vantaggi, sia pure di carattere puramente strumentale, giuridicamente riferibili alla intera categoria, ed anche nell’ipotesi in cui possa ipotizzarsi astrattamente un conflitto di interessi tra gli ordini ed i singoli professionisti beneficiari dell’atto impugnato, che l’Ordine assume invece essere lesivo dell’interesse istituzionale della categoria.
Quanto al supposto conflitto di interessi, poi, l’eccezione non ha parimenti pregio ove si consideri che la ricorrenza di tale conflitto va scrutinata in relazione all’interesse astrattamente perseguito, non essendo rilevante il fatto che tale conflitto ricorra in concreto con alcuni professionisti od associati.
Nel caso di specie, l’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Salerno, come esattamente è stato rilevato, include ex art. 15 dpr n. 380/2001, gli architetti, i paesaggisti, i pianificatori territoriali ed i conservatori dei beni architettonici ed ambientali, cioè figure professionali con specifiche competenze in materia di progettazione relativa a beni vincolati e tutelati paesaggisticamente, ed ha pertanto, un interesse qualificato alla corretta attuazione della norma che riserva la scelta dei membri tra esperti di beni ambientali, storia dell’Arte, discipline agricolo-forestale, naturalistica, storiche, pittoriche, arti figurative e legislazione dei beni culturali.
---------------
Il requisito dell’esperienza nelle specifiche materie risulta elemento necessario ed indispensabile nonché funzionale a costituire una struttura specialistica in grado di esprimere, a livello comunale, una soglia sufficiente di competenze tecnico-scientifiche integrate idonee a garantire una valutazione separata degli aspetti paesaggistici da quelli urbanistico-edilizi; requisito che necessariamente deve essere garantito, quanto meno, anche da un curriculum recante esplicitazione delle competenze comunque acquisite, nei settori indicati.
Altresì, “l’esperienza acquisita in impieghi pubblici, anche di elevata responsabilità, nel campo -ad esempio- dell’urbanistica, della protezione ambientale o della salvaguardia dei beni culturali può avere sicuramente un valore qualificante pari a quello del libero professionista, atteso che la possibilità di nominare anche componenti, provvisti di curriculum prevalentemente costituito da pubblici incarichi, consente di acquisire quelle esperienze e competenze interdisciplinari necessarie ad arricchire il livello tecnico-specialistico richiesto ai componenti della Commissione”.
---------------

... per l'annullamento:
   - della delibera del consiglio comunale n. 16/2011 del 02.08.2011 con la quale si è proceduto alla nomina dei membri della commissione per il paesaggio, di cui all’art. 148 d.lgs n. 42/2004 ed allegato 1 alla l.r.c. 10/1982, in violazione dell'obbligo di preventivo accertamento della qualifica di "esperti" in capo ai soggetti nominati;
   - ove occorra, delle delibere del consiglio comunale di Corbara, n. 17/2011 e 22/2011, assunte nella seduta del 30.09.2011, con le quali nel rispondere alle interrogazioni dei consiglieri, si confermano implicitamente le nomine, assumendo come non dovuta alcuna risposta alla diffida inoltrata dall’Ordine ricorrente con atto prot. n. 1265/F1-P1_g2 del 15.09.2011;
...
1.- Il ricorso è fondato alla stregua delle considerazioni che seguono:
2.- E’ controversa nel presente giudizio la legittimità del provvedimento, in epigrafe meglio specificato, con il quale il Comune di Corbara si è determinato alla designazione dei membri della “Commissione per il paesaggio” ex art. 148 d.lgs. n. 42/2004, con modalità ritenute assolutamente illegittime dall’Ordine ricorrente e cioè senza alcuna previa verifica dell’idoneità degli stessi a ricoprire la carica di componenti della citata commissione; in particolare senza aver provveduto né alla pubblicazione di un avviso per l’acquisizione delle candidature, né ad acquisire le candidature e neppure i curricula degli interessati per l’accertamento dei requisiti tecnico-professionali richiesti dalla legge, per cui i nominativi dei membri della Commissione sarebbero emersi solo in sede di scrutinio, senza alcuna indicazione in ordine alla competenza specialistica di ciascuno di essi e della relativa qualifica professionale, il tutto in aperta violazione del quadro normativo vigente, così come esplicitato dalla nota dell’Assessore regionale all’urbanistica prot. n. 942/SP del 07.07.2011 e dalla circolare prot. n. 2011.0602279 del 02.08.2011, che rinviano all’allegato 1 della l.r. n. 10/1982.
2.a.- La tesi attorea è contestata dalla resistente amministrazione che, nelle proprie difese, dopo aver eccepito l’inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione attiva del ricorrente Ordine, che, nella specie, avrebbe agito in potenziale conflitto d’interessi tra i professionisti rappresentati, ridondando l’azione proposta contro un proprio iscritto, assume, nel merito, che l’intera domanda sarebbe radicata a norme regionali abrogate, quali, appunto, la l.r.c. n. 10/1982, laddove l’intera materia sarebbe, all’attualità, disciplinata soltanto dalla legge statale.
3.- Preliminarmente va respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Salerno che, nella prospettazione dell’amministrazione comunale, sarebbe legittimato ad agire a tutela degli interessi dell’intera categoria professionale.
3.a.- Il rilievo non può essere condiviso.
Ed invero, la giurisprudenza amministrativa (ex multis Cons. St. n. 2148 del 2011) ha avuto modo di precisare, più volte, come gli ordini professionali siano legittimati a difendere in sede giurisdizionale gli interessi della categoria dei soggetti di cui abbiano la rappresentanza istituzionale, sia quando si assumano violate le norme poste a tutela della professione, sia quando si tratti di conseguire determinati vantaggi, sia pure di carattere puramente strumentale, giuridicamente riferibili alla intera categoria, ed anche nell’ipotesi in cui possa ipotizzarsi astrattamente un conflitto di interessi tra gli ordini ed i singoli professionisti beneficiari dell’atto impugnato, che l’Ordine assume invece essere lesivo dell’interesse istituzionale della categoria (cfr. Cons. St. Sez. V 18.12.2009, n. 8404).
Quanto al supposto conflitto di interessi, poi, l’eccezione non ha parimenti pregio ove si consideri che la ricorrenza di tale conflitto va scrutinata in relazione all’interesse astrattamente perseguito, non essendo rilevante il fatto che tale conflitto ricorra in concreto con alcuni professionisti od associati (Cons. St. Sez. VI, 09.02.2009, n. 710).
Nel caso di specie, l’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Salerno, come esattamente è stato rilevato, include ex art. 15 dpr n. 380/2001, gli architetti, i paesaggisti, i pianificatori territoriali ed i conservatori dei beni architettonici ed ambientali, cioè figure professionali con specifiche competenze in materia di progettazione relativa a beni vincolati e tutelati paesaggisticamente, ed ha pertanto, un interesse qualificato alla corretta attuazione della norma che riserva la scelta dei membri tra esperti di beni ambientali, storia dell’Arte, discipline agricolo-forestale, naturalistica, storiche, pittoriche, arti figurative e legislazione dei beni culturali.
4.- Sgombrato il campo dalla menzionata eccezione, può addivenirsi alla delibazione della questione di merito, muovendo dalla ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
4.a.- L’art. 148 d.lgs. n. 42 del 2004, (Codice dei beni culturali e del paesaggio) rubricato “Commissioni locali per il paesaggio” così recita: “Le Regioni promuovono l’istituzione e disciplinano il funzionamento delle commissioni per il paesaggio di supporto ai soggetti ai quali sono delegate le competenze in materia di autorizzazioni paesaggistica, ai sensi dell’articolo 146, comma 6.
Le commissioni …sono composte da soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio
”.
Nella Regione Campania, la materia de qua ha trovato diacronicamente la sua disciplina dapprima con l’allegato 1 della legge regionale n. 10/1982 e successivamente con l’art. 41 della legge regionale n. 16 del 2004, relativa al governo del territorio.
L’art. 41 della citata legge regionale risultava, ratione temporis, così formulato:
1. I comuni, anche in forma associata, si dotano di strutture, denominate sportelli urbanistici, ai quali sono affidati i seguenti compiti:
   a) ricezione delle denunce di inizio attività, delle domande per il rilascio di permessi di costruire e dei provvedimenti e certificazioni in materia edilizia;
   b) acquisizione di pareri e nulla-osta di competenza di altre amministrazioni;
   c) rilascio dei permessi di costruire, dei certificati di agibilità e della certificazione in materia edilizia. Il rilascio di titoli abilitativi all’attività edilizia avviene mediante un unico atto comprensivo di autorizzazioni, nulla-osta, pareri, assensi e di ogni altro provvedimento di consenso, comunque denominato, di competenza comunale;
   d) adozione dei provvedimenti in materia di accesso ai documenti, ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241;
   e) cura dei rapporti tra l’amministrazione comunale, i privati e le altre amministrazioni coinvolte nei procedimenti preordinati all’adozione degli atti di cui alla lettera c).
2. Nei comuni sprovvisti di commissione edilizia, le funzioni consultive in materia paesaggistico-ambientale, attribuite alla commissione edilizia integrata comunale dall’allegato alla legge regionale 23.02.1982, n. 10, “Direttive per l'esercizio delle funzioni amministrative subdelegate dalla regione Campania ai comuni con legge regionale 01.09.1981, n. 65 - Tutela dei beni ambientali”, sono esercitate da un organo collegiale costituito dal responsabile dell’ufficio che riveste preminente competenza nella materia, con funzioni di presidente, e da quattro esperti designati dal consiglio comunale con voto limitato.
3. Nei comuni provvisti di commissione edilizia, i componenti esperti previsti dall’allegato alla legge regionale n. 10/82, sono designati dal consiglio comunale con voto limitato
.”
Oggi, con l’art. 4, comma 1, lett. m), della legge regionale 05.01.2011 n. 1, la citata previsione è stata riformulata, non solo con la modifica del comma 1, che, allo stato, ha il seguente tenore letterale “I comuni, anche in forma associata, si dotano di strutture, denominate sportelli unici per l'edilizia, alle quali sono affidati i compiti definiti dal regolamento di attuazione di cui all'articolo 43-bis”, ma soprattutto con l’abrogazione dei commi 2 e 3, relativi, rispettivamente, alla commissione edilizia integrata ed all’organo collegiale, nonché alla designazione da parte del consiglio comunale dei componenti esperti previsti dall’allegato alla legge regionale n. 10/1982.
4.b.- Successivamente all’avvenuta abrogazione dei commi 2 e 3 dell’art. 41 l.r. n. 10/1982, l’amministrazione regionale, dapprima con la nota assessorile prot. n. 942/SP del 07.07.2011 e, poi con la circolare esplicativa del 02.08.2011, ha rimarcato, tra l’altro che:
   - l’avvenuta abrogazione dei commi 2 e 3 dell’art. 41 della l.r. n. 16/2004 non modifica il regime della delega già conferita ai Comuni della Campania, inerente la funzione amministrativa attiva regionale, volta al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica;
   - è vigente la disciplina di cui all’allegato alla L.R. n. 10/1982, con le procedure ivi previste per la istituzione della Commissione Edilizia Comunale integrata (C.E.C.I.), unitamente alle specifiche modalità di individuazione, elezione dei relativi componenti, nonché della durata della stessa;
   - i comuni sprovvisti di commissione edilizia (C.E.) …per poter continuare ad esercitare la funzione regionale loro conferita devono istituire, con deliberazione del consiglio comunale, la commissione locale per il paesaggio (C.L.P.) ex art. 148 del d.lgs 22.01.2004 e ss.mm.ii., costituita dal responsabile unico del procedimento …nonché da cinque membri esperti in materia di beni ambientali, così come previsti dall’allegato alla L.R. n. 10/1982, con i medesimi criteri ivi disposti, inerenti la relativa composizione, nomina e durata.
4.c.- In merito a quanto innanzi riportato, il Collegio ritiene di non aver obiezioni di sorta, in specie per quanto attiene alla immanenza della funzione attiva della Regione nel rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, giusta indicazione emergente ex multis dalla recente pronuncia del Consiglio di Stato n. 2013 del 2012, in ordine alla competenza ad emettere autorizzazione paesaggistica, (con riferimento al riparto di competenze fra Stato ed Enti locali, di cui agli articoli 117 e seguenti della Costituzione). Con la citata pronuncia, il Consiglio di Stato ha ribadito l’attuale assetto delle competenze in materia, escludendo che potesse ritenersi, ex art. 96 T.U.E.L., radicato in capo soltanto all’ente locale “il potere di effettuare scelte che, nei termini appena indicati, implicassero il trasferimento ad un ufficio comunale della competenza ad emettere autorizzazione paesaggistica, trattandosi di competenza dello Stato, da esercitare in concorso con la Regione interessata o ad essa delegata, per ragioni di tutela rilevanti per l’intera collettività e, dunque, non affidabili a valutazioni effettuate in ambito strettamente locale" (Cons. St., sez. VI, 25.05.1996, n. 717; Cons. St., sez. Atti norm., 13.01.2003, n. 4804; cfr. anche, per il principio, Corte Cost., 25.07.2011, n. 244).
4.d.- Ad avviso del Collegio neppure il richiamo alla disciplina di cui all’allegato alla legge regionale n. 10/1982 suscita particolari perplessità e ciò anche a prescindere dalla disamina dell’approccio ermeneutico più corretto alla natura della circolare in questione.
Ciò che preme rilevare è che, nella specie, la Regione ha inteso ribadire le modalità organizzative dell’organo consultivo alle quali i Comuni, nell’esercizio della sub-delega in materia di beni ambientali di cui all’art. 1 l.r. 01.09.1981 n. 65, sono tenuti a conformarsi.
Orbene, il citato allegato stabilisce che i cinque membri sono “nominati dal Consiglio comunale tra esperti di Beni Ambientali, Storia dell’Arte, discipline agricolo forestale, Naturalistica, Storiche, Pittoriche, Arti figurative e Legislazione Beni Culturali.
La delibera consiliare di nomina di detti esperti che dovrà riportare l’annotazione, per ciascuno di essi, della materia di cui è esperto…dovrà essere rimessa, per conoscenza, al Presidente della Giunta regionale
”.
4.e.- Emerge, dunque, dal quadro complessivo sopra richiamato che il requisito dell’esperienza nelle citate materie risulta elemento necessario ed indispensabile nonché funzionale a costituire una struttura specialistica in grado di esprimere, a livello comunale, una soglia sufficiente di competenze tecnico-scientifiche integrate idonee a garantire una valutazione separata degli aspetti paesaggistici da quelli urbanistico-edilizi; requisito che necessariamente deve essere garantito, quanto meno, anche da un curriculum recante esplicitazione delle competenze comunque acquisite, nei settori indicati (vedi, in tale senso, anche Tar Puglia Lecce n. 878 del 2011, dove si afferma che “l’esperienza acquisita in impieghi pubblici, anche di elevata responsabilità, nel campo -ad esempio- dell’urbanistica, della protezione ambientale o della salvaguardia dei beni culturali può avere sicuramente un valore qualificante pari a quello del libero professionista, atteso che la possibilità di nominare anche componenti, provvisti di curriculum prevalentemente costituito da pubblici incarichi, consente di acquisire quelle esperienze e competenze interdisciplinari necessarie ad arricchire il livello tecnico-specialistico richiesto ai componenti della Commissione”).
4.f.- Trasponendo le menzionate acquisizione al caso in esame, risulta che la resistente amministrazione ha espressamente richiamato negli atti impugnati la legge regionale n. 10/1982 con il relativo allegato, nonché la nota assessorile e la relativa circolare, di talché non può assumere, in sede giurisdizionale, a propria difesa, l’inutilizzabilità dei suddetti provvedimenti che, in sede amministrativa, ha dimostrato di voler ergere a regola della propria azione amministrativa (vedi ex multis Tar Campania n. 1844 del 2012).
Risulta, altresì, che i nominativi dei componenti sono emersi solo all’esito della votazione, in carenza di qualunque curriculum vitae, o altra indicazione, utile a dimostrare il possesso dei requisiti, per cui, l’organo di indirizzo politico-amministrativo non è stato posto in grado di annotare l’indicazione della materia in cui ciascuno di essi deve stimarsi esperto.
L’error in procedendo in cui è incorsa l’amministrazione comunale non risulta suscettibile di essere recuperato neppure con le successive integrazioni deliberative, i cui contenuti (vedi dichiarazione del segretario comunale con la quale si precisa che “i curricula dei componenti della Commissione per il Paesaggio… gli sono stati forniti soltanto in via informale ed unicamente per procedere all’identificazione dei membri nominati , ma non costituiscono allegati alla delibera di Consiglio comunale che ha provveduto alla loro nomina”) rimarcano che la scelta dei componenti della Commissione per il Paesaggio è avvenuta in violazione del giusto procedimento tratteggiato dalla normativa regionale e relativi atti applicativi richiamati nelle premesse degli atti impugnati.
Per tutte le suesposte considerazioni, il ricorso è fondato e va accolto con l’annullamento degli atti impugnati (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 28.05.2012 n. 1032 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La proposta di nomina a componente di una commissione è illegittima laddove inficiata da una totale e assoluta carenza di motivazione.
Come già ritenuto dal giudice di appello, l’assenza di ogni e qualunque motivazione nella proposta di nomina non può trovare giustificazione nel fatto che la proposta rientrasse nel novero degli atti di alta amministrazione, atteso che tale categoria di atti amministrativi soggiace, comunque, alla disciplina generale degli atti amministrativi per i quali non è ipotizzabile, alla luce di quanto previsto dagli artt. 24, 97 e 113 della Cost., alcun vuoto di tutela giurisdizionale.
E invero, per gli atti di nomina pacificamente si ritiene che “Se pure, in linea generale, le designazioni degli organi di vertice delle amministrazioni si configurano come provvedimenti da adottare in base a criteri eminentemente fiduciari, riconducibili nell'ambito degli atti di “alta amministrazione”, in quanto sono espressione della potestà di indirizzo e di governo delle autorità preposte alle amministrazioni stesse; si deve osservare nondimeno che il singolo provvedimento di nomina deve esporre le ragioni che hanno condotto alla nomina di uno di essi, comportando una scelta nell'ambito di una categoria di determinati soggetti in possesso di titoli specifici.
In altre parole, la motivazione della scelta –sia pure effettuata latamente "intuitu personae"– deve comunque ancorarsi all’esito di un apprezzamento complessivo del candidato, in modo che possa dimostrarsi la ragionevolezza della scelta effettuata che non può logicamente esaurirsi nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti dalla legge ma che importa articolate, delicate e talvolta addirittura sfumate valutazioni sulla stessa personalità dei candidati, sulle loro capacità organizzative, sul loro prestigio personale, e sul prestigio che eventualmente hanno già conferito agli uffici precedentemente ricoperti e che astrattamente sono in grado di assicurare a quello da ricoprire.
L'obbligo di motivazione a carico della p.a. deriva inoltre dalla sussistenza, a fronte della potestà esercitata, di posizioni soggettive direttamente tutelate dall'ordinamento; pertanto, anche tale atto deve essere emanato sulla base di una conoscenza adeguata dello stato dei fatti, di un'esatta interpretazione della volontà della legge e di un soppesamento delle situazioni soggettive rilevanti”.
Deve ancora aggiungersi che, essendo gli atti di alta amministrazione formalmente e sostanzialmente atti amministrativi, essi sono comunque soggetti all’obbligo di motivazione, essendo chiuso nel sistema, dopo l’entrata in vigore della legge n. 241 del 1990, ogni spazio per la categoria dei provvedimenti amministrativi c.d. a motivo libero, e posto che la connotazione di un atto amministrativo come un atto di alta amministrazione non vale di per sé ad escludere l'onere di motivazione a carico dell'Amministrazione.
In aggiunta alle superiori considerazioni, è da ritenere che nel caso in esame l'obbligo motivazionale si imponesse con maggior rigore, dovendo la motivazione assolvere all'obbligo di rendere comunque trasparente ed imparziale la scelta posta in essere dalla P.A., trattandosi di nomina non preceduta da una qualche procedura selettiva introdotta da un bando di partecipazione che provvedesse a specificare criteri e requisiti astrattamente predeterminati dalla legge.
Le considerazioni svolte in ordine all’obbligo di motivazione rendono evidente il vizio invalidante in cui è incorsa l’Amministrazione nella procedura di nomina in contestazione, omettendo ogni motivazione tout court rispetto all’esercizio del potere effettuato con la proposta, vizio nella specie aggravato dalla circostanza che il Ministero procedeva a rettificare la originaria proposta, sostituendo il nominativo originario con un altro, senza motivare né in ordine alla estromissione del primo soggetto, né in ordine alla scelta del secondo.
E in una procedura di nomina quale quella descritta al comma 6, dell’art. 2 del D.Lgs. n. 261/1999, caratterizzata da una ben amplia discrezionalità, il sindacato giurisdizionale, che non può di certo essere escluso pur dovendo rimanere circoscritto all'accertamento estrinseco della legittimità della nomina -cioè al riscontro dell’esistenza dei presupposti e dell’esistenza e congruità del nesso logico di consequenzialità fra presupposti e conclusione- intanto può svolgersi, in quanto i criteri seguiti dall'Amministrazione ai fini della scelta o, comunque, le ragioni giustificatrici della stessa, emergano dall’ordito motivazionale dell’atto.

---------------

1. L’avv. Ma.Fi., odierno esponente, premette di essere un professionista con un’amplissima e qualificata esperienza nel settore della regolazione postale.
A decorrere dall’agosto 2004 è il Direttore Generale della Direzione Generale per la Regolamentazione del settore Postale, istituita presso il Ministero dello Sviluppo Economico quale Autorità di settore designata ex lege (art. 2 del d.lgs 261/1999, ante modifiche introdotte dal d.lgs. 58/2011), a seguito della trasposizione della Direttiva europea 97/67/CE.
Sempre dal 2004 l’odierno esponente è membro effettivo e rappresentante nazionale in seno al Comitato Direttiva Postale istituito presso la Commissione Europea (Direttiva 96/67/CE) e rappresentante nazionale in seno all’U.P.U., Unione Postale Universale, operante in ambito O.N.U. per il settore postale.
2. Con d.lgs n. 58 del 31.03.2011 –che ha novellato il d.lgs. n. 261 del 22.7.1999- è stata istituita in Italia l’Agenzia Nazionale di Regolamentazione del Settore Postale (di seguito, anche “ANSP” o “Agenzia”) con funzioni di regolamentazione, programmazione, controllo e vigilanza del settore postale.
Ai sensi dell’art. 2, comma 6, del citato Decreto Legislativo, come novellato, le funzioni di programmazione, indirizzo regolazione e controllo nelle materia di competenza sono affidate ad un Collegio, costituito da tre membri di cui uno con funzione di presidente.
Quanto alla procedura di nomina dei componenti del Collegio, si prevede che essi siano nominati con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, previo parere favorevole delle competenti Commissioni parlamentari e che “i membri del Collegio sono scelti tra persone dotate di indiscusse moralità e indipendenza, alta e riconosciuta professionalità e competenza nel settore”.
3. Tanto precisato, il Fi. rappresenta che, con nota protocollo n. 9489 del 04.05.2011, il Ministro per lo sviluppo economico, nell’indicare la terna di nominativi per la designazione a componente del Collegio in questione, insieme ad altri due nominativi proponeva anche quello del ricorrente. Tuttavia, lo stesso giorno il Ministro per lo sviluppo economico modificava la proposta sostituendo il suddetto nominativo con quello dell' Avv. Fr.So. e pertanto la proposta di composizione del Collegio veniva riformulata nei mutati termini.
4. Sulla base di tale ultima proposta, il Consiglio dei Ministri nella riunione n. 138 del 05.05.2011 attivava il procedimento per la nomina dei componenti del Collegio de qua; nomina questa che veniva, poi, formalizzata nella seduta del 09.06.2011.
A seguito di ciò, il Presidente della Repubblica, con proprio decreto del 14.06.2011, definitivamente disponeva la nomina dei componenti, tra i quali non figurava, dunque, l’avv. Fi..
5. Con il ricorso in epigrafe l’odierno esponente impugna tutti gli atti del procedimento, deducendone l’illegittimità, e ne chiede l’annullamento nella parte in cui, nella terna dei nominativi indicati per la designazione a componente del Collegio in questione, poi avvenuta con decreto presidenziale del 14.06.2011, il ricorrente è stato pretermesso e sostituito con l’Avv. Fr.So., odierno controinteressato.
Afferma di avere interesse ad impugnare i succitati provvedimenti in quanto in possesso di tutti i requisiti richiesti dalla legge per la nomina, essendo stato originariamente contemplato e poi immotivatamente estromesso.
6. Il ricorrente affida il gravame ad un unico articolato motivo:
   - violazione dell'art. 2, comma 6, del d.lgs. n. 261/1999 e s.m.i. - violazione degli artt. 3 e 21-octies, comma 1, della legge n. 241/1990 e s.m.i per assoluta carenza motivazionale, violazione ed eccesso di potere, carenza istruttoria, perplessità dell’azione amministrativa, violazione del principio di buon andamento, irragionevolezza, ingiustizia manifesta.
Il contenuto “telegrafico” dell’impugnata nota prot. n. 9619 del 04.05.2011 non consente di comprendere per quale motivo il ricorrente, in possesso di una qualificata e duratura esperienza riconosciuta e maturata proprio nel campo della regolamentazione del settore postale, essendo stato dapprima individuato ai fini della nomina in questione, sia stato poi repentinamente estromesso.
L’illegittimità degli atti impugnati emerge ancor di più alla luce delle disposizioni che disciplinano i requisiti richiesti per la nomina, ed in particolare della “riconosciuta professionalità e competenza nel settore”, tutti posseduti dal ricorrente.
La mutata scelta dell’Organo proponente non appare inoltre giustificabile alla luce della nomina effettuata in favore di altro soggetto, meno titolato del ricorrente quanto ad esperienza professionale nel settore.
7. Nel presente giudizio si costituiva la difesa erariale, in rappresentanza e difesa della Presidenza della Repubblica, del Senato della Repubblica, della Camera dei Deputati, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dello Sviluppo Economico, che chiedeva il rigetto del gravame nel merito; in via preliminare, la stessa eccepiva: il difetto assoluto di giurisdizione, ai sensi dell’art. 7, comma 1, del c.p.a., per i pareri espressi dalle Commissioni parlamentari sulle designazioni effettuate dal Governo nella procedura di nomina de qua; la carenza di interesse del ricorrente i quale, in assenza di una procedura concorsuale e di una commissione esaminatrice, sarebbe portatore di un mero interesse di fatto, che non lo abiliterebbe a sindacare il merito di una scelta adottata nel rispetto delle previste procedure.
8. Per resistere al ricorso in epigrafe si costituiva, altresì, l’avv. Fr.So., che in via pregiudiziale eccepiva l’inammissibilità del ricorso sotto i seguenti profili:
   - per difetto assoluto di giurisdizione, in quanto la nomina gravata sarebbe un atto politico sottratto al sindacato giurisdizionale e, ove pure essa concretasse un atto di alta amministrazione, non sarebbe scrutinabile perché la scelta posta in essere dai pubblici poteri attiene alla sfera del merito e non potrebbe dunque essere contestata;
   - per carenza di interesse ad agire, atteso che il Fi. non vanterebbe alcun interesse giuridicamente tutelato in ordine alla nomina e, in caso di accoglimento del ricorso, non otterrebbe comunque il bene per cui agisce; lo stesso soggetto non sarebbe titolare neanche di un interesse diffuso, in quanto privo dei requisiti di indipendenza richiesti dalla legge ai fini dell’assunzione dell’incarico in questione, esistendo un collegamento molto stretto tra il ricorrente e l’organo politico che ha il potere di proposizione della nomina.
   - per carenza di interesse ad agire, perché la proposta di nomina si configurerebbe quale atto di natura endoprocedimentale, privo di contenuto provvedimentale e quindi sprovvisto di efficacia lesiva immediata.
9. Con ordinanza n. 3075/2011 del 31.08.2011, la Sezione respingeva la domanda incidentale di sospensione degli atti impugnati; detti provvedimenti venivano poi sospesi a seguito dell’appello cautelare spiegato dal ricorrente, con ordinanza del Consiglio di Stato n. 5144/2011 del 23.11.2011.
10. In pendenza del presente giudizio, l’art. 21 del D.L. n. 201/2011 (conv. con legge n. 214/2011) disponeva la soppressione dell’Agenzia Nazionale di Regolamentazione del Settore Postale e la sua incorporazione all’Autorità Garante per le Comunicazioni.
11. A seguito del mutato quadro normativo, con memoria depositata in data 21.01.2012 il controinteressato spiegava un’ulteriore eccezione di inammissibilità (recte: di improcedibilità) del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse ad agire del ricorrente.
12. Con memoria del 06.02.2012 l’odierno deducente replicava manifestando la persistenza dell’“interesse ad ottenere una pronuncia giurisdizionale finalizzata ad accertare ab imis l’illegittimità della procedura amministrativa di nomina, anche in applicazione del criterio della c.d. soccombenza virtuale, e ciò sia ai futuri fini risarcitori per il danno all’immagine professionale, morale ed esistenziale ingiustamente subito, ma anche ai fini delle ripartizione delle spese di lite del presente giudizio”.
...
3. Disattese dunque le eccezioni pregiudiziali, può passarsi all’esame del merito del gravame.
L’odierno deducente denuncia l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in quanto affetti dal vizio di difetto di motivazione: in particolare, egli lamenta che il laconico contenuto della proposta di nomina, come riformulata dopo la sostituzione del suo nominativo con quello del So., odierno controinteressato, non consentisse in alcun modo di comprendere le ragioni della subita estromissione, e ciò ancor più inspiegabilmente a fronte di una qualificata e duratura esperienza del ricorrente nel campo della regolamentazione del settore postale.
Né tale mutata scelta sarebbe giustificabile alla luce della nomina effettuata in favore del predetto soggetto, la cui esperienza professionale nel settore, a dire del ricorrente, risulterebbe inferiore a quella propria.
3.1 Le censure, nella misura in cui sono dirette a contestare il difetto di motivazione degli atti gravati, sono meritevoli di sicura adesione.
3.2 Come già ritenuto dal giudice di appello con la su indicata ordinanza cautelare, l’assenza di ogni e qualunque motivazione nella proposta di nomina non poteva trovare giustificazione nel fatto che la proposta rientrasse nel novero degli atti di alta amministrazione, atteso che tale categoria di atti amministrativi soggiace comunque alla disciplina generale degli atti amministrativi, per i quali non è ipotizzabile, alla luce di quanto previsto dagli artt. 24, 97 e 113 della Cost., alcun vuoto di tutela giurisdizionale.
3.3 E invero, per gli atti di nomina pacificamente si ritiene che “Se pure, in linea generale, le designazioni degli organi di vertice delle amministrazioni si configurano come provvedimenti da adottare in base a criteri eminentemente fiduciari, riconducibili nell'ambito degli atti di “alta amministrazione”, in quanto sono espressione della potestà di indirizzo e di governo delle autorità preposte alle amministrazioni stesse; si deve osservare nondimeno che il singolo provvedimento di nomina deve esporre le ragioni che hanno condotto alla nomina di uno di essi, comportando una scelta nell'ambito di una categoria di determinati soggetti in possesso di titoli specifici (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 25.05.2005, n. 2706).
In altre parole, la motivazione della scelta –sia pure effettuata latamente "intuitu personae"– deve comunque ancorarsi all’esito di un apprezzamento complessivo del candidato, in modo che possa dimostrarsi la ragionevolezza della scelta effettuata che non può logicamente esaurirsi nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti dalla legge ma che importa articolate, delicate e talvolta addirittura sfumate valutazioni sulla stessa personalità dei candidati, sulle loro capacità organizzative, sul loro prestigio personale, e sul prestigio che eventualmente hanno già conferito agli uffici precedentemente ricoperti e che astrattamente sono in grado di assicurare a quello da ricoprire.
L'obbligo di motivazione a carico della p.a. deriva inoltre dalla sussistenza, a fronte della potestà esercitata, di posizioni soggettive direttamente tutelate dall'ordinamento; pertanto, anche tale atto deve essere emanato sulla base di una conoscenza adeguata dello stato dei fatti, di un'esatta interpretazione della volontà della legge e di un soppesamento delle situazioni soggettive rilevanti (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 20.12.1996, n. 1304)
” (così: Tar Lazio, Roma, III-quater, 22.01.2009, n. 517).
3.4 Deve ancora aggiungersi che, essendo gli atti di alta amministrazione formalmente e sostanzialmente atti amministrativi, essi sono comunque soggetti all’obbligo di motivazione, essendo chiuso nel sistema, dopo l’entrata in vigore della legge n. 241 del 1990, ogni spazio per la categoria dei provvedimenti amministrativi c.d. a motivo libero, e posto che la connotazione di un atto amministrativo come un atto di alta amministrazione non vale di per sé ad escludere l'onere di motivazione a carico dell'Amministrazione (cfr. Tar Lazio, Roma, II-ter, 28.05.2004, n. 5076).
3.5 In aggiunta alle superiori considerazioni, è da ritenere che nel caso in esame l'obbligo motivazionale si imponesse con maggior rigore, dovendo la motivazione assolvere all'obbligo di rendere comunque trasparente ed imparziale la scelta posta in essere dalla P.A., trattandosi di nomina non preceduta da una qualche procedura selettiva introdotta da un bando di partecipazione che provvedesse a specificare criteri e requisiti astrattamente predeterminati dalla legge.
4. Le considerazioni svolte in ordine all’obbligo di motivazione rendono evidente il vizio invalidante in cui è incorsa l’Amministrazione nella procedura di nomina in contestazione, omettendo ogni motivazione tout court rispetto all’esercizio del potere effettuato con la proposta, vizio nella specie aggravato dalla circostanza che il Ministero procedeva a rettificare la originaria proposta, sostituendo il nominativo originario con un altro, senza motivare né in ordine alla estromissione del primo soggetto, né in ordine alla scelta del secondo.
E in una procedura di nomina quale quella descritta al comma 6, dell’art. 2 del D.Lgs. n. 261/1999, caratterizzata da una ben amplia discrezionalità, il sindacato giurisdizionale, che non può di certo essere escluso pur dovendo rimanere circoscritto all'accertamento estrinseco della legittimità della nomina -cioè al riscontro dell’esistenza dei presupposti e dell’esistenza e congruità del nesso logico di consequenzialità fra presupposti e conclusione (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 10.07.2007, n. 3893)- intanto può svolgersi, in quanto i criteri seguiti dall'Amministrazione ai fini della scelta o, comunque, le ragioni giustificatrici della stessa, emergano dall’ordito motivazionale dell’atto.
5. La proposta di nomina gravata, di contro, era inficiata da una totale e assoluta carenza di motivazione, sotto tutti gli anzidetti profili; essa risultava pertanto illegittima e, per l’effetto, determinava l’invalidità di tutti i successivi atti del procedimento.
6. Per le ragioni complessivamente illustrate il ricorso è dunque fondato e, assorbita ogni altra deduzione ed eccezione, deve essere accolto, con conseguente annullamento degli atti impugnati (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 05.03.2012 n. 2223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

Ed altro ancora in materia...

EDILIZIA PRIVATALa Commissione locale per il paesaggio svolge valutazioni di tipo consultivo in materie connotate da discrezionalità tecnica. Ne consegue che il profilo della colorazione politica non avrebbe, e non dovrebbe avere, alcuna conseguenza sulle valutazioni compiute dai singoli membri della C.L.P. chiamati a fornire valutazioni e pareri sulla esclusiva base della propria professionalità, con conseguente natura recessiva delle esigenze di tutela delle minoranze consiliari.
---------------

... per l'annullamento, previa sospensione degli effetti:
   1. Della deliberazione del Consiglio Comunale di Casamicciola Terme n. 36 del 08.10.2019, successivamente pubblicata sull’Albo Pretorio del Comune, con il quale è stata disposta la Nomina dei 5 Membri esperti della Commissione Locale per il Paesaggio per il triennio dal 01/08/2019 al 31/07/2022, con la quale il Consiglio Comunale ha deliberato i componenti della Commissione Locale per il Paesaggio ex art. 27 R.U.E.C;
   2. Della proposta di Delibera di Consiglio Comunale n. 39 del 26.09.2019 con la quale è stato proposto al Consiglio Comunale di Casamicciola di deliberare la nomina dei 5 membri esperti della Commissione Locale per il Paesaggio per il triennio dal 01/08/2019 al 31/07/2019;
   3. Dell’art. 27 del Regolamento Urbanistico Edilizio del Comune di Casamicciola Terme rubricato "Commissione locale per il Paesaggio", nella parte in cui prevede che: "Ogni Consigliere Comunale sceglie il nominativo dell'esperto, negli elenchi ordinati per ciascuna materia a seguito di procedura ad evidenza pubblica. […] Nel caso in cui non siano presentate candidature per ciascuna delle cinque materie, i consiglieri comunali nominano direttamente gli esperti in tale materia, procedendo in conformità alla legge regionale 10 del 1982. Nel caso in cui i Consiglieri Comunali esprimessero più nominativi per una medesima materia, il Consiglio Comunale nomina l'esperto che ha registrato un numero maggiori di voti. In caso di parità di voti verrà nominato l'esperto più giovane".
...
Con ricorso notificato in data 09.12.2019 e depositato il 07.01.2020, l’ing. Ma.Po. espone di aver partecipato alla procedura selettiva indetta dal Comune di Casamicciola Terme con avviso pubblico del 04.07.2019 approvato con Determina Dirigenziale n. 367 del 04.07.2019 e successiva determina di rettifica n. 368 del 04.07.2019 a cui i professionisti, in possesso degli specifici requisiti prescritti dall’Allegato alla Legge Regionale Campania n. 10/1982, sono stati invitati a manifestare la propria disponibilità alla nomina per la carica di componente della Commissione Locale per il Paesaggio (CLP) di cui all’art. 148 D.lgs. 42/2004.
Con Deliberazione n. 36 dell’08.10.2019 il Consiglio Comunale, ai sensi del novellato art. 27 del Regolamento Urbanistico Edilizio del Comune di Casamicciola Terme (RUEC) adottato nel mese di giugno 2019, ha nominato i 5 Membri esperti della CLP per il triennio dal 01.08.2019-31.07.2022, senza tuttavia includere il ricorrente.
Compiuto l’accesso agli atti della procedura l’ing. Po. verificava che ogni Consigliere aveva potuto esprimere preferenze per ogni singolo membro della CLP in linea con la previsione del RUEC, nonostante il parere negativo del Segretario generale dell’ente locale secondo cui ogni Consigliere comunale avrebbe potuto esprimere una sola preferenza, sicché avverso gli atti del procedimento in discorso e la segnalata previsione del RUEC, proponeva il ricorso introduttivo del presente giudizio, affidando il gravame all’unico articolato motivo che di seguito si sintetizza: ...
...
Il motivo è infondato.
Invero l'Allegato I della legge Regione Campania n. 10 del 23.02.1982 dispone che: “Per la nomina dei membri esperti, che non dovranno essere dipendenti o Amministratori del Comune interessato, ogni Consigliere può esprimere un solo nominativo”; su questa previsione si è innestato l'art. 41, comma 2, della legge regionale 22.12.2004, n. 16 stabilendo che: “Nei comuni sprovvisti di commissione edilizia, le funzioni consultive in materia paesaggistico-ambientale, attribuite alla commissione edilizia integrata comunale dall'allegato alla legge regionale 23.02.1982, n. 10… sono esercitate da un organo collegiale costituito dal responsabile dell'ufficio che riveste preminente competenza nella materia, con funzioni di presidente, e da quattro esperti designati dal Consiglio comunale con voto limitato”; infine tale disposizione è stata espressamente abrogata dall’art. 4, co. 1, lett. m), della l.r. 05.01.2011, n. 1.
Occorre quindi stabilire se la prima delle norme menzionate, quella di cui alla legge regionale n. 10/1982 che limita ad una sola preferenza il voto dei Consiglieri comunali che eleggono i membri della CLP, sia o meno ancora in vigore.
Deve in primo luogo ritenersi che la legge regionale n. 16/2004 abbia effettivamente abrogato la previsione sui meccanismi di voto per la nomina dei membri della CLP di cui alla legge regionale n. 10/1982 sia sotto il profilo testuale sia sotto quello sistematico.
Con riguardo al primo profilo rileva il riferimento contenuto nella sopravvenuta legge regionale n. 16/2004 in generale al “voto limitato” che esprime, come la precedente legge regionale n. 10/1982, l’intendimento di garantire alle minoranze consiliari la possibilità di esprimere uno o più componenti della CPL; tuttavia a differenza della precedente legge regionale, la l.r. n. 16/2004 non indica uno specifico meccanismo di rappresentanza delle minoranze, atteso che il voto limitato può concretamente realizzarsi attraverso diverse modalità tra cui anche, ma non solo, quella specificamente individuata dalla legge regionale n. 10/1982.
Tale rapporto di genere a specie fra le due norme non deve, tuttavia, indurre a ritenere applicabile nel caso di specie il principio per cui lex posterior generalis non derogat priori speciali (ex multis Cass. civ. Sez. V, 17.05.2017, n. 12302; Corte dei Conti, Sezioni Riunite, 02.03.2018, n. 1), atteso che la legge regionale n. 16/2004 costituisce verosimilmente il frutto di una specifica scelta legislativa volta a demandare ai Comuni una maggiore autonomia nell’individuazione dello specifico sistema di voto, in linea con la tendenza alla sussidiarietà e autonomia degli enti locali impressa dalla legislazione nazionale successiva alla legge regionale n. 10/1982. Ne consegue quindi che tra le due disposizioni è effettivamente riscontrabile un rapporto di incompatibilità con conseguente abrogazione della precedente previsione più limitativa dell’autonomia comunale.
Peraltro, sotto il profilo sistematico, la legge regionale n. 16/2004 ha una portata ampia, tendendo a porsi come unico testo di riferimento per la disciplina edilizia e per la relativa organizzazione delle istituzioni locali coinvolte nei relativi procedimenti, con ciò costituendo espressione della volontà del Legislatore di introdurre un testo omnicomprensivo e sostituivo delle precedenti fonti.
Per gli stessi motivi non può nemmeno predicarsi la riviviscenza della previsione della l.r. n. 10/1982 a seguito dell’abrogazione dell’art. 41, co. 1, lett. m), della l.r. n. 16/2004, atteso che secondo la giurisprudenza “l'abrogazione della disposizione che modifica o sostituisce quella precedente non comporta la sua reviviscenza, tale effetto può predicarsi in caso di abrogazione di una disposizione che abbia come contenuto quello di abrogare una disposizione precedente sicché ciò che viene meno è proprio l'effetto abrogativo” (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 07.12.2007, n. 25551); ora, nel caso di specie, il predetto art. 41, come rilevato, non si è limitato ad abrogare la precedente disciplina sulla nomina dei membri delle CLP ma ha introdotto una disciplina incompatibile con quella precedente. Né può ritenersi che l’abrogazione della legge regionale del 2004 abbia determinato un vuoto normativo, dovendosi in contrario ravvisare una riespansione della regola generale per la quale tutti i membri del consiglio comunale esercitano pienamente il proprio diritto di voto senza limitazioni, dovendosi infatti ritenere che le regole sul voto limitato costituiscano eccezione al principio della piena rappresentanza dei singoli Consiglieri comunali chiamati ad esprimere pienamente il proprio voto.
Peraltro, a tali considerazioni deve aggiungersi che la Commissione locale per il paesaggio svolge valutazioni di tipo consultivo in materie connotate da discrezionalità tecnica, secondo quanto dettagliato nell’allegato alla ripetuta legge regionale n. 10/1982, in base alla quale la commissione è investita dei compiti:
   a) di esprimere parere in merito alle materie di cui all'art. 82 del DPR n. 616 del 24.07.1977, non comprese tra quelle sub-delegate ai Comuni ai sensi del II Comma dell'art. 6 della legge regionale 01.09.1981, n. 65;
   b) di fornire consulenza in materia di Tutela dei Beni Ambientali, Paesistici ed Architettonici e di uso di edifici di particolare pregio e, comunque, su tutte le questioni che l'Amministrazione Comunitaria o Provinciale interessata riterrà opportuno sottoporle.
Ne consegue che il profilo della colorazione politica non avrebbe, e non dovrebbe avere, alcuna conseguenza sulle valutazioni compiute dai singoli membri della CLP chiamati a fornire valutazioni e pareri sulla esclusiva base della propria professionalità, con conseguente natura recessiva delle esigenze di tutela delle minoranze consiliari (cfr. Tar Campania, sez. I, 18.06.2019, n. 3359).
In definitiva il motivo di ricorso si appalesa infondato e il ricorso deve essere conseguentemente respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 26.03.2020 n. 1260 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca la possibilità di riconoscere un compenso e/o un rimborso spese ai membri della Commissione locale per il paesaggio prevista dall’art. 148 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), l’art. 183, comma 3, del D.Lgs. n. 42 del 2004 vieta la possibilità di erogare compensi ai membri della Commissione locale per il paesaggio, ai quali, tuttavia, è possibile riconoscere un rimborso delle spese documentate a condizione che l’amministrazione interessata verifichi a monte, sin dalla fase di programmazione, la possibilità di coprire, in concreto, tali spese con nuove entrate (ovvero risparmi di spesa) derivanti dall’esercizio della funzione delegata, di cui è parte integrante e sostanziale la commissione locale per il paesaggio.
In caso contrario, tali oneri non potranno essere sostenuti, pena la violazione del vincolo di invarianza finanziaria previsto dal comma 3, del citato art. 183 del Codice.
---------------

Il Sindaco del Comune di Novara chiede a questa Corte di pronunciarsi sulla legittimità del riconoscimento di un compenso e/o rimborso spese ai componenti della Commissione locale per il paesaggio (di seguito anche: Commissione).
Al riguardo l’Ente, nel richiamare la normativa che disciplina il predetto organo, precisa che, sino ad ora, non ha riconosciuto alcun compenso ai componenti di tale Commissione, anche se professionisti esterni all’Ente.
...
Ciò posto, si evidenzia che il quesito formulato dal Comune di Novara riguarda la possibilità, o meno, di riconoscere un compenso e/o un rimborso spese ai membri della Commissione locale per l’ambiente prevista dall’art. 148 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (c.d. “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, di seguito anche: Codice), con la specificazione che di tale organo vengono chiamati a far parte anche professionisti esterni all’Amministrazione.
La questione sorge dall’esigenza dell’Ente di approvare un nuovo regolamento comunale sulla Commissione locale per il paesaggio, per cui viene evidenziato che, nel corso di dibattiti intercorsi con gli Ordini professionali (ed in particolare con l’Ordine degli architetti) è stato eccepito che “nel caso in cui i professionisti [membri della Commissione – n.d.r.] fossero esterni all’apparato pubblico, risulterebbe ostativa alla tesi interpretativa del Comune [ovvero della preclusione normativa al riconoscimento di compensi – n.d.r.] la regola generale imposta dai codici deontologici degli ordini professionali di appartenenza dei professionisti, secondo cui è vietata la gratuità della prestazione, salvo specifiche ipotesi motivate da ragioni di ‘solidarietà’ ovvero ‘di apprendistato’, non sussistenti nel caso in esame”.
Al riguardo l’Ente precisa poi che “stante la peculiarità dei requisiti richiesti, anche di natura specialistica, nella maggior parte dei casi le Amministrazioni, al fine di comporre le commissioni, si rivolgono a soggetti esterni al comparto pubblico”.
Nel prosieguo, viene evidenziato che l’art. 183, comma 3, del Codice, mentre esclude tassativamente la corresponsione di compensi ai membri della Commissione anche sotto forma di gettoni di presenza per la partecipazione alle sedute, nulla dice in relazione ad eventuali rimborsi spese, sebbene la stessa norma specifichi che dalla partecipazione alle Commissioni non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
In conclusione, l’Ente chiede se “sia corretto, sotto l’aspetto della rispondenza del dettato normativo, prevedere, nel redigendo regolamento sulla Commissione Locale del Paesaggio, il riconoscimento di un compenso e/o di un rimborso spese, quest’ultimo limitato a quei membri residenti fuori dal territorio comunale, previa presentazione di idonee pezze giustificative”.
2. Per la disamina della tematica oggetto del parere richiesto dal Comune di Novara si evidenzia, in primo luogo, che l’art. 146, comma 6, del Codice dei beni culturali e del paesaggio ha attribuito alla regione la funzione autorizzatoria in materia di paesaggio, specificando che tale funzione viene svolta dalla regione avvalendosi di propri uffici dotati di adeguate competenze tecnico-scientifiche e idonee risorse strumentali. Nel contempo, la medesima norma prevede la possibilità per la regione di delegare l’esercizio di tale funzione, con riguardo ai rispettivi territori, a province, a forme associative e di cooperazione fra enti locali, agli enti parco, ovvero ai comuni, “purché gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia”.
Il comma 16 del medesimo articolo specifica che “[d]all'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
A sua volta, il primo ed il secondo comma dell’art. 148 del Codice prevedono che “1. Le regioni promuovono l'istituzione e disciplinano il funzionamento delle commissioni per il paesaggio di supporto ai soggetti ai quali sono delegate le competenze in materia di autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell'articolo 146, comma 6.
2. Le commissioni sono composte da soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio
”.
In ultimo, il terzo comma dell’art. 183 del Codice prevede che “[l]a partecipazione alle commissioni previste dal presente codice è assicurata nell'ambito dei compiti istituzionali delle amministrazioni interessate, non dà luogo alla corresponsione di alcun compenso e, comunque, da essa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
La Regione Piemonte ha disciplinato tale materia con la legge regionale 01.12.2008, n. 32 il cui articolo 3, secondo comma, prevede che “[n]ei casi non elencati dal comma 1 e per quelli di cui al decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica è delegato ai comuni o alle loro forme associative, che si avvalgono, per la valutazione delle istanze, delle competenze tecnico scientifiche delle commissioni locali per il paesaggio di cui all'articolo 4”.
Il predetto articolo 4, primo comma, prevede che “[i] comuni o le loro forme associative istituiscono, ai sensi dell'articolo 148 del codice dei beni culturali e del paesaggio, la commissione locale per il paesaggio con competenze tecnico scientifiche, incaricata di esprimere i pareri previsti dall'articolo 148, comma 3, del codice dei beni culturali e del paesaggio”.
Il secondo comma, invece, stabilisce che “[o]gni commissione locale per il paesaggio è composta da almeno tre componenti di particolare, pluriennale e qualificata esperienza, come definita con apposito provvedimento della Giunta regionale, nella tutela del paesaggio”, specificando poi i titoli che devono possedere i membri di tale organo collegiale.
Per completezza, si evidenzia che quest’ultimo comma è stato modificato dall’art. 93, comma 1, della legge regionale 17.12.2018, n. 19 che ha sostanzialmente ampliato le possibilità di formazione della commissione, prevedendo come titolo ammesso, oltre a specifici diplomi di laurea, anche il diploma di scuola secondaria di secondo grado attinente a determinate discipline, unitamente all’iscrizione ad albi professionali, ovvero ad una qualificata e pluriennale esperienza nelle medesime materie.
La Giunta regionale, con deliberazioni n. 34/10229 e n. 58/10313 del 2008, ha indicato, tra l’altro, i requisiti dei componenti della Commissione locale per il paesaggio, con la specificazione che gli stessi “devono essere scelti tra i tecnici esterni all’amministrazione e comunque non facenti parte dello Sportello unico per l’edilizia” e l’ulteriore indicazione che la scelta dei componenti “dovrà tenere in considerazione, altresì, dell’esperienza almeno triennale maturata nell’ambito della libera professione o in qualità di pubblico dipendente, nelle specifiche materie”.
3. Sulla base del predetto quadro normativo deve trovare soluzione il quesito posto dal Comune di Novara per il quale occorre distinguere l’argomento della riconoscibilità di un compenso ai membri della Commissione locale per il paesaggio, da quello della riconoscibilità di un mero rimborso spese.
Venendo al primo argomento, si ritiene che sul punto il legislatore non abbia lasciato alcun margine interpretativo sancendo espressamente il divieto di corresponsione di compensi ai membri della Commissione in parola.
L’art. 183, comma 3, del Codice dei beni culturali e del paesaggio “[l]a partecipazione alle commissioni previste dal presente codice […] non dà luogo alla corresponsione di alcun compenso”, da intendersi come qualsiasi forma di remunerazione per l’attività svolta dai membri dell’Organo. Divieto imposto per ogni tipo di Commissione prevista dal Codice, tra le quali vi è la Commissione locale per il paesaggio disciplinata prevista dall’art. 148 del medesimo testo normativo.
Tale disposizione, peraltro, non pone alcuna distinzione sulla base della provenienza dei membri dell’Organo collegiale per cui il portato normativo non cambia anche se la regione ha previsto la possibilità che per la composizione della Commissione ci si possa rivolgere pure a professionisti esterni dotati di specifiche competenze. Rimane ad ogni modo fermo che la decisione del professionista di far parte della medesima Commissione rientra nella sua autonoma determinazione. La gratuità della prestazione, in tal caso, sarebbe riconducibile ad un obbligo di legge e non alla volontà del professionista, nell’esercizio della quale lo stesso deve attenersi agli obblighi deontologici.
A margine si ritiene opportuno precisare che, nell’ipotesi in cui un Comune non riesca a formare la Commissione in parola, le funzioni amministrative in materia paesaggistica sono esercitate dalla Regione.
Di concorde avviso è la Sezione regionale di controllo per la Puglia che, con parere 18.04.2012 n. 52, ha concluso che “la partecipazione alle commissioni locali per il paesaggio istituite in attuazione dell’art. 148 del codice dell’art. 8 della legge regionale pugliese n. 20 del 2009 è da ritenersi onorifica”.
4. Per quanto concerne, invece, la possibilità di riconoscere ai membri della Commissione un rimborso spese si evidenzia che il menzionato art. 183, comma 3, del Codice dei beni culturali e del paesaggio non contiene un espresso divieto come per i compensi.
La clausola di invarianza finanziaria ivi contenuta, secondo cui dalla partecipazione alle commissioni previste dal Codice “non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, infatti, costituisce espressione dell’obbligo previsto dall’art. 81, comma 3, della Costituzione secondo cui “[o]gni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte”.
Detta clausola, pertanto, impone la neutralità dell’impatto degli oneri derivanti dall’attuazione della norma in termini di equilibrio economico-finanziario complessivo.
In tal senso la Sezione regionale di controllo per la Basilicata, con
parere 07.07.2016 n. 29 ha chiarito che “il comma 3, dell’art. 183 del Dlgs 42/2004, per come formulato, non preclud[e] ‘in linea astratta’ il rimborso delle spese di viaggio sostenute dai componenti per la partecipazione alle commissioni in riferimento, e ciò in quanto l’articolato in questione non prevede uno specifico divieto in tal senso, e, comunque, tale divieto non può ritenersi compreso –per via implicita– nel divieto di ‘corrispondere alcun compenso’ sancito dal comma in questione, in quanto non ne condivide i medesimi presupposti ‘remunerativi o compensativi’”.
Conseguentemente, la medesima Sezione specifica che “
alla luce del vincolo di neutralità finanziaria sancito dall’articolato in esame, gli oneri derivanti dal ‘rimborso delle spese’ potranno essere legittimamente previsti e sostenuti dall’amministrazione interessata solo ed esclusivamente all’esito della verifica ‘a monte’, sin dalla fase di programmazione, della possibilità di neutralizzare, in concreto, tali spese con le nuove entrate (ovvero i risparmi di spesa) derivanti dall’esercizio della funzione delegata, di cui è parte integrante e sostanziale la commissione locale per il paesaggio in esame. In caso contrario, tali oneri non potranno essere sostenuti, pena la violazione del vincolo di invarianza finanziaria” previsto dal comma 3, del citato art. 183 del Codice.
Fermo restando tale imprescindibile verifica circa la possibilità di neutralizzare la spesa per concedere tali rimborsi, si ritiene che i criteri e le modalità di riconoscimento di tali rimborsi spese, da sottoporre ad un rigoroso onere di documentazione, dovranno trovare puntuale disciplina nel redigendo regolamento comunale sulla Commissione locale per il paesaggio (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 27.06.2019 n. 57).

EDILIZIA PRIVATAIl parere reso dalla Commissione per il Paesaggio del Comune, così come dispone la legge, è consultivo e, pertanto, non esplica alcun effetto vincolante rispetto alle valutazioni della Soprintendenza, esaurendosi in una proposta, da qualificarsi atto endoprocedimentale che viene inoltrato alla Soprintendenza.
---------------

Con la sesta censura si deduce l’illegittimità del provvedimento anche perché viziato da una immotivata ed infondata contraddittorietà con il parere della Commissione Locale per il Paesaggio.
Al riguardo, parte ricorrente, dopo aver sottolineato che l’art. 146 del D.L.vo 42/2004 prevede, ai fini del giudizio di compatibilità paesaggistica un procedimento articolato in due fasi, la prima di competenza dell’Amministrazione deputata al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (il Comune, quale ente delegato dalla Regione Campania), e la seconda di competenza della Soprintendenza che rende il parere, deduce che la scansione procedimentale presuppone ed impone che il parere soprintendentizio prenda in esame la prima valutazione effettuata dal Comune e la relativa proposta di provvedimento, per poi confermarla o modificarla motivatamente e, nella specie, tale onere istruttorio è stato completamente pretermesso dalla Soprintendenza.
La censura è priva di fondatezza.
Secondo parte ricorrente, a fronte di una valutazione comunale espressa seguendo le doverose coordinate valutative del giudizio di compatibilità paesaggistica -ossia con la descrizione dell’edificio e del contesto paesaggistico in cui si colloca- la Soprintendenza si è orientata per una determinazione di segno completamente opposto, senza tuttavia indicarne le ragioni, atteso che l’enfatizzazione della grandezza dell’immobile operata dall’Autorità ministeriale non troverebbe una giustificazione su un raffronto obiettivo rispetto al contesto di riferimento così come, allo stesso modo, mancherebbe completamente la valutazione -dirimente- dell’eventuale impatto visivo e panoramico (impatto tuttavia inesistente, come accertato dal Comune). Ne deriverebbe che l’esame compiuto dalla Soprintendenza, oltre ad essere inficiato da un palese difetto di istruttoria e di motivazione (primo motivo di ricorso) è altresì viziato perché è stato assunto in palese ingiustificata contraddizione con la valutazione comunale, svilendo completamente la ratio della doppia fase valutativa della scansione procedimentale prevista dall’art. 146, D.L.vo 42/2004.
In contrario deve preliminarmente rilevarsi che il parere reso dalla Commissione per il Paesaggio del Comune, così come dispone la legge, è consultivo e, pertanto, non esplica alcun effetto vincolante rispetto alle valutazioni della Soprintendenza, esaurendosi in una proposta, da qualificarsi atto endoprocedimentale che viene inoltrato alla Soprintendenza.
In ogni caso le ragioni di non compatibilità del parere reso dalla Soprintendenza con il parere dell’organo consultivo locale, possono ritenersi in re ipsa con l’espressione di un parere (se non antitetico, anche soltanto) diverso rispetto al primo, senza necessità di un’analitica confutazione di quest’ultimo.
Ma, nel caso di specie la proposta favorevole del Comune non può dirsi che non sia stata contestata (anche) con argomentazioni di merito, atteso che, a fronte del parere favorevole espresso dal Responsabile per il Paesaggio il quale asserisce che “per dimensioni proporzioni e tipologia, non contrasti con i valori paesaggistico-ambientale presenti al contorno, non alterando lo skyline dell’assetto percettivo, scenico o panoramico, inserendosi, di fatto, in un contesto già urbanizzato caratterizzato da edilizia spontanea con medesime caratteristiche tipologiche”, la resistente Soprintendenza, dapprima ha chiarito che la richiesta di condono è in palese contrasto con l’art. 13 del Piano Paesaggistico, poi, nel merito, ha osservato come l’opera consta di: “una costruzione abnorme, una massa di consistenti dimensioni con tipologia ambigua fatta di vetrate continue, tonde e rettilinee, di enormi terrazzi, di tettoie abusive che, nell’insieme, contribuisce ad alterar il già depauperato ambiente in cui è inserito, che, come afferma lo stesso Comune, è caratterizzato da costruzioni spontanee (probabilmente anch’esse abusive”).
Ne consegue la esaustività e prevalenza del parere adottato dalla resistente Soprintendenza e l’infondatezza della censura, fermo restando che le valutazioni espresse nel parere non sono suscettibili di sindacato nel merito in sede di legittimità innanzi al giudice amministrativo, salvo che non emerga una manifesta ingiustizia o irragionevolezza del giudizio manifestato con l’atto impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.09.2018 n. 5317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa partecipazione agli organi collegiali o monocratici operanti presso la pubblica Amministrazione è da considerarsi onorifica e può dare luogo esclusivamente al rimborso delle spese sostenute, ove previsto dalla normativa vigente, ed i gettoni di presenza eventualmente erogati ai componenti di tali organi non possono superare la misura di 30 euro per seduta giornaliera.
---------------

La richiesta di parere in epigrafe ha per oggetto l'art. 6, comma 1, del D.L. 31/05/2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30/07/2010, n. 122, il quale ha disposto che la partecipazione agli organi collegiali o monocratici operanti presso la pubblica Amministrazione è da considerarsi onorifica e può dare luogo esclusivamente al rimborso delle spese sostenute, ove previsto dalla normativa vigente, e che i gettoni di presenza eventualmente erogati ai componenti di tali organi non possono superare la misura di 30 euro per seduta giornaliera.
In particolare, il Sindaco del comune di Castellana Grotte (BA) chiede se detta disposizione si applichi anche alla commissione locale per il paesaggio, prevista dal 1° comma dell'art. 148 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 nonché dall'art. 8 della Legge Regionale n. 20 del 07.10.2009 ed istituita presso il Comune, tenuto conto che il Consiglio comunale, in sede di regolamento disciplinante il funzionamento di tale organismo -approvato nel 2010- ha previsto l’erogazione di un gettone di presenza ai componenti della suddetta commissione per la partecipazione alle relative sedute in misura non inferiore al gettone percepito dai consiglieri comunali, che è comunque superiore ad € 30.
Ragion per cui chiede se la commissione de qua “rientri nel novero degli organi collegiali considerati onorifici” soggetti alla riduzione di spesa che occupa.
...
 La richiesta di parere che occupa verte sulla inclusione o meno della commissione per il paesaggio, prevista dal 1° comma dell'art. 148 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) e dall’art. 8 della Legge Regionale pugliese n. 20 del 7.10.2009, nel campo di applicazione dell’art. 6, comma 1, del d.l. 31.05.2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30.07.2010, n. 122. Tale previsione, al fine di ridurre i costi degli apparati amministrativi:
   - stabilisce che la partecipazione agli organi collegiali di cui all'articolo 68, comma 1, del decreto-legge 25.06.2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 06.08.2008, n. 133 ha natura onorifica e può dar luogo esclusivamente al rimborso delle spese sostenute, ove previsto dalla normativa vigente;
   - fissa il tetto massimo in caso di eventuale erogazione di gettoni di presenza, che non possono superare l'importo di 30 euro per ogni seduta giornaliera.
La stessa norma poi espressamente esonera dalla previsione testé delineata le commissioni che svolgono funzioni giurisdizionali, gli organi previsti per legge che operano presso il Ministero per l'ambiente, e altre strutture testualmente indicate dalla norma stessa.
È bene precisare che l’art. 68 del citato decreto legge n. 112 del 2008 (rubricato “Riduzione degli organismi collegiali e di duplicazioni di strutture”), cui rinvia lo stesso art. 6, comma 1 cit., si colloca a sua volta nella scia dell'articolo 29 del decreto-legge 04.07.2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 04.08.2006, n. 248, il quale ha avviato un percorso finalizzato al contenimento della spesa di commissioni, comitati ed altri organismi operanti presso le Amministrazioni statali (e non statali, per evidenti ragioni di coordinamento finanziario, in base al successivo comma 3), disponendone il riordino anche mediante la loro soppressione o accorpamento e previa valutazione della “perdurante utilità” degli stessi (comma 2-bis), il cui esito favorevole avrebbe consentito di assoggettarli ad un regime di proroga e dunque di sopravvivenza ad tempus.
L’art. 68 ha portato avanti tale percorso anche al fine di realizzare, entro il triennio 2009-2011, la graduale riduzione di tali organismi fino al definitivo trasferimento delle attività ad essi demandate alle relative Amministrazioni, e ha escluso ex lege dal regime di proroga sopra indicato una serie di enti collegiali aventi determinate caratteristiche, che dunque dovevano essere assolutamente e immediatamente soppressi.
In questo tessuto normativo si innesta l'art. 6 del decreto-legge n. 78 del 2010, il quale si propone di portarne a compimento l’obiettivo, anche se mediante un meccanismo che non incide più sull’obbligo di eliminazione di tali organi, bensì sulla natura della partecipazione agli stessi, che diviene onorifica; ne consegue l’impossibilità di erogare corrispettivi o emolumenti comunque denominati che non siano riconducibili al mero rimborso delle spese sostenute (ove previsto dalla normativa vigente); una parziale deroga a detto divieto è posto dalla successiva parte della disposizione, che in ogni caso fissa nell'importo massimo di 30 euro a seduta giornaliera la misura massima possibile eventualmente erogabile.
In sostanza, le disposizioni su riportate sono accomunate dalla medesima ratio del raggiungimento dell’obiettivo di contenimento delle spese degli organi collegiali non indispensabili delle pp.AA., le quali sono evidentemente ritenute dal legislatore una delle componenti su cui incidere per ridurre la spesa pubblica.
3.1. Venendo al caso di specie, la risoluzione della connessa questione presuppone una breve indagine sulla natura e sulle funzioni delle commissioni per il paesaggio, previste dal 1° comma dell'art. 148 del codice dei beni culturali e del paesaggio (nel prosieguo, per brevità, “codice”), approvato con il sopra citato D.Lgs. n. 42 del 2004.
È bene premettere che il precedente art. 146 del codice prevede una particolare procedura in materia di richiesta e di rilascio di autorizzazione paesaggistica. Per quanto qui occupa, va osservato che la funzione autorizzatoria in materia di paesaggio spetta alle regioni (comma 5), le quali la esercitano o avvalendosi di propri uffici ovvero delegandone l'esercizio –tra gli altri- agli enti locali, purché questi dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra l’ufficio che rilascia il titolo abilitativo in materia urbanistico-edilizia e quello preposto al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (comma 6).
Non è superfluo osservare che il comma 16 dell’art. 146 citato dispone che l’attuazione dello stesso articolo non deve determinare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ragion per cui un’eventuale delega di tali funzioni da parte delle regioni agli altri enti territoriali deve avvenire a costo zero.
Il successivo articolo 148 rimette alle regioni la possibilità di prevedere, in caso di delega, l'istituzione di commissioni per il paesaggio (composte da esperti nella materia della tutela del paesaggio), onde supportare tecnicamente i soggetti ai quali sono delegate le suddette competenze ai sensi dell'articolo 146, sub specie di espressione di pareri nel corso dei procedimenti autorizzatori previsti dal codice. Trattasi quindi di attività di amministrazione consultiva di natura endoprocedimentale non avente riflessi diretti nella sfera giuridica dei terzi richiedenti.
Per quanto riguarda la regione Puglia, la legge regionale n. 20 del 07.10.2009, recante “Norme per la pianificazione paesaggistica”, contiene all’art. 7 la delega ai comuni delle funzioni in materia paesaggistica. Il successivo articolo 8 (“Commissioni locali per il paesaggio”) stabilisce che “Gli enti delegati al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica istituiscono, preferibilmente in forma associata, la commissione locale per il paesaggio a norma dell’articolo 148 del d.lgs. 42/2004, che esprime parere nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica”.
Orbene, dall’esame di tali previsioni emerge che nella regione Puglia l’istituzione delle commissioni per il paesaggio è obbligatoria. L’uso dell’indicativo presente da parte del legislatore regionale ("istituiscono") è sicuro indice, infatti, della prescrizione di un obbligo ("devono istituire"), piuttosto che dell’attribuzione di una facoltà ("possono istituire"). Ne consegue che in tale Regione lo stesso legislatore ha effettuato, a monte, la valutazione della indispensabilità di tale organo, valutazione che può ritenersi non irragionevole in quanto finalizzata a fornire un ausilio tecnico agli uffici dei comuni delegati (tra i quali ve ne sono innumerevoli di piccole dimensioni) ai fini del rilascio di un’autorizzazione in una materia che richiede una particolare competenza specialistica (si rammenta che in precedenza tali competenze erano assorbite dalla commissione edilizia, la cui istituzione è ora meramente facoltativa giusto l’art. 4, comma 2, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, recante il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”).
Tuttavia,
nonostante l’obbligatorietà, la stessa norma che per prima ne ha previsto la possibile istituzione (rimettendone la decisione in tal senso alle regioni: art. 146 del codice), afferma in maniera netta che l’eventuale istituzione di tali organismi non deve comportare nuovi oneri per la finanza pubblica.
Logico corollario, ad avviso della Sezione, è che
il citato art. 146 del codice, letto in combinato disposto con l’art. 8 della l.r. n. 20 del 2009, con l’art. 6, comma 1, del richiamato d.l. n. 78 del 2010 e con i suoi antecedenti normativi, impone di considerare le commissioni de quibus soggette agli obiettivi di contenimento della spesa imposti dal legislatore del 2010.
In conclusione,
il Collegio reputa che la partecipazione alle commissioni locali per il paesaggio istituite in attuazione dell’art. 148 del codice e dell’art. 8 della legge regionale pugliese n. 20 del 2009 è da ritenersi onorifica (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 18.04.2012 n. 52 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il regolamento adottato da un Comune per la nomina dei componenti della Commissione locale per il paesaggio, prevista dall'art. 148, D.Lgs. n. 42/2004, nella parte in cui, in modo ingiustificato e quindi irragionevole, ha limitato la candidatura degli aspiranti componenti ai soli liberi professionisti proposti dai rispettivi Ordini.
Il Comune, con l’adozione del Regolamento per il funzionamento della Commissione, ha previsto che:
   - i componenti della commissione, stabiliti in numero di tre, devono aver maturato un’esperienza almeno quinquennale esclusivamente nell’ambito della libera professione (art. 2);
   - la nomina dei tre esperti spetta al Consiglio Comunale sulla base di un rendiconto del Dirigente competente, che valuta tre terne di candidature proposte rispettivamente dagli Ordini professionali degli Architetti, degli Ingegneri, dei Geologi ed Agronomi (art. 3).
In questa prospettiva, visto il quadro normativo, risulta ingiustificata e quindi irragionevole, la scelta discrezionale del Comune di limitare la candidatura ai soli liberi professionisti proposti dai rispettivi Ordini, posto che una tale limitazione restringe aprioristicamente il campo delle scelte possibili e quindi delle competenze e delle esperienze impiegabili nell’attività della Commissione.
L’ordinamento legislativo vigente, sopra richiamato, non prevede infatti una simile discriminazione, stabilendo solo il requisito della “qualificata esperienza” funzionale a costituire una struttura specialistica come la Commissione per il paesaggio che, a livello comunale, consenta di raggiunge una soglia sufficiente di competenze tecnico-scientifiche integrate idonee a garantire una valutazione separata degli aspetti paesaggistici da quelli urbanistico-edilizi; tale requisito appare evidentemente garantito anche da un curriculum svolto nel settore pubblico.
Inutilmente discriminatoria e immotivata risulta dunque la distinzione tra liberi professionisti e pubblici dipendenti, anche alla luce delle richiamate indicazioni regionali, atteso che l’esperienza acquisita in impieghi pubblici, anche di elevata responsabilità, nel campo -ad esempio- dell’urbanistica, della protezione ambientale o della salvaguardia dei beni culturali può avere sicuramente un valore qualificante pari a quello del libero professionista, atteso che la possibilità di nominare anche componenti, provvisti di curriculum prevalentemente costituito da pubblici incarichi, consente di acquisire quelle esperienze e competenze interdisciplinari necessarie ad arricchire il livello tecnico-specialistico richiesto ai componenti della Commissione.
Conseguentemente, nel rispetto del primario interesse di garantire la pluralità della rappresentanza nell’organo consultivo nei termini indicati e al fine di assicurare una composizione della commissione in cui convergano molteplici e variegate esperienze professionali, il Dirigente incaricato di formulare la proposta al Consiglio comunale non dovrà ritenersi vincolato dalla proposta formulata dagli Ordini professionali.

---------------

1. Con il ricorso epigrafe originariamente proposto l’Ing. Ru. ha impugnato la delibera del Consiglio Comunale di Martina Franca con cui è stata istituita e regolata la Commissione locale per il paesaggio, organo consultivo previsto dell’art. 148 D.lgs. 42/2004.
Con successivi motivi aggiunti ha poi impugnato la nota comunale del 29.11.2010 con cui il Comune di Martina Franca gli ha comunicato di non poter tener conto della sua candidatura a componente della citata Commissione.
1.1 - Con il ricorso originariamente proposto vengono dedotte le seguenti censure:
   - violazione artt. 146 e 148 d.lgs. 42/2004 e art. 8 L. 20/2009, violazione delibera GR 2273/2009, violazione artt. 3 e 97 Cost.; violazione dei principi di evidenza pubblica e favor partecipationis, violazione art. 3 L. 241/1990, eccesso di potere;
   - violazione art. 3 e 10-bis L. 241/1990, violazione della par condicio, eccesso di potere.
1.2 - Con i motivi aggiunti si deduce:
   - violazione artt. 146 e 148 d.lgs. 42/2004 e art. 8 L. 20/2009, violazione delibera GR 2273/2009, violazione L. 241/1990, eccesso di potere.
...
2. - Il gravame merita di essere accolto.
2.1 - Il ricorrente lamenta che le modalità di nomina prescelte dal Comune pregiudicherebbero irragionevolmente la possibilità di accesso alla Commissione per chi, come lui, ha acquisito un’esperienza curriculare in qualità di pubblico dipendente e non di libero professionista,.
Il motivo è fondato.
2.2 – Al riguardo il Collegio deve precisare quanto segue:
   - Con deliberazione del 27.09.2010 il Consiglio Comunale ha istituito la Commissione locale per il paesaggio e ne ha approvato il relativo regolamento.
   - La detta Commissione è prevista espressamente dall’art. 148 D.lgs. 42/2004, spettandole funzioni consultive nel corso dei procedimenti di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
   - In merito alla composizione, l’art. 148 si limita a stabilire che la Commissione deve essere composta “da soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio”, senza esprimere alcuna limitazione o preferenza tra distinte categorie professionali.
   - La L.R. Puglia 20/2009 ha poi precisato che le Commissioni per il paesaggio sono composte da “esperti in possesso di diploma di laurea attinente alla tutela paesaggistica, alla storia dell’arte e dell’architettura, al restauro, al recupero e al riuso dei beni architettonici e culturali, alla progettazione urbanistica e ambientale, alla pianificazione territoriale, alle scienze agrarie o forestali e alla gestione del patrimonio naturale”.
   - La Commissione per il paesaggio deve essere costituita nell’ambito dei Comuni, in quanto soggetti delegati al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, fermo comunque un potere di vigilanza in capo all’ente regionale, stabilito dalla legge statale (cfr. art. 148 D.lgs. 42/2004 “le Regioni promuovono l'istituzione e disciplinano il funzionamento delle commissioni per il paesaggio di supporto ai soggetti ai quali sono delegate le competenze in materia di autorizzazione paesaggistica”) e confermato implicitamente dalla legge regionale (cfr. art. 8 LR 20/2009 “I Comuni trasmettono alla Regione copia del provvedimento istitutivo della commissione locale per il paesaggio, delle nomine dei singoli componenti e dei rispettivi curricula”).
   - In questo ambito la Regione Puglia, con Delibera G.R. n. 2273/2009 ha stabilito i requisiti minimi obbligatori dei componenti della Commissione, anche al fine di rendere omogenea la competenza tecnico-scientifica dei soggetti chiamati ad esprimersi sulle proposte edilizie, nell’ambito delle prerogative delegate; in quest’occasione si è considerata parificata l’esperienza acquisita come libero professionista a quella di dipendente pubblico.
2.3 – Ciò posto si osserva che il Comune, con l’adozione del Regolamento per il funzionamento della Commissione ha invece previsto che:
   - i componenti della commissione, stabiliti in numero di tre, devono aver maturato un’esperienza almeno quinquennale esclusivamente nell’ambito della libera professione (art. 2);
   - la nomina dei tre esperti spetta al Consiglio Comunale sulla base di un rendiconto del Dirigente competente, che valuta tre terne di candidature proposte rispettivamente dagli Ordini professionali degli Architetti, degli Ingegneri, dei Geologi ed Agronomi (art. 3).
2.4 - In questa prospettiva, visto il quadro normativo, risulta ingiustificata e quindi irragionevole, la scelta discrezionale del Comune di Martina Franca di limitare la candidatura ai soli liberi professionisti proposti dai rispettivi Ordini, posto che una tale limitazione restringe aprioristicamente il campo delle scelte possibili e quindi delle competenze e delle esperienze impiegabili nell’attività della Commissione.
L’ordinamento legislativo vigente, sopra richiamato, non prevede infatti una simile discriminazione, stabilendo solo il requisito della “qualificata esperienza” funzionale a costituire una struttura specialistica come la Commissione per il paesaggio che, a livello comunale, consenta di raggiunge una soglia sufficiente di competenze tecnico-scientifiche integrate idonee a garantire una valutazione separata degli aspetti paesaggistici da quelli urbanistico-edilizi; tale requisito appare evidentemente garantito anche da un curriculum svolto nel settore pubblico.
Inutilmente discriminatoria e immotivata risulta dunque la distinzione tra liberi professionisti e pubblici dipendenti, anche alla luce delle richiamate indicazioni regionali, atteso che l’esperienza acquisita in impieghi pubblici, anche di elevata responsabilità, nel campo -ad esempio- dell’urbanistica, della protezione ambientale o della salvaguardia dei beni culturali può avere sicuramente un valore qualificante pari a quello del libero professionista, atteso che la possibilità di nominare anche componenti, provvisti di curriculum prevalentemente costituito da pubblici incarichi, consente di acquisire quelle esperienze e competenze interdisciplinari necessarie ad arricchire il livello tecnico-specialistico richiesto ai componenti della Commissione.
Conseguentemente, nel rispetto del primario interesse di garantire la pluralità della rappresentanza nell’organo consultivo nei termini indicati e al fine di assicurare una composizione della commissione in cui convergano molteplici e variegate esperienze professionali, il Dirigente incaricato di formulare la proposta al Consiglio comunale non dovrà ritenersi vincolato dalla proposta formulata dagli Ordini professionali.
2.5 - Alla luce delle precedenti considerazioni, la scelta di escludere candidati con esperienza maturate in qualità di pubblici impiegati risulta dunque illegittima in quanto frutto di una scelta normativa discrezionale ingiustificata e irragionevole e quindi sindacabile sotto il profilo dell’eccesso di potere.
3. - In conclusione, il ricorso originariamente proposto e i motivi aggiunti sono accolti nei termini di cui in motivazione e, per l’effetto, sono annullati gli atti impugnati. Assorbite le ulteriori censure (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 19.05.2011 n. 878 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aggiornamento al 15.06.2021

I vari "ragioniere-capo comunale" farebbero bene a non sottovalutare la questione:
il responsabile del servizio contabile ha un obbligo di controllo effettivo sulla legittimità degli atti comportanti l'impegno di spesa!!

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Una recente sentenza di Cassazione (Sez. VI penale, sentenza 07.12.2020 n. 34776) ha confermato che il visto contabile del responsabile finanziario non ha natura meramente formale di copertura della spesa ma la normativa primaria prevede la possibilità di opporsi alla liquidazione, espressione di un suo potere di vigilanza e di legalità.
Si può chiarire l'espressione "potere di vigilanza e di legalità", cosa vuole significare, in che consiste?

Si ritiene che dato il tenore della pronuncia della Corte di Cassazione penale occorre soffermarsi sugli istituti che governano l'attività oggetto della richiamata pronuncia.
Come evidenziato dalla sentenza, il Tuel prescrive che ogni Determinazione dell'ente comunale che preveda un impegno di spesa da parte di quest'ultimo devono essere svolti dei controlli fiscali e contabili in adempimento di quanto previsto dal combinato disposto degli art. 49, comma 1 e 184, comma 4 del Testo Unico.
In particolare la giurisprudenza della corte Conti ha evidenziato che: "con il "parere di regolarità contabile" il fine perseguito dal legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del servizio di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell'ente e, a tal fine, nell'esprimere tale parere egli dovrà tener conto, in particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel tempo degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
   a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità tecnica rilasciato dal soggetto competente;
   b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato dall'organo proponente) della spesa alla previsione di bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione
" (Corte dei Conti Calabria Sez. giurisdiz. sentenza 27.05.2019 n. 185).
In sostanza chi ricopre funzioni di responsabile del servizio finanziario all'interno dell'ente locale, attraverso l'esercizio del potere di firma, deve svolgere un controllo formale e sostanziale sugli ordinativi di pagamento; ciò in ragione del fatto che "..... le procedure di spesa previste dalla legge, oltre che dal regolamento di contabilità degli enti locali, sono volte ad assicurare il buon fine del pagamento, cioè che la somma indicata sul mandato sia accreditata al legittimo beneficiario, e che il pagamento stesso sia inequivocabilmente ricondotto all'ambito di una determinata procedura di spesa pubblica e quietanzato come tale" (Corte dei Conti Piemonte Sez. giurisdiz. sentenza 06.09.2016 n. 248).
In conclusione, quindi, il potere di vigilanza e legalità va letto nel senso che
il responsabile del servizio contabile ha un obbligo di controllo effettivo sulla legittimità degli atti comportanti l'impegno di spesa.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, art. 49 - D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, 184
Riferimenti di giurisprudenza

Corte dei Conti Calabria Sez. giurisdiz. Delib., 27.05.2019, n. 185 - Corte dei Conti Piemonte Sez. giurisdiz. Delib., 06.09.2016, n. 248
(17.12.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOIl visto del responsabile finanziario salva il dirigente dal peculato. La Cassazione salva il manager che si era autoliquidato incentivi alla progettazione.
L'accusa di peculato al dirigente tecnico che si è autoliquidato incentivi alla progettazione, in qualità di responsabile unico del procedimento, è stata smentita dalla Corte di Cassazione - Sez. VI penale (sentenza 07.12.2020 n. 34776).
Quest'ultima, in riforma della sentenza di primo grado e del giudice dell'appello, ha precisato che, il visto contabile del responsabile finanziario, non ha natura meramente formale di copertura della spesa ma la normativa primaria prevede la possibilità di opporsi alla liquidazione, espressione di un suo potere di vigilanza e di legalità.
La vicenda
Un dirigente dei lavori pubblici è stato accusato di peculato per essersi liquidato incentivi alla progettazione in qualità di responsabile unico del procedimento, cui la normativa e il regolamento comunale ne impedivano l'erogazione in caso di progettazione affidata all'esterno. L'illegittimità della liquidazione, unitamente alla disponibilità delle somme, ha integrato il reato di peculato secondo la sentenza di primo grado emessa dal Giudice per l'udienza preliminare.
La Corte di appello, riformando la sentenza, ha invece sostenuto che, la previsione regolamentare dell'inibizione degli incentivi al Responsabile unico del procedimento, in caso di affidamento della progettazione esterna, avrebbe dovuto essere disapplicata in quanto posta in violazione delle disposizioni legislative all'epoca vigenti. Tuttavia, l'illegittimità dell'erogazione e la conferma del reato di peculato discendevano da altre due cause.
La prima in quanto l'illegittimità andrebbe circoscritta alla mancata indicazione delle specifiche prestazioni e all'assenza di una percentuale di ripartizione. La seconda causa discenderebbe dall'atto di autoliquidazione non considerando rilevante il parere di regolarità contabile del responsabile finanziario, trattandosi di parere reso su controlli meramente formali volti alla sola verifica delle risorse finanziarie disponibili.
Avverso la sentenza della Corte di appello ricorre il dirigente tecnico evidenziando due errori commessi dai giudici di appello. Il primo in quanto dalla documentazione depositata i due elementi censurati, sulle prestazioni dei dipendenti e sulle percentuali, sono smentiti dalla documentazione depositata. Il secondo errore è stato quello di giudicare irrilevante il controllo da parte del responsabile finanziario che, lungi dal costituire un controllo meramente formale, è obbligato da specifiche disposizioni legislative (artt. 49 e 184 del Tuel) a un controllo effettivo sulla legittimità degli atti comportanti l'impegno di spesa.
La decisione della Cassazione
Secondo i giudici di Piazza Cavour, al fine di poter confermare il reato di peculato, deve assumere rilevanza la somma di denaro posta nella esclusiva disponibilità del dirigente.
Nel caso di specie, pertanto, il nucleo centrare del reato si poggia, nel verificare se i controlli intestati, dalle disposizioni legislative o regolamentari, al responsabile finanziario siano o meno da considerare di tipo meramente formali. Sul punto i giudici di appello hanno sostenuto che le determinazioni adottate dall'imputato fossero da considerare meramente formali, tesi questa non condivisa dalla Cassazione.
Infatti, il Testo Unico degli enti locali, impone l'espressione di un parere tecnico necessario da parte del servizio interessato e uno congiunto del servizio ragioneria (art. 49, comma 1) quando la proposta di deliberazione comporti un impegno di spesa nonché l'espletamento di controlli effettivi e di riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione da parte del servizio finanziario dell'ente locale (art. 184, comma 4).
In altri termini, non si tratta di meri controlli finanziari quanto piuttosto di controlli di natura sostanziali con la piena capacità del responsabile finanziario di opporsi alla liquidazione della determina se illegittima.
In conclusione, per la Cassazione difetta, ai fini di una piena riconducibilità della condotta ascritta al ricorrente all'ipotesi di reato di peculato, il requisito della cosiddetta disponibilità giuridica, con la conseguenza che la sentenza della Corte di appello deve essere annullata perché il fatto non costituisce reato (articolo ItaliaOggi del 10.12.2020).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOIl delitto di peculato di cui all'art. 314 cod. pen., consiste nell'appropriazione da parte del soggetto qualificato (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) di denaro o cosa mobile di proprietà altrui (soggetto pubblico o privato) di cui abbia la disponibilità, materiale e/o giuridica.
Appropriazione, inoltre, che s'invera tendenzialmente in assenza di controlli esterni, situazione quest'ultima che facilita e consente una più agevole interversione del possesso della res da parte dell'agente.
---------------

1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento in relazione al terzo motivo di ricorso, comportando l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
2. Il Collegio osserva preliminarmente come l'indubbia peculiarità della fattispecie non possa far velo all'essenza del delitto di peculato di cui all'art. 314 cod. pen., che consiste nell'appropriazione da parte del soggetto qualificato (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) di denaro o cosa mobile di proprietà altrui (soggetto pubblico o privato, sul tema v. per tutte Sez. 6, sent. n. 20132 del 11/03/2015, Varchetta, Rv. 263547 in fattispecie di appropriazione di denaro di privati da parte di notaio) di cui abbia la disponibilità, materiale e/o giuridica; appropriazione, inoltre, che s'invera tendenzialmente in assenza di controlli esterni, situazione quest'ultima che facilita e consente una più agevole interversione del possesso della res da parte dell'agente.
3. Una delle principali questioni postasi all'attenzione dei giudici di merito ha, infatti, riguardato proprio la cd. disponibilità giuridica da parte dell'imputato delle somme di denaro oggetto delle Determinazioni di autoliquidazione del compenso, all'origine delle accuse formulate nei suoi confronti.
Più in particolare è venuto in rilievo il tema dell'inserimento della condotta di appropriazione in una più ampia ed articolata procedura, richiedente l'intervento di vari soggetti, ragion per cui l'agente infedele, al fine di ottenere il trasferimento della cosa o del denaro nella sua materiale e personale disponibilità, deve:
   a) ricorrere ad una condotta fraudolenta o ingannatrice che determini il compimento di atti dispositivi la cui adozione compete a terzi;
   b) interagire con altri soggetti, ciascuno dei quali chiamato a svolgere una diversa funzione nell'ambito di un iter procedimentale complesso.
E' noto come la giurisprudenza di questa Corte di legittimità abbia in genere ravvisato nei casi riferibili all'ipotesi sub a) il delitto di truffa (Sez. 6, sent. n. 31243 del 04/04/2014, PM in proc. Currao, Rv. 260505; Sez. 6, sent. n. 13559 del 11/07/2019, dep. 04/05/2020, Guercio, Rv. 278888), anche se non mancano decisioni di segno diverso (Sez. 6, sent. n. 10762 del 01/02/2018, Gambino, Rv. 272761 in fattispecie di peculato di pubblico ufficiale, preposto all'organo competente alla istruttoria della pratica e alla predisposizione del provvedimento finale, che, inducendo in errore il consiglio di amministrazione di un ente sulla legittimità della delibera di spesa, ne ottiene l'approvazione con conseguente erogazione a taluni dipendenti di compensi di importo superiore al dovuto).
Per quelli riferibili all'ipotesi sub b) ha, invece, in genere ravvisato il delitto di peculato, declinando in vario modo il concetto di 'disponibilità giuridica' del denaro o della res (Sez. 6, sent. n. 43900 del 04/07/2018, Gaburri, Rv. 274683 in fattispecie di determina dirigenziale di indebita liquidazione di incentivo, materialmente non erogato dall'imputato ma a seguito del parere di conformità tecnica reso da altro pubblico ufficiale; conf. Sez. 6, sent. n. 33254 del 19/05/2016, Caruso, Rv. 267525 ed altre non mass.).
Non sono mancate, tuttavia, pronunce di diverso tenore (Sez. 6 sent. n. 8018 del 26/02/2016, Vuozzo non mass. citata anche nella pronuncia impugnata, in fattispecie di ravvisata sussistenza del delitto di abuso di ufficio), anche se l'orientamento più rigoroso è stato riaffermato in relazione a fattispecie caratterizzate da controlli successivi all'adozione dell'atto amministrativo di natura puramente formale (Sez. 6, sent. n. 20666 del 08/04/2016, De Sena e altro, Rv. 268030) quando non proprio inesistenti (Sez. 6, sent. n. 49283 del 04/11/2015, Labate, Rv. 265704 riferita a contesto di atti amministrativi di competenza dell'agente non sottoposti a controllo di altre componenti dell'ufficio per effetto di consolidate prassi illecite o sistematicamente neghittose).
3. Il nucleo dell'accusa mossa al ricorrente consiste, infatti, nell'essersi attribuito autonomamente emolumenti retributivi che non gli competevano, nella doppia veste di responsabile dei servizi tecnici del Comune di Siliqua e di Direttore del Bacino n. 31, in violazione dell'art. 24 d.lgs. n. 165 del 2011 e del principio ivi codificato di cd. onnicomprensività della retribuzione spettante ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni.
La Corte di merito ha, infatti, ritenuto che Me. esercitasse una funzione sostanzialmente dirigenziale, pur dando atto che nell'ambito del Comune di Siliqua espletava un ruolo impiegatizio non dirigenziale, per quanto con funzioni apicali (pag. 18 sent.) e che il cd. Bacino n. 31 non avesse autonomia giuridica rispetto ai Comuni che ne facevano parte per avere sottoscritto la convenzione per la realizzazione della rete di gas metano (pag. 19 sent.).
Il ricorrente era stato, infatti, nominato direttore del Bacino 31 e Responsabile Unico del Procedimento al di fuori di qualsiasi procedura concorsuale ovvero di pubblica selezione e solo perché responsabile tecnico del Servizio LL.PP. e Tecnologico Manutentivo dell'Area Tecnica del Comune di Siliqua, come anticipato ente capofila del Bacino.
Ma a prescindere dalle incertezze sul suo inquadramento professionale -è la stessa sentenza a segnalare l'esistenza di una totale commistione di incarichi e funzioni (pag. 22)- va rilevato come il punto nodale della vicenda consista non tanto nella possibilità di individuare o meno in capo al Me. una funzione amministrativa dirigenziale quanto nello stabilire se i compiti aggiuntivi di Direttore del Bacino n. 31 e di Responsabile Unico del Procedimento integrassero o meno il diritto ad emolumenti retributivi ulteriori rispetto a quelli percepiti per i compiti espletati nell'ambito del Comune di Siliqua.
E' sufficiente del resto apprezzare l'ampiezza delle argomentazioni svolte dalla Corte di appello proprio sul tema della spettanza o meno al ricorrente dei maggiori emolumenti oggetto delle Determinazioni incriminate (pagg. 22-26) per avere conferma dell'esattezza della superiore affermazione.
Il tema rimanda, però, nuovamente alle modalità con cui, secondo l'accusa, si sarebbe inverata la condotta appropriativa e cioè mediante l'emissione delle Determinazioni di impegno di spesa n. 16 e n. 17 del 2008 nonché all'iter procedurale seguito da tali atti amministrativi in vista dell'obiettivo di far incassare al ricorrente gli emolumenti auto liquidati.
Viene allora in rilievo il tema dei controlli che in forza dei già citati artt. 49 e 184 d.lgs. n. 267 del 2000 TUEL nonché delle pertinenti previsioni del Regolamento di Contabilità del Comune di Siliqua, dovevano intervenire a valle dell'emissione delle Determinazioni incriminate, controlli la cui natura e la cui effettività appaiono decisivi ai fini della sussistenza dell'elemento costitutivo della cd. disponibilità giuridica del denaro oggetto di appropriazione.
L'argomento ha costituito oggetto del terzo motivo di ricorso, con cui la difesa del ricorrente ha dedotto che la Corte di merito ha erroneamente ritenuto che i visti di regolarità contabile e copertura finanziaria apposti alle determinazioni di autoliquidazione costituissero controlli meramente formali, ignorando, altresì, che gli artt. 49 e 184 d.lgs. n. 267 del 2000 oltre che le specifiche previsioni (artt. 33, 35, 36, 37 comma 6) del citato Regolamento di Contabilità comunale integravano un controllo effettivo sulla legittimità degli atti comportanti impegno di spesa.
4. Sul punto la Corte territoriale ha stabilito che le Determinazioni adottate dall'imputato "furono sottoposte ad un mero visto di regolarità contabile e copertura finanziaria, limitato alla verifica della sussistenza e capienza del titolo di spesa, senza alcun controllo di piena legalità e soprattutto senza che, per prassi invalsa al Comune, vi fosse la concreta possibilità di opporre un rifiuto al visto dell'atto, in presenza di una copertura, da parte della responsabile del servizio" (pag. 29 sent.).
Il Collegio rileva che tale statuizione, condivisa con il giudice di primo grado (pag. 9 sent.), riposa probabilmente su elementi informativi acquisiti nel corso delle indagini, ma che non trovano particolare approfondimento nella motivazione della sentenza.
Non è dato, infatti, meglio comprendere perché mai non vi fosse la possibilità di esperire un controllo effettivo sulla legalità di quelle Determinazioni e per quali ragioni fosse invalsa nel Comune di Siliqua la prassi di procedere alla liquidazione alla sola condizione che vi fosse una copertura finanziaria, a fronte delle precise e stringenti previsioni di normativa primaria e regolamentare.
Il Testo Unico sugli Enti Locali d.lgs. n. 267 del 18.08.2000 impone per contro l'espressione di un parere tecnico necessario da parte del servizio interessato ed uno congiunto del servizio ragioneria (art. 49, comma 1) quando la proposta di deliberazione comporti un impegno di spesa nonché l'espletamento di controlli effettivi e di riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione da parte del servizio finanziario dell'ente locale (art. 184, comma 4).
Corrispondenti previsioni sono contenute:
   - nell'art. 33, comma 1, (Le proposte di deliberazione da adottarsi dal Consiglio Comunale e dalla Giunta Comunale e /e determinazioni dei Responsabili dei Servizi che comportano impegno di spesa sono trasmesse al Servizio Affari Generali e Istituzionali per la relativa istruttoria e il successivo inoltro al Servizio Economico-finanziario per il parere di regolarità contabile e l'attestazione di copertura finanziaria) e comma 4 (In presenza di determinazioni che non appaiono regolari il Responsabile dell'Area Contabile restituisce la pratica al responsabile del servizio proponente con rapporto motivato),
   - nell'art. 35, commi 1 e 2 (Qualsiasi atto che comporti spese a carico del Comune è nullo di diritto se privo dell'attestazione della relativa copertura finanziaria, da parte del Direttore Finanziario o suo delegato. Il rilascio del visto presuppone, con riferimento alla regolarità contabile, l'esame degli elementi di cui all'art. 36, comma 1, e riguardo all'attestazione di copertura finanziaria: certifica l'effettiva disponibilità dello stanziamento di bilancio; per gli impegni di spesa correnti, rileva l'inesistenza di fatti o eventi pregiudizievoli degli equilibri di bilancio (...);
   - nell'art. 36, comma 1 (Il responsabile dell'Area Contabile qualora la determinazione non presenti i requisiti di regolarità di cui al comma precedente, nega il visto) e comma 2 (Per gli atti che comportano impegni di spesa e che richiedono il parere di regolarità contabile, quale dichiarazione di giudizio e atto di valutazione, questo deve riguardare: a) la regolarità della documentazione; b) la corretta imputazione al bilancio e la disponibilità del fondo iscritto sul relativo intervento o capitolo; c) l'esistenza del presupposto dal quale sorge il diritto dell'obbligazione; l'esistenza dell'impegno d spesa regolarmente assunto; la conformità alle norme fiscali; f) il rispetto delle competenze proprie dei soggetti dell'Ente; g) il rispetto dell'Ordinamento Contabile degli Enti Locali e delle norme del presente Regolamento),
   - nell'art. 37, comma 6 (Nel caso in cui si rilevino irregolarità nell'atto di liquidazione o la non conformità rispetto all'atto di impegno o l'insufficienza della disponibilità rispetto all'impegno assunto, l'atto stesso viene restituito al Servizio proponente con l'indicazione dei provvedimenti da promuovere per la regolarizzazione) del Regolamento di Contabilità adottato dal Comune di Siliqua in data 19/01/2004 e allegato al ricorso.
Dato il contenuto di tali presidi normativi e regolamentari, risulta invero arduo qualificarli momenti di controllo irrilevanti quando non inesistenti esclusivamente sulla base di una non meglio precisata incapacità della responsabile del servizio finanziario del Comune di Siliqua di opporsi alla liquidazione delle Determinazioni emesse dall'imputato; tanto più che il Comune di Siliqua doveva pur contare ai fini della regolarità formale e dell'espletamento corrente dell'azione amministrativa sulla presenza di un Segretario Generale, forse anch'egli venuto meno ai suoi compiti di vigilanza, se fu, invece, la segnalazione alla Corte dei Conti in data 28/01/2013 da parte di un nuovo Segretario Generale a dare avvio al caso (pag. 26 sent.).
In conclusione difetta, ai fini di una piena riconducibilità della condotta ascritta al ricorrente all'ipotesi di reato di peculato, il requisito della cd. disponibilità giuridica, impregiudicati i profilli di illegittimità delle Determinazioni adottate in violazione di regole di contabilità pubblica (pagg. 24-25 sentenza), di previsioni di contrattazione collettiva (pagg. 27-28) o in contrasto con norme primarie di altra fonte (art. 24 d.lgs. n. 165 del 2001), che non spetta, tuttavia, a questa Corte di Cassazione sindacare in questa sede processuale ma che non postulano necessariamente la sussistenza del delitto di cui all'art. 314 cod. pen. (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 07.12.2020 n. 34776).

ATTI AMMINISTRATIVIIl visto di regolarità contabile (cfr. art. 183, co. 7, d.lgs. n. 267/2000) attestando la copertura finanziaria, attiene alla fase di esecuzione della spesa e determina l’esecutività dei provvedimenti dei responsabili dei servizi, differendo dal parere di regolarità contabile (cfr. art. 49 d.lgs. cit.) che investe la legittimità delle deliberazioni.
---------------

Si appalesa fondata, invece, l’eccezione formulata dal dott. Sa., con esclusione di qualsivoglia responsabilità in capo al medesimo, chiamato in giudizio per avere apposto il visto di regolarità contabile sulla determina n. 49 del 20.12.2012.
Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza contabile, invero, il visto di regolarità contabile (cfr. art. 183, co. 7, d.lgs. n. 267/2000) attestando la copertura finanziaria, attiene alla fase di esecuzione della spesa e determina l’esecutività dei provvedimenti dei responsabili dei servizi, differendo dal parere di regolarità contabile (cfr. art. 49 d.lgs. cit.) che investe la legittimità delle deliberazioni (ex multis, C. conti, Sez. giur. Trentino A. Adige, 25.03.2010, n. 114) (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Puglia, sentenza 13.11.2019 n. 677).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Secondo la giurisprudenza contabile prevalente, il parere del responsabile finanziario è un vero e proprio parere di legittimità del provvedimento.
Va confutata l’argomentazione difensiva sulla base della quale si assume che il visto apposto, sulla delibera in oggetto, avrebbe come unico significato quello di copertura della spesa e non quello riferito al controllo di legittimità della stessa.
Sul punto, richiama il Collegio, solo ai fini di una precisazione di diritto, le specifiche norme contenute nella seconda parte del D.lgs. 267/2000, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (TUEL) art. 149 e seguenti.
L’art. 151, enumerando i principi in materia di contabilità, al comma 4 prevede che: I provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio finanziario e sono esecutivi con l’apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria.
L’art. 153, comma 3, disciplina il servizio economico finanziario e per quanto qui interessa individua il responsabile del servizio finanziario: il responsabile del servizio finanziario di cui all’art. 151, comma 4, si identifica con il responsabile del servizio o con i soggetti preposti alle eventuali articolazioni previste dal regolamento di contabilità .
Ed il comma 5 prevede: il regolamento di contabilità disciplina le modalità con le quali vengono resi i pareri di regolarità contabile sulle proposte di deliberazione ed apposto il visto di regolarità contabile sulle determinazioni dei soggetti abilitati. Il responsabile del servizio finanziario effettua le attestazioni di copertura della spesa in relazione alle disponibilità effettive esistenti negli stanziamenti di spesa………
L’art. 191, comma 1, prevede che: gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l’impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l’attestazione della copertura finanziaria di cui all’art. 153, comma 5.
L’art. 184 del TUEL prevede: ……2. la liquidazione compete all’ufficio che ha dato esecuzione al provvedimento di spesa ed è disposta sulla base della documentazione necessaria a comprovare il diritto del creditore a seguito del riscontro operato sulla regolarità della fornitura o della prestazione e sulla rispondenza della stessa ai requisiti quantitativi e qualitativi, ai termini o alle condizioni pattuite.
   3. L’atto di liquidazione sottoscritto dal responsabile del servizio proponente, con tutti i relativi documenti giustificativi ed i riferimenti contabili è trasmesso al servizio finanziario per i conseguenti adempimenti.
   4. Il servizio finanziario effettua, secondo i principi e le procedure di contabilità pubblica, i controlli ed i riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione.
Dal quadro sin qui delineato non si può negare che la figura del responsabile del servizio finanziario e di ragioneria abbia delle prerogative funzionali di controllo sugli atti amministrativi che comportano impegni di spesa; tale potere si esprime attraverso l’espressione dei suddetti pareri, visti e attestazioni, per i quali ai sensi dell'art. 153 essi sono rilevanti ai fini della responsabilità amministrativa dei funzionari che li hanno resi.
---------------

Con atto di citazione depositato in data 28.04.2016, la Procura regionale presso la Sezione giurisdizionale per il Lazio ha convenuto in giudizio i soggetti indicati in epigrafe, in qualità il primo di Dirigente pro-tempore del Dipartimento attività economiche produttive, ora sviluppo economico attività produttive, del Comune di Roma, il secondo nella sua qualità di dirigente della Ragioneria generale del predetto comune, per sentirli condannare al pagamento in favore di Roma capitale della somma di € 7.260,00 oltre rivalutazione monetaria, interessi legali e spese di giustizia, per aver adottato e reso efficace con il relativo visto di regolarità contabile, con colpa grave, la delibera n. 1523 del 06.06.2012 con la quale veniva affidato alla società Ze.Pr.cu. s.r.l. l’organizzazione della presentazione della Guida enogastronomica edita dalla Ma.Ed. s.r.l..
...
Nel merito, ha contestato l’addebito di responsabilità connesso al visto di regolarità contabile apposto dal convenuto alla delibera ritenuta foriera di danno erariale, in quanto quel visto avrebbe un unico significato e, cioè, indicare la copertura della spesa sul pertinente capitolo di bilancio ma non la regolarità della documentazione posta a corredo dell’atto. Per tale ragione, il Pr. esclude che l’eventuale esame dell’atto limitatamente a questo profilo possa configurare la colpa grave per l’addebito di responsabilità, in quanto questa condotta posta in essere non poteva connettersi ad un evento dannoso inesistente proprio in presenza di determinazioni di spesa già assunte dalla Giunta e poste in essere dal dirigente responsabile dell’attività gestoria.
...
Passando, ora, all’esame del merito della questione, ritiene il Collegio che, dall’esame degli atti acquisiti al fascicolo d’ufficio, la deliberazione impugnata e ritenuta foriera di danno erariale si riferisce ad un evento celebrativo nel quale doveva essere presentato il volume della guida enogastronomica ma non fornito al pubblico, né tanto meno offerto gratuitamente.
Sul punto, il Collegio, ferma restando l’insindacabilità del merito della scelta discrezionale, non può non rilevare l’esorbitanza della spesa compiuta per organizzare l’evento in questione che sarebbe stato meritevole di attenzione da parte dell’attore che, invece, ha formulato la richiesta di addebito motivandola per l’inesistenza della celebrazione dell’evento e, quindi, sulla non debenza della prestazione dovuta a Ze. perché priva di prestazione corrispettiva.
Infatti, pur essendo la relazione predisposta da Ze. s.r.l. non sottoscritta in originale dal Rappresentante legale e quindi irregolare solo da un punto di vista formale, tale elemento non consente di giungere a ritenere la prestazione richiesta alla medesima come non effettuata. Altri elementi di riscontro indicati a pag. 11 della memoria difensiva di Me., ma anche dalla documentazione depositata in atti (contratto di servizio tra Comune di Roma e Ze. s.r.l. approvato con delibera di Giunta n. 440 del dicembre 2011; preventivo di spesa recapitato all’ente locale con dichiarazione di congruità, invito alla partecipazione all’evento ad organi istituzionali comunali, oltre a indicazioni sul web di cui la difesa in udienza ha dichiarato l’esistenza), è stato dimostrato da parte del convenuto che la manifestazione vi è stata e che all’organizzazione dell’evento promozionale non possa non far seguito la corresponsione della remunerazione stabilita con piena legittimità della delibera di spesa.
La legittimità della delibera di spesa rende altrettanto legittima l’apposizione del visto di regolarità contabile che non ha solo valore significativo dell’esistenza di copertura finanziaria.
Va, infatti, confutata l’argomentazione difensiva sulla base della quale si assume che il visto apposto sulla delibera in oggetto avrebbe come unico significato quello di copertura della spesa e non quello riferito al controllo di legittimità della stessa.
Sul punto, richiama il Collegio, solo ai fini di una precisazione di diritto, le specifiche norme contenute nella seconda parte del D.lgs. 267/2000, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (TUEL) art. 149 e seguenti.
L’art. 151, enumerando i principi in materia di contabilità, al comma 4 prevede che: I provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio finanziario e sono esecutivi con l’apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria.
L’art. 153, comma 3, disciplina il servizio economico finanziario e per quanto qui interessa individua il responsabile del servizio finanziario: il responsabile del servizio finanziario di cui all’art. 151, comma 4, si identifica con il responsabile del servizio o con i soggetti preposti alle eventuali articolazioni previste dal regolamento di contabilità .
Ed il comma 5 prevede: il regolamento di contabilità disciplina le modalità con le quali vengono resi i pareri di regolarità contabile sulle proposte di deliberazione ed apposto il visto di regolarità contabile sulle determinazioni dei soggetti abilitati. Il responsabile del servizio finanziario effettua le attestazioni di copertura della spesa in relazione alle disponibilità effettive esistenti negli stanziamenti di spesa………
L’art. 191, comma 1, prevede che: gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l’impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l’attestazione della copertura finanziaria di cui all’art. 153, comma 5.
L’art. 184 del TUEL prevede: ……2. la liquidazione compete all’ufficio che ha dato esecuzione al provvedimento di spesa ed è disposta sulla base della documentazione necessaria a comprovare il diritto del creditore a seguito del riscontro operato sulla regolarità della fornitura o della prestazione e sulla rispondenza della stessa ai requisiti quantitativi e qualitativi, ai termini o alle condizioni pattuite.
   3. L’atto di liquidazione sottoscritto dal responsabile del servizio proponente, con tutti i relativi documenti giustificativi ed i riferimenti contabili è trasmesso al servizio finanziario per i conseguenti adempimenti.
   4. Il servizio finanziario effettua, secondo i principi e le procedure di contabilità pubblica, i controlli ed i riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione.

Dal quadro sin qui delineato non si può negare che la figura del responsabile del servizio finanziario e di ragioneria abbia delle prerogative funzionali di controllo sugli atti amministrativi che comportano impegni di spesa; tale potere si esprime attraverso l’espressione dei suddetti pareri, visti e attestazioni, per i quali ai sensi dell'art. 153 essi sono rilevanti ai fini della responsabilità amministrativa dei funzionari che li hanno resi.
Perciò, le argomentazioni del convenuto Pr., responsabile del servizio finanziario e di ragioneria del comune di Roma, ove egli afferma che il visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria sulla determinazione del responsabile del servizio interessato si limitava alla sola verifica della copertura finanziaria, la corretta imputazione al capitolo di spesa, alla competenza dell’organo che l’ha assunta, al rispetto dei principi contabili ed alla completezza della documentazione, sono infondate (in tal senso cfr. sezione Lazio n. 415/2009 ove viene affermato che il controllo svolto dall’Ufficio di ragioneria non è un controllo formale ma effettivo sulla azione amministrativa, con effetti impeditivi alla declaratoria di legittimità dell’atto cui nella specie è seguita l’emissione del mandato di pagamento) (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, sentenza 06.12.2016 n. 334).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il funzionario pubblico con funzioni di responsabile del servizio finanziario di ente locale, soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti, che dia corso, con la propria sottoscrizione, ad ordinativi di pagamento deve svolgere un controllo formale e sostanziale sull'ordinativo medesimo.
La norma generale della contabilità pubblica recata dall’art. 81, comma 3, del R.D. n. 2440/1923 (recante “Nuove disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”), applicabile al personale degli enti locali stante il rinvio di cui all’art. 93 TUEL, dispone, quanto alla responsabilità dei pubblici funzionari ordinatori di spese e pagamenti, che “Gli ordinatori secondari di spese pagabili in base a ruoli e ogni altro funzionario ordinatore di spese e pagamenti, sono personalmente responsabili dell'esattezza della liquidazione delle spese e dei relativi ordini di pagamento, come pure della regolarità dei documenti e degli atti presentati dai creditori.”
In questa sede, la responsabilità della convenuta, quale funzionario pubblico, nella specie con funzioni di responsabile del servizio finanziario di ente locale, soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti, va valutata alla luce di tale disciplina contabile, che dichiara responsabile il funzionario che dia corso, con la propria sottoscrizione, ad ordinativi di pagamento senza la previa verifica della esatta liquidazione e della documentazione della spesa. Attraverso l'esercizio del potere di firma, infatti, egli deve svolgere un controllo formale e sostanziale sull'ordinativo medesimo.
L’art. 185 TUEL definisce ulteriormente i requisiti dell’ordinazione e del pagamento delle spese, disponendo che: “1. L'ordinazione consiste nella disposizione impartita, mediante il mandato di pagamento, al tesoriere dell'ente locale di provvedere al pagamento delle spese.
   2. Il mandato di pagamento è sottoscritto dal dipendente dell'ente individuato dal regolamento di contabilità nel rispetto delle leggi vigenti e contiene almeno i seguenti elementi: a) il numero progressivo del mandato per esercizio finanziario; b) la data di emissione; c) l'intervento o il capitolo per i servizi per conto di terzi sul quale la spesa è allocata e la relativa disponibilità, distintamente per competenza o residui; d) la codifica; e) l'indicazione del creditore e, se si tratta di persona diversa, del soggetto tenuto a rilasciare quietanza, nonché, ove richiesto, il relativo codice fiscale o la partita IVA; f) l'ammontare della somma dovuta e la scadenza, qualora sia prevista dalla legge o sia stata concordata con il creditore; g) la causale e gli estremi dell'atto esecutivo che legittima l'erogazione della spesa; h) le eventuali modalità agevolative di pagamento se richieste dal creditore; i) il rispetto degli eventuali vincoli di destinazione.
   3. Il mandato di pagamento è controllato, per quanto attiene alla sussistenza dell'impegno e della liquidazione, dal servizio finanziario, che provvede altresì alle operazioni di contabilizzazione e di trasmissione al tesoriere.”
L’art. 184 TUEL precisa gli obblighi del responsabile del servizio finanziario come segue: “Il servizio finanziario effettua, secondo i principi e le procedure di contabilità pubblica, i controlli e i riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione” (comma 4).
Il rispetto delle suddette procedure di spesa è da considerarsi essenziale ai fini della legalità dell'azione amministrativa, pena la responsabilità personale del funzionario.
Le procedure di spesa previste dalla legge, oltre che dal regolamento di contabilità degli enti locali, sono volte ad assicurare il buon fine del pagamento, cioè che la somma indicata sul mandato sia accreditata al legittimo beneficiario, e che il pagamento stesso sia inequivocabilmente ricondotto all'ambito di una determinata procedura di spesa pubblica e quietanzato come tale.
---------------

2.1. Venendo al merito, va premesso che, la norma generale della contabilità pubblica recata dall’art. 81, comma 3, del R.D. n. 2440/1923 (recante “Nuove disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”), applicabile al personale degli enti locali stante il rinvio di cui all’art. 93 TUEL, dispone, quanto alla responsabilità dei pubblici funzionari ordinatori di spese e pagamenti, che “Gli ordinatori secondari di spese pagabili in base a ruoli e ogni altro funzionario ordinatore di spese e pagamenti, sono personalmente responsabili dell'esattezza della liquidazione delle spese e dei relativi ordini di pagamento, come pure della regolarità dei documenti e degli atti presentati dai creditori.”
In questa sede, la responsabilità della convenuta, quale funzionario pubblico, nella specie con funzioni di responsabile del servizio finanziario di ente locale, soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti, va valutata alla luce di tale disciplina contabile, che dichiara responsabile il funzionario che dia corso, con la propria sottoscrizione, ad ordinativi di pagamento senza la previa verifica della esatta liquidazione e della documentazione della spesa. Attraverso l'esercizio del potere di firma, infatti, egli deve svolgere un controllo formale e sostanziale sull'ordinativo medesimo.
L’art. 185 TUEL definisce ulteriormente i requisiti dell’ordinazione e del pagamento delle spese, disponendo che: “1. L'ordinazione consiste nella disposizione impartita, mediante il mandato di pagamento, al tesoriere dell'ente locale di provvedere al pagamento delle spese.
   2. Il mandato di pagamento è sottoscritto dal dipendente dell'ente individuato dal regolamento di contabilità nel rispetto delle leggi vigenti e contiene almeno i seguenti elementi: a) il numero progressivo del mandato per esercizio finanziario; b) la data di emissione; c) l'intervento o il capitolo per i servizi per conto di terzi sul quale la spesa è allocata e la relativa disponibilità, distintamente per competenza o residui; d) la codifica; e) l'indicazione del creditore e, se si tratta di persona diversa, del soggetto tenuto a rilasciare quietanza, nonché, ove richiesto, il relativo codice fiscale o la partita IVA; f) l'ammontare della somma dovuta e la scadenza, qualora sia prevista dalla legge o sia stata concordata con il creditore; g) la causale e gli estremi dell'atto esecutivo che legittima l'erogazione della spesa; h) le eventuali modalità agevolative di pagamento se richieste dal creditore; i) il rispetto degli eventuali vincoli di destinazione.
   3. Il mandato di pagamento è controllato, per quanto attiene alla sussistenza dell'impegno e della liquidazione, dal servizio finanziario, che provvede altresì alle operazioni di contabilizzazione e di trasmissione al tesoriere
.”
L’art. 184 TUEL precisa gli obblighi del responsabile del servizio finanziario come segue: “Il servizio finanziario effettua, secondo i principi e le procedure di contabilità pubblica, i controlli e i riscontri amministrativi, contabili e fiscali sugli atti di liquidazione” (comma 4).
Il rispetto delle suddette procedure di spesa è da considerarsi essenziale ai fini della legalità dell'azione amministrativa, pena la responsabilità personale del funzionario.
Le procedure di spesa previste dalla legge, oltre che dal regolamento di contabilità degli enti locali, sono volte ad assicurare il buon fine del pagamento, cioè che la somma indicata sul mandato sia accreditata al legittimo beneficiario, e che il pagamento stesso sia inequivocabilmente ricondotto all'ambito di una determinata procedura di spesa pubblica e quietanzato come tale (cinquantaduemilatrecentoquarantadue/04) oltre rivalutazione monetaria dalla scadenza di ogni singolo esercizio cui si riferiscono i mandati sino alla data di pubblicazione della presente sentenza e interessi legali da tale data al saldo effettivo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Piemonte, sentenza 06.09.2016 n. 248).

aggiornamento al 31.05.2021

Anche alla stampa specializzata capita di "prendere lucciole per lanterne":
la realizzazione del "cappotto isolante" esterno di un fabbricato esistente necessita della preventiva "autorizzazione paesaggistica" solamente se l'immobile è un "bene paesaggistico" ex art. 134 del d.lgs. n. 42/2004.
Non solo, diversamente da quanto affermato dal MiC (con la circolare 04.03.2021 n. 4), il suddetto "cappotto isolante" rientra nella voce B.5. (e non la voce B.3.) del dpr n. 31/2017.
Poi, se è vero -come è vero- che un efficace "cappotto isolante esterno" mediamente ha uno spessore di 10/12 cm. è di tutta evidenza che la fattispecie de qua non possa essere annoverata nella voce A.2.
(cioè non necessitante dell'autorizzazione paesaggistica) poiché, di fatto, emergente dalla sagoma esistente.
Invero, tale voce A.2. così recita:

A.2. interventi sui prospetti o sulle coperture degli edifici, purché eseguiti nel rispetto degli eventuali piani del colore vigenti nel comune e delle caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti, quali:
   - rifacimento di intonaci, tinteggiature, rivestimenti esterni o manti di copertura;
   - opere di manutenzione di balconi, terrazze o scale esterne;
   - integrazione o sostituzione di vetrine e dispositivi di protezione delle attività economiche, di finiture esterne o manufatti quali infissi, cornici, parapetti, lattonerie, lucernari, comignoli e simili;
   - interventi di coibentazione volti a migliorare l’efficienza energetica degli edifici che non comportino la realizzazione di elementi o manufatti emergenti dalla sagoma, ivi compresi quelli eseguiti sulle falde di copertura.
Alle medesime condizioni non è altresì soggetta ad autorizzazione la realizzazione o la modifica di aperture esterne o di finestre a tetto, purché tali interventi non interessino i beni vincolati ai sensi del Codice, art. 136, comma 1, lettere a), b) e c) limitatamente, per quest’ultima, agli immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa l’edilizia rurale tradizionale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici;

Sicché, "In claris non fit interpretatio"!!
["Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore." ... cfr. art. 12 DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE o disposizioni preliminari al codice civile (preleggi)]

EDILIZIA PRIVATA: Case ante 1945, cappotti con permessi paesaggistici. Anche senza un vincolo specifico occorre il sì della Sovrintendenza. Gli architetti preoccupati: «Possiamo valutare noi l'impatto reale del lavoro».
Case antiche, moderne, vecchie, belle o brutte, basta la data fatale: 1945, forse perché dal momento della ricostruzione sono stati commessi i peggiori obbrobri architettonici, che in qualche caso è meglio coprire con un bel cappotto termico. Ma vai a capire.
La circolare 04.03.2021 n. 4 del Mibact (si veda il sole 24 Ore di ieri) precisa comunque che agli immobili «di edilizia storica», edificati in Italia prima del 1945, non può essere automaticamente applicata l’esenzione dall’autorizzazione paesaggistica semplificata (punto B3 dell’allegato B al Dpr 31/2017).
Le conseguenze
La conseguenza pratica è che il 17,3% della popolazione italiana, che vive in immobili precedenti al 1945 (dati Istat) si troverà per forza a confrontarsi con l’autorizzazione paesaggistica (al cui interno esistono diversi tipi di vincoli) nel caso intendesse percorrere l’accidentata strada del superbonus.
Naturalmente la questione riguarda anche gli immobili costruiti successivamente, se «alterino l’aspetto esteriore anche in termini di finiture». Ma colpisce che nell’obbligo sparisca la distinzione tra tutela diretta e indiretta, dato che i beni possono anche trovarsi distanti dai primi, visto che l’unico criterio è la data di costruzione.
La pratica
In cosa consiste la «autorizzazione semplificata»? Occorre presentare allo Sportello unico edilizia dell’ente locale una serie di documenti. Lo Sportello attiva la conferenza di servizi semplificata inviando tutto alla sovrintendenza, che ha 20 giorni per rispondere (se non risponde scatta il «silenzio provvedimentale», qualcosa più del silenzio-assenso). Il procedimento autorizzatorio semplificato si conclude con un provvedimento, adottato entro il termine tassativo di sessanta giorni dal ricevimento della domanda.
Fabrizio Pistolesi, (Segretario del Consiglio nazionale degli arcitetti - coordinatore Dipartimento semplificazione), esprime «La grande preoccupazione che abbiamo riguardo a ciò che occorre fare per il 110%. La burocrazia sta ostacolando molto la partenza del superbonus, su 1,2 milioni di condomìni sono partiti in meno di 500. Mentre occorre efficientare il nostro datato patrimonio edilizio, dal punto di vista energetico ma anche e soprattutto sismico. Qualsiasi ulteriore adempimento è un vero problema. E la semplificazione sulla Cila che sarà contenuta nel Dl Semplificazioni è stata studiata da noi per sgravare gli Sportelli unici dalla massa di richieste di accesso agli atti per la conformità edilizia. I tempi sono infatti strettissimi, anche se si parla di proroghe».
Una proposta operativa
Pistolesi propone un’idea di razionalizzazione: «In quel contesto ci sono sicuramente edifici degli degni di tutela, diciamo il 2-3%, ma anche tantissima edilizia che non ha nessuna prerogativa per essere tutelata. Quello che auspichiamo è che gli Ordini possano lavorare con le Soprintendenze realizzando schede metodologiche di questi immobili (come è avvenuto per il sisma nelle Marche) e in base a queste analisi il professionista si assume la responsabilità di procedere, salvo controlli successivi. Per tutti gli immobili ante 1945 potremmo così non gravare le sovrintendenze di una massa di carta
» (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.04.2021).

EDILIZIA PRIVATASuperbonus, edifici ante 1945: stop al cappotto se non si passa prima dalla soprintendenza. Stabilito in 20 giorni il termine per esprimere l'autorizzazione semplificata.
Stop al cappotto se non si passa prima dalla soprintendenza, per tutti gli edifici costruiti prima del 1945.

Secondo la circolare 04.03.2021 n. 4, del Ministero della Cultura, «le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive, definite caso per caso, possono comportare incrementi di spessore anche significativi in funzione dello specifico materiale, della soluzione tecnica prescelta e del grado di efficientamento termico richiesto dall’intervento». Quindi, una valutazione caso per caso.
Lo spartiacque del 1945
Quasi mai gli interventi possano ritenersi sempre eseguibili «nel rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfotipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti», soprattutto se riferiti a «immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa l’edilizia rurale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici».
Anche se sono ammissibili gli interventi di manutenzione straordinaria a condizione «che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifìci» come stabilito dall’articolo 149 del Dlgs 42/2004, le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive sono definite caso per caso.
Diventa quindi obbligatorio il passaggio presso la soprintendenza per edifici di edilizia storica così come definiti nella circolare Mibact 42/2017, punto 6, realizzati sino al 1945, anno che costituisce «la soglia cronologica a partire dalla quale può essere individuato il carattere “contemporaneo” del patrimonio architettonico ed edilizio nazionale (anche categorizzabile, secondo una nomenclatura anch’essa diffusa, quale “patrimonio del secondo Novecento”): ciò sulla base della considerazione dell’indubbia cesura, sia sotto il profilo delle tecnologie costruttive che (e, forse, soprattutto) dei linguaggi architettonici, rinvenibile nella produzione edilizia successiva alla data suddetta».
In breve
La circolare Mic 4/2021 stabilisce in venti giorni il termine per esprimere l’autorizzazione semplificata di cui al punto B3 dell’Allegato B del Dpr 31/2017. E la
circolare 23.10.2020 n. 45 Mibact ha del resto invitato gli uffici all’attivazione delle misure organizzative necessarie al rilascio dei nulla osta o dei pareri.
In conformità con quanto previsto al punto 6 della circolare 42/2017, la sola fattispecie di immobili per la quale anche il rivestimento a “cappotto” (con un accrescimento apprezzabile dello spessore murario e con modifica significativa delle sue caratteristiche materiche) potrebbe essere ricompresa tra gli interventi indicati alla voce A2 (in esenzione) è quella riferita agli immobili realizzati dopo il 1945, purché non si alteri l’aspetto esteriore anche per le finiture.
Maglie strette in Liguria
Le soprintendenze della Liguria avevano già diramato una nota (il
27 febbraio, recte nota 17.02.2021 n. 2310 di prot.), dove si spiega che «In definitiva l’applicazione di “cappotti” o intonaci con caratteristiche termoisolanti sulle strutture opache della facciata influenti dal punto di vista termico appaiono in generale non compatibili con le finalità di tutela fatta eccezione per gli edifici la cui realizzazione risalga al periodo post-bellico e per casi per i quali potrà essere svolta una verifica puntuale», ricordando però (in una successiva nota del 16 marzo, recte nota 15.03.2021) la possibilità di «interventi di lieve o lievissima entità» (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 31.03.2021).

EDILIZIA PRIVATA: Le sovrintendenze: edifici ante 1945 sotto esame prima dl cappotto. Stop al cappotto se non si passa prima dalla soprintendenza, per tutti gli edifici costruiti prima del 1945. Stabilito in venti giorni il termine per esprimere l'autorizzazione paesaggistica.
Secondo la
circolare 04.03.2021 n. 4 dei Beni culturali, «le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive, definite caso per caso, possono comportare incrementi di spessore anche significativi in funzione dello specifico materiale, della soluzione tecnica prescelta e del grado di efficientamento termico richiesto dall'intervento». Quindi, una valutazione caso per caso.
Lo spartiacque del 1945
Quasi mai gli interventi possano ritenersi sempre eseguibili «nel rispetto delle caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti», soprattutto se riferiti a «immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa l'edilizia rurale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici».
Anche se sono ammissibili gli interventi di manutenzione straordinaria a condizione «che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici» come stabilito dall'articolo 149 del Dlgs 42/2004, le specifiche caratteristiche tecnico-costruttive sono definite caso per caso.
Diventa quindi
obbligatorio il passaggio presso la soprintendenza per edifici di edilizia storica così come definiti nella circolare Mibact 42/2017, punto 6, realizzati sino al 1945, anno che costituisce «la soglia cronologica a partire dalla quale può essere individuato il carattere "contemporaneo" del patrimonio architettonico ed edilizio nazionale (anche categorizzabile, secondo una nomenclatura anch'essa diffusa, quale "patrimonio del secondo Novecento"): ciò sulla base della considerazione dell'indubbia cesura, sia sotto il profilo delle tecnologie costruttive che (e, forse, soprattutto) dei linguaggi architettonici, rinvenibile nella produzione edilizia successiva alla data suddetta».
La circolare 4/2021 Mibact stabilisce in venti giorni il termine per esprimere l'autorizzazione semplificata di cui al punto B3 dell'Allegato B del Dpr 31/2017. E la circolare 23.10.2020 n. 45 Mibact ha del resto invitato gli uffici all'attivazione delle misure organizzative necessarie al rilascio dei nulla-osta o dei pareri.
In conformità con quanto previsto al punto 6 della circolare 21.07.2017 n. 42, la sola fattispecie di immobili per la quale anche il rivestimento a "cappotto" (con un accrescimento apprezzabile dello spessore murario e con modifica significativa delle sue caratteristiche materiche) potrebbe essere ricompresa tra gli interventi indicati alla voce A2 (in esenzione) è quella riferita agli immobili realizzati dopo il 1945, purché non si alteri l'aspetto esteriore anche per le finiture.
Maglie strette in Liguria
Le soprintendenze della Liguria avevano già diramato una nota (il 27 febbraio, recte nota 17.02.2021 n. 2310 di prot.), dove si spiega che «In definitiva l'applicazione di "cappotti" o intonaci con caratteristiche termoisolanti sulle strutture opache della facciata influenti dal punto di vista termico appaiono in generale non compatibili con le finalità di tutela fatta eccezione per gli edifici la cui realizzazione risalga al periodo post-bellico e per casi peri quali potrà essere svolta una verifica puntuale», ricordando però (in una successiva nota del 16 marzo, recte nota 15.03.2021) la possibilità di «interventi di lieve o lievissima entità»
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.03.2021).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Disposizioni integrative alla Circolare n. 42 del 21.07.2017, applicativa del DPR n. 31 del 2017. Linee di indirizzo "interventi di coibentazione volti a migliorare l'efficienza energetica" di cui alla voce A2 dell'allegato A, da effettuarsi su edifici sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, parte III in applicazione della Legge n. 77 del 17.07.2020, art. 119 (MiC, circolare 04.03.2021 n. 4).

---------------

La suddetta circolare è l'epilogo (intermedio) di pregressa corrispondenza finalizzata ad avere chiarimenti in materia. Segnatamente, nell'ordine:
   1 -
Oggetto: Legge n. 77 del 17.07.2020, art. 119 (superbonus 110%). Indicazioni attuative (MiBACT, circolare 23.10.2020 n. 45).

   2 - Oggetto: Linee di indirizzo per gli interventi su edifici sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei Beni Culturali Parte II e III, e sull’edificato con valore storico e documentale ai fini dell’applicazione della Legge 27.12.2019, n. 160 (c.d. bonus facciate 90%) e Legge n. 77 del 17.07.2020, art. 119 (c.d. superbonus 110%) (MiBACT, Soprintendenza Città Metropolitana di Genova e di La Spazia congiuntamente alla Soprintendenza di Imperia e Savona, nota 17.02.2021 n. 2310 di prot.).

   3 - Oggetto: Riscontro alla nota 17.02.2021 n. 2310 di prot. della
Soprintendenza Città Metropolitana di Genova e di La Spazia congiuntamente alla Soprintendenza di Imperia e Savona (Federazione Regionale degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Liguria, nota 12.03.2021 n. 1248 di prot.).

   4 - Oggetto: Linee di indirizzo per gli interventi su edifici sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei Beni Culturali Parte II e III, e sull’edificato con valore storico e documentale ai fini dell’applicazione della Legge 27.12.2019, n. 160 (c.d. bonus facciate 90%) e Legge n. 77 del 17.07.2020, art. 119 (c.d. superbonus 110%) - Precisazioni in merito alla nota 2310 del 17.02.2021 (MiC, Soprintendenza Città Metropolitana di Genova e di La Spazia congiuntamente alla Soprintendenza di Imperia e Savona, nota 15.03.2021).

---------------

Da ultimo, in argomento, si è aggiunta anche la Soprintendenza di Brescia con una propria nota:
  
Oggetto: Applicazione della Legge n. 160 del 27.12.2019 (c.d. bonus facciate 90%) e Legge n. 77 del 17.07.2020, art. 119 (c.d. superbonus 110%) negli ambiti tutelati ai sensi del D.lgs. 42/2004 e patrimonio edilizio diffuso di valore storico architettonico, storico artistico e storico-testimoniale. Linee di indirizzo (MiC, Soprintendenza per le province di Bergamo e Brescia, nota 07.05.2021 n. 8143 di prot.),

nella cui nota si menzionano due altri documenti e cioè:

      ► Oggetto: Linee Guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale allineate alle nuove Norme tecniche per le costruzioni (d.m. 14.01.2008) (MiBAC, circolare 02.12.2010 n. 26) ... per maggiori informazioni consulta anche la pagina web dedicata del MiBACT;
   
  ►
G.U. 26.02.2011 n. 47, suppl. ord. n. 54, "Valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale con riferimento alle Norme tecniche per le costruzioni di cui al decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 14.01.2008" (Direttiva P.C.M. 09.02.2011).
      ► Linee di indirizzo per il miglioramento dell'efficienza energetica nel patrimonio culturale - Architettura, centri e nuclei storici ed urbani (MiBACT, 2015).

---------------

In origine (intermedia) si frappone anche un'ulteriore nota del MiBACT in risposta ad un quesito della Regione Lazio:
  
Oggetto: Inquadramento in senso al dpr 31/2017 degli interventi di efficientamento energetico comportanti la realizzazione di un rivestimento "a cappotto" sul fronte esterno degli edifici a fini di coibentazione termica (MiBACT, nota 24.12.2020 n. 37730 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: D.Lgs. 42/2004, art. 49, comma 3. Utilizzo ai fini pubblicitari per le coperture dei ponteggi predisposti per l'esecuzione di interventi di conservazione - Indicazioni operative (MiBACT, circolare 07.12.2020 n. 49).

aggiornamento al 30.04.2021 (ore 23,59)

Sembra ovvio ma, sottolinearlo, non lo è:
la tolleranza edilizia del 2%, ex art. 34-bis, comma 1, dpr n. 380/2001, è riferito alla singola unità immobiliare e non al condominio nel suo complesso (tanto per esemplificare) di dieci appartamenti!!

EDILIZIA PRIVATAL’art. 34-bis del DPR n. 380/2001, che stabilisce che “il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità abitative non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo”, deve essere interpretato nel senso di riferire la cd. “tolleranza di cantiere” del 2% delle misure programmate soltanto alle singole unità abitative e, dunque, a ciascun appartamento e non all’intero edificio nel suo complesso.
La suddetta interpretazione appare quella più corrispondente al dettato letterale dell’art. 34-bis del DPR n. 380/2001 (che ha sostituito l’ultimo comma dell’art. 34 previgente, all’interno del medesimo decreto) riferito, appunto, alle “singole unità abitative” e, soprattutto, all’esigenza sostanziale di garantire quanto più possibile la corretta esecuzione dei progetti costruttivi autorizzati, con conseguente irrilevanza soltanto degli scostamenti di lieve entità (2% della superficie del singolo appartamento), inquadrabili nelle “tolleranze di cantiere”, e non di sensibili modifiche al progetto approvato, che altrimenti potrebbero essere tanto più estese quanto più grande risulti l’edificio complessivo.
...
Nell’ipotesi in questione, la tolleranza di cantiere non può superare la misura di 1,5 mq e correttamente l’Amministrazione Comunale si è pronunciata negativamente sulla SCIA, avendo accertato che le difformità dell’appartamento all’interno 18 (esteso 75,85 mq), corrispondendo all’avvenuta realizzazione di nuove superfici abitabili per mq 17,92, sopravanzassero di gran lunga le suddette tolleranze massime.
In nessun caso la percentuale delle difformità stesse può essere calcolata sulla superficie dell’intero fabbricato, Villino B, pari a 1458,91 mq.
L’interpretazione su esposta è supportata anche dalle più recenti pronunce del Consiglio di Stato e non risulta efficacemente smentita né dal riferimento della norma dell’art. 34-bis cit. al “titolo abilitativo” (che pur riguardando, se del caso, tutta la costruzione, non può che contenere un preciso riferimento anche alle singole unità immobiliari), né dalle argomentazioni contenute nelle più risalenti decisioni giurisprudenziali, favorevoli ad una più estesa liberalizzazione delle difformità da progetto, particolarmente rischiosa, però, per il possibile pregiudizio arrecato all’interesse pubblico urbanistico ed edilizio, in caso di fabbricati di grandi dimensioni.
---------------

Rilevato che:
   - la ricorrente ha chiesto al Tribunale di annullare, previa sospensione dell’efficacia, la determinazione dirigenziale di Roma Capitale prot. CS n. 90661 del 02.12.2020 con cui era stato disposto l’annullamento della SCIA prot. CS/82701/2020 del 03.11.2020, da essa presentata in relazione all’appartamento sito in Roma, via ..., n. ..., scala B, piano 4, int. 18, e tutti gli atti presupposti e consequenziali;
   - a sostegno della sua domanda, la ricorrente ha dedotto:
a) di essere proprietaria di un complesso immobiliare sito in Roma, via ... n. ..., composto da un fabbricato, indicato come “Villino A” e da un altro edificio, denominato “Villino B”, realizzato in virtù di licenza edilizia n. 821/1962 e licenza edilizia in variante n. 18/1964, dichiarato agibile con certificati nn. 1489 e 1490 del 25.11.1965;
b) di aver verificato, nel corso dei controlli finalizzati alla dismissione del proprio patrimonio immobiliare, che un appartamento del Villino B (l’interno 18) presentava lievi difformità rispetto ai titoli edilizi conseguiti al momento della costruzione e della variante, che però apparivano risalenti all’epoca dell’edificazione;
c) di avere accertato che tali difformità consistevano nella avvenuta realizzazione di nuove superfici abitabili di mq 17,92;
d) di aver presentato ai fini della regolarizzazione di esse, il 03.11.2020, una SCIA, invocando l’applicazione dell’art. 34 bis del DPR n. 380/2001, trattandosi di “tolleranze costruttive”, contenute entro il limite del 2% delle misure previste nel titolo abitativo, da calcolarsi con riguardo alla superficie non del singolo appartamento, ma dell’intero fabbricato – Villino B (1.458,91 mq);
e) di aver ricevuto inaspettatamente la determina impugnata, nella quale l’Amministrazione aveva sostenuto che il limite del 2% dovesse essere calcolato non con riferimento alla superficie dell’intero edificio, ma con riguardo a quella del singolo appartamento e che la SCIA fosse comunque carente di alcuni documenti;
   - alla luce di tali circostanze, la ricorrente ha formulato i seguenti motivi:
1) violazione e falsa applicazione dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 380/2001, erronea e falsa applicazione dell’art. 3 NTA del PRG di Roma Capitale,
2) violazione e falsa applicazione dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 380/2001 sotto altro profilo, violazione del giusto procedimento, violazione dell’art. 6, lett. b), della l.n. 241/1990, irragionevolezza e sproporzione;
   - si è costituita in giudizio Roma Capitale, chiedendo il rigetto del ricorso, in quanto infondato;
   - alla camera di consiglio del 03.03.2021, fissata per esame della sospensiva, la causa è stata trattenuta in decisione ex art. 60 c.p.a., sussistendone i presupposti;
Ritenuto che:
   - il ricorso non sia fondato e debba essere rigettato;
   - l’art. 34-bis del DPR n. 380/2001, che stabilisce che “il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità abitative non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo”, debba essere interpretato nel senso di riferire la cd. “tolleranza di cantiere” del 2% delle misure programmate soltanto alle singole unità abitative e, dunque, a ciascun appartamento e non all’intero edificio nel suo complesso, come sostenuto dalla ricorrente;
   - la suddetta interpretazione appaia quella più corrispondente al dettato letterale dell’art. 34-bis del DPR n. 380/2001 (che ha sostituito l’ultimo comma dell’art. 34 previgente, all’interno del medesimo decreto) riferito, appunto, alle “singole unità abitative” e, soprattutto, all’esigenza sostanziale di garantire quanto più possibile la corretta esecuzione dei progetti costruttivi autorizzati, con conseguente irrilevanza soltanto degli scostamenti di lieve entità (2% della superficie del singolo appartamento), inquadrabili nelle “tolleranze di cantiere”, e non di sensibili modifiche al progetto approvato, che altrimenti potrebbero essere tanto più estese quanto più grande risulti l’edificio complessivo;
   - nell’ipotesi in questione, la tolleranza di cantiere non potesse superare la misura di 1,5 mq e correttamente l’Amministrazione Comunale si sia pronunciata negativamente sulla SCIA, avendo accertato che le difformità dell’appartamento all’interno 18 (esteso 75,85 mq), corrispondendo all’avvenuta realizzazione di nuove superfici abitabili per mq 17,92, sopravanzassero di gran lunga le suddette tolleranze massime;
   - in nessun caso la percentuale delle difformità stesse potesse essere calcolata sulla superficie dell’intero fabbricato, Villino B, pari a 1458,91 mq;
   - l’interpretazione su esposta sia supportata anche dalle più recenti pronunce del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., Sez. II, 07.01.2021 n. 230) e non risulti efficacemente smentita né dal riferimento della norma dell’art. 34-bis cit. al “titolo abilitativo” (che pur riguardando, se del caso, tutta la costruzione, non può che contenere un preciso riferimento anche alle singole unità immobiliari), né dalle argomentazioni contenute nelle più risalenti decisioni giurisprudenziali, favorevoli ad una più estesa liberalizzazione delle difformità da progetto, particolarmente rischiosa, però, per il possibile pregiudizio arrecato all’interesse pubblico urbanistico ed edilizio, in caso di fabbricati di grandi dimensioni;
   - non meritevoli di accoglimento siano, infine, anche le ulteriori doglianze espresse dalla ricorrente con riguardo all’art. 3 NTA del PRG, che, ai fini dell’applicazione delle previsioni urbanistiche ed edilizie del PRG, definisce in via generale i concetti di “unità edilizia” e di “unità immobiliare”, e in rapporto al preteso difetto di motivazione del provvedimento impugnato in relazione alla contestazione da parte dell’Amministrazione della mancata allegazione alla SCIA dei “calcoli e (dei) computi metrici previsti per la determinazione delle sanzioni da applicare anche in riferimento alle difformità prospettiche degli infissi e dei balconi oggetto di sanatoria”, delle “reversali relative al pagamento dei Diritti di istruttoria” e di “prospetti, sezioni e documentazione fotografica”, atti allo stato ancora mancanti e comunque di secondaria rilevanza di fronte all’impossibilità di considerare gli aumenti di superficie rilevati come “tolleranze di cantiere”;
   - il ricorso debba essere, dunque, come anticipato, integralmente respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 15.04.2021 n. 4413 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 34-bis del DPR n. 380/2001, che stabilisce che “il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità abitative non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo”, deve essere interpretato nel senso di riferire la cd. “tolleranza di cantiere” del 2% delle misure programmate soltanto alle singole unità abitative e, dunque, a ciascun appartamento e non all’intero edificio nel suo complesso.
La suddetta interpretazione appare quella più corrispondente al dettato letterale dell’art. 34-bis del DPR n. 380/2001 (che ha sostituito l’ultimo comma dell’art. 34 previgente, all’interno del medesimo decreto) riferito, appunto, alle “singole unità abitative” e, soprattutto, all’esigenza sostanziale di garantire quanto più possibile la corretta esecuzione dei progetti costruttivi autorizzati, con conseguente irrilevanza soltanto degli scostamenti di lieve entità (2% della superficie del singolo appartamento), inquadrabili nelle “tolleranze di cantiere”, e non di sensibili modifiche al progetto approvato, che altrimenti potrebbero essere tanto più estese quanto più grande risulti l’edificio complessivo.
...
Nell’ipotesi in questione, la tolleranza di cantiere non può superare la misura di 1,7 mq e correttamente l’Amministrazione Comunale si è pronunciata negativamente sulla SCIA, avendo accertato che le difformità dell’appartamento all’interno 14 (esteso 89,10 mq), corrispondendo all’avvenuta realizzazione di nuove superfici abitabili per mq 16,52, sopravanzassero di gran lunga le suddette tolleranze massime.
In nessun caso la percentuale delle difformità stesse può essere calcolata sulla superficie dell’intero fabbricato, villino A, pari a 1617,50 mq.
L'interpretazione su esposta è supportata anche dalle più recenti pronunce del Consiglio di Stato e non risulta efficacemente smentita né dal riferimento della norma dell’art. 34-bis cit. al “titolo abilitativo” (che pur riguardando, se del caso, tutta la costruzione, non può che contenere un preciso riferimento anche alle singole unità immobiliari), né dalle argomentazioni contenute nelle più risalenti decisioni giurisprudenziali, favorevoli ad una più estesa liberalizzazione delle difformità da progetto, particolarmente rischiosa, però, per il possibile pregiudizio arrecato all’interesse pubblico urbanistico ed edilizio, in caso di fabbricati di grandi dimensioni.
---------------

Rilevato che:
   - la ricorrente ha chiesto al Tribunale di annullare, previa sospensione dell’efficacia, la determinazione dirigenziale di Roma Capitale prot. CS n. 90657 del 02.12.2020 con cui era stato disposto l’annullamento della SCIA prot. CS/82691/2020 del 03.11.2020, da essa presentata in relazione all’appartamento sito in Roma, alla via ..., n. ..., scala A, piano 4, int. 14, e tutti gli atti presupposti e consequenziali;
   - a sostegno della sua domanda, la ricorrente ha dedotto:
a) di essere proprietaria di un complesso immobiliare sito in Roma, via ... n. ..., composto da un fabbricato, indicato come “Villino A” e da un altro edificio, denominato “Villino B”, realizzato in virtù di licenza edilizia n. 821/1962 e licenza edilizia in variante n. 18/1964, dichiarato agibile con certificati nn. 1489 e 1490 del 25.11.1965;
b) di aver verificato, nel corso dei controlli finalizzati alla dismissione del proprio patrimonio immobiliare, che un appartamento del Villino A (l’interno 14) presentava lievi difformità rispetto ai titoli edilizi conseguiti al momento della costruzione e della variante, che però apparivano risalenti all’epoca dell’edificazione;
c) di avere accertato che tali difformità consistevano nella avvenuta realizzazione di nuove superfici abitabili di mq 16,52;
d) di aver presentato ai fini della regolarizzazione di esse, il 03.11.2020, una SCIA, invocando l’applicazione dell’art. 34-bis del DPR n. 380/2001, trattandosi di “tolleranze costruttive”, contenute entro il limite del 2% delle misure previste nel titolo abitativo( pari a mq 32,35) perché da calcolarsi con riguardo alla superficie non del singolo appartamento, ma dell’intero fabbricato – Villino A (di complessivi 1.617,50 mq);
e) di aver ricevuto inaspettatamente la determina impugnata, nella quale l’Amministrazione aveva sostenuto che il limite del 2% dovesse essere calcolato non con riferimento alla superficie dell’intero edificio, ma con riguardo a quella del singolo appartamento e che la SCIA fosse comunque carente di alcuni documenti;
   - alla luce di tali circostanze, la ricorrente ha formulato i seguenti motivi:
1) violazione e falsa applicazione dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 380/2001, erronea e falsa applicazione dell’art. 3 NTA del PRG di Roma Capitale,
2) violazione e falsa applicazione dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 380/2001 sotto altro profilo, violazione del giusto procedimento, violazione dell’art. 6, lett. b), della l.n. 241/1990, irragionevolezza e sproporzione;
   - si è costituita in giudizio Roma Capitale, chiedendo il rigetto del ricorso, in quanto infondato;
   - alla camera di consiglio del 03.03.2021, fissata per esame della sospensiva, la causa è stata trattenuta in decisione ex art. 60 c.p.a., sussistendone i presupposti;
Ritenuto che:
   - il ricorso non sia fondato e debba essere rigettato;
   - l’art. 34-bis del DPR n. 380/2001, che stabilisce che “il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità abitative non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo”, debba essere interpretato nel senso di riferire la cd. “tolleranza di cantiere” del 2% delle misure programmate soltanto alle singole unità abitative e, dunque, a ciascun appartamento e non all’intero edificio nel suo complesso, come sostenuto dalla ricorrente;
   - la suddetta interpretazione appaia quella più corrispondente al dettato letterale dell’art. 34-bis del DPR n. 380/2001 (che ha sostituito l’ultimo comma dell’art. 34 previgente, all’interno del medesimo decreto) riferito, appunto, alle “singole unità abitative” e, soprattutto, all’esigenza sostanziale di garantire quanto più possibile la corretta esecuzione dei progetti costruttivi autorizzati, con conseguente irrilevanza soltanto degli scostamenti di lieve entità (2% della superficie del singolo appartamento), inquadrabili nelle “tolleranze di cantiere”, e non di sensibili modifiche al progetto approvato, che altrimenti potrebbero essere tanto più estese quanto più grande risulti l’edificio complessivo;
   - nell’ipotesi in questione, la tolleranza di cantiere non potesse superare la misura di 1,7 mq e correttamente l’Amministrazione Comunale si sia pronunciata negativamente sulla SCIA, avendo accertato che le difformità dell’appartamento all’interno 14 (esteso 89,10 mq), corrispondendo all’avvenuta realizzazione di nuove superfici abitabili per mq 16,52, sopravanzassero di gran lunga le suddette tolleranze massime;
   - in nessun caso la percentuale delle difformità stesse potesse essere calcolata sulla superficie dell’intero fabbricato, villino A, pari a 1617,50 mq;
   - l’interpretazione suesposta sia supportata anche dalle più recenti pronunce del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., Sez. II, 07.01.2021 n. 230) e non risulti efficacemente smentita né dal riferimento della norma dell’art. 34-bis cit. al “titolo abilitativo” (che pur riguardando, se del caso, tutta la costruzione, non può che contenere un preciso riferimento anche alle singole unità immobiliari), né dalle argomentazioni contenute nelle più risalenti decisioni giurisprudenziali, favorevoli ad una più estesa liberalizzazione delle difformità da progetto, particolarmente rischiosa, però, per il possibile pregiudizio arrecato all’interesse pubblico urbanistico ed edilizio, in caso di fabbricati di grandi dimensioni;
   - non meritevoli di accoglimento siano, infine, anche le ulteriori doglianze espresse dalla ricorrente con riguardo all’art. 3 NTA del PRG, che, ai fini dell’applicazione delle previsioni urbanistiche ed edilizie del PRG, definisce in via generale i concetti di “unità edilizia” e di “unità immobiliare”, e in rapporto al preteso difetto di motivazione del provvedimento impugnato in relazione alla contestazione da parte dell’Amministrazione della mancata allegazione alla SCIA dei “calcoli e (dei) computi metrici previsti per la determinazione delle sanzioni da applicare anche in riferimento alle difformità prospettiche degli infissi e dei balconi oggetto di sanatoria”, delle “reversali relative al pagamento dei Diritti di istruttoria” e di “prospetti, sezioni e documentazione fotografica”, atti allo stato ancora mancanti e comunque di secondaria rilevanza di fronte all’impossibilità di considerare gli aumenti di superficie rilevati come “tolleranze di cantiere”;
- il ricorso debba essere, dunque, come anticipato, integralmente respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 15.04.2021 n. 4412 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAttualmente l’art. 34-bis d.p.r. n. 380/2001 in tema di “Tolleranze costruttive” (introdotto dall’art. 10, comma 1, lett. p), decreto-legge n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 120/2020) prevede:
   «1. Il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo.
   (omissis)».

Ebbene, per la parziale difformità, proprio la disposizione suddetta contempla una tollerabilità compresa entro la soglia del 2% del volume complessivo della singola unità immobiliare.

---------------

4.5. - Con l’ultimo motivo di censura la ricorrente deduce l’illegittimità del gravato provvedimento per violazione del decreto-legge n. 70/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106/2011 e dell’art. 34 d.p.r. n. 380/2001 e per falsa/mancata applicazione del suddetto art. 34, l’eccesso di potere per errore e falsità dei presupposti per l’assunta inquadrabilità dell’illecito oggetto del provvedimento impugnato nell’ambito di applicazione dell’art. 34, comma 2-ter, d.p.r. n. 380/2001.
Il motivo è infondato.
La ricorrente richiama la disciplina dettata in relazione alla c.d. “tolleranza costruttiva” dall’art. 5, comma 2, lett. a), n. 5), decreto legge n. 70/2011, convertito, con modificazioni, nella n. 106/2011, che consente uno scostamento fino al 2 per cento tra l’opera che viene realizzata e il progetto che l’aveva prevista, soglia al di sotto della quale viene esclusa la sussistenza della c.d. “parziale difformità” e cioè la fattispecie abusiva riscontrata nell’unità immobiliare della stessa -OMISSIS-.
In particolare la deducente invoca il comma 2-ter dell’art. 34 d.p.r. n. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia) (introdotto per l’appunto dal citato decreto-legge n. 70/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106/2011, ma oggi abrogato dall’art. 10, comma 1, lett. o), decreto-legge n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 120/2020) a mente del quale “Ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali”.
Attualmente l’art. 34-bis d.p.r. n. 380/2001 in tema di “Tolleranze costruttive” (introdotto dall’art. 10, comma 1, lett. p), decreto-legge n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 120/2020) prevede:
   «1. Il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo.
   2. Fuori dai casi di cui al comma 1, limitatamente agli immobili non sottoposti a tutela ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, costituiscono inoltre tolleranze esecutive le irregolarità geometriche e le modifiche alle finiture degli edifici di minima entità, nonché la diversa collocazione di impianti e opere interne, eseguite durante i lavori per l’attuazione di titoli abilitativi edilizi, a condizione che non comportino violazione della disciplina urbanistica ed edilizia e non pregiudichino l’agibilità dell’immobile.
   3. Le tolleranze esecutive di cui ai commi 1 e 2 realizzate nel corso di precedenti interventi edilizi, non costituendo violazioni edilizie, sono dichiarate dal tecnico abilitato, ai fini dell’attestazione dello stato legittimo degli immobili, nella modulistica relativa a nuove istanze, comunicazioni e segnalazioni edilizie ovvero con apposita dichiarazione asseverata allegata agli atti aventi per oggetto trasferimento o costituzione, ovvero scioglimento della comunione, di diritti reali
.».
In virtù di tale disposizione (i.e. vecchio art. 34, comma 2-ter, d.p.r. n. 380/2001 e nuovo art. 34-bis d.p.r. n. 380/2001) e “considerando che la cubatura espressa dall’intero appartamento a primo piano, come rilevato dal funzionario del Comune è pari a mc. 995 e rilevato che il 2% di tale cubatura è pari a mc. 19,90, laddove la cubatura del cavedio (della superficie di mt. 1,50 x 2,95) è pari a mc. 16”, la -OMISSIS- assume che sarebbe “di tutta evidenza che si è al di sotto della soglia del 2% della cubatura totale espressa dall’appartamento” e che, quindi, si sarebbe in presenza di uno scostamento tollerabile e non sanzionabile (cfr. pagg. 25 e 26 dell’atto introduttivo).
Tuttavia, rileva questo Giudice che l’errore in cui incorre la ricorrente è quello di riferire la cubatura accertata dal funzionario del Comune in complessivi mc. 995 al solo appartamento di primo piano laddove, invece, tale misura è riferita a quella complessiva (piano rialzato e primo piano), con la conseguenza che il volume riferito ad un solo piano (ovvero alla singola unità immobiliare cui si riferisce la norma) è pari alla metà di mc. 995 e, quindi, a mc. 497,50.
Quest’ultimo dato (mc. 497,50) è il volume dell’appartamento sulla cui base va calcolato il superamento o meno della soglia di tollerabilità prevista dal legislatore (vecchio art. 34, comma 2-ter, d.p.r. n. 380/2001 e nuovo art. 34-bis d.p.r. n. 380/2001) per la sussistenza o meno delle c.d. “difformità parziali”/“tolleranza costruttiva”.
Ne consegue che, rispetto ad un volume dell’unità immobiliare della ricorrente di mc. 497,50, il volume del vano realizzato nel pozzo luce in difformità dal progetto assentito, pari come si è detto a mc. 16,00, eccede la soglia del 2% del volume totale (pari a mc. 9,95) richiesto dalla norma invocata dalla stessa istante per affermare la tollerabilità e non sanzionabilità dell’abuso contestato.
Al fine di sgomberare il campo da ogni dubbio si riporta il testo della relazione tecnica di sopralluogo nella parte relativa alla descrizione della tipologia dell’abuso riscontrato (pag. 2): «… Dall’esame degli elaborati grafici allegati ai titoli abilitativi rilasciati è possibile rilevare che la volumetria dell’edificio è pari a circa mc. 995 […].
Di conseguenza, quindi, considerato che il pozzo luce ha dimensioni di mt. 1,50 x 2,95 e sviluppa una cubatura pari a circa mc. 16,00 e che, pertanto, tale volumetria è nettamente inferiore a quella massima pari a mc. 99,50, l’intervento non è da intendersi come variazione essenziale ma come parziale difformità. …
».
Ebbene, per la parziale difformità, proprio le disposizioni invocate dalla -OMISSIS- contemplano una tollerabilità compresa entro la soglia del 2% del volume complessivo della singola unità immobiliare e, quindi, essendo il volume del solo primo piano pari alla metà di mc. 995,00 (ovvero mc. 497,50), l’aumento di volume conseguito alla chiusura del pozzo luce (pari a mc. 16,00) eccede la soglia di tolleranza del 2% del volume della singola unità immobiliare pari nella specie a mc. 9,95.
A ciò si aggiunga, comunque, che la chiusura del pozzo luce ha creato un volume edilizio non ricompreso nel progetto assentito, dotato di autonoma utilizzabilità e come tale illegittimo.
Ne deriva l’infondatezza anche di detto motivo di gravame
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 01.04.2021 n. 563 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' corretto ritenere che la “tolleranza di cantiere”, tale da escludere l’abusività dell’intervento, vada posta in relazione con la porzione di immobile cui esso accede e non, come proposto dall’appellato, con la superficie dell’intero palazzo.
---------------

In proposito è fondata la censura d’appello la quale -conformemente al controricorso prodotto in primo grado avverso i motivi aggiunti- rileva che quando il Comune ebbe a rilasciare il suddetto titolo abilitativo n. -OMISSIS- annullato in autotutela dava per assodato che l’edificio fosse effettivamente corrispondente ai titoli edilizi in precedenza rilasciati (la concessione edilizia n. -OMISSIS- per la ristrutturazione e l’ampliamento ai sensi della legge n. 166/2002; e in particolare il permesso di costruire in variante ed in sanatoria n. -OMISSIS-); e che invece questo presupposto, alla base dell’annullato provvedimento n. -OMISSIS-, si è poi rivelato insussistente perché le misurazioni sulle quali si fondavano i suddetti precedenti assensi edilizi n. -OMISSIS- non erano state fedelmente riportate dall’interessato, sì da escluderne l’affidamento; affidamento invece allegato dal primo giudice nel prospettare in proposito la carenza della motivazione e la carenza della comparazione degli interessi del privato con l’interesse pubblico, presupposti tali da giustificare l’autotutela da parte del Comune.
Invero lo stesso appellato –pur rilevando: la non essenzialità delle difformità riscontrate, ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, che afferma le difformità perfettamente regolarizzabili prima della definitiva chiusura dei lavori; l’inconferenza del riferimento fatto dall’Amministrazione all’art. 85 della legge regionale n. 15/2004; la non correttezza delle misurazioni prese a riferimento dal Comune- ammette che queste difformità vi sono state.
Ed esse appaiono tali da giustificare l’autotutela del Comune.
In particolare l’appellato, dopo aver fornito propri dati sulle difformità non prospettate al Comune nelle richieste degli assensi edilizi poi ottenuti, afferma espressamente: “Anche a voler calcolare la volumetria complessiva dei locali sottotetto abitativi, si ottiene un maggior volume pari a mc. -OMISSIS-, corrispondente al 2,27% della volumetria complessiva del fabbricato di circa mc. -OMISSIS-”; e rileva che ciò rispetterebbe, come altre misurazioni lineari pure esposte dal medesimo appellato, la prevista “tolleranza di cantiere” del 3%.
Ma un simile incremento volumetrico risulta notevole; e, riguardando la “volumetria complessiva dei locali sottotetto abitativi”, concerne una ben individuata parte dell’immobile, avente propria specifica connotazione (i sottotetti da recuperare ad uso abitativo).
Sicché in proposito viene in rilievo la previsione, relativa agli abusi in volumetria, del precedente articolo 6 (“Totale difformità”) della stessa legge regionale n. 52/1989, la quale indica alla lettera b) come in totale difformità anche i “volumi edilizi che, pur rientranti nei limiti stabiliti dal richiamato primo comma del precedente art. 5, comportino la realizzazione di un organismo edilizio, o parte di esso, con specifica rilevanza ed autonoma utilizzazione, rispetto a quello oggetto della concessione”.
In quest’ottica è corretto ritenere che la “tolleranza di cantiere” tale da escludere l’abusività dell’intervento, va posta in relazione con la porzione di immobile cui esso accede, e non, come proposto dall’appellato, con la superficie dell’intero palazzo (confr. Cons. Stato, Sez. IV, 22.01.2018, n. 405). E da un simile più corretto raffronto la mancata prospettazione nelle istanze edilizie di volumetria aggiuntiva per metri cubi -OMISSIS- appare non “tolleranza di cantiere” ma notevole infedeltà
(Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 07.01.2021 n. 230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl limite del 2 per cento contenuto nel comma 1 dell'art. 32 della l. n. 47/1985 deve ovviamente essere rapportato (non già all’intero complesso immobiliare ma) al singolo plesso sul quale insiste.
La disposizione di cui al primo comma dell’art. 32 su richiamato, si fonda su un concetto (quello di tolleranza di cantiere) che sopravvive nella vigente legislazione: ma la percentuale su cui misurare lo scostamento o, se si vuole, la abusività dell’intervento, va posta in relazione con la porzione di immobile cui esso accede, e non con la superficie dell’intero palazzo.
E' ovvio che il limite del 2% vada riferito alla singola unità immobiliare cui l’abuso accede.

---------------

10.5. Prima di esporre l’opinione del Collegio, sul punto, occorre dare conto della obiezione delle parti appellate (pag. 15 della memoria depositata il 18.09.2017, punto 4.4.1.) secondo la quale, tenuto conto che soltanto in sparuti casi e di minimo impatto v’era stato un incremento di volumetria, ovvero di superficie utile, neppure, in realtà, sarebbe stato necessario acquisire il parere della Soprintendenza. E ciò in forza del disposto di cui all’ultima parte del comma 1 dell’art. 32 della legge n. 47 del 28.02.1985 (“1. Fatte salve le fattispecie previste dall'articolo 33, il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso. Qualora tale parere non venga formulato dalle suddette amministrazioni entro centottanta giorni dalla data di ricevimento della richiesta di parere, il richiedente può impugnare il silenzio-rifiuto. Il rilascio del titolo abilitativo edilizio estingue anche il reato per la violazione del vincolo. Il parere non è richiesto quando si tratti di violazioni riguardanti l'altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle misure prescritte.”).
10.5.1. Sostengono, in sintesi, le parti appellate che in considerazione della circostanza che gli incrementi abusivi “sanati” non raggiungono il 2 per cento dell’immobile, neppure sarebbe stato necessario chiedere il prescritto parere.
10.5.2. E’ evidente che lo scrutinio di tale eccezione è logicamente prioritario: ciò, in quanto tale tesi -ove accolta- spiegherebbe portata assorbente rispetto all’ulteriore argomento difensivo (secondo il quale il parere era fornito di motivazione adeguata alla comunque modestissima tipologia degli abusi, ed alla circostanza che comunque l’immobile avrebbe dovuto essere demolito, dovendosene salvaguardare soltanto la facciata): ove infatti il parere non fosse stato dovuto (pur essendo stato reso dalla Soprintendenza) ogni vizio eventuale del medesimo non potrebbe condurre alla declaratoria di illegittimità del titolo abilitativo edilizio cui esso “accede” e del quale è condizione legittimante.
10.6. Il Collegio ritiene che tale pur arguta obiezione non meriti accoglimento, sia perché collidente con elementi di fatto, che perché non persuasiva in diritto, in quanto:
   a) sotto il profilo fattuale, vi sono almeno 3 casi (“gruppo 3” nella elencazione contenuta nell’elaborato di consulenza della parte appellata a firma degli architetti Br. e Pi., pag. 5) che riguardano la realizzazione di interventi incidenti sull’esterno, due dei quali anche sul prospetto, e quindi si è al di fuori del perimetro normativo su indicato;
   b) sotto il profilo giuridico, il limite del 2 per cento contenuto nella richiamata disposizione, deve ovviamente essere rapportato (non già all’intero complesso immobiliare ma) al singolo plesso sul quale insiste;
   c) la “singolarità” dell’odierno procedimento, riposante in una valutazione cumulativa di più abusi, di differente tipologia, insistenti in parti distinte dell’immobile, realizzati in epoca diversa, e da soggetti diversi, non può essere “unificata” al fine di ritenere che ogni singolo abuso dovesse essere rapportato alla superficie complessiva dell’immobile;
   d) la disposizione di cui al primo comma dell’art. 32 su richiamato, si fonda su un concetto (quello di tolleranza di cantiere) che sopravvive nella vigente legislazione: ma la percentuale su cui misurare lo scostamento o, se si vuole, la abusività dell’intervento, va posta in relazione con la porzione di immobile cui esso accede, e non con la superficie dell’intero palazzo: esemplificativamente, quanto alle opere che hanno certamente comportato incremento di volumetria e superficie utile (“gruppo 4” nella elencazione contenuta nell’elaborato di consulenza della parte appellata a firma degli architetti Br. e Pi., pag. 6 ) il computo dell’ampliamento del magazzino per mq 13,40 (pratica n. 322166) ai fini del contenimento dello stesso nella misura del 2% va riferito al locale-magazzino medesimo, e non all’intero plesso, ovvero anche solo al piano ove lo stesso insiste;
   e) ogni immobile sul quale è stato commesso il singolo abuso, è connotato da una propria “individualità”: non a caso, nella indicazione prodotta dal comune di Roma vengono indicati il foglio, (sempre n. 479) la particella (sempre la n. 69) ed il subalterno (che è via via differente, in quanto contraddistingue il singolo immobile); l’affermazione della difesa di parte appellata, vorrebbe che l’entità dell’incremento (al fine di verificare se il parere fosse –o meno- necessario) venisse rapportata all’intero immobile; ma una simile interpretazione trae spunto da una occasionale circostanza (quella riposante nella proprietà unitaria dell’intero plesso, e dalla presentazione di domande di sanatoria ad opera di un unico soggetto) e da un ancor più occasionale accadimento (quello riposante nella circostanza che il parere della Soprintendenza si sia unitariamente riferito a tutti gli abusi per i quali era stata richiesta da I.N.A. s.p.a. la sanatoria);
   f) e la eccezione della difesa delle parti appellate integra -a parere del Collegio- una interpretazione non condivisibile, che produrrebbe, ove accolta, un effetto abrogativo della necessità del parere: in immobili vincolati di consistente cubatura, e suddivisi in unità immobiliari aventi propria individualità (quale è quello per cui è causa), ove l’entità dell’abuso dovesse essere computata in relazione all’intero plesso, è evidente che giammai (o assai raramente) ricorrerebbe la necessità del parere: è ovvio invece, che il limite del 2% vada riferito alla singola unità immobiliare cui l’abuso accede: e non avendo le parti appellate dimostrato che in ciascuno dei 40 permessi in sanatoria si fosse rimasti al di sotto del 2% (il che peraltro, da una lettura delle pratiche versate in atti sembrerebbe da escludere) l’eccezione va disattesa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.01.2018 n. 405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

Ed altre questioni/contributi, ancora, sulla tolleranza edilizia del  2%:

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Riscontro richiesta di parere della Direzione Tecnica del Municipio XV prot. CU 97347 del 25.11.2020 (pervenuta al D.P.A.U. con prot. QI 138499 del 25.11.2020), inerente la richiesta di chiarimenti in merito alle “Tolleranze costruttive” di cui all’art. 34-bis del D.P.R. 380/2001 (Comune di Roma, nota 11.12.2020 n. 148518 di prot.).
---------------
Si leggano, al riguardo, altri precedenti pareri collegati:
  
Oggetto: Riscontro richiesta di parere della Direzione Tecnica del Municipio VII prot. Cl 146146 del 26.06.2018 (pervenuta al D.P.A.U. con prot. Ql 113427 del 03.07.2018), inerente l'applicabilità dell'art. 34, comma 2-ter, dpr 380/2001 per la chiusura di una loggia (Comune di Roma, nota 08.08.2018 n. 135807 di prot.).
   ●
Oggetto: Riscontro richiesta parere U.O.T. Municipio III (ex IV) prot. 125685 del 14.12.2015 (acquisita al D.P.A.U. con prot. 207401 del 18.12.2015), inerente le intervenute modifiche al dpr 380/2001 con la Legge 106/2011 - art. 34, comma 2-ter (Comune di Roma, nota 15.02.2016 n. 26496 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Con l'art. 34-bis, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 è stato introdotto il concetto di "tolleranza esecutiva per le irregolarità geometriche".
Ora il caso riguarda un edificio residenziale di tre piani e 6 appartamenti degli anni '60, che prevedeva per il soggiorno 2 finestre e una porta finestra, mentre è stata realizzata una finestra e una porta finestra per tutte e 6 le unità senza la presentazione di una variante; catastalmente è regolare.
Considerato a mio avviso che la geometria di un edificio non riguarda solamente la sagoma ma anche le proporzioni delle facciate, è ammissibile pensare che l'eliminazione di una finestra possa essere considerata una irregolarità geometrica?
Si precisa che il rapporto aero-illuminante è rispettato.

Si ritiene che al fine di dare adeguata risposta al quesito posto giovi preliminarmente inquadrare lo stato dell'arte normativo.
In particolare, il D.L. 16.07.2020, n. 76 (c.d. "Decreto Semplificazioni"), poi recepito con la legge di conversione L. 11.09.2020, n. 120, ha introdotto una nuova e importante disciplina in merito alle tolleranze costruttive in caso di parziali difformità rispetto al titolo edilizio abilitativo, disponendo l'abrogazione del comma 2-ter, art. 34, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e introducendo una nuova disciplina con l'inserimento del nuovo art. 34-bis, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 medesimo.
Giova quindi evidenziare come già la giurisprudenza formatasi sotto la previgente normativa aveva trattato la c.d. tolleranza di cantiere del 2%, o regime di franchigia, di cui all'art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, disposizione in base alla quale "non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali".
Il Consiglio di Stato Detta chiamato a pronunciarsi sul teme ha stabilito che: "Si tratta, come appare evidente, di una disposizione di tolleranza rivolta a disciplinare in senso, per dir così "liberalizzatorio", interventi edilizi aventi una consistenza minima" (Cons. Stato Sez. VI, Sent., 23.07.2018, n. 4504).
Da tali presupposti consegue che già sotto il previgente regime normativo un intervento, in se parzialmente difforme, realizzato però entro il limite della c.d. "tolleranza di cantiere", non fosse riconducibile nella categoria della difformità parziale, ma rientrava nella irrilevanza ai fini edilizi, con la conseguenza della sua non sanzionabilità anche sotto il profilo di violazione minore (difformità o assenza di Scia o Pdc).
La modifica di recente introduzione quindi ha dettagliato un principio già formatosi sulla scorta della interpretazione giurisprudenziale; pertanto alla luce di quanto sopra si ritiene che la difformità descritta nel quesito sia riconducibile alla nuova tipologia di tolleranza costruttiva e pertanto possa giovarsi di quanto previsto al nuovo art. 34-bis.
----------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 34-bis
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. VI, Sent., 23.07.2018, n. 4504 (23.10.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

EDILIZIA PRIVATAIl quesito che intendo sottoporre riguarda un ampliamento di volume in sopraelevazione, di un edificio unifamiliare posto all'interno della fascia di rispetto stradale, di cui al D.Lgs. 30.04.1992, n. 285.
Tale ampliamento, già realizzato, rispetta il 2% previsto dall'art. 34, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e pertanto è ammesso anche se è in zona di vincolo paesaggistico, come riportato dal D.P.R. 13.02.2017, n. 31.
Dato che il Codice della Strada non contempla tolleranze, come invece previsto dalle norme su citate, si chiede se il 2% in ampliamento, che non è considerato ai fini edilizi come parziale difformità, può essere applicato, per analogia, anche all'art. 16 del C.d.S. vigente.

L'avanzato quesito riguarda un'interessante fattispecie, coinvolgente problematiche di natura edilizia e di disciplina delle distanze. Precisamente, la concreta fattispecie può essere così sintetizzata:
   - In un edificio unifamiliare, posto all'interno del vincolo della fascia di rispetto stradale, come disciplinata dal Codice della strada (D.Lgs. 30.04.1992, n. 285), è stato realizzato un intervento edilizio, comportante un ampliamento di volume, che si sviluppa in una sopraelevazione.
Siffatto ampliamento rispetta le cd. "tolleranze di cantiere", disciplinate dall'art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Conseguentemente, l'intervento, in quanto rientrante nelle predette "tolleranze", non dà luogo ad alcuna difformità, neppure parziale, rispetto al titolo edilizio che ha legittimato il medesimo intervento.
A questo punto, si chiede di sapere se il consentito ("tollerato") ampliamento dei "distacchi", cioè della distanza fra due edifici fronteggianti, trova una legittimazione anche sul versante della fascia di rispetto stradale. In altri termini, si chiede di sapere se la prevista "tolleranza" della costruzione edilizia, in termini di "distacchi", pari al 2% delle misure progettuali, trova applicazione anche nei riguardi dei limiti afferenti la fascia di rispetto stradale.
Primariamente, occorre ricordare che il richiamato art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, stabilisce quanto segue: "Ai fini dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali".
Siffatta disposizione normativa è stata aggiunta dall'art. 5, comma 2, lettera "a", n. 5, D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito in L. 12.07.2011, n. 106. La disposizione (ricalcante la pregressa ed analoga prevista dall'art. 32, comma 1, L. 28.02.1985, n. 47) è destinata ad operare, unicamente, nei rapporti con la Pubblica amministrazione, non potendo legittimare alcuna lesione dei diritti dei terzi, specie in materia di distanze tra costruzioni. In altri termini, anche se un ampliamento del 2% del fronte di un fabbricato potrà non costituire un abuso edilizio, il vicino potrà sempre chiedere al giudice ordinario l'arretramento del corpo di fabbrica, per ripristinare le distanze eventualmente violate.
In buona sostanza, la disposizione normativa prende in considerazione quattro elementi di possibile tolleranza da valutare in confronto alle misure progettuali. Gli elementi sono:
   - Distacchi: la distanza tra due edifici fronteggianti;
   - Cubatura: la volumetria espressa in metri cubi;
   - Superficie coperta: la proiezione orizzontale al suolo della sagoma esterna del manufatto;
   - Altezza degli edifici.
Orbene, occorre osservare che la "fascia di rispetto", ai sensi dell’art. 3, comma 1, n. 22 del Codice della strada, costituisce una striscia di terreno, esterna al confine stradale, sulla quale esistono vincoli alla realizzazione, da parte dei proprietari del terreno, di costruzioni, recinzioni, piantagioni, depositi e simili.
Le fasce di rispetto stradali, normate dal Codice della Strada e dal suo Regolamento attuativo (D.P.R. 16.12.1992, n. 495), hanno lo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali emergenti dal suolo e la loro potenziale pericolosità a costituire, per la prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico ed alla incolumità delle persone. Attraverso la fascia di rispetto, si garantisce un'area utilizzabile, all'occorrenza, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limitazioni connesse alla presenza di costruzioni. Di regola, le fasce di rispetto vengono istituite con l'approvazione del Progetto definitivo dell'opera stradale e permangono per tutta la vita utile della strada medesima.
All'interno delle fasce di rispetto, vige il vincolo di inedificabilità. Ed, infatti, la giurisprudenza conferma che: "In materia edilizia il vincolo delle fasce di rispetto stradale o viario è di inedificabilità assoluta, traducendosi in un divieto assoluto di costruire che rende inedificabili le aree site in fascia di rispetto stradale o autostradale, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento, in concreto, dei connessi rischi per la circolazione stradale; detto divieto, inoltre, opera direttamente ed automaticamente, per cui una volta attestata in concreto la violazione del vincolo di inedificabilità, il parere dell'amministrazione sull'istanza di condono non può che essere negativo” (TAR Campania Napoli Sez. II, 26.09.2019, n. 4584).
Dal vincolo di in edificabilità discende il conseguente corollario che non sono previste, dalla normativa in materia, "tolleranze" o forme equivalenti. Infatti, l'art. 16, del Codice della strada, in tema di fasce di rispetto fuori dai centri abitati, non contempla alcuna tolleranza. Il comma 1° di tale articolo rinvia, per la concreta tipologia dei divieti, al Regolamento di esecuzione e di attuazione del Codice della strada (D.P.R. 16.12.1992, n. 495). Il Regolamento non prevede, agli articoli 26 e seguenti, alcuna forma di tolleranza. Parimenti, l'art. 18 del Codice della strada, in tema di fasce di rispetto nei centri abitati.
Pertanto, non appare possibile alcuna applicazione analogica della peculiare disciplina delle cd. "tolleranze di cantiere". Ciò, anche per un'altra ragione: l'indicata disciplina consacra l'irrilevanza degli scostamenti, entro il limite del 2%, nella discrasia fra la precisione teorica degli elaborati tecnici e la concreta esecuzione degli interventi (Il comma 2-ter dell'art. 34, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, infatti, consente di escludere dall'ambito delle difformità rilevanti ai fini sanzionatori quelle che si verificano a causa di un fisiologico scarto tra la precisione del disegno e la realizzazione, o dalla consistenza dei materiali, o dalla necessità di modesti adeguamenti in sede esecutiva e, pertanto, non possono che rilevare le misure effettive delle opere realizzate. Peraltro è la stessa norma che espressamente correla la soglia del 2% alle "misure progettuali"; TAR Veneto Venezia Sez. II, 20.09.2019, n. 1013).
In relazione alla fascia di rispetto stradale, non si pone alcun problema di "scostamenti" fra quanto previsto e quanto effettivamente realizzato. Ragion per cui l'analogia non può trovare spazio alcuno.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 28.02.1985, n. 47, art. 32 - D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 3 - D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 16 - D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, art. 18 - D.P.R. 16.12.1992, n. 495, art. 18 - D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 34 - D.P.R. 13.02.2017, n. 31
Riferimenti di giurisprudenza

TAR Campania Napoli Sez. II, 26.09.2019, n. 4584 - TAR Veneto, Sez. II, 20.09.2019, n. 1013
(20.02.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Indicazioni applicative in merito alle tolleranze costruttive, alla verifica dello stato legittimo degli edifici da demolire, alla sanatoria di immobili soggetti a vincolo paesaggistico e al divieto di modificare la Modulistica Unificata Edilizia e di richiedere altra documentazione (Regione Emilia Romagna, nota 05.06.2018 n. 410371 di prot.).
---------------
La Circolare fornisce indicazioni applicative in merito alla tolleranza costruttiva disciplinata dall’art. 19-bis, della L.R. n. 23 del 2004 sulla vigilanza in materia edilizia.
In seguito alle importanti modifiche apportate dalla L.R. n. 12 del 2017 e dalla L.R. n. 24 del 2017, si distinguono quattro fattispecie di opere edilizie realizzate in parziale difformità dal titolo abilitativo che non sono considerate violazioni edilizie e non comportano l’applicazione delle relative sanzioni amministrative.
La circolare chiarisce le modalità per accertare e rappresentare nelle pratiche edilizie le difformità tollerate.
Sono trattate, inoltre, la verifica dello stato legittimo degli edifici interessati da demolizione e ricostruzione, la sanatoria degli abusi commessi in immobili soggetti a vincolo paesaggistico e il divieto di modificare la Modulistica Unificata Edilizia regionale e di richiedere altra documentazione”.

EDILIZIA PRIVATALa previsione dell'art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, per cui non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o sup. coperta che non eccedano il 2% delle misure progettuale, può prescindere dalle norme igienico-sanitarie?
Ad esempio, potrebbe assentire la presenza di locali abitativi con altezza inferiore ai canonici 270 cm minimi?

Il quesito in esame ha ad oggetto la non ignota questione delle cd. "tolleranze costruttive o di cantiere", cioè le eventuali e possibili difformità costruttive, che, in sede di esecuzione, si possono manifestare rispetto a quanto previsto dai titoli edilizi rilasciati sui progetti approvati.
Nello specifico, il quesito pone in relazione l'attuale disciplina in materia (art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380) con la normativa igienico-sanitaria. Precisamente, si chiede di sapere se le "tolleranze" per le violazioni di altezza, attualmente consentite nella misura del 2% delle misure progettuali, sono ammissibili anche nei riguardi delle altezze minime interne (metri 2,70), previste dalla preesistente normativa del 1975.
Procediamo con ordine.
Il Decreto Ministero della sanità del 05.07.1975 ("Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20.06.1896 relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione"), all'art. 1, stabilisce che "l'altezza minima interna utile dei locali adibiti ad abitazione è fissata in m. 2,70, riducibili a m. 2,40 per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli". Trattasi di una norma avente natura tecnica, finalizzata a tutelare evidenti interessi igienico-sanitari.
Il richiamato art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, stabilisce quanto segue: "Ai fini dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali".
Siffatta disposizione normativa è stata aggiunta dall'art. 5, comma 2, lett. a), n. 5, D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito in L. 12.07.2011, n. 106. La disposizione (ricalcante la pregressa ed analoga prevista dall'art. 32, comma 1, L. 28.02.1985, n. 47) è destinata ad operare, unicamente, nei rapporti con la Pubblica amministrazione, non potendo legittimare alcuna lesione dei diritti dei terzi, specie in materia di distanze tra costruzioni. In altri termini, anche se un ampliamento del 2% del fronte di un fabbricato potrà non costituire un abuso edilizio, il vicino potrà sempre chiedere al giudice ordinario l'arretramento del corpo di fabbrica, per ripristinare le distanze eventualmente violate.
In buona sostanza, la disposizione normativa prende in considerazione quattro elementi di possibile tolleranza da valutare in confronto alle misure progettuali. Gli elementi sono:
   - Distacchi: la distanza tra due edifici fronteggianti;
   - Cubatura: la volumetria espressa in metri cubi;
   - Superficie coperta: la proiezione orizzontale al suolo della sagoma esterna del manufatto;
   - Altezza: riferita solo all'esterno dell'edificio od anche agli ambienti interni.
Indubbiamente, l'ultimo elemento ("altezza") è quello che presenta maggiore complessità ed ambiguità, non essendo chiaro se riguardi anche l'altezza all'interno degli alloggi, in particolare i famigerati 2,70 metri tra pavimento e soffitto necessari come altezza minima abitabile.
Quindi, ritornando al quesito in esame, la disposizione normativa, di cui all'art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, trova applicazione anche per le altezze interne dei locali adibiti ad abitazione?
Al riguardo, occorre prendere atto di un'importante sentenza. Precisamente, la sentenza n. 1061 del 26.06.2015, emessa dal Tar Piemonte, sez. II.
In tale pronuncia, i giudici amministrativi hanno esaminato un caso di contestazione di diversi abusi, afferenti una costruzione di civile abitazione, assentita con permesso di costruire. Uno di questa abusi consisteva nel mancato rispetto delle altezze interne dei vani abitabili al piano terreno (soggiorno, cucina, camera e cameretta), i quali, secondo la contestazione del Comune, risultavano inferiori all'altezza minima di metri 2,70.
In merito a tale contestazione, il Tar ha statuito quanto segue: "Portata assorbente assume il secondo motivo di gravame, incentrato sul principio della c.d. tollerabilità di cantiere.
Anche prima dell'introduzione del nuovo comma 2-ter dell'art. 34, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (avvenuta con il D.L. 13.05.2011, n. 70, convertito in L. 12.07.2011, n. 106), la giurisprudenza amministrativa aveva ritenuto che lievi scostamenti rispetto alle misurazioni previste in progetto, i quali si presentino plausibili nell'ambito della tecnica costruttiva utilizzata, non possono considerarsi come difformità rispetto al titolo edilizio rilasciato (Cons. Stato Sez. IV, 10.05.2007, n. 2253), dovendosi essi farsi rientrare nel margine di tollerabilità consueto, legato sia alla difficoltà di perfetta realizzazione delle previsioni di progetto sia ai limiti degli strumenti di misurazione (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 28.07.2009, n. 4469).
E' appena il caso di aggiungere che quell'orientamento giurisprudenziale poc'anzi citato è ormai divenuto legge per effetto del già richiamato art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, a norma del quale "non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali": misura che, nel caso di specie, è stata pacificamente rispettata
".
In buona sostanza, il Tribunale amministrativo piemontese, anche sulla base di pregressi arresti giurisprudenziali, ha statuito i seguenti principi:
   a) sussiste, in materia di variazioni intervenute in sede di esecuzione, un generale principio di "tollerabilità di cantiere";
   b) si tratta di un principio che conosce altri precedenti giurisprudenziali, fondati sulla considerazione che occorre tener conto delle difficoltà di perfetta realizzazione di un progetto, oltre che dei limiti degli strumenti di misurazione;
   c) siffatto principio è diventato legge, in quanto è stato recepito dal già richiamato art. 34, comma 2-ter, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, come integrato nel 2011;
   d) tale principio si applica anche nel caso di mancato rispetto di altezze interne dei vani abitabili, nei limiti, ovviamente, dell'indicata disciplina.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 34 - D.M. 05.07.1975, art. 1
Riferimenti di giurisprudenza

TAR Piemonte, Sez. II, 26.06.2015, n. 1061
(20.03.2018 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

aggiornamento al 26.04.2021

Rifiuti abbandonati: il curatore fallimentare deve provvedere in merito o no??

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Curatela fallimentare.
La curatela fallimentare non può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela dell’ambiente e alla messa in sicurezza di siti contaminati, per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita, non subentrando la curatela negli obblighi strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti.
E’ pertanto esclusa una responsabilità del curatore del fallimento quale soggetto obbligato allo smaltimento dei rifiuti prodotti dal fallito, o quale destinatario degli obblighi ripristinatori di cui al T.U.A., non essendo il curatore né l’autore della condotta di abbandono incontrollato dei rifiuto, né l’avente causa a titolo universale del soggetto inquinatore. Né si può sostenere che, escludendo qualsiasi coinvolgimento della curatela, si finirebbe per trasferire direttamente sulla collettività gli oneri connessi alla gestione dei rifiuti prodotti dall’attività di impresa. Infatti, secondo una giurisprudenza consolidata, se si ammettesse la legittimazione passiva del curatore si determinerebbe un sovvertimento del principio “chi inquina paga”, scaricando i costi su soggetti -i creditori- che non hanno alcun legame con l’inquinamento.
Pertanto, quando gli obblighi di bonifica ambientale derivano dallo svolgimento dell’attività di impresa nel periodo antecedente al fallimento, senza che vi sia stata una continuazione dell’attività, un’eventuale ed ipotetica responsabilità della curatela si tradurrebbe in una responsabilità di mera posizione, il che non è conforme al principio “chi inquina paga”.
In sostanza, si finirebbe per scaricare i costi connessi alla produzione dei rifiuti e della loro permanenza impropria in loco, su soggetti, quali i creditori, che con l’inquinamento stesso non hanno alcun collegamento, che non hanno concorso alla produzione dei rifiuti e al conseguente inquinamento e che pertanto non possono farsi carico dell’interesse della collettività al loro trattamento e smaltimento
(massima tratta da https://lexambiente.it).
---------------
L’Adunanza Plenaria, superando un automatismo spesso applicato in maniera tralatizia dalla giurisprudenza, ha chiarito che il principio “chi inquina paga” (il quale, per la verità, esprime un concetto persino banale) non equivale ad escludere sempre e comunque la legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino, bonifica, etc. di siti inquinati dei soggetti che in qualche modo “succedono” all’autore dell’inquinamento, ed in particolare, per quanto di interesse nel presente giudizio, della curatela fallimentare.
La decisione dell’Adunanza Plenaria riguarda specificamente gli obblighi imposti dal Sindaco con ordinanza adottata ai sensi dell’art. 50 T.U.E.L. e dell’art. 192 T.U.A., ma il principio di diritto affermato nella sentenza n. 3 del 2021 si applica a fortiori nell’ipotesi in cui l’autorità competente diffidi la curatela fallimentare a porre in essere le misure di prevenzione, ripristino e bonifica indicate nell’A.I.A., visto che in tal caso già nel momento in cui assume il proprio munus il curatore è tenuto a prendere contezza del contenuto di tutti i provvedimenti amministrativi che legittimavano l’attività svolta dall’imprenditore fallito e ad attenersi alle relative prescrizioni.
---------------

8. Passando invece a trattare del profilo centrale della controversia, il Collegio evidenzia quanto segue.
8.1. Si già accennato supra al fatto che, in data 26.01.2021, è stata pubblicata la sentenza n. 3/2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la quale ha affermato il seguente principio di diritto “…ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare…”, e questo ha fatto dopo aver precisato che:
…deve escludersi che il curatore possa qualificarsi come avente causa del fallito nel trattamento di rifiuti, salve, ovviamente le ipotesi in cui la produzione dei rifiuti sia ascrivibile specificamente all’operato del curatore, non dando vita il Fallimento ad alcun fenomeno successorio sul piano giuridico.
Sempre in via preliminare va evidenziato che, per risolvere la questione in esame, non appare pertinente il richiamo al principio di diritto enunciato dalla sentenza di questa Adunanza plenaria n. 10 del 2019 […]
Sotto i profili appena evidenziati deve ritenersi, pertanto, esclusa una responsabilità del curatore del fallimento, non essendo il curatore né l’autore della condotta di abbandono incontrollato dei rifiuti, né l’avente causa a titolo universale del soggetto inquinatore, posto che la società dichiarata fallita conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio, attribuendosene la facoltà di gestione e di disposizione al medesimo curatore…”;
- “…La questione posta all’esame di questa Adunanza plenaria consiste nello stabilire se, a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192 sopra riportato.
Ritiene l’Adunanza che la presenza dei rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione del fallimento dell’impresa, tramite l’inventario dei beni dell’impresa medesima ex artt. 87 e ss. L.F., comportino la sua legittimazione passiva all’ordine di rimozione.
Nella predetta situazione, infatti, la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in riferimento ai rifiuti (che sotto il profilo economico a seconda dei casi talvolta si possono considerare ‘beni negativi’), ma in virtù della detenzione del bene immobile inquinato (normalmente un fondo già di proprietà dell’imprenditore su cui i rifiuti insistono e che, per esigenze di tutela ambientale e di rispetto della normativa nazionale e comunitaria, devono essere smaltiti).
Conseguentemente, ad avviso dell’Adunanza, l'unica lettura del decreto legislativo n. 152 del 2006 compatibile con il diritto europeo, ispirati entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, è quella che consente all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei curatori che gestiscono i beni immobili su cui i rifiuti prodotti dall'impresa cessata sono collocati e necessitano di smaltimento…
”.
Nei successivi passaggi della sentenza, l’Adunanza Plenaria:
   - illustra le ragioni per le quali “…appare giustificato e coerente con tale impostazione ritenere che i costi derivanti da tali esternalità di impresa ricadano sulla massa dei creditori dell’imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell’ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento…”;
   - considera irrilevanti, ai fini dell’affermazione della legittimazione passiva della curatela, circostanze di fatto, quali ad esempio la situazione di incapienza dell’attivo fallimentare (profilo che è emerso anche nel presente giudizio);
   - ritiene ugualmente irrilevante il fatto che il curatore si avvalga eventualmente del disposto dell’art. 42, comma 3, l.fall.
8.2. Come si può vedere, l’Adunanza Plenaria, superando un automatismo spesso applicato in maniera tralatizia dalla giurisprudenza, ha chiarito che il principio “chi inquina paga” (il quale, per la verità, esprime un concetto persino banale) non equivale ad escludere sempre e comunque la legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino, bonifica, etc. di siti inquinati dei soggetti che in qualche modo “succedono” all’autore dell’inquinamento, ed in particolare, per quanto di interesse nel presente giudizio, della curatela fallimentare.
La decisione dell’Adunanza Plenaria, come si è visto, riguarda specificamente gli obblighi imposti dal Sindaco con ordinanza adottata ai sensi dell’art. 50 T.U.E.L. e dell’art. 192 T.U.A., ma il principio di diritto affermato nella sentenza n. 3 del 2021 si applica a fortiori nell’ipotesi in cui l’autorità competente diffidi la curatela fallimentare a porre in essere le misure di prevenzione, ripristino e bonifica indicate nell’A.I.A., visto che in tal caso già nel momento in cui assume il proprio munus il curatore è tenuto a prendere contezza del contenuto di tutti i provvedimenti amministrativi che legittimavano l’attività svolta dall’imprenditore fallito e ad attenersi alle relative prescrizioni.
Questo Tribunale, come risulta dagli atti di causa, era del resto già approdato a tale conclusione nella sentenza n. 290/2016, confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 3672/2017, per cui sul punto non si ritiene di dover aggiungere ulteriori considerazioni di ordine giuridico, essendo sufficiente, ai sensi dell’art. 74 c.p.a., rimandare alla motivazione delle due sentenze (TAR Marche, sentenza 12.03.2021 n. 207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAI costi della bonifica del sito inquinato sono a carico della curatela fallimentare.
Il curatore fallimentare è obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero. Ricade sulla curatela fallimentare l'onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti abbandonati e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, con la sentenza 26.01.2021 n. 3.
La questione
La quarta sezione del Consiglio di Stato ha chiesto all'adunanza plenaria di chiarire se, a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita in ordine all'abbandono e deposito incontrollati di rifiuti. La violazione di questi divieti comporta l'obbligo di rimozione, avvio a recupero o smaltimento e ripristino dello stato dei luoghi in solido col proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali questa violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
L'adunanza plenaria ha dichiarato, quale principio di diritto, che ricade sulla curatela fallimentare l'onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare. La presenza dei rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione del fallimento dell'impresa tramite l'inventario dei beni comportano, secondo i giudici, la sua legittimazione passiva all'ordine di rimozione, posto che la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare in virtù della detenzione del bene immobile inquinato su cui i rifiuti insistono.
I costi di bonifica
Nell'ottica del diritto europeo, si legge nella sentenza, i rifiuti devono essere rimossi dallo stesso imprenditore o da chi ne amministra il patrimonio dopo la dichiarazione del fallimento, che ne ha materialmente acquisito la detenzione o la disponibilità giuridica e che pertanto è tenuto a sostenerne i costi di gestione in applicazione del principio «chi inquina paga».
Nella qualità di detentore dei rifiuti, il curatore fallimentare è obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero, altrimenti i costi della bonifica finirebbero per ricadere sulla collettività incolpevole, in antitesi non solo con quel principio ma anche con la realtà economica sottesa alla relazione che intercorre tra il patrimonio dell'imprenditore e la massa fallimentare di cui il curatore ha la responsabilità, che si pone in continuità con detto patrimonio.
Questa regola non può essere inficiata dal fatto che il fallimento sia, in tutto o in parte, incapiente rispetto ai costi della bonifica, che appare come «evenienza di mero fatto» configurabile anche in ipotesi riferibili a un imprenditore non fallito o al proprietario del bene o alla stessa amministrazione comunale che, in dissesto o meno, non abbia disponibilità finanziarie adeguate. In caso di mancanza di risorse si dovranno attivare gli strumenti ordinari e il Comune, qualora intervenga direttamente esercitando le funzioni inerenti all'eliminazione del pericolo ambientale, potrà insinuare le spese sostenute per gli interventi nel fallimento, spese che godranno del privilegio speciale.
Le finalità
Rammenta infine l'adunanza plenaria che le norme del Codice ambientale hanno la finalità di salvaguardia del bene-ambiente rispetto a ogni evento di pericolo o danno ed è assente ogni matrice di sanzione dell'autore. Talché la bonifica costituisce uno strumento pubblicistico teso non a monetizzare la diminuzione del relativo valore, ma a consentirne il recupero materiale, in funzione di reintegrazione del bene giuridico.
Nemmeno può essere riconosciuta al curatore la possibilità di rinunciare ad acquisire i beni che pervengono dal fallito qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi, rinunciando così ad acquisire il fondo su cui grava l'onere di bonifica.
In primo luogo perché questa evenienza costituisce una mera eventualità di fatto riguardante la gestione della procedura fallimentare e non incide sul rapporto amministrativo e sui principi in materia di bonifica. In secondo perché si riferisce ai beni che entrano a diverso titolo nel patrimonio dell'imprenditore dopo la dichiarazione di fallimento e che sono oggetto di spossessamento (eredità, donazioni, vincite ai giochi, diritti d'autore) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia dell'08.02.2021).

AMBIENTE-ECOLOGIAPer l’Ad. plen. il curatore fallimentare è gravato dall’onere di ripristino e smaltimento dei rifiuti abbandonati nell’area su cui opera l’impresa.
Secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare.
---------------
Ambiente – Rifiuti – Divieto abbandono – Recupero e smaltimento – Soggetti obbligati – Curatore fallimentare.
Ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare (1).
---------------
   (1) I. – Con la sentenza in rassegna, l’Adunanza plenaria –cui la questione era stata deferita da Cons. St., sez. IV, 15.09.2020, n. 5454 (oggetto della News US, n. 110 del 05.10.2020)- ha formulato il principio di diritto di cui in massima.
   II. – Il collegio, dopo aver analizzato la vicenda processuale e fattuale sottesa, ha osservato quanto segue:
      a) preliminarmente:
         a1) ha escluso che il curatore possa qualificarsi come avente causa del fallito nel trattamento di rifiuti, salve le ipotesi in cui la produzione degli stessi sia ascrivibile specificamente al suo operato, non dando vita il fallimento ad alcun fenomeno successorio sul piano giuridico;
         a2) ha evidenziato che, per risolvere la questione giuridica, non appare pertinente il richiamo a Cons. Stato, Ad. plen., 22.10.2019, n. 10 (in Foro it., 2019, III, 637 nonché oggetto della News US n. 117 del 29.10.2019 ed alla quale si rinvia per ogni approfondimento in dottrina e in giurisprudenza), che ha esaminato un’ipotesi in cui vi era stata successione di un distinto soggetto giuridico a quello su cui precedentemente gravava l’onere della bonifica, con l’affermazione del principio per cui l’acquirente del bene subentra negli obblighi gravanti sul precedente titolare;
         a3) in base a tali profili, pertanto, ha escluso una responsabilità del curatore del fallimento, non essendo questi né l’autore della condotta di abbandono incontrollato dei rifiuti, né l’avente causa a titolo universale del soggetto inquinatore, posto che la società fallita conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio, attribuendosene la facoltà di gestione e disposizione al curatore;
      b) occorre stabilire se, a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192 l. fall.;
      c) secondo il collegio, la presenza dei rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore al momento della dichiarazione del fallimento con l’inventario dei beni dell’impresa, comportano la legittimazione passiva del curatore stesso all’ordine di rimozione;
         c1) in questa situazione la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in relazione ai rifiuti, ma al bene immobile inquinato su cui i rifiuti insistono e che, per esigenze di tutela ambientale e di rispetto della normativa nazionale e comunitaria, devono essere smaltiti;
         c2) pertanto, l’unica lettura della disposizione compatibile con il diritto europeo è quella che consente all’amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei curatori che gestiscono immobili su cui i rifiuti prodotti dall’impresa cessata sono collocati e necessitano di smaltimento;
      d) a tale conclusione si perviene anzitutto dall’analisi del d.lgs. n. 152 del 2006:
         d1) al divieto di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti si riconnettono gli obblighi di rimozione, di avvio al recupero o smaltimento e di ripristino dello stato dei luoghi in capo al trasgressore e al proprietario, in solido, a condizione che la violazione sia ad almeno uno di essi imputabile secondo gli ordinari titoli di responsabilità;
         d2) in base al diritto europeo, i rifiuti devono essere comunque rimossi, anche quando è cessata l’attività, dall’imprenditore o, in alternativa, da chi amministra il patrimonio fallimentare dopo la dichiarazione di fallimento;
d3) l’art. 3, par. 1, punto 6, della direttiva 2008/98/CE definisce, infatti, il detentore come la persona fisica o giuridica che è in possesso dei beni immobili sui quali insistono i rifiuti;
         d4) non rilevano le differenze tra i concetti nazionali di possesso e detenzione, in quanto ciò che interessa ai fini del diritto europeo è la disponibilità materiale dei beni e un titolo giuridico che consenta o imponga l’amministrazione di un patrimonio nel quale sono compresi i beni immobili inquinati;
      e) inoltre, in base al diritto europeo, i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti, in applicazione del principio “chi inquina paga”, nel cui ambito solo chi non è detentore dei rifiuti può invocare la c.d. esimente interna prevista dall’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006;
      f) la curatela fallimentare, anche quando non prosegue l’attività imprenditoriale, non può avvantaggiarsi dell’esimente lasciando abbandonati i rifiuti dell’attività imprenditoriale dell’impresa cessata, in quanto nella qualità di detentore dei rifiuti, sia secondo il diritto interno che in base al diritto europeo, il curatore fallimentare è obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero;
      g) il rilievo centrale che nel diritto comunitario assume la detenzione dei rifiuti risultanti dall’attività produttiva pregressa è inoltre coerente con la sopportazione del peso economico della messa in sicurezza e dello smaltimento da parte dell’attivo fallimentare dell’impresa che li ha prodotti.
Seguendo la tesi contraria, i costi della bonifica finirebbero per ricadere sulla collettività incolpevole, in antitesi non solo con il principio “chi inquina paga”, ma anche in contrasto con la realtà economica sottesa alla relazione che intercorre tra il patrimonio dell’imprenditore e la massa fallimentare di cui il curatore ha la responsabilità che, sotto il profilo economico, si pone in continuità con detto patrimonio;
      h) ai sensi dell’art. 42, comma 3, l. fall. “il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può rinunciare ad acquisire i beni che pervengono al fallito durante la procedura fallimentare qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi”.
Tuttavia:
         h1) l’evenienza della rinuncia costituisce una mera eventualità di fatto, riguardante la gestione della procedura fallimentare e il ventaglio di scelte accordate dal legislatore al curatore e non incide sul rapporto amministrativo e sui principi in materia di bonifica;
         h2) il medesimo comma 3 si riferisce ai beni che entrano a diverso titolo nel patrimonio dell’imprenditore dopo la dichiarazione di fallimento e che sono oggetto di spossessamento;
      i) inoltre, in tema di prevenzione, il citato principio “chi inquina paga” non richiede, nella sua accezione comunitaria, la prova dell’elemento soggettivo. Al contrario, la direttiva 2004/35/CE configura la responsabilità ambientale come responsabilità oggettiva “il che rappresenta un criterio interpretativo per tutte le disposizioni legislative nazionali”:
         i1) secondo la citata Cons. Stato, Ad. plen., 22.10.2019, n. 10, le misure disciplinate dagli artt. 239 ss. d.lgs. n. 152 del 2006, hanno nel loro complesso una finalità di salvaguardia del bene ambiente rispetto ad ogni evento di pericolo o di danno ed è assente ogni matrice di sanzione dell’autore;
         i2) la bonifica costituisce quindi uno strumento pubblicistico teso non a monetizzare la diminuzione del valore, ma a consentirne il recupero materiale;
         i3) ne discende che nella bonifica emerge la funzione di reintegrazione del bene giuridico leso propria della responsabilità civile, che evoca il rimedio della reintegrazione in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c., previsto per il danno all’ambiente dall’art. 18, comma 8, l. n. 349 del 1986;
         i4) tale impostazione è coerente con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza europea, secondo la quale la direttiva 2004/35/CE non osta a una normativa nazionale che identifica, oltre gli utilizzatori dei fondi su cui è stato generato l’inquinamento illecito, anche i proprietari di detti fondi come solidalmente responsabili di un tale danno ambientale, senza la necessità di accertare l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta dei proprietari e il danno constatato, a condizione che tale normativa sia conforme al diritto dell’Unione;
         i5) pertanto, anche la responsabilità della curatela fallimentare, nell’eseguire la bonifica dei terreni di cui acquisisce la detenzione per effetto dell’inventario fallimentare dei beni, può analogamente prescindere dall’accertamento dell’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta e il danno constatato.
   III. – Per completezza si osserva quanto segue:
      j) alla citata News US, n. 110 del 05.10.2020 si rinvia per approfondimenti sulla questione sottesa e sul percorso motivazionale seguito dalla sezione rimettente, nonché: al § d), sugli indirizzi giurisprudenziali che si sono formati sull’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006; al § e), sul rapporto tra obblighi derivanti dall’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 e ruolo della curatela fallimentare; al § f), sul rapporto tra art. 192 e artt. 239 ss. d.lgs. n. 152 del 2006; al § g), sul tema della bonifica dei siti; al § h), sul principio “chi inquina paga”; al § i), sul danno ambientale (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 26.01.2021 n. 3 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAL’Adunanza plenaria pronuncia sulla bonifica del sito inquinato da parte della curatela fallimentare.
---------------
Inquinamento – Inquinamento ambientale – Bonifica – Curatela fallimentare – È obbligato – relativi costi – Ricadono sulla massa fallimentare.
Ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare (1).
---------------
   (1) La questione era stata rimessa da Cons. St., sez. IV, 15.09.2020, n. 5454.
Ha premesso l’Alto consesso che il curatore non può qualificarsi come avente causa del fallito nel trattamento di rifiuti, salve, ovviamente le ipotesi in cui la produzione dei rifiuti sia ascrivibile specificamente all’operato del curatore, non dando vita il Fallimento ad alcun fenomeno successorio sul piano giuridico. Va quindi esclusa una responsabilità del curatore del fallimento, non essendo il curatore né l’autore della condotta di abbandono incontrollato dei rifiuti, né l’avente causa a titolo universale del soggetto inquinatore, posto che la società dichiarata fallita conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio, attribuendosene la facoltà di gestione e di disposizione al medesimo curatore.
Ciò premesso, va ricordato che la questione posta all’esame dell’Adunanza plenaria consiste nello stabilire se, a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192 sopra riportato.
L’Alto Consesso ha affermato che la presenza dei rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione del fallimento dell’impresa, tramite l’inventario dei beni dell’impresa medesima ex artt. 87 e ss. della legge fallimentare, comportino la sua legittimazione passiva all’ordine di rimozione.
Nella predetta situazione, infatti, la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in riferimento ai rifiuti (che sotto il profilo economico a seconda dei casi talvolta si possono considerare ‘beni negativi’), ma in virtù della detenzione del bene immobile inquinato (normalmente un fondo già di proprietà dell’imprenditore) su cui i rifiuti insistono e che, per esigenze di tutela ambientale e di rispetto della normativa nazionale e comunitaria, devono essere smaltiti). Conseguentemente, ad avviso dell’Adunanza, l'unica lettura del d.lgs. n. 152 del 2006 compatibile con il diritto europeo, ispirati entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, è quella che consente all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei curatori che gestiscono i beni immobili su cui i rifiuti prodotti dall'impresa cessata sono collocati e necessitano di smaltimento.
Tale conclusione si fonda innanzitutto sulle disposizioni dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006. Ed invero, al generale divieto di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti si riconnettono gli obblighi di rimozione, di avvio al recupero o smaltimento e di ripristino dello stato dei luoghi in capo al trasgressore e al proprietario, in solido, a condizione che la violazione sia ad almeno uno di essi imputabile secondo gli ordinari titoli di responsabilità, anche per condotta omissiva, colposa nei limiti della esigibilità, o dolosa. Nell’ottica del diritto europeo (che non pone alcuna norma esimente per i curatori), i rifiuti devono comunque essere rimossi, pur quando cessa l’attività, o dallo stesso imprenditore che non sia fallito, o in alternativa da chi amministra il patrimonio fallimentare dopo la dichiarazione del fallimento.
L'art. 3, par. 1, punto 6, della direttiva n. 2008/98/CE definisce, infatti, il detentore, in contrapposizione al produttore, come la persona fisica o giuridica che è in possesso dei rifiuti (rectius: dei beni immobili sui quali i rifiuti insistono). Non sono pertanto in materia rilevanti le nozioni nazionali sulla distinzione tra il possesso e la detenzione: ciò che conta è la disponibilità materiale dei beni, la titolarità di un titolo giuridico che consenta (o imponga) l’amministrazione di un patrimonio nel quale sono compresi i beni immobili inquinati.
Del resto, come ben precisa l’ordinanza di rimessione, neppure rileva un approfondimento della nozione della detenzione, se si ritiene sufficiente la sussistenza di un rapporto gestorio, inteso come ‘amministrazione del patrimonio altrui’, ciò che certamente caratterizza l’attività del curatore fallimentare con riferimento ai beni oggetto della procedura. Per le finalità perseguite dal diritto comunitario, quindi, è sufficiente distinguere il soggetto che ha prodotto i rifiuti dal soggetto che ne abbia materialmente acquisito la detenzione o la disponibilità giuridica, senza necessità di indagare sulla natura del titolo giuridico sottostante.
Peraltro, per la disciplina comunitaria (art. 14, par. 1, della direttiva n. 2008/98/CE), i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti.
Questa regola costituisce un'applicazione del principio "chi inquina paga" (v. il ‘considerando’ n. 1 della citata direttiva n. 2008/98/CE), nel cui ambito solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi siano collocati, può, in definitiva, invocare la cd. ‘esimente interna’ prevista dall'art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006. La curatela fallimentare, che ha la custodia dei beni del fallito, tuttavia, anche quando non prosegue l'attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi dell’esimente di cui all'art. 192, lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall'attività imprenditoriale dell'impresa cessata. Nella qualità di detentore dei rifiuti, sia secondo il diritto interno, ma anche secondo il diritto comunitario (quale gestore dei beni immobili inquinati), il curatore fallimentare è perciò senz’altro obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero.
Il rilievo centrale che, nel diritto comunitario, assume la detenzione dei rifiuti risultanti dall'attività produttiva pregressa, a garanzia del principio "chi inquina paga", è, inoltre, coerente con la sopportazione del peso economico della messa in sicurezza e dello smaltimento da parte dell'attivo fallimentare dell'impresa che li ha prodotti. In altre parole, poiché l’abbandono di rifiuti e, più in generale, l’inquinamento, costituiscono ‘diseconomie esterne’ generate dall’attività di impresa (cd. “esternalità negative di produzione”), appare giustificato e coerente con tale impostazione ritenere che i costi derivanti da tali esternalità di impresa ricadano sulla massa dei creditori dell’imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell’ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento.
Seguendo invece la tesi contraria, i costi della bonifica finirebbero per ricadere sulla collettività incolpevole, in antitesi non solo con il principio comunitario "chi inquina paga", ma anche in contrasto con la realtà economica sottesa alla relazione che intercorre tra il patrimonio dell’imprenditore e la massa fallimentare di cui il curatore ha la responsabilità che, sotto il profilo economico, si pone in continuità con detto patrimonio.
Giova anche rammentare, come ha chiarito l’Adunanza plenaria con la sentenza 23.10.2019, n. 10, che in tema di prevenzione il principio "chi inquina paga" non richiede, nella sua accezione comunitaria, anche la prova dell'elemento soggettivo, né l’intervenuta successione. Al contrario, la direttiva n. 2004/35/CE configura la responsabilità ambientale come responsabilità (non di posizione), ma, comunque, oggettiva; il che rappresenta un criterio interpretativo per tutte le disposizioni legislative nazionali.
L’Adunanza plenaria ha in particolare ritenuto che le misure introdotte con il d.lgs. n. 22 del 1997 (c.d. “decreto Ronchi”), ed ora disciplinate dagli artt. 239 ss. del codice di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, hanno nel loro complesso una finalità di salvaguardia del bene-ambiente rispetto ad ogni evento di pericolo o danno, ed è assente ogni matrice di sanzione dell’autore.
Entro questi termini, la bonifica costituisce uno strumento pubblicistico teso non a monetizzare la diminuzione del relativo valore, ma a consentirne il recupero materiale.
Ne discende che nella bonifica emerge la funzione di reintegrazione del bene giuridico leso propria della responsabilità civile, che evoca il rimedio della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c., previsto per il danno all’ambiente dall’art. 18, comma 8, l. n. 349 del 1986.
Pertanto, la responsabilità della curatela fallimentare -nell’eseguire la bonifica dei terreni di cui acquisisce la detenzione per effetto dell’inventario fallimentare dei beni, ex artt. 87 e ss. della legge fallimentare- può analogamente prescindere dall’accertamento dell’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta e il danno constatato (Consiglio di Stato, A.P., sentenza 26.01.2021 n. 3 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAlla Plenaria gli oneri del curatore fallimentare legati all’abbandono di rifiuti.
La quarta sezione del Consiglio di Stato sottopone alla Adunanza plenaria la questione se anche il curatore dell’impresa in stato di fallimento possa essere annoverato tra i soggetti destinatari dell’ordine di rimozione dei rifiuti eventualmente abbandonati nell’area su cui insiste l’impresa stessa.
---------------
Ambiente – Rifiuti – Divieto abbandono – Recupero e smaltimento – Soggetti obbligati – Curatore fallimentare – Deferimento all’Adunanza plenaria.
Va rimessa alla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione relativa alla possibilità di individuare, tra i soggetti destinatari dell’obbligo di recupero e smaltimento di rifiuti abbandonati, anche il curatore fallimentare dell’impresa nella cui area di pertinenza tali rifiuti siano stati rinvenuti (1).
---------------
   (1) I. – La quarta sezione del Consiglio di Stato sottopone alla Adunanza plenaria la questione della individuazione dei soggetti tenuti alla rimozione di rifiuti abbandonati.
Ci si chiede in particolare se anche il curatore dell’impresa in stato di fallimento, sulla cui area di proprietà siano stati rinvenuti simili rifiuti, possa essere annoverato all’interno di tale platea. La quarta sezione, nel porre il quesito di cui sopra, sposa comunque la tesi secondo cui anche tale figura vi rientrerebbe, e ciò sulla base di una nozione di detenzione dei rifiuti (da intendersi alla stregua di “disponibilità materiale” dei medesimi) che risulta più propriamente riconducibile all’ordinamento europeo.
   II. – La vicenda sottesa alla pronuncia in esame può essere così riassunta:
      a) a seguito di specifico accertamento di ARPA Veneto, il Comune di Vicenza ingiungeva ad uno stabilimento industriale (in stato di fallimento) la rimozione di rifiuti abbandonati nell’area di pertinenza dello stabilimento stesso. Il curatore fallimentare invocava la violazione dell’art. 192 del decreto legislativo n. 152 del 2006 davanti al Tar per il Veneto che, con sentenza della seconda sezione 19.06.2019, n. 744, accoglieva il gravame in quanto il curatore fallimentare non sarebbe da ritenere alla stregua di “detentore” dei rifiuti;
      b) la sentenza di primo grado veniva appellata davanti al Consiglio di Stato il quale, con l’ordinanza in rassegna:
         b1) ha rammentato sul piano normativo che il citato art. 192 del Codice dell’ambiente, al comma 4, prevede in particolare che: “Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni”;
         b2) ha poi evidenziato che, in caso di fallimento dell’azienda sulla cui area di pertinenza siano stati abbandonati rifiuti, è controverso in giurisprudenza se il curatore fallimentare possa essere ritenuto destinatario degli obblighi di rimozione di cui al citato art. 192. Più in particolare:
 secondo una prima tesi, il curatore non potrebbe essere tale in quanto non sarebbe un “subentrante”, non acquistando la titolarità dei beni. Egli sarebbe in altre parole “solo un amministratore con facoltà di disposizione”. Ciò in quanto “nei confronti del fallimento non sarebbe ravvisabile un fenomeno di ‘successione’, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo previsto dall'art. 192 del d.lgs. n. 152/2006”;
 secondo una diversa tesi, il curatore assume comunque la qualifica di “detentore” dei rifiuti stessi. Di qui la possibilità di annoverarlo tra i soggetti tenuti al suddetto obbligo di smaltimento;
      c) con l’ordinanza in rassegna la quarta sezione del Consiglio di Stato propende per la tesi da ultimo evidenziata per le seguenti ragioni:
         c1) in via generale: “La messa in sicurezza di un sito inquinato costituisce … una misura di prevenzione dei danni, espressione del principio di precauzione e del principio dell'azione preventiva, che grava sul proprietario o sul detentore o sul gestore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto l'accertamento del dolo o della colpa (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 1089/2017)”. Pertanto, essa “può essere imposta a prescindere dall’individuazione dell'eventuale responsabile (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 8656/2019 e n. 1509/2016)”;
         c2) ancora in via generale la direttiva 2008/98/CE definisce il detentore, in contrapposizione al produttore, come la persona fisica o giuridica che ha la detenzione materiale dei rifiuti (l’ordinamento europeo non riconosce a tal fine la distinzione tra possesso e detenzione, propria del nostro ordinamento nazionale). Pertanto: “In tale contesto, la detenzione dei rifiuti fa … sorgere automaticamente un'obbligazione avente un duplice contenuto: il divieto di abbandonare i rifiuti e l'obbligo di smaltire gli stessi”;
         c3) quel che rileva non è tanto la responsabilità dell’inquinamento ma, piuttosto, la “detenzione dell’area su cui si trovano i rifiuti”. Di qui “la possibilità di addossare anche al detentore incolpevole (nella specie, al curatore) l’onere di rimozione degli stessi”;
         c4) del resto: “non possano esservi ‘zone franche’ della applicazione indefettibile della normativa di settore, la quale non può essere resa inoperante da contingenti ‘vicende civilistiche’, peraltro pur sempre caratterizzate dalla ‘gestione del patrimonio altrui’”;
         c5) a ciò si aggiunga che, abbracciando la prima tesi (secondo cui il curatore non potrebbe essere destinatario di simili obblighi), “dovrebbe pertanto essere comunque il Comune a sopportare gli oneri della rimozione (attività comunque non rinviabile), con conseguente addebito dei relativi costi all’intera comunità, ciò che costituisce una soluzione contrastante con le regole europee”.
III. – Si segnala per completezza quanto segue:
      d) in merito agli indirizzi che si sono nel tempo formati sull’art. 192 del decreto legislativo n. 152 del 2006 (Codice dell’ambiente) si veda, in particolare:
         d1) sulla competenza ad adottare simili provvedimenti:
 Cons. Stato, sez. V, 08.07.2019, n. 4781 [in Foro amm., 2019, 1245 (m)], secondo cui: “Ai sensi dell'art. 192, 3° comma, d.leg. 03.04.2006, n. 152, rientra nella competenza del sindaco la condanna agli adempimenti previsti per la bonifica del suolo da rifiuti abbandonati, trattandosi di norma speciale sopravvenuto all'art. 107, 5° comma, d.leg. 18.08.2000, n. 267”;
 Cons. Stato, sez. V, 06.09.2017, n. 4230 [in Merito, 2017, fasc. 10, 57 (m); Ambiente, 2017, 659 (m)], secondo cui: “In applicazione del principio di specialità prevalente sul principio ordinario di successione cronologica delle norme, le disposizioni posteriori non comportano l'abrogazione delle precedenti, ove queste ultime disciplinano diversamente la stessa materia in un campo particolare (da ultimo, questo consiglio, sez. VI, sentenza n. 1199 del 23.03.2016); in materia di rimozione di rifiuti la competenza del sindaco, ex art. 14 d.leg. 05.02.1997 n. 22 (decreto Ronchi), ad emanare le ordinanze in materia di rimozione di rifiuti sussiste anche successivamente all'entrata in vigore del d.leg. 18.08.2000 n. 267 (Tuel) che disponeva invece la competenza dei dirigenti, fino all'entrata in vigore dell'art. 192 d.leg. 03.04.2006 n. 152 (codice ambientale), che nel riprodurre testualmente la disposizione richiamata del decreto Ronchi ha ribadito la competenza sindacale; ne consegue che l'ordinanza di ripristino ambientale emanata dopo l'entrata in vigore del Tuel, deve essere emanata dal sindaco e non dal dirigente”;
 Cons. Stato, sez. V, 11.01.2016, n. 57 [in Foro amm., 2016, 49 (m)], secondo cui: “Ai sensi dell'art. 192, 3º comma, d.leg. 03.04.2006 n. 152, spetta al sindaco la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti previste dal 2º comma e tale disposizione sopravvenuta prevale sul disposto dell'art. 107, 5º comma, d.leg. 18.08.2000 n. 267”;
 Cons. Stato, sez. II, 14.11.2012, n. 4806 (in Uff. studi, mass. e formaz. giust. amm., 2012; www.giustizia-amministrativa.it), secondo cui: “Rientra nella competenza del sindaco, e non del dirigente di settore, l'adozione dell'ordinanza comunale con cui si intima di eseguire, ai sensi dell'art. 192 d.leg. 03.04.2006 n. 152, tutte le operazioni necessarie per la rimozione e il corretto smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi e di procedere al ripristino dello stato dei luoghi”;
         d2) sui soggetti tenuti all’obbligo di rimozione:
 Cass. civ., sez. III, 09.07.2020, n. 14612 (in Giust. Civ. Massimario 2020), secondo cui: “In tema di abbandono di rifiuti, sussiste la responsabilità solidale, con l'autore del fatto, del proprietario o dei titolari di diritti personali o reali di godimento sull'area ove sono stati abusivamente lasciati o depositati detti rifiuti, purché la violazione sia agli stessi imputabile a titolo di dolo o colpa. Questo riferimento alla titolarità di diritti personali o reali di godimento va inteso, per le sottese esigenze di tutela ambientale, in senso lato, comprendendo, quindi, qualunque soggetto che si trovi con l'immobile interessato in un rapporto, anche di mero fatto, che gli consenta -e, per ciò stesso, gli imponga- di esercitare, per la salvaguardia dell'ambiente, una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che il terreno possa essere adibito a discarica abusiva di rifiuti nocivi; inoltre, il menzionato requisito della colpa può ben consistere nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce per un'efficace custodia. L'accertamento di tali presupposti (esercizio in fatto dei poteri sul terreno e colposità della condotta) è rimesso al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di appello che aveva accertato la responsabilità di un comproprietario formale del terreno, mero coerede di questo, per avere omesso la vigilanza ed il grado di custodia minimi necessari ad evitare che il sito divenisse una discarica abusiva, nonostante egli non avesse alcun rapporto diretto con il bene)”;
 Cons. Stato, sez. V, 25.02.2016, n. 765 (in Foro it., 2017, III, 513), secondo cui è legittima l’ordinanza comunale contenente l’obbligo di rimozione dei rifiuti e di bonifica rivolto al proprietario del terreno nella sua qualità di erede del responsabile dell’inquinamento in quanto l’obbligo ripristinatorio, avendo natura patrimoniale, è trasmissibile agli eredi;
 Cons. Stato, sez. V, 17.07.2014, n. 3786 [in Dir. e giur. agr. e ambiente, 2014, 1004 (m)], secondo cui: “In tema di abbandono incontrollato di rifiuti, ai sensi dell'art. 192, 3º comma, d.leg. 03.04.2006 n. 152, il potere-dovere di ordinare la rimozione di rifiuti abbandonati ed il ripristino dello stato dei luoghi va esercitato senza indugi non solo nei confronti di chi abbandona sine titulo i rifiuti, il quale realizza la propria condotta col dolo e con l'animus delinquendi, ma anche del proprietario o del titolare di altro diritto reale cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa; in ipotesi però di abbandono di rifiuti avente il carattere della repentinità e della irresistibilità, il proprietario che avvisa la pubblica autorità dell'accaduto ponendo in essere le misure esigibili per evitare il ripetersi dell'accaduto, non può essere considerato responsabile, per il suo solo titolo di proprietario”;
 Cons. Stato, sez. II, 05.12.2011, n. 2990 [in Foro amm.-Cons. Stato, 2011, 3829 (m)], secondo cui: “Se è vero che l'art. 14 d.leg. 05.02.1997 n. 22 (oggi sostituito dal d.leg. n. 152 del 2006 art. 192, 3º comma) prevede la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull'area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o copia, va tuttavia precisato che, per un verso, le esigenze di tutela ambientale sottese alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche demaniale o di mero fatto, tale da consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di protezione custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente, e, per altro verso, il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell'omissione degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un'efficace custodia e protezione dell'area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi”;
 Cass. civ., sez. III, 22.03.2011, n. 6525 (in Resp. civ. e prev., 2011, 10, 2064, con nota di LUCIANI), secondo cui: “Il proprietario di un'area interessata dalla presenza di rifiuti, acquisita consapevolezza del fatto, deve attivarsi immediatamente per la loro rimozione anche agendo in giudizio nei confronti del locatario. Viceversa, l'accordo stipulato con il locatario per eliminare i rifiuti entro un certo termine, anche se breve, fa sorgere in capo al proprietario una corresponsabilità insieme all'autore materiale dell'illecito ai sensi dell'art. 14 d.lgs. n. 22 del 1997”;
 Cass. civ., sez. un., 25.02.2009, n. 4472 (in Ragiusan, 2009, 305-306, 148; Riv. giur. ambiente, 2009, 6, 976, con nota di TADDIA), secondo cui: “In tema di abbandono di rifiuti, sebbene l'art. 14, 3º comma, d.leg. 05.02.1997 n. 22 (applicabile ratione temporis) preveda la corresponsabilità solidale del proprietario o dei titolari di diritti personali o reali di godimento sull'area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, solo in quanto la violazione sia agli stessi imputabile a titolo di dolo o colpa, tale riferimento va inteso, per le sottese esigenze di tutela ambientale, in senso lato, comprendendo, quindi, qualunque soggetto che si trovi con l'area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli -e per ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l'area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell'ambiente; per altro verso, il requisito della colpa postulato da tale norma può ben consistere nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un'efficace custodia (fattispecie relativa ad ordinanza nei confronti di un consorzio di bonifica per provvedere alla rimozione, all'avvio al recupero, allo smaltimento ed alla messa in sicurezza dei rifiuti depositati lungo un fiume)”;
 Cons. Stato, sez. V, 04.03.2008, n. 807 (in Giur. it., 2008, 1791), secondo cui: “È illegittimo il provvedimento con cui un comune, in applicazione estensiva dell'art. 192 d.leg. 03.04.2006 n. 152, ha ordinato la rimozione di rifiuti abbandonati in un'area privata, anche nei confronti di coloro -non autori dell'abbandono, non proprietari e non titolari di diritti reali o personali di godimento dell'area- che con comportamento asseritamente omissivo, di controllo o di denuncia all'autorità, hanno concorso al permanere della presenza di rifiuti, per il solo fatto di essere a conoscenza dell'abbandono stesso”;
         d3) su partecipazione al procedimento e contraddittorio: Cons. Stato, sez. IV, 01.04.2016, n. 1301 [in Riv. giur. ambiente, 2016, 298 (m), con nota di MASCHIETTO], secondo cui: “L'art. 192, d.leg. 03.04.2006 n. 152, esige che il sindaco dia formale comunicazione di avvio del procedimento al soggetto destinatario di un'ordinanza di rimozione rifiuti (e bonifica) e consenta l'instaurazione del contraddittorio sugli accertamenti effettuati dai soggetti preposti al controllo: l'ordinanza emessa in difetto delle predette garanzie procedimentali è illegittima”.
Ed ancora che: “La dizione letterale del 2º comma dell'art. 192, d.leg. 03.04.2006 n. 152, che richiede in maniera esplicita l'instaurazione del contraddittorio prima dell'emissione dell'ordinanza sindacale di rimozione rifiuti, esclude l'applicabilità dell'art. 21-octies della legge generale sul procedimento amministrativo in materia di vizi formali del provvedimento”;
         d4) sulla natura della responsabilità, sulla sua sussistenza e sulla relativa dimostrazione:
 Cons. Stato, sez. V, 08.07.2019, n. 4781 [in Foro amm., 2019, 1245 (m)], secondo cui: “La condanna del proprietario del suolo agli adempimenti di cui all'art. 192, 3° comma, d.leg. 03.04.2006, n. 152 per abbandono di rifiuti necessita di un serio accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei limiti della esigibilità qualora la condotta sia imputata a colpa, pena la configurazione di una responsabilità da posizione in chiaro contrasto con l'indicazione legislativa; la responsabilità solidale del proprietario può essere imputabile a colpa omissiva, consistente nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un'efficace custodia e protezione dell'area, e segnatamente per impedire che su di essa possano essere depositati rifiuti”;
 Cons. Stato, sez. II, 13.06.2019, n. 3967 [in Merito, 2019, fasc. 10, 61 (m)], secondo cui: “La disciplina contenuta nell'art. 192 d.leg. 152 del 2006 è improntata ad una rigorosa tipicità dell'illecito ambientale, non residuando al riguardo alcuno spazio per una responsabilità oggettiva, posto che per essere ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturito l'abbandono illecito di rifiuti occorre quantomeno la colpa, e che tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione -per l'appunto- ad un'eventuale responsabilità solidale del proprietario dell'area”;
 Cons. Stato, sez. V, 28.09.2015, n. 4504 [in Ambiente, 2015, 659 (m)], secondo cui: “L'obbligo di diligenza cui fa riferimento l'art. 192 Tua deve essere valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato; pertanto non può esigersi dal detentore di un terreno oggetto di abbandono di rifiuti che rafforzi la recinzione dell'area o che istituisca un servizio di guardiania ventiquattro ore su ventiquattro per evitare accessi abusivi, o ancora che rimuova i rifiuti abbandonati da terzi, perché ciò implicherebbe una responsabilità oggettiva che esula dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 c.c.”;
 Cons. Stato, sez. V, 17.07.2014, n. 3786 [in Dir. e giur. agr. e ambiente, 2014, 1004 (m)], secondo cui: “In tema di abbandono incontrollato di rifiuti, l'art. 192 d.leg. 03.04.2006 n. 152, attribuisce rilievo alla negligenza del proprietario che si disinteressi del proprio bene per una qualsiasi ragione e resti inerte, senza raffrontare concretamente la situazione, ovvero la raffronti con misure palesemente inadeguate; perciò, qualora vi sia la concreta esposizione al pericolo che su un bene si realizzi una discarica abusiva di rifiuti anche per fatti illeciti di soggetti ignoti, va attribuita rilevanza esimente alla diligenza del proprietario che abbia fatto quanto risulti concretamente esigibile e impone invece all'amministrazione di disporre le misure previste nei confronti del proprietario che per trascuratezza, superficialità o anche indifferenza o proprie difficoltà economiche, nulla abbia fatto e non abbia adottato alcuna cautela volta ad evitare che vi sia in concreto l'abbandono dei rifiuti”;
 Cons. Stato, sez. II, 14.11.2012, n. 4806 (in Uff. studi, mass. e formaz. giust. amm., 2012; www.giustizia-amministrativa.it), secondo cui: “Non è viziata da difetto di motivazione e da carenza di istruttoria, né da violazione della legge sul procedimento amministrativo, l'ordinanza sindacale adottata, ai sensi dell'art. 192, 3º comma, d.leg. 03.04.2006 n. 152, allorquando il destinatario non dimostri la propria estraneità al fatto illecito compiuto, del quale, invece, viene dato dettagliatamente conto nell'ordinanza; la quale, oltre a descrivere compiutamente l'intero iter procedimentale seguito a termini di legge, reca evidenza del fatto che dalle memorie presentate dalla parte ricorrente non risultavano elementi sufficienti a dimostrare l'estraneità della stessa rispetto alla possibilità di aver depositato rifiuti nell'area interessata”;
 Cons. Stato, sez. II, 14.07.2010, n. 2518 [in Ragiusan, 2011, fasc. 325, 158 (m)], secondo cui: “L'art. 192 d.leg. 03.04.2006 n. 152, dispone che per il concretarsi della responsabilità solidale dei proprietari dell'area in cui sono stati rinvenuti rifiuti abbandonati, è necessario che l'abbandono di rifiuti sia loro coimputabile almeno a titolo di colpa; anche convenendo che la colpa possa configurarsi nell'ipotesi in cui il proprietario abbia omesso di adottare cautele idonee ad evitare o ad ostacolare l'indebito abbandono, non può essere addebitato ai ricorrenti il mancato allestimento di «mezzi preclusivi dell'accesso», perché, per principio generale, la chiusura del fondo costituisce una facoltà del proprietario (art. 841 c.c.), il cui mancato esercizio non può integrare una colpa”;
 Cons. Stato, sez. V, 25.06.2010, n. 4073 [in Foro amm. Cons. Stato, 2010, 1290 (m)], secondo cui: “Ai sensi dell'art. 192 d.leg. 03.04.2006 n. 152 l'obbligo di procedere alla rimozione dei rifiuti può gravare, in solido con il responsabile, anche a carico del proprietario del sito e del titolare di diritti reali o personali di godimento relativi ad esso, ma solo se tale violazione sia anche a loro imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai preposti al controllo”;
 Cons. Stato, sez. V, 19.03.2009, n. 1612 [in Urbanistica e appalti, 2009, 995, con nota di CERBO; Foro amm.-Cons. Stato, 2009, 1517, con nota di MORZENTI PELLEGRINI; Resp. civ. e prev., 2009, 2124, con nota di BAIONA; Dir. e pratica amm., 2009, fasc. 6, 72 (m), con nota di COSMAI; Dir. e giur. agr. e ambiente, 2010, 66 (m); Ragiusan, 2009, fasc. 305, 156; Giust. amm., 2009, fasc. 3, 17 (m), con nota di ASTUTO], secondo cui: “In base all'art. 192 d.leg. n. 152/2006 ed in precedenza dell'art. 14 d.leg. n. 22/1997 l'ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al proprietario solo quando questi abbia concorso, con la propria condotta quantomeno colposa, a violare l'obbligo di abbandono o di deposito incontrollato di rifiuto sul suolo e nel suolo: infatti, il legislatore non ha configurato la responsabilità del proprietario come oggettiva -alla stregua di un'obbligazione propter rem- ma come una responsabilità soggettiva, nella quale la colpa o il dolo integrano un elemento costitutivo della fattispecie; in particolare, non è ravvisabile la colpa del proprietario in ragione della mancata recinzione del fondo: infatti, ai sensi dell'art. 841 c.c. la chiusura del fondo costituisce una facoltà e non mai un obbligo del proprietario”;
      e) sul tema specifico del curatore fallimentare si veda, poi:
         e1) Cons. Stato, sez. IV, 25.07.2017, n. 3672 (in Fallimento, 2018, 586, con nota di D'ORAZIO; Riv. giur. ambiente, 2017, 726 (m), con nota di VANETTI, FISCHETTI), secondo cui: “La curatela fallimentare, che assume la custodia dei beni del fallito, anche quando non prosegue l'attività imprenditoriale, non può avvantaggiarsi dell'esimente interna di cui al 3° comma dell'art. 192, d.leg. n. 152/2006 (codice dell'ambiente), lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall'attività imprenditoriale dell'impresa cessata; nella qualità di detentore dei rifiuti la curatela fallimentare è obbligata a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero”;
         e2) Cons. Stato, sez. V, 30.06.2014, n. 3274 (in Fallimento, 2015, 488), secondo cui: “Il curatore non è rappresentante, né successore dell'imprenditore sottoposto alla procedura fallimentare e, pertanto, anche in caso di prosecuzione di rapporti preesistenti, non subentra negli obblighi strettamente correlati alla responsabilità del fallito, compresi quelli conseguenti alla commissione di illeciti ambientali”.
Più in particolare: “L'onere di custodia e il potere di disposizione dei beni fallimentari non comportano necessariamente per il curatore il dovere di adottare particolari compiti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti”.
Pertanto: “È illegittima l'ordinanza sindacale che ingiunge la rimozione, il recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi al curatore di una società fallita, quale avente causa nel contratto di locazione della stessa e soggetto avente la disponibilità dell'immobile, nonostante non fosse stato autorizzato alla prosecuzione dell'attività della società fallita”;
      f) la distinzione tra fattispecie di cui all’art. 192 e fattispecie di cui all’art. 239 ss. del medesimo Codice sta in questo: la prima riguarda la “rimozione dei rifiuti”; la seconda la “bonifica dei siti”. Le due figure possono avere un punto di contatto secondo la seguente scansione cronologica: qualora, a seguito della rimozione dei rifiuti (art. 192), si accerti il superamento di determinate soglie di attenzione sull’area oggetto della rimozione stessa, si dovrà allora procedere alla caratterizzazione ed agli eventuali interventi di bonifica del sito interessato (cfr. art. 239, comma 2, del decreto legislativo n. 152 del 2006);
      g) sul tema della bonifica dei siti si veda, in particolare:
         g1) Cons. Stato, Ad. plen., 22.10.2019, n. 10 (in Foro it., 2019, III, 637 nonché oggetto della News US n. 117 del 29.10.2019 ed alla quale si rinvia per ogni approfondimento in dottrina e in giurisprudenza), secondo cui: “La bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento”.
La Adunanza plenaria ha in particolare ritenuto che le misure introdotte con il decreto legislativo n. 22 del 1997 (c.d. “decreto Ronchi”), ed ora disciplinate dagli artt. 239 ss. del codice di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, hanno nel loro complesso una finalità di salvaguardia del bene ambiente rispetto ad ogni evento di pericolo o danno, nelle quali è assente ogni matrice di sanzione rispetto al relativo autore. Entro questi termini, la bonifica costituisce uno strumento pubblicistico teso non a monetizzare la diminuzione del relativo valore ma a consentire il recupero materiale a cura e spese del responsabile della contaminazione.
Ne discende che nella bonifica emerge la funzione di reintegrazione del bene giuridico leso propria della responsabilità civile, che evoca il rimedio della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c., previsto per il danno all’ambiente dall’art. 18, ottavo comma, della legge n. 349 del 1986.
Quanto alla successione dell’incorporante negli obblighi dell’impresa incorporata, essa costituisce espressione del principio espresso dal brocardo cuius commoda eius et incommoda, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone sul piano economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale. Del resto, il superamento della concezione tradizionale si coglie nel riferimento testuale dell’art. 2504-bis c.c. (post riforma) dove si precisa che, oltre ad assumere i diritti e gli obblighi delle incorporate, la società incorporante prosegue in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione;
         g2) Cass. civ., sez. III, ord. 22.01.2019, n. 1573 (in Foro it., 2020, I, 705), secondo cui: “In tema di bonifica spontanea di sito inquinato, il proprietario ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell'inquinamento per le spese sostenute, a condizione che sia stata rispettata la procedura amministrativa prevista dalla legge ed indipendentemente dall'identificazione del responsabile dell'inquinamento da parte della competente autorità amministrativa, senza che, in presenza di altri responsabili, trovi applicazione il principio della solidarietà”.
Ed ancora che: “In tema di bonifica spontanea di sito inquinato, il proprietario ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell'inquinamento per le spese sostenute, a condizione che sia stata rispettata la procedura amministrativa prevista dalla legge ed indipendentemente dalla identificazione del responsabile dell'inquinamento da parte della competente autorità amministrativa, atteso che, una volta instaurata la causa, tale accertamento ricade nel giudizio di fatto del giudice; non trova, peraltro, applicazione la regola della responsabilità solidale di cui all'art. 2055 c.c., poiché trattasi di obbligazione ex lege di contenuto indennitario, e non risarcitorio derivante dal fatto obbiettivo dell'inquinamento (in applicazione del principio di cui innanzi, la suprema corte ha confermato la sentenza impugnata che, escludendo l'applicabilità dell'art. 2055 c.c., aveva determinato l'apporto causale della società convenuta per l'inquinamento del terreno nella misura dei due terzi)”;
         g3) Cons. Stato, sez. V, 08.03.2017, n. 1089 [in Foro amm., 2017, 570 (m)], secondo cui: “Ai sensi degli art. 242, 1º comma e 244, 2º comma, d.leg. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla p.a. solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè quelli che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito inquinato; d'altra parte se è vero, per un verso, che l'amministrazione non può imporre, ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento, secondo il principio cui si ispira anche la normativa comunitaria -la quale impone al soggetto, che fa correre un rischio di inquinamento, di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione- per altro verso la messa in sicurezza del sito costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra, pertanto, nel genus delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al principio dell'azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto l'accertamento del dolo o della colpa”;
         g4) Cons. Stato, sez. V, 14.04.2016, n. 1509 [in Foro amm., 2016, 812 (m)], secondo cui: “Ai sensi degli art. 242, 1º comma, e 244, 2º comma, d.leg. 03.04.2006 n. 152, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla p.a. solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità; ciò impone un rigoroso accertamento al fine di individuare il responsabile dell'inquinamento, nonché del nesso di causalità che lega il comportamento del responsabile all'effetto consistente nella contaminazione, accertamento che presuppone un'adeguata istruttoria, non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell'immobile in ragione di tale sola qualità, è stato d'altra parte puntualizzato che, se è vero, per un verso, che l'amministrazione non può imporre, ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento -secondo il principio cui si ispira anche la normativa comunitaria, la quale impone al soggetto che fa correre un rischio di inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione- per altro verso la messa in sicurezza del sito costituisce una misura di correzione dei danni e rientra pertanto nel genus delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al principio dell'azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto l'individuazione dell'eventuale responsabile”;
      h) sul principio “chi inquina paga” si veda, in particolare:
         h1) Cons. Stato, sez. IV, 25.07.2017, n. 3672 (in Fallimento, 2018, 586, con nota di D'ORAZIO), secondo cui: “In base al diritto comunitario (art. 14 par. 1, dir. 2008/98/Ce), i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o dai detentori precedenti dei rifiuti, e questa regola costituisce un'applicazione del principio «chi inquina paga»; in definitiva, la detenzione dei rifiuti fa sorgere automaticamente un'obbligazione «comunitaria» avente un duplice contenuto: (a) il divieto di abbandonare i rifiuti; (b) l'obbligo di smaltire gli stessi; aggiungasi che, se per effetto di categorie giuridiche interne, questa obbligazione non fosse eseguibile, l'effetto utile delle norme comunitarie sarebbe vanificato; solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi siano collocati, può invocare l'esimente interna dell'art. 192, 3° comma, d.leg. 03.04.2006, n. 152”;
         h2) Corte di giustizia UE, sez. II, 13.07.2017, C-129/16, Ungheria c. Commissione europea [in Foro it., 2017, IV, 496; www.curia.europa.eu, 2017; Urbanistica e appalti, 2017, 815, con nota di CARRERA; Riv. giur. edilizia, 2017, I, 805; Riv. giur. ambiente, 2017, 489 (m), con nota di MASCHIETTO; Riv. giur. edilizia, 2017, I, 1235 (m), con nota di PAGLIAROLI, nonché oggetto della News US 20.07.2017 ed alla quale si rinvia per ogni approfondimento in dottrina e in giurisprudenza], secondo cui: “Le disposizioni della direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, lette alla luce degli articoli 191 e 193 TFUE devono essere interpretate nel senso che, sempre che la controversia di cui al procedimento principale rientri nel campo di applicazione della direttiva 2004/35, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, esse non ostano a una normativa nazionale che identifica, oltre agli utilizzatori dei fondi su cui è stato generato l’inquinamento illecito, un’altra categoria di persone solidamente responsabili di un tale danno ambientale, ossia i proprietari di detti fondi, senza che occorra accertare l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta dei proprietari e il danno constatato, a condizione che tale normativa sia conforme ai principi generali di diritto dell’Unione, nonché ad ogni disposizione pertinente dei Trattati UE e FUE e degli atti di diritto derivato dell’Unione”.
Ed ancora che: “L’articolo 16 della direttiva 2004/35 e l’articolo 193 TFUE devono essere interpretati nel senso che, sempre che la controversia di cui al procedimento principale rientri nel campo di applicazione della direttiva 2004/35, essi non ostano a una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, ai sensi della quale non solo i proprietari di fondi sui quali è stato generato un inquinamento illecito rispondono in solido, con gli utilizzatori di tali fondi, di tale danno ambientale, ma nei loro confronti può anche essere inflitta un’ammenda dall’autorità nazionale competente, purché una normativa siffatta sia idonea a contribuire alla realizzazione dell’obiettivo di protezione rafforzata e le modalità di determinazione dell’ammenda non eccedano la misura necessaria per raggiungere tale obiettivo, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare”;
         h3) Corte di giustizia UE, sez. III, 04.03.2015, C-534/13, Ministero ambiente (in Foro it., 2015, IV, 293; Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario 2015, 3-4, 946, con nota di ANTONIOLI; Urbanistica e appalti, 2015, 635, con nota di CARRERA), secondo cui: “La direttiva 2004/35/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi” (il rinvio pregiudiziale era stato disposto da Cons. Stato, ad. plen., 13.11.2013, n. 25, in Uff. studi, mass. e formaz. giust. amm., 2013; 25.09.2013, n. 21 in Giornale dir. amm., 2014, 365 (m), n. SABATO);
         h4) Cons. Stato, sez. V, 25.02.2015, n. 933 e 27.12.2013, n. 6250; da ultimo, sez. V, 08.03.2017, n. 1089, secondo cui: “Ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè quelli che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito inquinato; d'altra parte se è vero, per un verso, che l'Amministrazione non può imporre, ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento, secondo il principio cui si ispira anche la normativa comunitaria -la quale impone al soggetto, che fa correre un rischio di inquinamento, di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione- per altro verso la messa in sicurezza del sito costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra, pertanto, nel genus delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al principio dell'azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto l'accertamento del dolo o della colpa”;
      i) sul danno ambientale si veda, infine:
         i1) Cass. civ., sez. I, 20.07.2016, n. 14935 (in Foro it., 2017, I, 1406, con nota di PALMIERI; Danno e resp., 2017, 203, con nota di TINTINELLI), secondo cui: “La liquidazione del danno ambientale per equivalente è ormai esclusa alla data di entrata in vigore della l. n. 97 del 2013, ma il giudice può ancora conoscere della domanda pendente alla data di entrata in vigore della menzionata legge in applicazione del nuovo testo dell'art. 311 d.leg. n. 152 del 2006 (come modificato prima dall'art. 5-bis, 1º comma, lett. b), d.l. n. 135 del 2009 e poi dall'art. 25 l. n. 97 del 2013), individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo, da rendere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati”.
Osserva in dottrina PALMIERI che: “All’avvio della procedura di amministrazione straordinaria, come pure nel momento della richiesta di insinuazione al passivo, il testo che regola il risarcimento del danno ambientale, ossia dell’art. 311 d.leg. 152/2006, era quello risultante dalle modifiche apportate —nel tentativo di superare le obiezioni mosse dalla commissione europea nei confronti della versione originaria— dall’art. 5-bis d.l. 135/2009, convertito, con modificazioni, dalla l. 166/2009. Mentre erano rimaste inalterati l’intitolazione (azione risarcitoria in forma specifica e per equivalente patrimoniale) e il 1° comma dell’art. 311 (che menzionava entrambe le forme di risarcimento del danno ambientale, anteponendo quello in forma specifica e ipotizzando di procedere con il ristoro per equivalente pecuniario in caso di necessità), si interveniva sulla parte finale del 2° comma, dove l’alternativa secca tra ripristino della precedente situazione e (ove questo difettasse) risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato veniva rimpiazzata da un meccanismo più complesso. Si partiva, cioè, dall’addossare al responsabile l’obbligo di ripristinare a proprie spese lo status quo ante, per poi dichiararlo tenuto a adottare le misure di riparazione complementare e compensativa di cui alla direttiva 2004/35/Ce; infine, soltanto quando gli anzidetti rimedi risultassero «in tutto o in parte omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ai sensi dell’art. 2058 c.c. o comunque attuati in modo incompleto o difforme rispetto a quelli prescritti», il danneggiante sarebbe stato «obbligato in via sostitutiva al risarcimento per equivalente patrimoniale»”.
Ed ancora che: “La perdurante insoddisfazione della commissione europea faceva sì che, in pendenza dell’esame della ricordata domanda di ammissione al passivo, l’art. 311 subisse un’ulteriore trasformazione, in virtù dell’art. 25 l. 97/2013. Nella rubrica veniva cancellato ogni riferimento al risarcimento per equivalente patrimoniale; a sua volta, il 2° comma era totalmente riscritto, conferendo rilievo primario alle misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e, quindi, attribuendo al ministero dell’ambiente, in caso di fallimento delle stesse, il compito di determinare «i costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione» e di agire «nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti»”.
Infine che: “Sul versante del diritto dell’Unione, i giudici di Lussemburgo hanno escluso distonie tra la direttiva 2004/35/Ce e le disposizioni italiane secondo le quali, ove sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito od ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, l’autorità competente non può imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi: cfr. Corte giust. 04.03.2015, causa C-534/13, Fipa Group, in Foro it., 2015, IV, 293 (annotata da E. MASCHIETTO, La Corte di giustizia dell’Unione europea conferma la compatibilità della disciplina italiana sul «proprietario incolpevole» dell’inquinamento con i principî comunitari in materia ambientale, in Riv. giur. ambiente, 2015, 33”;
         i2) in dottrina si veda ancora, sulla tematica del danno e del rispristino ambientale alla luce dei principi europei: LEONARDI, La responsabilità in tema di bonifica dei siti inquinati: dal criterio soggettivo del “chi inquina paga” al criterio oggettivo del “chi è proprietario paga”? (in Foro amm., 2015, 1); GRASSI, Bonifica ambientale di siti contaminati (in Diritto dell'ambiente, a cura di G. Rossi, Torino, 2015, 424 ss.); R. INVERNIZZI, Inquinamenti risalenti, ordini di bonifica e principio di legalità CEDU: tutto per l'“ambiente” (in Urbanistica e appalti, 2014, 8-9); AMOROSO, Nuovi rilievi sull'attività volta all'accertamento della responsabilità dell'inquinamento del sito (in Riv. giur. amb., 2006, 6); DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell'amministrazione del rischio, Milano, 2005; GOISIS, La natura dell'ordine di bonifica e ripristino ambientale ex art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997: la sua retroattività e la posizione del proprietario non responsabile della contaminazione (in Foro amm.-C.d.S., 2004, n. 2); R. LOMBARDI, Il problema dell'individuazione dei soggetti coinvolti nell'attività di bonifica dei siti contaminati [in P.M. VIPIANA PERPETUA (a cura di), La bonifica dei siti inquinati: aspetti problematici, Padova, 2002, 111 ss.] (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 15.09.2020 n. 5454 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl Consiglio di Stato rimette all’Adunanza plenaria la questione dell’applicabilità, o meno, nei confronti del curatore fallimentare degli obblighi di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006.
L’art. 192 del d.lgs. 152/2016 esplicita il principio comunitario del “chi inquina paga” contenuto nella direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, e stabilisce che -in tema di abbandono di rifiuti– risponda ‘chiunque’ abbia effettuato l’abbandono, il ‘deposito incontrollato’ o ‘l’immissione dei rifiuti’, in solido con il proprietario del suolo (e con i titolari dei diritti reali di godimento), rispetto al quale deve esservi un adeguato accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché basato su presunzioni, e secondo criteri di ragionevole esigibilità, coerenti con il principio colpevolistico, per il quale rilevano non solo le condotte attive dolose, ma anche quelle omissive colpose, caratterizzate dalla negligenza.
Quanto all’individuazione dei soggetti imputabili della responsabilità del recupero o dello smaltimento dei rifiuti e del ripristino dello stato dei luoghi, è stato anche sottolineato che la relativa ordinanza non ha finalità sanzionatoria o ripristinatoria e pertanto può essere imposta a prescindere dall’individuazione dell'eventuale responsabile (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 8656/2019 e n. 1509/2016).
In sostanza, l’ordine di rimozione dei rifiuti può essere adottato anche nei confronti del proprietario o del detentore incolpevole.
In questo quadro, risulta tuttavia controverso se anche il curatore fallimentare, nel caso in cui la società proprietaria dell’area sia stata dichiarata fallita, possa essere destinatario degli obblighi di cui al citato art. 192.
Una prima tesi evidenzia che il curatore fallimentare, con riferimento ai beni del soggetto fallito, non può essere destinatario del provvedimento che impone la rimozione dei rifiuti, in quanto il curatore non può essere considerato alla stregua di un soggetto "subentrato nei diritti" della società fallita, anche perché la società dichiarata fallita conserverebbe la propria soggettività giuridica e rimarrebbe titolare del proprio patrimonio.
Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo subentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l'art. 72 r.d. n. 267/1942), in via generale non sarebbe rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge (cfr. Cass. civ., sez. I, n. 3926/1980).
Ritiene, tuttavia, la Sezione che vada preferita l’opposta opzione interpretativa, secondo cui la presenza dei rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione del fallimento dell’impresa, comporta la sua possibile legittimazione passiva all’ordine di rimozione.
In sostanza, nella predetta situazione la responsabilità alla rimozione non potrebbe di certo essere riferita all’impresa, in quanto non più in attività.
Conseguentemente, l'unica interpretazione compatibile con il sistema delineato dal decreto legislativo n. 152 del 2006 e con il diritto europeo, ispirati entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, sarebbe quella che consenta all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei detentori o dei gestori –‘comunque denominati’- dei rifiuti prodotti dall'impresa cessata.
L'elemento decisivo è il carattere materiale della detenzione dei rifiuti.
In tale contesto, la detenzione dei rifiuti fa quindi sorgere automaticamente un'obbligazione avente un duplice contenuto: il divieto di abbandonare i rifiuti e l'obbligo di smaltire gli stessi.
Solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi siano collocati, può, in definitiva, invocare la cd ‘esimente interna’ prevista dall'art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006.
Nel quadro sopra delineato, la curatela fallimentare, che ha la custodia dei beni del fallito, anche quando non prosegue l'attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi dell’esimente di cui all'art. 192, lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall'attività imprenditoriale dell'impresa cessata. Nella qualità di detentore dei rifiuti secondo il diritto comunitario, il curatore fallimentare sarebbe perciò obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero.
Ciò premesso, stante l’esposto contrasto giurisprudenziale ed in considerazione, ad ogni buon conto, della particolare rilevanza (attuale e prospettica) della questione, il Collegio ha ritenuto opportuno, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., deferire l’affare all’Adunanza plenaria (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 15.09.2020 n. 5454 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
ORDINANZA
... per la riforma della sentenza 19.06.2019 n. 744 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, sede di Venezia, resa tra le parti, concernente un’ordinanza di smaltimento dei rifiuti.
...
9. Il Collegio, preliminarmente, rileva che il tema centrale della controversia è costituito dall’applicabilità o meno nei confronti del curatore fallimentare degli obblighi di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006.
9.1. In particolare, l’art. 192 dispone: “1. L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati.
2. È altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee.
3. Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate.
4. Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni
”.
9.2. Tali disposizioni, che esplicitano il principio comunitario del “chi inquina paga” contenuto nella direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, stabiliscono che -in tema di abbandono di rifiuti– risponda ‘chiunque’ abbia effettuato l’abbandono, il ‘deposito incontrollato’ o ‘l’immissione dei rifiuti’, in solido con il proprietario del suolo (e con i titolari dei diritti reali di godimento), rispetto al quale deve esservi un adeguato accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché basato su presunzioni, e secondo criteri di ragionevole esigibilità, coerenti con il principio colpevolistico, per il quale rilevano non solo le condotte attive dolose, ma anche quelle omissive colpose, caratterizzate dalla negligenza (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 4781/2019 e n. 4504/2015).
9.3. Tuttavia, quanto all’individuazione dei soggetti imputabili della responsabilità del recupero o dello smaltimento dei rifiuti e del ripristino dello stato dei luoghi, è stato anche sottolineato che –pur se l'Amministrazione non può imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull'origine del fenomeno di inquinamento contestato lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento, costituendo la messa in sicurezza del sito una misura di correzione dei danni che rientra nel genus delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al principio dell'azione preventiva che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente– la relativa ordinanza non ha finalità sanzionatoria o ripristinatoria e pertanto può essere imposta a prescindere dall’individuazione dell'eventuale responsabile (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 8656/2019 e n. 1509/2016).
In sostanza, l’ordine di rimozione dei rifiuti può essere adottato anche nei confronti del proprietario o del detentore incolpevole.
10. In questo quadro, risulta tuttavia controverso se anche il curatore fallimentare, nel caso in cui la società proprietaria dell’area sia stata dichiarata fallita, possa essere destinatario degli obblighi di cui al citato art. 192.
10. Una prima tesi evidenzia che il curatore fallimentare, con riferimento ai beni del soggetto fallito, non può essere destinatario del provvedimento che impone la rimozione dei rifiuti.
Affinché il curatore possa essere considerato onerato sarebbe infatti necessario che l'Amministrazione riscontri la sussistenza di una responsabilità univoca e autonoma del suddetto organo fallimentare nell'illecito abbandono.
10.1. Questa interpretazione muove dalla circostanza che il curatore non può essere considerato alla stregua di un soggetto "subentrato nei diritti" della società fallita (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 3274/2014).
Il fallimento non potrebbe essere reputato un "subentrante", ossia un successore, dell'impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La società dichiarata fallita conserverebbe la propria soggettività giuridica e rimarrebbe titolare del proprio patrimonio (ne perderebbe solo la facoltà di disposizione, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento – cfr. art. 42 RD n. 267/1942: "La sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento"; art. 44: "Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori").
Correlativamente, il curatore del fallimento –che non acquista la titolarità dei beni- ne sarebbe solo un amministratore con facoltà di disposizione, conseguente alla legittimazione straordinaria e al munus publicum rivestito dagli organi della procedura (cfr. art. 31 RD n. 267/1942: "Il curatore ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell'ambito delle funzioni ad esso attribuite").
Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo subentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l'art. 72 RD n. 267/1942), in via generale non sarebbe rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge (cfr. Cass. civile, sez. I, n. 3926/1980).
10.2. In definitiva, nei confronti del fallimento non sarebbe ravvisabile un fenomeno di ‘successione’, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo previsto dall'art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 rispetto agli obblighi di ripristino che l'articolo stesso pone ‘in prima battuta’ a carico del responsabile e del proprietario versante in dolo o colpa.
11. Secondo una diversa interpretazione, invece, la presenza dei rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione del fallimento dell’impresa, comporta la sua possibile legittimazione passiva all’ordine di rimozione.
12. Ritiene il Collegio che risulta di per sé condivisibile tale seconda impostazione.
12.1. In sostanza, nella predetta situazione la responsabilità alla rimozione non potrebbe di certo essere riferita all’impresa, in quanto non più in attività.
Conseguentemente, l'unica interpretazione compatibile con il sistema delineato dal decreto legislativo n. 152 del 2006 e con il diritto europeo, ispirati entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, sarebbe quella che consenta all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei detentori o dei gestori –‘comunque denominati’- dei rifiuti prodotti dall'impresa cessata.
12.2. Tale interpretazione si fonda innanzitutto sulle disposizioni dello stesso decreto legislativo n. 152 del 2006.
12.3. Al generale divieto di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti si riconnette poi l'obbligo di rimozione, avvio al recupero o smaltimento e al ripristino dello stato dei luoghi in capo al trasgressore e al proprietario, in solido, a condizione che la violazione sia ad esso imputabile secondo gli ordinari titoli di responsabilità, anche per condotta omissiva, colposa nei limiti della esigibilità, o dolosa.
Per una parte della giurisprudenza, i curatori non potrebbero essere obbligati in applicazione dell'art. 192 citato, quando prima della loro nomina sia cessata l’attività dell'impresa che produceva i rifiuti o abbia aggravato la situazione del sito.
Peraltro, si può ritenere che, nell’ottica del diritto europeo (che non pone alcuna norma esimente per i curatori), i rifiuti devono comunque essere rimossi, pur quando cessa l’attività, o dallo stesso imprenditore che non sia fallito, o in alternativa da chi amministra il patrimonio fallimentare dopo la dichiarazione del fallimento.
12.4. Secondo questa diversa ricostruzione, l'individuazione dell'obbligo di smaltire i rifiuti in capo al detentore o al gestore, comunque denominato, troverebbe il suo fondamento anche nel diritto comunitario, oltre che sulla definizione del ‘gestore’, enunciata dall’art. 5, lettera r-bis, del decreto legislativo n. 152 del 2006.
L'art. 3, par. 1 punto 6, della direttiva n. 2008/98/CE definisce, infatti, il detentore, in contrapposizione al produttore, come la persona fisica o giuridica che è in possesso dei rifiuti.
Non sono pertanto in materia rilevanti le nozioni nazionali sulla distinzione tra il possesso e la detenzione: ciò che conta è la disponibilità materiale dei beni, la titolarità di un titolo giuridico che consenta (o imponga) la gestione.
Del resto, neppure rileva ogni approfondimento sulla nozione della detenzione, se si ritiene sufficiente la sussistenza di un rapporto gestorio, inteso come ‘amministrazione del patrimonio altrui’, ciò che certamente caratterizza l’attività del curatore fallimentare.
Per le finalità perseguite dal diritto comunitario quindi è sufficiente distinguere il soggetto che ha prodotto i rifiuti dal soggetto che ne abbia materialmente acquisito la detenzione o la ‘disponibilità giuridica’, senza necessità di indagare il titolo giuridico sottostante.
L'elemento decisivo è il carattere materiale della detenzione dei rifiuti.
12.5. Peraltro, per la disciplina comunitaria (art. 14, par. 1, della direttiva n. 2008/98/CE), i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti.
Questa regola costituisce un'applicazione del principio "chi inquina paga" (v. il ‘considerando’ n. 1 della citata direttiva n. 2008/98/CE).
12.6. In tale contesto, la detenzione dei rifiuti fa quindi sorgere automaticamente un'obbligazione avente un duplice contenuto: il divieto di abbandonare i rifiuti e l'obbligo di smaltire gli stessi.
Se dunque per effetto di categorie giuridiche interne questa obbligazione non fosse eseguibile, l'effetto utile delle norme comunitarie sarebbe vanificato (cfr. CGUE, sez. IV, n. 113/2012).
Solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi siano collocati, può, in definitiva, invocare la cd ‘esimente interna’ prevista dall'art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006.
12.7. Nel quadro sopra delineato, la curatela fallimentare, che ha la custodia dei beni del fallito, anche quando non prosegue l'attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi dell’esimente di cui all'art. 192, lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall'attività imprenditoriale dell'impresa cessata.
Nella qualità di detentore dei rifiuti secondo il diritto comunitario, il curatore fallimentare sarebbe perciò obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero.
12.8. Il rilievo centrale che, nel diritto comunitario, assume la detenzione dei rifiuti risultanti dall'attività produttiva pregressa, a garanzia del principio "chi inquina paga", appare, del resto, coerente con la sopportazione del peso economico della messa in sicurezza e dello smaltimento da parte dell'attivo fallimentare dell'impresa che li ha prodotti.
Pertanto, la figura del detentore dei rifiuti avrebbe rilievo anche con riferimento al curatore, a prescindere dalla configurabilità o meno di un fenomeno giuridico di tipo successorio tra società fallita e curatela (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 3672/2017).
In altre parole, l'attuazione di misure volte a mettere in sicurezza il sito potrebbe essere imposta alle curatele fallimentari, poiché la curatela –pur se non è chiamata a succedere in obblighi o responsabilità del fallito- è tuttavia tenuta all'adempimento degli obblighi di custodia, manutenzione e messa in sicurezza correlati alla sua situazione di attuale possessore o detentore del bene (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 1961/2020).
13. Ciò premesso, stante l’esposto contrasto giurisprudenziale ed in considerazione, ad ogni buon conto, della particolare rilevanza (attuale e prospettica) della questione, il Collegio ritiene opportuno, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., deferire l’affare all’Adunanza plenaria, pur ribadendo di ritenere preferibile il ‘secondo orientamento’.
13.1. Alle ragioni già sopra sintetizzate, il Collegio aggiunge anche le seguenti, ulteriori considerazioni, che, ove condivise, estenderebbero le conclusioni cui è pervenuto il secondo indirizzo.
13.2. Innanzitutto, non sembra condivisibile l’obiezione, formulata anche dal Tar nella sentenza impugnata, che, in base al principio comunitario del “chi inquina paga”, addossare al curatore la responsabilità dell’inquinamento prodotto dall’imprenditore vanificherebbe la cogenza dei superiori principi e finirebbe con il produrre un effetto di ‘manleva automatica’ nei confronti dei veri responsabili dell'inquinamento, scaricando i costi sui creditori che non hanno alcun collegamento con l'inquinamento.
13.3. Il profilo dirimente non è, come sopra esposto, quello della responsabilità dell’inquinamento (che pure resta sullo sfondo con le sue molteplici implicazioni), ma la concreta situazione di detenzione dell’area su cui si trovano i rifiuti.
Da questa circostanza discende, sulla base del ricordato principio di precauzione, la possibilità di addossare anche al detentore incolpevole (nella specie, al curatore) l’onere di rimozione degli stessi.
13.4. Inoltre, il richiamo alle disposizioni della legge fallimentare (RD n. 267/1942), finalizzato ad esonerare la curatela, non sembra conferente laddove viene in rilievo la situazione di fatto del rinvenimento dei rifiuti su un’area dalla stessa “detenuta”.
13.5. Rileva poi, specificamente, la definizione contenuta nell’art. 5, lettera r-bis, del decreto legislativo n. 152 del 2006, il quale definisce gestore "qualsiasi persona fisica o giuridica che detiene o gestisce, nella sua totalità o in parte, l'installazione o l'impianto oppure che dispone di un potere economico determinante sull'esercizio tecnico dei medesimi".
Il riferimento alla ‘gestione’ può essere inteso come attributivo della rilevanza di ‘ogni rapporto giuridicamente rilevante’ con l’area in questione (e, in particolare, di ‘ogni rapporto di gestione di un patrimonio altrui’), così come anche il riferimento alla ‘disposizione di un potere economico determinante’ può essere inteso come espressivo della volontà del legislatore di individuare ‘sempre’ una ‘persona fisica o giuridica’, tenuta a svolgere le attività di rimozione.
Inoltre, lo stesso art. 192 può essere inteso come ‘norma di chiusura’ in materia di rifiuti, nella parte in cui disciplina gli interventi in caso di abbandono e deposito incontrollato, imputabile a soggetti diversi da chi i rifiuti li produce o li gestisce, e prevede il potere tipizzato del sindaco di imporre le operazioni necessarie e l'esecuzione in danno dei soggetti obbligati, con recupero delle somme anticipate.
Sotto tale profilo, si può affermare che non possano esservi ‘zone franche’ della applicazione indefettibile della normativa di settore, la quale non può essere resa inoperante da contingenti ‘vicende civilistiche’, peraltro pur sempre caratterizzate dalla ‘gestione del patrimonio altrui’.
13.6. Seguendo invece la tesi contraria, in assenza dell’individuazione del responsabile dell’inquinamento (o anche quando l’incontestabile responsabile sia poi fallito), dovrebbe pertanto essere comunque il Comune a sopportare gli oneri della rimozione (attività comunque non rinviabile), con conseguente addebito dei relativi costi all’intera comunità, ciò che costituisce una soluzione contrastante con le regole europee.
La messa in sicurezza di un sito inquinato costituisce, come sopra rilevato, una misura di prevenzione dei danni, espressione del principio di precauzione e del principio dell'azione preventiva, che grava sul proprietario o sul detentore o sul gestore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto l'accertamento del dolo o della colpa (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 1089/2017).
Cosicché sarebbe dubbia la legittimazione, anche sotto il profilo contabile, del Comune ad operare in sostituzione degli stessi.
14. Sul piano della legittimazione passiva, d’altra parte, va osservato che l’Adunanza plenaria, con la sentenza n. 10/2019 (nel chiarire che le misure previste dal decreto legislativo n. 22 del 1997 sono applicabili anche a condotte di inquinamento poste in essere prima della sua entrata in vigore), ha ammesso che le attività di bonifica possano essere imposte alla società non responsabile dell’inquinamento, che sia subentrata nella precedente società per effetto di una fusione per incorporazione.
Nel caso di specie, si tratta invece di verificare se, a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192 sopra riportato (con la ricaduta sulla finanza pubblica e con un corrispondente vantaggio patrimoniale dei creditori della società fallita e sostanzialmente di questa), pur se il curatore fallimentare –in un’ottica di continuità- ‘gestisce’ proprio il patrimonio del bene della società fallita e ne ha la disponibilità materiale.
14.1. In tema di prevenzione (ambito nel quale dovrebbe essere collocato il provvedimento in esame) il principio "chi inquina paga" non richiede del resto, nella sua accezione comunitaria, anche la prova dell'elemento soggettivo, né l’intervenuta successione.
Al contrario, la direttiva n. 2004/35/CE configura la responsabilità ambientale come responsabilità (non di posizione), ma, comunque, oggettiva, che rappresenta un criterio interpretativo per tutte le disposizioni legislative nazionali.
In ogni caso, le tematiche riguardanti l’ambito della responsabilità oggettiva riguardano i soggetti giuridici che non versino il dolo o il colpa, mentre nella specie va chiarito se –quando i fatti siano incontestatamente imputabili ad una società– il suo fallimento, in assenza di una disposizione di legge in tal senso, comporta la sopravvenuta irrilevanza degli obblighi previsti dall’art. 192 del decreto legislativo n. 152 del 2006.
16. Pertanto, il Collegio –nella consapevolezza della delicatezza della questione controversa e del suo evidente carattere di massima- rimette, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a l’affare all’Adunanza Plenaria, per la decisione in ordine al punto di diritto de quo, al fine di dirimere i contrasti attuali e, soprattutto, potenziali in proposito, sia in primo, sia in secondo grado.
Valuterà l’Adunanza Plenaria se definire il secondo grado del giudizio o se rimettere la decisione a questa Sezione, una volta enunciato il principio di diritto.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe (n. 8487/2019), ne dispone il deferimento all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 15.09.2020 n. 5454 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti abbandonati: la responsabilità del curatore fallimentare.
L’opzione interpretativa che pone in capo al curatore fallimentare gli obblighi di cui all’art. 192 D.Lgs. n. 152/2006, sulla scorta della sua relazione di detenzione con i rifiuti che insistono negli stabilimenti aziendali, si pone in contrasto sia con il principio del “chi inquina paga”, sia con le norme del diritto fallimentare che ne disciplinano il munus.
---------------
Le ordinanze contingibili e urgenti, ex art. 50 dlgs 267/2000, sono ascritte all'esercizio, da parte del Sindaco, di un potere straordinario, che si pone in una situazione di potenziale conflitto col principio di legalità di cui all'art. 25 della Costituzione. Detti provvedimenti potranno pertanto essere adottati solo in presenza dei presupposti individuati dal legislatore, e consistenti, per l'appunto, nella contingibilità e urgenza della fattispecie che il Sindaco si trovi a dover fronteggiare.
Nel caso di specie, né l'uno né l'altro dei due requisiti sopra indicati sembra ricorrere, né l'amministrazione ha motivato il provvedimento adottato dando atto della ricorrenza degli stessi.
Non ricorre la contingibilità, intesa come impossibilità di affrontare efficacemente la fattispecie con altri provvedimenti tipizzati.
Invero, il provvedimento deputato a far fronte all'abbandono dei rifiuti è quello individuato dall'art. 192 D.Lgs. n. 152 del 2006, che prevede a sua volta specifici e stringenti requisiti di applicazione, al cui accertamento l'amministrazione comunale non può sottrarsi mediante il ricorso alle ordinanze di cui all'art. 50 TUEL.
Peraltro, l'art. 50, comma 5, D.Lgs. n. 267 del 2000, richiamato nelle premesse dell'ordinanza sindacale impugnata, conferisce al sindaco il potere di far fronte, mediante ordinanze contingibili e urgenti, a "emergenze sanitarie o di igiene pubblica".
---------------

2. Nel merito, il ricorso è fondato.
3. Possono esaminarsi congiuntamente i primi tre motivi, con i quali il ricorrente confuta l’orientamento -richiamato dal Comune nel provvedimento oggetto di impugnazione– secondo cui la titolarità passiva degli obblighi di cui all’art. 192, c. 3 e 4, D.Lgs. 152/2006 è da riconoscersi anche in capo al curatore fallimentare, in qualità di “detentore” dei rifiuti.
Entrambe le parti danno conto dell’orientamento tradizionale che ha sempre escluso il curatore tra i soggetti tenuti alla rimozione, avvio a recupero o smaltimento ed al ripristino dello stato dei luoghi, salvo che l’abbandono dei rifiuti non sia riconducibile direttamente all’attività della curatela.
Tale orientamento si fonda sulla non riconducibilità della posizione del curatore fallimentare ad alcuna delle categorie di soggetti in capo ai quali, ai sensi della disposizione richiamata, è posta la responsabilità delle operazioni di rimozione, avvio a recupero o smaltimento e ripristino.
La norma, in applicazione del principio comunitario del “chi inquina paga”, in parallelo a quanto è previsto in materia di bonifica, pone i suddetti obblighi in capo al responsabile dell’abbandono incontrollato di rifiuti, nonché al proprietario del fondo ed ai titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, in solido con il responsabile, purché la violazione sia ad essi imputabile a titolo di dolo o colpa. Inoltre, è posta in capo ai soggetti che siano subentrati, “secondo le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231”, nei diritti della persona giuridica, ove la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti della stessa.
La giurisprudenza ha chiarito, infatti, che il curatore del fallimento, pur potendo subentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. il R.D. n. 267 del 1942, art. 72), in via generale "non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge" (così Cass. civ., Sez. 1^, 23/06/1980, n. 3926; in termini analoghi v. anche Cass. civ., Sez. 1^, 14/09/1991, n. 9605).
A tale orientamento se n’è contrapposto, più di recente, un altro (Consiglio di Stato, sez. IV, 25.07.2017, n. 3672), espressamente richiamato nell’ordinanza impugnata, alla stregua del quale il curatore, avendo la custodia dei beni del fallito, ne sarebbe “detentore” (nell’ampia accezione fatta propria dal diritto comunitario), in quanto tale obbligato alla messa in sicurezza ed allo smaltimento dei rifiuti.
Secondo la suddetta tesi "solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi sono collocati, può invocare l'esimente interna dell'art. 192, comma 3, del d.Lgs. 152/2006. La curatela fallimentare, che assume la custodia dei beni del fallito, anche quando non prosegue l'attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi di tale norma, lasciando abbandonati i rifiuti.".
Il suddetto orientamento è stato sottoposto a critica da altra pronuncia del Consiglio di Stato, che il Collegio ritiene di condividere.
Nella sentenza del 04.12.2017, n. 5668, il Consiglio di Stato ha evidenziato che la soluzione che pone in capo al curatore fallimentare gli obblighi di cui all’art. 192 D.Lgs. 152/2006, sulla scorta della sua relazione di detenzione con i rifiuti che insistono negli stabilimenti aziendali, si pone in contrasto sia con il principio del “chi inquina paga”, sia con le norme del diritto fallimentare che ne disciplinano il munus.
Sotto il primo profilo, ha evidenziato che, in base al principio comunitario del "chi inquina paga", è soltanto il responsabile dell'inquinamento a dover riparare il danno arrecato e che addossare al curatore che non abbia continuato l'attività aziendale la responsabilità per l'inquinamento prodotto dall’imprenditore “vanificherebbe la cogenza dei superiori principi e finirebbe con il produrre un effetto di manleva automatica nei confronti dei "veri" responsabili dell'inquinamento (id est, in tesi: i soggetti muniti di responsabilità gestoria nei confronti dell'impresa inquinante)” (…) “scaricando i costi sui creditori che non hanno alcun collegamento con l'inquinamento”.
Sotto il secondo profilo, ha osservato che neppure può fondatamente ritenersi sussistere una relazione di custodia tra il curatore ed i beni del fallito.
Infatti, osserva, alla stregua dell'art. 88 (recante "presa in consegna dei beni del fallito da parte del curatore") della c.d. legge fallimentare di cui al Regio decreto 16.03.1942, n. 267 ("Il curatore prende in consegna i beni di mano in mano che ne fa l'inventario insieme con le scritture contabili e i documenti del fallito. Se il fallito possiede immobili o altri beni soggetti a pubblica registrazione, il curatore notifica un estratto della sentenza dichiarativa di fallimento ai competenti uffici, perché sia trascritto nei pubblici registri"), il consegnatario non succede nel possesso dei beni del fallito, di cui ha soltanto l’amministrazione per le finalità della procedura.
La tesi che attribuisce al curatore la "responsabilità" per le operazioni di cui all’art. 192 D.Lgs. 152/2006 “frattura il sistema e finisce con l'addossare al curatore una responsabilità che neppure sarebbe stata del proprietario incolpevole, e ciò sulla scorta di una riconducibilità al medesimo dello statuto del "detentore" che non risponde alla funzione espletata dal curatore medesimo”.
Il Collegio condivide le suddette argomentazioni e ritiene solo di aggiungere che da questa impostazione non deriva una diminuzione della tutela ambientale, poiché in mancanza di altri soggetti obbligati ai sensi dell’art. 192, D.Lgs. 152/2006, gli obblighi di rimozione ed avvio al recupero sono posti in capo al Comune, che potrà rivalersi delle spese sostenute insinuandosi nel passivo fallimentare.
E’, altresì, da aggiungere che tale soluzione interpretativa fa salvi gli obblighi del curatore di porre in essere le misure di prevenzione d’urgenza previste dall’art. 245 D.Lgs. 152/2006 per il caso di superamento o di pericolo di superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC). Tali misure, infatti, non avendo natura sanzionatoria, né ripristinatoria, ma mirando alla prevenzione dei danni non presuppongono l'accertamento del dolo o della colpa in capo al proprietario o al detentore (Cons. Stato Sez. VI, 03/01/2019, n. 81).
4. Non ricorrono inoltre, nel caso di specie, i presupposti per l'adozione dell'ordinanza contingibile e urgente di cui all'art. 50 TUEL, indicata nel provvedimento impugnato.
Le ordinanze previste dalla citata norma vengono ascritte all'esercizio, da parte del Sindaco, di un potere straordinario, che si pone in una situazione di potenziale conflitto col principio di legalità di cui all'art. 25 della Costituzione. Detti provvedimenti potranno pertanto essere adottati solo in presenza dei presupposti individuati dal legislatore, e consistenti, per l'appunto, nella contingibilità e urgenza della fattispecie che il Sindaco si trovi a dover fronteggiare (ex pluribus: TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 23.03.2018 n. 270).
Nel caso di specie, né l'uno né l'altro dei due requisiti sopra indicati sembra ricorrere, né l'amministrazione ha motivato il provvedimento adottato dando atto della ricorrenza degli stessi.
Non ricorre la contingibilità, intesa come impossibilità di affrontare efficacemente la fattispecie con altri provvedimenti tipizzati (in tal senso: Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.05.2013, n. 3007; Sez. V, 20.02.2012, n. 904; Sez. VI, 09.02.2010, n. 642; TAR Campania, Napoli, Sez. V, 12.11.2018 n. 6550).
Invero, il provvedimento deputato a far fronte all'abbandono dei rifiuti è quello individuato dall'art. 192 D.Lgs. n. 152 del 2006, che prevede a sua volta specifici e stringenti requisiti di applicazione, al cui accertamento l'amministrazione comunale non può sottrarsi mediante il ricorso alle ordinanze di cui all'art. 50 TUEL.
Peraltro, l'art. 50, comma 5, D.Lgs. n. 267 del 2000, richiamato nelle premesse dell'ordinanza n. 3/2018, conferisce al sindaco il potere di far fronte, mediante ordinanze contingibili e urgenti, a "emergenze sanitarie o di igiene pubblica". Tuttavia, anche sotto tale profilo, nel provvedimento qui gravato non si dà atto della ricorrenza di taluna delle suddette fattispecie legittimanti (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.06.2019 n. 744 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aggiornamento al 21.04.2021

L'ennesima "tegola" sulla legge urbanistica lombarda!!

EDILIZIA PRIVATA: F. Donegani, Rigenerazione urbana in Lombardia: la parola alla Corte Costituzionale (15.03.2021 - link a www.dirittopa.it).

EDILIZIA PRIVATAPremio volumetrico su immobili dismessi, lo scontro Comune-Regione Lombardia finisce alla Consulta.
Il Tar rimette la norma alla corte costituzionale. Fermi i progetti di Boeri per Coima. Gli immobiliaristi di Aspesi: senza incentivi nessuna rigenerazione urbana sostenibile.

Il Tar Lombardia spedisce alla Consulta la legge regionale sugli edifici abbandonati che concede un premio edificatorio fino al 25% a chi recupera immobili dismessi da almeno cinque anni.
La norma, secondo i giudici, rappresenta una «violazione della potestà pianificatoria» del Comune e ha il potere di «stravolgere l'assetto del territorio». Intanto, l'incertezza sulla legittimità degli attuali e consistenti premi volumetrici mina alcuni progetti di riqualificazione, caso emblematico il ponte-serra a scavalco su via Melchiorre Gioia concepito dagli studi Stefano Boeri e Diller Scofidio+Renfro, per conto di Coima, nell'ambito del progetto di riqualificazione del "Pirellino".
Ma, senza premi concreti, non può essere avviato l'ambizioso processo di rigenerazione che Milano ha in mente, avvertono gli imprenditori del settore immobiliare rappresentati da Aspesi. «Il recupero di un sito dismesso è più costoso di un intervento su terreno verde a causa di bonifiche e demolizioni da effettuare quasi sempre. Perché, quindi, un operatore come i nostri possa decidere di realizzarlo occorrono degli incentivi senza i quali i conti non tornerebbero», sottolinea Federico Filippo Oriana, presidente dell'Associazione nazionale delle società immobiliari.
La questione di costituzionalità della legge regionale è stata sollevata dal Comune, parte in causa in tre ricorsi al Tar (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 10.02.2021 n. 371 - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 10.02.2021 n. 372 - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 10.02.2021 n. 373) presentati da proprietari di immobili inseriti nell'elenco degli «edifici abbandonati o degradati» del nuovo Pgt.
Nella lista finiscono gli immobili dismessi da più di un anno e considerati pericolosi per la sicurezza, la salubrità o l'incolumità pubblica o, più semplicemente, in contrasto con il decoro e la qualità urbana. I proprietari che non recuperano o abbattono tali edifici nell'arco di 18 mesi, subiscono la demolizione in danno da parte del Comune e perdono la volumetria esistente (possono contare solo sul riconoscimento dell'indice di edificabilità unico di 0,35 mq/mq). Da qui il ricorso al Tar dei privati penalizzati dalle regole del nuovo Pgt.
Tra i motivi dei ricorsi spicca il contrasto tra le norme di attuazione del Pgt (art. 11) e la normativa regionale (
art. 40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dalla lr 18 del 2019) di gran lunga più vantaggiosa per i proprietari di immobili fatiscenti, che hanno tre anni di tempo per presentare il titolo edilizio necessario per avviare i lavori e possono vedersi riconoscere un incremento dei diritti edificatori tra il 20 e il 25 per cento. Al premio si affianca l'esenzione dall'eventuale obbligo di reperimento degli standard.
Evidente, secondo il Tar, il contrasto tra le regole del Pgt e la legge regionale così come è palese che la questione di incostituzionalità sollevata dal Comune non sia infondata. In violazione di alcuni articoli della Costituzione (n. 5. 97, 114, 117 e 18), la legge regionale «comprime in maniera eccessiva la potestà pianificatoria comunale», si legge nelle ordinanze. Inoltre, affermano i giudici, la disciplina regionale sugli immobili fatiscenti è «ingiustificatamente rigida e uniforme», prescinde dalle decisioni comunali e può avere un impatto incisivo sulla pianificazione locale, tale da poter «stravolgere l'assetto del territorio o di sue parti».
Il Tar riscontra anche una violazione della normativa statale, tra cui quella sugli standard (Dm 1444 del 1968): l'art. 40-bis esonera, seppure con alcune eccezioni, dall'obbligo di individuare aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, «non garantendo un corretto rapporto tra il carico urbanistico gravante sulla zona interessata dall'intervento di riqualificazione e le corrispondenti dotazioni pubbliche».
Contrario, inoltre, ai principi di uguaglianza e imparzialità dell'amministrazione il riconoscimento di premialità in favore di persone che hanno causato «l'insorgere di situazioni di degrado e pericolo», vantaggi a cui invece non possono aspirare i proprietari più diligenti. La parola passa ora alla Consulta (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 12.02.2021).

EDILIZIA PRIVATADisciplina di legge regionale sul recupero degli immobili degradati e compromissione della potestà pianificatoria comunale: sollevata q.l.c..
Il Tar per la Lombardia sottopone al giudizio della Corte costituzionale la normativa regionale lombarda sul recupero edilizio degli immobili degradati e abbandonati (art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, introdotto dalla legge regionale n. 18 del 2019), censurandone l’irragionevolezza e il contrasto con gli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione.
In particolare, secondo la Sezione rimettente, risulterebbe oltremodo compressa la potestà pianificatoria dei Comuni (in specie, quelli di grandi dimensioni), i quali non sarebbero più messi nelle condizioni di approvare alcun intervento correttivo o derogatorio rispetto a quanto già stabilito dalle norme della legge regionale, in tal modo venendo loro sottratto il compito di valorizzare le peculiarità dei singoli territori.
---------------
Urbanistica ed edilizia – Regione Lombardia – Recupero degli immobili degradati e abbandonati – Compressione della potestà pianificatoria dei Comuni – Questione rilevante e non manifestamente infondata di costituzionalità.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lettera a, della legge regionale n. 18 del 2019), rubricato “Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione, in quanto, nel dettare una disciplina completa ed esaustiva sul trattamento giuridico da riservare agli immobili abbandonati e degradati, lascia compiti meramente attuativi ed esecutivi in capo ai Comuni, comprimendone in maniera eccessiva la potestà pianificatoria ed impedendo loro una coerente programmazione in ambito urbanistico (1).
---------------
   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna, il Tar per la Lombardia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge regionale lombarda sul governo del territorio (legge regionale 11.03.2005, n. 12), come introdotto dalla legge regionale n. 18 del 2019, che detta una disciplina molto analitica sul recupero degli immobili degradati e abbandonati. Il cuore dei dubbi di costituzionalità attiene all’eccessiva compressione della potestà pianificatoria dei Comuni, con particolare riguardo ai Comuni di maggiori dimensioni.
Nel giudizio innescatosi dinnanzi al Tar, il proprietario di un immobile situato nel Comune di Milano (in zona a destinazione urbanistica prevalentemente terziariadirezionale) ha impugnato gli atti con i quali l’edificio è stato ricompreso tra gli “edifici abbandonati e degradati”, con conseguente sottoposizione al regime previsto dall’art. 11 delle Norme di attuazione (N.d.A.) del Piano delle Regole (P.d.R.), facente parte del Piano di Governo del Territorio (PGT).
Uno dei motivi di gravame ha lamentato l’illegittimità sopravvenuta di tali norme di attuazione, in quanto contrastanti con il regime successivamente introdotto dall’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005. La difesa comunale ha, in primo luogo, sostenuto la perfetta compatibilità tra quest’ultima norma e l’art. 11 delle N.d.A. (operando, cioè, un tentativo di interpretazione della norma di legge in senso costituzionalmente conforme), e, in subordine, ne ha eccepito l’illegittimità costituzionale per contrasto con vari parametri costituzionali.
   II. – Il Collegio ritiene di non accogliere l’interpretazione dell’art. 40-bis propugnata dalla difesa comunale (attese le evidenti inconciliabilità testuali rispetto a quanto previsto dalla preesistente norma di attuazione comunale, “poiché viene regolamentata, in maniera divergente oltre che contrastante, la medesima fattispecie, ossia la disciplina da riservare agli immobili abbandonati e degradati”) e, di conseguenza, ritiene pregiudiziale alla propria decisione la risoluzione della questione di legittimità costituzionale sulla norma della legge regionale. Di seguito, il percorso argomentativo seguito dal Tar per la Lombardia:
      a) quanto al requisito della rilevanza, esso deriva dalla sovrapposizione dell’art. 40-bis alla regolamentazione comunale contenuta nell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R., sicché l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe l’applicazione alla fattispecie della norma attuativa comunale; in particolare, secondo il Tar:
         a1) qualora fosse dichiarato incostituzionale l’art. 40-bis, non potrebbe escludersi che si possa comunque procedere all’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. comunali in ragione della fondatezza, anche parziale, dei restanti motivi di ricorso;
         a2) tale annullamento produrrebbe effetti sensibilmente diversi rispetto a quelli che scaturirebbero dalla permanente vigenza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, posto che, “in tale ultimo frangente, agli immobili abbandonati e degradati –compreso quello della ricorrente– si applicherebbero le regole contenute nella disposizione regionale, mentre, in caso di declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis, l’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. determinerebbe l’applicazione agli immobili fatiscenti dei principi generali afferenti alla materia edilizia ed urbanistica, riconoscendo ai titolari dei diritti sugli immobili abbandonati e degradati la facoltà di scegliere se procedere o meno alla loro riqualificazione e con le tempistiche e le modalità ritenute più opportune dai predetti soggetti”;
         a3) nella prospettiva del Comune, l’annullamento della norma regolamentare comunale per violazione della superiore legge regionale, non dichiarata incostituzionale, “non lascerebbe all’Ente locale alcuno spazio per intervenire con un proprio regolamento sulla materia, se non per aspetti del tutto marginali e secondari, vista la completezza e la sostanziale autoapplicabilità della richiamata previsione regionale”; di contro, un’eventuale declaratoria di incostituzionalità “lascerebbe intatto il potere comunale di intervenire per disciplinare ex novo la materia, anche laddove fosse integralmente annullato da questo Tribunale l’art. 11 delle N.d.A.”, così salvaguardandosi la potestà pianificatoria comunale;
      b) quanto al requisito della non manifesta infondatezza, il Tar mette a confronto il testo dell’art. 11 delle N.d.A. con il testo dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, evidenziando che quest’ultima disposizione “si rivela sostanzialmente completa ed esaustiva con riguardo al trattamento giuridico da riservare agli immobili abbandonati e degradati”: ai Comuni residuano “compiti meramente attuativi ed esecutivi”, con la sola parziale eccezione per i Comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti (“i quali, per motivate ragioni di tutela paesaggistica, possono individuare gli ambiti del proprio territorio a cui non si applica, in caso di riqualificazione, l’incremento del 20% dei diritti edificatori e in relazione ai quali non si può derogare alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle distanze”);
      c) i conseguenza, appaiono in primo luogo violati gli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione, a causa dell’eccessiva compressione della potestà pianificatoria dei Comuni di maggiori dimensioni (tra i quali, in particolare, il Comune di Milano), ai quali non risulta consentito “alcun intervento correttivo o derogatorio in grado di valorizzare, oltre alla propria autonomia pianificatoria, anche le peculiarità dei singoli territori di cui i Comuni sono la più immediata e diretta espressione”; in particolare:
         c1) la disciplina regionale sul recupero degli immobili degradati e abbandonati “risulta particolarmente analitica sia nell’individuazione dei presupposti di operatività che nel procedimento da seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino il potere di pianificazione comunale e l’interesse ad un assetto ordinato del territorio che tale pianificazione mira a realizzare”; tale normativa, pertanto, non lascia alcuno spazio per tentativi di interpretazione costituzionalmente orientata (sono richiamate, della Corte costituzionale: sentenza 10.10.2020, n. 218, punto 2.2 della parte in diritto, in Cassaz. pen., 2021, 204; sentenza 21.07.2016, n. 204, in Dir. pen. e proc., 2016, 1434, con nota di MENGHINI, in Rass. penit. e criminologica, 2015, 3, 135, con nota di ABATE, in Cass. pen., 2017, 594, con nota di ABATE, ed in Giur. cost., 2016, 1441, con note di PUGIOTTO e FIORENTIN);
         c2) la disciplina regionale, infatti, ha una portata “ingiustificatamente rigida e uniforme”, in quanto è destinata ad operare “a prescindere dalle decisioni comunali” e a “produrre un impatto sulla pianificazione locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale”;
         c3) al singolo Comune è quindi impedita “una coerente programmazione in ambito urbanistico, rendendola in alcune parti, anche importanti, del tutto ineffettiva e ultronea”, e ciò anche nell’ipotesi –che ricorre nella fattispecie– in cui un Comune avesse già individuato gli immobili da recuperare, posto che la legge regionale riconosce, in via generalizzata, “un indice edificatorio premiale di rilevante portata (da un minimo del 20% ad un massimo del 25%), accompagnato dall’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard”, anche a costo di discostarsi dalle scelte comunali sottese all’individuazione degli immobili fatiscenti o alla loro non inclusione nel relativo elenco;
         c4) in tale contesto, il sacrificio delle prerogative comunali appare “non proporzionato, con violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, all’obiettivo perseguito dalla legge regionale, pur meritorio nelle sue finalità, di favorire il recupero degli immobili abbandonati e degradati”, posto che viene stravolta la pianificazione territoriale già adottata dai Comuni, soprattutto in considerazione del mancato bilanciamento tra l’aumento del peso insediativo dell’immobile recuperato (derivante dall’indice edificatorio premiale predetto) e il contestuale reperimento degli standard urbanistici e dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione (che, come detto, sempre in prospettiva premiale, non sono previsti dalla legge) – aspetto, quest’ultimo, sottolinea il Tar, che si pone anche in contrasto con il d.m. n. 1444 del 1968, che costituisce un “principio in materia di governo del territorio (art. 117, terzo comma, della Costituzione), in relazione al livello minimo di standard che devono essere garantiti sul territorio comunale”;
      d) sotto altro profilo, il Collegio rimettente evidenzia l’irragionevolezza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost., “nella parte in cui non si rapporta ai principi contenuti in altre norme della stessa legge regionale n. 12 del 2005”, in specie al principio di riduzione del consumo di suolo (che è richiamato dagli artt. 1, comma 3-bis, e 19, comma 2, lett. b-bis, della legge regionale del 2005, nonché dalla legge regionale n. 31 del 2014, recante “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e la riqualificazione del suolo degradato”); in proposito, il Collegio, nel citare alcuni passaggi della sentenza della Corte costituzionale del 16.07.2019, n. 179 (oggetto della News US n. 93 del 27.08.2019, cui si rinvia per ogni utile approfondimento, nonché in Giur. cost., 2019, 2074, con nota di FALLETTA, ed in Riv. giur. edilizia, 2019, I, 843, con nota di PAGLIAROLI), osserva che:
         d1) la riduzione del consumo di suolo “rappresenta un obiettivo prioritario e qualificante della pianificazione territoriale regionale, orientata ad un modello di sviluppo territoriale sostenibile”;
         d2) proprio il mancato bilanciamento tra l’attività di riqualificazione e recupero di immobili abbandonati e degradati e gli obiettivi di limitazione del consumo del suolo libero fa emergere, nel caso di specie, l’irragionevolezza e la contraddittorietà della norma regionale, caratterizzata da elevata rigidità;
      e) sotto ulteriore profilo, il Tar rimettente censura anche la lesione della “funzione amministrativa comunale in ambito urbanistico”, avuto riguardo alla puntuale e specifica natura della norma regionale “che non lascia alcuno spazio di intervento significativo all’attività pianificatoria comunale, pure qualificata quale funzione fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della Costituzione”; difatti:
         e1) la previsione di premi volumetrici in misura fissa e prestabilita, accompagnata da ulteriori importanti deroghe alla disciplina urbanistico-edilizia (quali l’esenzione dall’obbligo di conferimento dello standard e dal rispetto delle norme quantitative, morfologiche e sulle tipologie di intervento e delle distanze previste dallo strumento urbanistico locale), esclude qualsiasi autonoma scelta del Comune in sede di pianificazione generale ed altera i rapporti tra il carico urbanistico e le dotazioni pubbliche e private;
         e2) simili considerazioni trovano riscontro nella più recente giurisprudenza costituzionale, secondo cui “nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è stato fissato dal legislatore statale tramite la disposizione per cui «sono funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: […] d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale», ma «[f]erme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle Regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (art. 14, comma 27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78 […], come sostituito dall’art. 19, comma 1, lett. a), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 […], convertito, con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135). Il ‘sistema della pianificazione’, che assegna in modo preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed edilizia, non assurge, dunque, a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga [che tuttavia devono essere] quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014)” (sentenza 23.06.2020, n. 119, oggetto della News US n. 83 del 24.07.2020, cui si rinvia per ampi riferimenti di giurisprudenza, nonché in Giur. cost., 2020, 1323);
         e3) l’intervento del legislatore regionale deve pertanto perseguire “esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare disposizioni limitative delle funzioni già assegnate agli Enti locali, anche nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, sancito nell’art. 118 della Costituzione”;
         e4) nella specie, invece, “nessuna ‘riserva di tutela’ è stata riconosciuta al Comune, consentendogli di sottrarsi, per an o per quomodo, all’applicazione della normativa derogatoria oggetto di scrutinio, e neppure è stato previsto il ricorso ad una fase di cooperazione finalizzata al coordinamento degli strumenti di pianificazione incidenti sul governo del territorio”, diversamente, quindi, dal modus procedendi che lo stesso legislatore regionale lombardo ha correttamente seguito in altri recenti occasioni (sono qui citate le leggi regionali sul piano casa, la n. 12 del 2009 e la n. 4 del 2012, nonché gli artt. 63 ss. della stessa legge regionale n. 12 del 2005 in materia di recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti): emerge pertanto –sottolinea il Collegio– che, “in alcuni frangenti, lo stesso legislatore regionale lombardo si è dimostrato rispettoso delle prerogative pianificatorie comunali, pur non rinunciando a disciplinare la materia del governo del territorio nell’esercizio delle proprie attribuzioni”;
         e5) non può, pertanto, nella specie, ritenersi superato “il test di proporzionalità con riguardo all’adeguatezza e necessarietà della limitazione imposta all’autonomia comunale in merito a una funzione amministrativa che il legislatore statale ha individuato come connotato fondamentale dell’autonomia comunale” (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 2019, cit., punto 12.7 della parte in diritto);
      f) ancora, la norma regionale sospettata di illegittimità costituzionale –laddove prevede il premio di edificabilità– sembra violare anche il principio espresso dall’art. 3-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 (testo unico dell’edilizia), secondo il quale la riqualificazione di un determinato contesto può avvenire attraverso forme di compensazione incidenti sull’area interessata, senza tuttavia aumento della superficie coperta: al riguardo, il Tar rimettente precisa che “deve ricomprendersi difatti tra i principi statali in materia di governo del territorio la previsione secondo la quale un incentivo per recuperare un bene non può spingersi fino al punto di compromettere la tutela di un altro bene, di almeno pari rango, qual è quello legato alla riduzione del consumo di suolo, peraltro fatto proprio dallo stesso legislatore regionale”;
      g) infine, viene sollevato pure il contrasto “con i principi di uguaglianza e imparzialità dell’Amministrazione discendenti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione”, dal momento che vengono riconosciute “delle premialità per la riqualificazione di immobili abbandonati e degradati (anche) in favore di soggetti che non hanno provveduto a mantenerli in buono stato e che hanno favorito l’insorgere di situazioni di degrado e pericolo, a differenza dei proprietari diligenti che hanno fatto fronte agli oneri e ai doveri conseguenti al loro diritto di proprietà, ma che proprio per questo non possono beneficiare di alcun vantaggio in caso di intervento sul proprio immobile”; ne deriva, secondo il Tar, un effetto discriminatorio e irragionevole di incentivazione di situazioni di abbandono e di degrado, “da cui discende la possibilità di ottenere premi volumetrici e norme urbanistiche ed edificatorie più favorevoli rispetto a quelle ordinarie”.
   III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
      h) con la richiamata sentenza n. 179 del 2019, cit., la Corte costituzionale –nel pronunciarsi, ex professo, proprio sul principio di autonomia dei Comuni nella pianificazione urbanistica– ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 4, della legge della Regione Lombardia n. 31 del 2014, nella parte in cui non consentiva ai Comuni di apportare varianti che riducono le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano vigente; ciò, per violazione del combinato disposto tra l’art. 117, secondo comma, lett. p), Cost., relativamente alla competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali, e gli artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., con riguardo al principio di sussidiarietà verticale, in quanto la disposizione impugnata comprime l’esercizio stesso della potestà pianificatoria, paralizzandola per un periodo temporale, che è tradizionalmente rimessa all'autonomia dei Comuni e rientra in quel nucleo di potestà amministrative intimamente connesso al riconoscimento del principio dell’autonomia comunale; in particolare, secondo tale pronuncia (par. n. 12 della parte in diritto):
         h1) la funzione di pianificazione urbanistica è stata tradizionalmente rimessa all’autonomia dei Comuni fin dalla legge n. 2359 del 1865 (recante nome “Sulle espropriazioni per causa di utilità pubblica”), senza che questo presupposto di fondo sia stato poi travolto dalla successiva e complessa evoluzione che ha condotto allo sviluppo dell’ordinamento regionale ordinario, nonché “a una più ampia concezione di urbanistica e quindi alla consapevolezza della necessità di una pianificazione sovracomunale”, tanto che il legislatore nazionale ha qualificato, attuando il nuovo Titolo V della Costituzione, come funzioni fondamentali dei Comuni proprio “la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale” (art. 14, comma 27, lettera d, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, in legge n. 122 del 2010, n. 122, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, in legge n. 135 del 2012);
         h2) il legislatore statale “ha quindi sottratto allo specifico potere regionale di allocazione ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost., la funzione di pianificazione comunale, stabilendo che questa rimanga assegnata, in linea di massima, al livello dell’ente più vicino al cittadino, in cui storicamente essa si è radicata come funzione propria, e l’ha riconosciuta come parte integrante della dotazione tipica e caratterizzante dell’ente locale. Ha così stabilito un regime giuridico comune sottratto, per questo aspetto e salvo quanto si dirà in seguito, alle potenzialità di differenziazione insite nella potestà allocativa delle Regioni nelle materie di loro competenza”;
         h3) quanto precede non esclude che la legge regionale possa intervenire a disciplinare la funzione di pianificazione urbanistica, “anche in relazione agli ambiti territoriali di riferimento, e financo a conformarla in nome della verifica e della protezione di concorrenti interessi generali collegati a una valutazione più ampia delle esigenze diffuse sul territorio” (cfr. sentenza 27.07.2000, n. 378, in Urb. e appalti, 2000, 1183, con nota di MANFREDI);
         h4) anche dopo l’approvazione della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, l’autonomia dei Comuni “non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali” (sentenza 07.07.2016, n. 160, in Giur. cost., 2016, 1312);
         h5) su questo piano, è richiesto “uno scrutinio particolarmente rigoroso laddove la normativa regionale non si limiti a conformare, mediante previsioni normative alle quali i Comuni sono tenuti a uniformarsi, le previsioni urbanistiche nell’esercizio della competenza concorrente in tema di governo del territorio, quanto piuttosto comprima l’esercizio stesso della potestà pianificatoria, come nel caso di specie, paralizzandola per un periodo temporale”;
         h6) ne risulta un quadro in cui “il punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo non [è] stato risolto una volta per tutte dal riformato impianto del Titolo V della Costituzione”, sicché “il giudizio di costituzionalità non ricade tanto, in via astratta, sulla legittimità dell’intervento del legislatore regionale, quanto, piuttosto, su una valutazione in concreto, in ordine alla «verifica dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali»” (con richiamo alla sentenza 30.07.1997, n. 286, in Giur. cost., 1997, 2588, con note di DELLO SBARBA e KUSTERMANN, in Le Regioni, 1998, 155, con nota di IMMORDINO, ed in Riv. amm., 1997, 1109, con nota di RAGO);
         h7) viene quindi in rilievo “il variabile livello degli interessi coinvolti, cui ha riconosciuto specifica valenza costituzionale l’affermazione del principio di sussidiarietà verticale sancito nell’art. 118 Cost., che porta questa Corte a valutare, nell’ambito di una funzione riconosciuta come fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone”, dovendo pertanto il giudizio di proporzionalità “svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti”;
      i) le medesime argomentazioni sono state riprese e approfondite, più di recente, dalla sentenza della stessa Corte costituzionale n. 119 del 2020, cit. (anch’essa menzionata dall’ordinanza qui in epigrafe), secondo cui “Nelle delicate verifiche di funzionamento del principio di sussidiarietà verticale tra l’autonomia comunale e quella regionale, il giudizio di proporzionalità deve traguardare i singoli assetti normativi, nel loro peculiare e mutevole equilibrio”, nel caso di specie concludendo per la salvezza della norma regionale oggetto di scrutinio, “poiché gli interventi in deroga che la norma stessa consente, da un lato, soddisfano interessi pubblici di dimensione sovracomunale e, dall’altro, per i già segnalati limiti quantitativi, qualitativi e temporali, non comprimono l’autonomia comunale oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità”;
      j) sulle funzioni fondamentali degli Enti locali, e su una loro eventuale compressione, anche nella materia urbanistica, si veda inoltre, nella giurisprudenza costituzionale:
         j1) sentenza 27.12.2018, n. 245 (in Giur. cost., 2018, 2758), secondo cui “L’art. 2, comma 4, del testo unico dell’edilizia, se riconosce ai Comuni la facoltà di disciplinare l’attività edilizia, non configura (né potrebbe) in capo agli stessi una riserva esclusiva di regolamentazione in grado di spogliare il legislatore statale e quello regionale del legittimo esercizio delle loro concorrenti competenze legislative in materia di governo del territorio, competenze non a caso richiamate dallo stesso art. 2 TUE”;
         j2) sentenza 13.03.2014, n. 46 (in Giur. cost., 2014, 1134), secondo cui “anche riconoscendo che il «sistema della pianificazione» […] assurga a «principio dell’ordinamento giuridico della Repubblica» e ad espressione degli «interessi nazionali», limitando perciò l’esplicazione della competenza legislativa regionale di cui discute, è dirimente il rilievo che il principio in questione non potrebbe ritenersi così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –che è fonte normativa primaria, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti, come quelli di cui si discute”;
         j3) sentenza 26.11.2002, n. 478 (in Urb. e appalti, 2003, 289, con nota di DE PAULI, ed in Riv. giur. ambiente, 2003, 515, con nota di MANFREDI), secondo cui la legge nazionale, regionale o delle Province autonome può modificare le caratteristiche o l’estensione dei poteri urbanistici dei Comuni, “ovvero subordinarli a preminenti interessi pubblici, alla condizione di non annullarli o comprimerli radicalmente, garantendo adeguate forme di partecipazione dei Comuni interessati ai procedimenti che ne condizionano l’autonomia (fra le molte, si vedano le sentenze n. 378/2000, n. 357/1998, n. 286/1997, n. 83/1997 e n. 61/1994)”, escludendo, comunque, che dall’autonomia in campo urbanistico possa derivare una “esclusività delle funzioni comunali”: “se il Comune ha diritto di partecipare, in modo effettivo e congruo, nel procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici regionali che abbiano effetti sull’assetto del proprio territorio […], occorre tuttavia evitare che questa partecipazione possa creare situazioni di ‘stallo decisionale’ (sentenze n. 83 del 1997 e n. 357 del 1988) che esporrebbero a gravi rischi un interesse generale tanto rilevante come la tutela ambientale e culturale”;
      k) nella giurisprudenza amministrativa, sull’ampiezza del potere di pianificazione urbanistica comunale, sugli interessi pubblici ad esso sottesi e sulla conseguente estensione del sindacato del giudice amministrativo, cfr. di recente:
         k1) Cons. Stato, sezione VI, sentenza 03.08.2020, n. 4898 (in Riv. giur. edilizia, 2020, I, 1364), secondo cui “Il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è un istituto di carattere eccezionale rispetto all’ordinario titolo edilizio e rappresenta l’espressione di un potere ampiamente discrezionale che si concretizza in una decisione di natura urbanistica, da cui trova giustificazione la necessità di una previa delibera del Consiglio comunale. In tale procedimento il Consiglio comunale è chiamato ad operare una comparazione tra l’interesse pubblico al rispetto della pianificazione urbanistica e quello del privato ad attuare l’interesse costruttivo e, come ogni altra scelta pianificatoria, la valutazione di interesse pubblico della realizzazione di un intervento in deroga alle previsioni dello strumento urbanistico è espressione dell’ampia discrezionalità tecnica di cui l’Amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la sua sindacabilità in sede giurisdizionale solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità e dall'evidente travisamento dei fatti”;
         k2) Cons. Stato, sez. II, sentenza 28.02.2020, n. 1461, secondo cui “L’esercizio della funzione pianificatoria si caratterizza per l’ampio margine di discrezionalità attribuito all’amministrazione, con possibilità di censurare le scelte effettuate solo quando queste si presentino come manifestamente illogiche o contraddittorie”;
         k3) Tar per la Lombardia, sezione II, sentenza 09.01.2020, n. 63 (in Foro amm., 2020, 68), secondo cui “Il principio di omogeneità della zona (criterio ordinariamente invocabile nella pianificazione generale) non costituisce un limite all'attività pianificatoria del Comune, il quale resta libero di imprimere alle varie parti del territorio la destinazione urbanistica che ritiene più confacente ai bisogni della collettività. Il modello di zonizzazione del territorio ha assunto forme flessibili nella prassi applicativa, sino a pervenire, nell'ambito della stessa zona omogenea, alla microzonizzazione o alla previsione di sottozone distinte da ulteriori peculiarità strutturali o funzionali, sicché il processo di conformazione del territorio non esclude che a livello di pianificazione generale possano essere previsti differenti regimi urbanistici all'interno della stessa zona omogenea. Il principio di tipicità degli strumenti urbanistici, che riflette il limite di legalità dell'azione amministrativa, non esclude infatti che il pianificatore comunale, stante la progressiva espansione degli interessi affidati al governo di prossimità, introduca un sistema di lettura del territorio diverso o ulteriore rispetto al modello per zone, purché al pari di questo sia iscritto nel medesimo referente normativo, nazionale e regionale, e ad esso si conformi. Se così non fosse, infatti, l'azione amministrativa sarebbe non discrezionale, ma del tutto arbitraria e il nuovo modello di conformazione del territorio risulterebbe sostanzialmente abrogativo del sistema delineato dalla legge n. 1150 del 1942, il cui nucleo essenziale inderogabile, tanto da costituire principio fondamentale per la legislazione regionale concorrente, esige che siano identificate previamente le categorie generali e astratte ove iscrivere le porzioni di territorio, sulla base di descrittori anch'essi previamente definiti, in funzione degli obiettivi che l'azione pianificatrice si prefigge. Allora sarà del tutto irrilevante che la conformazione del territorio, come detto funzionale alla dislocazione dei servizi di interesse generale, sia concepita per zone, contesti, ambiti, comparti, zone miste o microzone, purché —qualunque essa sia— corrisponda a categorie prefissate ex ante, tali cioè da costituire il parametro di legittimità della successiva azione amministrativa”;
         k4) Cons. Stato 2017, sezione IV, sentenza 03.04.2017, n. 1508 (in Foro amm., 2017, 828), secondo cui “La pianificazione attuativa, di cui è manifestazione il P.E.E.P. previsto dalla legge 18.04.1962, n. 167, costituisce, al pari del piano regolatore generale, espressione della potestà pianificatoria, seppure declinata in ottica più specifica e, per così dire, operativa: la costitutiva finalità attuativa, propria di tale programmazione di dettaglio, impone peraltro all'Amministrazione la contestuale ponderazione di molteplici e potenzialmente contrastanti interessi anche non strettamente urbanistici ed è, pertanto, innervata da valutazioni eminentemente discrezionali in ordine non solo al quomodo, ma pure al quando; siffatto spazio ampio di discrezionalità da un lato non consente di predicare, in capo al privato, una pretesa giuridicamente tutelata e coercibile all'emanazione hic et nunc di un piano attuativo da parte del Comune, dall'altro circoscrive significativamente la capacità penetrativa del sindacato del giudice amministrativo nei casi in cui l'ente locale abbia esternato i motivi sottesi alla scelta di non procedere, qui ed ora, all'adozione della pianificazione di dettaglio; più in particolare, in assenza di profili di macroscopica illogicità, di eclatante irragionevolezza, di palese travisamento dei fatti, nella specie certo non ricorrenti, il giudice non ha elementi su cui fondare il giudizio di legittimità della scelta di non procedere, in un certo momento storico, all'attuazione concreta ed operativa delle previsioni di massima contenute nella pianificazione urbanistica di carattere generale: tale scelta, infatti, è esito, funzione ed espressione di un complessivo bilanciamento di diversificati, contestuali e spesso confliggenti interessi e, come tale, è manifestazione del merito della funzione amministrativa” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 10.02.2021 n. 371 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAlla Corte costituzionale il recupero degli immobili degradati e abbandonati in Lombardia.
---------------
Edilizia – Lombardia - Recupero immobili degradati e abbandonati - Art. 40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 – Violazione artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a), l.reg. Lombardia 26.11.2019, n. 18), recante “Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, nella parte in cui ha introdotto una disciplina urbanistico-edilizia in ordine al recupero degli immobili fatiscenti ingiustificatamente rigida e uniforme, operante a prescindere dalle decisioni comunali e in grado di produrre un impatto sulla pianificazione locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale (1).
---------------
   (1) In termini v. anche Tar Milano, sez. II, ord., 10.02.2021, n. 372 e n. 373.
L’art. 40-bis, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 si rivela sostanzialmente completa ed esaustiva con riguardo al trattamento giuridico da riservare agli immobili abbandonati e degradati, residuando in capo ai Comuni compiti meramente attuativi ed esecutivi, con una parziale eccezione per i Comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, i quali, per motivate ragioni di tutela paesaggistica, possono individuare gli ambiti del proprio territorio a cui non si applica, in caso di riqualificazione, l’incremento del 20% dei diritti edificatori e in relazione ai quali non si può derogare alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle distanze.
L’applicazione della disposizione regionale oggetto di scrutinio comprime in maniera eccessiva –con violazione degli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 Cost.– la potestà pianificatoria comunale, in particolare dei Comuni che hanno più di 20.000 abitanti (come il Comune di Milano), non consentendo a siffatti Enti alcun intervento correttivo o derogatorio in grado di valorizzare, oltre alla propria autonomia pianificatoria, anche le peculiarità dei singoli territori di cui i Comuni sono la più immediata e diretta espressione.
La normativa regionale risulta particolarmente analitica sia nell’individuazione dei presupposti di operatività che nel procedimento da seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino il potere di pianificazione comunale e l’interesse ad un assetto ordinato del territorio che tale pianificazione mira a realizzare. La formulazione letterale della previsione e la puntuale regolamentazione dettata comportano, dunque, il fallimento in radice di ogni tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme atteso che la normativa non lascia spazi per poter “adeguare” in via interpretativa il dettato di legge alla superiori previsioni costituzionali (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 218 del 10.10.2020, punto 2.2 del Diritto, che richiama le sentenze n. 204 e n. 95 del 2016).
Infatti, il legislatore regionale ha imposto, a regime, una disciplina urbanistico-edilizia in ordine al recupero degli immobili fatiscenti ingiustificatamente rigida e uniforme, operante a prescindere dalle decisioni comunali e in grado di produrre un impatto sulla pianificazione locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale.
A ben vedere, pur essendo rimessa ordinariamente al Consiglio comunale l’individuazione degli immobili abbandonati e degradati, è comunque consentito al proprietario di un immobile versante nelle predette condizioni, indipendentemente dall’inserimento dello stesso nell’elenco formato dal Comune, di certificare con perizia asseverata giurata, oltre alla cessazione dell’attività, anche la sussistenza dei presupposti per beneficiare del regime di favore di cui all’art. 40-bis.
Il Comune quindi non ha la facoltà di selezionare, discrezionalmente, gli immobili da recuperare, in quanto l’applicazione della norma regionale, in presenza dei richiesti presupposti fattuali, ossia di immobili abbandonati e degradati, può avvenire anche su impulso del proprietario del manufatto. L’assoluta incertezza in ordine all’impatto sul territorio di una tale previsione, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, impedisce al Comune una coerente programmazione in ambito urbanistico, rendendola in alcune parti, anche importanti, del tutto ineffettiva e ultronea.
Tuttavia pure nel caso in cui il Comune abbia già individuato gli immobili da recuperare –come nella fattispecie oggetto del presente contenzioso– si deve segnalare che il riconoscimento generalizzato e automatico di un indice edificatorio premiale di rilevante portata (da un minimo del 20% ad un massimo del 25%), accompagnato dall’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard, assume ugualmente un rilievo significativo sia in quanto la norma regionale si applica anche agli immobili già individuati come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore, sia perché gli interventi di recupero vengono ritenuti ininfluenti ai fini della quantificazione del carico urbanistico, senza alcuna considerazione per ciò che ne consegue.
L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli immobili già individuati come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore –oltre che a quelli segnalati dai privati interessati– rappresenta una violazione della potestà pianificatoria comunale poiché impone, in via non temporanea, un regime urbanistico-edilizio che prescinde –o addirittura si discosta– dalle scelte comunali sottese all’individuazione degli immobili fatiscenti o alla loro non inclusione nell’elenco.
Venendo al caso di specie, il Comune di Milano ha ricompreso l’immobile della ricorrente nell’elenco di quelli abbandonati e degradati (all. 3 del Comune) con l’obiettivo di consentirne il recupero a condizioni –indicate nell’art. 11 delle N.d.A.– e con un impatto sensibilmente diversi rispetto a quelli previsti nell’art. 40-bis. La legge regionale si sovrappone, tuttavia, alla decisione comunale perseguendo obiettivi ulteriori e, in parte, confliggenti con quelli dell’Ente territoriale.
La lesione della potestà pianificatoria comunale appare evidente e soprattutto il sacrificio delle prerogative comunali così determinatosi risulta non proporzionato, con violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, all’obiettivo perseguito dalla legge regionale, pur meritorio nelle sue finalità, di favorire il recupero degli immobili abbandonati e degradati. L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli immobili fatiscenti individuati prima della sua introduzione –come pure a quelli segnalati direttamente dai privati– stravolge la pianificazione territoriale del Comune, il quale aveva elaborato e introdotto un regime speciale per il recupero dei citati immobili, proprio tenendo in considerazione l’impatto degli interventi di riqualificazione sul tessuto urbano esistente.
Difatti, un conto è riqualificare un immobile, conservandone la medesima consistenza (oppure demolirlo, consentendo il recupero della sola superficie lorda esistente: art. 11 delle N.d.A.), un altro conto è riconoscere a titolo di beneficio un indice edificatorio aggiuntivo, oscillante tra il 20% e il 25%, cui si accompagna l’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard. Tale ultima disciplina determina un considerevole impatto sull’assetto pianificatorio in relazione a molteplici aspetti: l’aumento del peso insediativo dell’immobile recuperato non risulta bilanciato dal contestuale reperimento degli standard urbanistici e dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione, cui consegue altresì il mancato rispetto dell’indice edificatorio comunale e delle prescrizioni regionali sulla riduzione del consumo di suolo.
L’art. 40-bis, comma 5, esonera, seppure con alcune eccezioni, dall’obbligo di individuare aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, non garantendo un corretto rapporto tra il carico urbanistico gravante sulla zona interessata dall’intervento di riqualificazione e le corrispondenti dotazioni pubbliche, disattendendo in tal modo i principi che presiedono ad una corretta attività pianificatoria. Ciò risulta in violazione anche della normativa statale (D.M. n. 1444 del 1968) che si pone quale principio in materia di governo del territorio (art. 117, terzo comma, della Costituzione), in relazione al livello minimo di standard che devono essere garantiti sul territorio comunale.
La norma appare altresì irragionevole –con violazione dell’art. 3 della Costituzione, sotto altro profilo– nella parte in cui non si rapporta ai principi contenuti in altre norme della stessa legge regionale n. 12 del 2005 (in specie quelli riferiti alla riduzione del consumo di suolo: cfr. art. 1, comma 3-bis, e art. 19, comma 2, lett. b-bis) e della legge regionale n. 31 del 2014 (“Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e la riqualificazione del suolo degradato”), poiché la riduzione del consumo di suolo rappresenta un obiettivo prioritario e qualificante della pianificazione territoriale regionale, orientata ad un modello di sviluppo territoriale sostenibile (proprio con riferimento alla Regione Lombardia, cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.1 del Diritto); sebbene l’attività di riqualificazione e recupero di immobili abbandonati e degradati rientri nell’attività di rigenerazione urbana, la stessa non può porsi come indifferente rispetto agli obiettivi di limitazione del consumo del suolo libero, che altrimenti risulterebbero del tutto recessivi rispetto a quelli di recupero del patrimonio edilizio esistente dismesso e non utilizzabile. Il mancato bilanciamento e contemperamento tra i due obiettivi rende irragionevole e contraddittoria la normativa regionale sulla riqualificazione degli immobili degradati dismessi.
La Corte costituzionale ha già avuto modo di evidenziare, con riguardo all’art. 5, comma 4, della citata legge regionale n. 31 del 2014 (contenente, in origine, un divieto di ius variandi in relazione ai contenuti edificatori del documento di piano per un tempo indefinito), una intrinseca contraddittorietà nella “rigidità insita nella norma censurata (…) tale da incidere in modo non proporzionato sull’autonomia dell’ente locale, non solo perché impedisce la rivalutazione delle esigenze urbanistiche in precedenza espresse (…), ma soprattutto perché, al tempo stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi interessi generali sottostanti alle finalità di fondo della legge regionale e quindi coerenti con queste” (Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.6 del Diritto).
Inoltre viene lesa anche la funzione amministrativa comunale in ambito urbanistico, in quanto l’art. 40-bis, quale norma che opera a regime, contiene una disciplina puntuale e specifica con riguardo agli interventi di recupero del patrimonio edilizio dismesso presenti nel territorio comunale, che non lascia alcuno spazio di intervento significativo all’attività pianificatoria comunale, pure qualificata quale funzione fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della Costituzione; difatti, la previsione di premi volumetrici in misura fissa e prestabilita, accompagnata da ulteriori importanti deroghe alla disciplina urbanistica-edilizia, quali l’esenzione dall’obbligo di conferimento dello standard e dal rispetto delle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e delle distanze previste dallo strumento urbanistico locale, non soltanto impedisce al Comune qualsiasi possibilità di autonoma scelta in sede di pianificazione generale, ma è potenzialmente idonea a stravolgerla in ampi settori, alterando i rapporti tra il carico urbanistico e le dotazioni pubbliche e private.
Ciò assume un maggiore rilievo in un Comune, qual è Milano, in cui è stato introdotto il principio dell’indifferenza funzionale, ossia una libertà di scelta delle funzioni da insediare in tutti i tessuti urbani senza alcuna esclusione e senza una distinzione ed un rapporto percentuale predefinito.
Tali considerazioni trovano riscontro anche nella recente giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha ricordato come ‘nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è stato fissato dal legislatore statale tramite la disposizione per cui «sono funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: […] d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale», ma «[f]erme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (art. 14, comma 27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n. 122, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario», convertito, con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135). Il “sistema della pianificazione”, che assegna in modo preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed edilizia, non assurge, dunque, a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga [che tuttavia devono essere] quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014)’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Quindi, sebbene non possa escludersi a priori e in via astratta la legittimità dell’intervento del legislatore regionale, è necessario che quest’ultimo persegua esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare disposizioni limitative delle funzioni già assegnate agli Enti locali, anche nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, sancito nell’art. 118 della Costituzione: ‘si deve verificare nell’ambito della funzione pianificatoria riconosciuta come funzione fondamentale dei Comuni, «quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone», inteso che «[i]l giudizio di proporzionalità deve perciò svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti» (sentenza n. 179 del 2019). Proprio tale giudizio, così dinamicamente inteso, consente di verificare se, per effetto di una normativa regionale rientrante nella materia del governo del territorio, come quella sub iudice, non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”, così da salvaguardarne la portata anche rispetto al principio autonomistico ricavabile dall’art. 5 Cost.’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Nella specie, nessuna “riserva di tutela” è stata riconosciuta al Comune, consentendogli di sottrarsi, per an o per quomodo, all’applicazione della normativa derogatoria oggetto di scrutinio, e neppure è stato previsto il ricorso ad una fase di cooperazione finalizzata al coordinamento degli strumenti di pianificazione incidenti sul governo del territorio.
In tal senso appare pertinente il riferimento al precedente della Corte costituzionale sulla legge regionale del Veneto relativa al Piano casa, in cui si è affermato “che, nel consentire interventi in deroga agli strumenti urbanistici o ai regolamenti locali, il legislatore regionale veneto, in attuazione dell’intesa sancita tra Stato, Regioni ed enti locali in sede di Conferenza unificata il 01.04.2009, ha compiuto una ponderazione degli interessi pubblici coinvolti, attraverso sia la limitazione dell’entità degli interventi ammessi, sia l’esclusione di alcune componenti del patrimonio edilizio dall’ambito di operatività della legge regionale censurata e delle disposizioni di deroga. E ciò ha fatto consentendo, altresì, ai Comuni, nella sua prima applicazione, di sottrarre i propri strumenti urbanistici e i propri regolamenti all’operatività delle deroghe ammesse dalla medesima legge regionale” (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.2 del Diritto).
Del resto, il modus procedendi da ultimo richiamato è stato seguito dalla stessa Regione Lombardia, che attraverso l’art. 5, comma 6, della legge regionale n. 12 del 2009 (Piano casa) –sul punto ripreso dall’art. 3, comma 4, della legge regionale n. 4 del 2012 (Nuovo Piano casa)– ha previsto che “entro il termine perentorio del 15.10.2009 i comuni, con motivata deliberazione, possono individuare parti del proprio territorio nelle quali le disposizioni indicate nell’articolo 6 non trovano applicazione, in ragione delle speciali peculiarità storiche, paesaggistico-ambientali ed urbanistiche delle medesime, compresa l’eventuale salvaguardia delle cortine edilizie esistenti, nonché fornire prescrizioni circa le modalità di applicazione della presente legge con riferimento alla necessità di reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali e a verde”.
L’art. 40-bis sembra porsi in contrasto anche con il principio espresso dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale la riqualificazione di un determinato contesto può avvenire attraverso forme di compensazione incidenti sull’area interessata, tuttavia senza aumento della superficie coperta: al contrario l’art. 40-bis della legge regionale prevede un premio del 20% della superficie lorda, aumentabile fino al 25% al ricorrere di determinate condizioni.
Sebbene l’art. 103, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, abbia escluso una diretta applicazione nella Regione Lombardia della disciplina di dettaglio prevista, tra l’altro, dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, comunque è stata fatta salva l’applicazione dei principi contenuti nella citata disposizione statale, al cui novero certamente appartiene il divieto di consentire un aumento della superficie coperta in sede di riqualificazione di un immobile; deve ricomprendersi difatti tra i principi statali in materia di governo del territorio la previsione secondo la quale un incentivo per recuperare un bene non può spingersi fino al punto di compromettere la tutela di un altro bene, di almeno pari rango, qual è quello legato alla riduzione del consumo di suolo, peraltro fatto proprio dallo stesso legislatore regionale.
Infine, l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 appare in contrasto anche con i principi di uguaglianza e imparzialità dell’Amministrazione discendenti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione, visto che riconosce delle premialità per la riqualificazione di immobili abbandonati e degradati (anche) in favore di soggetti che non hanno provveduto a mantenerli in buono stato e che hanno favorito l’insorgere di situazioni di degrado e pericolo, a differenza dei proprietari diligenti che hanno fatto fronte agli oneri e ai doveri conseguenti al loro diritto di proprietà, ma che proprio per questo non possono beneficiare di alcun vantaggio in caso di intervento sul proprio immobile.
La norma regionale, quindi, incentiva in maniera assolutamente discriminatoria e irragionevole situazioni di abbandono e di degrado, da cui discende la possibilità di ottenere premi volumetrici e norme urbanistiche ed edificatorie più favorevoli rispetto a quelle ordinarie (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 10.02.2021 n. 371 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
FATTO
1. Con il ricorso indicato in epigrafe, la società ricorrente ha impugnato la deliberazione del Consiglio comunale di Milano 14.10.2019, n. 34, avente ad oggetto “controdeduzioni alle osservazioni e approvazione definitiva del nuovo Documento di Piano, della variante del Piano dei Servizi, comprensivo del Piano per le Attrezzature Religiose, e della variante del Piano delle Regole, costituenti il Piano di Governo del Territorio, ai sensi e per gli effetti dell’art. 13 della L.R. 11.03.2005 n. 12 e s.m.i.”, con specifico riferimento all’art. 11 delle Norme di attuazione del Piano delle Regole.
La ricorrente è proprietaria di un immobile situato nel Comune di Milano, in Via ... n. ..., avente destinazione urbanistica prevalentemente terziaria-direzionale, che è stato ricompreso tra gli “edifici abbandonati e degradati” dalla Tavola R.10 del Piano delle regole (P.d.R.) del Piano di governo del territorio (P.G.T.) e assoggettato alla disciplina dell’art. 11 delle relative Norme di attuazione (N.d.A.).
Assumendo la lesività di tale disposizione, in quanto fortemente limitativa del diritto di proprietà sia per la previsione di un termine assai stringente per l’avvio dei lavori di recupero del fabbricato individuato come abbandonato e degradato, sia per le notevoli ripercussioni in caso di inadempienza, la ricorrente ne ha chiesto l’annullamento.
Con un primo ordine di censure è stata dedotta la violazione della normativa sul procedimento amministrativo, poiché la ricorrente non sarebbe stata coinvolta direttamente nello specifico procedimento culminato con l’inserimento del complesso immobiliare di sua proprietà tra gli “edifici abbandonati e degradati”, come imposto invece dallo stesso art. 11 delle N.d.A. e dall’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, non essendo surrogabile tale adempimento con la partecipazione avvenuta nel procedimento di formazione e approvazione dello strumento urbanistico.
Con la seconda censura è stata dedotta la violazione dell’art. 23 della Costituzione, poiché la disposizione impugnata non avrebbe alcun fondamento legale, non essendo attribuita al Consiglio comunale alcuna competenza provvedimentale-sanzionatoria in ambito urbanistico-edilizio; difatti, soltanto il Sindaco potrebbe adottare ordinanze contingibili e urgenti volte a risolvere “emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale”, con particolare riferimento “all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana”, mentre farebbe capo alla dirigenza, nell’ambito dell’attività, avente natura gestoria, di vigilanza urbanistico-edilizia nel territorio comunale, l’adozione degli ordinari provvedimenti repressivi.
Con la terza doglianza la ricorrente ha dedotto l’illegittima introduzione di una fattispecie ablatoria non prevista dall’ordinamento, altresì effettuata in assenza dei presupposti procedurali e sostanziali per poterla porre in essere (mancato avviso di avvio del procedimento espropriativo, assenza della previa dichiarazione di pubblica utilità, mancata previsione di un indennizzo, ecc.).
Con il quarto motivo di ricorso si è dedotto il difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto non sarebbe stata dimostrata la situazione di degrado dell’immobile di proprietà della ricorrente, né l’insalubrità o il pericolo per la sicurezza urbana dello stesso, e nemmeno sarebbe rinvenibile negli atti impugnati una congrua motivazione a supporto della scelta comunale.
Con il quinto motivo la ricorrente ha eccepito l’incongruità, in quanto eccessivamente ristretto, del termine di diciotto mesi dalla prima individuazione dell’immobile abbandonato e degradato per avviare i lavori di recupero dello stesso, unitamente all’illogicità della previsione che assegna all’Amministrazione comunale il potere di procedere d’ufficio alla demolizione forzata in caso di mancato inizio dei lavori entro il predetto termine, oppure di rilasciare, insindacabilmente, il titolo abilitativo per l’effettuazione di interventi di risanamento conservativo.
Con il sesto motivo di ricorso la ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, introdotto con la legge regionale n. 18 del 2019, in quanto l’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R. si porrebbe in contrasto con tale disposizione regionale (sovraordinata) sopravvenuta (i) che fissa in tre anni il termine entro cui presentare richiesta del titolo edilizio per avviare i lavori di ripristino dell’immobile degradato, (ii) che riconosce un incremento dei diritti edificatori pari al 20%, con un premio eventuale di un ulteriore 5% al ricorrere di determinati presupposti, e (iii) che esenta, di regola, dall’eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale.
Con l’ultimo motivo di ricorso sono state dedotte l’irragionevolezza e la contraddittorietà del divieto di modificare la destinazione d’uso in presenza di interventi di conservazione degli edifici esistenti (consentiti fino al risanamento conservativo), sebbene l’art. 8 delle N.d.A. del Piano delle Regole stabilisca che “il mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie è sempre ammesso” e l’art. 51, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005 ammetta in maniera molto ampia la modifica della destinazione d’uso nell’ambito del tessuto urbanizzato.
Si è costituito in giudizio il Comune di Milano, che ha chiesto il rigetto del ricorso; con separata memoria, la difesa comunale ha controdedotto alle censure proposte dalla ricorrente e, in via subordinata, ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 per violazione degli artt. 3, 5, 97, 117, secondo comma, lettera p), 117, primo e terzo comma, 118, primo e secondo comma, della Costituzione, ritenendo: i) violata la competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali dei Comuni; ii) usurpata la funzione pianificatoria comunale in materia urbanistica; iii) violato l’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, quale normativa di principio in materia di governo del territorio; iv) lesi i principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa e di ragionevolezza.
Con l’ordinanza n. 928/2020 è stata fissata l’udienza pubblica per la trattazione del merito del ricorso.
In prossimità dell’udienza di merito, i difensori delle parti hanno depositato memorie e documentazione a sostegno delle rispettive posizioni.
All’udienza del 22.01.2021, uditi i difensori delle parti mediante collegamento da remoto in videoconferenza, ai sensi dell’art. 25 del decreto legge n. 137 del 2020, convertito in legge n. 176 del 2020, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. In via preliminare, deve essere modificato l’ordine di trattazione dei motivi di ricorso, poiché la sesta censura, in ragione del suo carattere assorbente, deve essere trattata prioritariamente rispetto alle altre: infatti, laddove si dovesse giungere alla conclusione che l’art. 40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18) abbia l’identico perimetro applicativo dell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R., quest’ultima disposizione dovrebbe essere annullata, poiché, in ossequio al principio di gerarchia delle fonti normative, una disposizione di natura regolamentare, qual è una norma del Piano delle regole (cfr., Consiglio di Stato, V, 16.04.2013, n. 2094; TAR Lombardia, Milano, II, 22.05.2020, n. 914), non può porsi in contrasto con una prescrizione contenuta in una legge primaria (regionale, nella specie); l’annullamento del richiamato art. 11 delle N.d.A. comunali, costituendo la “più radicale illegittimità” dedotta (Consiglio di Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5), soddisferebbe pienamente l’interesse della ricorrente e renderebbe del tutto superfluo l’esame delle ulteriori censure contenute nel ricorso.
2. Tuttavia, proprio con riguardo al sesto motivo di ricorso, la difesa comunale, dapprima, ha sostenuto la tesi della perfetta compatibilità dell’art. 11 delle N.d.A. con l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, sulla scorta di un tentativo di interpretazione della disposizione di legge in senso costituzionalmente conforme, e successivamente, in via subordinata, ne ha eccepito l’incostituzionalità per contrasto con vari precetti costituzionali, chiedendo a questo Collegio di rimettere la questione all’esame della Corte costituzionale.
3. Osserva il Collegio come la tesi svolta in via principale dal Comune non possa condividersi. Le due regolamentazioni si riferiscono, infatti, alla medesima fattispecie dettando una disciplina in tema di immobili degradati ed abbandonati e, in particolare, regole volte ad incentivare il recupero di tali immobili. Di conseguenza, sussiste una sovrapposizione tra le due discipline che conferisce alla norma regionale il ruolo di parametro di legittimità della norma regolamentare dettata dal Comune di Milano.
Inoltre, l’impossibilità di procedere ad una interpretazione dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 in modo da salvaguardare anche il disposto di cui all’art. 11 delle N.d.A. comunali risulta evidente, emergendo l’inconciliabilità delle richiamate disposizioni già da un semplice esame testuale delle stesse, poiché viene regolamentata, in maniera divergente oltre che contrastante, la medesima fattispecie, ossia la disciplina da riservare agli immobili abbandonati e degradati; difatti,
   (i) secondo il citato art. 11 delle N.d.A., l’arco temporale per l’avvio dei lavori di recupero degli immobili “abbandonati e degradati” è di diciotto mesi dalla loro prima individuazione, a prescindere dal momento in cui si è ottenuto il titolo abilitativo, mentre il comma 4 dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 fissa in tre anni il termine entro cui presentare la richiesta di rilascio del titolo edilizio o gli atti equipollenti (s.c.i.a. o c.i.l.a.) oppure “l’istanza preliminare funzionale all’ottenimento dei medesimi titoli edilizi” per procedere al recupero;
   (ii) l’art. 11 delle N.d.A. non riconosce alcun incremento dei diritti edificatori, ma al massimo consente l’integrale conservazione dell’immobile o della superficie lorda (SL) esistente, mentre l’art. 40-bis, commi 5 e 6, della legge regionale attribuisce, nella fase di recupero dell’immobile, un incremento pari al 20% dei diritti edificatori o, se maggiore, della superficie lorda esistente, cui si può aggiungere un incremento di un ulteriore 5%;
   (iii) l’art. 11 delle N.d.A., in caso di mancato tempestivo adeguamento o di demolizione d’ufficio, attribuisce l’indice di edificabilità territoriale unico pari a 0,35 mq/mq, mentre l’art. 40-bis, commi 8 e 9, della legge regionale riconosce la superficie lorda esistente fino all’indice di edificabilità previsto dallo strumento urbanistico;
   (iv) l’art. 40-bis, comma 5, della legge regionale prevede l’esenzione, di regola, dall’eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, mentre nulla è previsto dall’art. 11 delle N.d.A.
In conseguenza dell’evidenziato contrasto e della correlata recessività della normativa pianificatoria comunale rispetto a quanto stabilito dalla legge regionale, deve essere esaminata la questione, eccepita in via subordinata dalla difesa comunale, di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005: l’eventuale declaratoria di incostituzionalità della norma regionale farebbe salva la disciplina contenuta nell’art. 11 delle N.d.A., la cui applicabilità alla fattispecie oggetto di scrutinio imporrebbe l’esame delle restanti censure di ricorso, su cui indubbiamente permarrebbe l’interesse della ricorrente; in caso contrario, ossia di mancato accoglimento della questione di costituzionalità, dovrebbe pronunciarsi l’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A., in ragione della riconducibilità della fattispecie oggetto di scrutinio allo spettro di applicazione dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005.
4. In ossequio al disposto di cui all’art. 23, secondo comma, della legge n. 87 del 1953, è indispensabile procedere alla verifica della rilevanza della questione di costituzionalità nel presente giudizio e della sua non manifesta infondatezza.
5. Quanto alla rilevanza della questione, come già evidenziato al precedente punto 3, si osserva che l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 ha ad oggetto la disciplina da applicare agli immobili abbandonati e degradati (nella cui categoria è ricompreso quello della ricorrente) e si sovrappone, determinandone in astratto l’invalidità, alla regolamentazione comunale contenuta nell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R. È già stato sottolineato come la (eventuale) declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 determinerebbe l’applicazione alla fattispecie oggetto di esame dell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R.; a tal punto lo scrutinio di questo Tribunale si concentrerebbe sul citato art. 11 e dal suo esito dipenderebbero l’accoglimento o la reiezione, totali o parziali, del gravame.
La rilevanza della questione di costituzionalità tuttavia trascende le conseguenze dirette che l’art. 40-bis della legge regionale produce sull’art. 11 delle N.d.A. Difatti, in seguito all’eventuale declaratoria di incostituzionalità del citato art. 40-bis, non può escludersi che si possa comunque procedere all’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. comunali in ragione della fondatezza, anche parziale, dei restanti motivi di ricorso; appare nondimeno evidente che un tale annullamento produrrebbe effetti sensibilmente diversi rispetto a quelli che scaturirebbero dalla permanente vigenza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005.
In tale ultimo frangente, agli immobili abbandonati e degradati –compreso quello della ricorrente– si applicherebbero le regole contenute nella disposizione regionale, mentre, in caso di declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis, l’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. determinerebbe l’applicazione agli immobili fatiscenti dei principi generali afferenti alla materia edilizia ed urbanistica, riconoscendo ai titolari dei diritti sugli immobili abbandonati e degradati la facoltà di scegliere se procedere o meno alla loro riqualificazione e con le tempistiche e le modalità ritenute più opportune dai predetti soggetti.
Anche nella prospettiva comunale, l’ipotesi di annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. per violazione dell’art. 40-bis della legge regionale –ove non dichiarato incostituzionale– non lascerebbe all’Ente locale alcuno spazio per intervenire con un proprio regolamento sulla materia, se non per aspetti del tutto marginali e secondari, vista la completezza e la sostanziale autoapplicabilità della richiamata previsione regionale (“Le disposizioni di cui al presente articolo, decorsi i termini della deliberazione di cui sopra, si applicano anche agli immobili non individuati dalla medesima, per i quali il proprietario, con perizia asseverata giurata, certifichi oltre alla cessazione dell’attività, documentata anche mediante dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà a cura della proprietà o del legale rappresentante, anche uno o più degli aspetti sopra elencati, mediante prova documentale e/o fotografica”: comma 1 dell’art. 40-bis); di contro, l’eventuale declaratoria di incostituzionalità dell’art. 40-bis della legge regionale lascerebbe intatto il potere comunale di intervenire per disciplinare ex novo la materia, anche laddove fosse integralmente annullato da questo Tribunale l’art. 11 delle N.d.A.; in tal modo verrebbe, comunque, pienamente salvaguardata la potestà pianificatoria comunale.
Da tanto discende la rilevanza nel presente giudizio della questione di costituzionalità dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, poiché anche in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale della citata norma potrebbe determinarsi l’annullamento dell’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R., sebbene con conseguenze molto differenti, per entrambe le parti del giudizio, rispetto a quelle scaturenti in caso di permanente vigenza dell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005.
6. A questo punto è necessario procedere alla verifica della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, che nella specie appare certamente sussistente.
L’art. 11 delle Norme di attuazione (N.d.A.) del P.d.R. ai primi tre commi stabilisce che “1. Il recupero di edifici abbandonati e degradati, che comportano pericolo per la salute e la sicurezza urbana, situazioni di degrado ambientale e sociale, costituisce attività di pubblica utilità ed interesse generale, perseguibile secondo le modalità di cui al presente articolo.
   2. Le disposizioni del presente articolo si applicano a tutte le aree e gli edifici, indipendentemente dalla destinazione funzionale, individuati nella Tav. R.10, aggiornata con Determina Dirigenziale, con periodicità annuale, previa comunicazione di avvio del procedimento nei confronti degli interessati. Si considerano abbandonati gli edifici dismessi da più di 1 anno, che determinano pericolo per la sicurezza o per la salubrità o l’incolumità pubblica o disagio per il decoro e la qualità urbana o in presenza di amianto o di altri pericoli chimici per la salute. L’individuazione degli immobili di cui al presente comma sarà comunicata periodicamente alla Prefettura e alla Questura.
   3. Alla proprietà degli edifici abbandonati e degradati così come individuati dalla Tav. R.10, fatti salvi eventuali procedimenti in corso ad esito favorevole, è data facoltà di presentare proposta di piano attuativo o idoneo titolo abilitativo finalizzato al recupero dell’immobile; i lavori dovranno essere avviati entro 18 mesi dalla loro prima individuazione. In alternativa è fatto obbligo di procedere con la demolizione del manufatto:
      a. in caso di demolizione dell’edificio esistente su iniziativa della proprietà è riconosciuta integralmente la SL esistente. I diritti edificatori saranno annotati nel Registro delle Cessioni dei Diritti Edificatori, con possibilità di utilizzo in loco o in altre pertinenze dirette per mezzo di perequazione, secondo la normativa vigente;
      b. in caso di mancata demolizione dell’edificio esistente da parte della proprietà, fatto salvo l’esercizio dei poteri sostitutivi da parte del comune finalizzati alla demolizione, è riconosciuto l’Indice di edificabilità Territoriale unico pari a 0,35 mq/mq.
Le relative spese sostenute da parte dell’Amministrazione dovranno essere rimborsate dalla proprietà o dai titolari di diritti su tali beni. Se non rimborsate tali spese saranno riscosse coattivamente secondo normativa vigente.
Di quanto sopra verrà inviata comunicazione alla proprietà, alla prefettura e alla questura.
In caso di mancata demolizione sono ammessi esclusivamente interventi di conservazione degli edifici esistenti fino al risanamento conservativo senza modifica della destinazione d’uso
”.
L’art. 40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18) stabilisce:
   “1. I comuni, con deliberazione consiliare, anche sulla base di segnalazioni motivate e documentate, individuano entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge regionale recante ‘Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali’ gli immobili di qualsiasi destinazione d’uso, dismessi da oltre cinque anni, che causano criticità per uno o più dei seguenti aspetti: salute, sicurezza idraulica, problemi strutturali che ne pregiudicano la sicurezza, inquinamento, degrado ambientale e urbanistico-edilizio. La disciplina del presente articolo si applica, anche senza la deliberazione di cui sopra, agli immobili già individuati dai comuni come degradati e abbandonati. Le disposizioni di cui al presente articolo, decorsi i termini della deliberazione di cui sopra, si applicano anche agli immobili non individuati dalla medesima, per i quali il proprietario, con perizia asseverata giurata, certifichi oltre alla cessazione dell’attività, documentata anche mediante dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà a cura della proprietà o del legale rappresentante, anche uno o più degli aspetti sopra elencati, mediante prova documentale e/o fotografica. I comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge regionale recante ‘Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali’, mediante deliberazione del consiglio comunale possono individuare gli ambiti del proprio territorio ai quali non si applicano le disposizioni di cui ai commi 5 e 10 del presente articolo, in relazione a motivate ragioni di tutela paesaggistica.
   2. I comuni, prima delle deliberazioni di cui al comma 1, da aggiornare annualmente, notificano ai sensi del codice di procedura civile ai proprietari degli immobili dismessi e che causano criticità le ragioni dell’individuazione, di modo che questi, entro 30 giorni dal ricevimento di detta comunicazione, possano dimostrare, mediante prove documentali, l’assenza dei presupposti per l’inserimento.
   3. Le disposizioni del presente articolo non si applicano in ogni caso:
      a) agli immobili eseguiti in assenza di titolo abilitativo o in totale difformità rispetto allo stesso titolo, a esclusione di quelli per i quali siano stati rilasciati titoli edilizi in sanatoria;
      b) agli immobili situati in aree soggette a vincoli di inedificabilità assoluta.
   4. La richiesta di piano attuativo, la richiesta di permesso di costruire, la segnalazione certificata di inizio attività, la comunicazione di inizio lavori asseverata o l’istanza di istruttoria preliminare funzionale all’ottenimento dei medesimi titoli edilizi devono essere presentati entro tre anni dalla notifica di cui al comma 2. La deliberazione di cui al comma 1 attesta l’interesse pubblico al recupero dell’immobile individuato, anche ai fini del perfezionamento dell’eventuale procedimento di deroga ai sensi dell’articolo 40.
   5. Gli interventi sugli immobili di cui al comma 1 usufruiscono di un incremento del 20 per cento dei diritti edificatori derivanti dall’applicazione dell’indice di edificabilità massimo previsto o, se maggiore di quest’ultimo, della superficie lorda esistente e sono inoltre esentati dall’eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, a eccezione di quelle aree da reperire all’interno dei comparti edificatori o degli immobili oggetto del presente articolo, già puntualmente individuate all’interno degli strumenti urbanistici e da quelle dovute ai sensi della pianificazione territoriale sovraordinata. A tali interventi non si applicano gli incrementi dei diritti edificatori di cui all’articolo 11, comma 5. Nei casi di demolizione l’incremento dei diritti edificatori del 20 per cento si applica per un periodo massimo di dieci anni dalla data di individuazione dell'immobile quale dismesso.
   6. È riconosciuto un ulteriore incremento dell’indice di edificabilità massimo previsto dal PGT o rispetto alla superficie lorda (SL) esistente del 5 per cento per interventi che assicurino una superficie deimpermeabilizzata e destinata a verde non inferiore all’incremento di SL realizzato, nonché per interventi che conseguano una diminuzione dell’impronta al suolo pari ad almeno il 10 per cento. A tal fine possono essere utilizzate anche le superfici situate al di fuori del lotto di intervento, nonché quelle destinate a giardino pensile, cosi come regolamentate dalla norma UNI 11235/2007.
   7. Se il proprietario non provvede entro il termine di cui al comma 4, non può più accedere ai benefici di cui ai commi 5 e 6 e il comune lo invita a presentare una proposta di riutilizzo, assegnando un termine da definire in ragione della complessità della situazione riscontrata, e comunque non inferiore a mesi quattro e non superiore a mesi dodici.
   8. Decorso il termine di cui al comma 7 senza presentazione delle richieste o dei titoli di cui al comma 4, il comune ingiunge al proprietario la demolizione dell’edificio o degli edifici interessati o, in alternativa, i necessari interventi di recupero e/o messa in sicurezza degli immobili, da effettuarsi entro un anno. La demolizione effettuata dalla proprietà determina il diritto ad un quantitativo di diritti edificatori pari alla superficie lorda dell'edificio demolito fino all'indice di edificabilità previsto per l’area. I diritti edificatori generati dalla demolizione edilizia possono sempre essere perequati e confluiscono nel registro delle cessioni dei diritti edificatori di cui all'articolo 11, comma 4.
   9. Decorso infruttuosamente il termine di cui al comma 8, il comune provvede in via sostitutiva, con obbligo di rimborso delle relative spese a carico della proprietà, cui è riconosciuta la SL esistente fino all’indice di edificabilità previsto dallo strumento urbanistico.
   10. Tutti gli interventi di rigenerazione degli immobili di cui al presente articolo sono realizzati in deroga alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento, sulle distanze previste dagli strumenti urbanistici comunali vigenti e adottati e ai regolamenti edilizi, fatte salve le norme statali e quelle sui requisiti igienico-sanitari.
   11. Per gli immobili di proprietà degli enti pubblici, si applicano le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 a condizione che, entro tre anni dalla individuazione di cui al comma 1, gli enti proprietari approvino il progetto di rigenerazione ovvero avviino le procedure per la messa all’asta, l’alienazione o il conferimento a un fondo.
   11-bis. Gli interventi di cui al presente articolo riguardanti il patrimonio edilizio soggetto a tutela culturale e paesaggistica sono attivati previo coinvolgimento del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo e nel rispetto delle prescrizioni di tutela previste dal piano paesaggistico regionale ai sensi del d.lgs. 42/2004
” (comma aggiunto dall’art. 13, comma 1, lett. b), legge reg. 09.06.2020, n. 13).
Tale disposizione regionale si rivela sostanzialmente completa ed esaustiva con riguardo al trattamento giuridico da riservare agli immobili abbandonati e degradati, residuando in capo ai Comuni compiti meramente attuativi ed esecutivi, con una parziale eccezione per i Comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, i quali, per motivate ragioni di tutela paesaggistica, possono individuare gli ambiti del proprio territorio a cui non si applica, in caso di riqualificazione, l’incremento del 20% dei diritti edificatori e in relazione ai quali non si può derogare alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e sulle distanze.
7. L’applicazione della disposizione regionale oggetto di scrutinio comprime in maniera eccessiva –con violazione degli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione– la potestà pianificatoria comunale, in particolare dei Comuni che hanno più di 20.000 abitanti (come il Comune di Milano), non consentendo a siffatti Enti alcun intervento correttivo o derogatorio in grado di valorizzare, oltre alla propria autonomia pianificatoria, anche le peculiarità dei singoli territori di cui i Comuni sono la più immediata e diretta espressione.
La normativa regionale risulta particolarmente analitica sia nell’individuazione dei presupposti di operatività che nel procedimento da seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino il potere di pianificazione comunale e l’interesse ad un assetto ordinato del territorio che tale pianificazione mira a realizzare. La formulazione letterale della previsione e la puntuale regolamentazione dettata comportano, dunque, il fallimento in radice di ogni tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme atteso che la normativa non lascia spazi per poter “adeguare” in via interpretativa il dettato di legge alla superiori previsioni costituzionali (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 218 del 10.10.2020, punto 2.2 del Diritto, che richiama le sentenze n. 204 e n. 95 del 2016).
Infatti, il legislatore regionale ha imposto, a regime, una disciplina urbanistico-edilizia in ordine al recupero degli immobili fatiscenti ingiustificatamente rigida e uniforme, operante a prescindere dalle decisioni comunali e in grado di produrre un impatto sulla pianificazione locale molto incisivo e potenzialmente idoneo a stravolgere l’assetto del territorio, o di parti importanti dello stesso, in maniera del tutto dissonante rispetto a quanto stabilito nello strumento urbanistico generale.
A ben vedere, pur essendo rimessa ordinariamente al Consiglio comunale l’individuazione degli immobili abbandonati e degradati, è comunque consentito al proprietario di un immobile versante nelle predette condizioni, indipendentemente dall’inserimento dello stesso nell’elenco formato dal Comune, di certificare con perizia asseverata giurata, oltre alla cessazione dell’attività, anche la sussistenza dei presupposti per beneficiare del regime di favore di cui all’art. 40-bis.
Il Comune quindi non ha la facoltà di selezionare, discrezionalmente, gli immobili da recuperare, in quanto l’applicazione della norma regionale, in presenza dei richiesti presupposti fattuali, ossia di immobili abbandonati e degradati, può avvenire anche su impulso del proprietario del manufatto. L’assoluta incertezza in ordine all’impatto sul territorio di una tale previsione, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, impedisce al Comune una coerente programmazione in ambito urbanistico, rendendola in alcune parti, anche importanti, del tutto ineffettiva e ultronea.
Tuttavia pure nel caso in cui il Comune abbia già individuato gli immobili da recuperare –come nella fattispecie oggetto del presente contenzioso– si deve segnalare che il riconoscimento generalizzato e automatico di un indice edificatorio premiale di rilevante portata (da un minimo del 20% ad un massimo del 25%), accompagnato dall’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard, assume ugualmente un rilievo significativo sia in quanto la norma regionale si applica anche agli immobili già individuati come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore, sia perché gli interventi di recupero vengono ritenuti ininfluenti ai fini della quantificazione del carico urbanistico, senza alcuna considerazione per ciò che ne consegue.
L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli immobili già individuati come abbandonati e degradati dal Comune prima della sua entrata in vigore –oltre che a quelli segnalati dai privati interessati– rappresenta una violazione della potestà pianificatoria comunale poiché impone, in via non temporanea, un regime urbanistico-edilizio che prescinde –o addirittura si discosta– dalle scelte comunali sottese all’individuazione degli immobili fatiscenti o alla loro non inclusione nell’elenco.
Venendo al caso di specie, il Comune di Milano ha ricompreso l’immobile della ricorrente nell’elenco di quelli abbandonati e degradati (all. 3 del Comune) con l’obiettivo di consentirne il recupero a condizioni –indicate nell’art. 11 delle N.d.A.– e con un impatto sensibilmente diversi rispetto a quelli previsti nell’art. 40-bis. La legge regionale si sovrappone, tuttavia, alla decisione comunale perseguendo obiettivi ulteriori e, in parte, confliggenti con quelli dell’Ente territoriale.
8. La lesione della potestà pianificatoria comunale appare evidente e soprattutto il sacrificio delle prerogative comunali così determinatosi risulta non proporzionato, con violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, all’obiettivo perseguito dalla legge regionale, pur meritorio nelle sue finalità, di favorire il recupero degli immobili abbandonati e degradati. L’applicazione dell’art. 40-bis anche agli immobili fatiscenti individuati prima della sua introduzione –come pure a quelli segnalati direttamente dai privati– stravolge la pianificazione territoriale del Comune, il quale aveva elaborato e introdotto un regime speciale per il recupero dei citati immobili, proprio tenendo in considerazione l’impatto degli interventi di riqualificazione sul tessuto urbano esistente.
Difatti, un conto è riqualificare un immobile, conservandone la medesima consistenza (oppure demolirlo, consentendo il recupero della sola superficie lorda esistente: art. 11 delle N.d.A.), un altro conto è riconoscere a titolo di beneficio un indice edificatorio aggiuntivo, oscillante tra il 20% e il 25%, cui si accompagna l’esenzione dall’eventuale obbligo di reperimento degli standard.
Tale ultima disciplina determina un considerevole impatto sull’assetto pianificatorio in relazione a molteplici aspetti: l’aumento del peso insediativo dell’immobile recuperato non risulta bilanciato dal contestuale reperimento degli standard urbanistici e dalla realizzazione delle opere di urbanizzazione, cui consegue altresì il mancato rispetto dell’indice edificatorio comunale e delle prescrizioni regionali sulla riduzione del consumo di suolo. L’art. 40-bis, comma 5, esonera, seppure con alcune eccezioni, dall’obbligo di individuare aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, non garantendo un corretto rapporto tra il carico urbanistico gravante sulla zona interessata dall’intervento di riqualificazione e le corrispondenti dotazioni pubbliche, disattendendo in tal modo i principi che presiedono ad una corretta attività pianificatoria.
Ciò risulta in violazione anche della normativa statale (D.M. n. 1444 del 1968) che si pone quale principio in materia di governo del territorio (art. 117, terzo comma, della Costituzione), in relazione al livello minimo di standard che devono essere garantiti sul territorio comunale.
9. La norma appare altresì irragionevole –con violazione dell’art. 3 della Costituzione, sotto altro profilo– nella parte in cui non si rapporta ai principi contenuti in altre norme della stessa legge regionale n. 12 del 2005 (in specie quelli riferiti alla riduzione del consumo di suolo: cfr. art. 1, comma 3-bis, e art. 19, comma 2, lett. b-bis) e della legge regionale n. 31 del 2014 (“Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e la riqualificazione del suolo degradato”), poiché la riduzione del consumo di suolo rappresenta un obiettivo prioritario e qualificante della pianificazione territoriale regionale, orientata ad un modello di sviluppo territoriale sostenibile (proprio con riferimento alla Regione Lombardia, cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.1 del Diritto); sebbene l’attività di riqualificazione e recupero di immobili abbandonati e degradati rientri nell’attività di rigenerazione urbana, la stessa non può porsi come indifferente rispetto agli obiettivi di limitazione del consumo del suolo libero, che altrimenti risulterebbero del tutto recessivi rispetto a quelli di recupero del patrimonio edilizio esistente dismesso e non utilizzabile. Il mancato bilanciamento e contemperamento tra i due obiettivi rende irragionevole e contraddittoria la normativa regionale sulla riqualificazione degli immobili degradati dismessi.
La Corte costituzionale ha già avuto modo di evidenziare, con riguardo all’art. 5, comma 4, della citata legge regionale n. 31 del 2014 (contenente, in origine, un divieto di ius variandi in relazione ai contenuti edificatori del documento di piano per un tempo indefinito), una intrinseca contraddittorietà nella “rigidità insita nella norma censurata (…) tale da incidere in modo non proporzionato sull’autonomia dell’ente locale, non solo perché impedisce la rivalutazione delle esigenze urbanistiche in precedenza espresse (…), ma soprattutto perché, al tempo stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi interessi generali sottostanti alle finalità di fondo della legge regionale e quindi coerenti con queste” (Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.6 del Diritto).
10. Inoltre viene lesa anche la funzione amministrativa comunale in ambito urbanistico, in quanto l’art. 40-bis, quale norma che opera a regime, contiene una disciplina puntuale e specifica con riguardo agli interventi di recupero del patrimonio edilizio dismesso presenti nel territorio comunale, che non lascia alcuno spazio di intervento significativo all’attività pianificatoria comunale, pure qualificata quale funzione fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p), della Costituzione; difatti, la previsione di premi volumetrici in misura fissa e prestabilita, accompagnata da ulteriori importanti deroghe alla disciplina urbanistica-edilizia, quali l’esenzione dall’obbligo di conferimento dello standard e dal rispetto delle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento e delle distanze previste dallo strumento urbanistico locale, non soltanto impedisce al Comune qualsiasi possibilità di autonoma scelta in sede di pianificazione generale, ma è potenzialmente idonea a stravolgerla in ampi settori, alterando i rapporti tra il carico urbanistico e le dotazioni pubbliche e private.
Ciò assume un maggiore rilievo in un Comune, qual è Milano, in cui è stato introdotto il principio dell’indifferenza funzionale, ossia una libertà di scelta delle funzioni da insediare in tutti i tessuti urbani senza alcuna esclusione e senza una distinzione ed un rapporto percentuale predefinito.
Tali considerazioni trovano riscontro anche nella recente giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha ricordato come ‘nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, il punto di sintesi è stato fissato dal legislatore statale tramite la disposizione per cui «sono funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: […] d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale», ma «[f]erme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (art. 14, comma 27, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, nella legge 30.07.2010, n. 122, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario», convertito, con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135). Il “sistema della pianificazione”, che assegna in modo preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la valutazione generale degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica ed edilizia, non assurge, dunque, a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –fonte normativa primaria, sovraordinata agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga [che tuttavia devono essere] quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti (sentenze n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014)’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Quindi, sebbene non possa escludersi a priori e in via astratta la legittimità dell’intervento del legislatore regionale, è necessario che quest’ultimo persegua esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare disposizioni limitative delle funzioni già assegnate agli Enti locali, anche nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale, sancito nell’art. 118 della Costituzione: ‘si deve verificare nell’ambito della funzione pianificatoria riconosciuta come funzione fondamentale dei Comuni, «quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone», inteso che «[i]l giudizio di proporzionalità deve perciò svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti» (sentenza n. 179 del 2019). Proprio tale giudizio, così dinamicamente inteso, consente di verificare se, per effetto di una normativa regionale rientrante nella materia del governo del territorio, come quella sub iudice, non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”, così da salvaguardarne la portata anche rispetto al principio autonomistico ricavabile dall’art. 5 Cost.’ (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.1 del Diritto).
Nella specie, nessuna “riserva di tutela” è stata riconosciuta al Comune, consentendogli di sottrarsi, per an o per quomodo, all’applicazione della normativa derogatoria oggetto di scrutinio, e neppure è stato previsto il ricorso ad una fase di cooperazione finalizzata al coordinamento degli strumenti di pianificazione incidenti sul governo del territorio.
In tal senso appare pertinente il riferimento al precedente della Corte costituzionale sulla legge regionale del Veneto relativa al Piano casa, in cui si è affermato “che, nel consentire interventi in deroga agli strumenti urbanistici o ai regolamenti locali, il legislatore regionale veneto, in attuazione dell’intesa sancita tra Stato, Regioni ed enti locali in sede di Conferenza unificata il 01.04.2009, ha compiuto una ponderazione degli interessi pubblici coinvolti, attraverso sia la limitazione dell’entità degli interventi ammessi, sia l’esclusione di alcune componenti del patrimonio edilizio dall’ambito di operatività della legge regionale censurata e delle disposizioni di deroga. E ciò ha fatto consentendo, altresì, ai Comuni, nella sua prima applicazione, di sottrarre i propri strumenti urbanistici e i propri regolamenti all’operatività delle deroghe ammesse dalla medesima legge regionale” (Corte costituzionale, sentenza n. 119 del 23.06.2020, punto 7.2 del Diritto).
Del resto, il modus procedendi da ultimo richiamato è stato seguito dalla stessa Regione Lombardia, che attraverso l’art. 5, comma 6, della legge regionale n. 12 del 2009 (Piano casa) –sul punto ripreso dall’art. 3, comma 4, della legge regionale n. 4 del 2012 (Nuovo Piano casa)– ha previsto che “entro il termine perentorio del 15.10.2009 i comuni, con motivata deliberazione, possono individuare parti del proprio territorio nelle quali le disposizioni indicate nell’articolo 6 non trovano applicazione, in ragione delle speciali peculiarità storiche, paesaggistico-ambientali ed urbanistiche delle medesime, compresa l’eventuale salvaguardia delle cortine edilizie esistenti, nonché fornire prescrizioni circa le modalità di applicazione della presente legge con riferimento alla necessità di reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali e a verde”.
Ugualmente, la salvaguardia delle prerogative pianificatorie comunali è riscontrabile altresì nella normativa regionale in materia di recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti –artt. 63-65 della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005– dove si prevede la possibilità per il Comune di escludere dall’applicazione sul proprio territorio del regime ivi contemplato [art. 65 – “Ambiti di esclusione – “1. Le disposizioni del presente capo non si applicano negli ambiti territoriali per i quali i comuni, con motivata deliberazione del Consiglio comunale, ne abbiano disposta l’esclusione, in applicazione dell’articolo 1, comma 7, della legge regionale 15.07.1996, n. 15 (Recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti).
   1-bis. Fermo restando quanto disposto dal comma 1, i comuni, con motivata deliberazione, possono ulteriormente disporre l’esclusione di parti del territorio comunale, nonché di determinate tipologie di edifici o di intervento, dall’applicazione delle disposizioni del presente capo.
   1-ter. Con il medesimo provvedimento di cui al comma 1-bis, i comuni possono, altresì, individuare ambiti territoriali nei quali gli interventi di recupero ai fini abitativi dei sottotetti, se volti alla realizzazione di nuove unità immobiliari, sono, in ogni caso, subordinati all’obbligo di reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali nella misura prevista dall’articolo 64, comma 3.
   1-quater. Le determinazioni assunte nelle deliberazioni comunali di cui ai commi 1, 1-bis e 1-ter hanno efficacia non inferiore a cinque anni e comunque fino all’approvazione dei PGT ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3. Il piano delle regole individua le parti del territorio comunale nonché le tipologie di edifici o di intervento escluse dall’applicazione delle disposizioni del presente capo.
   1-quinquies. In sede di redazione del PGT, i volumi di sottotetto recuperati ai fini abitativi in applicazione della l.r. n. 15/1996, ovvero delle disposizioni del presente capo, sono computati ai sensi dell’articolo 10, comma 3, lettera b
”].
Dai richiamati esempi emerge come, in alcuni frangenti, lo stesso legislatore regionale lombardo si è dimostrato rispettoso delle prerogative pianificatorie comunali, pur non rinunciando a disciplinare la materia del governo del territorio nell’esercizio delle proprie attribuzioni.
Diversamente, in presenza di prescrizioni di durata indefinita, in carenza di profili interlocutivi e nell’assolutezza, finanche contraddittoria con gli obiettivi posti in sede regionale, risultanti dalla disciplina contenuta nell’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005, non può ritenersi superato, “ai sensi del legittimo esercizio del principio di sussidiarietà verticale, il test di proporzionalità con riguardo all’adeguatezza e necessarietà della limitazione imposta all’autonomia comunale in merito a una funzione amministrativa che il legislatore statale ha individuato come connotato fondamentale dell’autonomia comunale” (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 179 del 16.07.2019, punto 12.7 del Diritto).
11. L’art. 40-bis sembra porsi in contrasto anche con il principio espresso dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo il quale la riqualificazione di un determinato contesto può avvenire attraverso forme di compensazione incidenti sull’area interessata, tuttavia senza aumento della superficie coperta: al contrario l’art. 40-bis della legge regionale prevede un premio del 20% della superficie lorda, aumentabile fino al 25% al ricorrere di determinate condizioni.
Sebbene l’art. 103, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, abbia escluso una diretta applicazione nella Regione Lombardia della disciplina di dettaglio prevista, tra l’altro, dall’art. 3-bis del D.P.R. n. 380 del 2001, comunque è stata fatta salva l’applicazione dei principi contenuti nella citata disposizione statale, al cui novero certamente appartiene il divieto di consentire un aumento della superficie coperta in sede di riqualificazione di un immobile; deve ricomprendersi difatti tra i principi statali in materia di governo del territorio la previsione secondo la quale un incentivo per recuperare un bene non può spingersi fino al punto di compromettere la tutela di un altro bene, di almeno pari rango, qual è quello legato alla riduzione del consumo di suolo, peraltro fatto proprio dallo stesso legislatore regionale.
12. Infine, l’art. 40-bis della legge regionale n. 12 del 2005 appare in contrasto anche con i principi di uguaglianza e imparzialità dell’Amministrazione discendenti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione, visto che riconosce delle premialità per la riqualificazione di immobili abbandonati e degradati (anche) in favore di soggetti che non hanno provveduto a mantenerli in buono stato e che hanno favorito l’insorgere di situazioni di degrado e pericolo, a differenza dei proprietari diligenti che hanno fatto fronte agli oneri e ai doveri conseguenti al loro diritto di proprietà, ma che proprio per questo non possono beneficiare di alcun vantaggio in caso di intervento sul proprio immobile.
La norma regionale, quindi, incentiva in maniera assolutamente discriminatoria e irragionevole situazioni di abbandono e di degrado, da cui discende la possibilità di ottenere premi volumetrici e norme urbanistiche ed edificatorie più favorevoli rispetto a quelle ordinarie.
13. In conclusione, il giudizio deve essere sospeso e gli atti vanno trasmessi alla Corte Costituzionale in quanto risulta rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18), recante “Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione, secondo quanto specificato in precedenza.
14. Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e sulle spese resta riservata alla decisione definitiva.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), non definitivamente pronunciando:
   a)
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005 (inserito dall’art. 4, comma 1, lett. a), legge reg. 26.11.2019, n. 18), recante “Disposizioni relative al patrimonio edilizio dismesso con criticità”, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione;
   b) dispone la sospensione del presente giudizio;
   c) ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale;
   d) ordina che, a cura della Segreteria della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente della Giunta Regionale della Lombardia e comunicata al Presidente del Consiglio Regionale della Lombardia;
   e) riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 10.02.2021 n. 371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

 

Regione Lombardia, ancóra una censura della Consulta:
illegittimo l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della L.R. n. 12/2005 che consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio oltre la naturale scadenza quinquennale.

ESPROPRIAZIONE: L.r. Lombardia 11.03.2005, n. 12 (art. 9, comma 12) – Vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione ad opera della pubblica amministrazione di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi – Questione di legittimità costituzionale in via incidentale – Asserita violazione dei precetti costituzionali della temporaneità e della indennizzabilità dei vincoli espropriativi (art. 42 Cost.) e pregiudizio della competenza concorrente in materia di governo del territorio (art. 117 Cost.) – Illegittimità costituzionale in parte qua.
Va dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
La Regione, disciplinando una nuova ipotesi di attuazione del vincolo espropriativo, ha infatti superato i limiti imposti alla sua competenza concorrente in materia (art. 117, comma 3, Cost.), con l’introduzione di una nuova condizione in cui il vincolo preordinato all’esproprio si consolida, pur in mancanza di un «serio inizio della procedura espropriativa», condizione ritenuta invece essenziale dalla giurisprudenza costituzionale e la cui ricorrenza è stata individuata dal legislatore statale –esclusivamente al quale spetta la relativa competenza– solo nella dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
La disposizione regionale censurata si pone peraltro in contrasto con l’art. 42 Cost., poiché consente l’esercizio del potere ablatorio a tempo indeterminato, in ragione di un provvedimento, quale l’approvazione del piano triennale delle opere pubbliche, la cui adozione non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e che può essere indefinitamente rinnovato, senza necessità né di motivazione, né di indennizzo
(Corte Costituzionale, sentenza 18.12.2020 n. 270 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONEReiterazione di vincoli espropriativi a tempo indeterminato: la Corte costituzionale ne ribadisce le ragioni di illegittimità costituzionale.
La Corte costituzionale, in accoglimento di una questione sollevata dal Tar per la Lombardia–Brescia, dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge regionale (l’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, recante “Legge per il governo del territorio”), con la quale, in sostanza, si prevedeva la possibilità di reiterare, a tempo indeterminato, l’efficacia di vincoli preordinati all’esproprio, oltre quindi il termine quinquennale stabilito dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 327 del 2001 (c.d. testo unico delle espropriazioni).
In motivazione, la Corte ribadisce che la proroga, in via legislativa, dei vincoli espropriativi costituisce un “fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza”.
---------------
Espropriazione per pubblico interesse – Regione Lombardia – Vincolo preordinato all’esproprio – Reiterazione – Violazione degli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. – Illegittimità costituzionale in parte qua.
E’ incostituzionale, per violazione degli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost., l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, in quanto, consentendo la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio ben oltre la naturale scadenza quinquennale e –in virtù del richiamo al programma triennale delle opere pubbliche– per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento di alcun indennizzo, realizza un effetto che si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale in materia di espropriazione per pubblica utilità, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario (1).
---------------

   (1) I. – Con la sentenza in rassegna, la Corte costituzionale ribadisce la propria costante giurisprudenza in materia di durata del vincolo espropriativo, confermando che la legge (in questo caso, si trattava di una norma della legge generale della Regione Lombardia in materia di governo del territorio) non può prevedere una protrazione indefinita del vincolo, ben oltre il termine quinquennale individuato dall’art. 9, comma 2, del t.u. espropriazioni (di cui al d.P.R. n. 327 del 2001), termine che rappresenta il “punto di equilibrio”, individuato dal legislatore, oltre il quale non è costituzionalmente tollerabile il sacrificio del diritto di proprietà privata senza il riconoscimento di un adeguato indennizzo.
La questione era stata sollevata dal Tar per la Lombardia–Brescia, sezione II, con ordinanza 14.08.2019, n. 740 (in Riv. giur. edilizia, 2019, I, 1250, nonché oggetto della News US n. 109 del 16.10.2019, cui si rinvia per gli ampi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza). Nel giudizio a quo, era impugnato l’atto contenente la dichiarazione di pubblica utilità, insieme ai successivi provvedimenti, adottati nell’ambito di una procedura espropriativa iniziata dal Comune di Agro per la realizzazione di una strada di collegamento progettata, in parte, su un fondo privato.
Il vincolo preordinato all’esproprio, derivante dall’approvazione del piano comunale di governo del territorio, avrebbe esaurito la propria durata quinquennale nel novembre 2017 ma, in applicazione della norma regionale censurata, esso risultava prorogato sine die per effetto dell’avvenuto inserimento dell’opera nel programma triennale delle opere pubbliche, approvato nell’aprile del 2017.
In base alla norma regionale oggetto dei dubbi sollevati dal Tar per la Lombardia, infatti, i vincoli preordinati all’esproprio, aventi una durata pari a cinque anni, “decadono qualora, entro tale termine, l'intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento, ovvero non sia stato approvato lo strumento attuativo che ne preveda la realizzazione”.
II. – La Corte costituzionale, dunque, dichiara l’illegittimità costituzionale di tale norma per violazione degli artt. 42, comma 3, e 117, comma 3, Cost., concludendo invece per l’inammissibilità (per difetto di motivazione) della questione in relazione al parametro di cui agli artt. 117, comma 1, Cost., e 1 del Protocollo addizionale alla CEDU. Questo, in sintesi, il percorso seguito dalla Corte per giungere –dopo aver superato alcune questioni di inammissibilità– alla declaratoria di incostituzionalità:
      a) la Corte premette, anzitutto, un’articolata ricostruzione del quadro normativo statale vigente in subiecta materia, ripercorrendone le tappe salienti e ricordando quanto segue:
         a1) l’espropriazione per motivi d’interesse generale, governata dall’art. 42, comma 3, Cost., è un procedimento preordinato all’emanazione di un provvedimento che trasferisce la proprietà o altro diritto reale su di un bene; le fasi del procedimento, finalizzate all’emissione del decreto di esproprio, sono scandite dall’art. 8 del t.u. espropriazioni, e sono costituite dalla sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio, dalla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera che deve essere realizzata e dalla determinazione dell’indennità di espropriazione;
         a2) ai sensi dell’art. 9 del medesimo testo unico, un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’espropriazione quando diventa efficace, in base alla specifica normativa statale e regionale di riferimento, l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che preveda la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità; l’effetto del vincolo comporta che il proprietario del bene, pur restando titolare del diritto sulla cosa, non può utilizzarla in contrasto con la destinazione dell’opera, fino a che l’amministrazione non proceda all’espropriazione;
         a3) il legislatore, chiamato ad adeguarsi ai principi enunciati con la sentenza 29.05.1968, n. 55 (in Giur. cost., 1968), ha stabilito, con l’art. 2 della legge n. 1187 del 1968, una durata quinquennale del vincolo espropriativo, periodo durante il quale la necessità di corrispondere un indennizzo è esclusa;
         a4) con la sentenza 20.05.1999, n. 179 (in Foro it., 1999, I, 1705, con nota di BENINI, in Corriere giur., 1999, 830, con note di CARBONE e GIOIA, in Giorn. dir. amm., 1999, 851, con nota di MAZZARELLI, in Urb. e appalti, 1999, 712, con nota di LIGUORI, in Giust. civ., 1999, I, 2597, con nota di STELLA RICHTER, in Appalti urbanistica edilizia, 1999, 395, con nota di GISONDI, in Riv. amm., 1999, 274, con nota di CACCIAVILLANI, in Giur. it., 1999, 2155, con nota di DE MARZO, in Le Regioni, 1999, 804, con nota di CIVITARESE MATTEUCCI, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1999, 873, con nota di BONATTI, ed in Guida al dir., 1999, 22, 133, con nota di RICCIO), la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2), 3) e 4), e 40 della legge n. 1150 del 1942, e 2, primo comma, della legge n. 1187 del 1968, nella parte in cui consentiva alla pubblica amministrazione di reiterare i vincoli espropriativi scaduti senza la previsione di un indennizzo;
         a5) con l’adozione del testo unico sulle espropriazioni, di cui al già richiamato d.P.R. n. 327 del 2001, il legislatore statale si è adeguato alle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, prevedendo la durata quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio (art. 9, comma 2; si tratta del c.d. periodo di franchigia, durante il quale al proprietario del bene non è dovuto alcun indennizzo), nonché la decadenza dal vincolo se, entro tale termine, non è dichiarata la pubblica utilità dell’opera (art. 9, comma 3); il vincolo può essere motivatamente reiterato, subordinatamente alla previa approvazione di un nuovo piano urbanistico generale o di una sua variante (art. 9, comma 4), e con la corresponsione di un apposito indennizzo (art. 39) – ciò, fermo restando che le stesse garanzie devono sorreggere un’eventuale proroga del vincolo prima della sua naturale scadenza (in tal senso, Corte cost., sentenza 20.07.2007, n. 314, in Foro it., 2009, I, 1711);
         a6) la dichiarazione di pubblica utilità, che deve intervenire entro il termine di efficacia del vincolo espropriativo (art. 13, comma 1, t.u. espropriazioni), è l’atto con il quale vengono individuati in concreto i motivi di interesse generale cui l’art. 42, comma 3, Cost. subordina l’espropriazione della proprietà privata nei casi previsti dalla legge (cfr. Corte cost., sentenza 08.05.1995, n. 155, in Foro it., 1995, I, 2389), e segna l’effettivo avvio della procedura espropriativa, nel necessario rispetto del contraddittorio tra i cittadini interessati e l’amministrazione;
         a7) un “ruolo centrale”, nella disciplina in esame, è poi svolto dalla c.d. dichiarazione implicita di pubblica utilità, la quale (a norma dell’art. 12 del d.P.R. n. 327 del 2001) si intende disposta “quando l’autorità espropriante approva a tale fine il progetto definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità, ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di lottizzazione, il piano di recupero, il piano di ricostruzione, il piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero quando è approvato il piano di zona”, nonché nei casi in cui la normativa vigente prevede che equivalga “a dichiarazione di pubblica utilità l’approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore o attuativo, la definizione di una conferenza di servizi o il perfezionamento di un accordo di programma, ovvero il rilascio di una concessione, di una autorizzazione o di un atto avente effetti equivalenti”;
         a8) a livello statale, poi, un ruolo decisivo gioca il programma triennale dei lavori pubblici, attualmente previsto dall’art. 21 del codice dei contratti pubblici (di cui al d.lgs. n. 50 del 2016) il quale disciplina unitariamente la programmazione, sia per i lavori pubblici che per i servizi e le forniture, demandando (comma 8) a un decreto ministeriale, di natura regolamentare, la normazione di dettaglio; tale programma triennale, ai sensi dell’art. 3, lettera ggggg-sexies), del cod. contratti pubblici, rappresenta il documento, da aggiornare annualmente, che le amministrazioni adottano al fine di individuare i lavori da avviare nel triennio;
         a9) l’art. 5, comma 5, dell’apposito regolamento (di cui al d.m. 16.01.2018, n. 14) stabilisce le modalità di partecipazione dei privati interessati in relazione alla definizione del contenuto del programma in questione, prevedendo la possibilità di presentare osservazioni prima dell’approvazione definitiva del programma;
      b) a livello regionale, e con specifico riguardo alla disciplina vigente nella Regione Lombardia, la Corte poi ricorda che:
         b1) la disciplina sul governo del territorio, contenuta nella legge regionale n. 12 del 2005, nonché la disciplina sul procedimento di espropriazione (di cui alla legge della Regione Lombardia n. 3 del 2009) sono state varate nell’esercizio della potestà legislativa concorrente, come previsto dallo stesso testo unico delle espropriazioni (art. 5, comma 1), posto che l’espropriazione costituisce una funzione trasversale, che può esplicarsi anche nella materia concorrente del “governo del territorio” nella quale, come più volte riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale, rientra l’urbanistica (cfr. sentenza 26.06.2020, n. 130, e sentenza 05.12.2019, n. 254, quest’ultima in Quad. dir. e politica ecclesiastica, 2019, 697, con nota di MARCHEI, in Dir. pen. globalizzazione, 2020, 33, con nota di PLACANICA, ed in Giur. cost., 2019, 3131, con nota di GORLANI);
         b2) con specifico riferimento alle prime due fasi della procedura espropriativa (che vengono in rilievo nella fattispecie di cui al giudizio a quo), la disciplina regionale lombarda presenta delle differenze rispetto a quella statale, in quanto (per un verso) fa discendere un “peculiare effetto” dall’inserimento dell’opera pubblica o di pubblica utilità nel programma triennale delle opere pubbliche (ossia, la mancata decadenza del vincolo, pur superato il periodo quinquennale), mentre (per altro verso) l’art. 9 della legge regionale sul procedimento espropriativo, a determinate condizioni, include proprio il programma triennale delle opere pubbliche tra gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità;
      c) nel solco tracciato dalla sentenza n. 179 del 1999, cit., la Corte ribadisce dunque che “la proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza”; di conseguenza, la Corte enuclea i seguenti vizi della norma regionale censurata:
         c1) essa consente la protrazione dell’efficacia del vincolo “ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo”;
         c2) tale effetto “si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario”;
         c3) peraltro, la norma lombarda “ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello cosiddetto di franchigia”, con ciò ulteriormente discostandosi dalla legge statale di riferimento (cfr. art. 9, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001);
         c4) ancora, la norma lombarda “appare del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato”, così contravvenendo ad un’altra prescrizione già in passato ribadita dalla giurisprudenza costituzionale, quella cioè di mettere i privati, ancora prima dell’adozione dell’atto limitativo, “in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico” (viene richiamata la sentenza 30.04.2015, n. 71, in Foro it., 2015, I, 2629, con nota di R. PARDOLESI, in Urb. e appalti, 2015, 767, con note di ARTARIA e BARILÀ, in Guida al dir., 2015, 21, 84, con nota di PONTE, in Resp. civ. e prev., 2015, 1492, con nota di REGA, in Giur. cost., 2015, 998, con nota di MOSCARINI, in Europa e dir. privato, 2015, 951, con nota di GRISI, ed in Riv. giur. edilizia, 2015, I, 581, con note di MARI e STRAZZA);
         c5) del resto, le forme di partecipazione che sono previste per l’approvazione del programma triennale delle opere pubbliche appaiono –precisa la Corte– “di qualità e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e per quelli reiterativi del vincolo espropriativo”, trovando esse la loro fonte in un atto meramente regolamentare (il già ricordato d.m. n. 14 del 2018), il quale oltretutto le prevede in modalità solo eventuale.
   III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
      d) nella decisione in rassegna, la Corte afferma la “trasversalità” della materia delle espropriazioni, in quanto riconducibile all’urbanistica la quale, a sua volta, è da ricomprendere nella materia concorrente del governo del territorio; su quest’ultima affermazione cfr., di recente:
         d1) Corte cost., sentenza n. 130 del 2020, cit., secondo cui “la normativa sui centri storici si trovi al crocevia fra le competenze regionali in materia urbanistica o di governo del territorio e la tutela dei beni culturali”, con la conseguente precisazione secondo cui “le Regioni hanno dedicato specifiche discipline ai centri storici, nell’ambito delle competenze in materia di governo del territorio o urbanistica, cercando di superare la visione parcellizzata degli interventi edilizi per privilegiare la considerazione unitaria dei nuclei storici. In accordo con l’ordinamento statale, le Regioni stesse affidano a strumenti urbanistici comunali e al lavoro di uffici tecnici territorialmente competenti l’attuazione delle norme dettate a livello regionale e statale”;
         d2) Corte cost., sentenza n. 254 del 2019, cit., secondo cui “nel regolare, in sede di disciplina del governo del territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo”, giungendosi così alla seguente conclusione: “In questo quadro, la previsione –ad opera della legislazione regionale in materia di governo del territorio– di uno speciale piano dedicato alle attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia, alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici, cioè alla dotazione minima di spazi pubblici)”;
      e) per l’affermazione secondo cui le garanzie partecipative devono trovare applicazione nell’ambito del procedimento espropriativo, cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 2015, cit., menzionata anche dalla pronuncia in epigrafe, secondo cui:
         e1) il principio del “giusto procedimento” (in virtù del quale i soggetti privati dovrebbero poter esporre le proprie ragioni, e in particolare prima che vengano adottati provvedimenti limitativi dei loro diritti) “non può dirsi assistito in assoluto da garanzia costituzionale” (in tal senso, nella giurisprudenza della Corte, cfr. già: sentenza 12.07.1995, n. 312, in Cons. Stato, 1995, II, 1197; sentenza 31.05.1995, n. 210, in Cons. Stato, 1995, II, 906; sentenza 24.02.1995, n. 57, in Mass. giur. lav., 1995, 146, con nota di SANTONI, in Lavoro giur., 1995, 657, con nota di PILATI, in Giorn. dir. amm., 1995, 801, con nota di MARIANI, in Dir. lav., 1995, II, 132, con nota di PELLACANI, ed in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 738, con nota di CORSINOVI; sentenza 19.03.1993, n. 103, in Foro it., 1993, I, 2410; ordinanza 10.12.1987, n. 503, in Giur. cost., 1987, I, 3317, con nota di AMODIO; sentenza 20.03.1978, n. 23, in Giur. it., 1979, I, 209);
         e2) ciò, tuttavia, “non sminuisce certo la portata che tale principio ha assunto nel nostro ordinamento, specie dopo l’entrata in vigore della legge 07.08.1990, n. 241”;
         e3) in materia espropriativa, è ormai risalente l’affermazione secondo cui i privati interessati devono essere messi “in condizioni di esporre le proprie ragioni sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico” (cfr. sentenza 20.07.1990, n. 344, in Giur. cost., 1990, 2158; sentenza 21.03.1989, n. 143, in Foro it., 1991, I, 1970; sentenza 27.06.1986, n. 151, in Foro it., 1986, I, 2690, con note di COZZUTO QUADRI e CARAVITA; sentenza 02.03.1962, n. 13, in Giur. cost., 1962);
      f) in tema di proroga di vincoli espropriativi già scaduti, cfr., nella giurisprudenza costituzionale, la sentenza n. 314 del 2007, cit. (menzionata anche dalla decisione in rassegna), con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma di legge della Regione Campania che prorogava, per un triennio, i piani regolatori dei nuclei e delle aree industriali già scaduti; in tale pronuncia si legge, per quanto qui di maggiore interesse:
         f1) che la reiterazione dei vincoli espropriativi, pur in linea di principio “consentita in via amministrativa, e a maggior ragione, per legge”, deve tuttavia essere “puntualmente motivata con riguardo alla persistente necessità di acquisire la proprietà privata (da valutare sulla base di una apposita istruttoria procedimentale da cui emerga la prevalenza dell’interesse pubblico rispetto a quello privato da sacrificare); e, contemporaneamente, deve prevedere la corresponsione del giusto indennizzo. In mancanza di tali presupposti vi è lesione del diritto di proprietà”;
         f2) che “La regola dell’indennizzabilità dei vincoli espropriativi reiterati è ormai un principio consolidato nell’ordinamento, anche per l’entrata in vigore dell’art. 39 t.u. delle espropriazioni (d.p.r. 08.06.2001 n. 327). La reiterazione di qualsiasi vincolo preordinato all’esproprio, o sostanzialmente espropriativo, dunque, è da intendere implicitamente integrabile con il principio generale dell’indennizzabilità” (con richiamo alla precedente ordinanza 25.07.2002, n. 397, in Riv. giur. edilizia, 2002, I, 1207);
      g) nella giurisprudenza amministrativa, con riferimento all’obbligo di motivazione del provvedimento con cui è reiterato il vincolo espropriativo, cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 24.05.2007, n. 7 (in Foro it., 2007, III, 350 con nota di TRAVI; in Guida al dir., 2007, 24, 73, con nota di FORLENZA; in Riv. amm., 2007, 461, con nota di CACCIAVILLANI; in Corriere merito, 2007, 1092, con nota di VELTRI; in Urb. e appalti, 2007, 1113, con nota di CARBONELLI; in Giorn. dir. amm., 2007, 1174, con nota di MAZZARELLI; in Resp. e risarcimento, 2007, 7, 95, con nota di PAPPALARDO; in Quaderni centro documentaz., 2007, 242, con nota di COLLACCHI) secondo cui:
         g1) “l'esercizio del potere di reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio decaduto per decorrenza del termine quinquennale può essere esercitato unicamente sulla base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che escluda un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti”;
         g2) “per valutare l'adeguatezza della motivazione dei provvedimenti di reiterazione di vincoli preordinati all'esproprio occorre distinguere se questi riguardano o meno una pluralità di aree, se riguardano solo una parte già incisa da vincoli decaduti, se, infine, la reiterazione sia disposta (o meno) per la prima volta sull'area”;
         g3) “si ha adeguato supporto motivazionale dell'atto di reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio qualora l'amministrazione, nell'evidenziare l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, abbia a seguito di specifica istruttoria, tenuto conto delle seguenti circostanze:
1) in caso di reiterazione disposta con riguardo o meno una pluralità di aree, nell'ambito dell'adozione di una variante generale o comunque riguardante una consistente parte del territorio comunale, si devono distinguere le ipotesi in cui la reiterazione del vincolo riguardi un'area ben specificata (per realizzare una singola opera pubblica o per soddisfare i prescritti standard sui servizi pubblici o sul verde pubblico) e quelle in cui la reiterazione riguardi una pluralità di aree per una consistente parte del territorio comunale, a seguito della decadenza di uno strumento urbanistico generale che abbia disposto una molteplicità di vincoli preordinati all'esproprio (necessari per l'adeguamento degli standard, a seguito della realizzazione di ulteriori manufatti). Tale distinzione ha ragion d'essere perché solo nell'ipotesi in cui vengono reiterati ‘in blocco’ i vincoli decaduti, già riguardanti una pluralità di aree, la sussistenza di un attuale specifico interesse pubblico risulta dalla perdurante constatata insufficienza delle aree destinate a standard (indispensabili per la vivibilità degli abitati), mentre l'assenza di un intento vessatorio si evince dalla parità di trattamento che hanno tutti i destinatari dei precedenti vincoli decaduti;
2) in caso di reiterazione disposta con riguardo solo ad una parte delle aree già incise dai vincoli decaduti, mentre per l'altra parte non è disposta la reiterazione in quanto il vincolo venga impresso su nuovi terreni. Tale scelta, pur costituendo senz'altro un'anomalia della funzione pubblica, deve fondarsi, pena il profilarsi di un intento vessatorio nei confronti dei proprietari delle aree riassoggettate a vincolo, su una motivazione da cui emergano le ragioni di interesse pubblico che giustifichino il vantaggio di chi non è più coinvolto nelle determinazioni di reperimento degli standard, a scapito di chi lo diventa, pur non essendo stato destinatario di un precedente vincolo preordinato all'esproprio;
3) in caso di reiterazione disposta per la prima volta, può ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni; di converso, quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, l'autorità urbanistica deve procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, evidenziano le ragioni, con riferimento al rispetto degli standard, alle esigenze della spesa, agli specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali, che diano conto dell'attuale sussistenza dell'interesse pubblico
”;
         g4) “secondo il quadro normativo vigente antecedentemente al testo unico sugli espropri approvato con il d.P.R. n. 327 del 2001, valeva il principio che, in caso di atti di reiterazione dei vincoli preordinati all'esproprio, imponeva l'obbligo di un'adeguata motivazione (poi espressamente disposto dall'art. 9, comma 4, d.P.R. cit.), nella quale l'amministrazione doveva indicare la ragione che l'avevano indotta a scegliere nuovamente proprio l'area sulla quale la precedente scelta si era appuntata, evidenziando, a tal fine, l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, ciò in quanto tale specie di determinazione è destinata ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di esproprio”;
         g5) la deliberazione riguardante la reiterazione del vincolo espropriativo non necessita di copertura finanziaria volta a garantire il pagamento del corrispondente indennizzo (“la delibera impugnata in primo grado non doveva essere preceduta dall’approvazione di un ‘piano finanziario’”);
      h) sulla distinzione fra vincoli conformativi e vincoli espropriativi, in relazione a motivazione e indennizzo, cfr. da ultimo, nella giurisprudenza amministrativa (cui adde le ulteriori indicazioni riportate nella News US n. 109 del 16.10.2019, cit.):
         h1) Cons. Stato, sezione IV, sentenza 19.02.2020, n. 1253, secondo cui “l’art. 40 della legge n. 1150/1942, dopo l’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 55 del 1968, deve intendersi nel senso che gli obblighi di allineamento rispetto alle previsioni di piano sulle vie di comunicazione non decadono perché non hanno natura espropriativa”;
         h2) Cons. Stato, sezione IV, sentenza 12.04.2018, n. 2205, in cui si legge quanto segue: “il concetto di ‘limiti comportanti la totale inutilizzazione’ va enucleato in base alla insuperata giurisprudenza costituzionale, in materia di cd. espropriazione di valore (sentenze 20.01.1966 n. 6 e 29.05.1968 n. 55), che indica il criterio per discernere le ipotesi in cui l'amministrazione esercita sui beni di proprietà privata un potere conformativo (come tale, non indennizzabile), da quelle in cui -viceversa- esercita un potere sostanzialmente ablatorio (come tale, indennizzabile [...])”;
         h3) Cons. Stato, sezione IV, decisione 28.10.2009, n. 6661 (in Giurisdiz. amm., 2009, I, 1399), secondo cui “In tema di convenzione urbanistica di lottizzazione, quando sia scaduto un piano di lottizzazione si applicano alla convenzione le disposizioni dell'art. 17 l. 1150/1942, le quali impongono, in mancanza di una diversa disciplina di dettaglio, di rispettare gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabilite dallo strumento urbanistico attuativo, ancorché scaduto; la previsione di «ultrattività» delle disposizioni del piano scaduto è finalizzata ad evitare l'alterazione dello sviluppo urbanistico-edilizio così come armonicamente programmato e ad assicurare una edificazione omogenea”;
      i) sulla programmazione triennale dei lavori pubblici cfr., in dottrina: L. PETRANGELI PAPINI, La programmazione e la progettazione dei lavori pubblici, in Appalti urbanistica edilizia, 2000, 12, 643 ss.; G. FORMICHELLA, Lavori pubblici. La programmazione dei lavori pubblici negli Enti locali. I principi, le procedure, gli aspetti positivi e gli spunti problematici, in Nuova rass., 2001, 1857 ss.; A. MATARAZZO, Lavori pubblici. Brevi annotazioni operative in tema di programmazione dei lavori pubblici, in Nuova rass., 2001, 1871 ss.; E. BARUSSO, Le competenze degli organi dell’Ente Locale, Santarcangelo di Romagna, 2001, 127 ss.; G. PESCE, Effetti del programma triennale delle opere pubbliche e valutazione di fattibilità dell'intervento, in Urb. e appalti, 2003, 442 ss.; A. PAGANO, Programma triennale dei lavori pubblici, Commento a d.m. Infrastrutture e trasporti 09.06.2005, in Urb. e appalti, 2005, 914; D. GHIANDONI, E. MASINI, Le principali novità del programma oo.pp. 2019/2021, in Azienditalia, 2018, 10, 1247; P. LEONCINO, La contabilizzazione delle opere pubbliche, in Azienditalia, 2019, 6, 885; A. GRAZIANO, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, I, Fonti e principi, Ambito, Programmazione e progettazione, 2019, 1123 ss.; R. DE NICTOLIS, Appalti pubblici e concessioni, Bologna, 2020, 300 ss. (Corte Costituzionale, sentenza 18.12.2020 n. 270 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIllegittimo l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della L.R. Lombardia n. 12 del 2005 che consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio oltre la naturale scadenza quinquennale.
La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
Osserva al riguardo la Corte che:
<<
le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 9, comma 12, della legge reg. n. 12 del 2005 sono fondate, poiché tale disposizione viola gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost..
Non può che ribadirsi, nel solco della sentenza n. 179 del 1999, che la proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti «sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza».
Questo è proprio il vizio che presenta, in primo luogo, la disposizione censurata.
Come correttamente evidenziato dal giudice rimettente, infatti, l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo.
Questo effetto si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario.
Gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. sono, infatti, violati in tutti i casi in cui –come avviene nella specie– alla protrazione automatica di vincoli di natura espropriativa, disposta da una legge regionale oltre il punto di tollerabilità individuato dal legislatore statale, non corrisponda l’obbligo di riconoscere un indennizzo.
A ciò si aggiunga che, nel consentire la proroga senza indennizzo del vincolo preordinato all’esproprio oltre il quinquennio originario, il legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello cosiddetto di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di reiterazione del vincolo.
Ancora, e si tratta di un profilo che non risulta certo ultimo per importanza, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato.
Proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i privati interessati, prima che l’autorità pubblica adotti provvedimenti limitativi dei loro diritti, devono essere messi «in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico» (da ultimo, sentenza n. 71 del 2015).
La garanzia in parola è, invece, frustrata da un atto –l’approvazione del programma triennale delle opere pubbliche– in relazione al cui contenuto il codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e per quelli reiterativi del vincolo espropriativo.
Infatti, la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma in questione è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14 del 2018), non già dall’art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla legge regionale. Inoltre, e soprattutto, l’art. 5, comma 5, del d.m. prima ricordato si limita a prevedere che le «amministrazioni possono consentire la presentazione di eventuali osservazioni» da parte dei privati interessati, così degradando la partecipazione a mera eventualità
>> (commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Espropriazione per pubblica utilità - Norme della Regione Lombardia - Piano dei servizi - Durata quinquennale dei vincoli preordinati all'espropriazione per la realizzazione di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi, decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso - Decadenza dei vincoli qualora, entro tale termine, l'intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche.
---------------
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, con
ordinanza 20.09.2019 n. 827 (r.o. n. 221 del 2019), solleva, in riferimento agli artt. 42 e 117, terzo e primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio).
...
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, dubita che l’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), violi gli artt. 42 e 117, terzo e primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952.
1.1.– Il TAR Lombardia ricorda che la disposizione censurata disciplina i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi.
Quest’ultimo costituisce una componente del piano di governo del territorio, previsto dall’art. 7, comma 1, lett. b), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 quale strumento urbanistico generale della pianificazione di livello comunale.
La disposizione censurata, dopo aver stabilito nel primo periodo, in cinque anni, decorrenti dall’entrata in vigore del citato piano dei servizi, la durata dei vincoli ablativi in questione, prevede, nel secondo periodo (cioè proprio nella parte della cui legittimità costituzionale il rimettente dubita), che «[d]etti vincoli decadono qualora, entro tale termine, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento […]».
Ciò posto, il rimettente espone, in punto di rilevanza, che le società Te.Mo. spa e So.Ag.Be. ss hanno impugnato l’atto contenente la dichiarazione di pubblica utilità e i successivi provvedimenti, adottati nell’ambito del procedimento espropriativo preordinato alla realizzazione di una strada di collegamento, in parte prevista su un fondo di proprietà della Te.Mo. spa e destinato dalla So.Ag.Be. ss alla coltivazione di uva per la produzione di vino pregiato.
La dichiarazione di pubblica utilità, contenuta nella deliberazione del Consiglio comunale del 15.02.2018, n. 11 (recante l’approvazione del progetto dell’opera da realizzare), sarebbe stata adottata –riferisce il rimettente– quando erano già decorsi cinque anni dal momento dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.
Quest’ultimo, infatti, troverebbe origine nell’approvazione, in data 21.11.2012, del piano di governo del territorio del Comune di Adro, che prevedeva l’assoggettamento del fondo in questione a vincolo ablativo fino al 21.11.2017.
La decadenza del vincolo ablativo sarebbe stata impedita proprio e soltanto in forza dell’applicazione della disposizione censurata. Tale effetto sarebbe cioè derivato dall’inserimento dell’intervento, prima della scadenza quinquennale del vincolo espropriativo, nel programma triennale delle opere pubbliche –nella specie approvato in data 06.04.2017– inserimento che avrebbe così legittimato l’adozione della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, pur se intervenuta in data 15.02.2018, e dunque oltre il termine quinquennale decorrente dall’approvazione del piano di governo del territorio.
Il TAR Lombardia riferisce che, nella medesima data da ultimo indicata, è stata anche adottata dal Consiglio comunale di Adro una variante urbanistica (poi approvata con deliberazione del 12.05.2018, n. 23).
Tuttavia, con riferimento all’opera pubblica di cui si tratta, quest’ultima deliberazione non avrebbe legittimamente reiterato il vincolo preordinato all’esproprio (ormai già scaduto), in quanto il Comune di Adro, in applicazione della disposizione censurata, avrebbe semplicemente «preso atto» dell’inserimento dell’intervento nel programma triennale delle opere pubbliche e del conseguente «effetto “confermativo”» dell’efficacia del vincolo.
A giudizio del TAR Lombardia –che attribuisce al provvedimento di variante urbanistica funzione meramente ricognitiva di un effetto legale già prodottosi– la sua mancata impugnazione da parte delle società ricorrenti non avrebbe dunque rilievo, poiché il provvedimento stesso «risulterebbe inevitabilmente ed automaticamente travolto dall’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della norma che ne rappresenta il presupposto».
Infatti, la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, impugnata dalle ricorrenti, sarebbe comunque intervenuta sulla base di un vincolo preordinato all’esproprio risalente a più di cinque anni prima, sicché essa poggerebbe esclusivamente su una sorta di “proroga automatica” del vincolo, conseguente all’inclusione dell’opera nel programma triennale delle opere pubbliche ai sensi della disposizione censurata.
Quest’ultima costituirebbe, in definitiva, l’unico ostacolo frapposto all’annullamento dell’atto.
1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo, sulla scorta della giurisprudenza di questa Corte, ricorda che, trascorso un periodo di ragionevole durata –oggi fissato in cinque anni dall’art. 9, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità (Testo A)» (d’ora innanzi: t.u. espropriazioni)– la pubblica amministrazione può reiterare il vincolo solo motivando adeguatamente in relazione alla persistenza di effettive esigenze urbanistiche (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni), e comunque corrispondendo un indennizzo (ai sensi del successivo art. 39 del medesimo testo unico).
Secondo il Tribunale amministrativo rimettente, dunque, l’esercizio del potere ablatorio può essere ritenuto conforme all’art. 42 Cost., solo se risulti limitato nel tempo e compensato, in caso di reiterazione del vincolo, dalla corresponsione di un equo indennizzo.
Ricorda il giudice a quo, in particolare, che la giurisprudenza costituzionale (è richiamata la sentenza n. 179 del 1999) ha escluso che il vincolo possa essere reiterato senza che si proceda, alternativamente, all’espropriazione (o comunque al «serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi)», oppure alla corresponsione di un indennizzo.
Nella ricostruzione del TAR Lombardia, questo «serio inizio» dell’attività espropriativa sarebbe stato individuato dal legislatore statale, unico competente a tal fine, nel provvedimento che dichiara la pubblica utilità dell’opera; quindi, in un atto che comunque garantisce la partecipazione del proprietario del bene.
L’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, avrebbe, invece, disciplinato una nuova ipotesi di attuazione del vincolo espropriativo, in mancanza di un serio avvio della procedura espropriativa e, in particolare, di una tempestiva dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
In tal modo, in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., la legge regionale avrebbe ecceduto la propria competenza concorrente in materia, dal momento che l’art. 12 t.u. espropriazioni non ricomprenderebbe, tra gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità, l’inserimento dell’opera pubblica nel programma triennale.
Inoltre, in lesione dell’art. 42 Cost., la disposizione censurata consentirebbe l’esercizio del potere ablatorio «a tempo indeterminato», in ragione di un provvedimento –appunto l’approvazione del piano triennale delle opere pubbliche– la cui adozione, da un lato, non può essere qualificata come serio avvio della procedura espropriativa, e, dall’altro, non garantisce la partecipazione procedimentale degli interessati e può essere indefinitamente rinnovato, senza necessità né di motivazione, né di indennizzo.
2.– In via preliminare, non può essere accolta la richiesta di una declaratoria d’inammissibilità delle questioni per sopravvenuto difetto di rilevanza, avanzata dal Comune di Adro, costituito in giudizio, in conseguenza della rinuncia al ricorso depositata nel giudizio a quo dalle società espropriate.
Come stabilito dall’art. 18 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, il giudizio incidentale di costituzionalità è autonomo rispetto al giudizio a quo, nel senso che non risente delle vicende di fatto, successive all’ordinanza di rimessione e relative al rapporto dedotto nel processo principale. Per questo, la costante giurisprudenza costituzionale afferma che la rilevanza della questione deve essere valutata alla luce delle circostanze sussistenti al momento del provvedimento di rimessione, senza che assumano rilievo eventi sopravvenuti (sentenze n. 244 e n. 85 del 2020), quand’anche costituiti dall’estinzione del giudizio principale per effetto di rinuncia da parte dei ricorrenti (ordinanza n. 96 del 2018).
3.– Deve essere, inoltre, circoscritto il thema decidendum.
Il giudice a quo, in dispositivo, indirizza le proprie censure sull’intero comma 12 dell’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La motivazione dell’ordinanza di rimessione, tuttavia, consente agevolmente di delimitare l’oggetto delle censure al solo secondo periodo del comma in esame, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione decadono qualora, entro cinque anni dall’approvazione del piano dei servizi che prevede l’intervento, quest’ultimo non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
4.– Sempre in via preliminare, va rigettata l’eccezione d’inammissibilità per difetto di rilevanza, originariamente avanzata dalla difesa del Comune di Adro, secondo cui l’adozione della variante allo strumento urbanistico, in quanto idonea a reiterare il vincolo preordinato all’esproprio, renderebbe irrilevanti le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
Nel caso in esame, non risulta implausibile il ragionamento del rimettente, secondo il quale il Comune di Adro non sarebbe stato obbligato a reiterare il vincolo –nonostante la scadenza del quinquennio dalla originaria apposizione– proprio in virtù della norma censurata, che avrebbe determinato una “prorogaex lege del vincolo, a seguito dell’inserimento dell’opera nel programma triennale, per la durata di quest’ultimo e dei suoi eventuali aggiornamenti annuali.
Infatti, da questo punto di vista, il provvedimento di variante urbanistica, quantomeno in relazione all’opera di cui si tratta, potrebbe considerarsi meramente ricognitivo e, come tale, prima ancora che “atipico” (come ritenuto dal rimettente), addirittura superfluo.
Non si versa, pertanto, in una di quelle ipotesi di manifesta implausibilità della motivazione sulla rilevanza, che impediscono, secondo costante giurisprudenza costituzionale, l’esame del merito (da ultimo, sentenze n. 218 del 2020 e n. 208 del 2019).
5.– Neppure può essere accolta l’eccezione d’inammissibilità delle censure di violazione dell’art. 117 Cost., per non avere il rimettente indicato «quale comma e/o lettera sarebbero stati violati».
In primo luogo, il giudice a quo, almeno in un passaggio dell’ordinanza di rimessione, individua espressamente il terzo comma dell’art. 117 Cost. quale parametro evocato.
È, poi, ininfluente che il rimettente non menzioni espressamente la materia di legislazione concorrente tra quelle indicate nel terzo comma dell’art. 117 Cost., quando la questione, nel contesto della motivazione, risulti chiaramente enunciata (in senso analogo, da ultimo, sentenza n. 264 del 2020). E dal tenore dell’ordinanza di rimessione si evince con sufficiente chiarezza che le censure si incentrano sulla violazione della competenza legislativa concorrente spettante alla Regione nella materia «governo del territorio».
6.– Va invece, e ancora preliminarmente, dichiarata l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.
Il rimettente non ha, infatti, assolto l’onere di motivazione sulla non manifesta infondatezza del prospettato dubbio di legittimità costituzionale.
L’ordinanza di rimessione è, invero, volta unicamente a denunciare la lesione degli artt. 42 e 117, terzo comma, Cost., sotto i profili prima illustrati, e non indica alcuna ragione a sostegno di uno specifico contrasto della disposizione censurata con il parametro interposto sovranazionale.
Tale carenza conduce inevitabilmente all’inammissibilità della specifica questione in esame (in tal senso, tra le molte, sentenze n. 223 e n. 115 del 2020).
7.– Quanto all’esame del merito delle residue questioni di legittimità costituzionale, è utile premettere qualche sintetico richiamo alla disciplina statale e regionale rilevante, nonché alla pertinente giurisprudenza costituzionale.
8.– Governata dall’art. 42, terzo comma, Cost., l’espropriazione per motivi d’interesse generale consiste in un procedimento preordinato all’emanazione di un provvedimento che trasferisce la proprietà o altro diritto reale su di un bene.
Il legislatore statale ha introdotto a tal fine uno schema procedimentale articolato nelle fasi indicate dall’art. 8 t.u. espropriazioni, costituite dalla sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio, dalla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera che deve essere realizzata e dalla determinazione dell’indennità di espropriazione.
Tali fasi sono finalizzate all’emissione del decreto di esproprio.
Ai sensi del successivo art. 9 del medesimo testo unico, un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’espropriazione quando diventa efficace, in base alla specifica normativa statale e regionale di riferimento, l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che preveda la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità.
Una volta apposto il vincolo espropriativo, il proprietario del bene resta titolare del suo diritto sulla cosa e nel possesso di essa, ma non può utilizzarla in contrasto con la destinazione dell’opera, fino a che l’amministrazione non proceda all’espropriazione.
Come ricorda il giudice rimettente, questa Corte, con la sentenza n. 55 del 1968, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi i numeri 2), 3) e 4) dell’art. 7 della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), nonché l’art. 40 della stessa legge, nella parte in cui non prevedevano un indennizzo per le limitazioni espropriative a tempo indeterminato.
Il legislatore statale, chiamato a sciogliere l’alternativa tra un indennizzo da corrispondere immediatamente, al momento dell’apposizione del vincolo di durata indeterminata, e un vincolo senza immediato indennizzo ma a tempo determinato, ha optato per tale seconda soluzione, con la legge 19.11.1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150), il cui art. 2 ha stabilito la durata quinquennale del vincolo, periodo durante il quale la necessità di corrispondere un indennizzo è esclusa.
Con la sentenza n. 179 del 1999, infine, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2), 3) e 4), e 40 della legge n. 1150 del 1942, e 2, primo comma, della legge n. 1187 del 1968, nella parte in cui consentiva alla pubblica amministrazione di reiterare i vincoli espropriativi scaduti senza la previsione di un indennizzo.
Il legislatore statale si è adeguato a queste indicazioni con l’emanazione del già richiamato t.u. espropriazioni.
In base alle norme dettate da quest’ultimo, il vincolo preordinato all’esproprio è di durata quinquennale (art. 9, comma 2) –periodo, cosiddetto di franchigia, durante il quale al proprietario del bene non è dovuto alcun indennizzo– e decade se, entro tale termine, non è dichiarata la pubblica utilità dell’opera (art. 9, comma 3).
Una volta decaduto e, dunque, divenuto inefficace, il vincolo può solo essere motivatamente reiterato, subordinatamente alla previa approvazione di un nuovo piano urbanistico generale o di una sua variante (art. 9, comma 4), e con la corresponsione di un apposito indennizzo (art. 39).
Le stesse garanzie devono sorreggere una eventuale proroga del vincolo prima della sua naturale scadenza (in tal senso, sentenza n. 314 del 2007).
Una volta apposto il vincolo, occorre procedere alla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, entro il termine di efficacia del vincolo espropriativo (art. 13, comma 1, t.u. espropriazioni).
Si tratta dell’atto con il quale vengono individuati in concreto i motivi di interesse generale cui l’art. 42, terzo comma, Cost. subordina l’espropriazione della proprietà privata nei casi previsti dalla legge (sentenza n. 155 del 1995).
Con la dichiarazione di pubblica utilità, la pubblica amministrazione avvia effettivamente la procedura espropriativa, accertando l’interesse pubblico dell’opera attraverso l’individuazione specifica di essa e la sua collocazione nel territorio, nel rispetto del contraddittorio tra i cittadini interessati e l’amministrazione.
Un ruolo centrale nell’attuale disciplina del procedimento espropriativo è svolto dalla cosiddetta dichiarazione implicita di pubblica utilità.
Il t.u. espropriazioni, infatti, prevede che l’adozione di taluni atti, aventi struttura e funzioni proprie, comporti anche la dichiarazione di pubblica utilità delle opere da essi previste.
In particolare, ai sensi dell’art. 12, comma 1, la dichiarazione di pubblica utilità si intende disposta «quando l’autorità espropriante approva a tale fine il progetto definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità, ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di lottizzazione, il piano di recupero, il piano di ricostruzione, il piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero quando è approvato il piano di zona». Inoltre, e comunque, essa si intende disposta quando la normativa vigente prevede che equivalga «a dichiarazione di pubblica utilità l’approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore o attuativo, la definizione di una conferenza di servizi o il perfezionamento di un accordo di programma, ovvero il rilascio di una concessione, di una autorizzazione o di un atto avente effetti equivalenti».
8.1.– In ambito statale, il programma triennale dei lavori pubblici è attualmente previsto dall’art. 21 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), il quale disciplina unitariamente la programmazione, sia per i lavori pubblici che per i servizi e le forniture, demandando (comma 8) a un decreto ministeriale, di natura regolamentare, la normazione di dettaglio.
Ai sensi dell’art. 3, lettera ggggg-sexies), cod. contratti pubblici, il programma rappresenta il documento, da aggiornare annualmente, che le amministrazioni adottano al fine di individuare i lavori da avviare nel triennio.
Ai fini della presente decisione, va altresì sottolineato che, in relazione alla definizione del contenuto del programma in questione, la disciplina della partecipazione dei privati interessati è contenuta nella fonte regolamentare prima evocata: l’art. 5, comma 5, del decreto ministeriale 16.01.2018, n. 14 («Regolamento recante procedure e schemi-tipo per la redazione e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici, del programma biennale per l’acquisizione di forniture e servizi e dei relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali»), prevede, infatti, che le amministrazioni «possono consentire» la presentazione di «eventuali» osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione del programma sul profilo informatico del committente e che l’approvazione definitiva del documento programmatico triennale, con gli eventuali aggiornamenti, avviene entro i successivi trenta giorni dalla scadenza del termine fissato per tali «consultazioni», ovvero, comunque, entro sessanta giorni dalla pubblicazione sul suddetto profilo.
9.– La complessiva disciplina statale sinteticamente richiamata ha trovato peculiare attuazione nella legislazione della Regione Lombardia.
Come riconosce significativamente lo stesso art. 5, comma 1, t.u. espropriazioni («[l]e Regioni a statuto ordinario esercitano la potestà legislativa concorrente, in ordine alle espropriazioni strumentali alle materie di propria competenza […]»), l’espropriazione costituisce una funzione trasversale, che può esplicarsi in varie materie, anche di competenza concorrente. Tra queste, soprattutto, il «governo del territorio», per la pacifica attrazione in quest’ultimo dell’urbanistica, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (tra le più recenti, sentenze n. 130 del 2020 e n. 254 del 2019).
La Regione Lombardia, nell’esercizio delle proprie competenze legislative, si è dotata sia di una propria legge per il governo del territorio (legge reg. Lombardia n. 12 del 2005), sia di una disciplina in materia di procedimento di espropriazione, contenuta nella legge della Regione Lombardia 04.03.2009, n. 3 (Norme regionali in materia di espropriazione per pubblica utilità).
Con specifico riferimento alla vicenda che ha dato origine al giudizio a quo, relativo ad una fattispecie in cui sono in questione le prime due fasi della procedura espropriativa (apposizione del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarazione di pubblica utilità) assumono rilievo, nella legislazione della Regione Lombardia, due disposizioni: da un lato, quella effettivamente censurata, contenuta nella legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, che attribuisce, come s’è visto, peculiare effetto all’inserimento dell’opera pubblica o di pubblica utilità nel programma triennale delle opere pubbliche; dall’altro, l’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 3 del 2009, il quale, nell’indicare gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità, include –a differenza della appena ricordata disciplina statale– anche il programma triennale delle opere pubbliche, subordinando però tale effetto all’accertamento di alcuni requisiti.
In particolare, il comma 2 della previsione da ultimo citata esige, relativamente a ciascuna opera per la quale il programma triennale intende produrre l’effetto in parola, che esso contenga: un piano particellare che individui i beni da espropriare, con allegate le relative planimetrie catastali; una motivazione circa la necessità di dichiarare la pubblica utilità in tale fase; la determinazione del valore da attribuire ai beni da espropriare, in conformità ai criteri applicabili in materia, con l’indicazione della relativa copertura finanziaria.
Pur riguardando entrambe il programma triennale delle opere pubbliche in ambito regionale, le due disposizioni hanno differenti obbiettivi: la prima (oggetto delle censure di legittimità costituzionale) è relativa alla fase dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio e stabilisce che il vincolo non decade se l’opera viene inserita nel programma; la seconda, relativa alla fase successiva del procedimento, include, alle condizioni viste, il programma in questione tra gli atti la cui approvazione comporta dichiarazione di pubblica utilità, con scelta, si è detto, innovativa rispetto alla disciplina statale.
Il giudice a quo non si occupa affatto della seconda disposizione e perciò non ne definisce il rapporto (di coordinamento, di alternatività, di esclusione) con la prima, che sospetta di illegittimità costituzionale. Si deve ritenere, peraltro, che tale pur indubbia lacuna non comporti l’inammissibilità delle questioni, per incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento, oppure per una erronea o incompleta individuazione della disciplina da censurare. Avendo affermato, nell’ordinanza di rimessione, che il programma triennale delle opere pubbliche approvato dal Comune di Adro non costituisce «serio inizio» della procedura espropriativa (carattere che, invece, è in generale riconosciuto alla dichiarazione di pubblica utilità di un’opera, e che, in virtù dei requisiti posti dall’art. 9, comma 2, legge reg. Lombardia n. 3 del 2009, potrebbe derivare, almeno nelle intenzioni del legislatore regionale, dall’inserimento nel programma triennale delle opere pubbliche corredate da quei requisiti), se ne deve dedurre che il rimettente abbia implicitamente ritenuto non applicabile l’art. 9 della legge reg. Lombardia n. 3 del 2009 alla fattispecie al suo esame.
Trattandosi, dunque, di disposizione non ritenuta pertinente alla definizione del giudizio, questa Corte può prescindere da qualsiasi valutazione su di essa, sia in punto di ammissibilità delle questioni, sia, nel merito, circa la sua riconducibilità alla legittima espressione della potestà legislativa concorrente spettante alla Regione nella materia «governo del territorio».
10.– Tutto ciò premesso, le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 9, comma 12, della legge reg. n. 12 del 2005 sono fondate, poiché tale disposizione viola gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost.
Non può che ribadirsi, nel solco della sentenza n. 179 del 1999, che la proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti «sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza».
Questo è proprio il vizio che presenta, in primo luogo, la disposizione censurata.
Come correttamente evidenziato dal giudice rimettente, infatti, l’art. 9, comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, consente la protrazione dell’efficacia del vincolo preordinato all’esproprio ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell’inclusione dell’aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche nell’ambito applicativo della norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo.
Questo effetto si pone in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale illustrata in precedenza, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario.
Gli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost. sono, infatti, violati in tutti i casi in cui –come avviene nella specie– alla protrazione automatica di vincoli di natura espropriativa, disposta da una legge regionale oltre il punto di tollerabilità individuato dal legislatore statale, non corrisponda l’obbligo di riconoscere un indennizzo.
A ciò si aggiunga che, nel consentire la proroga senza indennizzo del vincolo preordinato all’esproprio oltre il quinquennio originario, il legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l’interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello cosiddetto di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di reiterazione del vincolo.
Ancora, e si tratta di un profilo che non risulta certo ultimo per importanza, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato.
Proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i privati interessati, prima che l’autorità pubblica adotti provvedimenti limitativi dei loro diritti, devono essere messi «in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico» (da ultimo, sentenza n. 71 del 2015).
La garanzia in parola è, invece, frustrata da un atto –l’approvazione del programma triennale delle opere pubbliche– in relazione al cui contenuto il codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in particolare nell’art. 11) per gli atti appositivi e per quelli reiterativi del vincolo espropriativo.
Infatti, la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma in questione è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14 del 2018), non già dall’art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla legge regionale. Inoltre, e soprattutto, l’art. 5, comma 5, del d.m. prima ricordato si limita a prevedere che le «amministrazioni possono consentire la presentazione di eventuali osservazioni» da parte dei privati interessati, così degradando la partecipazione a mera eventualità.
11.– Per queste complessive ragioni
va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
   1)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all’espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall’entrata in vigore del piano stesso, l’intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell’ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento;
   2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 12, legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20.03.1952, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, con l’ordinanza indicata in epigrafe (Corte Costituzionale, sentenza 18.12.2020 n. 270).

ESPROPRIAZIONE: Espropriazione per pubblica utilità - Norme della Regione Lombardia - Vincoli preordinati all'espropriazione per la realizzazione di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi - Termine di decadenza quinquennale, decorrente dalla vigenza del piano - Proroga, in caso di inserimento dei relativi interventi nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento - Violazione del diritto di proprietà e dei principi in materia di governo del territorio - Illegittimità costituzionale.
  
È dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 42, terzo comma, e 117, terzo comma, Cost., l'art. 9, comma 12, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all'espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro cinque anni decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso, l'intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
La norma censurata dal TAR Lombardia, sez. staccata di Brescia, consente la protrazione dell'efficacia del vincolo preordinato all'esproprio ben oltre la naturale scadenza quinquennale e, in virtù dell'inclusione dell'aggiornamento annuale del programma triennale delle opere pubbliche nell'ambito applicativo della medesima norma, per un tempo sostanzialmente indefinito, senza che sia previsto il riconoscimento al privato interessato di alcun indennizzo.
Pertanto, essa è in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale formatasi in tema di vincoli ablativi finalizzati all'espropriazione, dando seguito alla quale il legislatore statale ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra la reiterabilità indefinita dei vincoli e la necessità di indennizzare il proprietario. Nel consentire la proroga senza indennizzo del vincolo preordinato all'esproprio oltre il quinquennio originario, il legislatore regionale ha omesso di imporre un preciso onere motivazionale circa l'interesse pubblico al mantenimento del vincolo per un periodo che oltrepassa quello c.d. di franchigia: ciò che invece è richiesto dalla legge statale (art. 9, comma 4, t.u. espropriazioni) per le ipotesi di reiterazione del vincolo.
Ancora, la disposizione censurata appare del tutto carente quanto al livello di garanzia partecipativa da riconoscersi al privato interessato, in quanto la partecipazione al procedimento che sfocia nel programma triennale delle opere pubbliche -in relazione al cui contenuto il codice dei contratti pubblici prevede forme di partecipazione di qualità e grado insufficienti, e comunque non corrispondenti a quelle stabilite dal t.u. espropriazioni (in particolare nell'art. 11) per gli atti appositivi e per quelli reiterativi del vincolo espropriativo- è prevista esclusivamente dalla fonte regolamentare (d.m. n. 14 del 2018), non già dall'art. 21 cod. contratti pubblici e nemmeno dalla legge regionale.
Inoltre, e soprattutto, l'art. 5, comma 5, dell'indicato d.m., prevedendo che le amministrazioni possano consentire la presentazione di eventuali osservazioni da parte dei privati interessati, degrada la partecipazione a mera eventualità
(precedenti citati: sentenze n. 314 del 2007, n. 179 del 1999, n. 155 del 1995 e n. 55 del 1968).
  
L'espropriazione costituisce una funzione trasversale, che può esplicarsi in varie materie, anche di competenza concorrente. Tra queste, soprattutto, il «governo del territorio», per la pacifica attrazione in quest'ultimo dell'urbanistica (precedenti citati: sentenze n. 130 del 2020 e n. 254 del 2019).
La proroga in via legislativa dei vincoli espropriativi è fenomeno inammissibile dal punto di vista costituzionale, qualora essa si presenti sine die o all'infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza (precedente citato: sentenza n. 179 del 1999).
  
In materia espropriativa, i privati interessati, prima che l'autorità pubblica adotti provvedimenti limitativi dei loro diritti, devono essere messi in condizioni di esporre le proprie ragioni, sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell'interesse pubblico (precedente citato: sentenza n. 71 del 2015) (Corte Costituzionale, sentenza 18.12.2020 n. 270).

 

 

Altra "batosta" si profila all'orizzonte sull'ordinamento urbanistico lombardo:
sarebbe incostituzionale la proroga della validità delle convenzioni di lottizzazione di cui all’art. 46 della l.r. 11.03.2005 n. 12.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L. Spallino, Regione Lombardia: nuove proroghe alle convenzioni di lottizzazione (30.11.2020 - link a www.dirittopa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Nella seduta del 07.10.2020, il Consiglio dei Ministri ha deliberato di impugnare dinanzi alla Consulta l'art. 28 della L.R. 07.08.2020 n. 18 recante ad oggetto "Assestamento al bilancio 2020–2022 con modifiche di leggi regionali".
Legge della regione Lombardia 07.08.2020 n. 18 “Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali” presenta alcuni profili di non conformità alla Carta costituzionale e va pertanto impugnata per le ragioni che si illustrano.
L’art. 28 della legge in parola interviene sulla durata della validità dei titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione disciplinandola riguardo alla proroga dei termini in modo difforme da quanto previsto dall'articolo 103, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge n. 18/2020, convertito dalla legge n. 27/2020, nonché dall’articolo 10, commi 4 e 4-bis, del decreto-legge n. 76/2020, convertito dalla legge n. 120/2020, senza peraltro prevedere la comunicazione del soggetto interessato di volersene avvalere e senza far salva la compatibilità dei titoli abilitativi con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati, in violazione dei principi fondamentali della materia edilizia, rientrante in quella più generale del «governo del territorio» oggetto di competenza concorrente ex art. 117, terzo comma, Cost..
Si evidenzia preliminarmente che, anche nell'attuale situazione di emergenza collegata alla diffusione del virus Covid-19, gli interventi normativi delle Regioni e delle Province autonome, nello specifico in materia edilizia, debbano armonizzarsi con il complesso dei provvedimenti adottati dallo Stato finalizzati a garantire la salute dei cittadini e al contempo sostenere il sistema economico e non possano produrre deroghe alla normativa statale di settore superando l'ambito di competenza sopra menzionato.
Ciò posto, va evidenziato che, in considerazione della situazione emergenziale in atto, il legislatore nazionale è intervenuto sulla disciplina dei titoli abilitativi agli interventi edilizi e sulle convenzioni di lottizzazione, prorogandone la validità.
In particolare:
   1) l'articolo 103, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge 17.03.2020, 18 (recante "Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19"), convertito, con modificazioni, dalla legge 24.04.2020, n. 27, ha disposto che:
"(omissis)
2. Tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti abilitativi comunque denominati, compresi i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, in scadenza tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020, conservano la loro validità per i novanta giorni successivi alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza. La disposizione di cui al periodo precedente si applica anche alle segna/azioni certificate di inizio attività, alle segnalazioni certificate di agibilità, nonché alle autorizzazioni paesaggistiche e alle autorizzazioni ambientali comunque denominate. Il medesimo termine si applica anche al ritiro dei titoli abilitativi edilizi comunque denominati rilasciati fino alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza.
2-bis. Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero dagli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale, nonché i termini dei relativi piani attuativi e di qualunque altro atto ad essi propedeutico, in scadenza tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020, sono prorogati di novanta giorni. La presente disposizione si applica anche ai diversi termini delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale nonché dei relativi piani attuativi che hanno usufruito della proroga di cui all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98
";
   2) l'articolo 10, commi 4 e 4-bis, del decreto legge 16.07.2020, n. 76 (recante "Misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione digitale”) convertito, con modificazioni, dalla legge 11.09.2020, n. 120, ha previsto che:
"(omissis).
4. Per effetto della comunicazione del soggetto interessato di volersi avvalere del presente comma, sono prorogati rispettivamente di un anno e di tre anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, come indicati nei permessi di costruire rilasciati o comunque formatisi fino al 31.12.2020, purché i suddetti termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati. Le disposizioni di cui al primo periodo del presente comma si applicano anche ai permessi di costruire per i quali l'amministrazione competente abbia già accordato una proroga ai sensi dell'articolo 15, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380. La medesima proroga si applica alle segnalazioni certificate di inizio attività presentate entro lo stesso termine ai sensi degli articoli 22 e 23 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
4-bis. Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, dagli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale, nonché i termini dei relativi piani attuativi e di qualunque altro atto ad essi propedeutico, formatisi al 31.12.2020, sono prorogati di tre anni. La presente disposizione si applica anche ai diversi termini delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, o degli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale nonché dei relativi piani attuativi che hanno usufruito della proroga di cui all'articolo 30, comma 3-bis, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98
".
Passando all'analisi della legge regionale, approvata in data 28.07.2020, l'articolo 28 recita:
   "1. Anche in considerazione del permanere di gravi difficoltà per il settore delle costruzioni, derivanti dall'emergenza epidemiologica da COVID-19, è prorogata la validità:
a) di tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, per tre anni dalla data di relativa scadenza;
b) delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 46 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e dei termini da esse stabiliti, nonché di quelli contenuti in accordi similari, comunque denominati, previsti dalla legislazione regionale in materia urbanistica, stipulati antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, che conservano validità per tre anni dalla relativa scadenza.
   2. Le scadenze dei termini previsti agli articoli 8-bis, commi i e 2, e 40-bis, comma 1, primo e quarto periodo, della L.R. 12/2005, nonché del termine di cui all'articolo 8, comma 2, della legge regionale 26.11.2019, n. 18 (Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 "Legge per il governo del territorio" e ad altre leggi regionali), differite in applicazione dell'articolo 1, comma 1, della legge regionale 31.03.2020, n. 4 (Differimento dei termini stabiliti da leggi e regolamenti regionali e disposizioni urgenti in materia contabile e di agriturismi, in considerazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19), sono prorogate fino al 31.12.2020.
   3. L'efficacia delle deliberazioni della Giunta regionale relative ai criteri di cui agli articoli 11, comma 5, e 43, comma 2-quinquies, della L.R. 12/2005 è sospesa per novanta giorni dalla data di pubblicazione nel Bollettino ufficiale della Regione Lombardia delle stesse deliberazioni per consentire e agevolare le valutazioni di competenza dei comuni, ai fini della relativa applicazione
”.
Così delineato il quadro normativo di riferimento, si rappresenta che è principio pacifico nella giurisprudenza della Corte Costituzionale quello secondo cui, nell'ambito della materia concorrente «governo del territorio», prevista dall'articolo 117, comma terzo, della Costituzione, i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale (sentenze n. 259 del 2014, n. 139 e n. 102 del 2013 n. 303 del 2003).
Con riguardo alla portata dei «principi fondamentali» riservati alla legislazione statale nelle materie di potestà concorrente, la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire, tra l'altro, che «il rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio [...] deve essere inteso nel senso che l'una è volta a prescrivere criteri ed obiettivi, mentre all'altra spetta l'individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi» (sentenze n. 272 del 2013 e n. 237 del 2009).
La legge regionale in esame, nel regolamentare la disciplina della validità dei titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione, lungi dall'adottare una disciplina di dettaglio rispetto a quella statale, ha introdotto una normativa sostitutiva dei principi dettati dal legislatore statale.
Ed invero l'articolo 28 della legge regionale nel prevedere, al comma 10, lettera a), che la validità di attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, in scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, è tre anni dalla data di relativa scadenza, si pone in contrasto con la previsione contenuta nell'articolo 103, comma 2, del decreto-legge n. 18 del 2020, che, individua un meccanismo di proroga automatica dei titoli in scadenza tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020, e fissa il termine finale della stessa al novantesimo giorno successivo alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza.
Peraltro, la medesima disposizione, diversamente sia dal testo dell'articolo 10, comma 4, del decreto-legge n. 76 del 2020 vigente alla data di approvazione della disposizione regionale che dal testo del medesimo articolo 10, comma 4, del citato decreto-legge, come modificato dalla legge di conversione:
   - individua un termine di proroga diverso disponendo, per quelli in scadenza dal 31.01.2020 e fino al 31.12.2021, la proroga per tre anni dalla data di relativa scadenza. Al riguardo, si sottolinea che l'articolo 10, comma 4, del decreto semplificazioni (anche prima delle modifiche apportate della legge di conversione), stabilisce la proroga, rispettivamente di un anno e di tre anni dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, come indicati nei permessi di costruire rilasciati o comunque formatisi fino al 31.12.2020;
   - non ancora l'operatività della proroga alla comunicazione del soggetto interessato di volersene avvalere;
   - non contiene la previsione che fa salva la compatibilità dei i titoli abilitativi, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati.
In relazione alla disciplina delle convenzioni di lottizzazioni, l'articolo 28, comma 1, lettera b), della legge regionale, nel prevedere la proroga per gli atti "stipulati antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, che conservano validità per tre anni dalla relativa scadenza", si pone in contrasto:
   - con l'articolo 103, comma 2-bis, del decreto-legge c.d. Cura Italia vigente al momento dell'approvazione e della successiva pubblicazione della legge regionale, che stabilisce la proroga per le convenzioni di lottizzazione e i piani attuativi in scadenza tra il 31.01.2020 e il 31.07.2020;
   - con l'articolo 10, comma 4-bis, del decreto-legge c.d. Semplificazione, che individua il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, dagli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale, nonché i termini dei relativi piani attuativi e di qualunque altro atto ad essi propedeutico, formatisi al 31.12.2020, sono prorogati di tre anni.
Alla luce della ricostruzione sopra effettuata, la legge regionale in esame comporta l'invasione della. riserva di competenza statale alla formulazione di principi fondamentali, con tutti i rischi per la certezza e per l'unitarietà della disciplina che tale invasione comporta.
Il contrasto tra la disciplina statale e quella regionale comporta la violazione dei principi fondamentali della materia edilizia, rientrante in quella più generale del «governo del territorio» oggetto di competenza concorrente ex art. 117, terzo comma, Cost., in quanto la disciplina statale dei "titoli edilizi" costituisce norma di principio (Corte costituzionale 09.03.2016, 49).
Per le esposte ragioni,
si ritiene quindi di impugnare innanzi alla Corte costituzionale, ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione, la legge della Regione Lombardia n. 18 del 2020, limitatamente all’articolo 28, che interviene sulla durata della validità dei titoli edilizi, paesaggistici e delle convenzioni di lottizzazione, in violazione dei principi fondamentali della materia edilizia, rientrante in quella più generale del governo del territorio oggetto di competenza concorrente ex art. 117, terzo comma, Cost., con riferimento all'articolo 103, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge n. 18/2020, convertito dalla legge n. 27/2020, nonché all’articolo 10, commi 4 e 4-bis, del decreto-legge n. 76/2020, convertito dalla legge n. 120/2020 (07.10.2020 - commento tratto da e link a www.affariregionali.gov.it).
---------------
Si legga, al riguardo:
  
Ricorso per questione di legittimità costituzionale depositato in cancelleria il 13.10.2020 (del Presidente del Consiglio dei ministri)
Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Lombardia - Differimento di termini e sospensione dell’efficacia di atti in materia di governo del territorio in considerazione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 - Proroga della validità di certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati, e delle convenzioni di lottizzazione.
– Legge della Regione Lombardia 07.08.2020, n. 18 (Assestamento al bilancio 2020-2022 con modifiche di leggi regionali), art. 28.

aggiornamento al 27.03.2021

Sull'istituto della "convalida", ex art. 21-nonies, comma 2, legge n. 241/1990, degli atti amministrativi...

ATTI AMMINISTRATIVIQuanto all’esercizio del potere di convalida in via di autotutela di un atto illegittimo, è costante in giurisprudenza l’affermazione per cui, ai sensi degli artt. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241, e 6, l. 18.03.1968, n. 249, l'atto amministrativo può essere convalidato dall'Autorità amministrativa anche in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale, anche di appello, con la sola esclusione dell'ipotesi in cui sia intervenuta una sentenza passata in giudicato.
E’ stato in proposito osservato che l’esercizio del potere di convalida presuppone un atto non ancora annullato, mancando, in difetto di ciò, lo stesso “oggetto” dell’esercizio del potere di autotutela decisionale; più in particolare, nel caso in cui l’annullamento sia intervenuto in sede giurisdizionale, e la sentenza che lo dispone sia passata in giudicato, gli atti che procedono alla “convalida” di quelli già annullati dal giudice, sono nulli perché adottati in violazione del giudicato.
A ciò deve aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche per difetto totale di elementi essenziali, quali l’oggetto, non potendo sussistere alcun interesse pubblico alla convalida di un atto non più esistente.
---------------
La volontà dell’ente di eliminare i vizi di illegittimità che affliggono gli atti da convalidare, lungi dal determinare uno sviamento del potere rispetto alle finalità per cui esso è riconosciuto, costituisce, al contrario, proprio il perseguimento di tali finalità.
Come noto, infatti, la convalida è il provvedimento con il quale la Pubblica Amministrazione, nell’esercizio del proprio potere di autotutela decisionale ed all’esito di un procedimento di secondo grado, interviene su un provvedimento amministrativo viziato e, come tale, annullabile, emendandolo dai vizi che ne determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità.
Tale atto presuppone pertanto, ai sensi dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse e che non sia decorso un termine ragionevole dall'adozione dell’atto illegittimo.

---------------

Quanto all’esercizio del potere di convalida in via di autotutela di un atto illegittimo, è costante in giurisprudenza l’affermazione per cui, ai sensi degli artt. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241, e 6, l. 18.03.1968, n. 249, l'atto amministrativo può essere convalidato dall'Autorità amministrativa anche in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale, anche di appello, con la sola esclusione dell'ipotesi in cui sia intervenuta una sentenza passata in giudicato (cfr. Cons. St., Sez. V, 25.06.2015, nr. 4650; Cons. St., sez. IV, 29.12.2014, n. 6384; Cons. St., sez. V, 24.04.2013, n. 2278).
E’ stato in proposito osservato che l’esercizio del potere di convalida presuppone un atto non ancora annullato, mancando, in difetto di ciò, lo stesso “oggetto” dell’esercizio del potere di autotutela decisionale; più in particolare, nel caso in cui l’annullamento sia intervenuto in sede giurisdizionale, e la sentenza che lo dispone sia passata in giudicato, gli atti che procedono alla “convalida” di quelli già annullati dal giudice, sono nulli perché adottati in violazione del giudicato. A ciò deve aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche per difetto totale di elementi essenziali, quali l’oggetto, non potendo sussistere alcun interesse pubblico alla convalida di un atto non più esistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 02.04.2012 n. 1958).
Nel caso in disamina la convalida è intervenuta ancora pendente il presente giudizio, prima che l’atto illegittimo venisse travolto definitivamente da una pronuncia di annullamento passata in giudicato, così sanando in via retroattiva i vizi riscontrati dall’Amministrazione.
Con il terzo motivo di censura di tale ricorso si lamenta, inoltre, che il potere di convalida sarebbe stato esercitato oltre il termine ragionevole di cui all’art. 21-nonies, comma 2, L. 241/1990, e cioè circa un anno dopo l’adozione dell’atto convalidato, con ciò violando l’affidamento maturato in capo alle ricorrenti.
Il motivo è infondato.
Ritiene il Collegio, avuto riguardo alla concreta scansione degli eventi che hanno interessato la vicenda in disamina, che il termine entro il quale è stato esercitato il potere di autotutela non può considerarsi irragionevole.
Gli atti convalidati sono stati adottati nel mese di luglio dell’anno 2019; nel successivo mese di ottobre le ricorrenti impugnavano tali provvedimenti con il ricorso introduttivo del presente giudizio, prospettandone alcuni vizi di illegittimità; a luglio 2020 interveniva l’atto di convalida qui in contestazione, all’esito di un procedimento avviato nel precedente mese di marzo 2020.
In tale contesto non pare al Collegio che l’esercizio del potere di convalida possa dirsi intempestivo, avuto, peraltro, riguardo al fatto che ove il legislatore ha inteso codificare un termine per l’esercizio del potere di autotutela, prendendo in considerazione quei casi in cui l’autotutela è suscettibile di incidere in maniera particolarmente negativa sugli interessi privati, lo ha determinato in 18 mesi (cfr. art. 21-nonies, comma 1, L. 241/1990, riferito all’annullamento dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici).
Né, d’altro canto, merita tutela l’affidamento che parte ricorrente invoca quanto al fatto che la controversia sarebbe passata in decisione “nei termini prospettati nel ricorso originario”, posto che l’esercizio dell’autotutela è intervenuto proprio per emendare quei vizi di illegittimità che sono stati denunciati dalle ricorrenti.
Con il quarto motivo di gravame si deduce, ancora, che l’atto impugnato sarebbe illegittimo per sviamento di potere, in quanto il potere di convalida sarebbe stato esercitato dall’Amministrazione non per assumere provvedimenti in autotutela (vuoi conservativa, vuoi demolitoria), bensì per “proteggere” gli atti della Giunta e del dirigente dalle statuizioni del Tribunale.
Anche questo motivo non coglie nel segno: è appena il caso di rilevare in proposito che la volontà dell’ente di eliminare i vizi di illegittimità che affliggevano gli atti da convalidare, lungi dal determinare uno sviamento del potere rispetto alle finalità per cui esso è riconosciuto, costituisce, al contrario, proprio il perseguimento di tali finalità.
Come noto, infatti, la convalida è il provvedimento con il quale la Pubblica Amministrazione, nell’esercizio del proprio potere di autotutela decisionale ed all’esito di un procedimento di secondo grado, interviene su un provvedimento amministrativo viziato e, come tale, annullabile, emendandolo dai vizi che ne determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità.
Tale atto presuppone pertanto, ai sensi dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse, su cui le ricorrenti non svolgono alcuna contestazione, e che non sia decorso un termine ragionevole dall'adozione dell’atto illegittimo (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza 18.05.2017, n. 2351)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 17.12.2020 n. 1269 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa convalida (ex art. 21-nonies, comma 2, della l. n. 241/1990) per il tramite della rimozione del vizio implica necessariamente un’illegittimità di natura “procedurale”, essendo evidente che ogni diverso vizio afferente alla sostanza regolatoria del rapporto amministrativo rispetto al quadro normativo vigente risulterebbe superabile solo attraverso una modifica di quest’ultimo; ius superveniens che, in quanto riguardante il contesto normativo generale, certamente esula da concetto di “rimozione del vizio” afferente la singola e concreta fattispecie provvedimentale.
---------------

1. Viene all’attenzione dell’Adunanza Plenaria l’esatta interpretazione dell’art. 38 del Testo unico edilizia (disposizione che ricalca esattamente quanto innanzi previsto dall’art. 11 della legge n. 47/1985).
2. La disposizione prevede che “In caso di annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa (comma 1). L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36 (comma 2)”.
3. L’articolo da ultimo citato (art. 36, comma 2), com’è noto, disciplina l’accertamento di conformità, ovvero la sanatoria degli interventi abusivi in quanto realizzati ab origine sine titulo, ma conformi alle norme urbanistico edilizie vigenti, sia al tempo della costruzione che al tempo del rilascio del permesso in sanatoria (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 24.04.2018, n. 2496; Sez. II, 18.02.2020, n. 1240).
4. Dunque, il pacifico effetto della disposizione in commento è quello di tutelare, al ricorrere di determinati presupposti e condizioni, l’affidamento ingeneratosi in capo al titolare del permesso di costruire circa la legittimità della progettata e compiuta edificazione conseguente al rilascio del titolo, equiparando il pagamento della sanzione pecuniaria al rilascio del permesso in sanatoria.
4.1. L’equiparazione è solo quoad effectum, costituendo un eccezionale temperamento al generale principio secondo il quale la costruzione abusiva deve essere sempre demolita; temperamento in ragione, non già della sostanziale conformità urbanistica (passata e presente) della stessa (oggetto del diversa fattispecie prevista dall’art. 36 cit.), ma della presenza di un permesso di costruire che ab origine ha giustificato l’edificazione e dato corpo all’affidamento del privato alla luce della generale presunzione di legittimità degli atti amministrativi.
4.2. La composizione degli opposti interessi in rilievo –tutela del legittimo affidamento da una parte, tutela del corretto assetto urbanistico ed edilizio dall’altra– è realizzato dal legislatore per il tramite di una “compensazione” monetaria di valore pari “al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite” (cd fiscalizzazione dell’abuso).
4.2.1. Proprio perché costituente eccezionale deroga al principio di necessaria repressione a mezzo demolizione degli abusi edilizi, la disposizione è presidiata da due condizioni: a) la prima è la motivata valutazione circa l’impossibilità della rimozione dei vizi delle procedure amministrative; b) la seconda è la motivata valutazione circa l’impossibilità di restituzione in pristino.
4.2.2. Trattasi di due condizioni eterogenee poiché la prima attiene alla sfera dell’amministrazione e presuppone che l’attività di convalida del provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di costruire), ex art. 21-nonies comma 2, mediante rimozione del vizio della relativa procedura, non sia oggettivamente possibile; la seconda attiene alla sfera del privato e concerne la concreta possibilità di procedere alla restituzione dei luoghi in pristino stato.
4.3. Entrambe le condizioni sono invero declinate in modo generico dal legislatore, non avendo quest’ultimo chiarito cosa debba intendersi per “vizi delle procedure amministrative” e per “impossibilità” di riduzione in pristino.
4.3.1. I quesiti posti dall’ordinanza di rimessione si concentrano sul primo aspetto, avendo la giurisprudenza in alcuni casi sostenuto che nei “vizi della procedura” possano sussumersi tutti quelli potenzialmente in grado di invalidare il provvedimento, siano essi relativi alla forma e al procedimento, siano essi invece relativi alla conformità del provvedimento finale rispetto alle previsioni edilizie e urbanistiche disciplinati l’edificazione (C.d.S. sez. VI 19.07.2019 n. 5089, e in senso sostanzialmente conforme, fra le molte, C.d.S. sez. VI 28.11.2018 n. 6753 e sez. VI 12.05.2014 n. 2398, da ultimo anche Sez. VI n. 2419/2020).
4.3.2. Secondo questo ormai nutrito filone giurisprudenziale, la fiscalizzazione dell’abuso prescinderebbe dalla tipologia del vizio (procedurale o sostanziale) avendo il legislatore affidato l’eccezionale percorribilità della sanatoria pecuniaria alla valutazione discrezionale dell’amministrazione, in esecuzione di un potere che affonda le sue radici e la sua legittimazione nell’esigenza di tutelare l’affidamento del privato. In questa chiave di lettura è la “motivata valutazione” fornita dall’amministrazione l’unico elemento sul quale il sindacato del giudice amministrativo dovrebbe concentrarsi.
5. Questa Adunanza plenaria è di diverso avviso, alla luce delle seguenti considerazioni d’ordine testuale e sistematico.
5.1. La disposizione in commento fa specifico riferimento ai vizi “delle procedure”, avendo così cura di segmentare le cause di invalidità che possano giustificare l’operatività del temperamento più volte segnalato, in guisa da discernerle dagli altri vizi del provvedimento che, non attenendo al procedimento, involvono profili di compatibilità della costruzione rispetto al quadro programmatorio e regolamentare che disciplina l’an e il quomodo dell’attività edificatoria.
5.2. Non a caso il tenore della norma impone, sia pur per implicito, all’amministrazione l’obbligo di porre preliminarmente rimedio al vizio, rimuovendolo attraverso un’attività di secondo grado pacificamente sussumibile nell’esercizio del potere di convalida contemplato in via generale dall’art. 21-nonies, comma 2, della legge generale sul procedimento. La convalida per il tramite della rimozione del vizio implica necessariamente un’illegittimità di natura “procedurale”, essendo evidente che ogni diverso vizio afferente alla sostanza regolatoria del rapporto amministrativo rispetto al quadro normativo vigente risulterebbe superabile solo attraverso una modifica di quest’ultimo; ius superveniens che, in quanto riguardante il contesto normativo generale, certamente esula da concetto di “rimozione del vizio” afferente la singola e concreta fattispecie provvedimentale.
5.3. Il riferimento ad un vizio procedurale astrattamente convalidabile delimita operativamente il campo semantico della successiva e connessa proposizione normativa riferita all’impossibilità di rimozione, dovendo per questa intendersi una impossibilità che attiene pur sempre ad un vizio che, sul piano astratto sarebbe suscettibile di convalida, e che per le motivate valutazioni espressamente fatte dall’amministrazione, non risulta esserlo in concreto (Consiglio di Stato, A.P., sentenza 07.09.2020 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn ordine alla determina di convalida oggetto di impugnativa, come chiaramente evincibile peraltro dal suo tenore letterale, la stessa ha inteso, ai sensi dell’art. 21-nonies, comma 2, l. 241/1990, sanare il vizio di incompetenza relativa di cui era affetta la delibera di Giunta Municipale, con la conseguenza efficacia retroattiva della medesima delibera di convalida, i cui effetti non potevano che decorrere dall’atto convalidato.
Invero, al riguardo:
   - “L'esercizio del potere di convalida (mediante ratifica) spettante all'organo competente sana con efficacia retroattiva l'atto viziato da incompetenza relativa, ancorché quest'ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente, ma fino a quando non ne sia intervenuto l'annullamento; infatti il provvedimento di secondo grado con cui l'autorità competente fa proprio un atto adottato da un organo riconosciuto incompetente, esprimendo l'univoca volontà di eliminare il vizio suddetto, costituisce un provvedimento di ratifica -o di convalida, secondo la terminologia adottata dall'art. 6 l. n. 249 del 1968- il quale si sostituisce all'atto viziato con effetto "ex tunc”;
   - “Il provvedimento di convalida, correlato al vizio di incompetenza, opera retroattivamente, sicché l'invalidità lamentata da parte ricorrente è venuta meno ab origine, con conseguente carenza di interesse a dedurre il vizio stesso, specie considerando che l'atto di convalida non è stato oggetto di impugnazione”;
   - “È legittima la deliberazione del consiglio comunale con cui si è proceduto alla convalida della deliberazione della giunta comunale con la quale era stato approvato, entro il termine perentorio previsto dalla legge, il regolamento comunale relativo alla variazione dell'aliquota di compartecipazione all'addizionale Irpef, considerato che ai sensi dell'art. 6 della legge 18.03.1968, n. 249, gli atti viziati da incompetenza dell'organo emanante possono essere legittimamente convalidati con efficacia retroattiva in sede di autotutela dall'organo competente, anche se avverso di essi penda impugnativa, fino a quando non ne sia intervenuto l'annullamento. Il provvedimento adottato ai sensi della norma citata costituisce un provvedimento di ratifica -o di convalida secondo la terminologia adottata dal legislatore- il quale si sostituisce all'atto viziato con effetto ex tunc. Da parte della giurisprudenza i due principi sono stati costantemente affermati, con la precisazione che l'esistenza di una controversia giudiziaria non preclude la ratifica dell'atto solo se questo non è stato già annullato durante il giudizio di prima istanza o anche in appello, quando il ricorso di primo grado è stato respinto. Il principio è oggi confermato dall'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990”).
Ed invero il potere di convalida, quale espressione di diritto positivo del principio di conservazione degli atti giuridici, trae fondamento dall'art. 6 l. 18.03.1968, n. 249, norma con valenza generale, e sana con efficacia retroattiva (cfr. art. 1444 c.c.) l'atto viziato da incompetenza, ancorché quest'ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente. Il potere di convalida è inoltre espressamente riconosciuto dall’art. 21-nonies, comma 2, l. 241/1990, purché esso intervenga entro un termine ragionevole dall’atto che si intenda convalidare.
---------------
   - “La convalida di un atto amministrativo viziato è effettuata dalla Pubblica Amministrazione nell'esercizio del proprio potere di autotutela decisionale ed all'esito di un procedimento di secondo grado, laddove sussistano ragioni di pubblico interesse e non sia decorso un termine ragionevole dall'adozione dell'atto illegittimo”;
   - “Per ragioni di economia dei mezzi dell'azione amministrativa e di conservazione dei valori giuridici, è possibile la sanatoria (o convalida) di atti amministrativi affetti da vizi non afferenti al loro contenuto sostanziale. Tale principio ha trovato da ultimo riscontro normativo nell'art. 21-nonies, legge n. 241 del 1990, quale introdotto dalla legge n. 15 del 2005, che espressamente consente la convalida del provvedimento annullabile "sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole".
---------------
   -  “In caso di proposizione di un ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento, l’atto di convalida del provvedimento impugnato produce immediati effetti pregiudizievoli per i ricorrenti, ai quali dunque deve essere garantito il rispetto della garanzie di partecipazione previste dall’ordinamento, attraverso l’avviso di avvio del procedimento”;
   - “In caso di proposizione di ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento in capo ai medesimi ricorrenti, atteso che l’atto di convalida del provvedimento impugnato è tale da provocare un immediato pregiudizio per i ricorrenti stessi, verso questi ultimi pertanto deve essere garantito il rispetto delle garanzie partecipative con l’invio della comunicazione di avvio del procedimento”.
---------------
In generale, va ricordato che l’art. 7, l. n. 241 cit. impone l’obbligo della comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a quelli che per legge debbono intervenirvi nonché agli altri soggetti, individuati o facilmente individuabili, che possono subirne pregiudizio, superando in tale maniera il modulo di definizione unilaterale del pubblico interesse, oggetto, nei confronti dei destinatari di provvedimenti restrittivi, di un riserbo ad excludendum, già ostilmente preordinato a rendere impossibile o sommamente difficile la tutela giurisdizionale degli interessati, introducendo il sistema della democraticità delle decisioni e dell’accessibilità dei documenti amministrativi.
Orbene, in caso di proposizione di ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento in capo ai medesimi ricorrenti appare evidente come l’atto di convalida del provvedimento impugnato sia tale da provocare un immediato pregiudizio per i ricorrenti stessi, verso i quali pertanto deve essere garantito il rispetto delle garanzie partecipative di cui alla normativa invocata.
Il rispetto delle predette garanzie emerge altresì dall’inquadramento del potere di convalida nell’ambito del più generale potere di autotutela cioè di incidere sui propri precedenti atti; tale opinione trova conferma nella disciplina introdotta dalla recente riforma della l. 241 che ha inserito la convalida nell’ambito dell’art. 21-nonies dedicato all’annullamento d’ufficio.
---------------

13.1. In tale ottica va esaminata in via prioritaria, in quanto di carattere assolutamente assorbente, avuto riguardo al decorso nelle more del giudizio del termine di cinque anni dalla delibera della giunta comunale n. 107 del 12/09/2013 del Comune di Casoria, oggetto di convalida con la delibera del Commissario straordinario del Comune di Casoria n. 57 del 30.05.2016, la censura sollevata con il terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti, nella parte in cui si evidenzia che il Comune avrebbe illegittimamente fatto decorrere il termine di cinque anni di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, entro cui adottare il decreto di esproprio, non dall’atto oggetto di convalida, ma dalla medesima deliberazione di convalida, con conseguente elusione del termine massimo di 5 anni stabilito rispettivamente dall'art. 9, comma 2, e dall'art. 13, commi 3 e 4, D.P.R. 327/2001 (superando anche il termine di ulteriori due anni di proroga della pubblica utilità previsto dal comma 5).
13.2. La stessa è fondata in considerazione del rilievo che la determina di convalida oggetto di impugnativa, come chiaramente evincibile peraltro dal suo tenore letterale, ha inteso, ai sensi dell’art. 21-nonies, comma 2, l. 241/1990, sanare il vizio di incompetenza relativa di cui era affetta la delibera di Giunta Municipale n. 107 del 2013, con la conseguenza efficacia retroattiva della medesima delibera di convalida, i cui effetti non potevano che decorrere dall’atto convalidato (ex multis TAR Catania, (Sicilia) sez. III, 29/04/2011, n. 1071, secondo cui, “L'esercizio del potere di convalida (mediante ratifica) spettante all'organo competente sana con efficacia retroattiva l'atto viziato da incompetenza relativa, ancorché quest'ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente, ma fino a quando non ne sia intervenuto l'annullamento; infatti il provvedimento di secondo grado con cui l'autorità competente fa proprio un atto adottato da un organo riconosciuto incompetente, esprimendo l'univoca volontà di eliminare il vizio suddetto, costituisce un provvedimento di ratifica -o di convalida, secondo la terminologia adottata dall'art. 6 l. n. 249 del 1968- il quale si sostituisce all'atto viziato con effetto "ex tunc”;
   - in senso analogo TAR Milano, (Lombardia) sez. III, 06/04/2010, (ud. 18/02/2010, dep. 06/04/2010), n. 988 secondo cui “Il provvedimento di convalida, correlato al vizio di incompetenza, opera retroattivamente, sicché l'invalidità lamentata da parte ricorrente è venuta meno ab origine, con conseguente carenza di interesse a dedurre il vizio stesso, specie considerando che l'atto di convalida non è stato oggetto di impugnazione”;
   - TAR Firenze, (Toscana) sez. I, 20/03/2008, n. 411 secondo cui “È legittima la deliberazione del consiglio comunale con cui si è proceduto alla convalida della deliberazione della giunta comunale con la quale era stato approvato, entro il termine perentorio previsto dalla legge, il regolamento comunale relativo alla variazione dell'aliquota di compartecipazione all'addizionale Irpef, considerato che ai sensi dell'art. 6 della legge 18.03.1968, n. 249, gli atti viziati da incompetenza dell'organo emanante possono essere legittimamente convalidati con efficacia retroattiva in sede di autotutela dall'organo competente, anche se avverso di essi penda impugnativa, fino a quando non ne sia intervenuto l'annullamento. Il provvedimento adottato ai sensi della norma citata costituisce un provvedimento di ratifica -o di convalida secondo la terminologia adottata dal legislatore- il quale si sostituisce all'atto viziato con effetto ex tunc. Da parte della giurisprudenza i due principi sono stati costantemente affermati, con la precisazione che l'esistenza di una controversia giudiziaria non preclude la ratifica dell'atto solo se questo non è stato già annullato durante il giudizio di prima istanza o anche in appello, quando il ricorso di primo grado è stato respinto. Il principio è oggi confermato dall'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990”).
Ed invero il potere di convalida, quale espressione di diritto positivo del principio di conservazione degli atti giuridici, trae fondamento dall'art. 6 l. 18.03.1968, n. 249, norma con valenza generale, e sana con efficacia retroattiva (cfr. art. 1444 c.c.) l'atto viziato da incompetenza, ancorché quest'ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente. Il potere di convalida è inoltre espressamente riconosciuto dall’art. 21-nonies, comma 2, l. 241/1990, purché esso intervenga entro un termine ragionevole dall’atto che si intenda convalidare.
13.3. Le conclusioni innanzi evidenziate sono nell’ipotesi di specie tanto più valide, avuto riguardo alla circostanza che per contro la delibera di Giunta Comunale n. 6 del 2014, di approvazione del progetto esecutivo –che non può che essere successiva all’approvazione del progetto definitivo– con la delibera del commissario straordinario viene sottoposta ad atto meramente confermativo, come claris verbis evincibile dalla relativa motivazione, senza nuova istruttoria e motivazione, con la conseguenza che la delibera del commissario straordinario, rispetto al progetto esecutivo, non ha alcuna natura novativa in senso provvedimentale.
Ciò a dimostrazione della circostanza che con la delibera del Commissario straordinario non si è inteso rinnovare in toto la procedura espropriativa –altrimenti avrebbe dovuto procedersi anche alla riapprovazione, con atto di conferma in senso proprio e non con atto meramente confermativo, del progetto esecutivo– ma semplicemente emendare, con efficacia retroattiva, l’atto di approvazione del progetto definitivo dal vizio di incompetenza relativa da cui era affetto.
Pertanto illegittimamente e contraddittoriamente, con la delibera del commissario straordinario, nonostante il chiaro richiamo all’art. 21-nonies, comma 2, l. 241/1990 e alla circostanza che si intendesse emendare il vizio di incompetenza relativa da cui era affetto l’atto della G.M. di approvazione del progetto definitivo, sottoponendo peraltro ad atto meramente confermativo l’atto di approvazione del progetto esecutivo, si è fatto decorrere il termine di cinque anni, entro il quale adottare il decreto di esproprio, non dall’atto convalidato ma dal provvedimento di convalida.
13.4. Peraltro così facendo il Comune ha inoltre eluso il termine di cinque anni posto dall'art. 13, commi 3 e 4, D.P.R. 327/2001 (superando anche il termine di ulteriori due anni di proroga della pubblica utilità previsto dal comma 5) (cfr. al riguardo, in ordine alla natura perentoria del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità ex multis Cons. Stato Sez. IV Sent., 26/07/2011, n. 4457 secondo cui “L'art. 13 del D.P.R. n. 327 del 2001, dal titolo "Contenuto ed effetti dell'atto che comporta la dichiarazione di pubblica utilità", al comma 3 prevede che "nel provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera può essere stabilito il termine entro il quale il decreto di esproprio va emanato"; al successivo comma 4 poi è espressamente contemplato che "se manca l'espressa determinazione del termine di cui al comma 3, il decreto di esproprio può essere emanato entro il termine di cinque anni, decorrente dalla data in cui diventa efficace l'atto che dichiara la pubblica utilità dell'opera"; ancora, al comma 5 è stabilito che "l'autorità che dichiarato la pubblica utilità dell'opera può disporre la proroga dei termini previsti dai commi 3 e 4 per casi di forza maggiore o per altre giustificate ragioni. La proroga può essere disposta anche d’ufficio, prima della scadenza del termine, per un periodo non superiore a due anni"; quindi al sesto comma è previsto che "la scadenza del termine entro il quale può essere emanato il decreto di esproprio determina l'inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità". Sulla natura perentoria e non ordinatoria del termine quinquennale entro cui adottare l'atto conclusivo del procedimento ablativo, non pare sussistano dubbi, in ossequio ad un più che ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale "al termine finale va riconosciuto, a differenza del termine iniziale, natura perentoria e tanto con riferimento anche al regime giuridico descritto sul punto dall'art. 13 della legge n. 2359 del 1865, norma sostanzialmente riprodotta nell'omologo art. 13 del D.P.R. n. 327/2001” (conferma della sentenza del Tar Lombardia-Brescia, sez. II, n. 2072/2010).
14. Nonostante il carattere assorbente dell’indicata censura, avuto riguardo all’intervenuto decorso del termine quinquennale, con conseguente impossibilità per il Comune di adottare il decreto di esproprio, va osservato che parimenti fondato è il primo motivo di ricorso, nella parte in cui i ricorrenti si dolgono della violazione del disposto dell’art. 21-nonies, comma 2, l. 241/1990, per essere stato l’atto di convalida adottato dopo un lungo lasso di tempo, ovvero due anni e otto mesi, dall’atto convalidato e quindi oltre il termine ragionevole previsto dalla legge (ex multis Cons. Stato Sez. IV, 26/10/2018, n. 6125 secondo cui “La convalida di un atto amministrativo viziato è effettuata dalla Pubblica Amministrazione nell'esercizio del proprio potere di autotutela decisionale ed all'esito di un procedimento di secondo grado, laddove sussistano ragioni di pubblico interesse e non sia decorso un termine ragionevole dall'adozione dell'atto illegittimo”; in senso analogo Cons. Stato Sez. IV, 18/05/2017, n. 2351, Cons. Stato Sez. IV Sent., 18/05/2017, n. 2351; Cons. Stato Sez. VI, 20/04/2006, n. 2198, secondo cui “Per ragioni di economia dei mezzi dell'azione amministrativa e di conservazione dei valori giuridici, è possibile la sanatoria (o convalida) di atti amministrativi affetti da vizi non afferenti al loro contenuto sostanziale. Tale principio ha trovato da ultimo riscontro normativo nell'art. 21-nonies, legge n. 241 del 1990, quale introdotto dalla legge n. 15 del 2005, che espressamente consente la convalida del provvedimento annullabile "sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole").
Ed invero, si deve ritenere, avuto riguardo al termine quinquennale di validità della dichiarazione di pubblica utilità, che il termine di due anni e otto mesi, pari ad oltre la metà di detto termine, non sia un termine ragionevole, avuto anche riguardo alla circostanza che parte ricorrente, già con la notifica del ricorso introduttivo dell’odierno giudizio, avvenuta in data 28.10.2014, aveva sollevato la censura di incompetenza da cui era affetta la delibera della giunta comunale n. 107 del 12/09/2013, confidando nel relativo annullamento giurisdizionale e che pertanto il Comune avrebbe dovuto prontamente attivarsi in ordine alla sua convalida, intervenuta per contro solo in data 30.05.2016.
15. Fondata è inoltre la censura, del pari riferita all’atto di convalida, formulata nel secondo motivo di ricorso, relativa alla violazione dell’art. 7 della l. 241/1990, per non essere stato lo stesso preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, tanto più necessaria in relazione agli atti di autotutela, avuto riguardo al loro carattere discrezionale.
15.1. Peraltro nell’ipotesi di specie in alcun modo poteva essere bypassata la comunicazione di avvio del procedimento, avuto riguardo alla pendenza del ricorso giurisdizionale avverso l’atto convalidato e all’affidabilità nutrita dalla parte ricorrente in ordine al suo annullamento, quanto meno in relazione alla sollevata censura di incompetenza relativa dell’atto giuntale di approvazione del progetto definitivo (in senso analogo TAR Campania, Salerno, sez. II. 14/12/2011, n. 1991).
Come indicato nella citata pronuncia infatti in giurisprudenza deve intendersi prevalente l’affermazione della necessità di tale adempimento formale, proprio nel caso di convalida di vizi, fatti risaltare a mezzo di ricorso giurisdizionale amministrativo: “In caso di proposizione di un ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento, l’atto di convalida del provvedimento impugnato produce immediati effetti pregiudizievoli per i ricorrenti, ai quali dunque deve essere garantito il rispetto della garanzie di partecipazione previste dall’ordinamento, attraverso l’avviso di avvio del procedimento” (TAR Trentino Alto Adige Trento, 02.01.2007, n. 4); “In caso di proposizione di ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento in capo ai medesimi ricorrenti, atteso che l’atto di convalida del provvedimento impugnato è tale da provocare un immediato pregiudizio per i ricorrenti stessi, verso questi ultimi pertanto deve essere garantito il rispetto delle garanzie partecipative con l’invio della comunicazione di avvio del procedimento” (TAR Liguria Genova, sez. I, 07.04.2006, n. 353).
Nella parte motiva della decisione, da ultimo citata, significativamente si legge: “Del pari fondato appare il sesto motivo di gravame laddove si censura l’adozione di un atto di convalida senza il rispetto delle garanzie partecipative al relativo procedimento facenti capo ai soggetti che quel provvedimento hanno impugnato in sede giurisdizionale.
In generale, va ricordato che l’art. 7, l. n. 241 cit. impone l’obbligo della comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a quelli che per legge debbono intervenirvi nonché agli altri soggetti, individuati o facilmente individuabili, che possono subirne pregiudizio, superando in tale maniera il modulo di definizione unilaterale del pubblico interesse, oggetto, nei confronti dei destinatari di provvedimenti restrittivi, di un riserbo ad excludendum, già ostilmente preordinato a rendere impossibile o sommamente difficile la tutela giurisdizionale degli interessati, introducendo il sistema della democraticità delle decisioni e dell’accessibilità dei documenti amministrativi (cfr. ad es. Consiglio Stato, sez. VI, 30.12.2005, n. 7592).
Orbene, in caso di proposizione di ricorso giurisdizionale avverso un provvedimento amministrativo ritenuto lesivo delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento in capo ai medesimi ricorrenti appare evidente come l’atto di convalida del provvedimento impugnato sia tale da provocare un immediato pregiudizio per i ricorrenti stessi, verso i quali pertanto deve essere garantito il rispetto delle garanzie partecipative di cui alla normativa invocata.
Il rispetto delle predette garanzie emerge altresì dall’inquadramento del potere di convalida nell’ambito del più generale potere di autotutela cioè di incidere sui propri precedenti atti; tale opinione trova conferma nella disciplina introdotta dalla recente riforma della l. 241 che ha inserito la convalida nell’ambito dell’art. 21-nonies dedicato all’annullamento d’ufficio
”.
16. In considerazione delle precedenti considerazioni, il ricorso per motivi aggiunti va accolto, con assorbimento delle ulteriori censure, avuto riguardo tra l’altro all’intervenuto decorso del termine di cinque anni di validità della dichiarazione di pubblica utilità, secondo quanto evidenziato nella disamina del terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti, con conseguente annullamento della delibera del Commissario straordinario del Comune di Casoria n. 57 del 30.05.2016, nonché dei relativi atti consequenziali fra cui (avuto riguardo alla ritenuta retroattività delle delibera del commissario straordinario) la delibera n. 6 del 23/01/2014 della Giunta comunale di Casoria, di approvazione del progetto esecutivo dell'opera (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 01.09.2020 n. 3716 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPer giurisprudenza pacifica, malgrado il mero ripristino della presunta legalità violata non possa di per sé sorreggere il ritiro in autotutela, ciò ha tuttavia luogo ogni qualvolta la posizione del destinatario del provvedimento rimosso si sia consolidata, suscitando un affidamento sulla sua legittimità, essendo in tale caso l'esercizio del potere di secondo grado subordinato alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'annullamento, prevalente su quello del privato alla conservazione del titolo legittimo.
Viceversa, quando non sia ingenerato alcun legittimo affidamento nel destinatario, poiché ad esempio, come ha avuto luogo nel caso di specie, l'annullamento d'ufficio interviene a breve distanza di tempo, non è invece necessaria una penetrante motivazione sull'interesse pubblico, né una sua comparazione con quello del privato sacrificato, posto che, in tali casi, l'interesse all'annullamento può considerarsi “in re ipsa”.
---------------
In base a quanto previsto dall’art. 21-nonies, c. 2, L. n. 241/1990, “è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico” che, nel caso di specie, risultano tuttavia assenti, sia in ragione della palese violazione dell’art. 6-bis L. n. 241/1990, e del sotteso interesse pubblico di rango costituzionale al buon andamento ed all’imparzialità dell’azione amministrativa, che del breve lasso di tempo intercorso tra il provvedimento e l’esercizio dell’autotutela.
Inoltre, rientrando la convalida dell'atto viziato nell'esercizio della discrezionalità dell'Amministrazione, dall’omesso esercizio di tale potere, non possono desumersi vizi di irragionevolezza, in presenza dell'illegittimità della procedura e del provvedimento finale.

---------------

III.1) Con il secondo motivo, l’istante lamenta la mancanza di un concreto interesse pubblico all’esercizio del potere di autotutela, ciò che ne renderebbe illegittimo l’esercizio.
Il motivo è infondato considerato che, per giurisprudenza pacifica, malgrado il mero ripristino della presunta legalità violata non possa di per sé sorreggere il ritiro in autotutela, ciò ha tuttavia luogo ogni qualvolta la posizione del destinatario del provvedimento rimosso si sia consolidata, suscitando un affidamento sulla sua legittimità, essendo in tale caso l'esercizio del potere di secondo grado subordinato alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'annullamento, prevalente su quello del privato alla conservazione del titolo legittimo (TAR Liguria, Sez. I, 26.07.2017, n. 687).
Viceversa, quando non sia ingenerato alcun legittimo affidamento nel destinatario, poiché ad esempio, come ha avuto luogo nel caso di specie, l'annullamento d'ufficio interviene a breve distanza di tempo, non è invece necessaria una penetrante motivazione sull'interesse pubblico, né una sua comparazione con quello del privato sacrificato, posto che, in tali casi, l'interesse all'annullamento può considerarsi “in re ipsa” (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23.10.2019, n. 2215, TAR Lazio, Roma, Sez. II, 07.03.2017, n. 3204).
...
IV) Con il terzo motivo, l’istante lamenta il mancato esercizio del potere di convalida, essendo pacifico, a suo dire, il suo possesso dei requisiti necessari ad ottenere l’assegnazione dell’incarico annullato dal provvedimento impugnato.
Osserva il Collegio che, in base a quanto previsto dall’art. 21-nonies, c. 2, L. n. 241/1990, “è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico”, che come detto, nel caso di specie, risultano tuttavia assenti, sia in ragione della palese violazione dell’art. 6-bis L. n. 241/1990, e del sotteso interesse pubblico di rango costituzionale al buon andamento ed all’imparzialità dell’azione amministrativa, che del breve lasso di tempo intercorso tra il provvedimento e l’esercizio dell’autotutela.
Inoltre, rientrando la convalida dell'atto viziato nell'esercizio della discrezionalità dell'Amministrazione, dall’omesso esercizio di tale potere, non possono desumersi vizi di irragionevolezza, in presenza dell'illegittimità della procedura e del provvedimento finale (TAR Campania, Napoli, Sez. V, 01.02.2016, n. 607)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 03.04.2020 n. 590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl potere di convalida del provvedimento amministrativo illegittimo, previsto dall’art. 21-novies, comma 2, della l. 07.08.1990, n. 241, ha quali unici presupposti le ragioni di interesse pubblico e il rispetto di un termine ragionevole.
L’istituto in esame si inquadra nel fenomeno della “convalescenza” dell’atto amministrativo, che si verifica allorquando la Pubblica amministrazione, in presenza di un atto annullabile per illegittimità, ritenga con una propria determinazione volitiva, anziché di procedere al ritiro mediante l’annullamento, di mantenerlo in vita eliminando i vizi che lo inficiano. Trattasi, cioè, di atto espressivo di un potere di autotutela conservativa, destinato in quanto tale a sanare retroattivamente i vizi di atti già adottati senza tuttavia provvedere alla sostituzione di questi in modo da assumere autonoma efficacia abilitativa.
Afferma il TAR Veneto che il requisito dell’interesse pubblico nella convalida non può «essere enfatizzato, in quanto un atto di convalida trova la sua giustificazione nell’evitare le conseguenze negative dell’illegittimità di un provvedimento e nell’esigenza del ripristino della legalità».
La ragione di interesse pubblico sottesa all’opzione per la convalida, anziché per la riedizione del relativo potere amministrativo, è da ravvisare nelle esigenze di economia dei mezzi giuridici e di conservazione degli atti sottesi alla codifica del relativo istituto.
---------------

16. Ritiene infine la Sezione di poter trattare congiuntamente gli ultimi due motivi di gravame, in quanto riproduttivi delle doglianze esposte nei motivi aggiunti con specifico riguardo alla reiterazione del provvedimento quale “convalida” del precedente, emendato dei vizi paventati nell’ordinanza cautelare n. 878/2005: in essa, dunque, non si sarebbe dato debito conto delle osservazioni della parte, con ciò depauperandone la disposta partecipazione al procedimento, e di fatto omettendo di valutare le aporie ed incongruenze ampiamente descritte nei paragrafi precedenti.
Il potere di convalida del provvedimento amministrativo illegittimo, previsto dall’art. 21-novies, comma 2, della l. 07.08.1990, n. 241, ha quali unici presupposti le ragioni di interesse pubblico e il rispetto di un termine ragionevole.
L’istituto in esame si inquadra nel fenomeno della “convalescenza” dell’atto amministrativo, che si verifica allorquando la Pubblica amministrazione, in presenza di un atto annullabile per illegittimità, ritenga con una propria determinazione volitiva, anziché di procedere al ritiro mediante l’annullamento, di mantenerlo in vita eliminando i vizi che lo inficiano. Trattasi, cioè, di atto espressivo di un potere di autotutela conservativa, destinato in quanto tale a sanare retroattivamente i vizi di atti già adottati senza tuttavia provvedere alla sostituzione di questi in modo da assumere autonoma efficacia abilitativa (Cons. Stato, sez. V, sez. V, 18.12.2017, n. 5928; id., 07.07.2015, n. 3340).
Afferma il TAR per il Veneto
(Sez. II, sentenza 12.12.2012 n. 1540) che il requisito dell’interesse pubblico nella convalida non può «essere enfatizzato, in quanto un atto di convalida trova la sua giustificazione nell’evitare le conseguenze negative dell’illegittimità di un provvedimento e nell’esigenza del ripristino della legalità».
Nella specie, si è in presenza di un provvedimento nuovo (il decreto di convalida del 14.02.2007), ma che si collega all’atto convalidato (permesso di costruire in sanatoria del 06.11.2003), al fine di mantenerne fermi gli effetti fin dal momento in cui questo venne emanato (efficacia ex tunc), con il preciso scopo di operare una sanatoria dell’atto viziato nel momento storico di avvenuta instaurazione della controversia giudiziaria, senza che in ciò possa rinvenirsi una qualsiasi volontà di riesercizio di un’attività discrezionale e/o di amministrazione attiva esercitata per la prima volta.
La ragione di interesse pubblico sottesa all’opzione per la convalida, anziché per la riedizione del relativo potere amministrativo, è da ravvisare nelle esigenze di economia dei mezzi giuridici e di conservazione degli atti sottesi alla codifica del relativo istituto: preso atto della assentibilità dell’istanza, ontologicamente volta ad incidere su un intervento già realizzato, comunque l’effetto sanante avrebbe dovuto incidere sullo stato di fatto per come prospettato al momento della presentazione dell’istanza.
Ciò a maggior ragione avuto riguardo alla tipologia di vizio che il Comune di Venezia, in via del tutto tuzioristica, ha inteso sanare in adesione alle indicazioni del giudice di prime cure ed evitando ulteriore pregiudizio, riveniente dall’accentuata situazione di incertezza, per il richiedente il titolo, ovvero il mancato preventivo coinvolgimento di un soggetto che, agli esiti dell’odierno giudizio, non aveva alcun titolo a prendere parte al relativo procedimento (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 16.03.2020 n. 1889 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl presupposto alla base della convalida del provvedimento amministrativo è rappresentato dall’appropriazione da parte dell’autorità competente dell’atto in precedenza adottato dall’autorità incompetente.
In particolare, la convalida “… può verificarsi nel caso di atti invalidi per vizi formali o di procedura o per incompetenza: in tale ultima ipotesi il potere di convalida è naturalmente di spettanza di una autorità diversa da quella che ha adottato l’atto originario ... essendo pacifico in dottrina e giurisprudenza che alla convalida può provvedere anche una autorità diversa da quella che ha adottato l’atto da convalidare”.
---------------
Secondo pacifico orientamento, “il vizio di incompetenza, quale vizio di legittimità dell’atto amministrativo, comporta soltanto la annullabilità e non la nullità dell’atto stesso”.
In ogni caso, «… Con riguardo al tema generale della nullità, si è affermato che “nel diritto amministrativo la nullità costituisce una forma speciale di invalidità, che si ha nei soli casi, oggi meglio definiti dal legislatore, in cui sia specificamente sancita dalla legge, mentre l’annullabilità del provvedimento costituisce la regola generale di invalidità del provvedimento, a differenza di quanto avviene nel diritto civile dove la regola generale in caso di violazione di norme imperative è quella della nullità” …».
Nel caso di specie, l’esistenza della previsione di cui all’art. 21-nonies, comma 2, legge n. 241/1990 esclude in radice che l’asserito vizio di incompetenza del Sindaco ad emettere l’ordinanza impugnata possa ritenersi suscettibile di determinare la nullità del medesimo provvedimento.
---------------
La convalida in pendenza di giudizio del provvedimento gravato è stata correttamente ritenuta necessaria dalla P.A. al fine di perseguire la finalità dell’economia dei mezzi giuridici, oltre che per garantire l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa, in nome dei quali l’Amministrazione deve rimuovere prontamente eventuali vizi fatti constare dai privati, sanando ove occorra gli atti già adottati.
«… La convalida, sotto un profilo spiccatamente dottrinario, è figura del sistema amministrativo facente parte del più ampio fenomeno dell’autotutela, potere in virtù del quale la P.A. ha la facoltà di sanare i propri atti da vizi di legittimità, in applicazione, come evidenziato dalla giurisprudenza, del principio di economia dei mezzi giuridici e di conservazione degli atti.
Essa consiste, in particolare in una manifestazione di volontà della pubblica amministrazione rivolta ad eliminare il vizio dell’atto (originariamente) invalido, in genere per vizi formali o di procedura o per incompetenza.
Le ragioni di economia dei mezzi giuridici poi è il principio che è stato tenuto in passato in considerazione dalla giurisprudenza al fine di consentire l’esercizio del potere di convalida avente ad oggetto anche un atto che sia sub iudice; e comunque l’ammissibilità della convalida di un atto nelle more del giudizio è da ritenersi ormai fuor di dubbio alla luce della novella recata dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, norma che ha previsto la possibilità, in generale, di convalida dell’atto per ragioni di pubblico interesse ed entro un ragionevole lasso temporale, senza che il legislatore abbia previsto come causa preclusiva la pendenza di un giudizio. …».
---------------

4.2.2.1. - Con il primo motivo aggiunto il ricorrente afferma che il soggetto competente ad emanare il provvedimento di convalida sarebbe la stessa autorità firmataria del provvedimento da convalidare, ovvero, nel caso di specie, il Sindaco.
La censura si pone innanzitutto in contraddizione con il ricorso introduttivo del giudizio, laddove invece il So. ha sostenuto l’incompetenza del Sindaco ad emanare l’ordinanza di rilascio.
In ogni caso, il motivo è infondato: infatti il presupposto alla base della convalida del provvedimento amministrativo è rappresentato dall’appropriazione da parte dell’autorità competente dell’atto in precedenza adottato dall’autorità incompetente.
In particolare, la convalida… può verificarsi nel caso di atti invalidi per vizi formali o di procedura o per incompetenza: in tale ultima ipotesi il potere di convalida è naturalmente di spettanza di una autorità diversa da quella che ha adottato l’atto originario ... essendo pacifico in dottrina e giurisprudenza -come si è sopra detto- che alla convalida può provvedere anche una autorità diversa da quella che ha adottato l’atto da convalidare” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 09.07.2010, n. 4460).
Parimenti non è meritevole di positivo apprezzamento l’argomento utilizzato da parte ricorrente secondo cui non ricorrerebbero i presupposti per la convalida dell’ordinanza sindacale, poiché quest’ultima sarebbe affetta da nullità e non da semplice illegittimità.
Tuttavia, secondo pacifico orientamento, “il vizio di incompetenza, quale vizio di legittimità dell’atto amministrativo, comporta soltanto la annullabilità e non la nullità dell’atto stesso” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29.05.2009, n. 3371).
In ogni caso, «… Con riguardo al tema generale della nullità, si è affermato (Cons. Stato, sez. VI, n. 3173/2007 e n. 891/2006) che “nel diritto amministrativo la nullità costituisce una forma speciale di invalidità, che si ha nei soli casi, oggi meglio definiti dal legislatore, in cui sia specificamente sancita dalla legge, mentre l’annullabilità del provvedimento costituisce la regola generale di invalidità del provvedimento, a differenza di quanto avviene nel diritto civile dove la regola generale in caso di violazione di norme imperative è quella della nullità” …» (Cons. Stato, Sez. IV, 28.10.2011, n. 5799).
Nel caso di specie, l’esistenza della previsione di cui all’art. 21-nonies, comma 2, legge n. 241/1990 esclude in radice che l’asserito vizio di incompetenza del Sindaco ad emettere l’ordinanza impugnata possa ritenersi suscettibile di determinare la nullità del medesimo provvedimento.
Né a diverse conclusioni si perviene sulla base del parere dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato menzionato dal So. a pag. 8 del ricorso per motivi aggiunti, il quale anzi afferma che “l’esercizio del potere di ordinanza, nel caso di specie, pare riconducibile non già all’alveo dell’art. 54 d.lgs. 267/2000, bensì nell’ambito del potere di autotutela riconosciuto per la tutela dei beni demaniali”.
Adeguandosi a tali valutazioni, il Comune di San Marco in Lamis, a mezzo del proprio dirigente, competente in materia, ha convalidato gli effetti dell’ordinanza sindacale disponendo il rilascio del bene.
Priva di pregio è, infine, la lamentata frustrazione dell’effettività del rimedio giurisdizionale relativamente all’impugnazione dell’ordinanza sindacale, frustrazione che secondo la prospettazione di parte ricorrente si avrebbe a seguito dell’emissione del provvedimento di convalida.
Al contrario, la convalida in pendenza di giudizio del provvedimento gravato è stata correttamente ritenuta necessaria dalla P.A. al fine di perseguire la finalità dell’economia dei mezzi giuridici, oltre che per garantire l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa, in nome dei quali l’Amministrazione deve rimuovere prontamente eventuali vizi fatti constare dai privati, sanando ove occorra gli atti già adottati.
Ha evidenziato, a tal proposito, Cons. Stato, Sez. IV, 14.10.2011, n. 5538: «… La convalida, sotto un profilo spiccatamente dottrinario, è figura del sistema amministrativo facente parte del più ampio fenomeno dell’autotutela, potere in virtù del quale la P.A. ha la facoltà di sanare i propri atti da vizi di legittimità, in applicazione, come evidenziato dalla giurisprudenza (cfr. Cons. Stato Sez. IV 09/07/2010 n. 4460), del principio di economia dei mezzi giuridici e di conservazione degli atti.
Essa consiste, in particolare in una manifestazione di volontà della pubblica amministrazione rivolta ad eliminare il vizio dell’atto (originariamente) invalido, in genere per vizi formali o di procedura o per incompetenza.
Le ragioni di economia dei mezzi giuridici poi è il principio che è stato tenuto in passato in considerazione dalla giurisprudenza al fine di consentire l’esercizio del potere di convalida avente ad oggetto anche un atto che sia sub iudice (cfr. Cons. Stato Sez. IV 26/06/1998 n. 991); e comunque l’ammissibilità della convalida di un atto nelle more del giudizio è da ritenersi ormai fuor di dubbio alla luce della novella recata dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, norma che ha previsto la possibilità, in generale, di convalida dell’atto per ragioni di pubblico interesse ed entro un ragionevole lasso temporale (disposizione peraltro espressamente richiamata dalla nota di avvio del procedimento di convalida per cui è causa), senza che il legislatore abbia previsto come causa preclusiva la pendenza di un giudizio. …
».
In definitiva, il primo motivo aggiunto è infondato
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 12.02.2019 n. 228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’art. 21-nonies della legge 241/1990 prevede che “è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullamento, sussistendone le ragioni di interesse pubblico”.
Dunque, il potere di convalida dell’atto amministrativo ha sempre natura discrezionale e non ha mai natura vincolata, dovendo sempre l’amministrazione valutare la sussistenza delle ragioni di interesse pubblico.
Peraltro, la convalida dell’atto affetto dal solo vizi di incompetenza deve essere effettuata non dall’organo incompetente, ma dall’organo effettivamente competente
---------------

9.3.- I motivi aggiunti sono infondati.
L’art. 21-nonies della legge 241/1990 prevede che “è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullamento, sussistendone le ragioni di interesse pubblico”.
Dunque, il potere di convalida dell’atto amministrativo ha sempre natura discrezionale e non ha mai natura vincolata, dovendo sempre l’amministrazione valutare la sussistenza delle ragioni di interesse pubblico.
Peraltro, la convalida dell’atto affetto dal solo vizi di incompetenza deve essere effettuata non dall’organo incompetente, ma dall’organo effettivamente competente (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 04.01.2019 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOve anche si ritenesse l’atto presidenziale viziato da illegittimità, si tratterebbe di incompetenza relativa ex art. 21-octies, co. 1, della legge 241/1990, tale quindi da determinare annullabilità e non nullità dell’atto (come accadrebbe nell’ipotesi, non ricorrente nella specie, di difetto assoluto di attribuzioni).
Trattasi pertanto di vizio sanabile ai sensi dell’art. 21-nonies, comma 2, della Legge n. 241/1990 attraverso un provvedimento di convalida, il quale assume, tradizionalmente, la denominazione di “
ratifica” quando è diretto a sanare un vizio di incompetenza.
L’efficacia sanante ha efficacia “ex tunc” secondo indirizzi consolidati sia teorici che giurisprudenziali e, poiché il Consiglio delegante ha ratificato “in toto” l’attività delegata, debbono ritenersi definitivamente consolidati e stabilizzati gli effetti degli atti compiuti dal Presidente per la formazione della Commissione per l’esame finale di idoneità dei candidati.
Al riguardo, a supporto dell’argomentazione che precede, giova citare un recente arresto del Consiglio di Stato secondo cui “…l'originaria illegittimità è stata sanata dalla ratifica con le due delibere consiliari da ultimo ricordate, emesse da quello che è l'organo investito del potere di adottare gli atti in questione, ovvero il consiglio d'amministrazione del Consorzio odierno appellante principale.
Deve poi evidenziarsi che in virtù degli artt. 21-nonies, comma 2, l. 07.08.1990, n. 241, e 6, l. 18.03.1968, n. 249 (Delega al Governo per il riordinamento dell'Amministrazione dello Stato, per il decentramento delle funzioni e per il riassetto delle carriere e delle retribuzioni dei dipendenti statali), l'atto amministrativo può essere convalidato dall'autorità amministrativa anche in pendenza del giudizio di impugnazione, e finanche in grado d'appello, con la sola esclusione dell'ipotesi che sia intervenuta una sentenza passata in giudicato.
Quindi, nell'ambito di questo generale potere di convalida rientra la specifica ipotesi della ratifica, la quale consiste nella sanatoria di atti affetti dal vizio dell'incompetenza relativa, come appunto avvenuto nel caso di specie”.
---------------

Il Collegio ritiene che sia dirimente nella specie il dato oggettivo dell’avvenuta ratifica deliberata dal Consiglio in data 25.11.2016, in quanto gli effetti sananti ed “ex tunc” di essa (che non risulta peraltro impugnata dal ricorrente) consentono anche di prescindere dalla necessità di approfondire la censura relativa alla validità della delega che parte ricorrente collega alla mancanza di una previsione normativa (almeno regolamentare) che la autorizzasse.
Infatti, ove anche si ritenesse l’atto presidenziale viziato da illegittimità, si tratterebbe di incompetenza relativa ex art. 21-octies, co. 1, della legge 241/1990, tale quindi da determinare annullabilità e non nullità dell’atto (come accadrebbe nell’ipotesi, non ricorrente nella specie, di difetto assoluto di attribuzioni).
Trattasi pertanto, come giustamente ritenuto dall’Ente resistente, di vizio sanabile ai sensi dell’art. 21-nonies, comma 2, della Legge n. 241/1990 attraverso un provvedimento di convalida, il quale assume, tradizionalmente, la denominazione di “ratifica” quando è diretto a sanare un vizio di incompetenza.
L’efficacia sanante ha efficacia “ex tunc” secondo indirizzi consolidati sia teorici che giurisprudenziali e, poiché il Consiglio delegante ha ratificato “in toto” l’attività delegata, debbono ritenersi definitivamente consolidati e stabilizzati gli effetti degli atti compiuti dal Presidente per la formazione della Commissione per l’esame finale di idoneità dei candidati.
Al riguardo, a supporto dell’argomentazione che precede, giova citare un recente arresto del Consiglio di Stato secondo cui “…l'originaria illegittimità è stata sanata dalla ratifica con le due delibere consiliari da ultimo ricordate, emesse da quello che è l'organo investito del potere di adottare gli atti in questione, ovvero il consiglio d'amministrazione del Consorzio odierno appellante principale.
Deve poi evidenziarsi che in virtù degli artt. 21-nonies, comma 2, l. 07.08.1990, n. 241, e 6, l. 18.03.1968, n. 249 (Delega al Governo per il riordinamento dell'Amministrazione dello Stato, per il decentramento delle funzioni e per il riassetto delle carriere e delle retribuzioni dei dipendenti statali), l'atto amministrativo può essere convalidato dall'autorità amministrativa anche in pendenza del giudizio di impugnazione, e finanche in grado d'appello, con la sola esclusione dell'ipotesi che sia intervenuta una sentenza passata in giudicato (in questo senso, da ultimo: Cons. Stato, IV, 29.12.2014, n. 6384; V, 06.10.2015, n. 4650).
Quindi, nell'ambito di questo generale potere di convalida rientra la specifica ipotesi della ratifica, la quale consiste nella sanatoria di atti affetti dal vizio dell'incompetenza relativa, come appunto avvenuto nel caso di specie
” (Consiglio di Stato, sez. V, 02.08.2016, n. 3482) (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 11.09.2018 n. 9254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVINella tradizionale impostazione, la convalida del provvedimento amministrativo è stata configurata dalla dottrina e dalla giurisprudenza quale provvedimento di secondo grado con funzione di sanatoria di un precedente atto viziato: funzione esplicantesi mediante una dichiarazione diretta ad eliminare il vizio dell’atto invalido, sempre che ciò fosse nel potere della stessa autorità competente ad emanarlo e purché sussistesse un interesse pubblico ad adottarlo.
I vizi ritenuti sanabili a mezzo di convalida erano individuati, anzitutto, nell’incompetenza (nel qual caso l’autorità deputata ad emanare l’atto di convalida sarebbe stata, ovviamente, diversa da quella che aveva emanato l’atto viziato), per la quale l’art. 6 della l. n. 249/1968 recava l’espressa previsione del potere di convalida, anche in pendenza di un contenzioso giurisdizionale.
Inoltre, erano individuati nei vizi formali e di procedura, ma anche in quelli di contenuto (es. inserzione di una condizione illegittima) e nello stesso difetto di motivazione (ricompreso tra i vizi formali), mentre non si riteneva possibile la convalida per i vizi di sviamento di potere e di eccesso di potere per travisamento o errore.
Il potere di convalida è stato positivizzato a livello generale dalla l. 11.02.2005, n. 15, mediante l’inserimento, all’interno della l. n. 241/1990, dell’art. 21-nonies, il quale, al comma 2, così dispone: “È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole”.
Orbene, secondo la giurisprudenza più recente, l’art. 21-nonies, comma 2, della l. n. 241/1990, introdotto dalla l. n. 15/2005, nel prevedere la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, si riferisce, genericamente, ad ogni tipologia di provvedimento amministrativo annullabile, senza porre limitazioni in materia e, quindi, ammettendo anche la convalida di vizi sostanziali, per ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole.
Ed invero, si è precisato che, alla luce della disciplina generale della convalida introdotta dalla l. n. 15/2005, non è condivisibile l’assunto della sanabilità dei soli vizi formali: infatti, il tradizionale orientamento sfavorevole alla sanabilità dei vizi sostanziali, fondato sull’art. 6 della l. n. 249/1968, può considerarsi superato dall’art. 21-nonies della l. n. 241 cit., che non pone limitazioni in materia, riferendosi genericamente al provvedimento amministrativo annullabile (e non ai soli atti viziati da incompetenza o comunque da vizi di forma), con conseguente ammissibilità della convalida di vizi sostanziali.
---------------
Nessun ostacolo all’esercizio del potere di convalida può farsi derivare dal dubbio che gli atti da convalidare, in quanto sospesi in parte qua in sede cautelare dal TAR, non siano nella disponibilità della P.A. per essere convalidati.
Un simile dubbio, infatti, non avrebbe ragion d’essere, tenuto conto dell’orientamento della costante giurisprudenza, secondo cui l’ammissibilità della convalida di un atto nelle more del giudizio è da ritenersi, ormai, fuori di dubbio in virtù delle disposizioni contenute nell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990, pure in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale, anche di appello, con la sola esclusione dell’ipotesi in cui sia intervenuta una sentenza passata in giudicato.
---------------
L’esercizio del potere di convalida comporta l’emanazione di un provvedimento, nuovo ed autonomo rispetto a quello da convalidare, di carattere costitutivo, che si ricollega all’atto convalidato, al fine di mantenerne gli effetti fin dal momento in cui esso è stato emanato.
Il provvedimento di convalida va a sostituirsi a quello di primo grado ove ricorrano i presupposti dell’individuazione dell’atto da convalidare, della specificazione del vizio da eliminare, del cd. animus convalidandi, cioè della volontà di rimuovere il vizio, nonché della produzione degli stessi effetti che l’atto oggetto di convalida intendeva produrre.
---------------

Nella fattispecie ora all’esame, pertanto, il vizio dei divieti originari, sanato con i provvedimenti di “convalida”, ha natura sostanziale, cosicché si tratta di vedere se in relazione ad esso fosse predicabile o meno il potere di convalida degli atti amministrativi.
Nella tradizionale impostazione, la convalida del provvedimento amministrativo è stata configurata dalla dottrina e dalla giurisprudenza quale provvedimento di secondo grado con funzione di sanatoria di un precedente atto viziato: funzione esplicantesi mediante una dichiarazione diretta ad eliminare il vizio dell’atto invalido, sempre che ciò fosse nel potere della stessa autorità competente ad emanarlo e purché sussistesse un interesse pubblico ad adottarlo.
I vizi ritenuti sanabili a mezzo di convalida erano individuati, anzitutto, nell’incompetenza (nel qual caso l’autorità deputata ad emanare l’atto di convalida sarebbe stata, ovviamente, diversa da quella che aveva emanato l’atto viziato), per la quale l’art. 6 della l. n. 249/1968 recava l’espressa previsione del potere di convalida, anche in pendenza di un contenzioso giurisdizionale.
Inoltre, erano individuati nei vizi formali e di procedura, ma anche in quelli di contenuto (es. inserzione di una condizione illegittima) e nello stesso difetto di motivazione (ricompreso tra i vizi formali), mentre non si riteneva possibile la convalida per i vizi di sviamento di potere e di eccesso di potere per travisamento o errore.
Il potere di convalida è stato positivizzato a livello generale dalla l. 11.02.2005, n. 15, mediante l’inserimento, all’interno della l. n. 241/1990, dell’art. 21-nonies, il quale, al comma 2, così dispone: “È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole”.
Orbene, secondo la giurisprudenza più recente, l’art. 21-nonies, comma 2, della l. n. 241/1990, introdotto dalla l. n. 15/2005, nel prevedere la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, si riferisce, genericamente, ad ogni tipologia di provvedimento amministrativo annullabile, senza porre limitazioni in materia e, quindi, ammettendo anche la convalida di vizi sostanziali, per ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 02.02.2016, n. 175).
Ed invero, si è precisato che, alla luce della disciplina generale della convalida introdotta dalla l. n. 15/2005, non è condivisibile l’assunto della sanabilità dei soli vizi formali: infatti, il tradizionale orientamento sfavorevole alla sanabilità dei vizi sostanziali, fondato sull’art. 6 della l. n. 249/1968, può considerarsi superato dall’art. 21-nonies della l. n. 241 cit., che non pone limitazioni in materia, riferendosi genericamente al provvedimento amministrativo annullabile (e non ai soli atti viziati da incompetenza o comunque da vizi di forma), con conseguente ammissibilità della convalida di vizi sostanziali (cfr. TAR Lazio, Latina, Sez. I, 04.12.2014, n. 1036; id. 11.04.2013, n. 312; id., 30.05.2012, n. 415).
Ne consegue che nel caso di specie, il fatto che il vizio sanato avesse natura sostanziale e non formale, trattandosi dell’individuazione dell’esatta estensione del -OMISSIS- emesso a carico di ciascun tifoso, non osta alla configurazione dei provvedimenti impugnati con i motivi aggiunti quali provvedimenti di vera e propria convalida dei divieti gravati con il ricorso originario.
Correttamente, quindi, la Questura ha inteso esercitare il potere di convalida ex art. 21-nonies, comma 2, della l. n. 241/1990, entro un termine ragionevole, essendo la convalida intervenuta a poca distanza di tempo dall’emanazione dei provvedimenti da convalidare, e palesando la P.A. l’interesse pubblico ad essa sotteso: interesse pubblico individuato, infatti, dai provvedimenti di convalida, per tutti i tifosi appartenenti ai due gruppi ora in esame, nella loro perdurante pericolosità per l’ordine e la sicurezza pubblici. Si vedrà oltre se poi i provvedimenti di convalida abbiano effettivamente sanato il vizio che intendevano rimuovere.
Né alcun ostacolo all’esercizio del potere di convalida potrebbe farsi derivare dal dubbio che gli atti da convalidare, in quanto sospesi in parte qua in sede cautelare da questo Tribunale, non fossero nella disponibilità della P.A. per essere convalidati.
Un simile dubbio, infatti, non avrebbe ragion d’essere, tenuto conto dell’orientamento della costante giurisprudenza, secondo cui l’ammissibilità della convalida di un atto nelle more del giudizio è da ritenersi, ormai, fuori di dubbio in virtù delle disposizioni contenute nell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990, pure in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale, anche di appello, con la sola esclusione dell’ipotesi in cui sia intervenuta una sentenza passata in giudicato (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 24.04.2013, n. 2278 e 28.11.2008, n. 5910; id., Sez. IV, 29.05.2009, n. 3371; TAR Lazio, Latina, Sez. I, n. 1036/2014, cit.).
La configurazione dei provvedimenti impugnati con i motivi aggiunti in termini di provvedimenti di convalida dei divieti gravati con il ricorso originario non ha valore solo nominalistico: essa influisce negativamente –come già accennato– sull’interesse dei due gruppi ora in esame di tifosi colpiti da -OMISSIS- a coltivare il predetto ricorso originario, dovendo infatti ritenersi che quest’ultimo, per tali tifosi, sia divenuto improcedibile.
Invero, i divieti originariamente emanati ed impugnati con il ricorso originario sono stati confermati nelle loro statuizioni, con l’unica modifica della definizione di “altri luoghi a cui è esteso il divieto di accesso”, che è stata sostituita da una nuova definizione, più specifica e circoscritta rispetto alla precedente. Pertanto, l’interesse dei due gruppi di ricorrenti si è trasferito sugli atti di convalida, con la conseguenza che, per gli stessi, il ricorso originario va dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Toscana, Sez. I, 23.05.2017, n. 729): ciò, giacché l’impugnativa del provvedimento sopravvenuto, in quanto idoneo ad assorbire quello convalidato, rende improcedibile il ricorso introduttivo (TAR Campania, Salerno, Sez. II, 23.12.2015, n. 2684).
Si è detto, infatti, che l’esercizio del potere di convalida comporta l’emanazione di un provvedimento, nuovo ed autonomo rispetto a quello da convalidare, di carattere costitutivo, che si ricollega all’atto convalidato, al fine di mantenerne gli effetti fin dal momento in cui esso è stato emanato (cfr. TAR Toscana, Sez. I, n. 729/2017 cit.; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, n. 175/2016, cit.).
Il provvedimento di convalida va a sostituirsi a quello di primo grado ove ricorrano i presupposti –tutti presenti nel caso qui in esame– dell’individuazione dell’atto da convalidare, della specificazione del vizio da eliminare, del cd. animus convalidandi, cioè della volontà di rimuovere il vizio, nonché della produzione degli stessi effetti che l’atto oggetto di convalida intendeva produrre (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 23.08.2016, n. 3674; id., 22.12.2014, n. 6199; id., 15.07.2013, n. 3809; id., Sez. IV, 14.12.2004, n. 7941) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 22.02.2018 n. 217 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'esercizio del potere di convalida comporta l'emanazione di un provvedimento, nuovo ed autonomo rispetto a quella da convalidare, di carattere costitutivo, che si ricollega all'atto convalidato al fine di mantenerne gli effetti fin dal momento in cui esso è stato emanato.
---------------

2. Il Collegio osserva che l’aggiudicazione impugnata con il ricorso introduttivo è stata confermata, sulla base di un’inedita valutazione di congruità dell’offerta, con le determinazioni oggetto dei motivi aggiunti.
Pertanto, l’interesse del ricorrente si è trasferito su quest’ultime, con la conseguenza che il ricorso principale va dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse: l'impugnativa del provvedimento sopravvenuto, in quanto idoneo ad assorbire quello convalidato, rende improcedibile il ricorso principale (TAR Campania, Salerno, II, 23.12.2015, n. 2684; TAR Lombardia, Milano, III, 26.08.2016, n. 1611).
Invero, l'esercizio del potere di convalida comporta l'emanazione di un provvedimento, nuovo ed autonomo rispetto a quella da convalidare, di carattere costitutivo, che si ricollega all'atto convalidato, al fine di mantenerne gli effetti fin dal momento in cui esso è stato emanato (TAR Calabria, Catanzaro, II, 02.02.2016, n. 175) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 23.05.2017 n. 729 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’art. 21-nonies l. 07.08.1990 n. 241, prevede (co. 2) “la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di pubblico interesse ed entro un termine ragionevole”.
In precedenza, e con ambito più limitato, l’art. 6 l. n. 249/1968, prevedeva che “alla convalida degli atti viziati da incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”.
In via generale, la giurisprudenza di questo Consiglio ha avuto modo di osservare che, per effetto dell’art. 21-nonies sopra citato, appare evidente “l'intendimento del legislatore di consentire oggi, in via generale, il mantenimento in vita di provvedimenti affetti soltanto da vizi di carattere formale”, come quello di incompetenza, e che, in tal caso, non si necessita di particolare, dettagliata motivazione in ordine all’oggetto del provvedimento da convalidare e degli atti a questo antecedenti.
Pur sussistendo la necessità di motivare in ordine all’adozione del provvedimento di convalida, ciò, tuttavia, non comporta che l’organo adottante debba ripercorrere, con obbligo di dettagliata motivazione, tutti gli aspetti (e gli atti del procedimento) relativi al provvedimento convalidato, essendo sufficiente che emergano chiaramente dall’atto convalidante le ragioni di interesse pubblico e la volontà dell’organo di assumere tale atto.
La convalida, dunque, è il provvedimento con il quale la Pubblica Amministrazione, in esercizio del proprio potere di autotutela decisionale ed all’esito di un procedimento di II grado, interviene su un provvedimento amministrativo viziato, e come tale annullabile, emendandolo dai vizi che ne determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità. Essa presuppone, ai sensi dell’art. 21-nonies, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse e che non sia decorso un “termine ragionevole” dall’adozione dell’atto illegittimo.
La competenza, come in generale per tutti i provvedimenti adottati in esercizio del potere di autotutela, consegue alla titolarità del potere di adozione dell’atto oggetto dell’autotutela medesima, salvo che, medio tempore, una diversa amministrazione (o organo della medesima) sia stato reso attributario del citato potere di adozione.
In definitiva, l’amministrazione, in presenza di un atto illegittimo, ed in considerazione di ragioni di pubblico interesse (e della loro natura), può decidere sia di procedere all’annullamento dell’atto in via di autotutela, sia ad operare un “intervento ortopedico” sull’atto medesimo, sanando i vizi che, rendendolo illegittimo, ne determinerebbero astrattamente l’annullabilità.
---------------
L’esercizio del potere di convalida presuppone un atto non ancora annullato (quale che sia stata la sede in cui l’annullamento è intervenuto), mancando, in difetto di ciò, lo stesso “oggetto” dell’esercizio del potere di autotutela decisionale.
Più in particolare, nel caso in cui l’annullamento sia intervenuto in sede giurisdizionale, e la sentenza che lo dispone sia passata in giudicato, gli atti che procedono (come dichiaratamente nel caso di specie) alla “
convalida” di quelli già annullati dal giudice, sono nulli perché adottati in violazione del giudicato.
A ciò deve aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche per difetto totale di elementi essenziali, quali l’oggetto, non potendo sussistere alcun interesse pubblico alla convalida di un atto non più esistente.
---------------

4. Il ricorso volto ad ottenere l’ottemperanza della sentenza n. 4079/2015 del Consiglio di Stato ed il successivo ricorso per motivi aggiunti sono fondati e devono essere, pertanto, accolti, con conseguente declaratoria di nullità delle deliberazioni nn. 37 e 78 del 2016, adottate dalla Giunta comunale di Lumezzane.
Con tali delibere, come si è detto nella parte espositiva in fatto, la Giunta comunale (in virtù delle competenze in tema di approvazione dei piani attuativi ex novo attribuitele dalla l.reg. Lombardia n. 4/2012) ha, in particolare, dapprima proceduto alla convalida delle deliberazioni del Consiglio comunale, concernenti l’approvazione del Piano integrato di intervento (del. n. 37/2016) e successivamente alla approvazione in via definitiva di detta convalida, dopo le pubblicazioni di rito e la constatazione della assenza di osservazioni (del. n. 78/2016).
In quest’ultima delibera si afferma, in particolare, che “a garanzia della legittimità della procedura di convalida, il presente atto ha valore di approvazione del P.I.I. annullato, facendo espresso riferimento a tutti gli atti in origine contenuti e facenti parte del procedimento”.
5. Alla luce di quanto esposto, appare evidente la violazione del giudicato effettuata dal Comune di Lumezzane, per il tramite degli atti adottati dalla Giunta Comunale, e ciò per due distinte e concorrenti ragioni:
   - per un verso, il Comune di Lumezzane ha proceduto alla “convalida” di atti già annullati in sede giurisdizionale e, dunque, non più esistenti nell’ordinamento giuridico;
   - per altro verso -anche a voler attribuire agli atti adottati (pur in contrasto con quanto dagli stessi affermato), valore di approvazione “nuova ed autonoma” del P.I.I., e non già di convalida degli atti precedenti- il Comune di Lumezzane ha adottato atti di “riapprovazione” dello strumento urbanistico attuativo in contrasto con quanto affermato dalla sentenza passata in giudicato, e ciò in violazione dell’art. 21-septies l. n. 241/1990.
6. L’art. 21-nonies l. 07.08.1990 n. 241, prevede (co. 2) “la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di pubblico interesse ed entro un termine ragionevole”.
In precedenza, e con ambito più limitato, l’art. 6 l. n. 249/1968, prevedeva che “alla convalida degli atti viziati da incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”.
In via generale, la giurisprudenza di questo Consiglio ha avuto modo di osservare che, per effetto dell’art. 21-nonies sopra citato, appare evidente “l'intendimento del legislatore di consentire oggi, in via generale, il mantenimento in vita di provvedimenti affetti soltanto da vizi di carattere formale”, come quello di incompetenza, e che, in tal caso, non si necessita di particolare, dettagliata motivazione in ordine all’oggetto del provvedimento da convalidare e degli atti a questo antecedenti (Cons. St., sez. IV, 29.05.2009 n. 3371).
Pur sussistendo la necessità di motivare in ordine all’adozione del provvedimento di convalida, ciò, tuttavia, non comporta che l’organo adottante debba ripercorrere, con obbligo di dettagliata motivazione, tutti gli aspetti (e gli atti del procedimento) relativi al provvedimento convalidato, essendo sufficiente che emergano chiaramente dall’atto convalidante le ragioni di interesse pubblico e la volontà dell’organo di assumere tale atto (Cons. Stato, sez. IV, 12.08.2011 n. 2863).
La convalida, dunque, è il provvedimento con il quale la Pubblica Amministrazione, in esercizio del proprio potere di autotutela decisionale ed all’esito di un procedimento di II grado, interviene su un provvedimento amministrativo viziato, e come tale annullabile, emendandolo dai vizi che ne determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità. Essa presuppone, ai sensi dell’art. 21-nonies, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse e che non sia decorso un “termine ragionevole” dall’adozione dell’atto illegittimo.
La competenza, come in generale per tutti i provvedimenti adottati in esercizio del potere di autotutela, consegue alla titolarità del potere di adozione dell’atto oggetto dell’autotutela medesima, salvo che, medio tempore, una diversa amministrazione (o organo della medesima) sia stato reso attributario del citato potere di adozione.
In definitiva, l’amministrazione, in presenza di un atto illegittimo, ed in considerazione di ragioni di pubblico interesse (e della loro natura), può decidere sia di procedere all’annullamento dell’atto in via di autotutela, sia ad operare un “intervento ortopedico” sull’atto medesimo, sanando i vizi che, rendendolo illegittimo, ne determinerebbero astrattamente l’annullabilità.
Da quanto esposto, appare del tutto evidente che l’esercizio del potere di convalida presuppone un atto non ancora annullato (quale che sia stata la sede in cui l’annullamento è intervenuto), mancando, in difetto di ciò, lo stesso “oggetto” dell’esercizio del potere di autotutela decisionale.
Più in particolare, nel caso in cui l’annullamento sia intervenuto in sede giurisdizionale, e la sentenza che lo dispone sia passata in giudicato, gli atti che procedono (come dichiaratamente nel caso di specie) alla “convalida” di quelli già annullati dal giudice, sono nulli perché adottati in violazione del giudicato.
A ciò deve aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche per difetto totale di elementi essenziali, quali l’oggetto, non potendo sussistere alcun interesse pubblico alla convalida di un atto non più esistente (Cons. Stato, sez. IV, 02.04.2012 n. 1958) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.05.2017 n. 2351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'atto amministrativo di convalida (nel caso di specie dovrebbe trattarsi di ratifica, trattandosi della sanatoria del vizio di incompetenza relativa) non può tradursi in una semplice e formale appropriazione da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, ma, come ha più volte ribadito la giurisprudenza, postula:
   - l'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione, esternazione intesa a far percepire se, nell'emendare il vizio di incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di effettive esigenze a valenza pubblicistica;
   - la menzione dell'atto da convalidare;
   - l'indicazione del vizio che lo inficia;
   - una chiara manifestazione della volontà di eliminare il vizio (animus convalidandi);
   - la produzione degli stessi effetti che l'atto oggetto di convalida intendeva produrre.
Il Collegio osserva cioè che la ratifica, da inquadrare, com'è noto, nel più ampio fenomeno della convalescenza dell'atto amministrativo, ha come tipica caratterizzazione causale la rimozione, in funzione conservativa, del vizio di incompetenza relativa; l'organo competente fa proprio il provvedimento emanato da quello incompetente, con effetti che retroagiscono, esprimendo la volontà di sanatoria del vizio del quale riconosce l’esistenza.
Sotto il profilo della causa giustificativa dell’atto, dunque, l’effetto di sanatoria del vizio invalidante l’atto oggetto di convalida non può prescindere dal riconoscimento del vizio medesimo e dalla volontà di emendarlo.
---------------
L’atto di convalida impugnato appare affetto da evidente contraddittorietà laddove mira a ribadire la legittimità dell’atto impugnato e, al tempo stesso, a determinarne un effetto di sanatoria.
Tale contraddittorietà rende privo il provvedimento di contenuto dispositivo, non essendo possibile ravvisare la volontà dell'amministrazione di intervenire a sanatoria di un vizio (ritenuto, appunto, non sussistente): e, per consolidata giurisprudenza, il contenuto dispositivo dell'atto è un elemento essenziale.
Il ricorso alla locuzione "per quanto occorrer possa" conferma vieppiù l’assenza dell’”animus convalidandi” e priva l’atto della sua tipica caratterizzazione causale, rendendolo pleonastico e tuzioristico nella parte in cui sembra condizionare la volontà di convalida, o comunque gli effetti tipici della sanatoria, alla denegata ipotesi di accoglimento, da parte del giudice, della censura di incompetenza.
Se, per un verso, non è dubbio che la ratifica sia ammessa anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale, secondo la formulazione dell'articolo 6 della legge numero 249 del 1968, tuttora vigente e non incompatibile con l'art. 21-nonies, comma 2, l. n. 241 del 1990, secondo il quale è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole; per altro verso, gli effetti propri della stessa, anche se adottata in pendenza di ricorso, si producono solo ove ricorrano gli elementi distintivi dell’atto di convalida.
Per quanto attiene all'ulteriore presupposto di legittimità del potere di sanatoria (sussistenza dell'interesse pubblico che, secondo insegnamento costante in giurisprudenza condiziona la legittimità dell'esercizio del potere di convalida anche laddove si tratti di sanare il vizio di incompetenza), il Collegio rileva poi che il provvedimento impugnato si limita a dedurre "l'esigenza da parte dell'Amministrazione di preservare e vedere confermati gli atti e gli effetti del procedimento disciplinare avviato con contestazione del 07.11.2014 nei confronti del Cons. Ca.".
Difetta, pertanto, in modo assoluto la esternazione delle specifiche ragioni di interesse pubblico a fondamento della sanatoria.
Ne consegue l’inefficacia del decreto n. 1478 del 23.07.2015 e la sua inidoneità a sanare gli effetti invalidanti del vizio di incompetenza che inficia l’atto gravato in via principale.
---------------

In corso di causa, tuttavia, l'amministrazione ha adottato un provvedimento di convalida/conferma del precedente atto, che è stato tempestivamente impugnato con il ricorso per motivi aggiunti.
Si tratta, in particolare, del decreto del Direttore generale per le risorse umane n. 1478 del 23.07.2015 con cui l'amministrazione ha ritenuto "per quanto occorrer possa, di provvedere alla convalida del provvedimento sanzionatorio conclusivo del procedimento disciplinare di cui sopra, senza che ciò costituisca in alcun modo riconoscimento della denegata tesi interpretativa dell'art. 114 del TU. n. 3 del 1957 offerta dalla difesa del Cons. Leg. Ca. circa il vizio di incompetenza dell'On. Ministro”.
Ora, a parere del Collegio, l’atto menzionato non appare idoneo a produrre effetti di sanatoria in relazione al rilevato vizio di incompetenza che inficia l’atto impugnato col ricorso principale, essendo privo del contenuto dispositivo e della giustificazione causale propri degli atti di convalida. Ciò in quanto, da un lato, dispone di sanare il decreto ministeriale n. 1159 in quanto viziato da incompetenza, ma dall'altro lato ribadisce la piena legittimità del decreto ministeriale di irrogazione della sanzione disciplinare.
L'atto amministrativo di convalida (nel caso di specie dovrebbe trattarsi di ratifica, trattandosi della sanatoria del vizio di incompetenza relativa), infatti, non può tradursi in una semplice e formale appropriazione da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, ma, come ha più volte ribadito la giurisprudenza, postula l'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione, esternazione intesa a far percepire se, nell'emendare il vizio di incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di effettive esigenze a valenza pubblicistica; la menzione dell'atto da convalidare; l'indicazione del vizio che lo inficia; una chiara manifestazione della volontà di eliminare il vizio (animus convalidandi); la produzione degli stessi effetti che l'atto oggetto di convalida intendeva produrre (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 22.12.2014, n. 6199 e, da ultimo, Cons. Stato, V 23.08.2016 n. 3674).
Il Collegio osserva cioè che la ratifica, da inquadrare, com'è noto, nel più ampio fenomeno della convalescenza dell'atto amministrativo, ha come tipica caratterizzazione causale la rimozione, in funzione conservativa, del vizio di incompetenza relativa; l'organo competente fa proprio il provvedimento emanato da quello incompetente, con effetti che retroagiscono, esprimendo la volontà di sanatoria del vizio del quale riconosce l’esistenza.
Sotto il profilo della causa giustificativa dell’atto, dunque, l’effetto di sanatoria del vizio invalidante l’atto oggetto di convalida non può prescindere dal riconoscimento del vizio medesimo e dalla volontà di emendarlo.
In questa prospettiva, l’atto in data 23.07.2015 appare affetto da evidente contraddittorietà laddove mira a ribadire la legittimità dell’atto impugnato e, al tempo stesso, a determinarne un effetto di sanatoria.
Tale contraddittorietà rende privo il provvedimento di contenuto dispositivo, non essendo possibile ravvisare la volontà dell'amministrazione di intervenire a sanatoria di un vizio (ritenuto, appunto, non sussistente): e, per consolidata giurisprudenza, il contenuto dispositivo dell'atto è un elemento essenziale (cfr. ex pluribus Cons. St., 07.08.2015, n. 3881).
Il ricorso alla locuzione "per quanto occorrer possa" conferma vieppiù l’assenza dell’”animus convalidandi” e priva l’atto della sua tipica caratterizzazione causale, rendendolo pleonastico e tuzioristico nella parte in cui sembra condizionare la volontà di convalida, o comunque gli effetti tipici della sanatoria, alla denegata ipotesi di accoglimento, da parte del giudice, della censura di incompetenza.
Se, per un verso, non è dubbio che la ratifica sia ammessa anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale, secondo la formulazione dell'articolo 6 della legge numero 249 del 1968, tuttora vigente e non incompatibile con l'art. 21-nonies, comma 2, l. n. 241 del 1990, secondo il quale è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole; per altro verso, gli effetti propri della stessa, anche se adottata in pendenza di ricorso, si producono solo ove ricorrano gli elementi distintivi dell’atto di convalida.
Per quanto attiene all'ulteriore presupposto di legittimità del potere di sanatoria (sussistenza dell'interesse pubblico che, secondo insegnamento costante in giurisprudenza condiziona la legittimità dell'esercizio del potere di convalida anche laddove si tratti di sanare il vizio di incompetenza: cfr. Cons. St., n. 6199/2014 cit.; Cons. St., n. 3809/2015 cit.; Tar Sardegna, n. 599/2014 cit.), il Collegio rileva poi che il provvedimento impugnato si limita a dedurre "l'esigenza da parte dell'Amministrazione di preservare e vedere confermati gli atti e gli effetti del procedimento disciplinare avviato con contestazione del 07.11.2014 nei confronti del Cons. Ca.".
Difetta, pertanto, in modo assoluto la esternazione delle specifiche ragioni di interesse pubblico a fondamento della sanatoria.
Ne consegue l’inefficacia del decreto n. 1478 del 23.07.2015 e la sua inidoneità a sanare gli effetti invalidanti del vizio di incompetenza che inficia l’atto gravato in via principale.
In base a quanto esposto, e ritenuta la fondatezza di quanto dedotto con i motivi aggiunti (ed assorbiti gli ulteriori rilievi in punto di legittimità dell’atto di convalida), va, in accoglimento del primo motivo del ricorso principale, disposto l’annullamento del decreto n. 1159 del 25.05.2015, con assorbimento degli ulteriori motivi del ricorso principale (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, sentenza 29.11.2016 n. 11926 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICom’è noto, la P.A., nel perseguire l'interesse pubblico, può avvalersi del potere di autotutela in funzione conservativa del provvedimento.
Nell'ambito del potere di convalida, è stato enucleato il potere di ratifica, nell’esercizio del quale viene emesso un provvedimento di secondo grado, con cui l'Amministrazione elimina il vizio di incompetenza, siccome normativamente previsto dall'art. 6 della Legge 18.03.1968 n. 249 ("Alla convalida degli atti viziati di incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”), con riferimento agli atti viziati da incompetenza o, comunque, da vizi di forma, con effetti "ex tunc" e, quindi, con conseguente irrilevanza delle situazioni "medio tempore" intervenute.
L'art. 21-nonies, comma 2, della Legge 07.08.1990 n. 241, introdotto dalla Legge 11.02.2005 n. 15, nel prevedere la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, si riferisce, genericamente, ad ogni tipologia di provvedimento amministrativo annullabile, senza porre limitazioni in materia e, quindi, ammettendo anche la convalida di vizi sostanziali, per ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole.
La disposizione consente di convalidare un atto anche nelle more del giudizio, in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale, anche di appello, con la sola esclusione delle ipotesi in cui sia intervenuta una sentenza passata in giudicato.
Nessun vulnus ai principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 113 della Costituzione discende dalla convalida o della ratifica di un atto amministrativo, atteso che l'esercizio del potere di convalida comporta l’emanazione di un provvedimento, nuovo ed autonomo, in funzione costitutiva, rispetto all’atto da convalidare.
Invero, il provvedimento di ratifica o di convalida va a sostituirsi a quello di primo grado, soltanto ove ricorrano i presupposti, quali l'individuazione dell'atto da convalidare, la specificazione del vizio da eliminare nonché il cosiddetto "animus convalidandi", cioè la volontà di rimuovere il vizio.
---------------
Quanto alla titolarità del potere di convalida, non può escludersi che possa provvedere anche una autorità diversa da quella che ha adottato l'atto da convalidare, soprattutto in caso di necessità di risanamento del vizio di incompetenza relativo, oramai soggetto all’applicabilità della disciplina generale di cui all'art. 21-nonies, della l. n. 241 del 1990: in tal caso, non può più essere ritenuta sufficiente la semplice e formale appropriazione da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, occorrendo, comunque, l'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione –al fine di far percepire se, nell'emendare il vizio di incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di effettive esigenze a valenza pubblicistica- oltre che l’indicazione della fonte del potere di sostituzione nonché della presupposta illegittimità per incompetenza, in cui sarebbe incorso l'organo che ha adottato l'atto recepito in via sanante.
Invero, la P.A. che intende agire in funzione conservativa è tenuta a rispettare le garanzie che impone l'ordinamento, dando debitamente conto delle motivazioni che la hanno indotta a quella determinata scelta: conseguentemente, in tale situazione, la motivazione del provvedimento costituisce, in modo particolare e specifico, il baricentro e l'essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e, quindi, un presidio di legalità sostanziale, non sostituibile nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti “vizi non invalidanti”, non potendosi ammettere che, in siffatta situazione, il difetto di motivazione possa essere ritenuto assimilabile alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma.
L’esercizio del potere di convalida impone, oltre alla congrua e specifica esternazione delle ragioni di interesse pubblico, ai sensi dell'art. 3 della L. 07.08.1990 n. 241, che si tenga altresì conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, i quali, devono essere avvertiti del procedimento affinché, partecipandovi, possano rappresentare i propri interessi.
---------------

5. Possono essere esaminati congiuntamente i due profili di gravame, svolti dalla ricorrente con l’ultimo atto per motivi aggiunti notificato in data 18/23.09.2015 e depositato in data 06.10.2015, avverso l’epigrafato Decreto di rettifica e di convalida del Sindaco n. 3 prot. n. 3606 del 24.06.2015, poiché presuppongono la soluzione di identiche questioni, concernente la portata ed i limiti del potere di convalida, ai sensi dell'art. 21-nonies comma 2, l. 07.08.1990 n. 241, introdotto dalla l. 11.02.2005 n. 15, in relazione alla fattispecie dedotta in giudizio.
5.1. Com’è noto, la P.A., nel perseguire l'interesse pubblico, può avvalersi del potere di autotutela in funzione conservativa del provvedimento.
Nell'ambito del potere di convalida, è stato enucleato il potere di ratifica, nell’esercizio del quale viene emesso un provvedimento di secondo grado, con cui l'Amministrazione elimina il vizio di incompetenza, siccome normativamente previsto dall'art. 6 della Legge 18.03.1968 n. 249 ("Alla convalida degli atti viziati di incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”), con riferimento agli atti viziati da incompetenza o, comunque, da vizi di forma, con effetti "ex tunc" e, quindi, con conseguente irrilevanza delle situazioni "medio tempore" intervenute (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.1986, n. 630).
L'art. 21-nonies, comma 2, della Legge 07.08.1990 n. 241, introdotto dalla Legge 11.02.2005 n. 15, nel prevedere la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, si riferisce, genericamente, ad ogni tipologia di provvedimento amministrativo annullabile, senza porre limitazioni in materia e, quindi, ammettendo anche la convalida di vizi sostanziali, per ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole.
La disposizione consente di convalidare un atto anche nelle more del giudizio, in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale, anche di appello, con la sola esclusione delle ipotesi in cui sia intervenuta una sentenza passata in giudicato (conf.: Cons. Stato, Sez. V, 24.04.2013, n. 2278; Cons. Stato, Sez. IV, 14.10.2011 n. 2863; Cons. Stato, Sez. IV, 29.05.2009 n. 3371; Cons. Stato, Sez. IV, 31.05.2007 n. 2894; Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2005 n. 739).
Nessun vulnus ai principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 113 della Costituzione discende dalla convalida o della ratifica di un atto amministrativo, atteso che l'esercizio del potere di convalida comporta l’emanazione di un provvedimento, nuovo ed autonomo, in funzione costitutiva, rispetto all’atto da convalidare.
Invero, il provvedimento di ratifica o di convalida va a sostituirsi a quello di primo grado, soltanto ove ricorrano i presupposti, quali l'individuazione dell'atto da convalidare, la specificazione del vizio da eliminare nonché il cosiddetto "animus convalidandi", cioè la volontà di rimuovere il vizio (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV, 14.12.2004 n. 7941).
Quanto alla titolarità del potere di convalida, non può escludersi che possa provvedere anche una autorità diversa da quella che ha adottato l'atto da convalidare, soprattutto in caso di necessità di risanamento del vizio di incompetenza relativo, oramai soggetto all’applicabilità della disciplina generale di cui all'art. 21-nonies, della l. n. 241 del 1990: in tal caso, non può più essere ritenuta sufficiente la semplice e formale appropriazione da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, occorrendo, comunque, l'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione –al fine di far percepire se, nell'emendare il vizio di incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di effettive esigenze a valenza pubblicistica- oltre che l’indicazione della fonte del potere di sostituzione nonché della presupposta illegittimità per incompetenza, in cui sarebbe incorso l'organo che ha adottato l'atto recepito in via sanante (conf.: Cons. Stato, Sez. V 15.07.2013 n. 3809; Cons. Stato, Sez. V, 24.04.2013, n. 2278, Cons. Stato, Sez. IV, 14.10.2011 n. 2863; Cons. Stato, Sez. IV, 09.07.2010 n. 4460).
Invero, la P.A. che intende agire in funzione conservativa è tenuta a rispettare le garanzie che impone l'ordinamento, dando debitamente conto delle motivazioni che la hanno indotta a quella determinata scelta: conseguentemente, in tale situazione, la motivazione del provvedimento costituisce, in modo particolare e specifico, il baricentro e l'essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e, quindi, un presidio di legalità sostanziale, non sostituibile nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti “vizi non invalidanti”, non potendosi ammettere che, in siffatta situazione, il difetto di motivazione possa essere ritenuto assimilabile alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma (conf.: Cons. Stato, Sez. III, 30.04.2014 n. 2247).
L’esercizio del potere di convalida impone, oltre alla congrua e specifica esternazione delle ragioni di interesse pubblico, ai sensi dell'art. 3 della L. 07.08.1990 n. 241, che si tenga altresì conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, i quali, devono essere avvertiti del procedimento affinché, partecipandovi, possano rappresentare i propri interessi (TAR Catanzaro-Catanzaro, Sez. II, sentenza 02.02.2016 n. 175 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa giurisprudenza ha statuito che, proprio in tema di potere di convalida dell’atto amministrativo illegittimo, è ammesso l’esercizio da parte della p.a. anche in pendenza di impugnazione giurisdizionale avverso l’atto da convalidare, tanto potendo essere precluso soltanto dal sopravvenire di una sentenza passata in giudicato.
In questa sede non s’intende disconoscere tale orientamento, ma occorre precisare che del pari di ostacolo alla convalida è l’esistenza di una sentenza la quale, ancorché non passata in giudicato, abbia annullato l’atto amministrativo de quo e non sia stata sospesa, conservando quindi la propria esecutività.
---------------

10.2. In termini più generali e pertinenti, nell’appello incidentale del Comune di Transacqua è richiamato l’istituto della convalida del provvedimento annullabile, oggi disciplinato dal comma 2 dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, nr. 241, ma non ignoto anche alla giurisprudenza anteriore all’introduzione di tale norma nell’ordinamento, quale esplicazione del più generale potere di autotutela attribuito alla p.a.
In effetti, la tesi delle parti appellanti sopra richiamata, secondo cui i provvedimenti adottati nel 2013 avrebbero avuto la sola funzione di sanare con effetto ex tunc il vizio formale accertato dalla sentenza nr. 226 del 2012, evoca implicitamente proprio l’istituto della convalida: in tale schema, secondo la giurisprudenza, si colloca il nuovo provvedimento che, essendo sostanzialmente riproduttivo di uno precedente rispetto al quale si connota soltanto per l’eliminazione di uno o più vizi di legittimità (di solito, di natura formale o procedimentale), costituisce esercizio di autotutela ed ha efficacia retroattiva (in tal senso, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 31.05.2007, nr. 289).
Tuttavia, la Sezione è dell’avviso che a siffatta ricostruzione, nella specie, osti il fatto che, nel momento in cui sono sopravvenuti i nuovi atti cui si pretende di attribuire la divisata natura di convalida, i provvedimenti da convalidare erano stati già annullati con la più volte citata sentenza nr. 226 del 2012; tale circostanza precludeva in radice l’esercizio del potere di convalida, innanzi tutto per un rilievo di ordine logico, e cioè per la mancanza del presupposto imprescindibile di tale istituto, ossia l’esistenza di un provvedimento illegittimo da emendare (e, d’altra parte, sul piano testuale il citato art. 21-nonies, comma 2, contempla la convalida del provvedimento “annullabile”, e non di quello già annullato).
10.2.1. In senso contrario, l’Amministrazione comunale invoca l’indirizzo giurisprudenziale che, proprio in tema di potere di convalida dell’atto amministrativo illegittimo, ne ammette l’esercizio da parte della p.a. anche in pendenza di impugnazione giurisdizionale avverso l’atto da convalidare, tanto potendo essere precluso soltanto dal sopravvenire di una sentenza passata in giudicato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.12.2014, nr. 6384; id., 24.04.2013, nr. 2278).
In questa sede non s’intende disconoscere tale orientamento, ma occorre precisare che del pari di ostacolo alla convalida è l’esistenza –come nel caso che qui occupa– di una sentenza la quale, ancorché non passata in giudicato, abbia annullato l’atto amministrativo de quo e non sia stata sospesa, conservando quindi la propria esecutività.
In tale senso, depone oggi l’art. 114, comma 4, lett. c), cod. proc. amm., il quale, riconoscendo il potere del giudice dell’ottemperanza di considerare “inefficaci” gli atti emessi in violazione o elusione di sentenze non passate in giudicato, implica necessariamente che la violazione o elusione di queste ultime integra un vizio –sibbene meno intenso della nullità che connota la violazione o elusione del giudicato– destinato a incidere sulla legittimità degli atti che ne sono affetti; ne discende che tale vizio ben può essere conosciuto dal giudice della cognizione, in caso di impugnazione di tali atti con l’ordinaria azione di annullamento, sub specie di illegittimità, e specificamente sotto il profilo dello sviamento di potere: infatti, è evidente, anche alla stregua di elementari canoni di buona fede e lealtà processuale, che l’amministrazione la quale, dopo aver difeso in giudizio un provvedimento impugnato da terzi, solo a sèguito dell’intervento di una statuizione di annullamento si attivi per una pretesa convalida, con l’intento di conservare con efficacia ex tunc gli effetti del provvedimento annullato, altro non stia facendo che tentare di eludere gli obblighi conformativi derivanti dalla pronuncia di annullamento, al fine di “recuperare” surrettiziamente una legittimità originaria del provvedimento impugnato e annullato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.11.2015 n. 5136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICostituisce un principio pacifico e consolidato quello secondo cui “l’esercizio del potere di convalida mediante ratifica spettante all’organo competente, di cui all’art. 6 L. 18.03.1968 n. 249, sana con efficacia retroattiva l’atto viziato da incompetenza relativa, ancorché quest’ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente, ma solo fino a quando non ne sia intervenuto l’annullamento atteso che la relativa sentenza ne determina l’eliminazione dal mondo giuridico, facendo in tal modo venire meno il presupposto e l’oggetto della convalida”.
---------------

Il primo motivo risulta superato in via di fatto dalla circostanza che l’Amministrazione comunale, valutata l’opportunità di dare esecuzione all’ordine di cessazione impartito alla ricorrente, ha provveduto a convalidare il proprio precedente atto emesso dal Dirigente del Servizio Gestione e Sviluppo Ambiente; il Sindaco di Prato, infatti, con atto del 15.07.2013, notificato il 17.07.2013 ha ratificato e fatto propria la determinazione dirigenziale n. 926 del 19.03.2013, ai sensi e per gli effetti dell’art. 6 della legge n. 249/1968.
Del resto costituisce un principio pacifico e consolidato quello secondo cui “l’esercizio del potere di convalida mediante ratifica spettante all’organo competente, di cui all’art. 6 L. 18.03.1968 n. 249, sana con efficacia retroattiva l’atto viziato da incompetenza relativa, ancorché quest’ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale pendente, ma solo fino a quando non ne sia intervenuto l’annullamento atteso che la relativa sentenza ne determina l’eliminazione dal mondo giuridico, facendo in tal modo venire meno il presupposto e l’oggetto della convalida” (Consiglio di Stato 31.05.2007 n. 2894).
Stante ciò, è evidente come, nel caso di specie, l’atto di convalida de quo abbia sanato dal vizio di incompetenza il provvedimento oggetto di impugnazione, con efficacia retroattiva (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 18.09.2015 n. 1242 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIA differenza di quanto si verifica ad altri provvedimenti di secondo grado, l’art. 21-nonies, comma 2, della legge 07.08.1990, n. 241 tace su quale sia il soggetto titolare del potere di convalida che spetta, di norma, all’organo che ha adottato il provvedimento da convalidare, eccetto nel caso in cui il vizio da emendare sia un vizio di incompetenza, nel qual caso dovrà invece necessariamente intervenire l’organo effettivamente competente.
---------------

9.- Il ricorso è invece infondato in relazione all’unico vizio proprio dedotto avverso l’atto di convalida ovvero che tale atto avrebbe dovuto essere adottato da parte della stessa autorità che aveva adottato il provvedimento da emendare.
Al riguardo, osserva il Collegio, che, a differenza di quanto si verifica ad altri provvedimenti di secondo grado, l’art. 21-nonies, comma 2, della legge 07.08.1990, n. 241 tace su quale sia il soggetto titolare del potere di convalida che spetta, di norma, all’organo che ha adottato il provvedimento da convalidare, eccetto nel caso in cui il vizio da emendare sia un vizio di incompetenza, nel qual caso dovrà invece necessariamente intervenire l’organo effettivamente competente.
Ed è questo ciò che è avvenuto nel caso di specie, posto che il dirigente del settore amministrativo competente ha emendato il provvedimento di affidamento del servizio illegittimamente adottato dalla Giunta comunale (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 12.03.2015 n. 152 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl potere di convalida non è limitato a vizi di carattere formale o al solo vizio di incompetenza né l’esercizio del potere di riesame è precluso dalla esistenza di un contenzioso (anche qualora l’interessato nell’ambito del medesimo abbia ottenuto una pronuncia cautelare favorevole).
---------------

Il ricorrente con un unico articolato motivo lamenta che il comune avrebbe illegittimamente fatto ricorso al potere di convalida al fine di porre nel nulla gli effetti della misura cautelare che egli aveva ottenuto. In sostanza la tesi del ricorrente è che il potere di convalida:
   a) sarebbe esercitabile solo per emendare il vizio di incompetenza ovvero vizi di natura esclusivamente formale;
   b) non potrebbe avere a oggetto atti sospesi in via cautelare dal giudice amministrativo in quanto l’amministrazione non avrebbe “la disponibilità” dei loro effetti.
A ciò si aggiunge che i provvedimenti di convalida impugnati sarebbero insufficientemente motivati in punto di interesse pubblico alla conservazione degli atti e comunque inficiati da una motivazione perplessa e contraddittoria (dato che esse si limitano a richiamare i deliberati cautelari del TAR e del Consiglio di Stato ma non riconoscono il vizio di legittimità delle delibere convalidate).
Si tratta di censure analoghe a quelle già esaminate dalla sezione in occasione del precedente ricorso del ricorrente (in cui pure si poneva un problema di convalida di delibere del consiglio impugnate a mezzo dei motivi aggiunti) e che la sezione ha ritenuto infondate con la citata sentenza n. 1036 del 04.12.2014.
Infatti il potere di convalida non è limitato a vizi di carattere formale o al solo vizio di incompetenza né l’esercizio del potere di riesame è precluso dalla esistenza di un contenzioso (anche qualora l’interessato nell’ambito del medesimo abbia ottenuto una pronuncia cautelare favorevole) (cfr. TAR Lazio, Latina, 11/04/2013, n. 312, Consiglio di Stato sez. V, 24/04/2013, n. 2278) (TAR Lazio-Latina, sentenza 16.02.2015 n. 166 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sull'istituto dell’autotutela in funzione conservativa degli atti amministrativi
E’ noto che, nel perseguire l’interesse pubblico, l’Amministrazione può avvalersi del potere di autotutela in funzione conservativa del provvedimento. L’art. 21-nonies l. n. 241/1990 specifica solo la possibilità di convalida del provvedimento annullabile per ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.
Intanto va chiarito che il richiamo al solo istituto della convalida non sta a significare che le altre ipotesi di conservazione o di sanatoria degli atti invalidi non siano più consentite.
Il potere dell’Amministrazione all’esito del procedimento di riesame, di eliminare il vizio riscontrato, è espressione del potere di autotutela la cui giustificazione viene individuata nel principio di conservazione dei valori giuridici.

---------------
Tradizionalmente, nell’ambito del potere di convalida un orientamento dottrinale distingue la ratifica definendola come quel provvedimento di secondo grado con cui l’Amministrazione elimina il vizio di incompetenza.
Per la ratifica vi è una espressa disposizione normativa, l’art. 6 della L. 249 del 1968 che recita: “Alla convalida degli atti viziati di incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”.
Nella più puntuale configurazione dell'istituto della ratifica, riflesso della ascrivibilità dell'istituto nell'ambito dei provvedimenti di convalida ora disciplinati dall'art. 21-nonies, della l. n. 241 del 1990, il risanamento del vizio di incompetenza relativo non è più affidato ad una semplice e formale appropriazione da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, ma postula l'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione; esternazione intesa a far percepire se, nell'emendare il vizio di incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di effettive esigenze a valenza pubblicistica.
Il provvedimento di ratifica o convalida dell'atto viziato va quindi a sostituirsi a quest'ultimo solo ove ricorrano i presupposti previsti dell'individuazione dell'atto da convalidare, della specificazione del vizio da eliminare e del c.d. "animus convalidandi", cioè la volontà di rimuovere il vizio.
Il potere di convalida ex art. 6 della legge n. 249 del 1968 ha effetto "ex tunc", con conseguente irrilevanza delle situazioni "medio tempore" intervenute.
Occorre poi fugare ogni dubbio circa la titolarità del potere di convalida. Difatti, alla convalida del provvedimento amministrativo può provvedere anche una autorità diversa da quella che ha adottato l'atto da convalidare.
Tutto ciò rilevato, non può non essere ricordato che la giurisprudenza è del tutto pacifica nell’affermare che ai sensi dell'art. 21-nonies comma 2, l. 07.08.1990 n. 241, introdotto dalla l. 11.02.2005 n. 15 —che fa salva la possibilità del ricorso all'istituto della convalida (in cui è compresa anche la ratifica) del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole— l'Amministrazione ha il potere di convalidare o ratificare un provvedimento viziato; tuttavia l'atto di convalida deve contenere una motivazione espressa e persuasiva in merito alla sua natura e in punto di interesse pubblico alla convalida, essendo insufficiente la semplice e formale appropriazione da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, in assenza dell'esternazione delle ragioni di interesse pubblico giustificatrici del potere di sostituzione e della presupposta indicazione, espressa, dell'illegittimità per incompetenza in cui sarebbe incorso l'organo che ha adottato l'atto recepito in via sanante.
---------------
Se la determinazione di convalida tace completamente sull’interesse pubblico che avrebbe dovuto condurre all’adozione della stessa, sussiste l'illegittimità della medesima ove la puntuale e precisa motivazione dell’atto è necessaria non per esigenze di tipo puramente formalistico ma perché l'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione è intesa a far percepire se, nell'emendare il vizio di incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di effettive esigenze a valenza pubblicistica.
---------------
Se l’Amministrazione vuole (e può farlo) agire in funzione conservativa deve rispettare le garanzie che, non a caso, l’ordinamento impone.
Occorre ricordare che nell’agire in funzione conservativa l’Amministrazione sana vizi di un provvedimento amministrativo. Per farlo deve dare conto in modo stringente delle motivazioni che la hanno indotta a percorrere quella strada.
Non si può non ricordare all’Amministrazione che il difetto di motivazione non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma, costituendo la motivazione del provvedimento, ai sensi dell'art. 3, l. 07.08.1990 n. 241, il presupposto, il fondamento, il baricentro e l'essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies comma 2, cit. l. n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai c.d. vizi non invalidanti.

---------------

12. In ordine al ricorso per motivi aggiunti, che deve essere a questo punto esaminato nel merito, ne va rilevata la fondatezza nei limiti che di seguito si va ad esporre.
12.1. Vanno preliminarmente effettuate alcune necessarie considerazioni in ordine all’istituto dell’autotutela in funzione conservativa.
E’ noto che, nel perseguire l’interesse pubblico, l’Amministrazione può avvalersi del potere di autotutela in funzione conservativa del provvedimento. L’art. 21-nonies specifica solo la possibilità di convalida del provvedimento annullabile per ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. Intanto va chiarito che il richiamo al solo istituto della convalida non sta a significare che le altre ipotesi di conservazione o di sanatoria degli atti invalidi non siano più consentite.
Il potere dell’Amministrazione all’esito del procedimento di riesame, di eliminare il vizio riscontrato, è espressione del potere di autotutela la cui giustificazione viene individuata nel principio di conservazione dei valori giuridici.
Di fronte a un atto illegittimo, e tale è, come già rilevato, l’atto ufficiale n. 1 dell’11.11.2009, l’Amministrazione regionale si è posta sulla strada della conservazione.
Occorre vedere se ciò è stato fatto legittimamente.
Intanto, va detto che il vizio su cui la convalida della regione ha inciso con effetti conservativi è quello di incompetenza.
Tradizionalmente, nell’ambito del potere di convalida un orientamento dottrinale distingue la ratifica definendola come quel provvedimento di secondo grado con cui l’Amministrazione elimina il vizio di incompetenza.
Per la ratifica vi è una espressa disposizione normativa, l’art. 6 della L. 249 del 1968 che recita: “Alla convalida degli atti viziati di incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”.
Nella più puntuale configurazione dell'istituto della ratifica, riflesso della ascrivibilità dell'istituto nell'ambito dei provvedimenti di convalida ora disciplinati dall'art. 21-nonies, della l. n. 241 del 1990, il risanamento del vizio di incompetenza relativo non è più affidato ad una semplice e formale appropriazione da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, ma postula l'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione; esternazione intesa a far percepire se, nell'emendare il vizio di incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di effettive esigenze a valenza pubblicistica (Consiglio di Stato, sez. V, 15.07.2013 n. 3809).
Il provvedimento di ratifica o convalida dell'atto viziato va quindi a sostituirsi a quest'ultimo solo ove ricorrano i presupposti previsti dell'individuazione dell'atto da convalidare, della specificazione del vizio da eliminare e del c.d. "animus convalidandi", cioè la volontà di rimuovere il vizio (Consiglio Stato, sez. IV, 14.12.2004, n. 7941).
Il potere di convalida ex art. 6 della legge n. 249 del 1968 ha effetto "ex tunc", con conseguente irrilevanza delle situazioni "medio tempore" intervenute (Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.1986, n. 630).
Occorre poi fugare ogni dubbio circa la titolarità del potere di convalida. Difatti, alla convalida del provvedimento amministrativo può provvedere anche una autorità diversa da quella che ha adottato l'atto da convalidare (Cons. di Stato, Sez. IV, 09.07.2010 n. 4460).
Tutto ciò rilevato, non può non essere ricordato che la giurisprudenza è del tutto pacifica nell’affermare che ai sensi dell'art. 21-nonies comma 2, l. 07.08.1990 n. 241, introdotto dalla l. 11.02.2005 n. 15 —che fa salva la possibilità del ricorso all'istituto della convalida (in cui è compresa anche la ratifica) del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole— l'Amministrazione ha il potere di convalidare o ratificare un provvedimento viziato; tuttavia l'atto di convalida deve contenere una motivazione espressa e persuasiva in merito alla sua natura e in punto di interesse pubblico alla convalida, essendo insufficiente la semplice e formale appropriazione da parte dell'organo competente all'adozione del provvedimento, in assenza dell'esternazione delle ragioni di interesse pubblico giustificatrici del potere di sostituzione e della presupposta indicazione, espressa, dell'illegittimità per incompetenza in cui sarebbe incorso l'organo che ha adottato l'atto recepito in via sanante (Consiglio di Stato, sez. V, 27.03.2013, n. 1775).
E qui una prima considerazione preme.
Né il decreto n. 1163DecA75 del 27.07.2012 né la successiva determinazione n. 21493 del 09.11.2012 recano sul punto una benché minima motivazione.
Se la determinazione di convalida tace completamente sull’interesse pubblico che avrebbe dovuto condurre all’adozione della stessa, non è da meno il decreto presupposto che si limita ad affermare: “ritenuto che sussistano le ragioni di interesse pubblico per autorizzare la convalida dei provvedimenti autorizzativi di cui sopra e che pertanto è opportuno riproporre la procedura già a suo tempo individuata dall’art. 3.1 del decreto n. 1820/DecA/73 del 20.07.2010” (si trattava di precedenti convalide di impianti illegittimamente autorizzati dai SUAP comunali).
Peraltro, lo stesso decreto dell’assessore, da un lato non motiva sull’interesse pubblico che giustificherebbe l’adozione del provvedimento, dall’altro, esplicitamente si riferisce ad un interesse preciso (non pubblico) dei soggetti che avrebbero dovuto beneficiare dei provvedimenti di convalida laddove si legge: “considerato che molti di questi impianti hanno necessità di una convalida formale per poter accedere al conto energia”.
La puntuale e precisa motivazione dell’atto è necessaria non per esigenze di tipo puramente formalistico ma perché l'esternazione delle "ragioni di interesse pubblico" giustificatrici del potere di sostituzione è intesa a far percepire se, nell'emendare il vizio di incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di effettive esigenze a valenza pubblicistica.
Di tutto questo, come già osservato, non vi è traccia nei provvedimenti di convalida.
Ciò determina che il sesto motivo di ricorso è manifestamente fondato. Il vizio è flagrante e non necessita indugiare oltre sul punto.
Non possono essere condivise le pur corrette argomentazioni svolte dalla difesa della Regione nella memoria depositata il 31.10.2013 (punto 2.7).
In astratto è condivisibile l’affermazione secondo cui “tutta la normativa nazionale e comunitaria attribuisce importanza primaria agli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e lo stesso d.lgs. 387/2003 dispone che tali opere sono di pubblica utilità, indifferibili ed urgenti”.
Peraltro questo Tar e proprio questa Sezione non ha mancato ripetutamente di ribadire il principio (si vedano tra le altre le sentenze nn. 27, 28, 29 del 14.01.2011).
Ma ciò non significa che si possa prescindere da pacifici principi giuridici in materia di autotutela.
Se l’Amministrazione vuole (e può farlo) agire in funzione conservativa deve rispettare le garanzie che, non a caso, l’ordinamento impone. Occorre ricordare che nell’agire in funzione conservativa l’Amministrazione sana vizi di un provvedimento amministrativo. Per farlo deve dare conto in modo stringente delle motivazioni che la hanno indotta a percorrere quella strada. Tanto più in una situazione come quella qui esaminata in cui era pendente un contenzioso.
Non si può non ricordare all’Amministrazione (regionale), in un caso come questo, che il difetto di motivazione non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma, costituendo la motivazione del provvedimento, ai sensi dell'art. 3, l. 07.08.1990 n. 241, il presupposto, il fondamento, il baricentro e l'essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, cit. l. n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai c.d. vizi non invalidanti; di qui l'inammissibilità della motivazione postuma addotta dall'Amministrazione in sede giudiziale (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 30.04.2014, n. 2247).
Il ricorso, su questo motivo è fondato (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 11.07.2014 n. 599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).